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Trimestrale internazionale di attualità , storia e cultura esoterica — Anno XXVI - Marzo 2014 - n.1


Trimestrale internazionale di attualità, storia e cultura esoterica Anno XXVI - numero 1 - Marzo 2014 Direttore Editoriale

ANTONIO BINNI Direttore Responsabile LUIGI PRUNETI Segreteria di Redazione ROBERTO PINOTTI SIMONE TADDEI Consulente Legale IVAN IURLO Comitato Scientifico VINCENZO CIANCIO ALDO ALESSANDRO MOLA PAOLO ALDO ROSSI IDA LI VIGNI PAOLO MAGGI RENATO ARIANO hanno collaborato a questo numero LUCA BAGATIN GLAUCO BERRETTONI ANTONIO BINNI FABRIZIO CAINI FABIO DI RADO ANTONIO TIBERIO DOBRYNIA VITTORIO GALLO MARCO GHIONE IVAN IURLO IDA LI VIGNI PAOLO MAGGI VALERIO MEATTINI ALDO ALESSANDRO MOLA ROBERTO PINOTTI FERNANDO PITERæ LUIGI PRUNETI PAOLO ALDO ROSSI ANNALISA SANTINI RICCARDO STIV¤ ANTONINO ZARCONE progetto e realizzazione PAOLO DEL FREO


A.Binni - Fratelli e Sorelle uditemi! — 2 L.Pruneti - Nel segno del sette — 4 L.Pruneti - Antonio Binni S\G\C\G\M\ — 6 L.Pruneti - Paolo Musto L\S\G\C\G\M\A\V\ — 10 L.Pruneti - Gran Maestri Aggiunti, Gran Sorveglianti e Grandi Ufficiali — 12 A.Binni - Briciole di pensiero — 16 A.A.Mola - Le Massonerie d’Europa nell’Ottocento — 28 A.A.Mola - Umberto I e la Massoneria — 36 A.Santini - Il terremoto di Messina e Reggio Calabria — 40 A.Zarcone - Generale Roberto Bencivenga — 56 I.Iurlo - La Corte Europea dei diritti dell’Uomo e le libertà di associazione — 60 F.Piterà - Riflessioni sul simbolo — 66 F.Di Rado, P.Caini - La Sacra Tetractys tra filosofia e scienza — 72 G.Berrettoni - La Pietra e la Parola — 80

Sommario

P.Maggi - Medicina e ritualità — 86 V.Gallo - Scienza e religioni — 90

I.Li Vigni - Girolamo Cardano e la teoria dei sogni — 96 M.Ghione - Kapalika, gli asceti del teschio — 110 P.A.Rossi - Scuote l’anima mia Eros — 116 R.Stivè - Un ragazzo e la sua tigre — 128 L.Pruneti - Donare oltre la vita, l’ultimo atto di Patrizia... — 134 In Biblioteca — 136 Fregi di Loggia — 144


Fratelli e Sorelle uditemi! Antonio Binni

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Elezioni

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ratelli e Sorelle uditemi! Queste parole costituiscono il primo rigo del giuramento che – sull’ara sacra – presta il Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro prima di insediarsi nell’alta carica, alla quale è stato chiamato dalla stima e dalla benevolenza. Con identica espressione rivolgo il mio primo indirizzo di saluto a tutti i componenti la Comunione, con la convinzione, antica e profonda, che la formula prescelta ha un significato, luminoso e profondo, che travalica le parole che la compongono: una sua densità e continuità inidonee ad esprimere un’emozione «che ‘ntender no la puó chi no la prova» (Dante, Tanto gentile e tanto onesta pare in: Vita nuova, cap. XXVI). Come ben si sa, infatti, le parole enunciano sempre qualcosa in meno rispetto alla

totalità dell’esperibile, pur restando profondo il legame che lega l’essere umano alla sua fragilità. In Massoneria non si vincono le elezioni. Si è eletti. Da qui la certezza di avere la collaborazione di tutti, comunque chiesta e sollecitata, con un appello, forte e, nel tempo, duraturo, alla coscienza vera e retta di ciascuno. Vera, perché fondata sulla Verità. Retta, perché determinata a seguirne i dettami, senza contraddizioni, senza tradimenti, senza compromessi. Quanto a me, che ho assunto il mandato con trepidazione, perché non mi è mai sfuggita la grave responsabilità, che ne costituisce l’ombra, con animo grato per l’alto onore concessomi, continueró, in esile silenzio, ad apprendere da tutti, perché l’apprendimento è la fonte della gio-

vinezza, restando, sempre, un fratello fra fratelli. Cosí come è sempre stato, indipendentemente dalla funzione temporanea assegnatami. Sorelle e Fratelli! Impariamo a camminare, con naturalezza, per le strade dell’Eterno, restando figli coerenti di quella Tradizione che non è l’antico, il vecchio, il passato, ma autentica innovazione, talora cosí radicale, da essere profonda rivoluzione. Su questa via perseveriamo con gioia, rimanendo instancabili pellegrini, capaci di destare l’aurora di un mondo nuovo, più giusto, tutto da costruire, dove l’Uomo sia, e rimanga sempre, sacro per l’Uomo. P.2: Il S.G.C.G.M. Antonio Binni; p.3: La volta stellata del Tempio Nazionale, Roma - (foto P.Del Freo).

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A

l solstizio d’inverno il ceppo alimenta il fuoco e il verde dell’abete incurante del gelo, sorride al sole bambino che promette nuova primavera. Il 14 dicembre, sette giorni prima che il sole entrando in Capricorno celebrasse il giorno della rinascita, la Gran Loggia d’Italia ha acceso le sue sette luci. Sette sono i cieli degli Antichi e i colli fatali di Roma, sette le virtù e le braccia della Menorah, sette i doni dello spirito e i libri dell’Eptateuco, sette le opere di misericordia e i chakra, sette i metalli simbolici e le meraviglie del mondo, sette le note e le chiavi musicali che generano l’armonia e sette sono i Fratelli e le Sorelle che la Comunione ha scelto affinché illuminino la via. Il sette esprime globalità, universalità, equilibrio e completezza, nasce dall’unione del ternario divino col quaternario terrestre e unendo il quadrato al triangolo raffigura la piramide iniziatica della Gran Loggia d’Italia che si riconosce e identifica nel Rito Scozzese Antico ed Accettato. Il Venerabilissimo e Potentissimo Fr. Anto-

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nio Binni 33\ Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro è il nuovo vertice della pyramìs: egli è certezza di splendore per la Gran Loggia d’Italia; gli saranno d’aiuto e conforto il Ven. mo e Pot.mo Fr. Paolo Musto 33\ Luogotenente Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro Aggiunto Vicario e i Ven.mi e Pot.mi Gran Maestri Aggiunti Fr. Vincenzo Romano, Renato Ariano, Maurizio Galafate Orlandi e le Elett.me e Pot.me Sorelle Franca Barbetti e Annalisa Santini rispettivamente Primo e Secondo Gran Sorvegliante. Il Sovrano Gran Commendatore si potrà inoltre avvalere dell’opera dei Grandi Ufficiali: Fratelli Luigi Pruneti, Vittore Morigi, Piergiovanni Celetto, Giuseppe Chiappino che vanno a ricoprire gli uffici di Grande Oratore, Gran Segretario, Gran Tesoriere e Gran Cancelliere. Ogni augurio ai prescelti sarebbe pletorico, perché conoscendo il loro valore, la loro dedizione, la loro preparazione, siamo certi che seguendoli con fiducia e fraterno affetto il nostro viaggio sarà d’ora in avanti “un canto che sale da labbra sorridenti”.


Nel segno del sette Luigi Pruneti

Non posso fornirti soluzioni Per tutti i problemi della vita Non ho risposte per i tuoi dubbi e timori Però, ascoltandoti, posso dividerli con te. Non posso cambiare né il tuo passato, né il tuo futuro Però ti starò sempre vicino. Non posso evitare che tu cada, ma sempre ti offrirò La mia mano per rialzarti. La tua allegria, il tuo successo e il tuo trionfo Non mi appartengono, Tuttavia gioirò quando ti vedrò felice Non posso progettare il tuo percorso. Ma posso donarti lo spazio per crescere Oggi pensavo a un Fratello … e sei apparso tu. Da ‘Amicizia’ di Jorges Luis Borges, rielaborazione di Luigi Pruneti

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Antonio Binni Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro Luigi Pruneti

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l 23 maggio del 1099 il popolo e il Vescovo di Modena vollero erigere una nuova cattedrale che simboleggiasse la ricchezza della città e fosse motivo d’orgoglio per i cittadini e di stupore per gli stranieri. Il tempio fu dedicato a Geminiano, il santo che secondo una leggenda salvò la città, celandola con un’impenetrabile quanto miracolosa nebbia alle orde di Attila, flagellum Dei. Per costruire la grande chiesa furono chiamati i migliori artisti dell’epoca, vennero quindi dalla diocesi di Como Wiligelmo, celebre scultore, e Lanfranco “ingenio clarus […] doctus et aptus […] operis princeps huius rectorque magister”. Insieme a loro giunsero compagnie di scalpellini, muratori, tagliapietre che eressero logge intorno al cantiere che di lì a qualche anno avrebbe partorito un insuperabile capolavoro del romanico lombardo. Per uno di quegli strani giochi del destino all’ombra della cattedrale, opera degli antichi liberi muratori, nacque in un freddo giorno di gennaio chi, dopo mille anni, doveva essere l’erede simbolico di Lanfranco e Wiligelmo, il nostro Gran Maestro Fratello Antonio Binni. L’Emilia, terra opima che il Po realizzò scorrendo dalle Alpi verso l’Adriaco, ne

‘‘Fac sapias, et liber eris’’ Proverbio in uso fra professori e docenti nel xiii-xiv secolo

forgiò il carattere e ne affinò la sensibilità con i paesaggi invernali di bruma e di pioppi, col verde dei campi in primavera, pronto a diventar oro quando d’estate il sole spacca la pietra e le piazze coronate di portici si fanno silenti nei meriggi ansiosi che stagnano lungo la via consolare di Marco Emilio Lipido. Forse, però, fu Bologna, la culla del diritto, il luogo che più di ogni altro segnò la sua vita. Nello Studium dove i glossatori Pepone, Irnerio e Graziano tramandarono il diritto romano, Antonio si formò, si laureò con il massimo di voti, insegnò e iniziò la professione di avvocato. Bologna fu con lui generosa, assicu-

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randogli continui successi. Titolare di uno degli studi legali più prestigiosi, specializzato in diritto d’impresa, fu consulente d’importanti società straniere, presidente di consigli di amministrazione, docente, autore di saggi, articoli, voci su prestigiose enciclopedie. Più volte ricoprì cariche apicali in club service, fu apprezzato conferenziere, figura di riferimento per il mondo economico, politico, accademico. Quando era già un affermato professionista, la Gran Loggia d’Italia bussò alla sua porta e il 15 giugno 1976 fu crismato Fratello Libero Muratore nella Rispettabile Loggia “Ugo Bassi”. Allora la Comunione era retta dell’indimenticabile e indimenticato Gran Maestro Giovanni Ghinazzi che apprezzò subito il nuovo confratello, vedendo in lui una risorsa per l’Obbedienza. Antonio ricambiò la fiducia concessagli, dedicandosi anima e corpo per l’Istituzione. Ricoprì ogni sorta d’incarico, non per

ambizione ma per doveroso servizio. Fondò, nel 1979, la R.L. “Vitriol” di cui fu in seguito Maestro Venerabile, inoltre fu vice Ispettore e Ispettore provinciale, vice Delegato e Delegato magistrale in Emilia e Romagna e in Lombardia, Presidente di Camere Superiori e responsabile per il Rito Scozzese Antico ed Accettato della sua Regione. Ancor più importanti furono i suoi incarichi nel Governo centrale. Il 4 dicembre del 1989 fu eletto Grande Oratore della Gran Loggia e tutti i fratelli della Comunione ebbero modo di apprezzare la sua abilità oratoria, scaturita non solo dalla preparazione professionale e dall’abitudine alla docenza ma soprattutto dalla profonda cultura alimentata da continui studi in ambito filosofico, letterario, iniziatico. Dopo questa esperienza, il 12 dicembre 1992 fu eletto 1° Gran Sorvegliante e in seguito Gran Cancelliere. Durante il suo percorso massonico fu 7


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di fondamentale importanza l’incontro con il Ven.mo e Pot.mo Fratello Franco Franchi, chiamato il 16 dicembre 1996 alla guida dell’Istituzione. L’insigne professore pisano, endocrinologo di fama, apprezzava in modo particolare la lealtà e la preparazione massonica e profana del più giovane fratello e questi era avvinto dalla schiettezza, dalla saggezza e dall’umanità del Gran Maestro. Ne nacque un sodalizio formidabile. Antonio Binni divenne il più stretto collaboratore di Franco Franchi e lo affiancò prima come Gran Maestro Aggiunto e, a partire dal 5 dicembre 1998, come Luogotenente Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro Aggiunto Vicario. Il resto è storia recente; sempre pronto a contribuire al bene della Comunione, sempre disponibile a difenderla dai ricorrenti attacchi figli del pregiudizio e dell’ignoranza, Antonio Binni il 14 dicembre del 2013 è stato eletto Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro al termine di un periodo elettorale che ha visto candidarsi alla suprema carica numerosi Fratelli. Come si muoverà il Gran Maestro An8

tonio Binni nel corso di questo triennio? Quali orizzonti si raffigura per l’Obbedienza? Le risposte sono esplicitate nel Programma elettorale, firmato congiuntamente al Ven.mo e Pot.mo Fratello Paolo Musto, ora suo Luogotenente e Vicario. Dalla lettura del prefato documento si evincono le linee di azione della Gran Maestranza riposte nel solco di una continuità “intesa come un valore irrinunciabile, che, mentre ci impone di non dilapidare quanto di positivo è già stato fatto, in termini particolarmente apprezzabili […], ci obbliga, ad un tempo, a caricarci sulle spalle il passato, per scorgere, con maggiore acutezza e profondità, l’ignoto futuro che ci attende”. In sintesi Antonio Binni e Paolo Musto disegnano per la Comunione la seguente carta nautica: Difesa della tradizione iniziatica, intesa “non come nostalgia del passato, né culto del tempo perduto, né conformismo ripetitivo, né una pura e semplice eredità, nella quale specchiarsi in termini autoreferenziali”, ma enucleata quale “conquista di valori antichi, […] proposta di vita”, che deve essere “storicizzata”.

Proselitismo ‘‘da non propagandarsi come una prospettazione, nel mondo profano, di poteri inesistenti o come fonte di accrescimento della propria clientela’’ ma considerata come una “proposta di valori che si propaga per attrazione”. Meritocrazia da valorizzare e soprattutto da riconoscere. Centralità della Loggia con la sua irrinunciabile funzione maieutica. L’Officina è, infatti “un argine alla catastrofe educativa e un centro propulsore” di una diuturna ricerca della verità che si esplica attraverso una protratta interrogazione e l’applicazione del dubbio. Solidarietà, considerata un valore imprescindibile in un mondo ove la crisi è una componente ormai consolidata. Fratellanza, reputata “la pietra angolare di tutta l’Obbedienza”. Interventi sulla struttura e sulla organizzazione della Comunione, con una particolare attenzione ai rapporti sussistenti fra Ordine e Rito. Inoltre s’impone una riflessione condivisa sul ruolo del Supremo Consiglio, delle Altissime Camere Nazionali, sulla piena sovranità della Gran Loggia, sul valore della collegialità, sul potenziamento e la funzionalità dell’apparato burocratico. Potenziamento della presenza dell’Ordine con la creazione di nuovi Orienti in Italia e all’estero, acquisizione programmata di nuove case massoniche, corretta divulgazione della nozione di Centro Sociologico Italiano. Riforma della “giustizia massonica”, tema fondamentale sul quale già a lungo si è lavorato. Implemento del patrimonio culturale dell’Obbedienza, il cui archivio storico e museo, già di notevole rilevanza, dovranno essere fruibili anche all’esterno. Promozione dello studio e della ricerca specialmente negli ambiti dei valori, della storia e della simbologia massonica. Da qui la necessità di creare biblioteche d’Oriente coordinate con quella Nazionale, di rendere più fruibili i “Quaderni d’Aletheia”, d’incrementare i rapporti con gli “Istituti di Studio e Ricerche Massoniche esistenti all’estero”. Privilegiare la proiezione della Gran Loggia nella Penisola e all’estero e diventare soggetti di cultura, con una presenza costante nelle scuole e nelle università. Sussidi importanti per realizzare tali fini


saranno il trimestrale “Officinae”, l’agenzia stampa e la consulta permanente per la difesa della Massoneria. Sempre in tale ambito sarà istituito un Premio giornalistico annuale da assegnare al miglior articolo o servizio sulla Massoneria pubblicato su un periodico o su un quotidiano italiano. Attivare la solidarietà esterna, intesa, latu sensu, come “obbligo religioso”. Questo profilo operativo va, pertanto, “finanziato in misura generosa con un’apposita posta di bilancio”. Occuparsi di politica nella sua dimensione iniziatica, “ossia, come scienza che studia tutto ciò che attiene alla polis, al collettivo, al rapporto con gli altri […] al fine di suggerire e proporre regole che, […] rinvengono la loro ragion d’essere in valori irrinunciabili”. Dialogare con tutte le fedi religiose nell’ottica di un reciproco rispetto. Riflettere sui rapporti con le altre Comunioni massoniche, auspicando che una normativa europea legiferi sul fenomeno associativo e che si giunga ad accordi con il G.O.I. per un “impegno alla comune difesa contro le ricorrenti manifestazioni antimassoniche”. Incrementare i rapporti con le Potenze massoniche estere, in special modo nelle aree dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina. “Va, tuttavia, sottolineato che […] le relazioni internazionali non possono - e non debbono - essere circoscritte a meri incontri che, per quanto fruttuosi, rimangono […], di norma isolati e, dunque, scarsamente produttivi sul piano fattuale. Per questo, occorrerà adoprarsi per creare organismi stabili – o singole alleanze concluse di volta in volta – in grado di operare nel concreto, anche con progetti modesti, pur tuttavia visibili, che rispondano a precise esigenze”. Si tratta come si può ben notare di una rotta ambiziosa e accuratamente studiata che consentirà alla Gran Loggia d’Italia di raggiungere porti sicuri e accoglienti; la certezza di una felice navigazione è assicurata dalla solidità del fasciame, dall’entusiasmo degli argonauti e, soprattutto, dalla perizia del nocchiero, chiamato per un triennio al timone del nostro amato vascello.

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P.6,8: Il S.G.C.G.M. Antonio Binni; p.7, 9: Viste del Tempio Nazionale, Roma - (foto P.Del Freo).

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Paolo Musto

Luogotenente Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro Aggiunto Vicario Luigi Pruneti

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ra una magnifica giornata di tarda primavera quella del 10 giugno del 1940; a Roma il termometro segnava 26 gradi e nei caffè la maggior parte degli Italiani era infervorata dalle vicende calcistiche: l’Ambrosiana Inter aveva vinto il campionato, dopo un esaltante duello col Bologna. Verso mezzogiorno, però, l’atmosfera mutò, iniziarono a circolare voci inquietanti e i gerarchi, nelle uniformi d’orbace, divennero sempre più numerosi nelle vie della Capitale. Poi la notizia divenne ufficiale: alle 18.00 vi sarebbe stata un’adunata generale in piazza Venezia. Nel primo pomeriggio gli altoparlanti Marelli iniziarono a provare e all’ora prevista Mussolini si affacciò al fatidico balcone per arringare una folla concitata. “Un’ora segnata dal destino – esclamò – batte nel cielo della nostra Patria. L’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia”. Fu così che l’Italia scese in campo per vivere una tragedia che avrebbe mutato il suo destino. Per alcuni il dramma iniziò subito. Passarono poco più di ventiquattro ore che trentasei bombardieri inglesi Wintler rombarono sui cieli di Torino, fu l’inizio di un martirio che si protrasse per l’intero conflitto. Quella notte dell’11 giugno i danni furono relativi ma lo shock fu enorme: a tutti fu chiaro che il Capoluogo del Piemonte sarebbe stato, da quel momento in poi, una vittima sacrificale. Fu per questo che un giovane farmacista decise di trasferirsi con la famiglia in un paese vicino ma lontano dagli stabilimenti FIAT, obiettivo strategico dell’aviazione alleata. Il dottor Giuseppe Musto prese, perciò, dimora con la famiglia a Scalenghe, sulla via di Pinerolo, cittadina famosa per le cappelle campestri e per la chiesa di San Bernardino che conserva la preziosa reliquia del legno della Croce e qui il 10 luglio la sua vita fu allietata dalla nascita del figlio primogenito: Paolo. Iniziò così il percorso del nostro Luogotenente Sovrano gran Commendatore Gran Maestro Aggiunto Vicario che per caso ebbe i natali nell’antica pievania di Santa Maria Assunta donata nel 1159 da Federico Barbarossa alla diocesi di Torino. Ben presto la famiglia Musto si trasferì nella più sicura Pinerolo e anche questa fu una scelta felice, perché nel 1942 Scalen-

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ghe fu bombardata e un ordigno distrusse gli archivi comunali, oscurando per sempre la sua storia. Vennero finalmente gli anni della pace e della ricostruzione. Paolo si spostò a Torino, per frequentare la Facoltà di medicina dove nel 1965 conseguì la laurea con il massimo dei voti. In seguito si specializzò prima in “Anestesiologia e rianimazione” e quindi in “Medicina legale e delle assicurazione”. Appena iscrit-

‘‘Pax optima rerum...’’ “...quas homini novisse datum est: pax unatriumphis innumeris potior” Silio Italico, Punica, 11, 592 – 594. to all’albo il giovane medico iniziò a svolgere la sua opera nelle strutture ospedaliere pubbliche, ove divenne primario, inoltre insegnò “Infortunistica e Pronto soccorso” all’Ateneo del capoluogo piemontese. Durante la sua lunga carriera di medico, studioso e docente pubblicò novantacinque opere e contributi riguardanti “l’Anestesia e la rianimazione”. In Massoneria entrò il 12 luglio del 1976, quando venne iniziato dalla Rispettabile Loggia “Mozart” all’Oriente di Torino. Attento, competente, puntuale, pronto al dialogo e naturalmente predisposto ad ascolta-

re gli altri, si dimostrò da subito una preziosa risorsa, tanto che fu designato a ricoprire numerosi incarichi fino a diventare Sovrano Grande Ispettore Generale per il Rito e Delegato Magistrale per l’Ordine. Infine, a partire dal 1 dicembre del 2007, fu eletto Gran Maestro Aggiunto, ufficio che disimpegnò per due mandati consecutivi. Inoltre il Ven.mo e Pot.mo Fratello Paolo Musto è stato l’animatore e il Presidente della “Commissione di Bioetica” che, grazie alla sua guida, è diventata il fiore all’occhiello della Comunione. Chiamato il 14 dicembre 2013 a ricoprire la prestigiosa carica di Luogotenente Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro Aggiunto Vicario riuscirà, grazie alla sua innata saggezza, a portare un contributo fondamentale alla crescita e all’affermazione dell’Obbedienza in Italia e all’estero e a far sì che la Massoneria diventi sempre di più “un’esperienza di vita, che, come suo scopo ultimo, ha quello di rendere i suoi adepti esperti in umanità, perché, sotto qualunque latitudine, tutti gli uomini, qualunque sia la loro origine, cercano sempre risposte alle stesse domande”. P.10: Il L.S.G.C.G.M.A.V. Paolo Musto; p.3: Vista del Tempio Nazionale, Roma - (foto P.Del Freo).

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Gran Maestri Aggiunti, Gran Sorveglianti e Grandi Ufficiali della G.L.D.I. Luigi Pruneti

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Gran Maestri Aggiunti

Ven.mo e Pot.mo Fratello Vincenzo Romano, Gran Maestro Aggiunto. Il Ven.mo e Pot.mo Fratello Vincenzo Romano nacque a Corigliano Calabro (CS) il 10 maggio 1948 e compiuti gli studi liceali si trasferì a Ferrara per frequentare l’Università. Nella città che fu degli Estensi si laureò in giurisprudenza nel 1976 e divenne assistente alla cattedra di “Istituzione del diritto penale”, contemporaneamente fu presidente di alcune municipalizzate. Nel 1978 la sua vita fu sconvolta da un gravissimo lutto familiare, per questo motivo ritornò nella natia Calabria, dove riorganizzò la propria esistenza: fu presidente di vari isti-

‘‘Ex pluribus unum’’ Agostino, Confessioni, 1.4

tuti di credito e imprenditore nell’ambito dell’auto e dei mezzi di trasporto. Entrò in Massoneria nel 1994 presso un’altra Comunione e sette anni più tardi fu regolarizzato dalla Rispettabile Loggia “Brutia”, all’Oriente di Cetraro. Dinamico e intraprendente fu eletto Maestro Venerabile della Rispettabile Loggia “Telesio” all’Oriente di Corigliano Calabro e subito dopo ricoprì varie cariche fra le quali quelle di Ispettore Circondariale di Cetraro, Ispettore di Propaganda e Ispettore Provinciale della Magna Grecia, vice Delegato e poi Delegato della Regione Massonica calabra. Il Ven.mo e Pot.mo Fratello Vincenzo Romano, fra i numerosissimi meriti, ha quello di aver riorganizzato la sua Regione che, grazie anche alla scelta di ottimi collaboratori, è divenuta per numero di iscritti la seconda d’Italia. Ven.mo e Pot.mo Fratello Renato Ariano, Gran Maestro Aggiunto. Il Ven.mo e Pot.mo Fratello Renato Ariano, napoletano di nascita ma ligure per adozione, si laureò giovanissimo in Medicina e Chirurgia e quindi conseguì numerose specializzazioni. Ciò gli consentì una brillante carriera ospedaliera d’internista, fino a diventare Primario in

importanti strutture sanitarie. Docente universitario e allergologo di fama internazionale, ha all’attivo numerosissime pubblicazioni scientifiche e vanta la partecipazione, quale relatore, in congressi organizzati in ogni parte del mondo. Iniziato nel 1982 in un’altra Comunione, fu regolarizzato dalla Gran Loggia d’Italia 13 gennaio del 2000 dalla R. L. “Biancheri” all’Oriente di Ventimiglia. In seguito ricoprì le cariche di Maestro Venerabile, di Grande Ispettore Provinciale, di Membro della Giunta Esecutiva dell’Ordine e di Presidente della Consulta Nazionale di bioetica, della quale fu ed è un eccellente animatore e organizzatore. Fra l’altro progettò e realizzò i fondamentali convegni di Udine e di Grosseto. Eletto Gran Maestro Aggiunto nello scorso dicembre, il Fratello Renato Ariano presenta ottime credenziali e sicuramente sarà una figura di riferimento e di estrema importanza per il triennio in corso. Ven.mo e Pot.mo Fratello Maurizio Galafate Orlandi, Gran Maestro Aggiunto. Il Ven.mo e Pot.mo Fratello Maurizio Galafate Orlandi nacque a Roma il 6 aprile del 1947. Dopo essersi laureato in Giurisprudenza, si trasferì a Viareggio, dove il padre Giuseppe esercitava la professione notarile. Egli sembrava destinato a calcare le orme paterne, la vita d’ufficio, però, non gli si confaceva, così decise di dedicarsi all’imprenditoria nazionale e internazionale che gli consentiva di dedicarsi alle sue grandi passioni: i viaggi e il volo acrobatico. In Massoneria entrò il 18 luglio del 2002, quando venne crismato dalla Rispettabile Loggia “Per Aspera ad Astra” all’Oriente di Lucca. Durante il suo percorso massonico ricoprì le cariche di Commissario Magistrale, di Maestro Venerabile, di Presidente di Camera, di Membro di Giunta, di Delegato Magistrale per la Regione Caraibica; infine il 14 dicembre 2010 fu eletto Gran Segretario Generale della Gran Loggia d’Italia. Questo triennio alla guida dell’organizzazione burocratica e amministrativa dell’Obbedienza gli ha consentito di acquisire una notevole esperienza che unitamente alla sua preparazione massonica, ha scritto tre libri sull’argomento, sarà preziosa per coadiuvare, quale membro della Gran Maestranza, il Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro.

Enzo Romano

Renato Ariano

Maurizio Galafate Orlandi

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I Gran Sorveglianti

1976 dalla R.L. “Aristotele” all’Or. di Firenze. Si trasferì quindi a Bologna dove fu fra i fondatori delle Officine “Aristotele II”, “Delta”, “Virtus” e dell’Oriente di Rimini. È stato Grande Ispettore Provinciale di Bologna, Grande Ispettore di Propaganda dell’Emilia e Romagna, Gran Consigliere dell’Ordine, Membro della Giunta e Delegato Magistrale della sua regione.

Elett.ma e Pot.ma Sr. Franca Barbetti, Primo Gran Sorvegliante della Gran Loggia d’Italia. L’Elett.ma e Pot.ma Sorella Franca Barbetti, nata a Udine sotto il segno della Scorpione fu una predestinata alla Massoneria giacché suo padre Dino fu uno dei vessilliferi della Gran Loggia d’Italia nel Friuli. Franca venne iniziata nel 1983 dalla R.L. “Carlo Pisacane” nella valle del Tagliamento e da allora ha ricoperto numerosi uffici sia a livello periferico che centrale, fino a quando, il 17 dicembre del 2007, è diventata Delegato Magistrale della sua Regione.

Franca Barbetti

I Grandi Ufficiali Ven.mo e Pot.mo Fr. Luigi Pruneti, Grande Oratore della Gran Loggia d’Italia. Il Ven.mo e Pot.mo Fr. Luigi Pruneti, docente, giornalista e scrittore, è nato a Firenze il 14 dicembre 1948, città dove si è laureato e specializzato in discipline storiche. Iniziato il 10 dicembre del 1974 dalla R. L. “Aristotele”, ha ricoperto numerosi uffici e incarichi, fino ad essere eletto Gran Maestro Sovrano Gran Commendatore per due trienni successivi.

Annalisa Santini

Elett.ma e Pot.ma Sr. Annalisa Santini, Secondo Gran Sorvegliante della Gran Loggia d’Italia. L’Elett.ma e Pot.ma Sorella Annalisa Santini, nata sotto il segno della Vergine, medico per professione, storico e archivista per elezione e animalista per vocazione, fu iniziata a Siena dalla R.L. “Christian Rosen Kreutz” il 23 febbraio del 1998. È stata Maestro Venerabile, Presidente di Camera, Membro del Gran Consiglio e della Giunta Esecutiva dell’Ordine, coordinatore della R.L. “Ferdinando Palasciano” e fondatrice del Museo e dell’Archivio Storico della Gran Loggia d’Italia; è autore, inoltre, di numerose pubblicazioni sulla storia della Massoneria e sul fenomeno dell’antimassoneria. 14

Luigi Pruneti

Elett.mo e Pot.mo Fr. Piergiovanni Celetto, Gran Tesoriere Generale. L’Elett.mo e Pot.mo Fratello Piergiovanni Celetto, dott.commercialista, nacque a Udine il 29 luglio 1952 e fu iniziato Apprendista Libero Muratore il 3 marzo 1983 dalla R.L. “Carlo Pisacane” nella Valle del Tagliamento. Fra i numerosi uffici ai quali ha adempiuto, oltre a quelli

Vittore Morigi

Elett.mo e Pot.mo Fr. Vittore Morigi, Gran Segretario Generale. L’Elett.mo e Pot.mo Fratello Vittore Morigi nacque a Roma il 16 febbraio del 1941 da famiglia ravennate e fu iniziato nel

Piergiovanni Celetto


Roma, la Gran Maestranza riunita nello studio del S.G.C.G.M.

a livello di loggia, d’Ispettorato e di delegazione, ricordiamo i delicati compiti di Grande Architetto Revisore e di Grande Amministratore della Gran Loggia d’Italia. Elett.mo e Pot.mo Fr. Giuseppe Chiapino Gran Cancelliere della Gran Loggia d’Italia. L’Elett.mo e Pot.mo Fr. Giuseppe Chiapino, avvocato, nato a Torino il 6 novembre 1948. Iniziato dalla R.L. “XX Settembre” è stato più volte Maestro Venerabile, Gran Consigliere dell’Ordine e Presidente di Camere Superiori.

Il labaro della Gran Loggia d’ItaliaGiuseppe Chiapino

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Massoneria

Briciole di pensiero Contributo allo studio delle «verità» Antonio Binni

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1.

Nel conflitto – aspro e tuttora irrisolto – fra fede e ragione, fra fede e «scienze esatte», non inutili appaiono alcune riflessioni. Che, mentre mirano a far luce sul fondamento delle rispettive distinzioni, inevitabilmente finiscono pure, nel contempo, per dare conto delle ragioni sottese al contrasto fra tutte queste forme di pensiero, che, naturalmente, influiscono pure sul modo di intendere il mondo. Come luogo abitato non solo dagli umani. 2. Il 5 maggio 2013 ricorreva il duecentesimo anniversario della nascita di Kierkegaard. Questo, come ovvio, non è, tuttavia, un motivo sufficiente per concedergli il privilegio dell’incipit. La precedenza accordatagli dipende, piuttosto, dall’essere convinzione corrente che il filosofo danese sia stato, fra i moderni, il pensatore forse più fermo e rigoroso nell’affermare l’irragionevolezza della fede. Secondo Kierkegaard, la fede è, infatti, qualcosa «di cui nessun pensiero puó impadronirsi, perché la fede comincia appunto là dove il pensiero finisce» (cosí in Timore e tremore, ora in Opere, Vol. I, Casale Monferrato, Piemme, 1995, pag. 299). Che è come dire che la fede, per l’intelletto, è oscura come la notte, posto che la fede, in questa visione, non è un atto cognitivo, pur coinvolgendo l’uomo intero che, per l’atto di fede, viene inserito in una vita nuova. Donde, nell’ottica considerata, la fede finisce per risolversi in un «paradosso che è capace di trasformare un omicidio in un’azione sacra gradita a Dio» (cosí, in Timore e tremore, loc. cit.). Dove l’esempio addotto a conforto dell’assunto sostenuto non ci sembra, tuttavia, del tutto felice. Per asseverare la tesi per la quale il credente agisce in maniera del tutto irrazionale e, comunque, al di fuori degli schemi, nei quali abitualmente vive l’uomo, sembra, infatti, a chi scrive, molto più calzante, e soprattutto maggiormente probante, l’episodio della uscita di Abhram dalla terra di Harran nel Nord della Mesopotamia, avvenuta senza conoscere la meta che non fosse quella prescelta dalla volontà del suo Dio, ri-

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mastagli, comunque, ignota fino all’arrivo. Sia come sia, va, comunque, detto che la tesi di Kierkegaard, ribadita nel suo Diario (Morcelliano, Brescia, 1963, citazioni nel Vol. I, pag. 545 e 861, e nel Vol. II, pagg. 50 e 264), per quanto ferma e rigorosa, non era, peró, affatto originale, a motivo che quella veduta è perfettamente in linea con una lunga e consolidata corrente di pensiero che non sarà ora inutile richiamare nei suoi picchi più significativi. 3. Tommaso d’Aquino non si è, in verità, mai nascosto che la fede si fonda sull’assenso della volontà, senza “nessuna certezza” che non sia la speranza. Citando la Lettera agli Ebrei di Paolo [La fede è la sostanza delle cose che si sperano (11,1)], l’aquinate scrive, infatti, che «L’assenso fideistico non è determinato dalla cogitazione, ma dalla volontà» (ne

Le questioni disputate, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 1992-2003, Vol. II, pp. 436-439). Concetto che, ancora una volta, affonda le sue radici in Paolo («La fede è un consenso senza ricerca»), dove, all’evidenza, il credere si oppone al cercare. Come aveva, perfettamente, compreso il giovane Nietzsche, quando, scrivendo alla sorella Elisabeth, la invitava a rischiare alla luce delle due vie aperte di fronte all’umanità: «se vuoi raggiungere la pace dell’anima e la felicità, abbi pur fede, ma se vuoi essere un discepolo della verità, allora indaga» (cosí in Brief an Elisabeth – 11 giugno 1815 – ora in Werke in drei Bänden, München, 1954, 953 S.). L’inesistenza di una qualsiasi ragione, quale fondamento della fede, tesi anticipata, in modo radicale, da Tertulliano, con il suo ultra noto – credo quia absurdum est –, ritorna con il motivo 17


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della scommessa di Pascal (Pensieri, Rusconi, Milano, 1993, pensiero 233), nel quale si manifesta proprio il principio che il credere è radicalmente altro dal cercare. Dunque, se non ci sono ragioni che confortano la fede, perché i suoi contenuti sono “paradossali”, se non addirittura “assurdi”, in quanto incarnano verità inaccettabili dalla ragione, ne segue il rifiuto delle verità presentate dalla religione come, invece, eterne, oltre che assolutamente certe. Dove il rigetto diventa ancor più radicale in presenza del principio caro alla Scolastica medioevale, che pretendeva essere la philosophia ancella theologiae. Con il conseguente corollario che, in caso di contraddizione fra la verità ri18

velata e la verità acclarata dalla ragione, dovesse essere quest’ultima a cedere il passo, per essere la prima indiscutibilmente verità. Anzi, Verità assoluta. 4. Anche fra i credenti è ormai diffusa una certa ostilità alla ragione. Cionondimeno, il magistero della Chiesa non ha, tuttavia, rinunziato del tutto alla ragione come strumento al servizio della fede, secondo l’insegnamento di Agostino che occorre credere per comprendere (crede ut intellegas). Giovanni Paolo II, nella Enciclica Fides et ratio, promulgata il 14 settembre 1998, con mirabile immagine, scrive, infatti, che: «La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano

s’innalza verso la contemplazione della verità». 5. Benedetto XVII, dal canto suo, richiamando Agostino, ravvisa, invece, la fede e la ragione come «due forze» che «non sono da separare né da contrapporre», posto che «devono sempre andar insieme» (cosí nella Lectio magistralis: “Fede, ragione e università” tenuta il 12 settembre 2006 all’Università di Ratisbona). Fra le quali deve, inoltre, sussistere una profonda e operosa amicizia, ribadita nel Discorso al mondo della cultura - Collège des Bernardins, Parigi, 12 settembre 2008, solennemente riconfermata nel “Discorso alle autorità civili. Londa. Westminster, 12 settembre 2010” con parole che meritano di essere ritrascritte alla lettera: «Il mondo della ragione e il mondo della fede – il mondo della secolarità razionale e il mondo del credo religioso – hanno bisogno l’uno dell’altro e non dovrebbero avere timore di entrare in un profondo e continuo dialogo, per il bene della nostra civiltà». Per fondare codesta sinergia tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione, il Papa teologo muove poi dalla necessità di recuperare una corretta nozione della «ragione». Da non intendersi soltanto quanto empiricamente verificabile, come pretenderebbero gli asfittici schemi del positivismo. Il Papa tedesco allarga i confini della ragione fino al riconoscimento che la realtà eccede sempre ció che la ragione soggettiva comprende. La fede, lungi dall’essere un suo oscuramento, sul quel presupposto, finisce, allora, per diventare lo strumento del suo risanamento perchè riconduce la ragione alla sua pienezza, in quanto le permette di vedere nuovamente se stessa in una realtà che, proprio perché complessa, sollecita sempre la ragione ad allargarsi. D’altro canto, la fede non sarebbe nulla se non originasse da un incontro con l’uomo, se non appartenesse, cioè, alla realtà e alla sua storia. Pensiero originale ed acuto, frutto di una vita di studio, sintetizzato nella felice formula «La ragione non si risana senza la fede, ma la fede senza ragione non diventa umana» (cosí il Cardinale Ratzinger in Fede, Verità, Tolleranza, Cantagalli, Siena, 2003, pag. 142).


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6. Da questa tradizione di pensiero si discosta, invece, sensibilmente, la prima Enciclica di Papa Francesco dal titolo – significativo – Lumen Fidei, del 29 giugno di quest’anno, presentata il 5 luglio successivo nella Sala Stampa Vaticana. Papa Francesco, infatti, affrontando il rapporto fra fede e verità, non indugia su analisi teoriche, preferendo, all’opposto, ancorarsi all’esperienza quotidiana, segnata dal riferimento alle singole verità delle persone. Con conseguente censura del relativismo, che tutto riduce alla propria prospettiva, anziché a quella del bene comune. Nel testo, la fede è posta nell’orizzonte della Luce. Lo straordinario rilievo attribuito alla luce fa scorgere, nel testo Papale, una venatura gnostica, oltre che il palese richiamo a temi del neoplatonismo arabo-ebraico, che tanto hanno influenzato il Medioevo latino. Del che v’è testimonianza perspicua nella Metafisica della luce di Roberto Grossatesta (1175-1253): opera, invero, tanto preziosa, quanto inspiegabilmente, oltre che immeritatamente, negletta.

Per Papa Francesco, la fede non è una condizione di buio. All’opposto, è luce che illumina totalmente. A differenza delle «piccole luci» (I, 3), fugaci ed effimere, proprie dell’autonomia della ragione, che risulta, cosí, svalutata. «Chi crede, vede» (I, 1). Lo spazio della fede si apre, infatti, «lí dove la ragione non puó illuminare» (I, 3). Lo sforzo di superare l’elemento volontaristico privo di un puro fatto cognitivo – cifra della fede non solo nella visione tomistica – lo si persegue legando l’atto volitivo alla ragione da un altro profilo. «Poiché Dio è affidabile» per la sua storia fatta di promesse tutte mantenute, diventa, allora, «ragionevole avere fede in Lui» (II, 23). Dove la dimostrazione non pare, tuttavia, del tutto riuscita, perché, nella costruzione, la ragione sembra degradare, comunque, a semplice motivo. In quanto tale, del tutto esterno alla autonomia dell’atto volitivo, semplicemente colorato dal ragionamento che, tuttavia, non ne intacca l’intima struttura. Ci si spinge poi oltre quando si afferma che la fede – intesa come ascolto e visio-

ne – è «capace di offrire una luce nuova (…) perché vede più lontano» (II, 24), per poi desumere l’esistenza di un «nesso intrinseco» (ivi) fra fede e verità. Dove il richiamo a codesta connessione «è oggi più che mai necessario, proprio per la crisi di verità in cui viviamo» (ivi). Nella cultura contemporanea – cosí si scrive – si tende, infatti, «ad accettare come verità soltanto quella della tecnologia (…). Questa sembra oggi l’unica verità certa» dal momento che «è vero» solo ció che «l’uomo riesce a costruire e misurare con la sua scienza» (ivi). La polemica con la verità scientifica, per quanto garbata, è, tuttavia, ugualmente scoperta. Tanto che non si nasconde il grande oblio del mondo contemporaneo nei confronti della «verità grande», per tale dovendosi intendere «la verità che spiega l’insieme della vita personale e sociale», guardata, comunque, dai più, «con sospetto». Dal che segue, nell’ottica ecclesiale, l’ormai tradizionale raccomandazione di coltivare un dialogo fra fede e ragione. La luce della fede, cosí si sostiene, illumina, infatti, anche il mondo materia19


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le. «Lo sguardo della scienza riceve cosí un beneficio dalla fede» (II, 34), perché la fede, mentre «invita lo scienziato a rimanere aperto alla realtà, in tutta la sua ricchezza inesauribile», aiuta, nel contempo, la ricerca a capire che «la natura è sempre più grande» di tutte le formule che pretenderebbero di imprigionarla. Il che è pur sempre un forte e condivisibile richiamo «alla meraviglia davanti al mistero del creato» (ivi), perché, come si legge nel Teeteto, Socrate ci ha definitivamente insegnato che la meraviglia è l’origine e il motore di qualsiasi ricerca. L’originalità dell’Enciclica si rivela poi laddove si rilegge la fede nel rapporto con l’amore: legame che è la colonna portante di tutto il testo papale. In quest’ottica la fede è assunta come capacità di generare una nuova conoscenza che, in quanto frutto dell’amore, «illumina il vivere sociale» (IV, 55), fondando, nel contempo, l’impegno di costruire una «città affidabile». Verbo, questo, «edificare», che ci è, ov20

viamente, molto caro, per essere anche noi fortemente impegnati nella costruzione di cantieri nella società civile, al servizio «della giustizia, del diritto e della pace» (IV, 51). Ugualmente prezioso pare, infine, il richiamo alla necessità di recuperare la fratellanza, intesa quale fondamento della «architettura (sic!) dei rapporti umani» (IV, 51), non essendo a ció sufficienti la sola libertà e la (spesso solo formale) uguaglianza. Solo il riconoscersi figli dell’unico cielo permette, infatti, di riconoscere gli altri uomini come fratelli, con i quali condividere, poi, la «responsabilità» del creato (IV, 55). Concludiamo la – necessariamente – breve epitome del testo papale ponendo l’accento sull’assioma posto dalla Enciclica «Il credente impara a vedere se stesso a partire dalla fede che professa» (I, 22), perché questa verità è universale. Come ricorda la Bhagavad-Gita quando recita: «L’uomo ha la natura della sua

fede. Come è la fede di un uomo, cosí è l’Uomo» (ivi, XXII, 3.). 7. Altra e distinta è, invece, la verità filosofica che, in quanto frutto del dialogo – che non è un incontro conciliante, ma una autentica guerra condotta con le idee e con le parole, anziché con le armi – non è mai verità assoluta. Non solo perché la verità dialogica è sempre figlia del tempo (veritas filia temporis), nel senso che, con il trascorrere del tempo, una tesi, assunta come verità, puó incontrare, successivamente, la sua negazione. Ma anche perché la verità filosofica, come ha insegnato Eraclito – «il logos è guerra» (fr. B.53) – è sempre contesa tra opinioni diverse. Ossia contesa fra la verità e tutte le sue possibili negazioni. Il che finisce per far emergere – e, di conseguenza, accogliere – l’opinione che si rivela senza contraddizioni. E, cosí, di seguito, finchè non sorga un’obiezione


che ne riveli la contraddizione rimasta fino ad allora nascosta. Quanto dire, altrimenti, che la verità, secondo l’insegnamento di Hegel (in Scienza della logica, Bari, Laterza, 1974, Vol. I, pp. 100-101), non è, dunque, altro che la negazione delle sue negazioni. Se la fede è, dunque, una certezza, che affonda il suo fondamento soltanto nella «volontà di credere», mentre la verità filosofica è, invece, una certezza che ha la sua pietra angolare nella capacità di eliminare tutte le sue negazioni, si deve allora necessariamente concludere che la fede non si puó identificare con la verità proprio perché la fede vuole ció che non sa. Fin qui la differenza. Con un corollario sicuramente sorprendente. La verità filosofica, proprio perché esclude la totalità delle sue negazioni, non puó essere che intollerante. Altrimenti sarebbe annientata dalla compresenza dei contraddittori. A differenza della fede, per sua natura, invece, tollerante, in quanto costretta a tollerare tutte le altre possibili fedi. Ivi compresa quella di chi non crede. Che è esito, appunto, inatteso, imprevedibile e imprevisto. Cosí come è, del pari, inaspettato e insospettato il dovere constatare che tanto la verità filosofica, quanto la fede non sono mai state definitive. Non la fede, perché credere oggi non garantisce che crederemo domani. Non la verità filosofica, perché processo dialettico e storico (cosí E. Severino, in Studi di filosofia della prassi, Adelphi, Milano, 1984, pag. 68). Esattamente come si dirà per i risultati prodotti dalla scienza. Anch’essi, per loro natura, provvisori, proprio perchè destinati ad essere superati dagli esiti di nuove ricerche. Completezza di quadro esige, infine, di rammemorare l’esistenza anche di voci dissonanti, che negano qualsiasi antagonismo fra fede e ragione proprio sul piano dei principi. Un esempio, per tutti. Locke, nel Saggio sulla intelligenza umana (1690), proprio su quel piano (dei principi), nega, infatti, recisamente qualsiasi contrasto fra fede e ragione, perché, in tal caso, cosí argomenta, Dio distruggerebbe «interamente la parte più eccel-

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lente dell’opera sua, ossia il nostro intelletto» (op. cit., Vol. IV, 18,5). 8. Salda e inconcussa è oggi la convinzione che l’unico sapere certo è quello scaturito dalla scienza, perché i risultati, ai quali quest’ultima perviene, lungi dall’essere illusioni, o, addirittura consolazioni, sono, all’opposto, sicurezze inoppugnabili, in quanto frutto di attente analisi e di altrettante accurate verifiche. Il metodo sperimentale, come noto, consiste, infatti, nel desumere una norma di carattere generale da una serie di fatti particolari, scoperti per mezzo della osservazione. Le ipotesi di lavoro vengono cosí rettificate e affinate attraverso analisi sempre più approfondite e sofisticate. Fino al punto, in una fase sempre più avanzata, di dare saldezza ad un risultato suscettibile, o di divenire parte di ancor più ampie leggi, o di essere definitivamente abbandonato, in quanto rivelatosi inidoneo a imprigionare la realtà fattuale in

una regola dettata dalla costante ripetizione del fenomeno in presenza dei dati assunti. A differenza della fede religiosa, che pretende di incarnare una realtà eterna e assoluta, la verità scientifica, per sua natura, com’è ormai universalmente noto, è, dunque, temporale e, perció, relativa. Cionondimeno, si pretende ugualmente che nulla possa essere ragionevolmente affermato che contraddica ció che la scienza, in tutte le sue discipline, ha scoperto. Le scienze naturali forniscono, infatti, un apporto conoscitivo imprescindibile. Il sapere scientifico, con le proprie risultanze certe, ha, cosí, rivendicato, per sé, un’assoluta supremazia nei confronti di ogni altro sapere, inevitabilmente soppiantato e relegato, per sempre, in un passato, seppur glorioso. In ispecie, nei confronti della teologia, ma pure della filosofia, in una sorta di rivincita verso quel modo altezzoso di guardare la ricerca scientifica, che 21


da quella stessa irrazionalità, che pretende, invece, di espungere. Quando, inoltre, è vero, che neppure del tutto razionale è la stessa scelta dei dati considerati, visto che, com’è incontroverso e, soprattutto, incontrovertibile, i fatti considerati, assunti a base del procedimento di verifica, sono pur sempre condizionati da scelte personali, che, spesso, ignorano i fenomeni nuovi. Presi in considerazione soltanto quando non compaia un rinnovato sistema concettuale originale che possa integrarli in un paradigma del tutto mutato. Il che ha consentito autorevolmente di affermare che le scienze non avanzano secondo un processo di accumulazione, bensí mediante crisi, discontinuità e rotture (cosí, Th. S. Kuhn, ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1999. In quest’opera risulta, infatti, dimostrato che la conoscenza non progredisce in modo lineare, ma, piuttosto, con una successione di cicli). Sembra, infine, che l’approccio alla realtà di tipo matematico-procedurale rimanga disarmato di fronte al problema, squisitamente filosofico, del senso. «Noi sentiamo che anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto una risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure toccati» (cosí L. Wittgenstein, in Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Torino, Einaudi, 1964, proposizione 6.52). E l’asserto è cosí evidente che ci pare impossibile dissentire.

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è stato, invero, proprio dell’idealismo di Croce e Gentile, che, com’è noto, confinarono la scienza ai margini del mondo culturale (su questa rottura, vds., in particolare, quanto meno a livello divulgativo, A. Massarenti, Cosí l’Italia azzoppó la scienza, nell’inserto domenicale de «Il Sole 24 Ore» del 17 aprile 2011). Si vuole, cosí, con non celato orgoglio, affermare che la scienza, in quanto conoscenza razionale dimostrativa, è la forma più alta e paradigmatica dell’accertamento effettuato dal pensiero cognitivo-calcolante. Il che, come si impone di rilevare, è poi una manifestazione di fede, che, come 22

ogni altra fede, nasconde pericoli. Anche seri. Quali quelli insiti nella ingegneria genetica, che pare avere confuso la nozione di desiderio con quella di diritto. Atteggiamento, invero, da ultimo, autorevolmente, osteggiato. La Carta di Venezia del 2006 della Fondazione Veronesi ha, infatti, sancito, in forma solenne, il principio che non tutto ció che è tecnicamente possibile merita di essere fatto, giacchè possono esservi ragioni morali, risalenti a principi che sono assoluti per tutti, che vi si oppongono. In quanto manifestazione di fede, anche la scienza rimane, dunque, impregnata

9. In un quadro che, pur non pretendendo di essere esaustivo, aspira, tuttavia, ugualmente, a dar conto delle sue linee portanti, non si puó, per certo, trascurare di far menzione, e pure di soffermarsi, anche se succintamente soltanto, su un altro versante, nel quale la fede si è trovata, inevitabilmente, costretta a misurarsi. La fede, oltre che dall’angolo prospettico della sua intrinseca irrazionalità, risulta, infatti, oggi messa in discussione pure dal profilo psicanalitico. Il che costituisce, sicuramente, il portato della posizione di Freud, sostanzialmente svalutativa circa la possibile verità del contenuto religioso. Prospettiva che ha poi avuto un’influenza significativa sulla forma mentis di


quanti si sono occupati del fenomeno religioso dal punto di vista delle scienze umane, considerato sinonimo di nevrosi, immaturità psichica, o, peggio ancora, come manifestazione di gravi devianze psicologiche. Tanto che si è addirittura addivenuti ad affermare che, meno i pazienti sono religiosi, più tenderanno ad essere emotivamente sani (su questa problematica torna utile la lettura di G. Cucci, Esperienza religiosa e psicologia, Leumann (To) – Roma Elledici – La civiltà cattolica, 2009, pagg. 37-98). Tesi non condivisa, a ragione che la generalizzazione compiuta, oltre ad essere assolutamente arbitraria, sembra pure profondamente errata. Assolutamente arbitraria, perché, se la fede puó, talora, costituire motivo di devianza, è doveroso riconoscere che ció non avviene sempre e comunque. Dovendosi, all’opposto, ammettere che alcune difficoltà, anche di tipo sessuale, di fatto riflettono piuttosto carenze di altro tipo, quali, ad esempio, la mancata stima di sé; l’incapacità di vivere relazioni profonde e stabili; ecc. Profondamente errata, perché, in linea di principio, oltre che di fatto, non puó negarsi un percorso di vita all’insegna di quella «speranza» che costituisce l’essenza stessa della fede. Quando il mondo non basta, perché le ragioni, che troviamo in esso, non convincono, non si puó, infatti, non aggiungere qualcos’altro rispetto a ció che si vive e si sente. Con la conseguenza – forse – di riconoscere che non è l’oggetto della fede ad essere assurdo, quanto, invece, il mondo. La fede finisce, cosí, per essere sempre possibile. In ogni caso, inaccettabile, perché contrario ad ogni logica è l’addebitare, all’elemento fidelistico in sé, una capacità di devianza maggiore a qualsiasi altro fattore. Verità vuole, invece, che si dica che l’approccio alla problematica segnalata deve essere quella del «caso per caso», valutato nel mistero dell’esistenza umana nella sua complessità e nelle sue varie sfaccettature.

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10. La granitica fiducia nella scienza, nata ai tempi della rivoluzione scientifi23


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ca, sviluppatasi e accresciutasi nel periodo illuminista, prima, e positivista, poi, processo, per dirla con Adorno, «dalla fionda alla bomba atomica», comincia oggi a vacillare. Non è, infatti, un caso che crescano costantemente di numero i cultori di una certa “magia” o, per addurre un altro esempio esplicativo, che, in misura sempre crescente, si attribuisca fiducia a metodi di cura che non hanno alcuna rigorosa conferma scientifica. Ció malgrado, non v’ha, tuttavia, dubbio alcuno che la visione scientifica continui ancor’oggi a predominare sulla scena. Per di più in una misura cosí vigorosa da riconoscere, negli uomini di scienza, i nuovi sacerdoti che hanno scalzato gli uomini di Chiesa, nonostante la ferma opposizione di questi ultimi. Il terreno previlegiato dello scontro, com’è noto, è costituito dalla visione che si ha dell’universo. Frutto della triade “mutazione, caso e 24

selezione”, con conseguente negazione di un qualsiasi spazio per il soprannaturale, secondo i primi. Espressione di un “disegno intelligente”, a detta, invece, dei secondi. I quali, pur senza riconoscere, a Gen. 1, l’intento di istruire il lettore sull’origine del mondo, per soddisfare una sua curiosità in ambito cosmologico, ammettono, tuttavia, ugualmente, nell’Universo, un disegno che conserva la natura e la indirizza verso un fine attraverso una creazione continua. In un altro nostro precedente scritto (pubblicato nel numero 4 – Dicembre 2012 – di questa stessa Rivista, da pag. 12 a pag. 19) ci siamo già occupati di questo tema. Qui vogliamo, pertanto, limitarci a poche e scarne considerazioni. Personalmente, riconosciamo molto credito alla teoria darwiniana e, in particolare, alla subdola e cieca, ma efficace, potenza del caso. Anche se poi rite-

niamo ancor più persuasive le moderne scoperte scientifiche, particolarmente di tipo biologico, che quella teoria hanno (in verità, non del tutto) supportato. Spingendoci fino al punto di considerare l’evoluzione come un principio di natura filosofica – esattamente al pari di ogni altro principio – considerato che, nell’universo, tutto cambia, per effetto di forze antagoniste mosse dalla Dea della mescolanza, richiamata dal pensiero possente di Parmenide, per certo, non ignoto al filosofo di Efeso. Leggi rette dalla necessità (ananche), che distruggono quel che creano. Prive di crudeltà, che mai si pone come un’obiezione consistente nei confronti della bellezza e della potenza della vita. Il che spiega, poi, perché, razionalmente, come ha insegnato Spinoza, non v’è spazio per i miracoli, intesi come una sospensione delle leggi di natura: interventi altrimenti necessari per una messa a punto di una creazione diversamente imperfetta. Quando è vero, invece, che quelle leggi hanno natura ferrea ed immutabile. Anche quando si volesse fideisticamente credere ad un Creatore, dovendosi riconoscere che questi, auto-esiliandosi, avrebbe pur sempre rinunciato alla propria onnipotenza in favore della autonomia cosmica: autentico mistero capace di dare corpo e sostanza all’enigma – improbabile per la fisica – del passaggio dal «disordine» all’«ordine». È innegabile, tuttavia, che codeste leggi obbediscano ad un principio di ragione, proprio perché operano secondo ragione. Come è comprovato dal rispetto di quella che Luca Pacioli chiamó «divina proporzione» e Leonardo da Vinci «sezione aurea». Il che è pur sempre un inoppugnabile dato di fatto, che obbliga a riflettere. Cosí come non puó non far riflettere un approdo irrazionale – l’ordine cosmico nato dal disordine in modo casuale e, retto, poi, dalla combinazione e contingenza – conseguito, invece, secondo ragione. Anche se poi tutto ció non autorizza – forse – a desumere l’esistenza di un disegno, che guida l’evolversi della materia. Né convince la tesi – sia pur soltanto prospettata come una mera «supposi-


zione», che si propone alla ragione, che, peró, «non puó obbligarla al consenso» (anche se «Di più non possiamo aspettarci da una speculazione sull’inizio di tutto») sostenuta da uno dei massimi pensatori del Novecento, secondo il quale la materia sarebbe dotata di una soggettività interiore latente; una sorta di «spirito dormiente» (cosí Hans Jonas, Materia, spirito e creazione. Reperto cosmologico e supposizione cosmogonica, Brescia, Morcelliana, 2012, pag. 68, mentre le precedenti citazioni, ivi, si leggono a pag. 29). Seguendo Spinoza, non riconosciamo, infatti, possibile, all’interno della materia, ammettere l’esistenza di quelle che Agostino chiamava rationes seminales, ossia, potenzialità precostituite atte virtualmente a determinare il futuro ordine strutturale del cosmo. D’altra parte, una volta escluso, come Jonas assume, un “disegno intelligente”, non si puó poi «postulare», per la contraddizione che «nol consente», che la “materia dormiente” sia poi stata creata da uno spirito sveglio, un che di «spirituale pensante, trascendente e sovratemporale» (cosí, op. cit., pag. 68). Se, dunque, si è voluto qui citare l’opera di Jonas – incredibilmente passata quasi sotto silenzio – meritevole, invece, di un ben altro approfondimento di quello, modestissimo, qui riserbatole, è soltanto perché quel saggio costituisce un tentativo, oltremodo pregevole, di custodire la tensione fra dati scientifici, tradizioni filosofiche (da Platone a Hegel, con particolare attenzione a Cartesio) e cifre teologiche. Il che costituisce l’ennesima riprova della difficoltà di ricondurre l’argomento in una pur sempre auspicabile reductio ad unum. 11. Una considerazione, seppur sintetica, va ora riserbata ad un altro profilo, per certo significativo, nel contesto della riflessione in corso. Con il termine «teologia» (parola di origine greca, theologia, da théos, divinità, e logos, discorso), nell’Antichità, si intendeva la sapienza intorno alla natura degli dei. Per questo, da Platone, fu bollata come un’inutile chiacchiera, a motivo che, razionalmente, è possibile pensare soltan-

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to che Dio è buono e che, da lui, puó venire solo il bene, mai il male (cosí Teeteto, 176). Su questa stessa identica linea di pensiero si è collocata pure la c.d. teologia negativa, per la quale il miglior modo di pensare, e di parlare di Dio, è quello che gli nega immagini e attributi, secondo il testo fondamentale, nell’Occidente, costituito dalla Teologia mistica di Dionigi l’Aereopagita. Nell’evo moderno, il termine «teologia» ha, invece, acquisito il significato di scienza umana concernente lo studio sistematico di esperienze religiose specifiche. Parallelamente alla teologica cristiana, si sono, cosí, venute a formare le teologie di altre tradizioni, come l’ebraismo e l’islamismo. Nel caso del cristianesimo, la teologia è rimasta legata alla Bibbia e alla sua ermeneusi, volta alla messa in luce delle verità rivelate. Lo studio risulta compiuto, in prevalen-

za, con il metodo storico, foriero di risultati, spesso anche molto apprezzabili. Quale quello, ad esempio, di avere messo in luce che Gen. 1 non è altro che una delle tante, e più o meno, uguali teogonie che, all’epoca, esistevano nello scacchiere medio-orientale. Invero, non mancano poi neppure lodevoli tentativi di confronto fra le verità cristiane rivelate e i grandi problemi dell’umanità, quali la psicanalisi, la democrazia, i diritti umani, la libertà sessuale e la giustizia sociale. Non v’ha dubbio, tuttavia, che, per quanto ricca di erudizione e di esperienza spirituale, la teologia cattolica, ancor oggi, risulta troppo legata al proprio credo. Tanto che, nella già ricordata Lumen fidei, proprio nel paragrafo dedicato al tema «Fede e Teologia», è dato leggere testualmente «che la teologia [cristiana] è impossibile senza la fede [nella figura del Cristo]» (II, 36). 25


ta, da scandagliarsi, al fine di rispettivamente chiarirli. Solo in codesti termini, cosí si conclude, i vari saperi possono offrirsi un reciproco servizio. Principi, in astratto, sicuramente condivisibili. In concreto, espressioni di buoni propositi, lontani, tuttavia, dalla realtà. Il che pone la domanda – radicale – se la mancanza di comunicazione sia il frutto di una sorta di dialogo “fra sordi”, o, se, invece, codesta reciproca impermeabilità fra i due saperi altro non sia che la spia di una loro assoluta inconciliabilità. Come noi sommessamente, ma convintamente, crediamo.

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Anche se l’affermazione viene poi stemperata da altre considerazioni, che, per la teologia cristiana, sfociano, necessariamente, nell’«umiltà» del conoscere, perché come avviene, invece, nelle scienze sperimentali, «Dio non si puó ridurre ad oggetto», per essere, invece, per definizione, «Soggetto» e «Mistero», che la teologia «si spinge ad esplorare, con la disciplina propria della ragione» (ivi). Il limite della attuale teologia cattolica è, comunque, costituito dallo scarso interesse dimostrato verso le forme di pensiero scaturite dalla evoluzione delle scienze matematiche e naturali, solo da ultimo, poste, invece, al centro di una riflessione, per certo, non ancora definitivamente compiuta. Il che ha creato una forte tensione con la cultura contemporanea e, in particolare, con il sapere scientifico, presentatosi, invero, come essenzialmente antiteologico. Salda è, invece, la rivendicazione della appartenenza della teologia alle scienze, 26

in aperto contrasto con quell’indirizzo di pensiero che riconosce la qualità di «scienza» alle sole discipline in grado di provare empiricamente le tesi che vi si sostengono. 12. È opinione largamente diffusa che pensiero laico e pensiero religioso non siano universi distinti e contrapposti. Questo perché è proprio dell’uomo, di qualunque uomo, interrogarsi e dubitare. Donde la considerazione che suggerisce la necessità di un dialogo fra i diversi saperi, stante il bisogno di rendere ragione dell’uomo inteso nella sua globalità. Oltre alla interazione fra i vari saperi, si sottolinea, altresí, l’imprescindibile necessità di un dialogo informato e rispettoso. Informato, perché, cosí si argomenta, si registra una scarsa, se non addirittura inesistente, conoscenza delle posizioni altrui. Rispettoso, perché occorre avere contezza dei propri limiti, di volta in vol-

13. L’incompatibilità fra i due saperi altro non è che il riflesso della netta separazione fra le sfere in cui gli stessi operano: piani completamente diversi fra loro, che li rendono, appunto, inconciliabili. La fede si fonda sulla volontà irrazionale. Come dimostra la sua impossibilità di misurarsi con il dogma in termini di ragione. Il che prova che la fede non esige la verità perché, alla fede, interessa soltanto che, chi crede, creda fermamente. Ció che rileva, per dirla altrimenti, non è l’oggetto della fede. Vero per un credo. Falso per l’altro. E viceversa. Bensí la volontà di restare fedeli alle “cose sperate”, alle quali si è optato di aderire con fiducia cieca ed assoluta. Le proposizioni filosofiche e scientifiche sono, invece, espresse in base al loro valore di verità, nel senso che, in quanto frutto di una solida dimostrazione, rimangono, per definizione, esclusi argomenti a contrasto, idonei a infirmarne la validità, perché, per principio, la verità non contrasta la verità. Ne discende che la fede non ha diritto di porre limiti alla ricerca umana, filosofica o scientifica che sia. E viceversa, perché nessuno ha il diritto di stabilire ció che appartiene alla fede, che, sia detto per incidens, non diverrà mai scienza, perché non fornisce nozioni, oggetto, dunque, di impossibili speculazioni, assolvendo, al contrario, una funzione tutt’affatto diversa. Che è, appunto, quella di trasportare l’anima nell’altrove.


La fede, per definizione, è, infatti, esperienza dello Spirito. Dunque: movimento verso l’Infinito. Se i presupposti fissati sono corretti, ne deriva, in via di logico e coerente corollario, che, razionalmente, non è sostenibile la tesi secondo la quale la filosofia sarebbe l’«ancella» della teologia. O viceversa. Proprio perché, fra questi due saperi non puó esistere alcun rapporto, nè alcuna affinità, visto che la teologia inizia nel punto esatto ove la filosofia si arresta. Ne risulta cosí ulteriormente confermato l’assunto, secondo il quale ogni reciproca ingenerenza, specie a fini rispettivamente limitativi, dev’essere, non solo preclusa, ma pure condannata. Rimane, da ultimo, a chiedersi quale sarà lo sguardo in grado di chiarire – e risolvere – le grandi questioni, quelle che, tradizionalmente, vengono definite come «ultime». La risposta a noi sembra certa. A chi, come l’Uomo, è elemento del Divenire, l’Essere sembra davvero fuori dalla sua portata cognitiva. A prescindere dalla veste che indossa. Anche se questa sconfortante conclusione non autorizza, poi, per certo, a rinunciare al continuo interrogarsi. Le “domande ultime” sono, infatti, iscritte nell’Uomo e, perció, solo, inevitabili! Altro che, come taluno ha, curiosamente, sostenuto, prive di senso sol perché comportano risposte sperimentalmente indimostrabili! Eterna gratitudine dobbiamo, pertanto, a tutti quei grandi – da Platone a Spinoza, da Leibniz a Hegel – che hanno osato guardare oltre le cose penultime e mettersi alla ricerca di quelle ultime, vere. Dobbiamo, dunque, continuare a formarci alla loro scuola e a imparare a porre domande e, soprattutto, a trarre insegnamento dalle loro vittorie e dai loro fallimenti. Che è poi come dire che ogni azzardo e insuccesso rimangono mitigati dalla consolazione di essere stati pur sempre in compagnia della philosophia perennis.

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P.16/27: Illustrazioni di William Blake (Londra 1757 – 1827).

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Le Massonerie d’Europa nell’Ottocento Aldo Alessandro Mola

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L’

Ottocento per l’Europa è stato il secolo della pace. Dopo il bagno di sangue dell’età franco-napoleonica e delle coalizioni capitanate dalla Gran Bretagna contro la Francia, il Continente Vecchio ha respirato sino al 1914. Merito del Congresso di Vienna? Della Santa Alleanza? Del sempre rinnovato “concerto delle grandi potenze”? Veduta da lontano o molto dall’alto, quell’epoca suggerisce l’immagine di generazioni di sovrani e statisti, di filosofi e politologi capaci di passarsi il testimone per far durare la pace oltre e malgrado insurrezioni, moti, rivoluzioni (1820-1821, 1830, 1848-1849), guerre periferiche (da quella di Crimea alla turco-ottomana del 1878, dalle battaglie per l’unità d’Italia al conflitto austro-prussiano-italiano del 1866 e persino la guerra franco-prussiana o franco-germanica del 1870-1871… ). Tante volte l’edificio sembrò sul punto di crollare ma, di volta in volta, Metternich, Napoleone III, Disraeli, Bismarck, Visconti Venosta, così diversi e pur così convergenti, riuscirono a salvare il salvabile, a spostare altrove l’epicentro di competizioni e tensioni, nell’immenso spazio americano, in Africa, Asia. Ma chi orchestrò quel concerto? Chi resse la bacchetta magica diplomatica e politica? Quale fu l’ispirazione originaria e unitaria dei suoi direttori nel secolo del romanzo storico (Victor Hugo, Alessandro Manzoni) e del melodramma, da Gioacchino Rossini a Giuseppe Verdi e a Richard Wagner? Nel primo volume di questa possente trilogia L’Europe sous l’Acacia (febbraio 2012, con prefazione di Pierre-Yves Beaurepaire e postfazione di José A. Ferrer Benimeli), Yves Hivert-Messeca ci aveva condotti sull’orlo dell’abisso: il culmine della civiltà del Settecento, estremo approdo della costruzione geniale di Luigi XIV come onestamente riconobbe Voltaire, che scrisse l’elogio del Re Sole. È pur vero ch’esso era una somma di sistemi e di regimi colmi di contraddizioni, ma a che cosa doveva servire la Ragione se non, appunto, a superare se stessa e ad accettare realtà polimorfiche e polifoniche, a far coesistere scienza e magia? Là Hivert-Messeca espresse la sintesi attuata dalla cultura dell’età dei Lumi (che non furono solo Illuminismo, né, meno

L’Europa sotto il segno dell’acacia secondo Yves Hivert-Messeca

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i avviciniamo rapidamente al terzo centenario della costituzione della Gran Loggia di Londra (24 giugno 1717). Il tempo è maturo per un bilancio del ruolo svolto dalla Massoneria nella storia d’Europa. Lo stimolo viene sia da vasti repertori bibliografici, come quello redatto da José A. Ferrer Benimeli e da Susana Cuartero Escobés (Madrid, Fundacion Universitaria Espanola), sia da opere di vigorosa sintesi. È il caso di L’Europe sous l’Acacia di Yves Hivert-Messeca: un panorama che in tre volumi perlustra la storia delle massonerie europee (il plurale non è affatto casuale!) dal secolo XVIII ai nostri giorni. Edita da Dervy (Parigi), l’opera conta i due primi volumi. Il primo, sull’‘Età d’oro della Massoneria’ (Les temps des Lumières et des obscurités), uscì nel 2012 con postfazione di José Antonio Ferrer Benimeli. Il secondo, sull’Ottocento, è in libreria a marzo, con prefazione di Aldo A. Mola e postfazione di Andréas Onnerfors. L’Autore sta lavorando al volume conclusivo con la passione e il rigore che ne ha contraddistinto studi e pubblicazioni dagli esordi: saggi e ricerche sulla Massoneria di età napoleonica, con speciale riferimento alle aree di frontiera (le Alpi Marittime, la Provenza, l’Italia settentrionale), ricerche innovative su terreni solo in parte esplorati (Comment la franc-maçonnerie vint aux femmes, scritto a quattro mani con sua moglie, Gisèle Dervy) e testi di riferimento come Les 33 dégrés écossais et la Tradition, scritto con Georges Lerbet. Più volte presente a convegni organizzati in Italia dalla Gran Loggia, Hivert-Messeca propone temi di riflessione passati in rassegna da Aldo A. Mola nella introduzione, che proponiamo quale invito alla lettura e al dibattito di metodo e di merito.

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[Introduzione a Yves Hivert-Messeca, L’Europe sous l’Acacia, vol.II (Parigi, Dervy, 2014), ndr].

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ancora, egemonia degli Illuminati), citando il sempre rimpianto Charles Porset: “Subsumer Maçonnerie et Lumières sous un meme concept eut été absurde au siècle XVIII” (p.310). Dall’Ottantanove la sequenza delle rivoluzioni (tante in una, con ritmo sempre più celere) aggrovigliò i nodi di un percorso che la Restaurazione si trovò a imbrigliare per non passare da una ad altre tragedie. Questa, solitamente tratteggiata come mera repressione, in realtà fu anche Lumi rivestiti di prudenza, fatti saggi dalle peripezie. Maurice de Talleyrand ne costituì l’incarnazione efficace. Ma Talleyrand ebbe il placet di un altro illuminista che, per comprensibili motivi patriottici, non ha mai goduto delle simpatie degli Italiani: il princi30

pe Clemens von Metternich - come l’Autore documenta nelle nuove dense pagine sulla Massoneria europea dell’Ottocento - la Restaurazione riuscì a soffocare utopie rivoluzionarie (non più ingenue, del resto; talvolta, anzi, grondanti memorie dolenti: era il caso dei sogni di Filippo Buonarroti, che arrivava dalla cospirazione degli Uguali), non per gretta insensibilità, ma per propiziare il progresso materiale (produzione, commerci, igiene, mobilità di uomini e cose e di idee…), senza il quale anche istruzione e libertà civili fanno poca strada. Si scopre così che la repressione dei rivoluzionari fu attuata da una dirigenza consapevole e colta. Attraverso la macchina inquirente e giudicante (solita a comminare pene spropositate rispetto alla effetti-

va pericolosità dei reati perseguiti), essa racchiuse il serpeggiante ribellismo negli stretti spazi di “serre” , nelle cui teche l’erbario delle “ideologie”, delle “essenze velenose” rimase sotto controllo, declassificato da minaccia a oggetto di studio, spunto per romanzi sull’insondabile mistero dell’animo umano, sulla psicologia del Male. A distanza di quasi due secoli dalle battaglie di Lipsia e di Waterloo (18131815), dal pronunciamento liberal-costituzionale di Riego e Quiroga (1820), dall’insurrezione indipendentistica greca e dall’esplosione di Carbonari, Adelfi e Massoni dall’Atlantico agli Urali, dal Baltico alla Sicilia, è giocoforza ammettere che lo sforzo di chiudere il Vaso di Pandora rivoluzionario prima che se ne sprigionassero uragani indomabili e devastanti ottenne lo scopo. Il movimento profondo di richiesta di libertà di stampa e di parola, di riedificazione della città dell’uomo su schemi di novella invenzione, spinse ad alzare l’asticella della repressione e consentì il lento deflusso di energie dilaganti malgrado e oltre ogni tentativo di soffocamento. In tal modo, grazie al bilanciamento tra utopie a realismo, lungo il secolo dal 1815 al 1914, l’Europa riuscì a evitare la catastrofe; eluse o rinviò il pericolo di precipitare nella “grande guerra generale”, di tutti contro tutti: un conflitto che ognuno sapeva sarebbe stato devastante perché condotto con le risorse prodotte in cent’anni di progressi scientifici, tecnologici, da quell’ incivilimento che si sarebbe ritorto contro la sua stessa Gran Madre: la Ragione. Ma, appunto, la Ragione dov’era? È la domanda posta con forza da Yves Hivert-Messeca in questo secondo volume di un’opera che abbraccia la storia della Massoneria europea in una visione planetaria, quando il mondo intero era veduto da Londra, Parigi, Berlino, San Pietroburgo (un po’ meno da Vienna, poco ormai da Madrid o Lisbona, mentre l’Italia era ancora di là da venire e anche dopo l’instaurazione del regno unitario registrò sempre un deficit di percezione della Grande Politica…). Già. La Ragione. Nel primo volume di L’Europe sous l’Acacia, l’Autore aveva perlustrato le grandi illusioni del Settecento, parte effettivamente coltivate dal-


la Libera Muratoria, parte prestate o attribuite alle Logge. Qui riprende il cammino e ci conduce alla nuova Grande Illusione descritta da Norman Angell nel 1910 e da Giacomo Novicov, profeta degli Stati Uniti d’Europa (prospettata in La missione dell’Italia, 1902), proprio quando questi stavano per precipitarsi nella fornace ardente della conflagrazione generale. Facciamo memoria. All’inizio del Novecento l’Europa, Stati Uniti d’America inclusi (che all’epoca non erano ancora così lontani e ingrati verso la loro madre-patria), era un mare di buoni sentimenti (molto più dei laghi Lemano, del Mare del Nord o del Baltico, evocati da Hivert-Messeca). Tutto spingeva alla pace perpetua, anzi l’annunciava, ne dava certezza o almeno speranze apparentemente ben fondate. Proprio nel passaggio dall’uno all’altro secolo furono varati i nuovi Giochi Olimpici, si tenne a Parigi l’Esposizione Universale (1900), trionfo della Ragione (con Bertrand Russell e Giuseppe Peano, massone e ideatore del latino sine flexione), furono assegnati i primi Premi Nobel per la letteratura e persino per la Pace (anche all’italiano Teodoro Moneta, poi interventista temperato), venne istituita la Corte internazionale dell’Aja, dilagarono le lingue universali, culminanti nell’Esperanto, il cui suono stesso conteneva una promessa. La moltiplicazione delle Crocerossine non lasciava certo prevedere quanto sangue esse avrebbero veduto scorrere entro pochi anni. La corte dell’Aja non fu l’Areopago per la soluzione pattizia dei conflitti tra gli Stati nel 1870-1871 sognato dal massone Giuseppe Garibaldi; tuttavia costituì un passo avanti rispetto al Congresso di Parigi del 1856 o a quello di Berlino del 1885, che si risolse nella spartizione del mondo tra le potenze europee. Tutto, insomma, faceva credere che la pace perpetua, l’antico sogno di Immanuel Kant e del massone Gottlieb Fichte (nazionalista germanico, molto più che profeta di universalità) fosse a portata di mano. Nel 1900 si radunò a Parigi il secondo congresso della Federazione internazionale studentesca Corda Fratres (Cuori Fratelli: fondata nel 1898 a Torino-Roma da Efisio Giglio-Tos), basata su una visione chiara del futuro, idealistica e pessimistica, infine realistica, tipico di gio-

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vani universitari: se non avessero ottenuto il “disarmo morale” i nuovi laureati, cioè il frutto più saporoso di cent’anni di studi accademici e di secoli di progresso filosofico, si sarebbero trovati a dover capitanare plotoni di propri concittadini costretti a sparare sui loro fratelli d’altre terre, vicine e ben note, in nome di un ideale non più condiviso, cioè l’asservimento della scienza a poteri statuali. Esattamente quanto accade dall’agosto 1914. Hivert-Messeca qui restituisce la drammaticità del vissuto dell’Europa “in cerca” e pone domande fondamentali sul ruolo che in quel secolo svolse (o non svolse) la Massoneria, che aveva assunto forma tra il 1717 e il 1723 proprio per promuovere dialogo, comprensione, fratellanza. L’Ottocento, documenta l’Autore in pagine dense di fatti (senza i quali le interpretazioni sono calve) e di valutazioni scintillanti, fu invece il secolo che sotto la cenere della fratellanza, dei travestimenti linguistici, dei rituali pacifisti covò la nuova grande guerra e l’esplosione dei totalitarismi che ne nacquero. Per intendere quella svolta (che non fu solo incidentale, frutto di una svista dell’Uomo o di un attimo di distrazio-

ne del Grande Architetto), occorre allora risalire all’inizio del secolo della pace. La Rivoluzione francese (addebitata alla Massoneria dai complottisti, come oggi la manipolazione della finanza planetaria) generò in pochi anni diritti dell’uomo, indipendenza delle nazioni, rivendicazioni sociali, ma sfociò nell’Impero: un approdo imprevisto da chi non seppe percepire il corso degli eventi, giacché Napoleone non venne covato dal Serpente Sacro se non nella fantasia degli opposti misticismi. Poi la storia per un verso rallentò (un po’ meno libertà politiche), per l’altro invece accelerò (più pane, le ferrovie, le reti fognarie…). E la Ragione? Hivert Messeca qui la rincorre lungo tutti i sentieri nei quali essa si disperse o si pensò che fosse in cammino, nella fiducia che quanto accade abbia un senso compiuto. La lezione di queste pagine fitte e affascinanti sta nel dubbio che esse instillano nel lettore. La Massoneria è stata (ed è) davvero garante della realizzazione del grande sogno, l’immenso spazio della speranza, il Tempio dalla volta non per caso aperta e stellata, un moltiplicatore di fiducia nella possibilità umana di dominare il corso degli eventi e di impe31


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dire che l’energia di cui l’umanità è capace per forza d’inerzia vada a cozzare contro il muro dell’insipienza? L’Ottocento registrò una sequenza di progressi che indusse anche persone molto pa32

cate a scommettere che davvero esiste il “cammino umano” e che esso è ascensionale (come quello delle specie secondo Charles Darwin…). Un secolo dopo la Dichiarazione d’Indipendenza del

1776 dalla quale nacquero gli Stati Uniti d’America e la rivoluzione dal Messico alla Patagonia contro le potenze coloniali, per gli immigrati le Americhe stavano meglio (ma molto peggio, per la maggior parte dei nativi, sterminati o sospinti al di fuori delle città) e altrettanto accadeva per le popolazioni afro-asiatiche rendente (o travolte?) dall’occidentalizzazione. Tutto bene, dunque? Hivert-Messeca invita a riflettere, con pacata prudenza e discernimento. Dalle quinte di un’Europa inchiodata alle tavole del Congresso di Vienna sgusciarono e balzarono in scena pochi soggetti veramente nuovi, subito costretti a retrocedere in seconda fila. Fu il caso dell’Italia, che divenne Stato unitario tra il 1859 e il 1870, a dispetto di papa Pio IX che fu spogliato del potere temporale e attribuì la propria debellatio al Maligno, incarnato nella Massoneria, “sinagoga di Satana”. Ma a partorire la Nuova Italia non fu la Massoneria bensì l’intesa tra le grandi potenze concordi nel consentire la nascita di un nuovo Stato (non Stato nuovo), di forze più modeste che medie, da governare a bacchetta o almeno da controllare stretto. Come poi accadde per i principati e regni dell’Europa orientale (la Grecia anzitutto, nazione primogenita dei complessi di colpa franco-britannici e della Russia zarista; e poi Romania, Bulgaria, sino alla Serbia e al Montenegro, regno per pochissimi anni …), via via sottratti all’Impero turco-ottomano. In tutto quel fiorire di Stati per popoli dagli spazi disegnati da Trattati internazionali vi fu anche (e in certi casi, soprattutto) la mano di massoni; ma – domanda impertinente l’Autore – il loro avvento fu davvero un disegno della Libera Muratoria o di governi nei quali sedevano anche persone che erano o avevano o avrebbero avuto legami di loggia? E quanto poi davvero pesò (pesa) l’ “iniziazione” sulla formazione, sul percorso di ciascun “uomo di Stato” (un sovrano, un primo ministro, un….vescovo: la domanda vale anche per militari, artisti, scienziati e per ogni massone, di grande o nessuna fama) e sulle sue decisioni nei momenti chiave dell’azione? Hivert-Messeca propone l’interrogativo che da secoli attanaglia quanti si occupano di storia della Massoneria, ini-


ziati o meno essi siano: l’effettiva traduzione dei postulati in fatti. Verum et factum convertuntur? L’Idea (massonica) si fa atto o rimane flatus impalpabile, una voluta di fumo che sale dalle rovine della storia tra le colonne di Jakin e Boaz, sotto l’occhio imperturbabile del Sole e della Luna? L’Autore non concede nulla alla leggenda, che nel bene e nel male ha circondato la Massoneria quale supposto motore immobile della “grande storia”. Invita a stare ai documenti. Lo fa con sorriso garbato. Non alimenta il mito, ma spiega perché ve ne sia stato (e forse ancora ve ne sia) bisogno. Nell’ascesa lungo le impervie rupi del secolo della pace i governi d’Europa si sfiancarono. Poche precise revolverate il 28 giugno 1914 a Sarajevo provocarono almeno quattordici milioni di morti in appena quattro anni, due rivoluzioni nell’impero degli zar (già sconfitto dal Giappone nella guerra del 1905), il crollo di altri tre imperi (Austria-Ungheria, Germania, Turchia) e l’indebitamento gigantesco degli Europei a beneficio degli Stati Uniti, la sfiducia, l’eclissi del senso della vita, della dignità dell’uomo, calpestata nel fango delle trincee, nelle battaglie di logoramento, nella “inutile strage” deplorata da papa Benedetto XV, che sembrava l’escluso della storia, opaco successore di Pio VII (da Napoleone deposto e deportato nel suo impero come un cappellano di corte), e invece in breve affermò la centralità del suo magistero. Al riguardo Hivert-Messeca scrive pagine icastiche, da antologia, e ci ricorda che in tutti i paesi belligeranti la cultura lato sensu fu messa a servizio per giustificare, legittimare e santificare la guerra. Le Logge non sfuggirono affatto alla costruzione del manicheismo in forza del quale ciascuno dei contendenti vedeva la lotta in corso come duello finale tra la civiltà (se stesso) e la barbarie (gli altri, il “nemico”). Nell’Ottocento, dunque, la Massoneria investì davvero il suo patrimonio di idee o lo disperse in troppi rivoli? Il lettore italiano (e/o “latino”) troverà che in quest’opera passano in seconda fila due dei soggetti sui quali più si è soffermata la massonografia dei secoli scorsi: la ribadita condanna della Libera Muratoria da parte della chiesa cattolica romana e

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l’antimassonismo furibondo di fine Ottocento. Profondo conoscitore della storia d’Italia, Hivert-Messeca relativizza il caso e lo colloca nella sua dimensione specifica. Come Clemente XII era stato angosciato dal timore che i massoni britannici attivi nella sua Toscana recidessero i legami tra Roma e Firenze (tanto più dopo l’assegnazione del Granducato a Francesco Stefano di Lorena, iniziato massone), così i papi da Pio VII a Leone XII, da Gregorio XVI a Pio IX e a Leone XIII identificarono i confini dello Stato della Chiesa con quelli della Rivelazione, la loro possibile contrazione come complotto del Maligno: una sorta di Historia Diaboli per liberos muratores da fermare “per Francos” (il principe-presidente Luigi Napoleone Bonaparte) e, meglio, tramite la tutela internazionale assicurata coralmente non tanto da potenze cattoliche, come l’Austria e la Spagna (politicamente in declino) quanto in nome degli equilibri europei. Se Pio IX bollò la Massoneria come sinagoga di Satana (marchio durevole), solo nell’estate del 1862 Prussia e Russia si rassegnarono a riconoscere il regno d’Italia giunto all’unità nell’ottobre 1860, sulla base di plebisciti, e solo nel 1867 l’I-

talia venne ammessa per la prima volta a una conferenza diplomatica internazionale, come garante della pace e dell’ordine, non quale volano o modello per i popoli senza stato, che erano e dovevano giacere come erano stati condanna33


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ti dalla battaglia della Montagna Bianca, dalle paci di Westfalia (1648), di Aquisgrana (1748), dalla spartizione della Polonia (completata a rivoluzione francese in pieno corso), dalla cessione dei Finlandesi allo zar “di tutte le Russie”. I cattolici fecero gran caso alle encicliche antimassoniche di Pio IX (dalla Qui pluribus alla Quanta cura e al Syllabus, che ne costituì l’appendice) e di Leone XIII (Humanum genus…). I massoni anglicani e luterani ci badarono molto meno; non se ne sentirono affatto toccati. Quelle “condanne” non costituivano un “problema di coscienza” di loro pertinenza. Semmai (ed è una delle molte acute osservazioni dell’Autore) si allarmarono quando i fratelli del Belgio e di Francia cancellarono l’insegna iniziatica (Alla gloria del Grande Architetto dell’Universo) dai Lavori dell’Ordine: un 34

presagio allarmante. Quanto alla massonofobia (il notissimo Léo Taxil, l’altrettanto pugnace Domenico Margiotta…) e ai Protocolli dei Savi di Sion, imbastiti alla vigilia della conflagrazione europea, si trattò di umori e di materiali coltivati e approntati per l’offensiva antimassonica scatenata dai totalitarismi dal 1913 in poi e divampati dal 1917 con violenza incomparabilmente più efficace rispetto a quella delle bolle pontificie e del Codice di diritto canonico del mite Benedetto XV. La domanda sottaciuta non riguarda tanto la genesi delle scomuniche e dei veleni ma l’insipienza di chi non avvertì il pericolo e continuò a cullarsi nell’illusione che tutto sarebbe rimasto o tornato come prima e che per far trionfare i principi costitutivi dell’Ordine bastasse stamparli o ripeterli nei lavori di loggia o farne alimento di futuri istituti internazionali aspiranti a ruoli sovrastatuali: sarà il caso della Società delle Nazioni e dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, che costituirà tema del III volume dell’Opera. Ricco e suggestivo, il secondo pannello del Trittico che Hivert-Messeca ha in cantiere da anni con generosità ammirevole offre materie e motivi di ampia riflessione, anche molto oltre i confini delle vicende propriamente liberomuratorie, come è giusto in una visione globale e integrale del processo storico. Torneremo a valutarlo quando sarà completato. Sin d’ora è però possibile una considerazione di metodo e di merito. Ha pienamente ragione l’Autore a chiedere dal mettere in guardia da una storia della Massoneria popolata non solo di “massoni per caso” ma anche di “massoni senza grembiulino”, una sorta di “battezzati di desiderio”, fonte di equivoci interpretativi e di confuse valutazioni del mondo massonico, già di suo caleidoscopico, come Hivert-Messeca bene documenta. Suddivisa in Obbedienze sempre più “ nazionali”, la Massoneria fece di tutto per divenire priva di unitarietà, più dispersiva di una cattedrale incompiuta. Non bastasse, all’interno di ciascun Paese le denominazioni massoniche si moltiplicarono in un gioco di specchi che ha portato allo smarrimento della Parola Perduta. Poco giovò l’apertura alle


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iniziazioni femminili…: tema sul quale Hivert-Messeca ha scritto volumi documentati, frutto di studi di lunga lena. Un sola annotazione finale mi sia consentita, in lieve dissonanza rispetto all’Autore: forse non è del tutto inutile la pur grigia o apparentemente opaca ed elusiva “massonologia”. Essa può costituire terreno di incontro e di confronto tra le molteplici discipline necessarie per arrivare a un giudizio storiografico pacato, alla sintesi dei lavori di chi si limita alla somma degli eventi e di chi ne cerca il senso forte sotto l’insegna vitriol. La massonologia costituisce anche il tablier universale, necessa-

rio come luogo neutro di dialogo tra studiosi ai quali non si può chiedere di mostrare credenziali e brevetti anziché documenti, dai quali non si può esigere obbedienza perché essi la debbono solo al loro libero lavoro di artieri della ricerca. La Massoneria non si riduce alle opere e ai giorni dei massoni. È anche “altro”. È la somma dei simboli: quella Vera Luce che non è solo una pennellata su una parete. È carne e sangue di uomini che, piaccia o meno, hanno creduto e credono e di quanti, mai iniziati, hanno rispetto delle loro scelte. Si dirà che molti massoni del Sette-Ottocento si sono illusi. Forse oggi s’illudono meno, pro-

prio perché sanno come tragicamente si chiuse il “secolo dei buoni sentimenti”, qui documentato da Hivert Messeca. Ma il loro atanor non è in un futuro nebuloso: esso è qui, sulla soglia di conflitti che potrebbero annientare non solo gran parte dell’umanità ma la vivibilità stessa del Pianeta. La Libera Muratoria sta facendo abbastanza per fermare la corsa verso l’abisso? Questa meditazione sull’Europa sotto l’Acacia ha il merito di porre l’interrogativo: ora. P.28: Ritratto ottocentesco di Massone con insegne; p.29/35: Cimeli, oggetti e memorabilia massonici.

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Umberto I e la Massoneria

Umberto I non fu massone, un documento, forse, chiarificatore. Aldo Alessandro Mola

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I

l Venti Settembre 1878, il primo dalla sua ascesa al trono, Umberto I di Savoia definì Roma “conquista intangibile”. Il messaggio era chiaro. Il Regno d’Italia non avrebbe restituito un metro quadrato al papa-re. Garante della libertà della chiesa cattolica nell’ambito della sua sovranità spirituale e dell’esercizio del suo magistero non le riconosceva alcun potere temporale sul territorio dello Stato, ferme restando le Guarentigie. Quella formula (conquista intangibile) venne enfatizzata da chi, come il Grande Oriente d’Italia, aspirava a drappeggiarsi con l’immagine della Terza Italia anticlericale, razionale (non era ancora in uso “laico”, francesismo infatti assente nel lessico di Giosue Carducci, Francesco Crispi e dello stesso Adriano Lemmi). Molti nostalgici del papa-re insinuarono che Umberto I fosse iniziato. I massoni ebbero buon gioco a lasciarlo credere. Dopo ventidue anni di ammiccamenti, l’assassinio di Umberto I a Monza, il 29 luglio 1900, avrebbe dovuto fare chiarezza. Il sovrano ebbe, né poteva

essere diverso, funerali reali. Giunta in treno alla Stazione Termini, la bara venne accompagnata al Pantheon, ove ebbe tumulazione provvisoria. Il rituale fu conforme all’art.1 dello Statuto, in forza del quale la religione cattolica apostolica romana era la sola religione dello Sta-

to. Ma il Grande Oriente esibì un omaggio che da alcuni venne inteso come cifra di fratellanza. Per opposti interessi, la domanda elementare sull’effettiva iniziazione liberomuratòria di Umberto I rimase pertanto senza risposta, sicché tanti polemisti e novellisti continuarono 37


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a ricamarci, anche e soprattutto in mancanza di alcuna pur labile prova di affiliazione di suo padre, Vittorio Emanuele II, del figlio, Vittorio Emanuele III, e del nipote, Umberto II, cattolico devotissimo quando la Massoneria rimaneva folgorata dalla scomunica. La questione venne risolta nel 1992, con la pubblicazione della lettera di Antonio Cefaly, Gran Segretario e membro della Giunta di governo dell’Ordine, al Gran maestro del Grande Oriente Spagnolo: un documento poi citato da altri, senza menzione della fonte [tale documento è in Aldo A. Mola, Storia della Massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni, Milano, Bompiani, 1992, Appendice, IV, Nodi di Savoia, propria sponte ripubblicata integralmente dal mensile “Italia Reale” (2013), ndr]. Rimase però il dubbio sull’esibizione del 38

labaro dei “Maestri Segreti della Valle dell’Arno”, debitamente abbrunato in coincidenza col mesto corteggio funebre. Era indizio o cenno della catena d’unione tra la Loggia e il sovrano? Un documento recentemente affiorato consente di dire una parola (forse) definitiva: Umberto I non era massone. La (sommessa) partecipazione al lutto da parte del Grande Oriente non andò al “fratello” Umberto di Savoia ma al Capo dello Stato. Fu una prova di fedeltà dei massoni italiani ai principi fondativi della Massoneria: leale nei confronti della suprema Istituzione, colpita ma non vulnerata né, tanto meno, abbattuta dal regicidio (“Il Re è morto, viva il Re”). Come noto, l’assassinio offrì il destro ai clericali per mettere sotto accusa quanti diffondevano pregiudizi contro la monarchia e la sacralità delle istituzioni: non solo i socialisti rivoluzionari, ma anche alcune correnti radicali (franco-dipendenti), i repubblicani e, ovviamente, gli anarchici di varia professione e osservanza. I massoni ebbero dunque motivo di lasciar credere che il re fosse campione della separazione tra Stato e chiesa, cosa ben diversa dalla formula cavouriana “libera chiesa in libero Stato”. La profferta (o disponibilità) del Grande Oriente però non ebbe alcuna risposta da parte delle Istituzioni. Il declino dell’influenza del Grande Oriente sullo Stato a ben vedere iniziò proprio dallo “stolto delitto” compiuto dall’anarchico Gaetano Bresci. Da lì riprese vigore la polemica antimas-


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sonica dei cattolici moderati (molto più determinanti dei clericali), di molti liberali (il caso di Benedetto Croce è solo il più noto) e del nascente nazionalismo a tacere dei socialisti massimalisti che dal 1904 posero all’ordine del giorno l’espulsione dei massoni dalle file del partito. Il documento è eloquente: su direttiva del Gran Maestro Ernesto Nathan, Ulisse Bacci, segretario del Grande Oriente e direttore-proprietario della “Rivista della Massoneria Italiana”, il 3 agosto interpellò Ettore Ferrari, G.M. Aggiunto, sull’opportunità di affidare alla convocanda Giunta di governo dell’Ordine la decisione di far sfilare la Bandiera del Grande Oriente” se le fosse stato concesso “posto onorato”. Ciò che però forse più conta è che, contrariamente a quanto asserì e ripete la leggenda sull’onnipotenza (che presuppone l’onniscenza) dell’Ordine, Bacci non era affatto addentro alle segrete cose: apprendeva il calendario dei programmi apicali dello Stato sfogliando i giornali, come chiunque altro.

Il governo non concesse il “posto onorato” sperato da Nathan. La cerimonia (eminentemente religioso-cavalleresca) era di Stato. Vi intervennero le Istituzioni, con primazia dei Militari. La Massoneria non era Ordine riconosciuto. L’estraneità ai funerali reali precorse di un decennio l’assenza del Grande Oriente al solenne festeggiamento del Cinquantenario del Regno, nel marzo-giugno 1911, quando Ettore Ferrari, Gran Maestro dal 1904, prese atto che il Regno non gli riconosceva alcun ruolo pubblico. Lo Stato non aveva motivo di anteporre una all’altra le due principali Associazioni massoniche esistenti in Italia. Era il punto di arrivo di una parabola iniziata con i funerali di Umberto I: amara constatazione del fallimento di un progetto che non prese mai corpo perché non giunse ad avere forma: il Reale presuppone l’Ideale. Il Fatto è speculare al Verbo, come insegnava il neotomismo in ascesa. Ed ecco, di seguito, il documento chiarificatore su carta intestata ‘Grande Oriente d’Italia’:

Or. di Roma, li 3 - VIII 1900 E.V. Caro Ferrari, Vedo dai giornali che i Funerali del Re sono imminenti. Probabilmente avverranno lunedì o martedì. Il Gran Maestro ha scritto che se le Loggie Romane vogliono, possono partecipare all’esequie e che, se ad essa è concesso posto onorato, egli non ha difficoltà che la Bandiera del Grande Oriente partecipi e vada, come tributo al Capo dello Stato e come protesta contro lo stolto delitto. A questo proposito egli vuole che sieno interrogati i membri della Giunta presenti a Roma. Quindi, parmi indispensabile convocare la Giunta per domani alle 3 ½. Se tu, come me, sei di questa opinione dà ordine a Francesco, che ti porta questa mia, di impostare gli avvisi. Credimi aff. U.Bacci P.36/37: Umberto I (Umberto Rainerio Carlo Emanuele Giovanni Maria Ferdinando Eugenio di Savoia, 1844-1900) in documenti d’epoca; p.37 in basso: L’anarchico Gaetano Bresci, (1869-1901), attentatore di Umberto I; p.38: La tomba di Umberto I; p38 in basso e in alto: Umberto I in documenti d’epoca; p.39: I reali Italiani e Austro-Ungarici insieme a teatro.

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Il terremoto di Messina e Reggio Calabria

Note di antimassoneria Annalisa Santini

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A

lle 5:21 del 28 dicembre 1908 dalle profondità dello stretto di Messina provenne un fortissimo boato e la terra iniziò a tremare in maniera violenta tra Scilla e Cariddi. Molti sono i racconti mitologici su Scilla, la ninfa trasformata da Circe in un mostro con sei teste sulle gambe, lo scoglio maledetto sul quale s’infrangono le navi e Cariddi, la bellissima fanciulla che fu tramutata in un terribile mostro marino da Zeus, per aver rubato a Eracle i buoi di Gerione, destinandola a ingoiare e a rigettare tre volte al giorno l’acqua del mare. Essa dunque è il gorgo che rapisce le vite, mentre Scilla con le sue sei teste cerca di carpire altrettanti marinai. Proprio da questo punto maledetto ebbe inizio la prima spaventosa scossa di terremoto con moto sussultorio, dopo un breve intervallo ne segui un’altra più forte in senso ondulatorio e poi un’altra ancora stavolta in senso vorticoso, la più lunga e devastante che portò al completo crollo di tutti gli edifici. Il sisma fu registrato dai sismografi di tutto il pianeta (Ottawa, Tokio, Sofia, Melbourne, Edimburgo…); all’Osservatorio Ximeniano di Firenze la prima scossa fu registrata alle ore 5 21' 42", mentre Rocca di Papa la percepì alle ore 5 21' 31'', Palermo alle 5 21'.
Gli studio-

si dell’Osservatorio Ximeniano annotarono sui loro registri: ... stamani alle 5.21 negli strumenti dell’Osservatorio è incominciata una impressionante, straordinaria registrazione: le ampiezze dei tracciati ... non sono entrate nei cilindri. Da qualche parte sta succedendo qualcosa di grave.1 Ma in Italia, data l’ora, non ci si rese subito conto dell’ubicazione dell’immane disastro.
Finito il sisma, le città di Reggio e Messina e i borghi limitrofi si trasforma-

rono in veri e propri cimiteri. Si dice che siano perite all’incirca 160.000 persone di cui circa 80.000 a Messina, che contava 140.000 abitanti, e 15.000 a Reggio Calabria su una popolazione di 45.000 abitanti, 26.000 le case devastate, il 90% degli edifici. Un inserto dossier del giornale “La Sicilia”, pubblicato nel 1998 in occasione del novantesimo anniversario dell’evento, ha più recentemente sovrastimato le vittime, valutando in 200.000 i morti della provincia di Messina e in 41


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180.000 quelli della provincia di Reggio Calabria.2 Lunghissimi secondi stravolsero per sempre la vita delle comunità calabrese e siciliana dello Stretto, scrivendo una delle pagine più dolorose dell’ancora giovane nazione italiana. Ad aggravare la situazione sopraggiunse un violento tsunami, probabilmente causato da una grossa frana sottomarina, avvenuta lungo la costa ionica a circa 80-100 km al largo di capo Taormina, di un volume stimato di circa 20 km cubi, che si sarebbe staccata dalla scarpata continentale siciliana in seguito al fortissimo movimento tellurico che interessò tutta l’area Calabro-Peloritana. Il corpo della frana scivolando a grandissima velocità lungo gli abissi dello Ionio avrebbe favorito l’attivazione dell’onda di maremoto che una volta formatati si avventò verso le coste calabresi e siciliane. In meno di 5 minuti, secondo le testimonianze dei sopravvissuti raccolte dal geografo vogherese Mario Baratta nel 1910, l’onda colpì per prima l’area attigua alla frana sottomarina, lungo la costa tra Giardini Naxos e Taormina. In seguito il maremoto si diresse verso la costa ionica messinese risalendo da sud, in direzione dello stretto, con una velocità di propagazione elevatissima, non in42

feriore ai 300 km/h (tipico delle onde di tsunami). I litorali posti nella parte meridionale dello stretto furono quelli maggiormente colpiti dalle violente ondate, mentre nella parte nord e su Messina l’onda di marea arrivò già smorzata, con un’altezza di 2-3 metri sopra il livello del mare. Le onde più elevate, fino a 12 metri sul livello del mare, si ebbero nelle piccole insenature la cui concavità è rivolta verso lo stretto, come a capo S. Alessio o a capo Schiso, e le meno elevate nella costa interna di Isolabella (Taormina) e in alcuni punti di Giardini Naxos. Il valore più elevato in tutta la costa siciliana si registrò proprio a capo S. Alessio dove l’onda raggiunse un picco massimo di quasi 12 metri sul livello del mare, radendo al suolo quel che restava del piccolo borgo di pescatori. A Messina furono maggiormente colpiti i numerosi casali della zona sud della città, lungo l’antica via del dromo. Al terrificante maremoto si deve la completa distruzione dei borghi marinari di Cala S. Paolo (l’attuale Briga Marina), Giampilieri, Galati Marina e S. Margherita, dove onde alte fino a 8-9 metri annegarono decine di persone, risucchiando al largo i corpi dei numerosi superstiti del sisma che cercavano un rifugio sicuro nella spiaggia. Su Messina le onda-

te arrivarono circa 10-15 minuti dopo l’evento sismico. Nel porto l’onda arrivò già ulteriormente indebolita dopo aver superato la penisola di S. Ranieri con un’altezza relativamente piccola. Sul litorale nord le altezze poi si ridussero sensibilmente arrivando a misurare pochi centimetri a ridosso di capo Peloro (estremo lembo nord-orientale della Sicilia). Anche nella costa calabra le altezze vanno crescendo man mano che ci avviciniamo allo Ionio. Nella città di Reggio l’onda che penetrò da sud-ovest creò autentici disastri, inabissando fra l’altro l’intera banchina del porto. Nella zona di Pellaro, poco a sud di Reggio, dove probabilmente si raggiunsero i 12 metri d’altezza, si ebbero i maggiori danni e il maremoto fece deragliare persino un treno che in quel momento stava transitando vicino e il riflusso fu talmente forte da trascinare a mare diversi carri.3 I primi soccorsi furono stranieri con l’arrivo delle navi russe, tedesche e inglesi che per prime prestarono aiuto alla popolazione; il giorno seguente, dopo la riunione urgente del Consiglio dei Ministri guidato da Giovanni Giolitti, giunsero i soccorsi italiani. Nell’Archivio di Stato di Reggio Calabria è depositata la documentazione ufficiale tratta dal fondo prefettizio: la proclamazione dello sta-


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to di assedio, i progetti di restauro e piantine della città, la creazione di ospedali e censimento degli edifici da riedificare, le assegnazioni e le revoche delle baracche, l’erogazione di sussidi, la richiesta di soccorsi e le comunicazioni dei vari comuni della provincia al prefetto. Enorme fu l’orrore dell’ancor giovane nazione e grandissimo lo slancio di solidarietà per portare aiuto nelle regioni colpite. Il cordoglio fu immenso in tutto il mondo e fu condiviso dai maggiori intellettuali del Novecento, da Gabriele D’Annunzio ad Alexandrine Emile Zola, da Antonio Fogazzaro a Luigi Capuana, a Grazia Deledda, da Guglielmo Marconi a Hermann Hesse e Claude Debussy. “Il pensiero che in questo momento non troveremmo altro che orrore e morte, ci causa un profondo dolore”, è quello dello scrittore francese Pierre Loti cui risponde lo scrittore e poeta veneto Antonio Fogazzaro: “O viva fiera è la Terra, che trasal e rugge all’Uomo, come leone mal domo, a chi, frustando lo atterra?”. Lo stesso scrittore e giornalista catanese Luigi Capuana descrive l’amara consolazione dei suoi concittadini: “Videro Catania rimasta miracolosamente in piedi e quasi non prestavano fede ai loro occhi (…) Ci par di sognare, e intanto abbiamo paura

di destarci, è orribile!”. Ed ancora da Catania il poeta Mario Rapisardi: “Negli altrui danni il proprio danno oblia. Muion le forme! L’ideal non muore”4. Il 29 dicembre con decreto ministeriale del Presidente del Consiglio dei Ministri viene costituito il Comitato centrale di soccorso, altrove CCS. Faranno parte del comitato importanti membri della Casa Reale, ministri, e tutti i vertici istituzionali e politici, nonché membri di primo piano della Massoneria, fra i quali Ernesto Nathan, sindaco di Roma, che era stato Gran Maestro della Massoneria italiana fino al novembre 1903. Membro del CCS e del Supremo Consiglio del GOI era anche l’onorevole Salvatore Barzilai, quale rappresentante della federazione della stampa. Rocco Santoliquido, deputato liberale e direttore generale della Sanità, faceva invece parte di quella che diventerà presto la Serenissima Gran Loggia d’Italia. Nathan, in accordo con Barzilai,5 propose con successo un’innovazione, cioè di pubblicare le donazioni sulla stampa, allo scopo di promuoverle. Il re, la regina, i ministri Bertolini e Orlando partirono subito per i luoghi del disastro, dove pure si recarono i duchi d’Aosta e di Genova; da ogni parte si organizzarono squadre di soccorso che si uni-

rono alle truppe, ai marinai italiani e ai piccoli equipaggi delle squadre russa, inglese, francese e tedesca che per primi erano accorsi e che furono con malgarbo 43


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congedati al suo arrivo dal generale Mazza6, che tanto si distinse per le sue barbare proposte come quella di “desertificare” Messina con bombardamenti, dinamite o un sudario di calce, che certo avrebbero evitato le epidemie, ma avrebbero anche ucciso i poveri sopravvissuti sotto le rovine7. Proclamato lo stato d’assedio, il generale commissario aveva ordinato che chiunque fosse sorpreso con oggetti non suoi fosse arrestato e tradotto dinanzi al tribunale di guerra, molte furono le fucilazioni dei poveretti che avevano raccattato qualche indumento per coprirsi dal gelo o un pezzo di pane muffito per sfug44

gire ai morsi della fame e che furono barbaramente fucilati. Ancora il 9 gennaio il generale decise che non sarebbe stata più fatta alcuna distribuzione di viveri ai superstiti per obbligarli a lasciare la città e andare a mendicar la vita in un altro paese8. Sull’ “Avanti” del 19 gennaio Tomaso Monicelli scriverà: Il generale Mazza è un uomo terribile. Ha idee semplici e assolute. Fate passare attraverso il suo cervello il concetto della proprietà; ed ecco che acquisterà di per se stessa un valore immanente, esclusivo e assoluto. La proprietà! Sotto le rovine di Messina - Reggio è un po’ dimenticata dal pietismo ufficiale - la proprietà non deve perire. Pereat mundus, tante creature umane in un mostruoso groviglio di carni che imputridiscono e di vivi corpi gementi che tentano furiosamente, disperatamente di liberarsi dalla stretta infernale, ma sopravviva sugli uomini che si sfanno la proprietà, senza nome e senza viso, la Proprietà col p maiuscolo - enorme e gelida e immortale dominatrice delle cose. Il generale Mazza, in virtù dei pieni poteri conferitigli, ordina la sospensione dei salvataggi. Con un tratto di penna, fermamente, tranquillamente, nella certezza di interpretare gli imperscrutabili disegni della natura- o di quel confuso fato che gli uomini chiamano Dio – proclama: – i sepol-

ti sono ben morti, salviamo la proprietà.9 Infinite sono le atrocità perpetrate dal generale ai danni dei profughi, per insipienza, ignoranza, prosopopea: migliaia i sopravvissuti al terremoto morti per fame, freddo e sete e migliaia morti sotto le macerie per ritardi nei soccorsi; solo 15 giorni dopo il terremoto, quando i sepolti erano probabilmente morti tutti quanti, finalmente si vide un minimo di organizzazione. Tutto il mondo fornì prova di solidarietà umana, comitati di soccorso si costituirono in Inghilterra, in Francia, in Germania, in America: denaro e aiuti di ogni tipo giunsero in Italia. L’8 gennaio del 1909 la Camera fu convocata straordinariamente per approvare il disegno di legge presentato dal governo in favore dei danneggiati del terremoto, disegno che stabiliva la somma di 30 milioni per la ricostruzione. Sua Altezza il principe Emanuele Filiberto, duca d’Aosta, dirà con una durezza indegna della tragedia avvenuta che la forma con la quale si soccorrono i profughi ... non sia sempre delle più opportune dal punto di vista morale e civile. Tra i profughi vi sono persone di ogni classe sociale, ma vi abbondano con predominio i lavoratori della terra e gli operai poveri. Si ritiene cosa informata a sani principi l’usare giusta misura nel beneficare, affinché, pure animati dai migliori intendimenti, non si corra il rischio di alimentare in certa guisa, l’ozio e di creare degli spostati […] È immorale mantenere un’orda di vagabondi e creare oziosi; non è demograficamente opportuno spopolare di validi elementi le regioni d’Italia già crudelmente devastate e che abbisognano di braccia, mentre queste poco giovano o, quantomeno, fanno concorrenza agli elementi locali, e in altre regioni.10 Scrive in proposito Francesco Mercadante: A Messina si ebbe un saggio stupendo, inimitabile, da manuale, di tutto ciò che le pubbliche autorità non debbono fare e son tenute anzi a non fare, in presenza di un disastro […] gli emissari del governo […] portano sulla coscienza il peso di omissioni gravissime - migliaia di vite umane abbandonate al loro destino - mentre per far piacere a Giolitti si prodigavano a strappare di sotterra anche con le unghie, e a portare trionfalmente in salvamento la cassaforte della Banca d’Italia. Dinanzi a que-


sto spettacolo, che ebbe per fortuna denunce implacabili, la coscienza della nazione fu assalita da un turbamento angoscioso. Lo Stato italiano, la sua organizzazione istituzionale, le sue classi dirigenti, le sue reali condizioni di efficienza amministrativa apparvero per un momento come in trasparenza, caduti tutti i diaframmi del luogo comune, dell’ipocrisia, e della stessa carità di patria. Lo sbalordimento dell’opinione pubblica non ebbe limiti dinanzi a lunghi giorni passati prima che, buona ultima, la flotta italiana spuntasse sulle acque dello Stretto. Inutile dire, poi delle vette toccate a Messina dalla virtù patria per eccellenza, dall’antagonismo atavico tra tutti corpi, tra tutte le autorità detentrici di pubblici poteri: i militari di terra contro quelli di mare (e reciprocamente), il prefetto esautorato dal generale, il generale in lotta con l’onorevole De Felice o con l’on. Micheli; quest’ultimo, in collaborazione con l’autorità ecclesiastica, “padrone della città” cioè di quel minimo di organismo civico risolto provvidenzialmente per merito suo. Un intricarsi, contrastarsi, elidersi a vicenda di ordini e contrordini che riprodusse ingigantita quell’anarchia, in argine e rimedio alla quale si era istituito un “Comando”, armato di poteri illimitati.11 Scriverà su “Il Mattino” del 3 gennaio 1909 Antonio Scarfoglio: Passano continuamente barelle con vecchi e bambini feriti e moribondi. Vidi un bambino agonizzante e trasportato sopra una tela ed una donna portata su un tavolino rovesciato. Scarseggiano le barelle, i medicinali, i viveri, i soccorsi. La catastrofe di Messina è la più grande disgrazia che abbia funestata l’Italia, sia per numero di morti, che si fanno ascendere a quasi tutta la popolazione, sia per l’isolamento nel quale, rotte le comunicazioni, furono lasciati i superstiti12. Il Governo Giolitti, superato il primo smarrimento e l’estrema inadeguatezza iniziale dei soccorsi, ritenne necessario uno sforzo finanziario straordinario per provvedere in tal senso e altrettanto generose furono le sottoscrizioni, intese alla raccolta di fondi, indette da enti, municipalità, sodalizi, chiesa cattolica e comunità protestanti, militari, massoni, esponenti del Modernismo. Il terremoto del 1908, oltre alle decine di migliaia di vittime, provocò diverse migliaia di orfani,

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forse 5000, ai quali dare assistenza e educazione. In proposito Giorgio Boatti sostiene che dopo le prime settimane ... le cifre verranno ridimensionate anche perché finalmente si possono congiungere nuclei famigliari dispersi, nell’affanno successivo ai primi soccorsi, in località diverse: spesso con i più piccoli, separati dai genitori e incapaci di indicare la famiglia di provenienza13. Il conseguente operato congiunto di Stato e privati, volto alla tutela degli orfani, fu d’inusitata solerzia, mentre le offerte furono addirittura in eccesso. 
Le disponibilità di denaro, i metodi educativi da applicarsi e le nomine dei responsabili dei vari istituti e orfanotrofi furono causa di scontro tra il Patronato Regina Ele-

na, ente appositamente creato, e la Chiesa Cattolica Romana. Per comprendere appieno questa manifesta e reciproca ostilità, occorre rifarsi al clima di permanente conflitto tra laici e cattolici, instauratosi dopo l’occupazione di Roma, nel 1870, col conseguente crollo del potere temporale della Chiesa. In quegli anni, inoltre, lo scontro si era acuito quando, nel 1908, Leonida Bissolati aveva presentato un disegno di legge per l’abolizione dell’insegnamento religioso nelle scuole del Regno. 
Inoltre, la Chiesa romana e i suoi fedeli avevano dovuto subire, con “sgomento e livore14” la nomina a sindaco della città eterna di Ernesto Nathan, ebreo, massone ed esponente di spicco dei “blocchi popolari” di ispirazione democratica. 45


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La rivista dei gesuiti “Civiltà Cattolica” e il quotidiano “L’Osservatore Romano” riportano gli aspri scontri tra la Santa Sede e lo Stato che furono inaspriti anche dal fatto che mentre nelle due Camere venivano esaltate le benemerenze per il soccorso ai terremotati dei vari enti, non veniva pronunciata una parola sull’opera della Chiesa, che pure si stava prodigando. La fonte più accreditata per testimoniare l’azione dei religiosi è una rubrica dal titolo “Il comportamento del clero nelle zone del terremoto” che riportava 46

ne “L’Osservatore Romano” la corrispondenza inviata dalla Sicilia e dalla Calabria al cardinale Merry del Val, Segretario di Stato vaticano, dalla Commissione speciale per il terremoto inviata dal Papa sui luoghi del disastro i primi di gennaio15. Ma non tutto quello che riferivano i corrispondenti dalle zone terremotate era pubblicato, come è possibile verificare con un confronto fra gli articoli pubblicati e i telegrammi e le lettere conservati nell’Archivio Segreto Vaticano. Lo stesso Segretario di Stato sceglieva di volta in volta le notizie. La Chiesa cercava di suscitare una polemica contro lo Stato italiano e insieme contro i giornali socialisti, i protestanti, la Massoneria vera e presunta, per cui, dato il titolo della rubrica, l’inerzia, la neghittosità, i piagnistei di alcuni esponenti del clero erano censurati o modificati. Merry del Val chiedeva ai vescovi di difendere nel mondo, nel modo migliore possibile, il clero ed era necessario edulcorare, per esempio, il comportamento dell’arcivescovo di Messina, Monsignor D’Arrigo, che si preoccupava solo del seminario e faceva perdere tempo ed energie16. Un altro aspetto che era regolarmente taciuto era quello delle deprecabili condizioni igieniche nelle qua-

li versavano i ricoveri religiosi catanesi o i commenti sull’utilità propagandistica degli aiuti offerti dal papa. I contrasti fra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano raggiunsero il loro diapason però per il problema degli orfani. Era viva la consapevolezza da parte del CCS che gli orfani potevano diventare preda di speculazione e si temeva che potessero incrementare la tratta, ancora fiorente in quegli anni, di bambini impiegati all’estero in condizioni di lavoro pressoché di schiavitù oppure inseriti nell’accattonaggio delle principali metropoli europee. Davanti a questi rischi che si aggiungevano all’emergenza quotidiana della sopravvivenza nelle città distrutte, il Comitato comincia a comprendere come si debba pensare a soluzioni a lungo termine. Ernesto Nathan ... fa presente al Comitato un problema gravissimo, quello, cioè, degli orfani, figli delle vittime del disastro, per i quali è necessario, onde evitare la dispersione, che siano messi sotto l’occhio vigile di persone disinteressate al fine di evitare che persone in malafede speculino sulla disgrazia dei medesimi e di dar loro inconveniente collocamento. All’uopo avanza l’idea della costituzione a Roma di una Commissione alla quale sia affidata la cura degli orfani, che non dovrebbero essere consegnati se non a persone che offrano seria garanzia, o agli istituti di beneficenza che hanno fatto offerta di ricovero.17 A Roma nella riunione del CCS dell’11 febbraio si era affrontata la questione degli orfani e si era formato un comitato di dame presieduto da Sua Maestà la Regina. Questo comitato ... aggregherà altri sottocomitati di dame dalla Croce Rossa formati a Napoli e Palermo. L’opera di questo primo comitato colle sue dipendenze sarà diretto al collocamento degli orfani ed a provvedere alle loro prime necessità. Come tutti lor signori sono stati informati è stato poi costituito un Comitato di patronato composto da illustri personalità la cui azione sarà diretta alla sorveglianza e al patrocinio degli orfani. Tale Comitato sarà eretto in ente morale ... Il comm. Stringher direttore generale della Banca d’Italia e membro del sottocomitato esecutivo ha molto gentilmente accettato l’incarico di servire da anello di congiunzione tra il nostro e il comitato che sarà presieduto da S. M. la Regina18. Roma e altre città italiane vedranno nel


frattempo mobilitarsi decine di associazioni femminili spesso patrocinate da gentildonne o da figure prestigiose nella vita sociale e professionale che si battono in difesa di più elementari diritti delle donne soprattutto per combattere lo sfruttamento delle ragazze come serve, come operaie o come prostitute. Nel frattempo vengono accettate offerte da varie istituzioni che desiderano accogliere i numerosi bambini: ... dame, municipalità, esercito, Chiesa cattolica, valdesi, protestanti vari, modernisti, massoni ..., tutti in lotta tra loro per il possesso degli orfani, per le loro anime, il denaro dei sussidi, per poter esercitare il diritto-dovere alla carità e così guadagnare il Paradiso. Le preoccupazioni per i bambini abbandonati, orfani o, comunque, strappati alle famiglie, vaganti per le macerie, a rischio di morte per il freddo, la fame, senza tutela alcuna, viene presentato dalla storiografia come uno dei temi su cui maggiormente si espresse la pietas dei contemporanei19. Riguardo alla protezione dei bambini abbandonati, appena un anno prima il noto medico e senatore massone Malachia De Cristoforis discutendo un disegno di legge, poi decaduto, sull’assistenza agli esposti e all’infanzia abbandonata aveva presentato la richiesta di concedere alle madri dei bambini “esposti” la possibilità di allattare per tre mesi i piccoli, dando loro così qualche possibilità di sopravvivere (la mortalità era quasi del 90%), richiesta alla quale si era opposto Giolitti, sostenendo l’impossibilità di mantenere anche le madri. La presidenza del comitato da cui nasce il Patronato Regina Elena viene affidata alla contessa Gabriella Rasponi Spalletti (1853 - 1931), presidente dal 1903 al 1931 del Consiglio Nazionale delle Donne, vedova, ricchissima, filantropa, di antica nobiltà. Per la prima volta in Italia lo Stato affida a una donna il ruolo ufficiale di tutore dei minorenni. La contessa Spalletti fu tra le più pugnaci femministe dell’epoca e potente più di un uomo di stato; in stretti rapporti con la Regina, pur professando la religione cattolica, era invisa alla chiesa di Roma, la quale vedeva nel Patronato, venutosi a costituire dopo il terremoto, un Ente anticlericale e paramassonico. Nel frattempo giungeva, in contrapposizione al Comitato, nelle zone del disastro l’incarica-

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to della “missione” pontificia Don Luigi Orione che, dopo aver affiancato per tre anni Don Giovanni Bosco, nel 1903 si era visto riconoscere dalla Diocesi di Tortona la “Piccola Opera della Divina Provvidenza”, da lui stesso creata nel 1898. Afferma John Dickie che ... la cura degli orfani poi impone allo Stato un ruolo materno, dalle aspettative materne, che sono insolite e rese particolarmente delicate dalle polemiche clericali contro il ruolo che esponenti della Massoneria, e della cosiddetta “eresia valdese”, avrebbero giocato nella cura e questi bambini20. L’impegno comune della Massoneria e dei protestanti nel salvataggio e nella creazione di orfanotrofi per i bambini era sicuramente dovuto al fatto che il rapporto tra Massoneria e protestantesimo in Italia aveva come elemento comune l’anticlericalismo. La comune opposi-

zione alla politica della Chiesa cattolica nasceva da posizioni di difesa e rientrava in quel fenomeno ricorrente di alleanza tra minoranze nei confronti di un avversario potente. Spesso avveniva che nei piccoli e medi centri le Logge o i massoni influenti, anche senza nutrire un particolare interesse per l’opera degli Evangelici e tanto meno avendo l’intenzione di abbracciare una nuova fede, mettessero a disposizione la loro rete di relazioni per difenderli dagli attacchi del clero locale e con altrettanta frequenza accadeva che in breve tempo chi aveva beneficiato di tale aiuto chiedesse di essere iniziato. Ne sono esempio alcuni potenti massoni come Giuseppe Petroni, Gran Maestro in carica dal 1880 al 1885, affiliato alla Chiesa Battista di Roma e, in seguito, a quella Metodista di Terni, e Adriano Lemmi, una delle più importanti fi47


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gure nella storia della Massoneria italiana, che pur non aderendo a nessuna confessione protestante dette adesione morale e scelse di farsi seppellire nel cimitero evangelico di Firenze. Lo spoletino Luigi Pianciani, sindaco di Roma e alto dignitario massonico, aveva parlato spesso della superiorità della riforma protestante sulla Chiesa cattolica, e sia i massoni legati agli ambienti democratici garibaldini sia i dirigenti delle confessioni protestanti italiane, come la Chiesa Cristiana Libera, la Chiesa Battista, la Chiesa Metodista Wesleyana o l’Episcopale ritenevano che un ridimensionamento del cattolicesimo fosse un requisito per il raggiungimento della piena libertà del popolo italiano. Diversa la posizione della Chiesa valdese la quale si trovò spesso in sintonia con quel settore della Massoneria liberale moderata d’origine cavouriana che rifiutò sempre di condividere gli eccessi anticlericali e le simpatie verso la sinistra della maggioranza libero muratoria.21 La Masso48

neria non si configurò pertanto come un movimento antireligioso e non si oppose alla religione cattolica in quanto tale, ma al conservatorismo e ai pregiudizi espressi dal clero, ritenuti ostacoli al progresso della scienza e della società civile. Questo atteggiamento facilitò il legame tra Protestantesimo e Massoneria, reso più saldo dal rifiuto opposto dai vertici del Grande Oriente d’Italia alla richiesta di sopprimere l’obbligo della credenza in un Ente Supremo22 23. Ma, mentre il patronato intitolato alla regina Elena doveva ancora trovare la sua completa formalizzazione legislativa, dalla parte cattolica c’era una corsa contro il tempo per avocarsi la tutela degli orfani sottraendoli ad iniziative di più vasto respiro.24 Viene mobilitato un transatlantico spagnolo, il Cataluña, su cui - sotto la attenta supervisione del delegato pontificio monsignor Cottafavi - è dato rifugio a centinaia di orfani raccolti nelle diverse località terremotate. L’impiego del Cataluña che imbar-

ca i ragazzi ad ogni approdo e poi riparte immediatamente, rendendosi in qualche modo irraggiungibile dai controlli burocratici e dallo stesso imperio della legge, è funzionale al primo immediato disegno che è quello di sottrarre gli orfani ad altre iniziative del patronato.25 Il piroscafo Cataluña, messo a disposizione del Papa dall’aristocratico spagnolo marchese Brou, era stato inizialmente inviato per caricare i feriti, ma dati gli ostacoli posti in proposito dal governo italiano, Merry Del Val pregava il canonico Cottafavi di andare in Calabria dove sperava che “… si volesse approfittare della generosità del Santo Padre per i feriti…” precisando come in caso contrario si potessero fare imbarcare sul Cataluña i bambini rimasti orfani e soprattutto “le giovani pericolanti dal 15 al 20 anni” da portare a Roma in un istituto messo a disposizione da “un’ottima signora romana 26”. Merry Del Val chiedeva anche al vescovo di Mileto, Giuseppe Morabito, di agevolare il trasporto degli orfani a Roma dove sarebbero stati affidati al Comitato Centrale di soccorso della Gioventù Cattolica Italiana. L’episodio del Cataluña, con le difficoltà governative frapposte “alla carità del Papa” fu il secondo grave episodio dello scontro tra Stato italiano e Santa Sede dopo le accuse per lo scarso apprezzamento dato dal governo italiano al contributo del clero nei soccorsi per il terremoto; in seguito la polemica si sarebbe esasperata nel dibattito tra i giornali cattolici e le testate “L’Avanti” e “La Vita” sul problema dell’origine del terremoto, da giudicare un castigo di Dio, una punizione divina per i peccati degli uomini oppure una cieca forza della natura.27 Numerose erano le iniziative vaticane tese a raccogliere il maggior numero possibile di bambini rimasti orfani nel terremoto da portare a Roma o comunque da collocare in istituti religiosi così che li si potesse assistere sia materialmente e soprattutto spiritualmente dando loro un’educazione cattolica; a don Orione si affiancavano monsignor Cottafavi e l’avvocato Paolo Pericoli, presidente del Comitato di soccorso della Gioventù Cattolica italiana per i danneggiati in Calabria e Sicilia. Si offrì di provvedere agli orfani anche un religioso francese, Il reverendo Santol, direttore di una grande opera con sede in Parigi e che ha lo sco-


po di collocare presso agiate e cattoliche famiglie di francesi fanciulli ambosessi poveri, orfani o abbandonati…28 Santol chiedeva di accogliere 1000 fanciulli dai 7 ai 15 anni, orfani, bambini abbandonati, soprattutto “bambini poveri”. Questi fanciulli avrebbero ricevuto vitto, vestiario, educazione cristiana, scuola e una professione agricola o industriale; ogni mese l’opera avrebbe inviato notizie a parenti o tutori dei bambini. Si garantiva che i giovani di sesso maschile sarebbero stati a disposizione del loro governo per la chiamata di leva. Il Segretario di Stato Merry del Val inviava la proposta di Santol ai vescovi di Messina e Reggio, invitandoli a scegliere i fanciulli da affidare al religioso francese. Questa iniziativa, ampiamente propagandata dalla stampa cattolica, fu fortunatamente frenata da un altro religioso, don Giovanni Genocchi ravennate, uomo di vasta cultura, amico e corrispondente di religiosi cattolici e protestanti che scrisse a Merry del Val di aver ricevuto dai suoi concittadini e amici Conti e Pasolini una lettera affidabilissima su Santol nella quale si affermava che egli dirigeva da lungo tempo a Parigi un’opera infame, nella quale raccoglieva bambini e li collocava in particolare presso gli industriali del vetro che lo sovvenzionavano, pur sapendo che un bambino impiegato nelle vetrerie muore nel corso in un paio d’anni, o addirittura di mesi. Inoltre faceva in modo di acquisire con metodi fraudolenti diritti legali sui bambini. Sappiamo che questa lettera non sarà presa in considerazione dalla Santa Sede, ma fortunatamente il governo italiano che aveva affidato al Patronato Regina Elena la tutela legale degli orfani, impose, con una circolare di Giolitti, l’obbligo di denunciare al patronato tutti bambini presenti nei vari istituti o famiglie, pena la denuncia per sequestro di persona. In un suo rapporto al Ministero degli Esteri, l’ambasciatore a Parigi informava il ministro sulla richiesta che l’abate Santol aveva inviato all’ambasciata per ottenere il trasporto gratuito di 40 orfani del terremoto calabro siculo da accogliere nel suo istituto di Parigi. L’ambasciatore si sentiva in dovere di precisare su come su Santol pesasse l’accusa di speculare sui bambini a lui affidati, come risultava anche dagli archivi della polizia parigina

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che lo accusava di far lavorare” come bestie destinate al macello” gli adolescenti raccolti nella sua agenzia cattolica di collocamento. Il Ministero degli esteri fortunatamente chiariva che gli orfani minori non dovessero uscire dal regno29. Delle accuse contro Santol non ci sono tracce nei documenti vaticani, anzi nelle pubblicazioni di stampo cattolico la sua opera è considerata benefica, in quanto cattolica e utilissima per contrastare l’azione dello Stato italiano considerato colluso con la Massoneria, gli atei, i modernisti e i protestanti. L’itinerario e le operazioni d’imbarco sul Cataluña di don Orione saranno ovviamente notate e susciteranno ampie proteste da parte del fronte anticlericale e delle stesse Autorità costituite che dovevano ottemperare agli obblighi governativi, così il 30 gennaio egli deve restituire alla città di Messina gli orfani che aveva già caricato e che stava già trasferendo verso ignote destinazioni, non ottemperando all’obbligo di restituirli alle città di provenienza. Particolarmente dolorosa la vicenda di Gaetano Salvemini, il famoso storico socialista, che, travolto dal terremoto assieme alla moglie e i 5 figli, riuscì a recuperare i resti degli altri, ma non del più piccolo. Scrive Salvemini a Gentile il 15 gennaio 1909:

Voglio tornare a Messina perché devo cercare sotto le macerie il corpo di quello dei miei bambini, Ugo, di tre anni che non trovai nei giorni passati. Può darsi il caso che sia stato salvato mentre io non ero pre49


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sente e che vada orfano per il mondo. Appena troverò il cadavere mi metterò l’anima in pace. Se non troverò il cadavere lo cercherò vivo per il mondo.30 Non lo troverà e per tutta la vita avrà il dubbio che qualcuno tra i primi soccorritori potesse avere messo in salvo il piccolo e che questi “ancora di età così tenera da non saper pronunciare distintamente il nome di famiglia potesse essere tra gli orfani sparsi per l’Italia”. Salvemini, di fronte al montare della questione degli orfani e allo scambio crescente di sospetti e di accuse tra lo schieramento laico e quello cattolico, scrive al direttore de “L’Avanti”, Leonida Bissolati per chiedergli chi siano e quanti siano i bambini soli al mondo. Aggiunge: ...Il Mezzogiorno d’Italia per risorgere ha bisogno dell’opera di tutti i suoi figli. E i bambini rimasti soli al mondo nell’ulti50

mo disastro, non devono essere scardinati dalla terra che li vide nascere: non devono diventare settentrionali: devono rimanere figli della loro patria infelice e vivere per essa.31 A una settimana di distanza dalla presa di posizione di Salvemini, Giuseppe Toniolo, presidente dell’Unione popolare fra i cattolici d’Italia accuserà il governo di aver mascherato con i soccorsi un “laicismo anti-cristiano e settario…preannunzio di una novella campagna anticlericale preparatrice delle prossime lotte elettorali politiche 32”. Anche il fatto che sessanta orfani fossero stati affidati a un comitato fiorentino di beneficienza di religione valdese inasprì i contrasti. Intanto i cattolici che cercavano di togliere soprattutto i bambini orfani di un solo genitore allo Stato, “qualora si abbia la libera cooperazione del genitore superstite”.33 Utilizzan-

do queste stesse regole si sarebbe tentato di “salvare gli orfani caduti nelle mani dei protestanti”. Con la sua azione il principe Antonio Ruffo, presidente del comitato calabro siculo nato con lo scopo di assicurare educazione cristiana agli orfani del terremoto, era riuscito a riprendere tre orfanelli ricoverati nell’Istituto evangelico di Intra, allora in provincia di Novara nonostante i bambini non volessero assolutamente essere presi dai preti e anzi ne fossero terrorizzati. Anche monsignor Cottafavi, delegato del Papa nelle zone del terremoto, cerca bambini da strappare ai protestanti in particolare a Bova, Palizzi, Brancaleone, Staiti in Calabria dove i protestanti avrebbero preso 27 bambini. Monsignor Cottafavi scrive: “Disgraziatamente essi non sono orfani”, spiegando come fossero stati i genitori a dare ai protestanti i loro figli che offrivano la collocazione gratuita nei collegi e per le fanciulle anche 500 lire di dote all’uscita. “Un vero ricatto - commentava Cottafavi - genitori senza coscienza che, pur di avviare i figlioli agli studi, sono indifferenti a consegnarli ai protestanti e magari al diavolo in persona 34”. Importanti documenti massonici italiani con riferimento a questa tragedia sono conservati presso l’Archivio Storico Nazionale di Salamanca35 dove sono confluiti i documenti massonici sequestrati dai Franchisti e inviati in questa città dove erano selezionati e schedati sistematicamente. Il Segretario del Supremo Consiglio del Rito Scozzese Antico ed Accettato del Grande Oriente d’Italia il giorno 1 gennaio 1909 scrive: ... Potentissimi Illustri e Cari Fratelli:Il Grande Oriente d’Italia, in pieno accordo con noi ha trasmesso a tutte le Potenze Massoniche del mondo una Tavola - circolare, per dar loro comunicazioni ufficiale dell’immane sciagura che ha tanto duramente colpito il nostro paese e di informarle in quanto la Massoneria italiana ha fatto per venire in soccorso delle povere vittime del terribile disastro. Per incarico il Potentissimo Sovrano Gran Commendatore Achille Ballori 33:. in rappresentanza del Sindaco di Roma, trovasi sui luoghi desolati, vi rimetto la suddetta Tavola circolare, alla quale il Supremo Consiglio dei 33:. pienamente si associa. Vogliate gradire, Potentissimi, Illustri e Cari Fratelli, il mio triplice fraterno affettuoso saluto. Il Gran Segretario Cancelliere.


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Anche Saverio Fera dall’Oriente di Roma il 29 dicembre 1908, con balaustra circolare n.27, in italiano, francese e inglese scrive ai Supremi Consigli del Rito Scozzese Antico ed Accettato e a tutte le potenze massoniche regolari e riconosciute

nel mondo: ... I:. e P:. Sovrano Gran Commendatore Illustrissimo e c:. f:. Vi è noto il TERRIBILE CATACLISMA CALABRO SICULO che, nella piena notte del 28 Dicembre corr:. con le ridenti e

prospere città di Messina e di Reggio ha completamente distrutte e rese un mucchio di rovine tanti altri paesi, città e borgate dell’incantevole Stretto dove gli antichi dicevano di veder presso Scilla e Cariddi la “Fata Morgana”. 51


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lentierosi offerte. Compiacetevi di annunziare e, se credete, di raccomandare questa intrapresa. Fate che il nome della FrancoMassoneria sia da tutti benedetto e perpetuato con una Istituzione stabile duratura, altamente civile praticamente benefica. Gradirò ricevere da voi una pronta e immediata risposta - mentre, a nome di tutto il Supremo Consiglio e mio proprio, v’invio con questa il triplice fraterno amplesso, nell’unità e nella tranquillità dei Numeri Sacri. Il Sovrano Gran Commendatore del Supremo Consiglio dei 33:. per la Giurisdizione d’Italia e Colonie Saverio Fera 33:.

Non è il caso di descrivere l’immane irreparabile disastro che ha dato la morte a decine di migliaia di esseri umani mentre placidamente dormivano, - e altre molte migliaia e decine di migliaia ha gettato nel lutto, nello squallore e nella più crudele miseria nei pieni rigori di una stagione che per se stessa è quasi un flagello. Sono intiere famiglie distrutte, sono migliaia e migliaia di orfani e vedove privi di tutto, e che, sbalzati nella più desolante angoscia se non giungono a contarsi, meno ancora essi possono provvedere alla loro esistenza. Nessuna immagine o descrizione può giungere a riprodurre e al vivo il quadro di tanta desolazione. Mi accingo a partire pel luogo del disastro ove fra’ primi è accorso Sua Maestà il Re d’Italia e dove la regina 52

Elena brilla, prima fra tutte, quale “Suora di carità” a sollievo dei moribondi, dei feriti, dei desolati.Il Supremo Consiglio dei 33:., del Rito Scozzese Antico ed Accettato, solo regolare e legale per la giurisdizione d’Italia, che ho l’onore di presiedere, si accinge a raccogliere, quanti più può gli orfani di tanta sciagura e a fondare a Roma un apposito ORFANOTROFIO, sorretto alimentato dalla pietà dalla fratellanza massonica, nazionale e internazionale. Illustre e Potente Sovrano Gran Commendatore, VI rivolgo una particolare preghiera. Nella vostra rispettiva giurisdizione potrebbero esservi fratelli Italiani o oriundi Italiani - potrebbero anche esservi di altra nazionalità - che, con animo generoso fossero disposti a venirci in aiuto con liberali e vo-

L’Obbedienza di Fera stanzierà per le province di Messina e Reggio Calabria 80.000 lire ripartite nel bilancio di 6 anni 36.Il 29 maggio 1909 Saverio Fera scrivendo al Sovrano Gran Commendatore del Supremo Consiglio dei 33:. per la giurisdizione della Spagna, José Moreira Espinosa, accenna a “un esteso lavoro che ha nelle mani il nostro Supremo Consiglio per aiutare gli studenti delle contrade (Reggio-Messina) danneggiate dall’immane disastro del terremoto37”.Nella balaustra del giorno 1 dicembre 1909 all’Ordine del giorno punto 14 si legge: “Rapporto sugli aiuti prestati e sulle opere iniziate dal Supremo Consiglio a sollievo del disastro calabro siculo 28 dicembre 190838.” Lo spaventoso dramma si riflette anche nella satira dell’epoca: mentre la rivista socialista, filomassonica e anticlericale “L’Asino”, nata nel 1902 e illustrata dal grande Gabrie-


le Galantara (Rata Langa), manda laici messaggi di buonsenso (ma anche attacca pesantemente la Chiesa e i preti, che assumono il carattere della maschera della commedia dell’arte con in sé tutti i vizi capitali, con preferenza per lussuria, avarizia e gola). La rivista satirica “Il Mulo”, nata nel 1907 per controbattere la prima, d’ispirazione cattolica, antisocialista e antimassonica, diretta da Rocca d’Adria (Cesare Algranati), ci illustra nelle sue vignette la violenza dei contrasti tra Stato, visto come filomassonico, e Chiesa a proposito del problema degli orfani. I toni sono forti, evidente l’odio cieco ed inquisitorio per “massoni, ebrei e protestanti”, visti come coloro che minacciano il predominio esclusivo del clero sulla famiglia italiana. Nonostante gli attriti, la vicenda, lungi dallo sfociare in una “guerra di religione” troverà una soluzione pacifica. Gli orfani sbarcati a Messina dal Cataluña per disposizione del generale Mazza verranno nuovamente affidati a don Orione dal Patronato Regina Elena assieme all’incarico di costituire un sottocomitato messinese col compito di ricercare, raccogliere e identificare gli orfani del terremoto che ancora possono trovarsi nella città. Dietro questa vicenda probabilmente si inserisce la decisione di Pio X calata nel contesto che vede gli orfani affidati al Patronato presieduto dalla contessa Spalletti. Si dice che preoccupato per l’educazione di tanti poveri fanciulli, consegnati in tali mani, affidò a don Orione l’incarico di provvedere ad una loro più sicura sistemazione, non usando diplomazia nelle forti e decise parole: “Ti farai due volte il segno della croce e poi vai dalla Spalletti e vedi di portarle via tutti gli orfani”.39 Don Orione e Gabriella Rasponi Spalletti simpatizzarono subito e tra i due, generalmente in sintonia nelle scelte gerarchiche e amministrative, nacque, a dispetto di Pio X, una solida amicizia della quale è testimone il fitto epistolario, oltre all’assidua presenza di Don Orione nei vasti possedimenti della Spalletti, gradito e apprezzato ospite. 
Il sacerdote le fu vicino, assistendola anche spiritualmente, fino alla morte, nel 1931. _______________

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in M.C. Dentoni, Il terremoto…cit., nota 21. 17 G. Boatti, La terra…cit., p. 238.

civescovo di Palermo, 4 gennaio 1909, n. 34594 in M. C. Dentoni, Il terremoto …cit., p. 587, nota 61.

18 ACS, Ministero degli Interni, CCS 1908, busta 2, fascicolo 1 D-3, Verbali. Riunione del 11 gennaio 1909. In G. Boatti, La terra…cit., nota 12, p. 391.

29 M. C. Dentoni, Il terremoto …cit., pp. 596-598.

19 M.C. Dentoni, I miserrimi…, cit., p. 179.

32 Ivi, p. 249.

20 J. Dickie, La “pietas sovrana” nella costruzione dell’identità nazionale, in “Il disastro è immenso e molto più grande di quanto si possa immaginare” a c. di L. Caminiti, Roma 2010, p. 36. 21 M. Novarino, Massoneria e protestantesimo, in La Massoneria. Annali della Storia d’Italia, XXI, Torino 2006, pp. 269-270.

30 G. Boatti, La terra… cit., pag. 247, nota 21. 31 Ivi, pp. 247-248. 33 M. C. Dentoni, Il terremoto …cit., p. 602, nota 107. 34 Ivi, pp.603-604, note112-116. 35 Archivio Histórico Nacional “Sección Guerra Civil”- Salamanca - (Spagna), (AHNS)-Masonería italiana- Legajao N. 245-A-1/2. 36 L. Pruneti, Annales, Roma 2013, pag. 47.

22 Ivi, p. 271.

37 Archivio Histórico…cit.

23 Importanti nella nascita e nel consolidamento della Gran Loggia d’Italia furono proprio i massoni pastori protestanti Saverio Fera, William Burgess e Teofilo Gay, e grazie alle loro relazioni estere essi ottennero il riconoscimento per la Gran Loggia d’Italia dei principali Supremi Consigli del Rito Scozzese Antico e Accettato del mondo.

38 idem 39 A. Lanza, Don Orione e la Contessa Spalletti, Messaggi di Don Orione, 2000, n. 1000 in G. Boatti, La terra… cit., pag. 251.

24 G. Boatti, La terra… cit., p. 245. 25 Ivi, p. 245-246. 26 M. C. Dentoni, Il terremoto …cit., p. 585. 27 Ivi, p. 586, nota 57. 28 ASV, anno 1909, Rubrica 36, fasc. 1, Cardinale Merry del Val a Mons. Vescovo di Mileto e Card. Ar-

P.40/55: Documenti massonici, antimassonici e foto d’epoca del 1908 relative al sisma (per alcune si veda il testo); p.43: Enrico Nathan, Gran Maestro e Sindaco di Roma; p.44: Il generale Mazza.

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Massoni...

Generale Roberto Bencivenga Antonino Zarcone

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... in uniforme

R

oberto Bencivenga nasce a Roma il 2 ottobre 1872 da Zenobio e da Luigia Giordani. Allievo del Collegio Militare di Roma dal 1 ottobre 1895 poi dell’Accademia Militare di Torino dal 19 ottobre 1890 è nominato Sottotenente di Artiglieria il 4 settembre 1893. Assegnato alla Scuola di Applicazione di Artiglieria e Genio di Torino per il prosieguo del corso formativo è promosso Tenente il 1 settembre 1895 ed assegnato al 13° Reggimento di Artiglieria. Trasferito alla 7a Brigata di Artiglieria da Fortezza è Comandato alla Scuola di Guerra di Torino dal 31 ottobre 1901. Concluso con successo il corso, il 9 ottobre 1902 è trasferito al 1° Reggimento di Artiglieria da Fortezza, quindi dal 25 agosto 1904 al 3° Reggimento di Artiglieria da Campagna. Assegnato al Comando del Corpo di Stato Maggiore dal 1 settembre 1904, il 4 maggio successivo è inviato in servizio di Stato Maggiore al Comando della Divisione Militare di Roma. Promosso Capitano il 1 aprile 1906 è trasferito all’11° Reggimento di Artiglieria da Campagna per il periodo di comando di batteria. Terminato l’obbligo dovuto al grado, dal 2 aprile 1908 è comandato in servizio di Stato Maggiore quale Addetto al Comando del Corpo di Stato Maggiore. In tale incarico partecipa alle Operazioni di Soccorso alle popolazioni colpite dal terremoto Calabro - siculo del 28 dicembre 1908, per cui è autorizzato a fregiarsi della Medaglia Commemorati-

va. Addetto al Comando della Divisione Militare di Palermo dal 18 marzo 1909, il 5 giugno 1910 riceve un encomio solenne, poi commutato in Medaglia d’Argento di Benemerenza il 27 maggio 1911. Per la competenza riceve l’incarico d’insegnante aggiunto alla Scuola di Guerra di Torino dal 1 settembre 1910. Nell’ottobre dell’anno successivo lascia l’incarico perché inviato in Libia quale Addetto al Comando del Corpo di Spedizione venendo decorato di Medaglia di Bronzo al Valore Militare perché “sotto il fuoco di artiglieria e di fucileria nemica, con grande slancio ed energia portava diver-

se volte ordini ed avvisi ai comandi in sott’ordine, dando prova manifesta di molto coraggio e noncuranza del pericolo. Aim Zara, 4 novembre 1911” e successivamente della Medaglia d’Argento al Valore Militare “Per l’intelligenza e l’arditezza dimostrate nella ricognizione delle posizioni occupate dai reparti impegnati nel combattimento del 6 novembre 191 e per l’energia spiegata nel riordinare e condurre al fuoco una compagnia del 118° Reggimento di Fanteria nel combattimento dell’8 novembre 1911. Hamidié, 6 dicembre 1911 - Sciara Sciat, 8 novembre 1911”. 57


Massoni...

Rimpatriato il 27 settembre 1912 è assegnato alla Scuola di Guerra di Torino. Addetto al Comando del Corpo di Stato Maggiore dal 5 dicembre 1912. Probabilmente in questi anni viene iniziato libero muratore all’obbedienza del Grande Oriente d’Italia. Promosso Maggiore l’11 febbraio 1915 è trasferito al 33° Reggimento di Artiglieria da Campagna dall’11 febbraio 1915 per espletare gli obblighi di comando. Assegnato al Comando del Corpo di Stato Maggiore dall’11 febbraio 1915, viene mobilita58

to per le esigenze connesse con la Prima Guerra mondiale ed inviato in territorio dichiarato Zona di Guerra dal 23 maggio 1915, dove rimane sino al 4 novembre 1918. Promosso Tenente Colonnello il 31 ottobre 1915. Nel periodo trascorso presso il Comando Supremo è decorato della Croce di Cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia: “Ufficiale di stato Maggiore, fra i più eletti, diede pieno contributo agli studi preparatori della guerra; addetto al Comando Supremo dall’inizio della campagna e dal novembre 1915

capo della segreteria del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, ebbe parte importantissima e benemerita nel concretare e nell’attuare i disegni del Comando. In tutte le circostanze confermò ampiamente di possedere le più elevate doti di mente e di carattere e ogni sua energia fattiva dedicò, con fervida fede e con inalterata serenità d’animo, alla migliore riuscita del piano delle operazioni. Collaboratore devoto ed appassionato del Comando Supremo, la sua opera è stata particolarmente efficace ed apprezzata nel periodo di tempo in cui il nemico tentò l’offensiva del Trentino ed in cui si svolsero le nostre vittoriose azioni sul fronte Giulia. Maggio 1915 - novembre 1916” e promosso Colonnello per Merito di Guerra il 3 settembre 1916. Incaricato delle funzioni del grado superiore per Merito di Guerra il 27 maggio 1917. Nonostante il buon comportamento al fronte entra in disaccordo e critica pubblicamente il generale Cadorna, che peraltro non gli è favorevole per la sua nota appartenenza alla Massoneria, per cui è allontanato dal Comando Supremo. Comandante della Brigata “Aosta” dal 1 novembre 1917 dopo poco è decorato della Medaglia d’Argento al Valore Militare perché: “teneva, contro soverchiante nemico, per più giorni di seguito, il Col della Beretta tra il 22 ed il 26 novembre 1917”. Promosso Brigadiere Generale il 20 giugno 1918. Durante la battaglia finale di Vittorio Veneto è decorato della Croce di Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia: “Con razionale concezione dell’operazione e con sapiente preparazione d’animi e di mezzi portava la sua


... in uniforme

Brigata alla conquista brillante e rapida delle importanti ed aspre posizioni nemiche di Monte Valderoa, saldamente mantenendola contro gli accanitissimi, reiterati sforzi dell’avversario. Nominato Comandante del settore Solaroli Vaderoa fronteggiava una difficile situazione con chiarezza di vedute, con serenità, con ardore, lanciandosi successivamente con la sua brigata a vigoroso ed implacabile inseguimento del nemico in rotta. Valderol (Grappa), 24 - 31 ottobre 1918”. Capo della Missione Militare Italiana a Berlino nel 1919. Terminata la guerra è collocato in ausiliaria speciale a domanda a partire dal 10 luglio 1920. Negli anni successivi è apprezzato quale storico ed autore di libri di storia militare. Il 22 luglio 1923 assume il grado di Generale di Brigata con decorrenza dal 1 febbraio 1923. Antifascista, viene eletto Deputato per la XXVII legislatura del Regno (1921/1924). Aventiniano, è dichiarato decaduto da parlamentare e il 14 ottobre 1926 è collocato a riposo per motivi disciplinari poi, il 4 dicembre 1927, è sospeso dal grado a tempo indeterminato. Condannato al confino per cinque anni nell’isola di Ponza, è tra i componenti della Loggia “Carlo Pisacane”, fondata

dal Gran Maestro Domizio Torrigiani e da Placido Martini, che ne diviene il Maestro Venerabile, anch’essi tra i reclusi. Dopo la caduta del fascismo costituisce un gruppo massonico di “reggenza “ in Sicilia e poi partecipa alla guerra di liberazione come Presidente della Giunta Regionale del Lazio del Comitato di Liberazione Nazionale ed è decorato della Legione al Merito statunitense e di Medaglia d’Argento al Valore Militare perché “Dirigeva con elevata capacità organizzativa e cosciente senso di responsabilità la rete informativa ed il movimento patriota della zona romana, preparando uomini e mezzi alla resistenza ed alla riscossa contro i tedeschi e fascisti. Con opera assidua e sagace tempestività, eludendo l’accanita vigilanza avversaria, forniva, spesso con grave rischio personale, al Comando Supremo Italiano ed alleato preziose informazioni operative. Manteneva viva e fattiva l’agitazione dei patrioti italiani, ravvivando in tutti con la sua presenza animatrice, la più fiera volontà di resistenza e di rinascita. Roma, marzo - maggio 1944”. Dopo la liberazione di Roma regge per pochi giorni il Comune di Roma. Segnalato tra i protagonisti della rinascita della Libera

Muratoria in Italia con il gruppo di via della Mercede. Collocato nella riserva il 22 febbraio 1946 è promosso Generale di Divisione il 22 febbraio 1946 e Generale di Corpo d’Armata il 19 settembre 1946. Consultore Nazionale viene eletto alla Costituente con il Blocco Nazionale della Libertà, di cui è il presidente del gruppo parlamentare, successivamente aderisce al Fronte dell’Uomo Qualunque e passa quindi al gruppo Fronte Liberale Democratico dell’Uomo Qualunque. Nominato Senatore di diritto per la I Legislatura repubblicana muore a Roma il 23 ottobre 1949. È decorato anche di Medaglia Commemorativa della guerra Italo-Turca 1911-1912, Medaglia Commemorativa Nazionale della guerra 1915/18 con la fascetta per gli anni 1915, 1916, 1917 e 1918, Medaglia Inter - alleata della Vittoria, Medaglia a ricordo dell’Unità d’Italia, Croce al Merito di Guerra, Croce di Commendatore dell’Ordine della Corona d’Italia, Croce di Ufficiale dell’Ordine dei SS Maurizio e Lazzaro e Croce d’Oro per Anzianità di Servizio. P.56: 1911, il tricolore sventola su Tripoli; p.57: Il generale R.Bencivenga e una cartolina d’epoca; p.58: I Guerra Mondiale, il Generale Cadorna e Bencivenga in una rara foto; p.59: Una pagina del foglio ‘L’uomo qualunque’.

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La Corte Europea dei diritti dell’Uomo e le libertà di associazione

Principio di legalità e riserva di legge Ivan Iurlo

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L’

argomento in commento è posto alla dovuta attenzione del lettore per chiarire quelle peculiarità giuridiche che riguardano il concetto di prevedibilità della legge quale requisito necessario per le restrizioni ai diritti fondamentali tutelati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e tentare un’analisi obiettiva al mero fine di rivalutare l’impostazione tradizionale della questione relativa alla responsabilità disciplinare dei magistrati per affiliazione alla Massoneria. L’art. 11 della Convenzione prevede che l’esercizio del diritto di riunione e di associazione non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale e alla protezione dei diritti e delle altrui libertà1.

Il principio di legalità è sancito espressamente dall’art. 7 Conv. per le fattispecie penali. Si osserva, tuttavia, che esso trova una propria collocazione in differenti settori disciplinari che dalla legalità giungono alla detenzione (art. 5) per proseguire verso il tortuoso percorso che apre al giusto processo (art. 6) e terminare alle libertà (artt. 8-11). Si deduce che il principio posto dall’art. 7 Conv. è una solida base di ogni Stato di diritto e la sua specificità concerne criteri molto più elaborati relativamente alla eventuale retroattività della legge. Per quanto riguarda il potere disciplinare, peraltro, va segnalato che la Corte europea estende quelle garanzie previste in ambito penale ex art. 6 Conv., e rilevante è l’interpretazione da conferire all’art. 7 Conv. a proposito dell’applicazione del sistema anglosassone. La giurisprudenza della Corte, infatti, prende in esame il concetto di legalità in senso materiale; di qui la Commissione europea ha ritenuto che non solo le rego-

le della legge scritta ma anche quelle della Common law possono costituire una base legale idonea per limitare i diritti fondamentali secondo quelle clausole derogatorie previste dall’art. 10 Conv. Si sottolinei come la Corte per conferire al diritto non scritto il carattere della legge si basi sul doppio criterio della prevedibilità e della accessibilità delle norme applicabili al cittadino2. La nozione di prevedibilità della legge, così come individuata a proposito di estensione dell’art. 7 alle leggi non scritte, viene richiamata anche nella interpretazione delle restrizioni alle libertà sancite dagli artt. 8 e 11 della Convenzione. Proprio relativamente alla limitazione di uno dei diritti tutelati dalla Convenzione, la Corte, riprendendo il concetto di legge in senso materiale, ha avuto modo di precisare che la nozione di legge deve essere intesa nella sua accezione ‘materiale’ e non ‘formale’3. La base del diritto, peraltro, può essere 61


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caratterizzata da una certa vaghezza in quanto esperienza dimostra che è impossibile raggiungere un’assoluta precisione nella formulazione delle leggi, particolarmente in ambiti nei quali esse mutano in funzione dell’evoluzione che la società vive. Relativamente alla sussistenza di una base legale, è stato affermato come spetti ai giudici dei singoli Stati questa valutazione. Tuttavia, progressivamente, si è ritenuto chiarire come questa base debba avere certe qualità. Il concetto di prevedibilità va rapportato alle qualità soggettive della persona alla quale è rivolta la norma. La Corte, sul punto, ha avuto modo di precisare, infatti, che la nozione di pre62

vedibilità dipende in larga misura dal contenuto della disposizione del testo in questione, dall’ambito disciplinato e dal numero e dalle qualità dei destinatari ... la prevedibilità della legge non contrasta con il fatto che la persona alla quale è rivolta sia indotta a ricorrere a pareri per valutare, a un livello ragionevole nelle circostanze del caso, le conseguenze che possano derivare da un determinato atto ... ciò vale in particolare per i professionisti, abituati a dover far prova di una grande prudenza nell’esercizio del loro mestiere4. E quanto a prevedibilità la Corte più volte ha dovuto valutare la compatibilità con l’art. 11 della sanzione irrogata a quel magistrato a causa dell’appartenen-

za dello stesso ad una loggia massonica. Le questioni relative alla natura di fattispecie aperta dell’art. 18 R.D.L. n. 511/1946 sono state a lungo discusse da dottrina e giurisprudenza. Con particolare riguardo ai rapporti tra principio di legalità, riserva di legge ed atipicità della previsione normativa, sono scaturiti tre diversi orientamenti. Il primo è dedotto dalla lettura del testo della Costituzione che contiene la riserva di legge di cui all’art. 108 Cost. riferita, essa, all’intera materia dell’ordinamento giudiziario e ulteriore riserva di legge di cui all’art. 107 Cost. che vieta la dispensa e la sospensione dei magistrati, nonchè la destinazione ad altre sedi o funzioni se non per decisione del C.S.M. adottata per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall’ordinamento giudiziario, sancendo, quindi, il generale principio della inamovibilità degli appartenenti alla magistratura5. Da quest’ultima affermazione discende il divieto di comminare sanzioni al di fuori dei motivi previsti dalla legge sull’ordinamento giudiziario, e ciò perchè l’art. 107 Cost. viene ritenuto applicabile a quelle ipotesi di responsabilità disciplinare che comportino provvedimenti incidenti sulla stabilità nella sede o nelle funzioni. Di qui, il divieto di erogare sanzioni al di fuori dei motivi previsti dalla legge sull’ordinamento giudiziario equivale al divieto di fondare i provvedimenti disciplinari su motivi diversi da quelli che la suddetta legge prevede. L’art. 107 comma 1, Cost. è stato inteso come espressione del principio di legalità in senso sostanziale. Il secondo spunto riflessivo si è ricavato dalla lettura dell’art. 18 R.D.L. n. 511/1946, il quale, contenendo un semplice e generico riferimento alla violazione dei doveri ed alla lesione della fiducia e della considerazione, nonchè del prestigio del magistrato e della magistratura, costituisce una formula di rinvio alle determinazioni concrete, operate dal titolare della potestà disciplinare. Le fattispecie disciplinari relative ai magistrati sono soggette ad una necessaria tipicizzazione, essendo imposto, non dalla riserva di legge di cui all’art. 25 Cost. ma dall’art. 107, 1° comma Cost. Disposizione, questa, che si riferisce unicamente a quelle ipotesi di responsabi-


lità disciplinare che determinano provvedimenti tali da intaccare le garanzie della inamovibilità; ove le sanzioni abbiano conseguenze di tipo diverso può ammettersi che tale codificazione non sia necessaria e che possa riconoscersi un ambito di libera autodeterminazione al Consiglio in ordine alla configurazione degli illeciti disciplinari meno gravi o comunque non incidenti sulla inamovibilità. La terza affermazione, infine, ritorna criticamente sulle prime due per valutare le questioni che porrebbe la codificazione dei doveri disciplinari. Si è sottolineato, in proposito, che la mancanza di tipizzazioni costituisce una necessità intrinseca all’ordine di interessi sotteso alla normativa del settore e ciò perchè è necessario ed imprescindibile che qualunque comportamento sia potenzialmente oggetto di sindacato in sede disciplinare, quando sussista il pericolo che l’ambiente sociale sia sollecitato a reagire negativamente6. Ma se, da un lato, viene pienamente riconosciuto che in mancanza di espresse disposizioni costituzionali che consentano limitazioni per categorie di cittadini i diritti di libertà costituzionalmente garantiti non possono trovare compressione ad opera della legge ordinaria, contra vengono sottolineati i limiti di codificazione. Questa articolata architettura dei rapporti tra principio di legalità ed atipicità degli illeciti disciplinari dei magistrati è stata con il tempo oggetto di alcune semplificazioni e generalizzazioni che hanno generato quella versione, a tratti scarna e convenzionale, cristallizzata nella giurisprudenza dominante e poi corretta dall’orientamento assunto dalla Corte europea. Invero, la sentenza con cui la Corte costituzionale, investita della questione circa l’illegittimità del difetto di tipicità, aveva ritenuto che l’art. 18 R.D.L. n. 511/1946 non si ponesse in contrasto con il principio di legaalità era legata all’argomentazione giuridica che assumeva a riferimento quella specifica nozione del principio di legalità secondo cui esso si situa non soltanto con la rigorosa e tassativa descrizione di una fattispecie ma, in talune ipotesi, con l’uso di espressioni sufficienti per individuare con chiarez-

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za il precetto e per giudicare se una determinata condotta l’abbia o meno violata, e dalla contestuale circostanza di fatto per cui la riserva di legge di cui all’art. 107, 1° comma Cost. non costituiva parametro del giudizio nella questione sottoposta alla Corte. Da queste peculiarità è derivato il parziale affievolimento delle articolazioni dottrinali a confermare l’alveo in cui si è alimentata l’impostazione convenzionale che presenta la generica previsione delle norme sull’ordinamento giudiziario come idonea a soddisfare tanto le esigenze della previa legge quanto quelle del principio di legalità in senso sostanziale, ma in realtà essa soddisfa esclusivamente quella nozione di principio di legalità ottenuta attraverso una chiara torsione, sovrapponendo la riserva relativa di legge al requisito della base legale. Il limite maggiore di queste semplificazioni si è mostrato nella mancanza di una genuina ricerca di nuove soluzioni, con lo scontato risultato di un’apertura verso una stratificazione interpretativa a volte priva di distinzioni. Ed infatti, in questo senso, la giurisprudenza di legittimità ha spesso enfatizzato il carattere di norma aperta dell’art. 18 D.L. n. 511/1946, per ricavarne la spettanza al giudice di merito di un ampio potere di individuazione concreta delle condotte sanzionabili, espressione del generale e necessario compito di adattamento della fattispecie legale al caso concreto, e riconoscendo per conseguenza l’insindacabilità del relativo giudizio. Allo stesso modo, le proposte di riforma della responsabilità dei magistrati e le osservazioni dottrinali ad esse afferenti si sono progressivamente distaccate dal

modello focalizzato sulle ricostruzioni degli istituti secondo il dettato costituzionale, avvicinandosi alla limitata correzione di quei profili più frequentemente soggetti a controversie interpretative. L’idoneità dell’art. 18 Conv. e la sua generale compatibilità con il principio di legalità che si è diffusa ha portato a riflessioni critiche su questi temi, poi progressivamente cadute nell’oblio. Non è da escludere, poi, la posizione assunta dalla giurisprudenza comunitaria secondo cui l’art. 18 Conv. non definisce se e in qual misura un magistrato possa esercitare il diritto di associazione. D’altro canto, quando la Corte costituzionale aveva riconosciuto la legittimità dell’art. 18 Conv.; a tale disposizione era conferito un contenuto del tutto generale. Si pone in discussione la direttiva del 14 luglio 1993 a firma del Consiglio Superiore della Magistratura adottata dopo il grande dibattito che in Italia si era tenuto negli anni Ottanta. D’altro canto il documento chiarisce che la legge proibisce ai magistrati di partecipare alle associazioni proibite dalla Legge n. 17 del 1982. Per quanto riguarda altre associazioni, contiene il successivo passaggio, il Consiglio Superiore della Magistratura ritiene di dover segnalare al Ministero della Giustizia la necessità di studiare l’opportunità di proporre eventuali limitazioni al diritto d’associazione dei magistrati che facciano riferimento a tutte le associazioni che – per il tipo di scopo o di organizzazione – comportino per i membri legami di gerarchia e solidarietà particolarmente vincolanti7. Nella storica sentenza Maestri, la Grande Camera della Corte conferma gli ar63


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gomenti in favore dell’accertamento di una violazione da parte dello Stato italiano del diritto alla libertà di associazione di un magistrato, sanzionato disciplinarmente per la sua appartenenza alla Massoneria nel periodo precedente all’adozione della direttiva di cui sopra, e che chiarisce l’incompatibilità dell’affiliazione alla Massoneria con l’esercizio della professione di magistrato. Il caso Maestri trae origine da una sanzione disciplinare inflitta ad un magistrato per la sua affiliazione alla Massoneria dal 1981 al 1993. Innanzi la Corte di Strasburgo il ricorrente aveva originariamente invocato gli artt. 9, 10, 11 Conv, facendo valere che la sanzione disciplinare aveva violato il suo diritto alla libertà di pensiero, di espressione e associazione. La Corte ha deciso di esaminare il caso unicamente sotto il profilo del diritto alla libertà di associazione. In tale ottica, seguendo l’approccio usuale adottato nell’analisi di ricorsi a cui sono ritenuti applicabili gli artt. 8, 9, 10, 11 Conv., è stato esaminato in primo luogo se la misura contestata costituisse un’interferenza nell’esercizio del diritto di associazione del ricorrente, giungendo, poi, ad una conclusione affermativa non contestata dal Governo italiano. Il sistema convenzionale esige che le restrizioni all’esercizio dei diritti previsti dagli artt. 8, 9, 10 e 11 Conv. siano previste dalla legge. Un’ampia giurisprudenza ha fornito una solida interpretazione di tale espressione: qualsiasi restrizione 64

deve avere prima di tutto una base legale nel diritto interno dello Stato. In secondo luogo la base legale nazionale deve soddisfare due criteri qualitativi: l’accessibilità e la prevedibilità. Nel caso Maestri il ricorrente ha sostenuto che all’epoca in cui era associato alla Massoneria la legge italiana non proibiva l’affiliazione di un magistrato a suddetta associazione e che l’art. 18 R.D.L n. 511 del 1946 fosse da intendersi obsoleto con un ruolo puramente formale ai fini della determinazione delle condotte dei magistrati sanzionabili disciplinarmente. Per essere compatibile con la Convenzione, la restrizione al diritto previsto dall’art.11 deve, innanzitutto, essere prévue par la loi. Sul punto, la Corte europea ha avuto modo di precisare che la base di diritto interna può essere caratterizzata da una certa vaghezza in quanto esperienza dimostra che è impossibile raggiungere un’assoluta precisione nella formulazione delle leggi, particolarmente in ambiti nei quali le cose cambiano in funzione dell’evoluzione delle concezioni della società, per cui, proprio per evitare una rigidità eccessiva e l’adattamento ai cambiamenti le leggi possono servirsi di formule più o meno floues8. Profili giuridici differenti concernono le violazioni dei diritti di libertà di associazione derivanti dall’applicazione di una legge regionale che, in taluni casi, esigeva da tutti i candidati a cariche pubbliche una formale dichiarazione di non

appartenenza ad una loggia massonica. Sul punto la Corte europea ha pronunciato diversi orientamenti che hanno chiarito quali le violazioni dell’art.11 Conv. e quali gli obblighi giuridici ex art. 46 Conv. a carico degli Stati convenuti. Come la Corte ha costantemente dichiarato, l’art. 14 Conv. completa le altre clausole normative della Convenzione e dei Protocolli. Esso non gode di una propria indipendenza poichè vale unicamente per il godimento dei diritti e libertà disciplinate dall’ordinamento giuridico. Certamente può assumere un ruolo anche al di fuori di una precisa violazione delle esigenze ed, in tal misura, possiede una portata autonoma, ma non viene applicato se ai fatti della controversia non è applicata una delle suddette clausole. La Corte chiarisce che, tenuto conto delle ripercussioni negative che l’obbligo di dichiarare l’appartenenza ad una loggia massonica potrebbe avere sull’immagine e la vita associativa del candidato alla funzione pubblica, quest’ultimo può pretendersi vittima di una violazione dell’art. 11 Conv.; conclusione che implica una evidente interferenza nel diritto alla libertà d’associazione. Orientamento, quest’ultimo, che non pare allinearsi con i più recenti princìpi legislativi varati dallo Stato italiano. In particolare, il D.P.R. 16 aprile 2013, n. 62 “Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’articolo 54 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, all’art. 5 comma 1, prevede che “nel rispetto della disciplina vigente del diritto di associazione, il dipendente comunica tempestivamente al responsabile dell’ufficio di appartenenza la propria adesione o appartenenza ad associazioni od organizzazioni, a prescindere dal loro carattere riservato o meno, i cui ambiti di interessi possano interferire con lo svolgimento dell’attività dell’ufficio. Il presente comma non si applica all’adesione a partiti politici o a sindacati9. Ci pare, inoltre, di non dover omettere che nell’ambito della esecuzione di una sentenza in applicazione dell’art. 46 Conv., la decisione che constata una violazione, comporta l’obbligo giuridico per lo Stato convenuto di porre fine alla violazione stessa e rimuovere le conseguen-


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ze perchè sia ristabilita la situazione precedente. Se il diritto nazionale non permette di rimuovere le conseguenze della violazione, l’art. 41 abilita la Corte ad accordare alla parte lesa, se del caso, la soddisfazione che ritiene appropriata. Ne deriva in particolare che lo Stato convenuto riconosciuto responsabile di una violazione della Convenzione o dei Protocolli è chiamato non solo a versare agli interessati le somme attribuite a titolo di equa soddisfazione ma anche a scegliere, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, le misure generali o individuali da adottare nell’ordinamento giuridico interno per definire la violazione constatata dalla Corte e rimuovere per quanto possibile le conseguenze. Dall’art.1 Conv., risulta chiaramente che, ratificando la Convenzione, gli Stati di impegnano a fare in modo che il diritto interno sia compatibile con essa. Ogni Stato deve impiegare mezzi idonei perchè siano adeguatamente rimosse le conseguenze del danno relativo alla discriminazione patìta dalla persona lesa, contraria ai princìpi ispiratori dalla Convenzione.

Note:

dell’uomo tra continuità e riforma, in Riv. Internaz. Diritti dell’Uomo, 1999, 704.

1 De Salvia, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo: procedure e contenuti, Napoli, 1999; Bertoli, Conforti, Raimondi, Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2001.

5 Cfr. Carcano, Il consiglio superiore della magistratura e la Massoneria, pp. 2885 e ss., ed inoltre Zagrebelsky, La responsabilità disciplinare dei magistrati. Considerazioni su alcuni aspetti generali, in Riv. Dir. Proc. 1975, p. 416.

2 Rolland, Article 7, in Decaux, Imbert (a cura di) La Convention europèenne des droits de l’homme, p. 293. 3 Secondo la nozione conosciuta come principio di legalità in senso formale, esso esige che ogni atto dei pubblici poteri sia positivamente fondato sulla legge, ossia dalla legge espressamente autorizzato. Cfr. Guastini, voce legalità, in Digesto Pubbl., IX, Torino, 1994, 88. 4 Sul ruolo della Commissione è necessario accennare alla modifica apportata alla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo dal Protocollo n. 11 entrato in vigore il 1 novembre 1998. Fino a tal data, infatti, il sistema era imperniato su due generali giurisdizioni: la Commissione, organo filtro avente natura quasi giudiziaria e compiti in materia di ricevibilità, di componimento amichevole e di accertamento dei fatti; la Corte europea, organo giudiziario cui spettava il compito di decidere in via definitiva sulla sussistenza di una violazione ed, eventualmente, accordare un’equa soddisfazione alla parte lesa. Sul punto De Salvia, La nuova Corte europea dei diritti

6 Sul tema, in dottrina, cfr. Grosso, Massoneria e magistratura: la sentenza disciplinare 13 gennaio 1995 come sbocco naturale di un lungo travaglio interpretativo del CSM sul divieto di doppia appartenenza, in Foro it., 1995, V, 198; ed ancora, Il Consiglio Superiore della Magistratura e l’appartenenza alla Massoneria da parte dei magistrati, in Giur. di Merito, 1996, 819. 7 La l. 25 gennaio 1982, n. 17, oltre a prevederecome reato la partecipazione ad un’associazione segreta, configura come illecito disciplinare l’adesione di un pubblico dipendente ad un’associazione rientrante nel tipo definito dall’art. 1 della Legge. 8 CEDU, 25 maggio 1993, Kokkinakis c. Grecia, in Recueil, A260-A 9 Cfr. D.P.R. 16 aprile 2013, n. 62, per un maggior approfondimento http://www.altalex. com/index.php?idnot=61980.

P.60/65: Strasbourg, interni ed esterni della sede della La Corte Europea dei diritti dell’Uomo.

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Riflessioni sul Simbolo Fernando PiterĂ

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radizionalmente, la natura era concepita dall’uomo in maniera globale, come presenza simultanea di due aspetti, il Macrocosmo e il Microcosmo, definiti dall’Ermetismo rispettivamente come ciò che sta in alto e ciò che sta in basso. Tale concezione si riferiva alla possibilità, da parte degli esseri umani, di pensare in modo binario, ovvero sviluppando una forma di pensiero “orizzontale” e una di tipo “verticale” e di percepire nella coscienza l’esistenza di siffatti mondi. La moderna impostazione della società, sempre più avulsa dai reali bisogni dell’uomo e sempre più dominata da marcatori esterni, ha favorito e continua a incoraggiare l’estensione del pensiero superficiale a scapito di quello della mente profonda. Ciò fa sì che l’uomo utilizzi principalmente la mente di relazione e non sia più capace di dialogare con le zone profonde dell’Essere. Così, udiamo ma non ascoltiamo, guardiamo ma non vediamo, parliamo ma abbiamo perso il significato originario delle parole che pronunciamo. Abituati ormai a questo tipo di esi-

‘‘I simboli non sono inventati; esistono, appartengono all’inalienabile patrimonio dell’umanità; si potrebbe anzi dire che tutti i pensieri e le azioni coscienti sono la conseguenza inevitabile del processo inconscio di simbolizzazione, e che la vita dell’uomo è governata dai simboli’’ Georg Groddeck, ‘‘Il libro dell’Es’’

stenza, abbiamo abbandonato le qualità intrapsichiche dell’intuizione e della sensazione, incapaci di cogliere i significati e gli enigmi che si celano nei simboli, inadeguati a vedere la luce che da essi traspare, sino ad aver ridotto l’universo dei simboli a un concetto arcaico e obsoleto. Scrive a tal proposito Albert Einstein: “La mente intuitiva è un dono sacro, e la mente razionale è un fedele servo. Noi abbiamo creato una società che onora il servo e ha dimenticato il dono”. Dimenticare quel dono può significare che un individuo possa nascere e morire bloccato e fossilizzato in un determinato stadio come fosse una pietra grezza, cieco, sordo e inamovibile, incapace di levigarsi per assumere forma, sostanza e significato migliore. Fra quanti restano insensibili ai simboli e al loro contributo alla conoscenza parecchi ritengono che siano soltanto mere illusioni. Si tratta di individui inconsapevoli e indifferenti alla vera natura delle cose del mondo, che non sanno più intravedere oltre la mera apparenza delle cose. Coloro che negano ai simboli un significato 67


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profondo sono privi della capacità di pensare in termini più vasti, ossia di distaccarsi dalla vita quotidiana impegnando i sensi e l’intelligenza in forma piena e assoluta. A chi non sa leggere è inutile consigliare gli occhiali da lettura, poiché coloro che non sanno, in primo luogo non sanno di non sapere. Afferma Plotino nelle Enneadi (II, 3,7): “… tutto è pieno di segni e sapiente è chi da una cosa ne conosce un’altra”. I simboli sono il centro delle nostre azioni, sono il perno e il cuore della vita immaginativa di ogni essere umano. Sono verità trasmesse dalle leggende, dalle religioni, dal folklore, dalle fiabe e dai miti di tutte 68

le culture. La funzione del mito non è, infatti, solo quella di eternare o tramandare informazioni, ma descrivere condizioni che non hanno né spazio né tempo. Nel corso del giorno o della notte, nella salute o nella malattia, nei nostri gesti, nel nostro linguaggio, nei sogni e nella veglia, consapevolmente o no, ognuno di noi ricorre ai simboli o è influenzato, nel bene o nel male, da essi. I simboli esprimono i nostri desideri, danno volto alle paure, rivelano i segreti dell’inconscio, stimolano certe azioni, consolidano comunità umane, modellano comportamenti, ci conducono alle origini più recondite che motivano determinate azioni e certe imprese. Si

può asserire che tutto è simbolismo e tutto può essere oggetto di interpretazione in chiave simbolica. L’intero universo e tutto il cosmo sono permeati di simbolismo. Nozione questa già nota agli antichi saggi e agli iniziati. Dice in tal senso Confucio: “Il mondo è governato da segnali e simboli, non da leggi e da frasi”. Ogni cosa è simbolo e ogni forma di conoscenza umana, antica o moderna, è permeata da simboli. Il loro significato, la loro formazione, i loro intrecci e la loro interpretazione coinvolge le più importanti discipline dell’umanità. Tutte le scienze dell’uomo, ogni tecnica e arte che ne derivano sono costellate e illuminate nel loro


cammino dai simboli. Attraverso di essi si possono esprimere e comprendere verità profonde: la spiegazione di fenomeni cosmici, la struttura dinamica del cosmo, la nascita e il significato degli alfabeti, i numeri matematici, i segni algebrici e quelli della fisica, gli elementi chimici, i simboli alchemici, quelli astronomici, topografici e cartografici, la musica, le arti figurative, la letteratura, persino i meccanismi dell’animo umano. Rinunciare ad analizzarli a fondo significa arginare l’osservazione in superficie, alla sola apparenza estetica e morfologica, escludendo l’essenza della verità che in essi si cela. Da sempre l’uomo si serve di simboli per esprimere il suo pensiero, il suo linguaggio e i propri sentimenti, oppure li utilizza per difendere e occultare verità ritenute inaccessibili ai comuni profani. Cosa si cela dunque dietro ogni simbolo e quali messaggi invia al nostro cervello e cosa può indurre anche a insaputa della mente cosciente? Quali codici più profondi e reconditi si celano dietro ognuno di essi e cosa rappresentano emblematicamente per l’inconscio? E ancora, l’inconscio, l’Es, come ne decodifica il significato? E come può comunicare i suoi messaggi alla nostra mente razionale? Se è vero, come è ormai universalmente accettato, che la comprensione dell’uomo e del suo modo di essere non può essere scissa in mente e corpo, quali possono essere i meccanismi e le modalità con cui il simbolo agisce nella nostra mente e pertanto anche sul corpo? Quali sono i messaggi, le emozioni e i sentimenti che i simboli inducono? E possono essi contribuire a modellare il carattere e la reattività dell’individuo con l’ambiente? Il simbolismo impegna la mente e l’intelletto in maniera quasi totale; è una forma di conoscenza ancestrale che costituisce il fondamento di ogni cognizione e illuminazione. Ogni volta che portiamo la nostra attenzione su un simbolo, la nostra mente e la nostra capacità di comprendere vengono stimolate e la nostra “energia” si mette in azione. Scrive Saint Germaine: “Lì dove è la tua attenzione là tu sei”. Quando osserviamo un simbolo si attivano particolari neurotrasmettitori che producono immagini mentali e significati che dialogano con il nostro inconscio e le zone più ancestrali del nostro cervello. Tra simbolo e incon-

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scio vi è una continua e incessante interazione che spesso però non affiora alla mente razionale. Il simbolo trasmette significati all’inconscio e l’inconscio cerca di comunicarci i suoi messaggi e, mentre i nostri sensi lo percepiscono e lo valutano nella sua forma esteriore, la mente intuitiva cerca di decodificarne il significato, l’intelligenza si impegna a interpretarlo, tenendo presente che il simbolo non è mai fine a se stesso. Sebbene si manifesti spesso con significati ambivalenti o addirittura plurivalenti, il simbolo è pur sempre il principio di un codice analogico (e non solo) che può condurre alla conoscenza di un concetto celato, di un’ideologia velata o della verità in esso occultata. In medicina, la perdita della facoltà di utilizzare i segni e i simboli sia per esprimere, sia per comprendere le idee, i sentimenti o le forme oggettuali è definita asimbolia di Blocq e Onanoff.

L’agnosia semantica o asimbolia tattile è invece caratterizzata dall’impossibilità di costruire, con gli elementi forniti dalla palpazione di un oggetto, lo schema di questo oggetto, necessario per comprenderne la forma, la sua natura e l’uso. Questi disturbi sono dovuti a una lesione del lobo parietale sinistro del cervello. Bisogna quindi prendere atto che in una zona del nostro cervello vi è un’area deputata alla percezione, “decodificazione” e comprensione dei simboli. Secondo Giamblico, mistico siriano del II secolo d.C. e fondatore di una scuola neoplatonica, “I simboli compiono da sé la loro opera, perché parlano direttamente all’uomo, mostrandosi in modo immediato nella loro veste materiale, riportando alla luce il significato essenziale dell’Esistenza, altrimenti nascosto, con l’utilizzo delle semplici parole”. 69


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In realtà, a pensarci bene, la cosa non è così semplice e diretta; solo il segno possiede questa immediatezza nel comunicare il suo significato e la sua natura. Anche il simbolo è un elemento di comunicazione che rappresenta un concetto o un’ideologia, ma esso rivela aspetti più profondi della realtà che sfuggono a qualsiasi altro mezzo di conoscenza e, diversamente dal segno, deve incontrare uno sguardo e una mente che sappiano coglierne la vera essenza. Il simbolo, differentemente dal segno, è un elemento che trasferisce informazioni e si caratterizza, a chi lo osserva, come comunicante di significato del quale diventa nel contempo il significante. Paradossalmente, pur non possedendo un proprio significato specifico, rimanda a qualcosa che è al di là di se stesso, legando insieme significato e significante in modo totalizzante. Se così non fosse, il simbolo sarebbe soltanto un segno rivelato nella sua delimitata manifestazione di forma esteriore. La differenza è notevole: il segno, l’emblema, il segnale e l’allegoria si fermano sulla soglia delle trasposizioni analogiche di concetti sociali profani più comuni, ordinari e manifesti. Il segno, per sua stessa configurazione e significato palese, è limitato e 70

delimitato, confinato e definito nella coscienza, differentemente dal simbolo che ha una valenza ancestrale, primigenia e illimitata. Il simbolo è un elemento dell’inconscio collettivo presente sin dall’inizio dell’umanità, il quale, perpetuatosi attraverso i tempi, ha formato una sedimentazione nella psiche di ogni essere umano che non ha confini ovunque; mentre il segno è già, per sua stessa natura, interpretato e catalogato negli schedari più recenti della mente razionale. Tra segno e simbolo vi è, rispettivamente, la stessa differenza che esiste tra un lago confinato e un oceano senza confini. Illuminante in tal senso è l’interpretazione che ne dà Brunetière: “Il simbolo è immagine, è pensiero. Esso ci fa cogliere, tra noi ed il mondo, alcune di quelle affinità segrete e di quelle leggi oscure che possono oltrepassare la portata della scienza, ma che non sono, per questo, meno certe. Ogni simbolo è in questo senso una specie di rivelazione” (Valeur sociale de la Liturgie d’apres Saint Thomas d’Aquin, 1946). Il simbolo è pertanto il trait d’union tra Macrocosmo e Microcosmo, tra ciò che è in alto e ciò che è in basso; è la chiave di accesso alle zone più segrete e arcane del-

la mente, ai territori più reconditi dell’inconscio, dove è possibile interagire con le parti più vere e profonde dell’essere umano e dell’umanità che ci ha preceduto. Ecco perché nell’esoterismo il simbolo è considerato come un varco attraverso cui è possibile comunicare con il mondo immateriale, mettendoci in relazione con le radici incomunicabili della realtà. Nella psicologia analitica, poi, i simboli diventano gli “stratagemmi” per cui determinate immagini e processi inconsci sfuggono all’azione di censura del Super-Io e compaiono nei sogni e nei sintomi nevrotici che ne mascherano il vero significato. Ma da qualunque parte la si osservi, la scoperta del mondo simbolico apre un campo alla riflessione pressoché illimitato, coinvolgendo le fonti stesse dell’umanità e millenni di cultura e di evoluzione. Il simbolo è il filo d’Arianna che dà accesso a un universo insospettato, è la guida verso il proprio vero “Sé” e i suoi meccanismi completi e complessi ma sepolti nelle abissali profondità dell’inconscio. Esso veicola messaggi codificati nel tempo che la semplice ragione non saprebbe spiegare; permette a colui che vuole approfondire il significato di queste immagini di liberarsi momentaneamente della materia e del tempo, di trascendere il senso convenzionale delle cose, di passare dal tangibile all’inaccessibile, di aprirsi all’ignoto e all’infinito, di elevarsi verso un altro tipo di “conoscienza”, e trarre profitto dall’esperienza di miliardi di uomini che ci hanno preceduto, permettendo alla nostra mente di accedere alla “biblioteca universale” del genere umano. La migliore definizione di simbolo che ho sinora trovato è quella di Goethe il quale afferma: “Il simbolismo trasforma il fenomeno in idea, l’idea in immagine, e ciò in modo che l’idea nell’immagine rimanga sempre infinitamente attiva e inesauribile e pur comunicata in tutte le lingue rimane sempre incomunicabile. Questo è il vero simbolismo, nel quale il particolare rappresenta il generale, non come sogno o ombra, ma come istantanea e viva rivelazione dell’inconoscibile”. Singolare e avvincente è anche l’espressione utilizzata da Jean Travers che definisce il Simbolo come un “Essere”, quasi fosse un soggetto, un triplice elemento pensante:


“Il Simbolo si scopre come un essere sensibile, avente consistenza propria, ma attraverso il quale si scorge una relazione di significato. Prima di significare, il simbolo possiede già di per se stesso la sua propria natura. Dapprima si presenta come un essere conosciuto per sé stesso, e solamente dopo come un essere avente una relazione con un altro termine”. Il pensiero simbolico è dunque alla base di ogni nostra singola azione, pensiero e immaginazione, è un intervento totalizzante che non può prescindere da un’interpretazione unitaria della vita e delle cose del mondo. Tale procedimento tende a riunificare la mente con altri aspetti della realtà sovrasensibile, coagulando nozioni conosciute con significati più occulti, rivelando anche significati transpersonali e transcoscienti. Il Simbolo è pertanto: – il messaggero tra il microcosmo e il macrocosmo; – il passaggio dal profano al sacro; – l’intermediario tra la mente razionale e la mente profonda; – il valico tra il conscio e l’inconscio; – il significato celato che diventa significante manifesto; – il mezzo interposto tra il conoscibile e l’inconoscibile; – il tramite tra eventi definiti e processi infiniti; – il passaggio tra la struttura e l’energia; – il varco tra la materia e lo spirito; – il ponte tra il segno e l’archetipo; – il mediatore tra l’umano (segno) e il divino (archetipo). “Il Simbolo - scrive Mircea Eliade - è esso stesso una ierofania, perché rivela una realtà sacra o cosmologica che ness’unaltra manifestazione è capace di rivelare”. Per queste considerazioni verrebbe da porsi una domanda spontanea e provocatoria: siamo noi a esaminare e scrutare i simboli, o sono i simboli che osservano e governano noi? La verità potrebbe essere che entrambi, uomini e simboli, siano gli echi di un’unica e lontana manifestazione dell’Archetipo; la verità è aver dimenticato che il regno delle possibilità esiste già dentro di noi.

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P.66, 68, 70: Simboli (disegni P.Del Freo); p.67, 69, 71: Illustrazioni da stampe ermetico-alchemiche.

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La Sacra Tetractys tra filosofia e scienza Fabio Di Rado Patrizio Caini

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itagora è un personaggio circondato da un alone di mistero ed ammirazione, che è stato preso a modello etico, intellettuale e spirituale da generazioni di uomini. Prima di avviare la sua Scuola di Kroton, si recò in Egitto, una delle culle della Conoscenza Segreta. Per quel che ne sappiamo qui trascorse ventidue anni tra Heliopoli, Menfi e Tebe, centri di apprendimento particolari. Si recò poi a Babilonia dove ebbe la possibilità di conoscere i Magi, che gli aprirono le porte delle scienze caldee. Poi ancora si diresse in Mesopotamia, Fenicia ed India, dove apprese i segreti vedici. Imparò che le vie sono tante, ma che la Verità è una sola. Lo studioso pitagorico Vincenzo Capparelli così lo definisce: «Pitagora fu l’epitomatore della sapienza anteriore a lui e nulla di quel che gli altri popoli avevano trovato di veramente essenziale gli sfuggì; e quei ritrovati, inglobati in un grande sistema, acquisirono nuovo significato e nuova importanza nella ricerca filosofico-scientifica». Prima di affrontare le considerazioni di carattere scientifico è necessario fare prima alcune riflessioni sui numeri di carattere filosofico ed esoterico. L’elemento base della dottrina di Pitagora è il «nu-

‘‘Forse la cosa più strana riguardo alle scienze moderne è il ritorno al pitagorismo’’ Bertrand Russel, 1924 mero», che non è solo un’entità aritmetica quantitativa, come abbiamo appreso nelle nostre scuole, ma anche un principio metafisico qualitativo; è una fase armonica ed inducente armonia, regolando come legge assoluta l’universo e quanto in esso accade. Questa verità la compresero ad

esempio i costruttori delle cattedrali medievali che, nella realizzazione delle loro grandiose opere, materializzarono in forme architettoniche la forza e la bellezza della geometria pitagorica, celandovi ermeticamente i simboli della loro «alta conoscenza», così che solo chi avesse «occhi per vedere vedesse e chi avesse orecchie per intendere intendesse», secondo il principio pitagorico che «la verità si disvela solo a chi la cerca». Se il numero è ordine e se tutto è determinato dal numero, tutto è ordine. Poiché in greco «ordine» si dice kosmos, i Pitagorici chiamarono l’universo cosmo, in virtù dell’armonia in esso presente. Furono i Pitagorici infatti a concepire l’idea che «i numeri sono principi di tutta la Physis», cioè di tutta la natura, e che gli elementi dei numeri sono contenuti in tutti gli esseri, così che l’intero universo attraverso il numero diviene manifestazione di perfetta armonia. Per diffondere e celare il loro pensiero i Pitagorici sintetizzarono tutto questo in un simbolo: la «Sacra Tetractys» sulla quale, essendo la stessa espressione della Divinità rivelata nel «sensibile», i Pitagorici prestavano giuramento secondo questa formula rituale: «... Lo giuro per Colui che ha trasmesso alla nostra anima la Tetractys, nella quale si trovano la sor73


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gente e la radice dell’Eterna Natura». Vedremo che l’intuizione pitagorica del numero, quale sorgente e radice dell’Eterna Natura, sia tuttora valida di fronte all’incessante progresso della scienza moderna. Il simbolo della Tetraktys racchiude in sé l’Universo e rappresenta la successione delle dimensioni che caratterizzano geometricamente il mondo fisico: 1’1 è il punto, il 2 la linea; il 3 la superficie, il 4 il solido; la somma 1+2+3+4 dà il numero 10. L’Uno è l’Archè; è nel contempo pari e dispari, poiché da esso si generano entrambi questi contrari: l’uno sommato al pari dà il dispari, l’altro addizionato al dispari dà, il pari. L’Uno esprime, nello stesso tempo, il principio dell’Unicità ed il principio della Separazione dei contrari in esso contenuti (pari e dispari), e questa separazione è rappresentata dal Due. Dunque, principio dell’unicità è l’Uno, 74

il principio della dualità è il Due. L’Uno o Monade, pitagoricamente definito parimpari, diviene innanzitutto principio del Due, ossia dell’opposizione originaria tra pari e dispari, in cui si radicano tutte le altre opposizioni dell’Universo. Tutte le cose sono definibili attraverso il numero ed il numero, che incarna l’originaria Monade Divina, include in sé la pluralità che da esso scaturisce. In Natura ad esempio è lo spermatogonio, cellula da cui si origina la cellula seminale maschile, che ha biologicamente insito questo principio: contiene in sé sia il cromosoma maschile Y che quello femminile X, presentando in tal modo la duplice polarità della specie; anche se si differenzia incessantemente in Y e X, ovvero in maschio e femmina, rimane perennemente uno. Ma come avviene il passaggio dall’Uno al Due, al Tre e al Quattro? Per comprende-

re ciò è necessario riconoscere che la Monade è in grado di perdere il suo aspetto di unicità ed assumere la condizione essenziale della molteplicità, distinguendosi innanzitutto nella dualità, ossia nel Due, identificabile non come numero ma come principio. In tal senso pertanto trovano una logica base speculativa la questione del monismo e del dualismo sul piano filosofico, quella dell’Essere e della sua rappresentazione sul piano metafisico ed infine quella della cellula e della sua riproduzione, ovvero la mitosi cellulare, su quello biologico. Ad una lettura analogica sono innumerevoli i simbolismi che si possono ricondurre all’Uno: l’Unità, il Principio Creatore, la Luce dal buio primordiale, l’Uno che confluisce nel Tutto ed ancora lo Jod, il Logos, l’En-Soph, Brahman, Allah e, sul piano del microcosmo biologico, la «cellula staminale», espressione della totipotenza alla differenziazione cellulare rispetto al Due, che ne esprime la disponibilità molteplice. Il Due è anch’esso principio, in quanto in tutto ciò che esiste vi sono due poli opposti. Ma gli opposti in realtà, pur con molte variazioni di grado, non sono altro che i due punti estremi di una medesima cosa, come si legge d’altronde anche nel Kybalion, noto testo ermetico, in cui si proclama che «Tutto è duale; tutto ha poli; ogni cosa ha la sua coppia di opposti. Il simile e il dissimile sono uguali; gli opposti sono identici di natura, ma differenti di grado. Gli estremi si toccano; tutte le verità non


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sono che mezze verità, e tutti i paradossi possono essere conciliati». Il Due dunque rappresenta gli opposti cosmici Luce-Tenebre, Maschile-Femminile, Bene-Male, Attivo-Passivo, Sole-Luna, lo Yin e lo Yang del Confucianesimo, i due principi attivi dell’Universo. In termini matematici inoltre il Due è il principio di tutti i numeri pari. Così come il Due è l’Analisi, la Separazione degli elementi che costituiscono l’Uno, il Tre è la Sintesi dell’Uno e del Due assieme, ossia della Monade e della Diade, al fine di comporre una nuova unità: la Triade. Il Tre diviene così l’armonia dei contrari, la proiezione dell’Uno Trascendente. Nel simbolismo ermetico il Tre è rappresentato dal Delta Sacro, la Divinità, ovvero la Trinità Cristiana, la Trinità Vedica, la Trinità Confuciana, la Trinità Egiziana (Osiride, Iside e Horus). Il Tre è anche rappresentazione del ternario dell’uomo: corpo, anima e spirito, esemplificazione simbolica del Padre, della Madre e del Figlio, che sul piano cosmico sono all’origine dell’Unità-Famiglia. Aritmeticamente il Tre è il primo vero numero, «numero limitato» secondo la tradizione pitagorica e perciò «perfetto», in quanto esso forma la triade e contiene in sé il Principio

(Uno), il Mezzo (Due) ed il Fine (Tre). Il Quattro infine, secondo la legge della generazione, è la tetrade che deriva dalla triade per l’aggiunta di un’altra unità. È il primo dei numeri pari, giacché il Due, ricordiamolo, non è un numero ma un principio. Il quattro è il principio Due elevato a potenza di due. Geometricamente il Quattro origina la terza dimensione in quanto aggiungendo un punto al di fuori della triade questo individua il tetraedro, cioè la prima figura di solido che presenta un volume. Il Quattro poi è il punto finale della manifestazione del Divino cioè dell’unità, il punto terminale del percorso dell’unità, che si distingue nella dualità, si ricompone nella triade e, secondo questo processo generativo, si manifesta nel molteplice della Natura, nella struttura della tetrade definita dai Pitagorici Quaternario e identificativa del mondo fisico, ossia del mondo sensibile. Pertanto addizionando unità ad unità, si passa, in progressione aritmetica, dall’uno al due, dal due al tre e dal tre al quattro: geometricamente cioè dal punto alla linea, dalla linea al piano e dal piano al tetraedro, cioè allo spazio, al volume, al solido; si giunge così al limite ultimo e poiché per i Pitagorici il limi-

te è perfezione, e non può essere raffigurato un quinto punto al di fuori dello spazio, il quattro è per eccellenza il “numero perfetto”. Il quattro insomma è l’insieme della monade, della diade, della triade e della tetrade e compie in sé il Tutto: il punto, la linea, la superficie, il volume, cioè la totale rappresentazione del mondo materiale sensibile. Non si può andare oltre tale limite; ecco dunque che anche la somma dei primi quattro numeri, il dieci, ossia la decade, rappresenta nella sua essenza numerica la perfezione identificabile nell’Uno e diviene così il compimento della Manifestazione Universale: l’Uno e il Due principi della manifestazione; la serie dei numeri successivi fino al Dieci, il «dispiegamento dell’Uno nel Tutto, dal Divino all’Essere reale». A questo punto, se sul piano filosofico la Sacra Tetractys assume significative valenze cosmologiche, sul piano naturale essa trova fondati riflessi che si ripercuotono incontrovertibilmente dal microcosmo fino al macrocosmo. Quando si parla di nucleo atomico s’intende la fisica delle particelle costituenti la materia, distinte queste ultime in tre famiglie: 75


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- i leptoni in numero di sei: gli elettroni, i muoni, i tau e rispettivamente i loro tre neutrini; - i quark, costituenti fondamentali dei protoni e dei neutroni, ognuno dei quali ne possiede tre; - le rispettive antiparticelle: antiprotoni, antineutroni, antielettroni, costituenti l’antimateria prodotta mediante gli acceleratori di particelle nei laboratori di fisica atomica. Tutta la materia presente nell’universo è soggetta a quattro forze che agiscono su di essa: la gravità, l’elettromagnetismo, l’interazione nucleare forte e l’interazione nucleare debole, ognuna delle quali fa sentire la propria azione dentro e fuori il nucleo, creando campi la cui energia è veicolata dai «gravitoni» (un tipo di boso76

ni non ancora rilevati sperimentalmente) per la forza di gravità, cioè la forza attrattiva alla quale è soggetto ogni corpo dotato di massa, responsabile anche del mantenimento in orbita dei pianeti del nostro sistema solare; dai «fotoni» che, secondo l’elettrodinamica quantistica, mediano la forza elettromagnetica e quindi sono deputati al mantenimento dell’aggregazione tra il nucleo e gli elettroni tra gli atomi, tra le molecole; dai «gluoni» per l’interazione nucleare forte, che tengono uniti i tre quark all’interno dei nucleoni (protoni e neutroni) e i nucleoni all’interno del nucleo atomico; dai «bosoni vettoriali» (le particelle W e Z che “trasportano” l’interazione nucleare debole), responsabili della reazione di fusione nucleare presente nel Sole e nelle stelle oltre

che del decadimento del neutrone, della radioattività beta e delle interazioni dei neutrini. Già da questo si può ricavare un esempio di riproduzione in Natura dei sacri numeri della Tetractys: un nucleo, l’unità, il protone e il neutrone la dualità, ogni protone e neutrone, costituiti da tre quark, la triade, le quattro forze universali, la tetrade. Si lega alla natura fisica dell’Universo anche il numero sei, presente appunto nelle particelle subatomiche dei leptoni e dei quark e legato simbolicamente alla tradizione pitagorica, giacché esso è il risultato della somma o della moltiplicazione dell’uno, del due e del tre, numeri che assieme al quattro riproducono la struttura piramidale della Tetraktys. La scienza dunque a distanza di secoli dal pensiero pitagorico scopre così


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in natura legami numerici costanti che, al di là della loro rappresentabilità fisicomatematica, appartengono ad un simbolismo ermetico superiore che nella sua intrinseca essenza diviene la chiave di volta di tutto il sistema universale. La maggior parte dei fisici moderni del resto si è ormai orientata a dimostrare come le quattro forze agenti in Natura siano in realtà solo proiezioni diverse di un’unica forza e che noi e l’universo circostante esistiamo solo grazie ad un minimo prevalere delle particelle rispetto alle antiparticelle originatesi in seguito allo scoppio primordiale, il cosiddetto Big-Bang. Al momento di tale esplosione iniziale infatti la materia presentava un numero perfettamente identico di particelle ed antiparticelle che, rispetto a quelle attuali, posse-

devano una massa molto più pesante. Col diminuire della temperatura, che negli istanti iniziali risultava alquanto elevata, le particelle pesanti subirono un processo di annichilimento con la propria antiparticella, dando origine così a particelle di dimensioni più piccole, ossia quelle attuali, e liberando energia sotto forma di luce cosmica (ciò farebbe pensare al Fiat Lux della tradizione biblica). Il passaggio da particelle pesanti a particelle leggere causò una lieve variazione nell’assoluto rapporto d’identità tra particelle e antiparticelle col modico prevalere delle prime sulle seconde, «dell’ordine di un surplus di una ogni dieci miliardi di coppie prodotte». In definitiva accadeva che nella miscela cosmica primordiale dieci miliardi di particelle annichilendosi con al-

trettanti dieci miliardi di antiparticelle si riducessero ad una sola particella. Noi e l’Universo dunque saremmo il prodotto di «quell’unica parte su dieci miliardi», di un impercettibile mutamento rispetto al perfetto equilibrio originario tra materia e antimateria. Inoltre per ogni particella del nostro mondo corrisponderebbero quindi dieci miliardi di fotoni di luce cosmica emessi durante l’annichilimento dei dieci miliardi di particelle con altrettante antiparticelle. Quella luce sarebbe dunque la prova inconfutabile dell’alterazione «di una sola parte su dieci miliardi di parti» del perfetto equilibro che agli albori dei tempi controbilanciava particelle ed antiparticelle. Pitagora diceva che «l’Uno si manifesta nel Quattro e la Decade altro non è che la sua manifesta77


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zione completa e perfetta». Ebbene, oggi i fisici atomici asseriscono che le quattro forze sono in pratica diverse manifestazioni di un’identica forza che è unica e che per ogni particella dieci miliardi di fotoni, ossia la luce cosmica primordiale che dal Big-Bang giunge ancora ai nostri occhi, sono il «numero giusto»: la «decade» della scuola pitagorica. Consideriamo adesso gli atomi. Nel 1869 il chimico russo Mendeleev definì il sistema periodico degli elementi secondo il loro peso atomico, le analogie tra le loro proprietà chimiche ed anche la disposizione degli elettroni nel loro livello energetico più esterno. Nel 1914 si sco78

prì che uno degli indici fondamentali del comportamento periodico degli elementi era il numero atomico, ossia il numero di protoni del nucleo a carica positiva, equivalente al numero degli elettroni negli orbitali a carica negativa. Ora se si considera l’incremento di protoni-elettroni da un elemento al successivo, si definisce la sequenza di valori: 2, 8, 8, 18, 18, 32. Quindi, riconducendo tutto a potenza di due si ottiene: 2x12, 2x22, 2x22, 2x32, 2x32, 2x42, cioè i quadrati dei numeri della Tetraktys. Ebbene, senza addentrarsi nell’analisi numerica di tutta la tavola periodica, nel I° Gruppo (H, Li, Na, K, Rb, Cs, Fr) gli elementi chimici pre-

sentano numeri atomici pari a 1, 3, 11, 19, 37, 55, 87. Se si tiene dunque conto degli incrementi sopraddetti e che il Litio (Li) possiede un protone in più dell’Elio (che ha numero atomico 2), si ricava la formula (1)+2, 8, 8, 18, 18, 32. Riducendo il tutto sempre a potenza di due si ritorna nuovamente ai quadrati dei numeri della Tetraktys: 1+2x12, 2x22, 2x22, 2x32, 2x32, 2x42. Ciò diviene dunque segno incontrovertibile di come gli atomi che costituiscono in Natura la materia obbediscano ineluttabilmente ad una precisa legge numerica, che i Pitagorici avevano saggiamente codificato nel sacro simbolo della Tetraktys. La Tetraktys viene ben rappresentata a livello biologico dalla molecola degli amminoacidi, mattoni di base delle proteine, la cui formula di struttura evidenzia che il Carbonio ha quattro legami covalenti, l’Azoto tre, l’Ossigeno due e l’Idrogeno uno, la somma dei quali è dieci nel rispetto assoluto dei rapporti numerici della Tetrade Sacra (Figura 7 - Struttura chimica di un amminoacido generico). Anche nella molecola del DNA è possibile rintracciare i numeri della Tetraktys pitagorica: un cromosoma (numero 1) contiene un doppio filamento di DNA (numero 2); ogni filamento è costituito da una sequenza di nucleotidi, i monomeri degli acidi nucleici (DNA e RNA). Ciascun nucleotide è composto da tre specie chimiche (numero 3): una base azotata, uno zucchero (il desossiribosio) e un gruppo fosfato. Nel DNA sono presenti quattro basi azotate (numero 4): l’ade-


nina (A), la citosina (C), la guanina (G) e la timina (T) (Figura 8 - Il cromosoma, la doppia elica del DNA, il nucleotide e le quattro basi azotate). Ogni base azotata presente su un filamento di DNA si appaia con la base azotata complementare presente sull’altro filamento, mediante la formazione di legami a idrogeno. L’adenina si appaia solo ed esclusivamente con la timina, mediante due legami a idrogeno mentre la citosina si appaia solo ed esclusivamente con la guanina, mediante tre legami a idrogeno (Figura 9 - L’appaiamento delle basi azotate complementari nel DNA). La doppia elica del DNA è una spirale destrorsa, che contiene dieci paia di basi per ogni spira, per una lunghezza di 34 Å (1 Å = 1 x 10-10 m). Questa certamente è la dimostrazione più evidente dell’assoluta sacralità della Tetraktys i cui numeri agiscono persino sulla più importante struttura biochimica che sta alla base di ogni organismo. Queste considerazioni, che mi auguro stimolino il lettore ad approfondire la tematica, evidenziano come nel sistema dell’universo fisico tutto sia regolato da mirabili relazioni di ordine numerico, già intuite dai Pitagorici. Il sogno di descrivere l’universo in termini puramente matematici è antico nell’uomo che pensa: da Leibniz a Spinoza, da Newton ad Einstein, il «modello matematico» rivela la sua matrice pitagorica, perciò anche gli scienziati del mondo moderno possono essere, in una certa misura, definiti “neopitagorici”. In quest’ottica potremmo asserire ‘ignis mentis illuminat humanitatem’. ______________

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Fonti: V.D. Mascherpa, Esoterismo dei numeri – iniziazione all’aritmosofia – ATANOR. Atti del Convegno Sulle orme di Pythagoras, Reggio Calabria, 2007.

P.72, 73: La scuola di Atene, Raffaello Sanzio, 1509, Roma; p.73: Tetraktys pitagorica; p.74: l’ingresso della Cattedrale Clonfert Galway in Irlanda e dettaglio dell’ingresso, con la rappresentazione della Tetractys; p.75: un corridoio del CERN di Ginevra; p.76/77: Rappresentazione di fantasia della luce cosmica del Fiat Lux; p.78 in alto a sx: struttura chimica di un amminoacido generico; p.78 in basso a sx: il cromosoma, la doppia elica del DNA, il nucleotide e le quattro basi azotate; p.78 in alto a dx: l’appaiamento delle basi azotate complementari nel DNA.

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La Pietra e la Parola Simbolismo del Graal e Leggenda del iv grado Glauco Berrettoni

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uò sembrare strano l’accostamento fra la Leggenda dei IV Grado del Rito Scozzese Antico e Accetato e quella arturiana della Cerca del Graal ma, in realtà, le due tradizioni hanno più punti in comune di quelli che appaiono a prima vista. Prima di esaminare la leggenda del Graal conviene esaminare quella arturiana, entro la quale si diramano le problematiche del Graal.Sono diversi e complessi i racconti su Artù. Semplificando e cercando di individuare i più importanti dei vari filoni, vediamo i seguenti1: Il primo a parlare di Re Artù è Goffredo di Monmouth che, nel 1136, traduce dal gallese in latino un manoscritto risalente all’incirca al 937 e noto come The History of the Kings of Britain, che racconta un curioso nesso fra i Troiani e la Britannia: tre generazioni dopo la caduta di Troia, Bruto (Brwth), un pronipote di Enea, fomenta una ribellione contro i Greci ed ha l’idea di una fuga verso una terra che si rivelerà essere la Britannia: superfluo sottolineare il legame di Bruto con Mosè che guida gli Ebrei nella terra promessa. Secoli dopo, i Britanni (cioè i discendenti dei Troiani) concludono una pace onorevole con Giulio Cesare, rientrando così nel dominio romano. Il regno di Artù coincide con la fine dell’Impero Romano: Artù, la cui nascita era stata preannunciata dall’apparizione di una “strana stella”, è raffigurato come il cavaliere per antonomasia, che combatte i Sassoni con la sua spada, Caliburn, salvando la Britannia, in nome di Cristo, dall’invasione dei Sassoni

pagani. Coinvolto successivamente nella guerra civile fomentata dal nipote Mordred, Artù viene ferito a morte nella battaglia di Camblam (o Camlann). Nel racconto non c’è alcun accenno al Graal. Il secondo autore che parla di Artù è Chrétien de Troyes, poeta della corte dello Champagne, che tra il 1164 ed il 1180 scrive una serie di poemi su Re Artù ed i suoi cavalieri: Erec, Cligès, Le chevalier de la charette (Lancillotto) e Le chevalier au lion (Yvain). Sono gli anni dell’esito disastroso della seconda Crociata e le opere sono scritte a beneficio della sua principale mecenate, Marie, contessa di Cham-

pagne, figlia di Luigi VII di Francia e di Eleonora d’Aquitania: in considerazione dell’impegno di Luigi VII nella seconda Crociata, non meraviglia l’intreccio con l’ideologia di quel pellegrinaggio armato che è stata la Crociata. Chrétien compone anche quello che forse è il suo testo più famoso, tra il 1180 ed il 1181, Le Conte du Graal. Qua, per la prima volta, compare il Graal: riprendendo un antico testo gallese, il Y Seint Graal del 1106, Chrétien ne parla come di un piatto o di un recipiente, o di un Vaso. Rimane tutto sommato alquanto indefinito, indicato anche come una sainte chose. Nell’operazione di cristianizzazione di antiche leggende celtiche manca in Chrétien l’identificazione del Graal con la Coppa dell’Ultima Cena2. Il punto supremo dell’operazione di cristianizzazione si ha verso la fine del romanzo, al momento dell’incontro di Perceval con l’eremita, allorché si dice che nel piatto (pur sempre inteso come piatto da portata), c’è un’ostia (ma non si dice se consacrata), unico nutrimento del re experitaus3. Il Graal, anche inteso come Coppa, ha la caratteristica della Coppa dell’Abbondanza propria della tradizione celtica: è più la Coppa della Dea che la Coppa del sangue di Cristo4. Nel testo, accanto a Perceval, compare Galvano, che deve effettuare una lunga ricerca per trovare il Graal e restaurare il Regno di Artù, al pari di Perceval. Ma il testo s’interrompe e non sappiamo se siano riusciti nell’impresa. Dopo Chrétien, la leggenda del Graal diviene immensamente 81


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popolare e viene ripresa da Robert de Boron, con il Perceval, dal Perlesvaus di autore ignoto e da un altro ignoto, il Perceval le gallois ou le conte du graal: la storia di Re Artù, a questo punto, ormai fa solo da sfondo al mito arturiano e si incentra invece sul mito del Graal. Arriviamo poi al Parzival di Wolfram von Eschenbach, intorno al 1210, ambientato soprattutto in Oriente, che mette in secondo piano re Artù ed i suoi cavalieri, mentre pone in primo piano la vicenda del Graal: il Graal, in Eschenbach, non è più una coppa o un calice, ma una pietra. Le Morte d’Artur, di Sir Thomas Malory, del 1485, basato su una traduzione di Y Saint Greal, è il più famoso racconto di Artù e quello a cui si rifanno le principali versioni cinematografiche, ma è anche quello che ci interessa meno per la nostra ricerca. Ricapitolando, quindi, il Graal viene raffigurato, nei diversi testi, in tre differenti forme: – Come oggetto immateriale, provvisto di movimento proprio, di natura indefinita e misteriosa; – Come una pietra: “pietra celeste” e “pietra della luce”; – Come una coppa o bacino, o vassoio, so82

vente di oro e qualche volta ricoperto di pietre preziose5. Se molte sono le forme nelle quali il Graal viene descritto, altrettanto diverse sono le sue virtù, che possono essere riassunte così: – Virtù di luce, cioè virtù illuminante e forza sovrannaturale; – Nutrimento vitale; – Capacità di guarire ferite mortali, di rinnovare e prolungare sovrannaturalmente la vita; – Induzione di una forza di vittoria e di dominazione; – Una natura pericolosa, terrifica e di struggitrice: analogamente al “posto vuo-

to”, al “tredicesimo posto” delle leggende arturiane, il Graal assume il carattere della prova che deve superare colui che intende palesarsi come l’eroe atteso6. Venendo al rapporto fra tradizione massonica e leggenda del Graal, la prima cosa che si evince è il rapporto fra il Graal e la Pietra, cosa che ci rimanda alla redazione di Wolfram von Eschenbach. Che appaia come una pietra lo rivelano i testi stessi: il primo incontro con il Graal, ancora nascosto alla sua vera natura, avviene nel V libro, durante la visita a Munsalvaesche: «Si vide che la giovane indossava su di sé panni di seta d’Arabì e, sopra un verde achmardì, portava, radice e frutto insieme della perfezione del Paradiso, una cosa che si chiamava Graal ... il Graal era di natura tale, che quella che fosse stata incaricata di occuparsene al modo dovuto aveva l’obbligo di conservarsi casta e di tenersi lontana dall’inganno ... Mi è stato detto – e anche io lo dico a voi, e potreste giurarci tutti quanti! – che davanti al Graal c’era, già preparata, qualsiasi cosa per cui si tendesse la mano – se in ciò mettessi inganno, morireste con me! -, che vi si trovassero, tutti pronti, piatti caldi e piatti freddi, piatti nuovi e piatti antichi, animali della casa


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e selvaggina»7. Dopo l’indeterminatezza della natura del Graal, l’autore prosegue, nel momento dell’incontro fra l’eremita Trevrizent ed il Narratore: «So bene che a Munsalvaesche, presso il Graal, dimorano molti uomini agguerriti; sempre a cavallo, in spedizioni alla ventura, i templari, che si conquistano le sofferenze o la gloria, sopportano ogni cosa per espiare i peccati: lì risiede, infatti, una schiera bellicosa. Voglio dirvi qual è il loro nutrimento: vivono grazie ad una pietra di specie purissima! Se non ne sapete nulla, ve ne farò il nome: si chiama lapis exillis. Per virtù di questa pietra, la fenice brucia e si riduce in cenere, ma la pietra porta in sé la nuova vita: così la fenice muta le penne e poi ritorna a splendere sfavillante, bella quanto era prima. E non c’è uomo che non resista a quella pietra: persino la sua bellezza non si corromperebbe mai! Che si tratti di una femmina o di un maschio, si deve ammettere che chi ha visto la pietra, nell’aspetto si conserva sempre uguale a quando cominciava la sua età migliore, fosse pure stato a guardarla duecento anni: non sono che i capelli a diventar grigi! La pietra conferisce all’uomo una virtù tale che carne e ossa ringiovaniscono senza sosta. Questa pietra è anche chiamata Graal»8. Nel terzo passo, dopo questo collegamento con l’elisir di lunga vita, il Graal compare al termine del racconto, nel XVI libro, senza aggiungere elementi nuovi a quanti già in nostro possesso, a parte una patina cristianeggiante che col-

lega il Graal alla Trinità: «Prima che l’acqua del battesimo lo bagnasse, Feirefiz, come un cieco, non era in grado di vedere il Graal, ma, immediatamente dopo, il Graal fu rivelato alla sua vista»9. Ma il tentativo di cristianizzazione non impedisce, comunque, «l’utopia ecumenica del finale del romazo, con l’ammissione del fratellastro “dalla pelle pezzata” nelle consorterie di Artù e del Graal, diventa mascheramento di un senso di fratellanza universale che accumuna tutti, in Oriente e in Occidente, “per la costola di Adamo10”». Ma cosa significa il termine “Graal”? Von Eschenbach connette il vocabolo al termine lapis exillis; è una parola enigmatica, che è stata interpretata in vario modo: lapis erilis, cioè “pietra del Signore”, lapis elixir, con riferimento all’elisir alchemico della rigenerazione, lapis betillis o lapis betilus, con riferimento al betilo, cioè alla pietra caduta dal cielo della tradizione greca, lapis ex coelis o lapis de coelis, cioè “pietra celeste11”. Qualunque sia il significato, appare evidente la connessione del Graal con la pietra, in particolare con una “pietra luciferina”; anche in altre tradizioni, che collegano il Graal alla Coppa, il legame con la pietra non è rotto: è il caso, ad esempio, del Wartburkrieg, in cui “una pietra saltò via dalla corona di Lucifero quando questi fu colpito dall’arcangelo Michele. Tale è la pietra degli eletti, caduta in terra dal cielo, che Parsifal ritrovò e che era già stata raccolta da Titurel, il quale è capostipite della dinastia del

Graal. Il Graal sarebbe questa pietra luciferina”12. In altre tradizioni, la pietra caduta in terra sarebbe stata uno smeraldo che ornava la stessa fronte di Lucifero: fu tagliata in forma di coppa da un angelo fedele che la dette ad Adamo, il quale la poté tenere sino all’atto della sua ribellione, allorquando venne cacciato da Paradiso Terrestre e la Coppa potrà essere ritrovata dal figlio Seth13. Inutile sottolineare come il collegamento con la pietra abbia portato alcuni critici a parlare di influenze islamiche14 (sicuramente presenti in von Eschenbach, se non altro per il ruolo dell’islamico Feirefiz), se non addirittura di fonti persiane15. Se è indubbio che in von Eschenbach ci siano delle influenze islamiche, appare sicuramente fuori luogo voler collocare il mito del Graal totalmente al di fuori della tradizione celtica; quello che però è fondamentale è il significato archetipico ed universale del mito e dei simboli del Graal16. Da parte nostra, però, appare legittimo domandarci se il simbolismo della pietra nella tradizione graalica ed in quella massonica possano essere accostati. Innanzitutto vediamo i vari simbolismi litici, presenti nelle varie tradizioni religiose; per prima cosa dobbiamo evidenziare che la pietra rappresenta la Realtà in sé: “Per la coscienza religiosa del primitivo, la durezza, la ruvidità e la permanenza della materia sono una ierofania. … Il sasso, anzitutto, è. Rimane sempre se stesso e perdura; cosa più importante di tutte, 83


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colpisce”17. Se guardiamo ai vari simbolismi litici, possiamo vedere un ventaglio di significati, individuali o universali, che possono evidenziarsi nei megaliti funerari, nelle pietre fecondatrici, nelle pietre forate e nelle pietre del fulmine, nei meteoriti e nei betili (cioè in quelle pietre particolari che hanno rivestito il ruolo e la posizione di “Centro del mondo”18… Venendo al simbolismo massonico della “Pietra”, vediamo che nel Catechismo di Apprendista leggiamo che alla domanda su quale sia la principale occupazione dei Liberi Muratori si risponde che è dirozzare le pietre brute e grezze19, nel senso che è l’Apprendista stesso ad essere quella pietra grezza che deve venir levigata nei tre gradi della Massoneria Azzurra. Questo è il fine dei Piccoli Misteri tipici della Corporazione di Mestiere. Il Cavaliere che, con la Cerca, tenta di trovare il Graal inteso come Pietra, se vuole riuscire nel suo tentativo deve necessariamente realizzare, dentro di sé, tutte quelle virtù proprie della Cavalleria: è questo il sine qua non, anche se non sarà ancora sufficiente, di per sé, a fargli raggiungere l’obiettivo. Non può sfuggire l’analogia con l’Apprendista che deve necessariamente spogliarsi realmente dei metalli e, a poco a poco, acquisire le virtù – e quindi le conoscenze necessarie per la realizzazione dei Piccoli Misteri. Ciò lo porterà solo sino ad un certo punto, sicuramente non al ritrovamento della Parola Perduta, così come il Cavaliere che cerca il Graal ma ancora non lo trova. Abbiamo, così, la prima analogia. Nel Terzo Grado apprendiamo il dram84

ma della vicenda di Hiram: tre Compagni, colpevolmente infedeli, assassinano il Maestro che si rifiuta di comunicare loro la Parola di Maestro. Con la morte di Hiram, la Parola è ormai perduta e profonde regnano le tenebre: dalla Parola originaria si passa così alla Parola sostituta. Il IV grado parte da qui. Lo scenario del lutto e della morte è immediatamente visibile dalla decorazione del Tempio, dall’emblema araldico, dai guanti neri e dal grembiule del Maestro Segreto e dal Catechismo (“«D. – Che cosa hai visto? R. – La tomba del Maestro Hiram, sulla quale ho versato molte lacrime insieme ai miei Fratelli»20. Nel Cerimoniale dell’Iniziazione al IV grado l’atmosfera di morte è esplicita: “Potentissimo: Fratello mio, sei entrato in un Tempio che fu già radioso; le tenebre lo hanno gettato nel lutto”21. Appare evidente, fra III e IV grado, con quanto raccontato nella Leggenda del Graal, a proposito della vicenda del Re Pescatore. In Chrétien, al Re Pescatore vengono trafitti, in battaglia, entrambi i fianchi da un giavellotto, cosa che gli impedisce di cavalcare e di camminare; cacciato dal suo paese, il Re paralitico deve dimorare in una selva desolata, che rimarrà sterile sino al giorno in cui non verrà redenta dalla domanda liberatoria del prescelto22. La sterilità del Re, analoga alla sterilità della terra cioè, rappresenta il passaggio dall’età dell’oro a quella oscura, destinata a perdurare sino a quando qualcuno non riacquisti il segreto perduto: la dottrina dei cicli, rappresentata nel mito del Graal

con la vicenda del Re Pescatore, non può non essere vista in analogia con la leggenda hiramica, nella quale all’età paradisiaca, rappresentata dall’interazione fra Re Salomone e l’Architetto Hiram Abif, succede quella oscura a seguito dell’assassinio del Costruttore: proprio a seguito di questa morte diviene necessario riacquisire quello che si è perduto. L’esoterismo legato alla Cerca del Graal e l’esoterismo massonico cercano di riparare ciò che si è spezzato: “Vi sono nelle iniziazioni occidentali almeno due esempi ben noti della ricerca in questione: la «cerca del Graal» nelle iniziazioni cavalleresche del medioevo e la «ricerca della parola perduta» nell’iniziazione massonica, che si possono considerare tipici delle due principali forme di simbolismo che abbiamo indicato”23. Il tema della ricerca della Parola aleggia ovunque nel Rituale del IV grado: “La parola di vita è perduta”24, dice Adonhiram, ed il Fratello che chiede l’ammissione al IV grado “è un Fratello che cerca la parola perduta”25. Il tema della Cerca della Parola è più chiaro nel Manoscritto del 4° grado FM 768 Maître Secret: “ D. - Avete visto qualcosa entrando nel Santo dei Santi? R. - Ho visto una grande e salutare luminosità senza poterla conoscere. D. - Che cosa vi era in questa brillante luminosità? R. - Il Grande e ineffabile nome del G\A\ D\U\ ... Mosè solo ne possedeva la vera pronuncia, che ebbe da Dio quando gli comparve sulla montagna. Mosè fece allora una legge che rese pubblica per vietare di pronunciarlo, il che fu causa della perdita della vera pronuncia; ma io spero un giorno di avere la conoscenza di questa parola ineffabile.”26. Poco cambia tra la vera pronuncia e la vera parola, in quanto la Verità e la Parola sono indissolubilmente legate, in quanto l’una e l’altra permettono di avvicinarsi ad una concezione univoca del Principi e, mediante, tale ritrovamento, di ritrovare l’Unità perduta27. La Parola perduta, nella Tradizione massonica, viene sostituita, analogamente a quanto avviene nella leggenda del Graal: “non si può forse affermare la stessa «Tavola Rotonda» è in definitiva soltanto un «sostituto», dal momento che, benché


essa sia destinata a ricevere il Graal, questo non vi prende mai effettivamente luogo?”28. Del resto, sia pure nascostamente, l’importanza della Parola compare anche nella Tradizione graalica: nel Chrétien, allorché il giovane Perceval viene accolto nel Palazzo del Re Pescatore, ha ripetutamente la visione del Graal, ma non pone la domanda, cioè non pronuncia la parola: questo lo pone nell’impossibilità di ricevere il Graal29. Come cavalieri in cerca del Graal perduto, i Maestri Segreti ricercano la Parola perduta: il suo ritrovamento è un qualcosa che, come non compete ai Cavalieri della Tavola Rotonda (che in fondo falliranno nell’impresa, ad esclusione dell’Eletto che si pone, però, su un piano iniziatico più alto), non verrà raggiunto nel IV grado, ma continuerà negli sviluppi successivi. _____________ Note: 1 Julius Evola, nel suo interessante Il Mistero del Graal, Mediterranee, Roma, 1972, p. 62 propone un’altra semplificazione, non tanto in base alla tipologia del Graal, ma ai cicli letterari: A) Ciclo di Robert de Boron, che comprende: a-il Joseph de Arimathia; b-il Merlin; c-il Perlesvaus. B) Il Conte du Graal di Chrétien de Toyes, insieme a: a-una prima continuazione da parte di Gautier de Doulens; b-una seconda continuazione da parte di Manessier; c-una interpolazione da parte di Gerbert de Mostreul. C) Il cosiddetto Grand Saint Graal. D) Il Perceval li Gallois in prosa. E) La Queste del Saint Graal, penultima parte del Lancellotto in prosa. F) Il Parzifal di Wolfram von Eschenbach, a cui si può associare il Titurel di Albrecht von Scharffenberg e il Wartburgkrieg; G) La Morte Darthur diMalory. H) Il Diu Crône di Heinrich von dem Turlin.

7 Wolfram von Eschenbach, Parzival, a cura di Adele Cipolla, in Il Graal. I testi che hanno fondato la leggenda, Milano, 2005, pp. 1285-1286. 8 Ibid., pp. 1418-19. 9 Ibid. p. 1612. 10 Adele Cipolla, in ibid., p. 1125. 11 Julius Evola, Op. cit., p. 77. 12 Cfr. Der Wartburgkrieg, ed. K, Simrock, Stuttgart, 1858, pp. 174-178, §§ 142-145, in J.Evola. 13 Op. cit., p. 78. 14 Cfr. P. Ponsoye, L’Islam e il Graal, Parma, 1980. 15 Cfr. M. Moiraghi, Il Grande Libro del Graal, Milano, 2006, pp. 67-104. 16 Cfr. J. Evola, Op. Cit., pp. 14-17. 17 M. Eliade, Trattato di Storia delle Religioni, Torino, 1986, p. 222. 18 Cfr. M. Eliade, Op. cit, pp. 222-241. 19 Cfr. Gran Loggia degli A.L.A.M., Rituale e Istruzioni per il Fratello Maestro Libero Muratore (III Grado Simbolico), Roma, 2003, p. 38 : “ «D. – Queste pietre come si presentavano agli Operai addetti alla costruzione del Tempio? R – Esse erano grezze e brutte in principio, dai Fratelli Apprendisti venivano poi dirozzate, dai Fratelli Compagni squadrate a cubi e dai Fratelli Maestri venivano finalmente cementate per la debita edificazione». 20 Gran Loggia degli A.L.A.M., Rituale e Istruzioni Fratello Maestro Segreto (4° grado simbolico), Roma, 2010, p. 29. 21 Gran Loggia degli A.L.A.M., Rituale e Istruzioni Fratello Maestro Segreto (IV grado simbolico), Roma, 2010, p. 16. 22 Cfr. Margarete Riemschneider, Miti pagani e miti cristiani, Rusconi, Milano, 1973, pp. 37-50. 23 R. Guénon, «Parola perduta» e parole sostituite, in Studi sulla Massoneria, Basaia Editore, Roma, 1983, p. 101.

2 In questo errore è caduto anche Adrian Gilbert, Il Regno Sacro, Milano, 2001, p. 35. Il testo, peraltro, è interessante per la ricostruzione delle fonti che hanno parlato di Artù.

24 Gran Loggia degli A.L.A.M., Rituale e Istruzioni Fratello Maestro Segreto (IV grado simbolico), Roma, 2010, p. 17.

3 In tal senso cfr. Margarete Riemschneider, Miti pagani e miti cristiani, Milano, 1973, pp. 51-81. In chiave fantasy questa identificazione è stata ripresa da un’autrice di romanzi: Marion Zimmer Bradlay, Le nebbie di Avalon, Milano, 1990. Il testo, con riecheggiamenti tratti dalla Margaret Murray e, probabilmente, da Dion Fortune, propone un’interessante versione pagana al femminile della Cerca del Graal.

26 René Mainguy, Simbolica dei gradi di perfezione e degli ordini di saggezza, Roma, 2007, p. 99.

4 Cfr. Mariantonia Liborio, Sotto il segno del doppio, in Il Graal, a cura di Mariantonia Liborio, Milano, 2005, n. 70, p. 41. 5 Cfr. Julius Evola, Op. cit., p. 69. 6 Cfr. Julius Evola, Op. cit., pp. 69-77.

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25 Ibid., p. 19

27 Cfr. ibid., p. 81. 28 R. Guénon, Op. cit., p. 101. 29 Cfr. Chrétien de Troyes, La storia del Graal, in Il Graal, a cura di Mariantonia Liborio, Milano, 2005, pp. 96-100.

P.82: Coppia di Scacchi medievali (Re e Regina); p.81 e 83: repliche di armi medievali; p.80, 82, 84 e 85: Manoscritti medievali miniati.

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Medicina e ritualitĂ Paolo Maggi

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I

l paziente aspetta il suo turno nella sala d’attesa. L’arredamento della stanza è inconfondibile e non si presta ad equivoci: è un luogo attrezzato solo per le attese. Qualche rivista sul tavolino e la presenza di altri pazienti possono creare solo un passeggero momento di distrazione. In realtà ogni paziente è solo con i suoi pensieri. È in un gabinetto di riflessione. Ora tocca a lui. Viene introdotto nella stanza delle visite. Anche questo non può essere un luogo scelto a caso. Non si visita mai in un corridoio, in un luogo di passaggio, in un ambiente destinato ad altro. Le immagini alle pareti sono strane ed enigmatiche, spesso indecifrabili per il paziente. In genere sono corpi dissezionati, apparati, organi ... L’ambulatorio è un ambiente misterioso, un’area consacrata solo ad un atto: quello della visita. È un’area sacra. In un punto centrale della stanza campeggia sempre il lettino delle visite. Quasi un’ara. Il medico indossa il suo camice bianco. È un indumento inconfondibile, una sorta di paramento sacerdotale. Non è accettabile visitare in giacca e cravatta o con altri tipi di vestiario: il medico non sarebbe credibile. Il paramento va sempre indossato nel corso di questa ritualità.

È giunto il momento di un atto rituale di fondamentale importanza: quello della spoliazione. A volte è solo parziale: “scopra il torace”, “scopra la pancia”, “mi faccia vedere il ginocchio”. A volte è totale. Capita di dover indossare in questi casi, soprattutto se le visite sono in ospedale, un apposito indumento. In genere una tunica bianca. Finalmente inizia la visita. Le mani del medico si spostano con tocchi leggeri e veloci, percorrendo tutto il corpo. Percuotono, palpano, premono, secondo antichi e misteriosi codici. Strani strumenti, a tratti, accompagnano il rituale: martelletti, luci, specchi, stetoscopi. A volte devono essere pronunciate parole dal senso incomprensibile: “dica trentatre”. L’effetto catartico di questo rito è concreto e immediato: il silenzio regna. Il paziente cessa di narrare la sua storia, cessano le sue domande. Il medico cessa le sue spiegazioni. Non c’è più bisogno di parole. Ora, quello che, almeno agli occhi del paziente, è un misterioso rituale, finalmente si conclude. Ma da questo momento in poi tutto è radicalmente cambiato in quel luogo. Il contatto fisico ha mutato definitivamente il rapporto fra i due protagonisti. Ha creato una confi-

denza e un legame che prima non c’erano. E forse ancora di più. La presenza di così forti elementi rituali nella visita medica non ci deve indurre in equivoci: questo rito non è poi così antico come si potrebbe immaginare. Anzi, paradossalmente, è nato in pieno illuminismo, un’epoca in cui la componente magico-ritualistica presente nella scienza pre-galileiana era stata definitivamente bandita. In tempi più antichi il medico non visitava che molto sommariamente il suo paziente. In genere si limitava ad osservare la parte del corpo ritenuta malata, o si attardava nella meticolosa osservazione delle sue deiezioni e nella degustazione del suo sudore e delle sue urine. I contatti fisici erano per lo più riservati agli interventi: qualche sutura, un bel salasso, un’amputazione ... Durante le pestilenze, poi, il medico visitava il malato da lontano, toccandolo con una bacchetta, e con il volto ben occultato dietro una maschera. Certo, in tutto questo vi erano venerabili eccezioni: Ippocrate diagnosticava malattie di fegato osservando la cute itterica o i segni di un coma epatico. E riusciva a sentire con l’orecchio i rumori liquidi dei versamenti pleurici. Galeno poi era capace di scrivere 16 volumi sull’osservazione, interpretazione e prognosi del battito del polso. Ma, si sa, 87


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non tutti i medici dell’antichità sono stati al pari di Ippocrate e Galeno. E così bisognerà aspettare il XVIII secolo per veder nascere l’esame obiettivo, come noi oggi lo intendiamo. E la paternità spetta senza dubbio al medico austriaco Joseph Leopold Auerbrugger che, da bravo figlio di un oste, aveva ben imparato da suo padre a percuotere le botti con il dito per capire qual’era il livello di liquido al loro interno. Applicando questo metodo al corpo umano, riusciva a raccogliere un’enorme quantità di informazioni sulle condizioni dei polmoni, dell’addome, del cuore, del fegato e della milza dei suoi pazienti. Auerbrugger, in vita, non ebbe tuttavia quel successo che si sarebbe indubbiamente meritato e, con ogni probabilità, la sua arte sarebbe morta insieme al suo scopritore se non fosse 88

stata adottata e divulgata da un suo collega assai più illustre e fortunato: Jean Nicholas Corvisart, il medico personale di Napoleone Bonaparte. A perfezionare ulteriormente le tecniche dell’esame obiettivo è poi intervenuto Rene Theophile Laennec che, agli inizi dell’800, inventò uno strumento preziosissimo, lo stetoscopio, che ha egregiamente sostituito il contatto tra orecchio del medico e torace del paziente. Era il 1816 e il medico si trovava in visita presso una sua giovane e prosperosa paziente. Un po’ per le difficoltà dovute al sovrappeso della signora, un po’ a causa della presenza del marito, evidentemente geloso, Laennec era in grande imbarazzo ad affrontare la fase dell’auscultazione del cuore: avrebbe dovuto, come allora si faceva, appoggiare direttamente l’orecchio sul petto della paziente. Si ricordò allora di aver visto, attraversando la corte del Louvre, dei ragazzi che, poggiando l’orecchio all’estremità di un lungo asse di legno, si divertivano ad ascoltare il suono amplificato dello sfregamento di un piccolo chiodo posto all’estremità opposta dell’asse. Fece allora un cilindro con un quadernetto di appunti legato con un filo e lo appoggiò al petto della signora. Risolse il suo imbarazzo e si accorse di riuscire a sentire i suoni del cuore assai meglio del consueto. Successivamente perfezionò egli stesso il modello, facendolo costruire in legno. Dunque, sebbene l’esame obiettivo sia straordinariamente ricco di valenze rituali, la cosa non è affatto intenzionale. Possiamo invece dire che su questo mo-

mento così critico nella vita di ciascuno di noi si proietta, e si rivela, il profondo bisogno inconscio di ritualità insito nell’ uomo. Insomma, durante la visita, inconsciamente, si mette in scena un rituale archetipo in cui il medico e il suo paziente rivestono dei ruoli ben precisi. E su questo gli antropologi non hanno alcun dubbio: la visita medica ha davvero in sé tutte le caratteristiche canoniche di un rituale. E soprattutto, come ogni rituale importante, ha la funzione di marcare un cambiamento. Ogni rito è l’attraversamento di una soglia, è il passaggio tra un prima e un dopo. Lo sono i riti socialmente più diffusi che scandiscono le nostre vite, battesimi, matrimoni, funerali, transizioni di poteri. Lo sono tutti i riti iniziatici. E lo è anche l’esame obiettivo a cui il medico sottopone il paziente. Come ogni rito, anche la visita consacra una trasformazione, un passaggio da uno stato all’altro. E questo vale per entrambi i protagonisti: tanto il paziente quanto il medico oltrepasseranno la soglia tra un prima e un dopo. Ma quale cambiamento si attende il malato, sia pur inconsciamente, dalla visita? Quale soglia sta attraversando, insieme al suo medico, nel momento in cui questi percorre con le mani il suo corpo? Il paziente, offrendo il suo corpo all’esame del medico, passa da uno stato di solitaria sofferenza ad uno stato di condivisone del suo male. Il suo dolore, la sua malattia, il suo stesso corpo, fuoriescono dalla sfera individuale e vengono validati dal suo medico. Il medico, a sua volta, nel momento in cui il malato si offre alla


sua osservazione, viene validato nel suo ruolo: egli ha ora il pieno consenso per poter esplorare quel corpo, quel dolore, quella malattia e si assume ritualmente il difficile compito di prendersene cura. Formula un impegnativo, implicito giuramento: “D’ora in poi tu non sarai più solo nella tua sofferenza. E io, come medico, sarò presente nella tua vita”. Questo rito, peraltro, non è un evento unico ed irripetibile; anzi, per sua stessa natura, è ciclico e deve essere rinnovato, per poter confermare ogni volta il patto e l’alleanza tra medico e paziente, che saranno, da esso, reciprocamente consacrati. Se qualcuno ha pensato che i rapporti tra l’esame obiettivo del medico e i riti iniziatici siano solo un futile argomento di discussione tra appassionati di esoterismo, si è sbagliato di grosso: la tematica sta interessando studiosi di prestigiose scuole di medicina statunitensi, come Abraham Verghese, medico e professore di Teoria e pratica della medicina alla Stanford University. Egli è anche uno dei protagonisti di un programma educativo facilmente reperibile in rete, Stanford Medicine 25, che vuole tornare a valorizzare la visita al letto del paziente, attraverso le 25 manovre semeiologiche fondamentali per la pratica clinica. Verghese ha dedicato al tema della ritualità in medicina diverse lezioni e libri di successo. Vi è un’altra caratteristica della ritualità che riveste un ruolo fondamentale in medicina: i comportamenti ripetitivi, come ci suggeriscono le neuroscienze, riducono l’ansia e aiutano a vincere lo stress generato dagli imprevisti e dalla difficoltà a controllare gli eventi nuovi. I rituali, per definizione, sono basati sulla ripetitività. Le loro reiterazioni trasmettono sicurezza. Per affrontare ogni cambiamento ciascuno di noi ha necessità vitale di serenità. Quanto più è radicale il cambiamento, tanto più è necessario associarlo ad un rituale che trasmetta sicurezza e ci aiuti a concentrare tutte le nostre energie mentali sul cambiamento che dobbiamo affrontare. La malattia è un cambiamento troppo profondo per non dover essere associato ad un rituale. La visita trasmette quella sicurezza di cui il paziente, ma anche il suo medico, ha necessità vitale. La rinnovata attenzione all’esame obiet-

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tivo del medico, al contatto fisico tra medico e paziente, nasce dalla triste constatazione che la maggior parte dei giovani medici non è più in grado di eseguire un esame obiettivo. Ormai molto spesso la classica visita al letto del malato è sostituita da un briefing attorno al computer, nel quale si esaminano lastre, referti, numeri. Così il paziente, virtualizzato, per usare le parole di Verghese, è diventato una sorta di i-Patient. La medicina virtualizzata ha quasi completamente espulso dalle sue procedure il contatto fisico con il corpo del paziente, il suo polso, la sua fronte. La prescrizione di migliaia di esami ha tolto spazio all’ascolto del suo vissuto, alla risposta alle sue speranze di vita e di salute. Dice il grande cardiologo Bernard Lown: “I medici hanno imparato, credo a torto, a considerare la tecnologia come un sostituto costoso del tempo passato con i pazienti”. Lo stesso paziente si è ormai convinto che il suo corpo coincida con le immagini che si ottengono dalle tecnologie diagnostiche e dalle sfilze di numeri che escono dagli apparecchi usati per analizzare il nostro sangue. Così pensa di tenere egregiamente sotto controllo la propria salute sottoponendosi a prelievi,

ecografie, tac o risonanze magnetiche. Meglio avere a disposizione una buona lastra che un buon medico. Ora che abbiamo trasformato il paziente in un i-Patient non abbiamo più a che fare con un corpo, ma con le sue immagini virtuali, che allontanano sempre più il medico dal malato. E così, perdendo la ritualità della visita, abbiamo dimenticato l’immenso potere della mano dell’uomo di toccare, diagnosticare, confortare, curare. Stiamo perdendo un rituale prezioso. Un rituale che è il cuore del rapporto medico-paziente. Con poteri, se non magici, certamente capaci di generare trasformazione e trascendenza. ______________ Bibliografia: http://www.ted.com/talks/abraham_verghese_a_ doctor_s_touch.html http://www.youtube.com/watch?v=ER-tV759hvw http://stanfordmedicine25.stanford.edu/ B. Lown, L’arte perduta di guarire. Milano 1997, trad. C. Spinoglio.

P.86: Borsa ed attrezzatura di un medico, prima metà del ‘900; P.87/89: Stetoscopi del XIX e XX secolo.

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Scienza

Scienza e religioni Un’interpretazione della Scienza in chiave liberomuratoria Vittorio Gallo

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on può non apparire contraddittorio il binomio “illuminismo-esoterismo” così come, di converso quello “Massoneria-esoterismo”, anche se accettato come dato di fatto. Si può ragionare e discutere sul significato dell’esoterismo all’interno di una associazione nata nel periodo dei Lumi, almeno nella sua accezione moderna. Molti sono stati i lavori, schierati su opposti fronti, redatti in seno alla liberomutatoria e anche in ambiente profano, riguardo a tali questioni. D’altra parte relativismo ed esoterismo erano già presenti nelle prime formulazioni della leggenda rosacruciana. Ciò non significa che l’esoterismo seicentesco e l’illuminismo razionalista settecentesco siano riusciti subito a coesistere nelle logge massoniche. Al contrario, una reazione contro le Costituzioni, considerate troppo inclini al razionalismo, determinò lo scisma degli Antients (“Antichi”) nel 1743 nella città di York, che terminò con la riunione con i Moderns di Londra solo nel 1813. Moderns e Antients furono dunque al centro di un’aspra disputa sull’interpretazione da dare all’istituzione massonica: fratellanza folosofico-religiosa per alcuni, sodalizio occultistico per altri, associazione per la fraterna assistenza e per l’elevazione morale per i più. Ora, argomenti spinosi come gnosi-esoterismo-alchimia-scienza-religione-illuminismo e le loro correlazioni con la Massoneria sono dunque di attualità, almeno per chi dovrebbe avere a cuore una cultura epistemologica di tal fatta, essendo la Massoneria una Società Iniziatica, Esoterica ed Elitaria, con adepti tenuti a seguire questa definizione. Opportuno un piccolo passo indietro per stabilire un importante principio, sul quale molti fratelli che si occupano di “Massoneria teoretica” hanno proprio posizioni opposte ed antitetiche. La Massoneria Speculativa, figlia dell’Illuminismo tendenzialmente giacobino, porta con sé il razionalismo etico-progressista proprio di quel momento storico accompagnato da un ineluttabile fenomeno di laicizzazione della Liberomuratoria, mentre la Massoneria Operativa, che era Arte Sacra, riproduceva nello spazio l’architettura divina del Creato. L’Illuminismo potrebbe dunque esse-

Scienza

re considerato antitetico ai nostri precetti tradizionali, poiché eleva se stesso ad unico paradigma in grado di svelare i misteri della natura. Mentre all’opposto, nella Tradizione, la “ragione” - intesa come razionalità - è subordinata alla “intuizione” (principio gnostico), la sola in grado di avvicinare l’ordine metafisico. Dunque non è così scontato che l’Illuminismo sia da considerare terra comune fra scienza e Massoneria. Il mito del parallelismo Massoneria-Illuminismo è stato certo alimentato dal fatto che molti scienziati furono anche massoni senza, tuttavia, apportare conseguenze rilevan-

ti alla “storia naturale” della Confraternita. Infatti i rituali massonici (significato simbolico-allegorico della Tradizione) ne uscirono indenni e invariati dall’esperienza illuministica. Dunque la Massoneria non può tanto nascere come espressione del pensiero illuminista, piuttosto come espressione filosofica neoplatonica lontana, allora, dall’empirismo e dal razionalismo settecentesco, che appare chiaramente incompatibile con i presupposti trascendenti e metafisici della Liberomuratoria. Possiamo comunque domandarci se esista un terreno comune dove i principi 91


Scienza

della scienza di derivazione settecentesca-illuministica ed i principi della Massoneria di ispirazione neoplatonica si possano incontrare in una visione che superi la contrapposizione tra ragione ed intuizione-illuminazione (gnosi) così come il dualismo tra spirito e materia. Certamente esiste un legame tra Massoneria e alchimia, definibile come“prescienza”, che può costituire la base di una “Nuova Scienza”, o scienza post-moderna, che vede i limiti del vecchio approccio della scienza “sperimentale” (di stampo illuministico) basato sulla specializzazione del sapere, sull’uso del metodo logico-deduttivo, che costituisce a 92

tutt’oggi la Scienza ufficiale, quella, per intenderci, che viene ampiamente esercitata nelle nostre università, templi laici e profani dove la metafisica è tacciata di antistoricismo. L’alchimia, come la Liberomuratoria, concepisce, partendo da materia impura, una sostanza perfetta, capace di trasferire ad altre sostanze la perfezione, così come il massone la sua conoscenza. Ma è necessaria la presenza del trascendente. I percorsi conoscitivi alchemici e massonici sono il risultato di un lavoro in cui lo spirito torna alla propria fonte, la materia, animandola e nobilitandola. La rivelazione dei misteri, alchemici e massoni-

ci, discende dall’alto e può essere percepita solo da uomini dotati di elevata spiritualità (principio gnostico). Alchimia e Liberomuratoria hanno come comune campo d’indagine sia la materia che lo spirito, la ricerca di un linguaggio simbolico che esprima integrazione fra materia e spirito, una “lingua esoterica” che intende suscitare la conoscenza per intuizione (gnosi), piuttosto che razionalmente. L’esoterismo tende alla gnosi e questa presuppone l’ermetismo. La natura è vista dall’alchimista come custode divino che governa gli elementi, forza strutturante di tutta la realtà, invisibile ai sensi, che può essere ritrovata con il “lavoro”, mediante l’opera. Si ritrovano, questi principi, nel rituale massonico dove si invita il maestro alla contemplazione della natura: “Alla vostra mente ... la natura presenta un’ulteriore grande ed utile lezione: mediante la contemplazione vi prepara per l’ultima ora della vostra esistenza; e quando, grazie a tale contemplazione, essa vi ha condotto attraverso gli intricati sentieri di questa vita mortale, vi istruisce su come morire”. Gli ispiratori dei valori alchemici furono tanti e importanti, non certo empiristi, bensì studiosi che si trovavano a metà tra mondo alchemico e scientifico (Michael Maier, rosacrociano, Robert Fludd, medico ed esoterista, Elias Ashmole, scrittore, massone, alchimista). Ma sopra tutti Isaac Newton, che con con Robert Boyl, all’interno della Royal Society, subì il fascino dell’alchimia quando l’Illuminismo era ormai alle porte. Newton scrisse più di alchimia che di fisica: di lui si disse essere stato “l’ultimo dei maghi”. La scienza moderna, contemporanea, è dunque figlia dell’Illuminismo e si attua secondo il metodo empirico-strumentale. Al contrario, la filosofia neoplatonica non pretende di dominare la natura ma vuole comprenderla dall’interno. Attraverso la contemplazione della natura, dopo aver acquisito la Virtù e la conoscenza intellettuale attraverso lo studio delle arti liberali, l’uomo s’avvicina al mistero, e la vera conoscenza la si raggiunge solo per ispirazione attraverso la contemplazione della natura e per intuizione-illuminazione (gnosi). Come scrisse Elémir Zolla, chi entra in una società iniziatica già ha in sé il con-


vincimento che non si possa spiegare e comprendere tutto con la sola logica, con la razionalità, sa che esiste un mistero e crede che lo si possa raggiungere con la conoscenza intuitiva, ovvero con l’illuminazione (gnosi). La Scienza massonica potrebbe dunque essere identificata con la Scienza Noetica (nous), intuitiva, finalizzata anche alla comprensione del sacro attraverso la natura; dunque giungere allo spirito attraverso la materia (visione spinoziana dell’esistenza), essendo ben presente, nella Liberomuratoria, l’esigenza di superare il razionalismo e lo scientismo illuminista di derivazione cartesiana (natura = macchina inerte che si spiega al di fuori dell’uomo, priva di valenza divina o spirituale). Il razionalismo, come precisa Pierre Riffard, “è il principale nemico dell’esoterismo, poiché rifiuta il misticismo, la rivelazione, e la tradizione ... Ma gli esoteristi non hanno mai negato la ragione, l’hanno solo situata, classificata come il metodo adatto a un campo ... L’esoterista nega il pregiudizio razionalistico ma non disprezza la ragione: ne cerca il fondamento e ne ha trovato il prolungamento, lo spirito”. Ma il pensiero massonico supera anche la visione spinoziana di un Dio immanente alla natura per riconoscere l’esistenza del trascendente, cioè di un principio divino che aleggia dentro la natura ma si colloca oltre l’uomo e le cose umane. La contemplazione della natura è allora il mezzo per arrivare alla verità che risiede altrove, nella dimensione trascendente, che si raggiunge solo “imparando a morire” alle cose terrene e alla propria umanità, come insegna il III grado. Ma già durante il Rinascimento nasce, sfociando nell’odierno culto della scienza, l’avversione alla contemplazione in favore dell’azione, L’avversione alla contemplazione in favore dell’azione nasce già nel Rinascimento, sfociando nell’odierno culto della scienza, nel coinvolgimento attivo nel sociale, nell’amore per la misurazione dei fenomeni, anche se merito innegabile dell’Illuminismo fu di slegare il ricercatore dai lacci teologici e religiosi fino ad allora imperanti. Dunque qual è, oggi, l’atteggiamento, almeno riferito al pensiero più che

alla prassi, che conduce l’epistemologia? Oggi forse stiamo assistendo, e non si vorrebbe peccare di ottimismo nell’asserire tale convincimento, al crescere di una nuova “coscienza scientifica” che individua e propone un nuovo sapere unitario, olistico (vedi le ricerche in campo medico e psicologico cognitivo). L’organismo umano è oggi sempre più considerato come una unità inscindibile fatta di mente, corpo e coscienza che supera la divisione cartesiana in res cogitans e res extensa (il dualismo di sostanza pensante e di sostanza estesa, per il quale ciascuna di esse si comporta secondo una legge propria; la legge della sostanza spi-

rituale essendo la libertà, e la legge della sostanza estesa, il meccanismo). Certamente la ricerca avanzata, che si fonda su raffinate tecnologie biomolecolari, sullo studio della genetica piuttosto che sulla fisica delle particelle, richiede mezzi tecnici superavanzati, pensiero

Scienza tecnologico che supera se stesso ad ogni passo che in avanti si compie. Ma è forse il pensiero che sta alla base di queste ricerche che è mutato filosoficamente negli ultimi anni. Il “sospetto”, assai positivo, in questo caso, è che forse anche solo

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in modo inconscio, si vada alla ricerca della spiegazione “ultima”, la spiegazione “del tutto”. La ricerca biomolecolare e la fisica quantistica in qualche modo operano nella stessa direzione. In altre parole, non è tanto più la scoperta di un ulteriore organello intracellulare, non solo

Scienza più il fine meccanismo d’azione di un virus sulla cellula ospite, non solo l’arrivare alla comprensione del meccanismo che regola la sostanza reticolare del cervello in funzione dei ricordi, e neanche la scoperta di una nuova particella elementare nella fisica quantistica. Piuttosto è il pensiero che chi si occupa di scienza pone alla base di tutto ciò. È la

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teoria che unifica i meccanismi del soma con quelli di psyché, e ancora come soma e psyché si trovino ad essere costituiti, nei recessi della più fine materia/non materia, da qualcosa che uomo e cosmo-universo hanno in comune. È il cosmoteandrismo di panikkariana memoria. La ricerca delle analogie tra micro e macrocosmo (principio di isomorfismo) è in qualche modo sovrapponibile al principio ermetico e massonico del “come in alto così in basso” (simbolismo dei due globi, celeste e terreno). La stessa relazione sembra dunque sussistere tra organi, cellule e particelle elementari. Ogni parte della creazione pare contenere l’informazione del tutto, come sembra suggerire anche la scienza dei “frattali” (conoscenza di matrice platonica che per esse-

re conosciuta deve solo affiorare). La materia osservata e la coscienza dell’osservatore si congiungono per influenzarsi in un unico campo d’indagine: il soggetto è connesso all’oggetto. Continuerebbe l’universo ad esistere in assenza di un osservatore? È probabile che l’universo, per esistere, richieda proprio un osservatore senziente e consapevole: in sua assenza l’universo esisterebbe solo in potenza. Che pensiero incredibile, meraviglioso ed inquietante! Dunque la coscienza creerebbe e modificherebbe la materia. L’atto dell’osservare crea interazione con l’oggetto osservato e lo modifica; principio già noto agli alchimisti che conoscevano i passaggi della natura da interno ad esterno e viceversa. Necessaria dunque una virata del paradigma scientifico verso quello che si può definire paradigma idealistico, in cui la consapevolezza è il fondamento dell’esistenza e la materia risponde allo spirito (principio di complementarietà di Bohr; principio di non località di Pauli). In questo senso l’uomo sarebbe il senso stesso dell’universo, come già teorizzava Pico della Mirandola, rappresentante della gnosi rinascimentale. Il collegamento fra cielo e terra, tra immanente e trascendente, sono temi fondamentali della Liberomuratoria, che indicano la necessità del superamento del separatismo materialista della scienza tradizionale di matrice illuminista, che non può più prescindere dalla coscienza umana e quindi dalla dimensione trascendente di un’energia intelligente. Questa nuova scienza recupera l’antica tradizione greca, neoplatonica, misticoreligiosa ed iniziatica. L’occhio inscritto nel triangolo luminoso della simbologia Liberomuratoria è il nostro terzo occhio, quello di una conoscenza interiore innata e spontanea: la coscienza divina. Come scrive Raimon Panikkar “... sono sempre stato aperto alle tre dimensioni della realtà: la realtà sensibile, empirica, che rientra nell’area in cui si esercitano direttamente i sensi tradizionali della percezione; la realtà che mi viene rivelata dalla ragione, che corregge i dati dei sensi; e una terza dimensione, che si potrebbe chiamare “visione mistica”, che i Vittorini, nel XII secolo, a Parigi, chiamavano il terzo occhio, quello con cui accediamo alla ter-


za dimensione della realtà ...” Ciò che Elémir Zolla ha indicato come elemento sovrarazionale. È l’occhio del G.A.D.U. Ma, come dice la fisica quantistica, potrebbe rappresentare l’occhio dell’osservatore cosciente che nell’atto di guardare consapevolmente crea e modifica il mondo. E se l’osservatore è un creatore o modificatore della materia, allora egli è ad immagine di Dio. Una sfida per la fenomenologia contemporanea. Allora è possibile l’integrazione fra passato neo-illuminista e futura scienza (noetica), che ponga al centro non il regno della materia ma quello della coscienza: una scienza non più illuministica ma neo-umanistica. La “caduta dall’Eden” viene determinata dalla conoscenza del bene e del male, cioè dal sopraggiungere della differenziazione, della separazione, della dualità (dualismo) nella coscienza unitaria dello spirito dell’uomo. In una parola dal diavolo, in considerazione della sua etimolgia con il significato di “Separatore” (dia-bàllein, opposto di syn-bàllein, “mettere insieme”, quindi di “simbolo”). La diabolicità scinde il sentimento dall’intelletto, la fede dalla dottrina e dal rito, la carità dalla contemplazione, il contenuto dalla forma, tentando di giocarli l’uno contro l’altro, come scriveva Zolla. La coincidentia oppositorum è dunque caratteristica divina e nel sapere antico delle società iniziatiche è forse sepolta e celata quella verità che la nuova scienza sarà forse in grado di riscoprire come propria, originaria ed innata dell’animo umano”. Da quest’ottica diventa arduo discutere ancora di “scienza e religione”. È uno straordinario esercizio di cultura storica e di storia della filosofia. È la rappresentazione di quanto l’uomo, nel bene e nel male, abbia lavorato duro e a fondo su argomenti che costituivano, e ancora oggi fondano, la vita dell’essere umano sulla Terra. Ma crediamo sia giusto sperare che questi argomenti, un giorno, saranno solo più motivo di un sereno dialogo e non più causa di guerre più o meno religiose. Sarà la Scienza la chiave di volta della Pax in Terris? ______________ Bibliografia essenziale: Nicola Abbagnano, Dizionario di Filosofia, Milano, 1993.

Scienza

Pierluigi Caravella, Illuminismo e Massoneria; storia di un matrimonio da disfare, in La Tradizione Iniziatica tra Oriente e Occidente, In www.esonet.org Vittorio Gallo, Esoterismo e Massoneria: una contraddizione in termini?, Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. - R.L. Acquario, 2007. Massimo Introvigne, Massoneria e religioni, (a cura di), 1994. Anna Maria Isastia, Mito e realtà della Massoneria, in Massoneria e Chiesa Cattolica, Religioni e Sette nel Mondo, Anno 7, numero 3, Bologna, 2003-2004, p. 102. Raimond Panikkar, Tra Dio e il Cosmo. Una visione non dualista della realtà, Bari, 2006. Pier Riffard, L’esoterismo. Che cos’è l’esoterismo,

Milano, 1996. Fabio Venzi, Un Canone Massonico, Allocuzione tenuta alla Gran Loggia, 11 novembre 2006. E: Tra razionalismo scientista ed intelligenza noetica. La percezione del sacro nell’indagine scientifica: una visione olistica, Intervento al convegno Liberamuratoria e scienza, Canonbury Masonic Research Center, Londra 26.10.2008. Elémire Zolla, Discesa all’Ade e resurrezione, Milano, 2000. Jean Guitton et al., Dio e la scienza, 1992.

Pag. 90/95: Illustrazioni tratte dal Geheime Figuren der Rosenkreuzer, Altona, 1785.

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Sogno

Girolamo Cardano e la teoria dei sogni Ida Li Vigni

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nno 1562, Bologna: Girolamo Cardano dà alle stampe il Somniorum synesiorum omnis generis insomnia explicantes libri IIII (Quattro libri che spiegano tutti i generi di insomnia trattati nel libro di Sinesio “Sui sogni”). È un anno critico per l’eclettico filosofo, medico, matematico e “mago”, costretto a lasciare l’incarico di professore di medicina all’Università di Pavia e ad accettare un analogo incarico, nonostante l’opposizione di molti colleghi, a Bologna. Due anni prima la sua vita era stata travolta da una terribile tragedia famigliare, per altro annunciatagli in sogno per ben due volte1: l’arresto e la condanna a morte del primogenito Gianbattista per uxoricidio. A questo terribile evento era seguita una feroce campagna diffamatoria nei suoi confronti da parte dei colleghi invidiosi e dei numerosi nemici che col suo carattere polemico e superbo si era assicurato. Furono formulate accuse pesanti, fra cui quelle di pederastia e di eresia2, si giunse probabilmente anche a complottare la sua eliminazione e solo l’intervento di due potenti protettori, il cardinale Morone e il giovane Carlo Borromeo, appena salito agli onori grazie allo zio Pio IV, salvò Cardano da una situazione ormai incontrollabile. Grazie alla mediazione del Borromeo, Girolamo lasciò Pavia nel 1562 per un incarico di professore di medicina presso l’Università felsinea per 521 scudi all’anno. E proprio a Carlo Borromeo è dedicato il Synesiorum somniorum, ma la dedica non deve trarre in inganno, come neppure il riferimento al libro di Sinesio di Cirene.3 Sinesio in realtà è per così dire l’ombrello ideologico sotto il quale si ripara Cardano, che si fa forte anche del nome del suo potente protettore. Il fatto è che ciò che sta a cuore a Cardano non è tanto la trattazione sistematica (la prima, come orgogliosamente puntualizza) del materiale onirico, della sua logica grammaticale e del suo simbolismo ai fini della fondazione di una corretta arte interpretativa, quanto l’analisi della natura dei sogni ed in particolare di un genere di sogni: quelli profetici. E la sua chiave interpretativa non è certo quella del vescovo di Tolemaide. Né va sottaciuta la rilevanza che i sogni, al pari delle premonizioni o illuminazio-

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ni e degli eventi prodigiosi, hanno nella vita e persino nella genesi delle opere di Cardano, come lui stesso testimonia in più luoghi dei suoi scritti, ma in particolare nella straordinaria autobiografia4 e nel quarto libro appunto del Synesiorum somniorum. Da qui l’utilità di fare qualche riferimento alla sua straordinaria vita onirica. I sogni premonitori entrano prepotentemente nella vita di Cardano, a suo dire, nel 1534 quando, come racconta nel De propria vita liber, “... cominciai a sognare eventi che dovevano verificarsi a breve scadenza e se avevano luogo nel giorno stesso li vedevo dopo l’alba in modo distinto e circostanziato. Così sognai la causa con il Collegio dei Medici e lo svolgersi del giudizio, gli accordi e la condanna e so-

gnai anche che avrei ottenuto l’incarico di insegnamento a Bologna. Questa proprietà cessò ... nel 1567 ... e durò quindi circa trentatrè anni. ...”5. In realtà già due anni prima aveva avuto un sogno importante per la sua vita privata che gli annunciava non solo il vicino matrimonio, ma i successivi tragici eventi che avrebbero colpito i due figli maschi: “... Ma ecco che una notte ... mi ritrovo in un giardino ridente, bellissimo, ornato di fiori e ricco di frutti d’ogni specie, in cui spirava un’aria soave ... All’ingresso, la porta era aperta e un’altra dava sul lato opposto; entro e mi si presenta una fanciulla vestita di bianco: l’abbraccio, la bacio ma ecco che al primo bacio un giardiniere corre a chiudere la porta. Lo supplico di lasciarla aperta ma senza 97


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risultato: mesto, allacciato alla fanciulla, mi vedo chiuso dentro. ...”6 Pochi giorni dopo per strada vede una fanciulla, Lucia Bandareni, in tutto eguale a quella del sogno, se ne innamora e la sposa, “... Ma il significato premonitore e veritiero del sogno non si era esaurito nell’incontro con la fanciulla e doveva dispiegarsi per intero nella sorte che sarebbe toccata ai nostri figli. Visse con me solo quindici anni e tuttavia quell’incontro doveva essere la causa di tutti i mali della mia vita ...”7. Ancora più importante per la sua vita privata è il famoso sogno del 1534 che, in una fase negativa della sua vita, quando ogni strada sembra preclusa, gli annuncia sia la gloria futura, sia il dram98

ma del figlio Gianbattista, destinato a macchiarsi dell’omicidio della moglie e ad essere condannato per questo a morte. È un passo lungo che merita di essere citato per intero dal momento che fa luce anche sul metodo seguito da Cardano per l’autointerpretazione dei contenuti onirici: “... una volta, sul far dell’alba, sognai di correre verso la base di un monte che era alla mia destra insieme con una folla enorme di persone di ogni condizione sesso età, donne, uomini, vecchi, bambini, infanti, poveri, ricchi, vestiti in fogge svariate. Chiesi dove stessimo correndo tutti ed uno di loro mi rispose: “Alla morte”. Il monte era ora alla mia sinistra. Atterrito mi giro per averlo a destra e comincio ad afferrare delle viti – per

metà di quel monte e fin dove mi trovavo c’erano dei tralci aridi e senza uva, così come appaiono d’autunno – e a salire. Dapprima faticavo perché il monte, o piuttosto il colle, era molto ripido all’inizio, poi, superato quel tratto, cominciai ad ascendere agevolmente grazie a quegli appigli: quando ero già sulla cima e, come spinto da un impulso della volontà, stavo per passare dall’altra parte, ecco apparire dei massi neri e scoscesi: poco mancò che non precipitassi in una voragine tetra, profonda e tenebrosa, tanto che il ricordo di questo sogno mi rattrista e insieme mi terrorizza ancora adesso che sono passati quarant’anni. Mi volto allora a destra verso un campo coperto solo di erica e procedo spinto dal terrore, senza sapere dove vado, finché non m’accorgo di essere all’entrata di un tugurio di campagna costruito di paglia, giunchi e canne, e di tenere per mano con la destra un bambino dall’apparente età di dodici anni, dalla veste color cinereo: allora finirono insieme il sonno e il sogno.”8 A prescindere dalle suggestioni dantesche che le immagini iniziali della folla che corre verso la morte, dell’ascesa faticosa del monte-colle e del senso di terrore ancora impresso nel sognatore dopo tanti anni possono suscitare in chi legge e che potrebbero essere interpretate come archetipi rappresentativi di una condizione di smarrimento esistenziale o di umore melanconico, se volessimo tentare un’interpretazione a posteriori e in absentia dell’attore non riusciremmo ad andare oltre alla sensazione di trovarci dinanzi ad un sogno che scaturisce dalla vita psichica del sognatore, ovvero – per attenerci alla classificazione di Cardano – un sogno provocato da cause incorporee preesistenti, veritiero ma non predittivo. Le presenze negative – il lato sinistro del monte, i “massi neri e scoscesi”, la “voragine tetra, profonda e tenebrosa”, i tralci d’uva appassiti, il “tugurio” e la “veste cinerea” del fanciullo – ci appaiono come raffigurazioni di uno stato angoscioso di fallimento esistenziale9 su cui si accende una timida luce di speranza (il lato destro del monte, il campo di erica, il fanciullo). Non così nella lettura che ne dà l’interessato, convinto che il primo e migliore interprete sia il sognatore stesso, an-


che se poi in altri passi delle sue opere Cardano dichiara che, essendo l’onirocrazia un’arte congetturale al pari della medicina, è necessario rivolgersi ad un interprete10 saggio, abile e oggettivo, capace di osservare dall’esterno senza farsi coinvolgere emotivamente, forte di una molteplice esperienza e della conoscenza di innumerevoli casi (per altro da ricompensare lautamente!11). Ecco dunque la sua interpretazione ed è un illuminante esempio delle capacità associative necessarie ad una corretta onirocrazia: non solo l’attribuzione di significato agli elementi presenti nel sogno, primo passo elementare della decifrazione12, ma il significante sotteso al loro relazionarsi con il contesto onirico e con la personalità e la vita del sognatore. Spiega Cardano: “... Con quanta chiarezza faceva riferimento alla fama immortale del mio nome, alle fatiche immense e senza fine, al carcere, al timore, alla tristezza, quel luogo aspro a causa delle selci, infruttuoso per mancanza di alberi e di erbe utili ma pure lieto, tranquillo e pianeggiante! Fu dunque un preannuncio della gloria perenne che mi attende nel futuro: così ogni anno la vigna dà la sua vendemmia. Se quel ragazzo indicava lo spirito lo spirito buono, si trattava di un presagio fausto e infatti lo tenevo ben stretto; se indicava mio nipote, lo era un po’ meno. Quella capanna eretta nella solitudine indicava poi la speranza della quiete. Ma un tale terrore congiunto all’immagine del precipizio poteva anche significare il destino di mio figlio, poiché non è verosimile che il suo matrimonio e la sua morte siano stati trascurati.”13 I sogni parlano a Cardano non solo della sua vita privata e sociale, ma lo indirizzano anche negli studi e addirittura gli suggeriscono o dettano i contenuti delle sue opere. Così, sempre nel 1534, sogna la propria anima smarrita nel cielo della Luna e soccorsa dall’intervento del padre scomparso che lo consola indicandogli i percorsi dei suoi futuri studi: “Dio mi ha assegnato a te come custode, tutto questo luogo è pieno di anime ma tu non le puoi vedere, come non puoi vedere me, né puoi parlare con loro; resterai in questo cielo settemila anni, altrettanti in ciascuna delle sfere, fino all’otta-

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va, poi entrerai nel regno di Dio.”14 Parole che Cardano puntigliosamente interpreta: “... l’anima di mio padre indicava il mio nume tutelare ... Mercurio indicava la geometria e l’aritmetica, Venere la musica, la divinazione e la poesia, il Sole la morale, Giove la filosofia naturale, Marte la medicina, Saturno l’agricoltura, la scienza delle erbe e le altre arti meno nobili, l’ottavo orbe le osservazioni varie, la sapienza naturale e gli studi diversi; dopo tutto questo avrei trovato un giorno riposo in chi guida queste sfere”15. Quanto ai libri, il De rerum varietate, il De Subtilitate, gli Opuscola Medica et Philosophica, per fare solo qualche esempio, sono nati da un’esortazione onirica che lo spinge ripetutamente a scrivere, “... un ammonimento che si ripetè in sogno una, due, tre, quattro volte e altre ancora”16. Il caso più significativo lo si ha con il De Subtilitate, la cui genesi si ha nel sogno e dal sogno si materializza, per così dire, sulla carta. Ce ne parla Cardano, proprio nel trattato in questione, ricordando di aver visto, dormendo, l’opera divisa in 21 parti, di aver preso coscienza della materia in essa trattata, del titolo del libro, dello stile elegante e fluido; non solo, vede il libro stampato e diffuso in qualche esemplare in città. E sempre in sogno legge quello che al risveglio fissa sulla carta, pagina dopo pagina, capitolo dopo capitolo, fino al compimento e alla pubblicazione: “Dormendo, sono stato incitato più di una volta a scrivere questo libro diviso, per quel che vedevo, in 21 parti ... Ovunque vi erano dissertazioni varie ed originali, di grande eleganza ... la brillantezza della lingua non aveva niente di mediocre e si accompagnava a una piacevole oscurità; per la fluidità dello stile e la finezza dei ragionamenti la cosa mi appariva pressoché divina al punto che nel sonno ero assalito da un piacere mai conosciuto. Avevo l’impressione di essere rapito fuori di me e, una volta sveglio, il ricordo di quel diletto mi suscitava un piacere straordinario. Presi coscienza della materia generale da trattare, del titolo del libro, dei caratteri belli e fini. Vidi in lontananza il libro stampato e diffuso in qualche esemplare in città. Questo sogno si ripetè molte vol-


te e io scrissi prima quattro pagine, poi sette e infine trentacinque. Mai cessavano quelle stesse immagini e quel piacere che provavo leggendo, nel sonno, ma più il libro procedeva, meno si ripresentava il sogno. Raggiunti quindi i 57 fogli, poi i 76, ai quali cui fu aggiunta una tavola, il libro fu edito.”17 È una sorta di “invasamento” divino destinato a ripresentarsi nel 1557 allorquando, dopo aver ascoltato in sogno una “melodia celeste”, fonte di grande piacere, al risveglio comprende di doversi finalmente dedicare alla stesura di un completo trattato di medicina, quello che sarà l’Opuscola Medica et Philosophica, in cui dimostrare tra le altre cose le cause per le quali alcuni uomini muoiono inevitabilmente per le febbri e altri si salvano, un problema che lo aveva tormentato per lungo tempo e che di colpo, in sogno, gli si chiarisce: “Correva l’anno 1557 quando ebbi un sogno in cui ascoltavo una melodia celeste, fra le più dilettevoli al punto che il suo stesso ricordo mi suscitava piacere; al risveglio compresi immediatamente la ragione per la quale certi uomini muoiono ineluttabilmente a causa delle febbri e altri no. Mi ero applicato per circa 25 anni per risolvere questa questione. Dunque, essendomi risolto, mi misi subito, alla mattina, a scrivere questa magnifica Artis parve medendi che dopo 4 anni, e dopo o averla ripresa, o provato a riprenderla, più di venti volte, ho portato a conclusione: la medicina vi è trattata nella sua completezza. Così, attraverso la melodia, era un sapere divino che mi veniva annunciato.”18 Così intimamente legato all’universo onirico, Cardano non poteva non interrogarsi sulla natura misteriosa dei sogni, sulla loro utilità e soprattutto sull’arte onirocratica, da cui molto può dipendere il dipanarsi di un’esistenza. Di primo acchito sembra che per lui l’onirocrazia occupi un posto per così dire inferiore rispetto alle altre arti divinatorie, tanto che nel De Libris Propriis (in parte forse per indirizzare il lettore verso opere da lui ritenute più significative) non esita a dichiarare che: “La più prestigiosa delle arti divinatorie è la Fisiognomica, tanto da richiamare da vicino i giudizio dei saggi. La più vicina ad essa è la Metoscopia; viene poi

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l’Astrologia, poi la Chiromanzia seguita dalla scienza dei Prodigi, in sesta posizione viene la scienza dei sogni, se essi vengono esaminati come si deve.”19 In realtà, è proprio su quel “come si deve” che bisogna soffermarsi, dato che la natura magmatica e sfuggente dei sogni può generare errate interpretazioni, può mascherare l’origine “naturale” sotto la veste di una predizione e viceversa. Il linguaggio onirico non è mai univoco, ma è soggetto a molteplici variazioni a seconda che agiscano cause fisiche, impressioni della memoria o “influssi celesti”, ma anche a seconda di chi sogna, dell’ambiente e dell’ora. Non esistono regole assolute per l’interpretazione dei sogni, non si hanno calcoli come accade in astrologia o linee geometriche come

nel caso della metoscopia o della chiromanzia, né mappe del volto e del corpo come nella fisiognomica. E tuttavia l’onirocrazia è un’ars interpretandi naturale, ovvero trova nella natura le diverse chiavi interpretative, ed è anche, al pari della medicina, dell’agricoltura e della navigazione, una doctrina coniecturalis in virtù della quale l’uomo può correggere tanto la propria natura, quanto il proprio destino, dato che non solo “nei sogni non vengono mostrati gli avvenimenti ma, attraverso immagini, le loro cause”20, ma l’interpretazione porta con sé l’azione e non si ferma alla predizione. Al pari del medico, del marinaio e dell’agricoltore, l’onirocrate comprende il significato reale dei “segni” e immediatamente agisce, aiutando o aiutando101


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si a prendere buone decisioni con prontezza e accortezza: “A maggior ragione ci si deve comportare con cautela nelle arti congetturali. Se uno, come ho detto, utilizza questo sapere e questa capacità di interpretare pensando più all’azione che alla previsione, sarà stimato assai sapiente e abile. Ad esempio un medico accorto quando riconosce l’imminenza di una crisi, non tanto si limita a predirla quanto piuttosto impone al malato l’astensione dal cibo, dalle medicine e dal salasso e lo porta in un luogo caldo. E il marinaio, quando s’accorge d’una tempesta imminente, cala la vela, prepara l’ancora, e conduce la nave in porto o, se non può, in alto mare. Così l’agricoltore esperto, quando teme la brina, non pota gli alberi, e se teme le piogge, non sparge i semi 102

per evitare che marciscano. Ciò significa che non basta conoscere ciò che è bene, ma bisogna impararne anche l’uso più conveniente.”21 A differenza, però, del medico, dell’agricoltore e del marinaio l’onirocrate deve confrontarsi con segni che continuamente rimandano a significati differenti, ovvero con un linguaggio fondato solo sulle leggi della similitudine, il che rende particolarmente difficile estrapolare dalle immagini “universali” il significato univoco ad esse sotteso. I primi, infatti, possono utilizzare conoscenze non solo codificate e verificate nel tempo, ma altresì dotate sia di un alto grado di previsione (ogni volta che si ha quel sintomo o si verifica quel fenomeno ne consegue che ...), sia di un’attendibile correlazione fra previsione e

azione conseguente (prevedendo che accadrà questo so che posso intervenire in questo modo). L’onirocrate, invece, deve fare i conti con il fatto che “in ogni sogno vi sono molti aspetti generali e che ogni aspetto generale è rivelatore di molte cose”22; deve, cioè, essere consapevole che la scienza dei sogni, pur essendo il sogno soggetto alle leggi della natura (ogni fatto onirico ha infatti una causa naturale), non può mai darsi né una sistematicità rigorosa, né principi oggettivi di riferimento, anche se è necessario tendere alla sistematicità e all’oggettività. Dichiara Cardano: “In generale, dunque, tutta l’arte dell’interpretazione consiste nel collegare più aspetti generali e nel capire qual è l’unica cosa a cui convengono con le loro caratteristiche, e sarà questa la cosa significata dal sogno.”23 Occorre quindi rifondare l’arte dell’onirocrazia su nuove basi per strapparla alla mancanza di metodo sia degli auctores antichi, sia dei ciarlatani che improvvisandosi interpreti gettano discredito su un’arte così nobile. E’ qui la genesi e la ragione d’essere del Synesiorum somniorum (ed in particolare del Libro I), l’opera con cui Cardano si propone di stabilire in via definitiva i principi e le regole di questa particolare ars interpretandi. Vediamo quindi preliminarmente la struttura del trattato. L’opera è costituita da quattro libri in cui la materia è così ripartita: Libro I teoria generale (cap. I – XV) significato delle cose che vediamo in sogno (ad esempio, vesti, case, suppellettili, cibi, animali, piante, pietre, persone note o sconosciute, etc.) (cap. XVI – LXIX) Libro II tipi di sogno (oscuri, incompiuti, complessi, ricorrenti, angosciosi, etc.) Libro III classificazione dei sogni in base alla condizione famigliare, sociale e alla natura del sognatore Libro IV raccolta di esempi di sogni dei diversi generi avuti da personaggi celebri 55 sogni di Cardano e loro interpretazione. A prescindere dagli altri libri, che costituiscono un vero e proprio manuale di consultazione rivolto a chi voglia tentare la difficile arte dell’interpretazione dei sogni, dove si trovano per altro sia originali spunti interpretativi meritevoli di


un’analisi approfondita accanto a un repertorio più tradizionale e “popolare” (si pensi alla “smorfia” napoletana), sia elementi suggestivi per ricostruire la complessa personalità di Cardano, magari alla luce della sua autobiografia, quello che riveste una maggiore importanza dal punto di vista teorico e filosofico è il Libro I, limitatamente ai cap. I - XV. Qui viene esposta la teoria generale, ovvero classificazione e cause dei sogni, origine dei sogni veritieri, come riconoscerli e come averli, regole generali per l’interpretazione. In polemica con gli autori che lo hanno preceduto, Artemidoro e lo stesso Sinesio, ma anche Niceforo Gregoras, Urso di Calabria e Salomone Ebreo, ritenuti fonte di informazioni utili ma privi di un impianto sistematico, Cardano dà avvio alla sua trattazione con l’individuazione dei diversi generi di sogno in base alle loro cause specifiche. L’assunto di base è che i sogni nascono da un movimento moderato (movimento di natura moderato ma secondo gradi diversi, dall’agitato e perturbato a quello più lieve) degli spiriti i quali, quando ci si addormenta si contraggono al cuore e quando si sogna muovono dall’anima e generano immagini24: “se il sonno è la quiete degli spiriti e la veglia è il prodotto del loro moto veemente, l’aver sogni rimanda invece a un moto tremolante e imperfetto”25, il quale è provocato da cause diverse, come appunto il cibo e le bevande, gli umori, la memoria e le passioni, gli agenti celesti. Quattro sono dunque i generi di sogno poiché quattro sono le cause e queste si distinguono in due gruppi: corporee ed incorporee, nuove e preesistenti (“constatate in precedenza”). A seconda della combinazione delle cause si hanno i quattro generi, ordinabili secondo una scala che alterna i sogni più imperfetti e confusi, di scarso o nullo valore predittivo, a quelli più coerenti ed ordinati, di portata predittiva o profetica. Sintetizzando: – I genere sogni provocati da cause corporee nuove – II genere sogni provocati da cause corporee preesistenti – III genere sogni provocati da cause incorporee preesistenti

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– IV genere sogni provocati da cause incorporee nuove Nei sogni del primo genere le cause corporee nuove sono i cibi e le bevande ingeriti prima di dormire i cui vapori spessi e turbolenti provocano un movimento violento e agitato e dunque sogni perturbati, confusi e incoerenti, di nessun valore rispetto alla predizione del futuro26. E questo avviene per cinque cause: “O perchè i cibi sono quelli che hanno la natura della testa del polipo, del cavolo, della cipolla, dell’ossimele, del coriandolo fresco ... e possiamo aggiungere il frutto del giunco, quasi tutte le specie di erba mora, il giusquiamo, la mandragola, il vino denso e abbondante; insomma tutto ciò che provoca il sonno e genera la bile nera come i legumi e specialmente le fave. Oppure a causa della quantità e della varietà delle cose ingerite, o a causa dell’ordine sbagliato, quando si mangia molto e cibi di diverso genere, e si mescolano diverse bevande; oppure se a cibo crudo si aggiunge altro cibo: o se il cibo assunto genera disturbi di digestione”27. Se compaiono sogni più coerenti e ordinati, ricorrenti e sempre uguali, suscitati da un moto meno violento perchè meno violenti sono i vapori, ci troviamo di fronte ai sogni di secondo genere, quelli le cui cause sono corporee e già presenti nel sognatore. Più specificatamente si tratta dei sogni che sono generati dagli umori presenti nel sognatore in forma più o meno equilibrata. Questo tipo di sogni non ha nessun valore rispetto alla conoscenza del futuro, ma ha una grande importanza per il medico poiché consente di formulare diagnosi e di individuare le terapie28; si tratta di sogni veritieri (ci parlano delle reali condizioni fisiche del sognatore) che fanno parte per così dire della costituzione del soggetto sognante e quindi concorrono a delinearne la complessione, al pari dei sogni di terzo genere che riguardano la sfera psicologica e “storica” del sognatore. Spetta al medico interpretarli secondo la scala galenica dei gradi umorali, partendo dall’assunto che sogni con presenze serene come prati, luoghi ameni, profumi soavi, bei dipinti, suoni armoniosi, sensazioni di piacere rimandano ad una condizione di equilibrio


e dunque di buona salute, mentre immagini violente e paurose sono spie di uno squilibrio umorale. Così, seguendo le indicazioni di Cardano medico, scopriamo le corrispondenze fra umori, elementi naturali e sogni: – Bile gialla (fuoco) paura, ira, corsa, battaglia, fuochi – Bile nera (terra) incendi, tenebre, terremoto, lampo e tuono, fuga, melma, carceri, morte, lutti, disperazione – Flegma (acqua) inondazioni, fiumi, pioggia, tempeste, grandine, neve, ghiaccio, paludi – Sangue (aria) lago di sangue, rose rosse, porpora, vino Anche i sogni del terzo genere, che derivano da cause incorporee preesistenti, sono veritieri (ci parlano della reale vita psichica dell’uomo) e non hanno valore predittivo. Si tratta, infatti, dei sogni che nascono dalla memoria, ovvero dal ricordo del passato o dalle impressioni del presente, ossia dalle “affezioni veementi”, intendendo con ciò gli stati d’animo che arrecano turbamento nello stato di veglia. Essi sono prodotti non da agenti corporei (cibi e bevande o umori), ma da un riscaldamento degli spiriti che, sotto la spinta delle affezioni, provocando un lieve moto, suscita immagini che altro non sono il ricordo del vissuto personale. Questi sogni, espressione di sette affezioni (timore, speranza, gioia, tristezza, ira, odio e amore)29, ci proiettano nella sfera psicologica, portando alla luce tutte quelle esperienze che ci hanno turbato o che ancora ci turbano. In essi non troviamo indicazioni sul futuro, ma la chiave per comprendere di volta in volta gli eventi perturbatori e dunque concorrono a completare il quadro della nostra complessione psico-fisica. Le immagini oniriche di questo genere di sogno appartengono talvolta agli idoli, ovvero sono copie più o meno fedeli delle immagini/affezioni percepite nello stato di veglia che vanno a “specchiarsi” nell’anima portando alla luce significati sfuggiti alla conoscenza sensibile (ricordi, desideri, emozioni). In questo caso il sogno si presenta come una risposta introspettiva o compensatoria ad un desiderio o ad una passione che non trova soddisfazione nello stato di veglia e in quanto tale parla direttamente al sogna-

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tore, l’unico in grado di decifrare i sostrati simbolici delle presenze oniriche che popolano i suoi sogni. Ben più complessa è invece la natura dei sogni del quarto genere, suscitati da cause incorporee nuove, ovvero da agenti di ordine superiore, celeste (angeli e demoni, ma anche Dio stesso) che durante il sonno entrano nella nostra mente per rivelarci il futuro, per ammonirci, per guidarci. È qui che il discorso di Cardano si fa più complesso, allontanandosi pericolosamente da Sinesio e mostrando chiaramente i fini ultimi di questo trattato: da un lato dimostrare che il sogno predittivo ha basi naturali e non sovrannaturali e che dunque è un perfetto esempio della necessità da parte delle potenze celesti (anche Dio) di agire secon-

do le leggi causali che reggono la natura; dall’altro legittimare, in base a quelle stesse leggi causali di natura, la possibilità tutta umana di indurre sogni che ci parlino del futuro, ovvero gettare le basi per una “divinazione naturale” operativa, tale cioè da consentire di riprodurre le cause e gli effetti dell’azione celeste. Circa il primo punto, Cardano dichiara inizialmente che i sogni “che provengono da una causa superiore sono ... provocati da un’alterazione di moto dovuta all’intervento di corpi celesti e questa alterazione è disposta in modo tale che essa, secondo ordine, muove nell’anima le specie adatte all’effetto che deve essere creato, producendo così una specie simile a quell’effetto”30 e poco più avanti specifica: “causa del 105


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moto degli spiriti sarà comunque qualcosa di fisico, poiché i corpi sono ... deboli, e perciò possono essere mossi solo da qualità fisiche, e non direttamente da influssi celesti ... questi influssi sono incorporei, ma non possono penetrare in noi senza la mediazione delle qualità corporee”31. Ciò significa che alla base di ogni genere di sogno c’è una causa “meccanica”, che può essere naturale e “necessaria” come accade nei primi tre generi - o celeste, sicché l’esperienza del sognare risulta essere sempre, al di là della natura delle cause, la conseguenza di un moto moderato degli spiriti che dà forma alle diverse immagini che si riflettono nell’anima del sognatore. E’ questo il meccanismo fisiologico del sognare, comune 106

a tutti i quattro generi; un meccanismo che, proprio in quanto fondato sulle leggi di natura, può essere indotto o riprodotto, a condizione che si conoscano sia le differenti condizioni ambientali e psico-fisiche che accompagnano la comparsa dei sogni, sia i segni che ci permettono di distinguere i sogni che ci parlano del futuro (gli idoli veri e propri o le visioni oniriche) da quelli che, pur se veritieri, forniscono indicazioni sulla salute o sulle affezioni che ci hanno tormentato o che ancora ci turbano. Vediamo per prima cosa come si riconoscono i sogni veritieri. In apertura al cap. V del Libro I Cardano afferma che, se inizialmente è dai sensi che proviene la distinzione tra i sogni, è poi la ragione che sistematizza questa conoscenza

in base a tre categorie di segni: specifici, comuni e congetturali. I segni specifici sono quelli che riguardano la sensazione che si prova sognando, ovvero una “impressione forte, chiara e distinta per cui ci sembra di vedere e udire davvero”, laddove nello stato di veglia “il segno è lo stupore che afferra l’anima”. I segni comuni riguardano invece “la natura delle persone, l’età, le azioni, i costumi, l’abitudine, il clima, la stagione, la struttura del sogno, la causa e l’ora”. In sintesi possiamo affermare che i sogni veritieri sono una manifestazione poco frequente che solo persone particolarmente meritevoli, ovvero oneste e pure, che vivono una condizione di tranquillità d’animo, lontani dagli eccessi dei piaceri della vita, possono sperimentare. Di solito si tratta di vecchi o di persone mature (i sogni dei fanciulli e dei giovani sono incostanti, trattano di cose irrilevanti e quindi sono di norma falsi) che hanno nell’oroscopo natale “Giove e ancor più Venere come pianeta dominante, mentre si trova nella nona casa (ovvero la “casa del lontano”), quando la Luna sarà vicina a Mercurio, in Ariete, nella Bilancia o nel Leone, allontanandosi dal Sole, ed essa sarà signora della casa significante lavoro”32. L’età, i costumi e l’oroscopo natale non sono però di per sé sufficienti a garantire la veridicità di un sogno; ulteriori elementi devono essere presenti, ovvero la stagione più idonea (l’estate o l’inverno, in quanto stabili), il clima sereno (il vento suscita sogni vani), l’ora propizia (dal sorgere del sole all’ora terza, mentre vani sono i sogni che si hanno al meriggio e al tramonto), la struttura del sogno (breve e ordinato, collegato ad altri sogni ma distinto da essi). Infine i segni congetturali si hanno quando il sogno si presenta a chi è preoccupato per un pericolo incombente, ovvero quando coincide con il dubbio di chi sogna e con le questione affrontate. Questo prova che il sogno indica un’attività e non un’affezione e dunque non appartiene al terzo genere, ma al quarto. Date queste conoscenze, prosegue Cardano, è possibile operare per via naturale in modo da avere sogni veritieri al pari di quelli inviati dagli agenti celesti. Basta eliminare gli ostacoli e tutte le fonti di


turbamento, “il cibo e le bevande, l’incontinenza e il disordine erotico, i tormenti, le alterazioni dell’animo, i fastidi e specialmente il vino”33. Si può fare ricorso anche ai poteri naturali delle gemme e delle piante; così tra le gemme “il diamante, lo smeraldo, lo zaffiro, l’ametista e il Hiacynths, che non ostacolano i sogni, ma anzi ne respingono l’aspetto vano e portano tranquillità d’animo”34, l’Eumetris, una pietra simile al silicio che, secondo Plinio, posta sul capo genera sogni veri e il Nicolus, una pietra opaca bicolore, cerulea e nera (di essa parla Cardano nel suo Liber unus de gemmis), mentre fra le piante è consigliato l’elleboro, il cui potere è quello di contrastare i vapori della bile nera (a differenze delle piante delle streghe – morella e giusquiamo per prime – che provocano sogni falsi). La sfida è lanciata e anche molto chiaramente per chi voglia coglierla, al di là del leggero velo di contraddizione: “Noi ... che abbiamo insegnato come tutti i sogni, o per lo meno la maggior parte, posseggano una causa naturale, non riteniamo assurdo procurarsi i sogni, se ne abbiamo bisogno ed essi vengono spontaneamente”35. Ed è il sogno della magia naturale rinascimentale: impossessarsi del linguaggio in cui è scritto il libro della natura e utilizzarlo per catturare e manipolare i flussi di simpatie che regolano il macrocosmo e il microcosmo, ma anche plasmare un uomo nuovo, padrone del proprio destino e signore della natura. Si completa così il discorso del mago Cardano sull’uomo: dopo l’astrologia, la fisiognomica, la teoria umorale, una quarta arte completa la conoscenza sulla natura dell’uomo, quella appunto dell’interpretazione dei sogni. Dopo aver letto nel libro delle stelle e dei pianeti le simpatie e antipatie che legano l’uomo al cosmo, dopo aver individuato nel volto i legami fra mondo animale e mondo umano e aver indagato le relazioni fra elementi naturali e umori, Cardano scende nelle profondità dell’essere per ritrovare nel labirinto del linguaggio onirico il filo di Arianna che permetta di infrangere le barriere fra umano e divino. Sogna Cardano, circondato dagli strumenti delle sue arti manipolatorie, e

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no, Della mia vita, Serra e Riva Editori, Milano, 1982. 5 Girolamo Cardano, Della mia vita, XXXVIII, ed. cit., p. 127. 6 Girolamo Cardano, Della mia vita, XXVI, ed. cit., p. 83-85. 7 Girolamo Cardano, Della mia vita, XXVI, ed. cit., pp. 83-85.

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8 Girolamo Cardano, Della mia vita, XXXVII, ed. cit., p. 123. 9 Girolamo Cardano, Della mia vita, XXXVII, ed. cit., p. 123: “... Non avevo ancora realizzato nulla di concreto nella mia vita e tutto andava nel peggiore dei modi ...”. 10 Girolamo Cardano, Somniorum Synesiorum libri quatuor, edito, tradotto e annotato in francese da Jean-Yves Boriaud, Firenze, 2008, l. III, I, De necessitate vatis, pp. 486-491. 11 Girolamo Cardano, Sul sogno e sul sognare, L. I, cap. VI, pag. 45: “L’interprete poi farà bene ad esercitare la sua arte non senza compenso e anzi con un compenso notevole, perché di solito il compenso dà credito all’arte.” 12 Girolamo Cardano, Somniorum Synesiorum libri quatuor, ed. cit., l. I, cap. XVI-LXVIII; l. III, cap. II – XIV. 13 Girolamo Cardano, Della mia vita, XXXVII, ed. cit., pp. 123-124. 14 Girolamo Cardano, Della mia vita, XXXVII, ed. cit., p. 124 15 Ibidem. 16 Girolamo Cardano, Della mia vita, XLV, ed. cit., p. 163. 17 Girolamo Cardano, De subtilitate, l. XVIII. 18 Girolamo Cardano, Somniorum Synesiorum libri quatuor, ed. cit., l. IV, cap. IV, 53, p. 654.

dietro di lui, nel chiaroscuro dell’alba, si stagliano due profili: quello tagliente e indagatore del Borromeo e quello scarmigliato di una vecchia dal naso adunco, la strega, il teologo e il mago-scienziato36. Da lì ad otto anni i destini della strega e del mago si incroceranno sotto lo sguardo severo dell’Inquisitore. _______________ Note: 1 Il 20 dicembre 1557 Cardano aveva avuto in stato di veglia un primo segno premonitore della morte del figlio primogenito Gianbattista e l’indomani aveva scoperto che il figlio si era sposato a sua insaputa con Brandonia Seroni, una giovane appartenente ad una famiglia poco raccomandabile. Nel 1560 un sogno funesto gli annuncia l’imminente tragedia: l’avvelena-

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mento ad opera di Gianbattista di Brandonia, la quale pare gli avesse sconfessato la paternità dei due figli, l’arresto del giovane, la condanna alla decapitazione e l’esecuzione il 9 aprile. 2 Non analoga fortuna avrà nel 1570, quando viene arrestato con l’accusa di negromanzia ed eresia, incarcerato, costretto poi agli arresti domiciliari e infine, nel 1571, all’abiura e ad impegnarsi a non pubblicare più alcun scritto dinnanzi alla Sacra Congregazione.

19 Girolamo Cardano, De Libris Propriis (1562), ed. Maclean, p. 364. 20 Girolamo Cardano, Sul sogno e sul sognare, L. I, VI, ed. cit., p. 44. 21 Ibidem, L. I, VI, ed. cit., p. 44. 22 Ibidem, L. I, XIV, ed. cit., p. 67. 23 Ibidem, L. I, XIV, ed. cit., p. 68. 24 Gerolamo Cardano, De immortalitate animorum, Lungduni, 1545. 25 Cardano, Sul sogno e sul sognare, L. I, cap. III, pag. 30. A cura di Mauro Mancia e Agnese Grieco, Venezia, 1989.

3 Sinesio di Cirene (370-413), filosofo neo-platonico, discepolo di Ipazia, dopo la conversione al cristianesimo fu nominato vescovo di Tolemaide. Nel suo trattato Sui sogni Sinesio, a partire da un’impostazione filosofico-morale di stampo neoplatonico, traccia una ricerca sui sogni, tendente ad individuare l’origine interiore del sogno e a dare ragione del valore profetico di talune manifestazioni oniriche.

27 Cardano, Sul sogno e sul sognare, ed. cit., L. I, cap. III, pag. 32

4 Girolamo Cardano, De propria vita liber, qui nella trad. di A. Ingegno, Gerolamo Carda-

28 Questi sogni rimandano al metodo dell’incubazione del mondo classico pre-ippocratico

26 Cardano, Sul sogno e sul sognare, ed. cit., L. I, cap. III, pag. 32: “Se infatti si hanno sogni turbolenti, molto movimentati, vari, oscuri, imperfetti e poco coerenti, diremo allora che provengono dal cibo e dal bere”.


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che consisteva nel far dormire il malato nel recinto di un tempio (il più celebre era quello di Esculapio in Epidauro) affinché il dio rivelasse nei sogni la natura della malattia e i rimedi da assumere.

31 Ibidem, pp. 34-35:

29 Cardano modifica lo schema dei sette vizi capitali e chiarisce come avarizia ed invidia siano delle sotto categorie di volta in volta riconducibile alle affezioni principali.

34 Ibidem

30 Cardano, op. cit., L. I, cap. III, p. 34.

32 Girolamo Cardano, op. cit., L. I, cap. V, pag. 40.

36 Riprendo, modificandolo per gioco, il titolo evocativo del testo La strega, il teologo, lo scienziato di Paolo Aldo Rossi.

33 Ibidem, l. I, cap. IX, p. 50. 35 Ibidem, pp. 50-51. Cfr. Giovan Battista Della Porta, che nella Magia Naturale disquisisce su come sia possibile indurre “sogni oscuri, giocondi e spaventosi”.

P.96: Alcune pagine di Girolamo Cardano, Somniorum synesiorum omnis generis insomnia explicantes libri IIII; p.99, 100, 103, 104, 107 e 109: Dipinti di Tiziano Vecellio (1485-1576).

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Kapalika, gli asceti del teschio Marco Ghione

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Antropologia

L’

India dell’Alto Medioevo è stato un immenso calderone di culti e pratiche magico-religiose. In un periodo di grande frammentazione politica e sociale presero forma le principali correnti tantriche, che produssero il maggior numero di rituali ancora oggi osservati nella religione indu ed ampiamente inseriti nel modus vivendi di ogni fedele. Fu anzi la nascita di una società che non si può esitare a definire feudale, in cui diversi piccoli regni e potentati erano in costante competizione tra loro, dopo il crollo dell’impero Gupta nella seconda metà del sesto secolo dopo Cristo, mentre l’élite braminica si stava riversando dai grandi centri urbani alle campagne, a favorire lo sviluppo di quella forma di culto e di prassi magico-religiosa definita tantrismo1. Proprio quando il fenomeno tantrico si stava sviluppando, incontriamo un certo numero di ordini religiosi quasi sempre itineranti, posti agli estremi margini dell’ortodossia braminica. Tra di essi hanno una certa importanza i Pasupata, con buone ragioni la più antica scuola di devoti di Shiva a noi nota, e i Kapalika, di origine proba-

bilmente più tarda e dal carattere estremamente antinomico. Gli appartenenti ai Kapalika facevano voto di portare con sé una ciotola ricavata da un teschio umano (kapala) insieme a un bastone rituale sormontato da un teschio (katvanga) che li accompagnava ovunque e doveva rappresentare il loro carattere distintivo. Inoltre sembra che soggiornassero spesso nei campi di cremazione, compiendo riti magici e cibandosi di resti umani e animali. Una delle loro prerogative era anche la dimostrazione di poteri soprannaturali o siddhi. I Kapalika erano diffusi in ogni regione dell’India medievale, dall’area himalaya-na fino al Tamil Nadu si trovano infatti testimonianze della loro presenza, ma sembra che la loro area di provenienza potesse essere il Deccan2. Secondo alcuni studiosi proprio i tantra dei Kapalika sarebbero almeno per certi aspetti all’origine degli Anuttara tantra del Vajrayana, che avrebbero tratto molte delle loro pratiche e la stessa iconografia di molte divinità dai testi dei Bhairava tantra collegati con la setta3. Le fonti più antiche ci parlano di un mahavrata o grande voto che questi asce-

ti sostenevano sul modello del mito di Bhairava, la forma terrifica di Shiva. Il mito è narrato in diversi testi della letteratura puranica4 , ma la sua versione più completa e forse più antica compare nel Matsya purana. Il Matsya purana ci narra di uno scontro verbale tra Brahma e Bhairava culminata con la decapitazione della quinta testa di Brahma. Dopo questo atto terribile su Bhairava ricade il crimine di bramanicidio: deve scontare dodici anni di esilio itinerante visitan111


Antropologia

do luoghi sacri di pellegrinaggio (tirtha) e portando con sé il cranio di Brahma. Bhairava arriva fino sull’Himalaya, dove Visnu Narayana cerca di colmare con il proprio sangue il kapala del dio, ma neppure lacerandosi a metà e facendo sgorgare la ferita per ben mille anni divini riesce a farlo. Consiglia allora a Bhairava di recarsi nel luogo dove “il te112

schio si stabilirà”. Shiva Bhairava giunge infine a Varanasi, dove il kapala si colloca spontaneamente ad Avimukta, ponendo termine al suo castigo. È probabile che nel mito, oltre agli aspetti rituali del culto kapalika, si riflettano le tensioni sociali fra bramini e asceti itineranti dalla condotta antinomica, che si cibavano di carne e avanzi e visitavano spes-

so i luoghi di cremazione5. Come Bhairava, il sadhaka kapalin porta con sè il kapala e il katvanga, strumento onnipresente anche nell’iconografia e nell’arte tibetana. Esistono diverse opere della letteratura sanscrita che ci raccontano dei Kapalika, perlopiù di carattere teatrale. La menzione più antica appartiene tuttavia allo Yajnavalkya-smrti, che risale al massimo al terzo secolo dell’era volgare, in cui si prescrive per il kapalin la pena per il crimine di bramanicidio. Tuttavia rimane piuttosto dubbioso che l’autore con il nome kapalin volesse riferirsi alla scuola Kapalika. Si scopre un riferimento diretto invece nel Gatha-saptasati, redatto tra il terzo e quinto secolo d. C, in cui una donna che si cosparge continuamente delle ceneri della pira funebre dell’amato è chiamata apertis verbis kapalika. Nel suo Brhajjataka, l’astronomo Varahamihira (500-575 d.C. circa), associa all’influenza di un pianeta ognuna di sette categorie di asceti, e alla luna i Vrddas. Sappiamo da Utpala, che glossa il testo nel decimo secolo, che i Vrddas sarebbero da identificare con i Kapalika. Nel Mattavalisa invece, una commedia


dal tono satirico attribuita al re pallava Mahendravarman (600-630), il protagonista è proprio un esponente della setta, Satyasoma, che vive nel tempio Ekambam, non distante dalla capitale Kanci, insieme alla compagna Devasoma. Nell’opera come in altri drammi successivi le pratiche kapalika vengono descritte con sdegno e scherno: Satyasoma è sempre ubriaco e alla ricerca di qualcosa da bere riempendo il kapala. È piuttosto significativo che anche Mahendravarman fosse un fedele di Shiva ma rigettasse le credenze di una setta ai margini dell’establishment sociale come i Kapalika. Altri testi ci parlano di loro in tono canzonatorio o satirico sottolineandone però le facoltà soprannaturali. Nel Malati Madawa di Bhavabhuti (inizio VIII secolo d. C.) la principale antagonista è Kapalakundala, una kapalika capace di volare sopra il campo crematorio e di altre prodezze, che cerca vendetta per l’uccisione del suo maestro Aghoraghanta, che in precedenza aveva tentato di sacrificare l’eroina dell’opera. Ma nella piece non c’è solo spazio per yogi crudeli: anche Saudamini, che corre in aiuto dei protagonisti, ha assunto il voto kapalika. Altre informazioni si scoprono nel Candakausika (L’ira di Kausika) di Ksemisvara, composto all’incirca nel settimo secolo. Si tratta di un adattamento del mito del re Hariscandra, costretto a diverse peripezie per placare l’ira del saggio Kausika. Nel quarto atto lo troviamo alle dipendenze del dio Dharma, che indossa i segni propri di un kapalika e viene salutato come un osservante del mahavrata. Il dio kapalin ha molti poteri magici, tra cui controllare i vetala (vampiri) e i fulmini, oltre a possedere una grande conoscenza dell’alchimia. Il kapalika con l’aiuto del re cerca e ottiene da un vetala minaccioso il siddharasa (alla lettera essenza della perfezione) o elisir immortale. Come per Saudamini, sembra di trovarsi di fronte a un ritratto in definitiva benevolo del kapalika. Ci sono anche diverse allusioni a pratiche magiche e all’alchimia, che dovevano in qualche modo far parte delle conoscenze attribuite a questi sadhu. Invece, in un romanzo allegorico come il Prabodhacandrodaya di Krisnamisra, interamente volto a difendere il visnui-

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smo contro gli altri credi, Somasiddhanta gioca il ruolo di un kapalika smodato e lascivo, che converte alla sua fede un jaina e un monaco buddista. La maggior parte dei personaggi sono personificazioni di qualità astratte, che il visnuita deve ricercare e preservare, come Fede (sraddha) o Discriminazione (viveka). I nostri tre capitanati dal kapalika rappresentano la Passione (Mahamoha). Il grottesco trio tenta di catturare Fede, personificazione dell’osservanza visnuita, ma fallisce nell’impresa6. Tra le fonti a nostra disposizione sui portatori del kapala risaltano due opere, l’Agama-pramanya di Yamunacarya (circa 1050) e lo Sri-Bahsya (commento ai Brahmasutra) del suo discepolo Ramanuja7 (1017-1157), forse i massimi maestri visnuiti dell’India medievale. Ramanuja nel suo Sri-Bhasya attribuisce ai kapalika sei monili: due colla-

ne, un paio di orecchini, un fermacapelli, il cordone sacro e le ceneri. L’autore li descrive come grandi esperti nella mudra più elevata, e dediti a meditare sul Sé all’interno della vulva. Quest’ultima precisazione ci suggerisce l’esistenza di forme di yoga tantrico nella prassi kapalika (anche se potrebbero essere elementi più tardi venuti a sovrapporsi), come vedremo in seguito. Pare che le pratiche kapalika fossero adottate anche dai Lakula, un ordine scivaita che doveva con buone probabilità essere più antico di loro. Sembra, infatti, che i Lakula siano stati i primi a osservare il mahavrata e indossassero cinque monili di ossa identici a quelli elencati da Ramanuja. Ad informarci di questo, oltre che della presenza di una vera e propria cosmologia Lakula, è il Nisvasa, un tantra del nono secolo che comprende elementi decisamente più 113


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antichi.8A una prima lettura, potrebbe apparire che i Kapalika fossero un mero proseguimento o un lignaggio quasi identico ai Lakula, tuttavia un elemento in particolare che si associa al loro nome può aiutarne a comprendere meglio le caratteristiche specifiche. Essi in diversi testi e anche in alcune iscrizioni pervenuteci sono noti come Soma, Saumya o Somasiddhantin, termine che ci rinvia a un legame con la luna o il nettare (soma). Satyasoma e Devasoma sono, in effetti, i nomi dei due kapalin del Mattavalisa, e se i Vrddas che Varahamihira pone sotto l’influenza lunare sono da identificare con i Kapalika, l’associazione sembra davvero piuttosto evidente. Potrebbe trattarsi di un’allusione ad alcune forme di yoga tantrico in cui il nettare, chiamato soma o amrita, è raccolto nel corpo sottile del sadhaka o praticante.9 È notevole a riguardo ancora una testimonianza del MalatiMadawa, dove la flying-witch Kapalakundala mette in 114

relazione il suo potere di andare per aria con il controllo dei sei chakra e delle nadi10. È il più antico riferimento conosciuto al sistema di fisiologia sottile a sei chakra dell’Hatha Yoga. Un’altra ipotesi è che i tratti salienti dei Kapalika siano in realtà propri di tutte le sette estreme shivaite, e configurino quindi più che un ordine preciso una categoria di asceti. Spesso le fonti del resto, come abbiamo visto, sembrano fare del kapalin una sorta di stereotipo, l’archetipo del praticante scorretto, ora dai tratti comico–grotteschi, a volte, ma più raramente, dal carattere maligno e ribelle. Al contrario si può però notare come molti testi, dai Purana a Ramanuja, mostrino sempre una quadruplice classificazione delle sette shivaite dove appaiono immancabilmente i nomi Kapalika o Somasiddhanta, come per designare in modo preciso un ramo ben definito degli accoliti di Shiva. Del nucleo di metodi per ottenere la realizzazione spiritua-

le specificamente kapalika sappiamo relativamente poco. È possibile che l’identificazione con Bhairava fosse l’obiettivo ultimo della sadhana kapalika, del resto proprio seguendo il mahavrata il fedele sembra voler impersonare il dio. E’ decisivo quanto ritroviamo in uno tra i primi tantra giunti fino a noi, il Picumata o Brahmayamala. Qui la divinità principale è Kapalisabhairava assieme alla sua paredra Candi kapalini. Già i nomina degli dei ci portano a pensare a un prestito kapalika nel testo e ci rinforza in questa idea la presenza della possessione divina del sadhaka o praticante da parte del dio. Il fatto che un tantra assai antico come il Brahmayamala tratti la possessione divina (avesa) da parte di Kapalisabhairava, citando oltretutto spesso il mahavrata11, dovrebbe confermarci che il reale fine dei kapalika era l’assimilazione totale con il dio, di cui imitavano rigidamente la penitenza. Dopo il tredicesimo secolo, la presenza dei portatori di kapala nel subcontinente indiano iniziò a declinare bruscamente, e nel quattordicesimo secolo li troviamo scomparsi dalle fonti. È possibile che gran parte di essi sia confluita in sette tantriche che all’epoca iniziavano a godere di maggiore fortuna e prestigio. Oggi la setta può dirsi estinta, a parte la presenza di un ridotto numero di sadhu che si fanno passare sotto tale nome e anche di un ordine12. Se tuttavia per Kapalika intendiamo in modo più estensivo una tipologia di asceti tantrici che s’ispirano o hanno ereditato alcuni loro usi, si può affermare che diversi gruppi di sadhu portino ancora il kapala e frequentino i campi crematori, tra cui soprattutto gli Aghori e alcuni tantrici vamacara13 dell’India orientale, Assam e Bengala del nord in particolare. Gli Aghori (letteralmente da Shiva Aghora, “non terribile”, un’ipostasi del dio, appellativo che già si trova nei Veda) presentano le maggiori somiglianze con l’antica setta, tuttavia il loro legame diretto con la corrente kapalika risulta difficile da provare in modo certo, essendo intercorso qualche secolo tra la presenza degli asceti del teschio e la comparsa degli Aghori nelle fonti14. In genere i seguaci di questa tradizione sono presenti un po’ in tutta l’India del nord, specie nei santuari sacri alla dea (Sakti pitha).


Note: 1 Ronald Davidson, Indian Esoteric Buddhism: A Social History of the Tantric Movement, Columbia University press, New York, 2002, pp. 70 -74. 2 Vedi David N. Lorenzen, The Kapalikas and kalamukas, two lost shivaite sects, Motilal Barnasidass, Delhi, 1972, 1991, p. 53.

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3 Per Mark Dyczkowski, in Canon of the Saivagama and the Kubjika Tantras of the Western Kaula Tradition, New York State University, Albany, 1989, pp. 26-29, con Kapalika si indicano latu sensu i seguaci del mahavrata, senza distinzioni troppo nette tra una scuola e l’altra, che non possedevano un proprio corpus di scritture tantriche. Sul delicato rapporto tra tantrismo e Kapalika, tra cui è molto difficile stabilire un confine netto, vedi infra e alla nota 9. 4 La letteratura Puranica costituisce un enorme e disparato corpus di testi il cui grande filo conduttore è dato dalla devozione o bhakti verso la divinità. Essa rappresenta il cuore della religiosità indù ancor più dei Veda, perché gli inni e i miti derivanti dai Purana si sono diffusi lungo i secoli in tutta l’India penetrando in riti e tradizioni in larga parte ancora praticati. I Purana maggiori sono diciotto, e uno dei più antichi tra fra di essi è il Matsya Purana, dedicato al primo grande avatar di Visnu in forma di pesce (matsya). 5 Secondo David N. Lorenzen, The Kapalikas and kalamukas..., p.79, il modello del mito di Brahma e Shiva risale al Salyaparvan , nono libro del Mahabharata dove Rama taglia la testa di un demone malvagio rakshasa. La testa del demone si attacca però alla gamba del saggio Mahodara, che sarà costretto a peregrinare fino a trovare scampo da questa insolita compagnia in un tirtha nei pressi del fiume Sarasvati. 6 Lorenzen, ibidem, pp. 54-61. 7 Ramanuja è considerato uno dei più grandi pensatori indu e l’esegeta della tradizione visistadvaita vedanta, una delle principali filosofie visnuite. 8 Alexis Sanderson, The Lākulas: New evidence of a system intermediate between Pā?cārthika Pāśupatism and Āgamic Śaivism, Ramalinga Reddy Memorial Lectures, 1997, in:The Indian Philosophical Annual 24, University of Madras, Madras, 2006, pp. 164-176. 9 Vedi David Gordon White, The Alchemical Body. Siddha Traditions in Medieval India, Chicago University press, Chicago 1996, traduzione italiana Il Corpo Alchemico. Le tradizioni dei Siddha nell’india medievale, Roma, Mediterranee, 2003, pp. 202-203 e soprattutto pp. 242-254, dove l’autore, citando anche il mito della penitenza di Bhairava, allude al nettare come risultato di tecniche yogiche per la manipolazione del corpo sottile. Sul Soma la pensa diversamente Lorenzen, che lo interpreta come la leggendaria bevanda dei Veda: “It is also barely possible that the name also suggests some sort of connection

with the ancient Brahmanical worship of the intoxicating sacred drink called soma”, da A parody of the Kapalikas in Mattavilasa, in Tantra in Practrice, edited by David Gordon White, Princeton University press, Princeton, 2000, p. 83. 10 Lorenzen, Kapalikas.., p. 94, e David Gordon White, Il Corpo Alchemico.., pp. 153-154. 11 A. Sanderson, The Śaiva Age: The Rise and

Dominance of Śaivism during the Early Medieval Period, in: Sh. Einoo, ed., Genesis and Development of Tantrism, Tokyo, 2009, pp. 133134, n311.

12 http://amriteshwarisaraswati.com/. La parampara (linea di successione dei maestri di un lignaggio) di questi kapalika contemporanei viene fatta risalire a Bama Khepa (1837-1911), famoso yogin tantrico che era solito soggiornare in Bengala a Tarapith, santuario principale della dea Tara circondato da campi crematori. Su Tarapith si veda William Darlymple, Nine Lives: In Search of the Sacred in Modern India, Bloomsbury, London , 2009, trad. it. Nove vite, Adelphi, Milano, 2011, pp. 265-297. 13 I tantrici vamacara (alla lettera della mano sinistra) seguono riti in aperta opposizione alle prescrizioni vediche, come l’impiego delle cin-

que emme o pancamakara, un locus classicus della sadhana tantrica. Esso consiste nell’uso rituale di carne, pesce, liquore, mudra (termine che nel tantra riveste una svariata serie di significati. Dato il contesto potrebbe indicare sia la partner tantrica che alcuni cereali dalle presunte proprietà afrodisiache, come sequenze di gesti previsti dalla sadhana) e rapporti sessuali. 14 Il lignaggio Aghori su cui si hanno più notizie certe è quello degli Aghori Kinarami di Varanasi, fondato nel diciassettesimo secolo nella stessa città da Baba Kina Ram. I Kinarami fanno discendere la loro catena iniziatica dal divino Dattatreya, leggendario maestro che incarna la trimurti o triade suprema del pantheon indu, Brahma, Shiva e Visnu, il cui culto è da secoli fiorente nel Maharashtra. In aggiunta va precisato che secondo alcuni gli Aghori deriverebbero dalla sampradaya (tradizione) Nath, ordine di yogi attivi dal Rajasthan al Nepal. Aughar, che suona molto simile ad Aghori, è il nome del primo grado iniziatico nella tradizione Nath.

P.110/115: Rappresentazioni della divinità Bhairava; p.111: Teschi Kapalika, Nepal (collez.privata).

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Scuote l’anima mia Eros Paolo Aldo Rossi

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l modello classico dell’eros in Grecia è rappresentato essenzialmente da quattro tesi o argomenti: 1) dalla nota sintesi dei Discorsi di Demostene: “Abbiamo le etere per il piacere, le concubine per i nostri bisogni quoti­ diani e le mogli per darci dei figli legittimi e per custodire fedelmente la casa” (Demostene, Contro Neera, 59, 122); 2) dalle teorie sull’amore pederastico, che assumeva anche una funzione educativa, in cui l’amante svolgeva la funzione di maestro/a ed educatore/trice per il/la giovane (paideia equivalente a paiderastia); 3) dalle opinioni di Lisia sulle relazioni omoerotiche fra maschi adulti e ragazzi nelle quali una philia che s’intesseva con rapporti sessuali aveva come fine non l’epithymia, ma il bene complessivo del giovane; 4) dalle tesi di Platone che nel Fedro contrappone alla passione dell’eros paidikos il desiderio per l’oggetto supremo della filosofia e nel Convito, in cui Socrate afferma “d’esser profondo soltanto nella scienza d’amore” (essendo stato iniziato da una donna “Diotima, amica di terre lonta-

‘‘A me pare eguale agli dei / chi a te vicino cosí dolce / suono ascolta mentre tu parli / e ridi amorosamente. Subito a me / il cuore si agita nel petto / solo che appena ti vedo, e la voce / non esce e la lingua si lega. / Un fuoco sottile sale rapido alla pelle, / e ho buio negli occhi e il rombo / del sangue alle orecchie’’ Saffo, ‘‘A me pare eguale agli dei’’ trad. it. di S.Quasimodo

ne”) mette di fronte l’eros filosofo al mito dell’androgine e all’amore duplice, prole d’Afrodite o di Urania. Iniziamo dalla tripartizione delle funzioni femminili e dal loro peso sociale. Solo chi non ha complessi di colpa nei confronti della sessualità e non l’ha ancora sporcata irrimediabilmente con “il peccato della carne” può pensare alle ierogamie, sacre unioni delle parthénoi ierai, che si svolgevano durante i Misteri della Grande Dea. Vi era la consuetudine che delle fanciulle offrissero la propria verginità, entro il recinto sacro del tempio, ad uno straniero dopo che quegli, fatta una offerta simbolica, invocasse la dea ch’era in lei. Le fanciulle, illibate e divine, erano portatrici della dea e delle sue funzioni, e da questa derivavano il nome: ishtaritu. “D’altro canto, la più rimarchevole delle abitudini che ci sono fra i Babilonesi è questa. È obbligo che ogni donna del paese, una volta durante la vita, postasi nel recinto sacro ad Afrodite, si unisca con uno straniero. Molte che disdegnano di andare mescolate alle altre, in quanto 117


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orgogliose della loro ricchezza, si fanno condurre al tempio da una pariglia su un carro coperto, e là se ne stanno avendo dietro di sé numerosa servitù. Per lo più il rito si svolge così: se ne stanno le donne sedute nel sacro recinto di Afrodite con una corona di corda intorno al capo: sono in gran numero, perché mentre alcune sopraggiungono altre se ne vanno. Tra le donne si aprono dei passaggi, delimitati da corde e rivolti in tutte le direzioni, per i quali s’aggirano i forestieri e fanno la loro scelta. Quando una donna si asside in quel posto, non torna più a casa se prima qualche straniero, dopo averle gettato del denaro sulle ginocchia, non si sia a lei congiunto all’interno del tempio. 118

Nell’atto di gettare il denaro, egli deve pronunciare questa frase: «Invoco per te la dea Militta». Militta è il nome che gli Assiri danno ad Afrodite. La quantità di denaro è quella che è. Non c’è da temere infatti che la donna lo rifiuti: non le è permesso, perché quel danaro diventa sacro. Essa segue il primo che glielo getta e non rifiuta nessuno. Dopo essersi data a quello, fatto un sacrificio espiatorio alla dea, se ne torna a casa, e da quel momento non potrai offrire mai tanto da poterla avere. Le donne che sono dotate d’un bel viso e d’una figura slanciata se ne tornano presto. Quelle, invece, che sono brutte rimangono lungo tempo senza poter soddisfare la prescrizione di legge; alcu-

ne, infatti, aspettano anche tre o quattro anni. Una consuetudine simile a questa si trova anche in alcuni luoghi dell’isola di Cipro”. (Erodoto, Le storie, I,199) Esisteva anche una schiera di ierodule che praticavano la sacra prostituzione, intesa come mistero sacro (da myst­ès ossia l’iniziato), non solo in favore di Ishtar, di Mylitta, di Anaitis, di Innini, di Athagatan, ma anche di Afrodite Ciprigna, la gran dea della fecondità e dell’amore, di Demetra, l’anasyamete (che solleva le vesti per ostentare il suo sesso) ad Eleusi, di Dioniso, nella festa ellenica delle Antesterie al quale la moglie dell’arconte-re si congiungeva, della celebrazione di Poseidon, dio delle Acque, di Apollo la cui sacerdotessa attendeva l’amplesso divino a Patara … In questo ambito sorge l’etera: “E cosi quella donna celebrò sacrifici segreti in nome della città, e vide quel che lei, straniera, non aveva il diritto di vedere; fu una come lei ad arrivare dove nessun altro fra tanti ateniesi può giungere all’infuori della moglie del re. Ricevette il giuramento delle sacerdotesse di Dioniso, che l’assistono nelle funzioni, fu data sposa a Dioniso, compì in nome della città i riti tradizionali verso gli dei, riti numerosi, sacrosanti, ineffabili (§ 73) perchè straniera, convive con un cittadino, contro le leggi, e ha dato la propria figlia, colpevole di adulterio, in moglie a Teogene, che era re, e questa ha compiuto le cerimonie segrete in nome della città ed è stata data in sposa a Dioniso” (Demostene, Contro Neera, 59, 110). Pindaro compose un’ode per Senofonte di Corinto, il quale, per il suo successo alle Olimpiadi, aveva fatto voto di offrire un gruppo di sacre prostitute, per render grazie ad Afrodite. “Voi fanciulle ospitali, ancelle di Peito in Corinto opulenta che accendete per lei le bionde lagrime d’incenso, sovente memori della madre degli dèi d’amore, della celeste Afrodite! Ella fa sì che innocenti doniate sui grati cuscini il frutto della vostra tenera giovinezza. Ché sempre è buono ciò che vuol necessità.” (Framm., 122) Ma le vergini sacre (parthénoi ierai ) ben presto perdono lo status di iniziate per rientrare nella vita normale. E allora divengono: mogli (dàmar o gynè), concubine (pallakè), etere (hetàira), a addirittura puttane (porne) alle quali l’esercizio della prostituzione (pornéuesthai, da pér-


nemi “vendo”) è stabilito come il vendersi a tutti quelli che offrono un compenso adeguato. Ma è proprio su questo aggettivo “adeguato” che si opera la distinzione fra etera, concubina e puttana. Rodopi (volto di rose), il cui nome era Dorica e la cui fama sconfina nella leggenda (c.a.VI sec.), era così ricca da far erigere addirittura la piramide di Micerino (anche se Erodoto mette in dubbio la notizia) e a dedicare all’Apollo di Delfi degli enormi “spiedi di ferro, atti a trapassar buoi”. “Rodopi di Naucrati giunse in Egitto, condottavi da Xanto di Samo e, giunta colà per esercitarvi il mestiere, fu riscattata e diventata libera, rimase in Egitto; e siccome era molto attraente, accumulò grandi ricchezze sufficienti certo per soddisfare una Rodopi; ma non tanto da poter giungere a costuire una piramide di tal fatta. Vuole la tradizione, a quanto pare, che a Naucrati le cortigiane siano affascinanti: infatti, colei di cui si parla in questo racconto fu cosí famosa che anche i Greci tutti vennero a conoscere il suo nome” (Erodoto, Le storie, I, 199). E dalla leggenda alla storia: Frine, etera amante di Iperide, oratore giudiziario del partito di Demostene, si offrirà di far erigere, a proprie spese, le mura di Tebe distrutte. Senofonte (Memorabilia, 3. 11, 4) dice che Socrate, sentendo parlare della bellissima Teodote, si recò nell’òikema di questa, “perché è impossibile farsi un’idea, per sentito dire, di una bellezza indescrivibile” e vide che “era sontuosamente adornata e che la madre, al suo fianco, portava abiti e gioielli ricercati; e le ancelle, graziose ed eleganti, erano molte; quanto alla casa, era ammobiliata con lusso”. “Dimmi, Teodote - le chiese - possiedi delle terre?” “No” rispose. “Forse una casa che ti porta una rendita?” “Neppure questo” rispose. “Forse degli schiavi che lavorano come operai?” “Nemmeno” rispose. “Da dove trai allora il necessario per vivere?” “Se qualcuno - rispose - diventa mio amico e vuole farmi del bene, questi sono i miei mezzi per vivere”. Un compenso adeguato, in questi casi, non lo possono pagare tutti e quindi l’ergastérion diventava un òikos “lecito e giusto” a secondo di chi era la pornéuesthai. Altrimenti diventava un mestiere il cui

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punto più basso era la prostituzione maschile (cui verrà interdetto l’esercizio dei diritti pubblici e privati) e via via: “chi ha trafficato col proprio corpo a scopi infami” (Eschine I, 19-20), “la donna che si unisce a chi la paga” (Demostene, Contro Neera, 59, 108), “la donna che si è prostituita pubblicamente per tutte le contrade della Grecia” (Demostene, Contro Neera, 59, 107). Ma quando, durante il processo, l’avvocato fa spogliare Frine, “i giudici furono presi dal sacro timore della divinità: essi non osarono condannare la profetessa e la sacerdotessa di Afrodite” (Ateneo, XIII) e allora non sarà più un mestiere, ma un “vocazione” e un “apostolato”.

Ma la sua “libertà” e la sua “ricchezza” fanno di lei un momento del confronto con le cittadine, figlie, madri, mogli legittime: le une che si conquistarono un’autonomia economica e sociale grazie al loro fascino e alla loro libertà di costumi, le altre ‘’cittadine’’ di condizione agiata, nella loro duplice funzione di custode dell’òikos e di perpetuatrice del genos., ma pur sempre incatenate alla potestà del padre, fratello, marito. Questa è la donna avente diritto di proprietà, ovvero soggetto economico e quindi padrona della propria persona, ben diversa è la donna privata di ogni diritto di proprietà e quindi perennemente legata alla tutela maschile. Se in quest’ultimo caso la realtà femmi119


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nile sembra senza alcun ombra di dubbio coincidere con l’immagine tradizionale dell’eterna minore reclusa nel gineceo fra le serve, la donna povera, invece, che doveva lavorare per assicurare la sopravvivenza a sè e alla famiglia, è una donna libera, inserita nella società e autonoma nelle decisioni, anche se ovviamente sempre in qualche modo legata al modello tradizionale del tempo: la donna-sposa-madre. La cultura greca non si occupa, se non marginalmente, delle classi subalterne (specie ad Atene), sicché le fonti sorvolano di sfuggita il mondo degli operai, degli artigiani, dei contadini , altrettanto fanno, a maggior ragione, relativamen120

te alle donne di questi cittadini, che pure dovevano avere un ruolo economico altrettanto importante. Quando, poi, ci si rivolge alle colonie, è possibile supporre l’esistenza di situazioni più sfumate, legate alle tradizioni locali o, più semplicemente, alle pressioni politiche e sociali esercitate per mutare il principio delle condizioni necessarie a godere dello status giuridico di cittadino. Così, ad esempio, nelle colonie della Magna Grecia o dell’Asia Minore troviamo tracce di un sistema giuridico che concede alla donna la possibilità di trasmettere lo status civico o etnico anche in caso di unione matrimoniale illegittima o di figli bastardi

(avuti da uno straniero); il ché ci fa pensare ad una conseguente maggior libertà di azione di movimento della donna. Proprio quest’ultimo esempio ci consente di fare riferimento alla condizione della donna “cittadina lavoratrice”, ovvero a colei che per necessità sfugge al controllo della tutela maschile e si trova a vivere in mezzo alla società. E’ evidente che una donna costretta a lavorare per vivere finisce col godere di una maggior autonomia, anche laddove (come ad Atene) si tende a controllarle e contenerne le relazioni con l’esterno. Presente nei mercati e nelle botteghe, spesso confusa con le schiave, le etere o le prostitute questa donna è Santippe che tormenta il marito “chiaccherone” che non lavora, la madre di Euripide che vende prezzemolo al mercato o, ancora, la madre di Socrate che si guadagna da vivere facendo la levatrice, ovvero una donna che si sposta liberamente per la città, intreccia relazioni, ascolta, tiene i cordoni della borsa. E questo senza dover essere, per forza, straniera o cortigiana. È Platone a parlare di iniquità di chi ha la pretesa di: “prendere la moglie che desidera, dare in sposa la figlia a chi vuole, contrarre relazioni e società con chi gli pare e inoltre ricavare utili e guadagno dalla mancanza di scrupoli a commettere ingiustizia” (Platone, Repubblica, 362b.). Ricordiamoci Lisistrata ateniese che si rivolta al maschio nel modo che tutti sappiamo, ossia con l’adynaton o “il mondo alla rovescia”: “Marito mio, la state facendo grossa, perché?” Uno sguardo e mi fulmina: “Vai a filare, e attenta alla testa! Tocca agli uomini occuparsi della guerra” (Aristofane, Lisistrata, 515-20). Vero! Tu ti occupi della guerra d’accordo, ma dell’amore no! Chi sono le donne che le cittadine di buona famiglia incontrano nel corso delle feste religiose e da cui apprendono non solo le arti della seduzione, ma anche e soprattutto i misteri della vita sociale e della stessa natura femminile? “ ... Cleonice: Stiamo sedute a farci belle e a truccarci, e non pensiamo che alle tuniche, alle scarpine, alle vesti cimbeliche che cascano a pennello ... Lisistrata: Eppure è proprio da queste cose che mi aspetto la salvezza, profumi, tuniche, scarpine, rossetti, vesti trasparenti (Aristofane, Lisistrata, 41 sq).


Ma il mondo della prostituzione si delinea con una sua intima adeguatezza e coerenza: ... Non appena prendono a guadagnare, esse iniziano a rivolgere la loro attenzione alle giovani che incominciano a fare i primi passi nel mestiere. Le plasmano e cambiano il loro aspetto esteriore. Quella è piccola? Alzi con una suola di sughero i suoi calzari. Questa è troppo alta? Porti sandali bassi e cammini tenendo reclinata la testa sulla spalle, così che sembri più piccola. Quest’altra ha il culo piatto? Indossi una crinolina e i passanti si estasieranno per il suo bel sedere. Come gli attori, hanno seni finti che mettono in mostra, protendendoli in avanti come fossero pertiche. Le loro sopracciglia sono poco folte? Le tingono col nerofumo. Sono troppo scure? Le coprono col cerone. Se la cortigiana ha la pelle troppo bianca, mette della cipria rosata. Se una parte del suo corpo è particolarmente piacente, la denuda. Ha denti belli? Per tutto il tempo si sforzerà di ridere affinché la combriccola possa ammirare la sua bocca di cui va tanto fiera. Se non ha voglia di ridere ... terrà fra le labbra un ramoscello di mirto, che la farà sorridere, che lo voglia o no ...” (Alessi, framm. 18). L’etera ha un suo spazio nei conviti, da cui la moglie legittima è esclusa, nelle bisbocce e nei simposi: “io propongo ancora di congedare la suonatrice di flauto, entrata or ora, perché se ne vada a suonare per suo conto o per le donne là dentro, e noi di impiegare conversando il tempo del nostro convegno d’oggi” (Platone, Simposio, e 5 –10). Vino (al bere smodatamente), donne (che danzano e suonano) e sesso sono argomento per colpire la vita dissoluta da parte dei moralisti e dei critici: “… con lei si recava ad ogni banchetto, dovunque ci fosse da bere, con lei faceva baldoria in continuazione, stava con lei apertamente dovunque gli piacesse, facendo della sua licenza motivo di distinzione agli occhi di tutti … molti se la fecero con lei, ch’era ubriaca, perfino i servitori …” (Demostene, Contro Neera, 59, 33). Essi danno addosso ai profumi, ai rossetti, alle ciprie, alle vesti succinte e scollacciate (impalpabili e trasparenti) che sono strumenti di seduzione e allettamento dell’etera.

Lisistrata, a guida delle cittadine risentite, cercherà di copiare dalle etere e, quando le donne libere di Atene prenderanno l’Acropoli, l’eros entrerà nella loro vita famigliare. D’altro lato Callistrato (Demostene, 48, 55) rimprovera al cognato Olimpiodoro che il lusso della sua etera è offensivo verso la sorella e la nipote che mai potranno sfoggiare i vesti e i gioielli di questa. E Apollodoro, così si rivolge ai giudici: “Pensate perciò anche alle cittadine ateniesi: la prospettiva è che le figlie dei poveri non troveranno più marito. Per adesso, infatti, se anche una è indigente, la legge la provvede di una dote adeguata, sempre che la natura le abbia dato un aspetto passabile, ma quando voi, assolvendo questa donna, avrete calpestato la legge e l’avrete resa inoperante, il mestiere di puttana si estenderà senz’altro alle figlie dei cittadini la cui povertà impedirà loro di sposarsi, e, viceversa, la reputazione delle donne libere andrà anche alle cortigiane, quando queste saranno sicure di poter far figli come vogliono, e di poter avere accesso ai misteri, alle cerimonie e alle prerogative dei cittadini” (Demostene, Contro Neera, 59, 113). Le etere aspirano ad una sistemazione pubblica più sicura e costante: ondeggiando tra la prostituta (porne) da un lato e la concubina (pallake) dall’altro. Lo status della “convivente”, che può portare alla legittima unione, ossia al matrimonio, è contrassegnata da tappe graduali: l’affrancamento e la cessazione dell’attività. Lagisca, la porne che abbandonata l’attività già avanti con gli anni diede una figlia a Isocrate, è ammessa definitivamente nella di lui casa come concubina. I1 poeta comico Strattide la chiama pallaké, come Cratino definisce Aspasia. Dice Plutarco: “Aspasia dicono che conquistò l’affetto di Pericle con la sua non comune saggezza. Socrate stesso andava talvolta a trovarla in compagnia dei suoi discepoli, e i suoi amici intimi vi conducevano ad ascoltarla anche le mogli, benché attendesse a un mestiere punto decoroso né onesto, quale quello di allevare giovani cortigiane. Nel Menesseno di Platone - e sia pure che la prima parte di questo libro appaia scritta per divertimento - ha però sapore di verità la notizia che molti ateniesi si cre-

deva frequentassero Aspasia per imparare da lei la retorica.” (Plutarco, Vita di Pericle, 22) In un epoca dove l’analfabetismo femminile era pressoché generale trovare una donna che insegnava ai maschi era come dice Menandro “Nutrire di altro

Eros veleno un’orribile serpente”. Ma le fonti, purtroppo, sono sempre ateniesi! A Lesbo, invece, nel VI sec., esisteva una cerchia cultuale di fanciulle che imparavano a leggere, scrivere, danzare, fare musica, cantare per prepararsi a nobili nozze. A Teo e a Pergamo (ma anche a Sparta) esistevano scuole per ambo i sessi. La concubina è una maniera di essere qualitativamente diversa da quello dell’etera e più affine e attinente a quello della moglie di cui divideva gli obblighi, ma non i privilegi. Porne, hetáira, pallaké: le frontiere sono instabili ed effimere a confronto con le cittadine (astai): figlie, madri, mogli legittime. La debolezza del ruolo di etera lo si può vedere in tre casi divenuti classici: nel processo ad Aspasia l’obiettivo era Pericle, in quello di Frine era Iperide e in quello di Neera era Stefano, ma i maschi non sono chiamati a giudizio anche se alla fine pagheranno di più. “Circa il medesimo tempo Aspasia fu citata in tribunale per miscredenza su accusa del commediografo Ermippo, che

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l’accusava pure di ricevere abitualmente in casa signore di buona famiglia, per il piacere di Pericle. Diopite propose un decreto, per cui chi non credeva negli dèi o insegnava dottrine riguardanti gli spazi celesti, era deferito in giudizio; con ciò metteva in sospetto Pericle attraverso Anassagora. Il popolo l’accettò e diede libero corso alle calunnie. Per Aspasia, Pericle la strappò alla condanna, a detta di Eschine, versando lacrime a dirotto e implorando i giudici durante il processo; ma per Anassagora temette di non riuscire e lo fece espatriare. Comunque si urtò col popolo a causa di Fidia” (Plutarco, Vita di Pericle, 32). L’accusa fatta ad Aspasia, che “non credeva negli dèi e insegnava dottrine riguardanti gli spazi celesti”, ossia che esponeva le eresie del “fisico” Anassagora ad es.: “E dopo che l’intelligenza ebbe iniziato a muovere, da tutto ciò che era mosso si svolgeva il processo di formazione; e quanto l’intelligenza aveva mosso, tutto questo si divise, e la rotazione delle cose che erano mosse e si dividevano faceva sì che la divisione si sviluppasse molto di più” (DK 59 B 13). “Il denso, umido, freddo e l’oscuro si concentrarono qui dove sono ora, il rado, il caldo e l’asciutto si allontanarono nella parte esterna dell’etere” (DK 59 B 15) è rilevante perché, a differenza di Diotima (personaggio inventato da Platone) la pallakè di Pericle è un personaggio storico. Bisognerà attendere fino a Ipazia, allieva dell’algebrista Diofanto, per trovarne un’altra (la quale, prima martire pagana, verrà lapidata ad Alessandria dai cristiani). L’eros paidikos, che assumeva con le connotazioni omoerotiche anche una funzione educativa, in cui l’amante svolgeva la funzione di educatore/educatrice (paideia uguale a paiderastia), è un amore “naturale” per il greco (accanto a quello eterosessuale) perché i giovani sono fino ad una certa età confinati nel gineceo e nei ginnasi e palestre. La parthenos (vergine), da sette ai dodici bambina e dai dodici ai sedici nubile, viveva in un gineceo libero (solo nell’Atene classica erano separate e disgiunte dagli uomini) e fra di loro si sviluppavano spesso legami omoerotici. Per i maschi bisogna tener distinti gli usi delle diverse città, anche se cambiato l’or-


dine dei fattori il risultato non cambia. Un giovane ateniese ben difficilmente poteva incontrare ragazze, o donne di condizione libera e di classe agiata, per avere degli incontri sessuali apprezzabili o almeno non insignificanti. L’efebo, è ovvio, preferiva il rapporto con dei maschi suoi compagni che quelli con una femmina tre volte puttana e schiava (triporne). Cresciuto forse sarebbe cambiato, ma per intanto! A Sparta i matrimoni avvenivano con la ragazza rapata a zero, con addosso abiti maschili distesa su un pagliericcio, sola e al buio; l’atto era consumato celermente, dopo di che il marito lasciava la compagna e tornava a dormire con i coetanei e, sino circa ai trent’anni, aveva soltanto incontri occasionali con la sposa onde fecondarla e procreare (era possibile farla fecondare anche da altri). Quindi conduceva vita comune con i membri della sua leva di età e i rapporti si saldavano strettamente alla funzione pedagogica svolta dai rapporti omoerotici. Per i giovani questo rito di passaggio, che segnava la fine dell’adolescenza e l’assunzione di una tappa essenziale per diventare uomini, un nuovo modo di vita, è la relazione omosessuale tra un ragazzo e un amante più anziano. Per l’efebo non trovare un amasio era disdicevole: ciò equivaleva al riconoscimento della assenza di quelle qualità che rendevano idonei a entrare nel gruppo degli adulti guerrieri, rappresentata, dopo l’iniziazione omosessuale, dal dono delle armi. Ad Atene le relazioni omoerotiche non erano apprezzate in opposizione a quelle eterosessuali: le une consentivano il matrimonio, la riproduzione fisica di futuri cittadini liberi, le altre che permettevano la dimensione pedagogica del rapporto omosessuale contribuivano alla formazione morale e intellettuale del cittadino. Non solo, però, erano previste pene per padri, parenti e tutori che per denaro prostituivano un bambino libero e per chi ne comprava i favori, ma anche per la pedofilia maschile: “E nella stessa passione per i fanciulli chiunque riconoscerebbe quelli che sono schiettamente animati da tale amore; questi, infatti, non si innamorano dei giovinetti se non quando essi abbiano già cominciato ad aver senno, e cessino cioè, all’incirca, di essere imberbi. Giacché,

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penso, quelli che cominciano ad amare da allora sono predisposti, come per una comunanza e connessione di vita, che debba durare per tutta l’esistenza; e non già intenzionati, dopo aver sorpreso il fanciullo nell’ingenuità della sua giovinezza, ad abbandonarlo nell’inganno e nell’irrisione per fuggirsene con un altro. E converrebbe anzi che ci fosse una legge che impedisse di amare i fanciulli, affinché non si spendessero tante cure per un risultato ancora incerto: giacché non si sa mai a qual conclusione di deficienza o di bravura d’anima e di corpo, possano riuscire nel loro sviluppo” (Platone, Simposio, 181 d-e). E poi ci sono invece i veri e propri “pederasti” che non lo fanno per

ragioni sociali, politiche, pedagogiche … ma per amore: “Quando poi sono adulti, s’innamorano dei fanciulli, e alle nozze e alla procreazione dei figliuoli non rivolgono il pensiero per loro tendenza, ma solo per imposizione della legge; giacché, per loro conto, sarebbero soddisfatti di viver sempre gli uni cogli altri, senza sposarsi” (Platone, Simposio, 192 b). Le considerazioni di Lisia sulle relazioni omoerotiche fra maschi adulti e ragazzi rappresentano la chiave di volta per capire l’omosessualita greca: è più opportuno che un adolescente conceda la sua amicizia sessuale a chi non lo ama, a preferenza che a chi lo ama, perché otterrà con il suo 123


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compagno un’amicizia più duratura, da cui trarrà il massimo dei benefici. Concesso che l’istituzione di una philia duratura in confronto all’amore fondato sulla bramosia sessuale passionale sia migliore. Questo non è basato su un desiderio prepotente e destinato, proprio per la sua aggressività, ad estinguersi, e che si rivela più precario e più dannoso, sia durante la relazione, sia dopo la sua fine. “io m’accompagnerò con te, non in vista dell’immediato piacere, ma anche del tuo futuro vantaggio, perché non sono soggiogato dall’amore, ma padrone di me stesso; né sollevo per sciocchezze un violento rancore, ma porto un’ira modesta e posata per gravi ragioni; perché compatisco i falli involontari e i volontari mi provo di impedire. Tali sono i segni d’una amicizia destinata a durare lungo tempo. Se dunque hai in mente che non è possibile una salda amicizia, tranne che con un innamorato, devi riflettere che allora neppure i figli potremmo tenere a cuore, o il padre e la madre, né potremmo possedere alcun amico fidato, i quali tutti ci diventano tali non per passione erotica, ma per legami del tutto diversi” (Platone, Fedro, 233 b-d) 124

Quindi una philia che s’intesseva con rapporti sessuali aveva come fine non l’epithymia (desiderio), ma il bene complessivo del giovane. Ma, risponde Socrate, l’eros non va identificato con l’epithymia, ma con la mania: “Non è verace il discorso che ad un innamorato si debba preferire chi non ama, con il pretesto che questi delira e il primo invece è sano e saggio. Ciò sarebbe detto bene se il delirio (mania) fosse invariabilmente un male; ora invece i più grandi doni ci provengono proprio da quello stato di delirio, datoci per dono divino. Perché appunto la profetessa di Delfo, le sacerdotesse di Dodona, proprio in quello stato di esaltazione, hanno ottenuto per la Grecia tanti benefici, sia agli individui che alle comunità; ma quando erano in sé fecero poco o nulla” (Platone, Fedro, 244 a). Nel delirio che viene dagli dei, v’è la dimostrazione dell’immortalità dell’anima e la ricerca dell’oggetto supremo della filosofia. “Qui si prepara la grande fatica e la prova suprema dell’anima. Perché le anime che sono chiamate immortali, quando siano giunte al sommo della volta celeste, si

spandono fuori e si librano sopra il dorso del cielo: e l’orbitare del cielo le trae attorno, così librate, ed esse contemplano quanto sta fuori del cielo Durante questo periplo essa contempla la giustizia in sé, vede la temperanza, e contempla la scienza” (Platone, Fedro, 244 a). Il discorso socratico, pur contornando ogni materia nella cornice del rapporto erotico, mostra qui con correttezza come l’intenzione del vivere sia composto nella contemplazione delle realtà ideali, che è un rendersi simile a dio nella misura possibile all’uomo, e una riappropriazione per l’anima della sua natura divina. La componente passionale non va abolita, ma messa sulla via di un fine più alto; la genesi del desiderio d’amore è la eco di un amplesso originario dell’anima con il mondo ideale e in particolare con l’idea della bellezza. In alcuni uomini, quelli la cui iniziazione all’attività contemplativa non esiste, prende la veste del desiderio fisico o contro natura; chi invece è “fresco di iniziazione”, potrà andare al di là del eccitazione e dello stimolo, che pure è sempre presente come temperie, sublimandolo in una passione per l’oggetto supremo della filosofia.


Il Convito è una specie di “tavola rotonda”, tenuta nel 416 a.C. per la vittoria nell’agone tragico di Agatone, dove gli intervenuti, stanchi di mangiare e bere, decidono di trattare un tema rilevante e considerevole: l’eros. Agli illustri specialisti presenti (il medico Erissimaco, il poeta Agatone, il commediografo Aristofane, l’oratore Fedro, il retore Pausania, i filosofi Aristodemo e Apollodoro, il politico Alcibiade) che già avevano trattato il tema dal loro punto di vista (come in un congresso transdisciplinare) vien chiesto di lasciare, naturalmente, a Socrate le conclusioni. Fedro, come Agatone farà più tardi da “poetucolo”, aveva terminato da “avvocaticchio” come era: “io affermo che Amore è tra i numi il più antico e il più onorato, e il più capace di far conseguire agli uomini virtù e felicità, tanto in vita quanto in morte”. (Platone, Simposio, 180, b). Pausania, noto omosessuale attivo (amante di Agatone che Aristofane deride nelle Tesmoforiazuse per i suoi modi effeminati) dichiara che: “Ora, sappiamo tutti che non c’è Afrodite senza Amore. Se essa quindi fosse unica, unico sarebbe anche Amore; ma poiché di Afroditi ce ne sono due, è necessario che due siano pure gli Amori. L’una, infatti, è la più antica, non nata da madre, figlia del Cielo, a cui perciò diamo anche il nome di Celeste; l’altra è la più giovane, figlia di Zeus e di Dione, che noi chiamiamo Volgare. È quindi necessario che pure l’Amore che collabora con questa si chiami, giustamente, Volgare, e l’altro, invece, Celeste. Ogni azione, del resto, ha questa stessa natura: compiuta in sé e per sé, non è né bella né brutta. Neppure ogni innamoramento e ogni Amore è bello e degno di ricever lode, ma solo quello che induce a bene amare.” (Platone, Simposio, 180, d). Il noto medico Erissimaco, come tutti i tecnici, riprende il precedente discorso in termini tali che la sua scienza, ed esclusivamente quella, lo possa trattare: “Infatti la medicina, per dirla in breve, è la scienza delle tendenze amorose dei corpi a riempirsi e a vuotarsi, e chi sa distinguere in questi amori il buono dal cattivo, è il medico più bravo, e chi poi anche sia capace di operare delle trasformazioni, in modo da ingenerare in un corpo un

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amore in cambio dell’altro, e di suscitarlo dove non c’è e occorre che nasca, o di toglierlo dove c’è, questi può proprio dirsi un maestro dell’arte”. (Platone, Simposio, 180, b). E finalmene il poeta Aristofane che come tale ama il mito, perché il mito ha la parvenza di verità, racconta una favola. “Dapprima, infatti, eran tre i generi degli uomini, non due come sono ora, il maschile e il femminile, essendocene in più un terzo l’andrògino la figura di ogni uomo era tutta rotonda, con dorso e fianchi in cerchio, quattro mani e lo stesso numero di gambe, e due volti, in tutto eguali, su un collo cilindrico; e con una sola testa i per entrambi i visi rivolti in senso contrario, e quattro orecchie, e due genitali. Erano terribili per forza e per vigoria, e di grande animo, sì da assalire gli dei. Zeus e gli altri numi, quindi,

tenevano consiglio su quel che loro convenisse fare. Dice Zeus: li spaccherò ciascuno in due (i genitali) spostò dunque, così, sulla loro parte davanti, e per mezzo di essi costituì tra di loro il processo della procreazione, per opera del maschio in seno alla femmina, con questo scopo, che, se nell’amplesso si trovassero insieme maschio e femmina, generassero e si perpetuasse la razza; se, invece, maschio e maschio, venisse loro almeno sazietà dell’amplesso, e smettessero e si volgessero al lavoro e a tutte le altre cure della vita. Da così lungo tempo, quindi, è innato negli uomini l’amore reciproco, che riconduce verso l’antico stato, tendendo a fare, di due esseri, uno solo, e a ricostituir sana l’umana natura. Ora, tutti quegli uomini che sono frazione del sesso comune, quello che allora si chiamava andrògino, sono amanti delle donne, 125


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e da tal sesso deriva la maggior parte degli adulteri: come pure ne derivano tutte le donne adultere e e appassionate per gli uomini. Invece, quante delle donne sono frazione di donna, agli uomini non volgono affatto il pensiero e son tratte piuttosto verso le donne Quelli, infine, che son frazione di maschio, corron dietro ai maschi”(Platone, Simposio, 189 e 190192). La forma del mito è il racconto della propria meraviglia, mentre la forma della scienza è il logos, la spiegazione secondo verità. Se la meraviglia genera il mito, il risolvimento del dubbio genera la scienza. Nel primo caso, il lin­guaggio esprime la constatazione del “che è”, descrive il fenomeno nel processo metamorfico del suo apparire, riproponendo nella parola lo stupore e la fascinazione; nel secondo caso, la meraviglia lascia il posto al dubbio ed al linguaggio che lo esprime. Il Padre della nostra filosofia ci confessa che è da una donna, Diotima di Mantinea, ch’egli ha appreso la scienza dell’amore, massima fra le esaltanti avventure dello spirito e cioè la filosofia: “In occasione della nascita di Afrodite, gli dei si trovavano a banchetto, e tra gli altri c’era anche il figlio di Saggezza: Ingegno. Dopo che ebbero pranzato, venne a chieder l’elemosina, come accade quando 126

c’ è un festino, Povertà; e stava vicino alla porta. Ingegno, intanto, ubriaco di nettare (ché il vino non c’era ancora), entrato nel giardino di Zeus, vi era stato còlto da un sonno profondo. Allora Povertà, escogitando, per la sua miseria, di avere un figlio da Ingegno, gli si sdraia accanto e concepisce Amore. Ecco perché Amore, generato durante le feste natalizie di Afrodite, è fin dalla nascita suo seguace e ministro, ed è insieme, di sua natura, innamorato del bello, bella essendo anche Afrodite. E come figlio d’Ingegno e di Povertà, ecco che destino gli è capitato. Anzitutto, è povero sempre, e tutt’altro che delicato e bello, come credono i più, ma anzi ruvido e ispido e scalzo e senza tetto; ed abituato a sdraiarsi per terra senza coperte, per dormire a ciel sereno sulle soglie e per le strade: ritraendo in ciò dalla natura della madre, nella sua perpetua convivenza con la miseria. Per parte del padre, d’altronde, è ardente insidiatore del bello e del buono, valoroso e impavido e veemente, cacciatore formidabile, sempre occupato a tessere inganni, desideroso di capire e ingegnoso, tutta la vita intento a filosofare, terribile incantatore ed esperto di filtri e sofista. E non è nato né immortale né mortale, ma nello stesso giorno ora germoglia e vive, quando gli

va bene, ora muore, e poi di nuovo risuscita grazie alla natura del padre; e quel che acquista gli sfugge subito di mano, sicché Amore non è mai né povero né ricco. Anche tra sapienza ed ignoranza, egli sta in mezzo: e la ragione è questa. Nessuno degli dei filosofa, né aspira a diventar sapiente; lo è già, infatti; e se mai altri sia sapiente, non filosofa. D’altra parte, nemmeno gl’ignoranti filosofano, né desiderano diventar sapienti; ché proprio questo, anzi, l’ignoranza ha di grave, che chi non è né onesto né saggio si crede invece perfetto. E chi non avverte la propria deficienza non può desiderare ciò di cui non sente il bisogno” (Platone, Simposio, 203 b – 204). E così conclude il mito di Amore: “Nessuno degli dei conosce quell’amoroso uso di sapienza che filosofia si chiama”. È da questa sua “amica di terre lontane” che Socrate apprende che Amore è filosofo, al quale si rivolge per “ attingere alla verità, divenendo un uomo immortale”, la qualcosa è, in fin dei conti, è il paradigma di tutta la nostra cultura. P.116, 117, 118, 119, 120, 121: Sculture della bottega di Antonio Canova; p.122: La venere di Milo; p.123: Venere sorpresa al bagno, copia romana di scultura ellenistica; p.124: Gianlorenzo Bernini, il dardo di Eros, Estasi di santa Teresa; p.125: Vergine velata. Giovanni Strazza (1818-1875); p.126: Venere con satiro e Amore; p.127: Venere Anadyomene.


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Un ragazzo e la sua tigre Vita di PI: un film per meditare Riccardo Stivè

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l film Vita di PI è una pellicola del 2012, tratta dal romanzo omonimo di Yann Martel, del regista taiwanese Ang Lee. Avendo vinto quattro Oscar (Miglior regista/Migliore fotografia/Migliori effetti speciali/Migliore colonna sonora) oltre ad una manciata di Golden Globes ed altri premi minori, era praticamente impossibile che passasse inosservata. Avevo ricevuto feedback contrastanti da amici e conoscenti, ma decisi comunque di dargli un’occhiata anche se la avevo già relegata - immeritatamente - in una categoria tipo fantasy adolescenziale e non certo fra i film cosiddetti ‘impegnati’; meditando invece la storia narrata - che genera curiosità ed interesse per la complessità dei suoi molteplici contenuti simbolici - ci si accorge della grande complessità e dei differenti livelli di lettura dell’opera. Tenterò qui una semplice analisi sia di questa, sia delle impressioni - forti - che mi ha lasciato; avviso inoltre il lettore che - per forza di cose - descrivendo la pellicola svelerò il finale, un po’ sconcertante, ma di grande effetto. È proprio il finale stesso - brevissimo e fulminante - che cerca di fornire allo spettatore un punto di vista talmente diverso da suscitare in lui - con gli stessi meccanismi della una poesia Haiku - la percezione dell’ineffabile e una possibile intuizione di un piano metafisico, tematiche tanto care alla Massoneria. Ciò non sorprende

se esaminiamo il curriculum di Ang Lee: nativo di Taiwan, si è trasferito negli Stati Uniti per intraprendere la carriera cinematografica e - negli anni ’80 - ha lavorato come assistente di regia per Spike Lee. Ha collaborato inoltre alla trilogia di Matrix, opera del 1999 con forti richiami latomistici; in Vita di PI Ang Lee riesce a mescolare con maturità ed eleganza le tecnologie hollywoodiane ed i loro effetti speciali ad una sensibilità squisitamente orientale nella narrazione e nell’intreccio della storia, uno stile tutto suo che dona al racconto un particolare fascino tecno/retrò.

L’inizio in sordina delle scene iniziali ci tratteggia l’ambiente dai colori vivaci e saturi dell’India francese, le atmosfere ed i luoghi rimandano agli anni ’70 e il canovaccio sembra districarsi verso la favola anziché l’opera impegnata. L’inizio è calmo e il protagonista PI, ormai adulto, narra ad uno scrittore la propria storia. Scopriamo subito che PI è un soprannome, mentre il vero nome del protagonista - lo stesso di una piscina di Parigi - è Piscine Molitòr Patèl, dovuto allo zio Francis, grande nuotatore e frequentatore di piscine in tutto il mondo. Il nome - non proprio popolare fra i compagni di scuola di PI - mette a dura prova il suo equilibrio psichico durante l’infanzia. Un giorno, stanco delle continue burle, decide di cambiarlo in PI (π), la 16a lettera dell’alfabeto greco usata in matematica – materia in cui PI eccelle – per rappresentare il rapporto tra circonferenza e diametro di uno stesso cerchio, numero dal valore infinito arrotondato a 3,14. Con grande forza d’animo e molto ingegno riesce a farsi accettare con questo diminutivo. PI ha un fratello più grande di 2 anni e una madre alla quale è molto legato mentre il padre, un uomo con uno spiccato senso degli affari, apre uno zoo nel centro della città di Pondicherry. Nel frattempo PI fa la conoscenza con Krishna e tutte le divinità del vasto pantheon induista le quali diventano - per così dire - una specie di ‘supe129


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reroi’ della sua infanzia; il ragazzo, sostenuto dalla figura della madre, è avversato dal padre per questa sua inclinazione verso la religione, ritenendo egli che questa sia portatrice solo di oscurantismo. PI però è molto determinato e non si lascia condizionare: a 12 anni - casualmente e quasi per gioco - in una piccola chiesa cattolica vede un grande crocefisso e si sente colpito dal destino di quell’uomo che muore 130

per il bene dell’umanità. Ogni giorno è per lui una scoperta e una spiccata propensione mistica lo porta ad esplorare nuove strade: l’Islam, religione che gli insegna la fratellanza tra gli uomini. Il padre continua nella sua opera denigratoria e sostiene che “credere in tre religioni equivale a non credere a niente”; il pensiero raziocinante di questi, rivolto solo al progresso scientifico e completamente privo di una di-

mensione metafisica e spirituale, non spaventa PI che comincia ad interessarsi anche all’ebraismo ed alla Cabala e - in più - chiede pure di essere battezzato. Lo scrittore a cui PI narra la storia chiede a questo punto se non abbia mai avuto dubbi in fatto di fede, ma egli - argutamente - sostiene come la fede sia un palazzo con molte stanze, e ad ogni piano debba esserci uno spazio per il dubbio, vero motore della Co-


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noscenza e forza indispensabile per mettere la fede alla prova; nel frattempo scopre la tigre dello zoo, un bellissimo esemplare di nome Richard Parker (dal nome del cacciatore che l’aveva trovata); PI è affascinato dallo sguardo della belva, con la quale crede d’avere una affinità; il padre è sicuro invece che gli ipnotici occhi della tigre rispecchino solo le emozioni di chi la osserva e - con una sorta di cruenta iniziazione - dimostra come il fascino della belva possa essere mortale. Passano alcuni anni e PI - ormai adolescente - deve lasciare Pondicherry e le proprie simpatie giovanili e imbarcarsi su una nave con tutta la famiglia, animali dello zoo compresi; il padre ha infatti deciso di trasferirsi in Canada dove prospetta alla famiglia una nuova vita. Sulla nave hanno occasione di conoscere due personaggi significativi: il gentile e timido marinaio buddista e il cuoco, duro, rozzo e sgarbato. Dopo aver navigato per diversi giorni, una notte PI viene svegliato da una fortissima tempesta ed esce dalla cabina: sono nel bel mezzo dell’oceano Pacifico e una spaventosa mareggiata sbatte la nave da ogni parte; questa s’inclina da un lato e PI, salito sul ponte, cerca d’avvisare la famiglia del pericolo incombente. Tutto è veloce, drammatico, violento e crudele. PI viene sbalzato in mare insieme a molti uomini dell’equipaggio, oggetti ed animali. Riesce ad aggrapparsi ad una scialuppa di salvataggio,

cercando di dare aiuto ad altri superstiti, mentre nell’acqua buia gli squali aspettano sotto di loro; PI vede la nave inabissarsi e, dalla scialuppa, riconosce tra le onde i suoi compagni di naufragio, una zebra ferita ad una gamba, una iena, una femmina di orangotango chiamata Orange juice e la tigre del Bengala Richard Parker. Il tendone disposto su gran parte della barca non lascia intravedere chi si nasconda sotto, il mare finalmente si calma e la zebra ferita viene attaccata dalla iena che la uccide; la belva si rivolge poi verso PI, ma Orange juice si frappone tra loro e lotta con coraggio. Anche la scimmia viene sopraffatta dalla iena e muore sotto gli occhi in lacrime del ragazzo. Esplode la rabbia di PI, ma prima che riesca anche solo a pensare ad una reazione, da sotto il tendone con un balzo fulmineo esce con un ruggito la tigre che azzanna la iena uccidendola. Sulla scialuppa sono rimasti solo PI e Richard Parker; il ragazzo cerca disperatamente di sopravvivere, prima di tutto non permettendo alla tigre di ucciderlo; per non condividere la barca con la belva, si costruisce una zattera dalla quale è in grado di pescare e raccogliere l’acqua piovana. Passano molti, molti giorni e PI inizia a cercare un rapporto con l’animale; sono due esseri uniti nello stesso destino che li porterà forse alla morte, ma vale la pena di provare a vivere, resistere, anche quando tutto sembra senza speranza. PI capisce che

la sua sopravvivenza dipende da quel rapporto. Dovrà lottare per poterlo costruire e progetta persino un piano per addomesticarla, ma la cosa si rivela molto difficile: anche Richard Parker sembra spaventato e non dà segni di cedimento. Da settimane, da mesi spersi in quel mare immenso, senza vedere nessuna prova di una possibile salvezza, PI fa emergere il suo lato mistico affidando il suo destino a Dio ed al suo supremo volere. Al verificarsi dell’ennesima tempesta, con i fulmini che illuminano a giorno la scena, il protagonista si chiede che cosa altro Dio voglia da uno che ha perso tutto: l’unica cosa che gli è rimasta è infatti la speranza di una sua benevolenza. Si addormenta. La barca galleggia su un mare ormai calmo, arenando pigramente la propria chiglia sopra un’isola sconosciuta. PI si avventura verso l’interno dove una natura rigogliosa lo aspetta, gli alberi procurano una dolce ombra ristoratrice e le radici si intrecciano proponendo gustose bacche: pozze di acqua limpidissime permettono a PI di dissetarsi a volontà. L’isola è popolata solo da migliaia di suricati che diventano velocemente cibo per la tigre affamata, tutto sembra essere più di quanto PI e la tigre avessero bisogno. L’isola però nasconde un terribile segreto: di notte per un misterioso processo - tutto diventa tossico, mortale; PI trova un dente umano all’interno di una pianta carnivora e capisce come quell’isola che è luogo di vita 131


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di giorno, diventi luogo di morte di notte. La mattina seguente salpano nuovamente ed il loro destino sembra ormai segnato, PI capisce di essere vicino alla morte e abbraccia la tigre ormai stremata in un tentativo finale d’instaurare con la belva un contatto, qualcosa che possa alleviarlo dalla fine imminente. Le coste del Messico accolgono i naufraghi stremati e, senza ormai più forze, PI si getta sulla sabbia della spiaggia; anche la tigre, macilenta e provata, scende con un balzo e s’incammina verso la foresta; è il momento in cui questo strano rapporto sembra interrompersi; PI si aspetta che la tigre si volti e ruggisca, come un cenno che indichi e sancisca almeno la fine del loro rapporto. La tigre però scompare tra le foglie senza degnarlo di uno sguardo: lui - disperato ma felice - piange sia per aver ritrovato la vita che credeva perduta, sia per non esser riuscito a comunicare con la tigre come avrebbe voluto nemmeno alla fine dell’avventura; Pi viene soccorso e portato in ospedale e qui durante la degenza - viene raggiunto dagli ispettori della compagnia di navigazione; da PI, unico superstite del naufragio, si aspettano un resoconto dei fatti per redigere il verbale ed archiviare il caso. PI racconta loro la propria storia, ma essi rimangono interdetti valutando il racconto fantasioso ed al limite della credibilità; PI - dopo attimi terribili di disperazio132

ne - modifica la narrazione dei fatti e ci svela la chiave di lettura. Lui aveva proiettato simbolicamente gli animali sulle persone sopravvissute al naufragio, inconsciamente e per preservare il proprio equilibrio psichico dai tragici fatti del disastro. La zebra ferita che arrivò per prima alla scialuppa era il marinaio buddista, la iena rappresentava il cuoco, la scimmia Orange juice che diede la vita per difenderlo era la madre e la tigre era lui stesso! Il cuoco uccise dapprima il marinaio e poi la madre e questi eventi fecero emergere la tigre sopìta che ogni giorno viveva in PI, il suo lato oscuro e bestiale, protetto dalla sottile pellicola delle sue buone intenzioni. La belva aggredì il cuoco e lo uccise, così come quest’ultimo aveva fatto con sua madre. Per 277 giorni PI rimase sulla barca accompagnato dal suo lato oscuro rappresentato dalla tigre, con il quale dovette imparare a convivere e che cercò di domare senza mai riuscirci. Il finale del film è sorprendente, ci lascia sgomenti e lacera in modo violento i già crudi fatti narrati per mezzo della simbologia animale; ecco emergere il dualismo eterno tra il bene ed il male dal profondo della coscienza di PI, fecondato e mediato dalla sua esperienza mistica; egli infatti non riesce a trattenere entro di sé il proprio lato oscuro e ne trasfigura l’immagine nelle sembianze della tigre; per lui questa immagine simboliz-

za la crudezza della vita e ognuno di questi due esseri - presenti originariamente nello stesso corpo - lottano per conoscersi, si attirano e si respingono, si ribellano l’uno all’altro, si attraggono in modo meravigliosamente spaventoso. Le infinite sfaccettature dell’animo umano, filtrate dalla paura e dalla ricerca dell’umana sopravvivenza, generano due esseri distinti, contrastanti, due dimensioni evidenti e riconoscibili. Il tema della doppia personalità, buona e malvagia, ricorre spesso nella letteratura. Anche senza prendere in esame i classici, basti citare Stevenson nel suo Dott. Jekyll e Mr. Hyde o - per rimanere in ambito cinematografico - il Pianeta proibito, cult fantascientifico del 1956. In PI le due dimensioni si contrastano e si avvicendano: con la sua continua e dubitante ricerca di una verità metafisica attraverso la fede, egli esprime quanto nell’uomo ci sia di elevato e di virtuoso; la tigre invece, con i propri violenti istinti primordiali, rappresenta le basse e brutali passioni che PI sgancia dal proprio corpo e cerca di dominare per non esserne coinvolto, per non macchiare la sua immacolata coscienza. A differenza però di quanto accade nell’opera di Stevenson - dove le due entità vivono, ma si alternano nello stesso corpo - nel film PI e la tigre si staccano l’uno dall’altro e coesistono contemporaneamente, dando con ancora più vigore la rappresentazio-


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ne delle forze contrastanti ed opposte che si fronteggiano con ferocia, sapendo che da questa lotta dipenderà la loro sopravvivenza. PI combatte la tigre come ogni uomo dovrebbe ogni giorno lottare con se stesso, edificando templi alla virtù e scavando profonde e oscure prigioni per i propri vizi, come ogni Sorella o Fratello dovrebbero ben sapere. Una volta approdati a terra, PI vede la tigre andarsene senza degnarlo di un saluto. PI si dispera come se avesse perso una parte di sé, una parte con la quale era riuscito finalmente a convivere, a costruire un rapporto. La tigre sparisce, ma non illudiamoci: continuerà ad accompagnarci per tutta la vita, ogni giorno. Sia PI che noi stessi dovremo conviverci e ritrovarla nei nostri limiti, nelle nostre debolezze, nelle nostre passioni e in tutte le scorie ed i metalli che tentiamo di lasciare fuori dal Tempio quando - indossati i guanti bianchi - ci riuniamo per i nostri Lavori. Un altro elemento simbolico in cui si legge un rilevante spunto muratorio è l’isola, la temporanea salvezza di PI, la prova da lui richiesta dell’esistenza della divinità che nell’isola si manifesta e si palesa; l’isola stessa - in una breve inquadratura - è rappresentata con il profilo di Vishnu che dorme sognante sulle acque dell’Oceano primordiale, rappresentato da serpenti; una antichissima iconografia vedica che ci dà un chiaro marker del milieu

della cultura del regista. Qui sull’isola è rappresentato in modo spietato il dualismo tanto caro alla Massoneria: giorno e notte equivalgono a vita e morte; come non pensare al nostro pavimento a scacchi che nella Loggia simboleggia adeguatamente il contrasto del Bianco e del Nero; il primo come ciò che è interiore, Luce, Vita, Bene e il secondo come parte esteriore, Notte, Oscurità, Morte, Male. Infatti - come afferma Iréne Mainguy a riguardo del dualismo nel suo Simbolica Massonica del Terzo Millennio - “l’opposizione è una condizione del divenire poiché i contrari possono sempre sostituirsi uno all’altro riconciliandosi sempre secondo una regola di complementarietà”, che altro non è che la chiave della Coin-

cidentia oppositorum. È quindi il rapporto tra questi elementi il cardine del messaggio che ci viene proposto? Preferiamo credere al simbolismo degli animali o alla spaventosa crudezza dei superstiti nella scialuppa? E possiamo considerare Ang Lee un Fratello o almeno un iniziato? Lasciamo ancora una volta che sia il Dubbio il motore della nostra Cerca del Graal e concludiamo, affinché la tigre che ci accompagna sempre non ci sovrasti, con le parole del Sommo poeta con cui, oltre 700 anni fa, nel xxvi canto dell’Inferno già ci ammoniva: “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”. P.128/133: Fotogrammi dal film ‘Vita di PI’, immagini di backstage e di rendering di realtà virtuale.

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Donare oltre la vita, l’ultimo atto di Patrizia... Luigi Pruneti

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‘ Gli uomini traggono i migliori insegnamenti dagli esempi, poiché questi hanno il merito di provare che ciò che insegnano può essere messo in pratica ’ Plinio, Pan. 45.6

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na giornata di fine inverno, come tante altre … le nuvole corrono veloci nel cielo, livide di pioggia e di vento, caracollano sul mare imbronciato, salutano dall’alto la città, occhieggiando i viali dell’Accademia, i mori incatenati, i bastioni dei forti medicei, per perdersi nell’entroterra assetato di primavera. Già, la primavera … C’è sentore della stagione nuova nell’aria, la promette il sole che di tanto in tanto fa capolino, l’incoraggiante tepore di questo dì stupefatto di febbraio, i profumi d’erba e di fiori novelli. Patrizia è felice, passeggia serena sul lungomare dove le onde, spengendosi sulla costa, intrecciano ghirlande d’alga e di fuco; all’improvviso un lampo di dolore la percuote, perde i sensi, si accascia al suolo … la corsa all’ospedale, la tac, la diagnosi implacabile: aneurisma cerebrale. La speranza, tuttavia, non deve andarsene; nella sala di rianimazione si cerca di opporre la scienza alla morte che avanza. Le ore scorrono veloci, una settimana dura il calvario di Patrizia; infine il 10 febbraio – nel giorno del suo compleanno – il tracciato dell’elettroencefalogramma diventa piatto, sono le 13.40: Patrizia se ne è andata. “Cari Fratelli e Sorelle addio. Una porta si è aperta sul mio orizzonte, è oscura e luminosa al tempo stesso, mille voci mi chiamano … devo andarmene. Fra poco varcherò quella soglia; vi confesso, sono turbata e timorosa; ciò che mi rattrista – però – è il dovervi lasciare. Ho condiviso con voi la gioia e l’emozione di percorrere una strada comune, radiosa di speranze e di attese. Ora sono costretta a prenderne un’altra, non so dove mi condurrà; ricordatemi ogni tanto e io sarò sempre con voi. Sappiate che vi ho voluto bene e se la rimembranza mi sarà concessa non vi sarà oblio per voi. Addio … dono – per attestare il mio amore – gli organi che mi permisero di esistere a chi ne ha bisogno, per continuare a sognare su quell’arena di luce e di ombra che si chiama vita”. Scrive Plinio: Melius homines exemplis docentur, quae imprimis hoc in se boni habent, quod adprobant quae praecipiunt, fieri posse. Ciao Patrizia, la tua partenza ci raggela, ma la bontà che hai voluto testimoniare fino in fondo trasforma il ghiaccio in fuoco. La tua fiamma arderà per sempre nei nostri cuori.

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P.134: Arcobaleno nelle Valli celesti; p.135: Patrizia Perna (foto Paolo Del Freo e Saverio Dutti).

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Il mistero del Re del Mondo e della mitica Agartha Luigi Pruneti, La Gaia Scienza, Bari 2014, pp. 150, ill. b/n, €. 15.

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n discendente dei Re-Magi, un alleato di Genghiz Khan, un gran principe indiano o etiope, o un potente vescovo nestoriano, sovrano di un mondo inaccessibile traboccante di favolose ricchezze? Chi è quel misterioso Re del Mondo, Re-Sacerdote e Maestro di Giustizia, che regge il destino dei mondi dagli immateriali palazzi dell’invisibile di quel celeste reame dell’oriente sotterraneo sospeso tra cielo e terra, tra enigmatiche leggende e simboli di una tradizione spirituale e centrale perduta? Sulle tracce sapienziali di Guénon, lungo le orme ispiratrici di altri prima e dopo di lui, da Saint-Yves d’Alveydre e Ossendowski a Edward Bulwer-Lytton, alla Blavatsky, a Roerich, su e giù per sovramondi e sottosuoli inesplorati dell’altrove, e più innanzi ancora, Luigi Pruneti - massimo conoscitore del nostro tempo dell’autentica sapienza tradizionale anche stavolta ci stupisce e meraviglia in questa sua nuova opera, liberando la conoscenza dallo sgomento antico, “tre volte antico” (per

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dirla con Eschilo) di fronte al mistero sorto dal nulla, per condurci attraverso il tempo mitico della conoscenza sovra-razionale: in un viaggio argonautico di vera e propria ”archeologia dello spirito”. Un dotto viaggio scritturale in cui la parola illumina e adombra efficacemente una molteplicità di ulteriori significati e contenuti che, nell’agile e profonda trattazione conoscitiva del libro, riconduce a una ricerca inesausta (sub specie interioritatis) di quella figura primordiale del “Re del Mondo” e della sua doppia sacralità in una missione universale sotterranea ma dall’alto centrale e solare, quale celeste mandato e forza (“virtù”) immateriale e ineluttabile dello spirito. Le aspettative messianiche e le potenzialità misteriche celate nei simboli dell’immaginario e nei segni della tradizione non sfuggono ad una scienza sacra che è arte e tecnica di risveglio e reintegrazione restauratrice in quell’assialità dell’essere in una “terra di mezzo” che, tra sogno e pensiero, crea-ri-crea varchi tra il nulla e l’impossibile su “giardini filosofali” inaccessibili alle nebbie della ragione. Qui, il centro spirituale del mondo: l’Agharta, il celeste reame “ai confini del paradiso terrestre”, da cui tutte le attività spirituali in terra vengono dirette da quel misterioso sovrano da taluni identificato nel Presbiter Johannes o in altre figure

leggendarie che, in soggiorno di verità e giustizia, dal centro della terra alla montagna sacra esercita un imperium impercepibile nei tre mondi; e che al di là delle raffigurazioni possibili, sicuramente più che personaggio unico, è da intendersi quale originaria “qualità” e “funzione” universale dello spirito. Un conoscere “dall’interno”, dunque, ove la visione si fa puro occhio, primitivo ricordo e con ciò “vita nova” nelle multiple gestazioni a cui la coscienza si risveglia lungo i silenziosi ascolti delle mute ma auree testimonianze di simboli in rapporto immediato col percorso iniziatico, e valore altro quando accostati al sovrasensibile evocato. Da qui, tra il nascere e rinascere a sé stessi, il sorgere di una sorta di geografia dell’essere: dal mito della terra cava e del labirinto, dalla pietra sacra e dall’albero edenico alle segrete cifre di scribi celesti e ai ritmi sacrali del primo lume d’ogni cosa, alla luminosa presenza spirituale, centrale e cristica, che governa ogni energia naturale in presenza di verità in sé e per sé: assoluta. Un’affascinante ricerca per stupefacenti mappe filosofiche dell’ignoto, quest’ultimo lavoro di Luigi Pruneti che, tra preziosi significati e interpretazioni, spesso arricchite da inediti riferimenti testuali e felici intuizioni intellettuali dell’Autore, tra oscure viscere minerarie e intelletto di gloriosa luce, da una suprema sorgente spirituale apre un nuovo varco a profonde riflessioni, ulterius procedendi. Tiberio di Dobrynia ***

Il coraggio di sognare. Hugo Pratt fra avventura e mistero a.c. di L. Pruneti, Tipheret - Gruppo Editoriale Bonanno, Acireale – Roma 2013, pp. 120, €. 12,00.

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ugo Pratt, allorquando nel 1967 ideò il personaggio di Corto Maltese, ebbe il coraggio di sognare. Il coraggio di sognare il viaggio, il cammino dell’uomo senza bandiera, senza ideali precostituiti, senza porti sicu-


ri ove rifuguarsi. Il coraggio di rappresentare un eroe-antieroe libertario, che anticiperà quelli che, decenni dopo, diventeranno classici del fumetto moderno quali Dampyr e Dylan Dog. Hugo Pratt e Corto Maltese sono spesso raccontanti dai saggi del prof. Luigi Pruneti, scrittore e già Gran Maestro della Gran Loggia d’Italia degli ALAM, oltre che appassionato di fumetti e di letteratura del fantastico. Ne Il coraggio di sognare – Hugo Pratt fra avventura e mistero, Pruneti ha voluto raccogliere in un unico volume edito da Tipheret, gli atti di due convegni, tenutisi rispettivamente a Forlì nel maggio 2013 e a Pesaro nel 2010, dedicati al fumetto ed alla figura di Corto Maltese. Convegni presentati dall’amico Pietro Caruso, già direttore della rivista Il Pensiero Mazziniano, ed alla presenza di studiosi del fumetto, della letteratura d’avventura e di viaggio. Un saggio, Il coraggio di sognare, che attraverso i racconti dei relatori, ci racconta la vita e l’opera di Hugo Pratt, nato a Rimini da un padre di origini inglesi e da una madre veneziana, la cui vita fu una continua avventura, un continuo spostamento da un capo all’altro del globo terrestre. E ci racconta della sua collaborazione al Corriere dei Piccoli e le sue celebri opere che ebbero come protagonista il suo Corto: da Corte sconta detta arcana a Favola di Venezia, passando per La casa dorata di Samarcanda sino alle più recenti collaborazioni con l’amico ed allievo Milo Manara ne Tutto ricominciò con un’estate indiana e El Gaucho. Corto Maltese, un libero marinaio, un po’ come fu Hugo Pratt, alla ricerca dell’arcano, del mistero e dell’esoterico. Una ricerca che porterà l’autore a farsi iniziare alla Massoneria della Gran Loggia d’Italia presso la Loggia Hermes di Venezia nel 1976, a cinquant’anni di età, raggiungendo, pochi anni prima di morire, il Quarto Grado del Rito Scozzese Antico ed Accettato, esperienza di cui per molti versi racconterà nelle tavole di Favola di Venezia. Il coraggio di sognare racconta di questo ed analizza gli aspetti culturali e misteriosi del fumetto, ingiustamente ritenuto semplice strumento di sottocultura ed in realtà di grande valore al pari di un saggio, di un’opera teatrale e/o cinematografica ed è davvero una delle poche opera edite in Italia ad affrontare i significati più reconditi dell’opera di Hugo Pratt. Vorrei concludere con un piccolo inciso, a proposito di Hugo Pratt, che purtuttavia è sfuggito ai relatori dei convegni relativi alla sua opera. È un aspetto purtroppo poco conosciuto, che però anni fa quando vidi il film non mi sfuggì. Sto parlando della presenza di Hugo Pratt

quale attore nel film noir di Giancarlo Soldi Nero del 1992, ovvero tre anni prima della morte di Pratt. Nero è tratto dall’omonimo romanzo noir di Tiziano Sclavi, autore del fumetto Dylan Dog e Pratt nel film recita la parte del commissario di polizia Straniero. La presenza nel film di Hugo Pratt è fondamentale, in quanto segna il passaggio del testimone fra l’antico eroe Corto Maltese - il marinaio viaggiatore senza bandiera - ed il nuovo eroe degli anni ‘90 e 2000 Dylan Dog, l’indagatore dell’incubo pieno di paure e fobie, ma capace di risolvere le angosce delle persone che a lui si rivolgono, in quanto capace di ascoltare il prossimo. E si noti, nel film, come le pareti dell’appartamento dei protagonisti - Federico e Francesca - siano abbellite da stampe tratte proprio dai fumetti di Pratt e Sclavi. Un piccolo cameo che, per gli amanti del fumetto d’avventura e noir, non può certo mancare. Luca Bagatin ***

Moleskine Racconti di fiele e di miele Luigi Pruneti, Edizioni Giuseppe Laterza, Bari 2013, pp. 120, €. 15,00.

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oleskine, come i taccuini dei giornalisti di fine ‘800, ricorda la professoressa Ida Li Vigni nella prefazione di questo volume che raccoglie racconti, fiabe e piéce teatrali di Luigi Pruneti. Luigi Pruneti, saggista e già Gran Maestro della Gran Loggia d’Italia, con questo taccuino di viaggio edito dalle Edizioni Giuseppe Latenza, dal sottotitolo di sapore fumettistico di Racconti di fiele e di miele, ci regala storie dai profondi risvolti esoterico-filosofici e spirituali. Storie brevi, come le 101 storie zen pubblicate negli Anni ‘50 da Nyogen Senzaki e Paul Reps ed altrettanto illuminanti, come “La favola dei tre semi”, che ci insegna che solo colui il quale cerca la luce spirituale, se veramente la desidera, la trova per davvero. Oppure la storia del Gran Topo, dal titolo “In una notte di maggio”, ove qualcuno potrebbe ravvisarvi numerose allegorie massonico-iniziatiche; o, ancora, “Un incontro fra le nuvole”, ove l’autore immagina se stesso fra le nuvole, a incontrare i Grandi Iniziati del passato quali René Guénon, il Tradizionalista per eccellenza; Oswald Wirth, l’esoterista, spiritualista e alchi-

mista, ma al contempo laico, celebre per il suo studio sui Tarocchi ed infine Gurdjieff, che insegna all’autore che è necessario combattere gli imbonitori e per farlo bisogna avere il coraggio di sbugiardarli, testimoniare con ottimismo la verità e anteporre alle parole i fatti. Ma, i racconti raccolti in Moleskine, non

Recensioni sono terminati. Fra viaggi all’Inferno e viaggi nella sua infanzia, l’autore metterà alla berlina il pregiudizio e il dogma, proponendo e promuovendo una società aperta in luogo di una società omologante e chiusa. Di particolare pregio le piéce teatrali, una ambientata in pieno Medioevo, ove una donna riservata, ma spiritualmente illuminata, saprà rispondere a tono a un frate, ad un cavaliere e ad un mercante, rappresentanti del pensiero più oscurantista dell’epoca. Le altre due brevi piéce sono invece ispirate al fumetto “Corto Maltese”, il marinaio avventuriero scaturito dalla penna del celebre fumettista massone Hugo Pratt e anch’esse racchiudono profondi messaggi spirituali ed umanistici. Uno fra tutti, che mi ha favorevolmente impressionato in quanto vero inno alla Donna ed alla Grande Madre, è fatto proferire da Corto Maltese stesso: “... le donne sono la parte forte dell’umanità. In voi è l’arcano della Grande Madre, incomprensibile all’analisi razionale dell’uomo che non riesce a concepire, né a comprendere la coerenza, la determinazione, il coraggio, la disponibilità al sacrificio

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che è in voi. L’uomo è fragile, perché guarda il più delle volte solo a se stesso; lo specchio è la sua guida e tuttavia lo specchio è labile e quando si rompe l’immagine sfuma, frantumando il cuore di Narciso. Le donne, invece, a differenza di quanto dicono i maschi, pensano più agli altri che a loro stesse e ciò le rende roccia

Recensioni la cui solidità sfugge ai più, perché è mascherata da un tappeto di morbido muschio”. Particolare da notare è la copertina del volume di Luigi Pruneti, raffigurante un uomo ritratto di spalle (con tutta probabilità l’autore stesso) assieme ad un cagnolino, i quali, a piedi, percorrono una lunga strada fatta di curve e sentieri, che li condurrà verso colline, valli, montagne, forse, sempre alla ricerca di un possibile Santo Graal. In un eterno viaggio verso l’infinita conoscenza ed evoluzione. Luca Bagatin ***

Cartoon e Libera Muratoria Con interventi di Luigi Pruneti, già Gran Maestro della Gran Loggia d’Italia e Gustavo Raffi Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia - I. Spadafora, Edizioni ETS, Pisa 2014, pp. 214, illustrato, €. 20,00.

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l libro di Spadafora è, forse, il primo libro che ha liberato i cartoon dall’ambito del solo gioco, del divertimento. Cartoon è un termine generico che si applica oggi a diverse forme grafiche; tale termine indica un disegno o pittura non realistica o semi realistica che abbia un significato di satira, caricatura o humor.

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Si danno vari e diversificati esempi di cartoon e cartoonist negli Stati Uniti d’America ed in Europa, fra cui l’inglrese Hogarth, l’americano Franklin. Nel tracciare la breve storia dei cartoon, l’autore segnala anche l’atteggiamento di Freud in Il moto di spirito e la sua relazione con l’inconscio. In esso distingueva tra l’umorismo che intende procurare un piacere innocuo e l’umorismo satirico, che spesso usa immagini volgari o grottesche. Secondo Freud, gli individui spesso liberano i loro impulsi aggressivi quando gli si permette di ridere davanti a situazioni impensabili o socialmente inaccettabili. Il famoso lavoro dello psicanalista segnò uno sviluppo importante nella storia del cartoon umoristico, perché incoraggiava gli artisti ad includere immagini assurde e inquietanti nella loro opera. Lo studio di Spadafora ha anche rivelato la presenza di cartoon nella più remota antichità. Il più antico cartoon noto è stato ritrovato in Egitto e risale intorno al 1360 a. C. Questo cartoon realizzato da uno sconosciuto artista che scrive satire contro Ikh-naton, l’impopolare suocero di Tutankhamen, rappresenta uno dei molteplici attacchi agli antichi leader egiziani. Anche Cleopatra appare ubriaca in una caricatura. Un altro problema consiste nella differenza fra immagini visive e parole. Kris affermava che il potere, o “la magia” di una caricatura sta nella sua capacità di parlare alle emozioni dell’osservatore come le parole non possono fare. Le immagini visive in effetti agiscono in modo diverso sulla nostra mente rispetto alle parole. L’immagine visiva ha radici più profonde, è più primitiva. La magia dell’immagine è una delle più onnipresenti forme di pratica magica. Presuppone una fede nell’identità del segno con l’oggetto significato: una fede che supera in intensità quella nella potenza magica della parola. E’ proprio questa fede che spiega il segreto e l’effetto della caricatura riuscita. La caricatura è un giocare con il potere magico dell’immagine. Anche Guénon è dello stesso avviso e così si esprime: “Non vi deve pertanto essere opposizione tra l’impiego delle parole e quello dei simboli figurativi; questi due modi d’espressione sono piuttosto complementari l’uno all’altro (e del resto essi possono, di fatto, combinarsi, dal momento che la scrittura è originariamente ideografica e in certi casi, come in Cina, ha sempre conservato questo carattere). In generale la forma del linguaggio è analitica, ‘discorsiva’ come la ragione umana di cui è lo strumento proprio e di cui segue o riproduce il cammino con la massima esattezza possibile; al contrario, il simbolismo figurativo è essenzialmente sintetico, e per ciò stesso ‘in-

tuitivo’, in qualche maniera, il che lo rende il mezzo più idoneo per la trasmissione delle verità d’ordine superiore, religiose e ‘metafisiche’, ossia per tutto ciò che lo spirito moderno respinge o trascura”. Veramente interessante ed originale è il capitolo Sui simboli. Nel secondo paragrafo, rifacendosi a Gioberti, si sostiene che l’uomo è capace di creare solo simboli; mentre nel terzo si spiega il rapporto tra simboli, spazio e tempo. Senza il simbolismo l’uomo non avrebbe sensazione né del tempo né dello spazio. La parte più innovativa è rappresentata dalla spiegazione dell’esoterismo. La Massoneria si può definire come un intreccio, una fusione di tre aspetti ugualmente importanti e necessari: speculativo, operativo ed esoterico. Osserviamo che l’aspetto esoterico è quello meno noto e più difficile da praticare; ma sia la Costituzione del GOI che lo Statuto di GLDI, mettono in evidenza il carattere esoterico dei due ordini e come tale aspetto è ugualmente essenziale, al pari degli altri due. L’aspetto speculativo s’interessa dei princìpi e delle idee che regolano e ispirano la Massoneria, ossia crea i simboli, incorpora la realtà nei simboli. Quello operativo applica nel mondo le idee elaborate dalla Massoneria speculativa e quindi il conseguente agire, ossia adotta e usa i simboli creati dalla Massoneria speculativa. I simboli creati nel momento speculativo potrebbero (sia volutamente sia involontariamente) venir modificati durante l’uso e quindi divenire incomprensibili, ‘nascosti’, ossia esoterici. Si può, pertanto, dire che l’aspetto esoterico riguarda soprattutto lo studio dei simboli creati dall’uomo per descrivere la realtà, e nello stesso tempo per verificare che i simboli usati dall’operativa corrispondano alla realtà di partenza. Una volta incorporata la realtà nel simbolo, si deve essere capaci di intendere ciò che il simbolo rappresenta, ossia occorre che dal simbolo si possa ritornare alla realtà che rappresenta. Ecco come si può definire l’esoterismo: lo studio degli errori nella operativa, in maniera che i simboli corretti possano corrispondere a quelli creati dalla speculativa. In generale per esoterismo si intende lo studio di una dottrina o complesso di dottrine di carattere segreto. Le dottrine esoteriche si incontrano nell’ambito di varie culture come la magia, l’alchimia, le religioni misteriche e gnostiche. Si è detto che uno dei meriti del libro è quello di aver liberato i cartoon dalla qualifica di vignetta, caricatura, del disimpegno per inserirlo in una visione più ampia che è quella del sociale, politico, tradizionale. Aspetti questi che appartengono anche alla Massoneria, non tanto perché molti cartoonist sono massoni, ma anche perchè tramite i


La regolarità massonica nel sistema delle Gran Logge O.Wirth, a.c. di Vittorio Vanni, Thipheret – Gruppo Editoriale Bonanno, Acireale – Roma 2014, pp. 184, €. 15,00.

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cartoon si fa una critica sociale costruttiva tramite la simbolica. Il libro contiene anche un intervento del Prof. Luigi Pruneti dedicato al massone Hugo Pratt, padre di Corto Maltese. Il libro è ricchissimo di riferimenti sia ad autori internazionalmente conosciuti (come Walt Disney e appunto Pratt), ma anche a cartoonist di vari e molteplici Paesi, quali quelli arabi. A proposito di questi, si può comprendere l’impatto che può avere un cartoon a livello mondiale. La controversia sulla rappresentazione tramite cartoon del Profeta Muhammad, che interessò l’intero globo agli inizi del 2006, fu probabilmente il secondo maggior evento dopo l’undici settembre 2001: attacchi terroristi che portarono i Musulmani, come gruppo di attori politici, davanti alla politica internazionale. La crisi fu innescata nel settembre 2005, con la pubblicazione di cartoon politici, che rappresentavano il Profeta dell’Islam Muhammad, nel giornale danese Jyllands-Posten. Il motivo originale della controversia era limitato solo a un piccolo paese del Nord Europa, mentre l‘azione politica riguardò l’intero mondo, che andò dalle sanzioni diplomatiche alla protesta dei pacifisti. Dalle caratteristiche dei disegni appare chiaro che la maggior parte di essi dipingono il Profeta in maniera antipatica e minacciosa, con lo sguardo aggressivo, la barba scura e incolta e sopracciglia folte. I colori dominanti sono bianco, nero e verde (il colore che simboleggia l’Islam). I messaggi visivi sono chiari, ma il significato attribuito alle immagini dipende dai contesti sociali, culturali e politici percepiti. Pertanto i cartoon devono essere interpretati alla luce dei loro contesti in cui vengono percepiti. La Redazione

testi qui pubblicati in italiano, per la prima volta, sono del noto autore Oswald Wirth (5 agosto 1860 a Brienz (Svizzera) – 9 marzo del 1943) tratti dalla Rivista Le symbolisme degli anni 1924/1938. Il testo è editato dalle Edizioni Thipheret, in un momento storico della Massoneria internazionale in cui queste esatte e appassionate considerazioni dell’autore sono incredibilmente attuali. Ai tempi in cui quest’articolo sembrò necessario, la Massoneria anglosassone prevaleva non soltanto come numero, ma soprattutto dal punto di vista ideologico, arroccandosi nel considerare la sua spiritualità in un esclusivo ambito giudaico-cristiano, e la ritualità come un banale insegnamento morale, ricondotto a usi e costumi di un corpo sociale conservatore e spesso prevaricatore. Nel 1929 la Gran Loggia Unita d’Inghilterra emanò delle regole per il riconoscimento, spesso molto ambito dalle varie Massonerie, e che è stato negato o detolto non soltanto per motivi d’impostazione ideologica, ma soprattutto per la consueta politica di prevalenza della Massoneria inglese. Wirth esamina anche e soprattutto i Landmarks, dei quali alcuni punti hanno rappresentato motivo di divisione fra le varie Massonerie nazionali. Nel testo è inserita una prefazione storica alle esaustive osservazioni del Wirth e ha ragion d’essere solo nell’aggiornamento dei saggi espressi dopo il 1938, in particolare da Robert Ambelain e Henry Jullien. La Redazione

Atanor la pubblicazione di 12 lamine simboliche ed ermetiche dal titolo Mutus Liber Muratoriae. Autore di molte opere di vasto respiro sapienziale ed artistico, da tempo idea e produce a Roma pregevoli immagini, gioielli e medaglie di tenore esoterico e massonico. Nella sua ultima opera Misteri della tradizio-

Recensioni ne ermetica: svelando e rivelando, egli raccoglie tutta la conoscenza esoterica oggetto di molteplici articoli apparsi sul periodico Hera ed ora disponibile al lettore attento desideroso di appropriarsi, in un percorso sapienziale di sintesi, di quelle impressioni interiori, di quelle risonanze del sacro, proprie del moderno ricercatore delle Spirito. È solo in questo senso che deve essere letta l’opera del Di Prinzio, una rottura di schemi rispetto ai moderni autori, artisti e scrittori verso un ripristino dell’antica tradizione sapienziale caratteristica saliente delle sue opere artistico-iniziatiche. Il lettore non dovrà cercare quindi supporti bibliografici poiché l’Opera rappresenta una sintesi iniziatica che raggiungerà direttamente il suo cuore. Per chi da anni studia i contenuti della Grande Opera si suggeriscono in particolare i capitoli IV e VII che affrontano rispettivamente il mistero dell’Opera del Carro (Merkhaba) e i misteri del Logos Solare operante sulla Terra. Alcune immagini artistiche dell’autore si alternano tra lo snodarsi dei paragrafi di quest’opera restituendo al lettore suggestivi momenti meditativi. La Redazione

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Misteri della tradizione ermetica. Svelando e rivelando Alfredo Di Prinzio, Atanor, Roma 2014, pp.220, illustrato, €. 16.

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lfredo Di Prinzio, scrittore, artista e iniziato, ha studiato disegno e pittura a Buenos Aires. Di lui si ricordi per i tipi della

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Recensioni

Spazio: i segreti e gli inganni. Breve controstoria dell’astronautica Roberto Pinotti, Colors and Gold Entertainment, Roma 2013, pp. 160, illustrato, €. 6,90.

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he Gagarin sia stato il primo uomo a volare nello spazio e Armstrong il primo a mettere piede sulla Luna lo sappiamo tutti. Lo abbiamo letto sulle prime pagine dei giornali, lo abbiamo sentito ripetere in Tv e lo abbiamo visto scritto nei libri di storia. Solo che, forse, le cose potrebbero non essere andate esattamente così. Invece la storia è spesso bugiarda, al punto da falsificare anche retroattivamente documenti e immagini fotografiche: e oggi c’è chi può sostenere e documentare che Gagarin sarebbe stato preceduto da vari eroici e sfortunati colleghi, astronauti mai dichiarati dal Kremlino e rimasti senza nome per biechi motivi di prestigio politico. E c’è anche chi è pronto a dimostrare che lo sbarco sulla Luna sia andato in modo quantomeno diverso rispetto alle roboanti versioni ufficiali. Beninteso, gli USA sul nostro satellite ci sono arrivati, ma perché allora diffondere foto false dell’allunaggio? Forse perché quelle che avrebbero documentato lassù altre presenze extraterrestri come illustrato da un rapporto NASA sui “Fenomeni Lunari Transitori” (TLP) sono state eliminate? Nella storia, si sa, le bugie hanno le gambe corte, e non reggono più di tanto alla prova dei fatti. Anche se a dirle sono le due potenze più tecnologicamente attrezzate nel campo della comunicazione e del marketing politico-ideologico. Rifacendosi a testimonianze dirette, questo dossier presenta

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fatti ed evidenze incontrovertibili, e dà voce a chi finora ha vanamente obiettato sulla validità di quanto dichiarato da Mosca e da Washington. In campo astronautico questo libro di Roberto Pinotti Spazio: i segreti e gli inganni. Breve controstoria dell’astronautica, uscito a latere della rivista mensile “UFO International Magazine” diretta dall’autore e da venti anni presente in edicola, è un incisivo dossier-verità col taglio di un thriller, che si legge come un romanzo e che non concede sconti a nessuno. Divulgatore ma anche cultore della Tradizione esoterica, Roberto Pinotti ha scritto una quarantina di saggi divulgativi ed enciclopedici editi con primari editori italiani, tradotti anche in Spagna, Romania, Germania, Brasile e Stati Uniti e ha spesso concorso alla realizzazione di importanti programmi televisivi nazionali sullo spazio, gli UFO e le prospettive di vita aliena. Giornalista aerospaziale e scientifico, ha operato come sociologo in campo spaziale in collaborazione con l’ASI e l’ESA (le Agenzie Spaziali italiana ed europea), l’International Space University di Strasburgo, l’Università di Firenze e il SETI (l’Ente radioastronomico per la ricerca di civiltà extraterrestri). Questo volume, diffuso anche in edicola in edizione economica, è la riproposizione riveduta e ampliata di una prima fortunata edizione uscita in libreria. E la cronaca ci dice che l’Autore è stato profetico, avendo egli anticipato il vergognoso scandalo che ha oggi travolto l’Agenzia Spaziale Italiana. La Redazione ***

Il corvo di pietra Marco Steiner, Sellerio Editore, Palermo 2014, pp. 194, €. 13,00.

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n nuovo romanzo su Corto Maltese. L’autore, Marco Steiner, ha conosciuto Hugo Pratt negli anni Ottanta e il padre di Corto Maltese gli affidò il compito di effettuare ricerche filologiche e storiche per inquadrare in un contesto verosimile i propri racconti. In seguito Steiner ha portato a termine il romanzo Corte Sconta detta arcana (1996), lasciato incompiuto da Pratt e ha scritto una storia prattiana L’ultima pista, una sorta di continuazione ideale di Tango (2006). In questa opera Il Corvo di pietra [Steiner] tenta un esperimento. Quello di continuare in forma di romanzo un gigantesco personaggio dei fumetti, trasformando in scrittura le mille suggestioni nel tratto di un grande artista disegnatore. L’esoterismo, la varietà dei luoghi e dei costumi, i precisi riferimenti storici, il realismo eccen-

trico dei personaggi. Ed a questo si aggiunge un desiderio di fuga tipicamente salgariano: l’impossibilità di un personaggio come Corto Maltese di vivere nei tempi attuali e il vuoto esistenziale che causa questa consapevolezza. Perché attraverso l’immaginazione di Salgari attraverso Corto Maltese (i due grandi della letteratura avventurosa italiana), questo libro in fondo discende” [Dal secondo risguardo del volume, ndr]. ***

Segnalazioni Incantesimi e magie d’Irlanda. Leggende, formule magiche e medicamenti della tradizione folclorica J. Wilde, Stampa alternativa / Nuovi equilibri, Viterbo 2013, pp. 228, €. 18,00.

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no straordinario breviario di formule magiche e leggende che hanno come protagonisti animali, piante, fiori degni dei più rinomati bestiari ed erbari. Un originale ricettario di prescrizioni magiche volte alla guarigione o alla prevenzione di incantesimi, dolori e malattie, seguendo la tradizione orale e folclorica irlandese. Ne scaturisce un curioso mélange di racconti, storie superstiziose, rituali che traggono ispirazione dalla curiosità di Lady Wilde, dal suo modo particolare di interpretare il mondo e la vita assecondando e spesso varcando i confi-


sua morte. Alto sacerdote e Re di Salem, non è imparentato ad Abramo, ma costui gli offre la decima e riceve la sua benedizione. L’autore, facendo riferimento alla prospettiva guénoniana per definire il termine di Tradizione primordiale e analizzando testi propri del Giudaismo, del Cristianesimo e dell’Islam, è riuscito a fornire un’analisi […] esaustiva dell’argomento. Una ricca documentazione gli ha inoltre permesso di ampliare l’analisi scritturale alla patristica, alle teosofie e a varie comunità mistiche e religiose” [dalla quarta di copertina].

e per il Comune, l’opera d’arte. [… Partendo da siffatto evento] questo libro propone, con tono discorsivo e quasi affabulatore, la ricostruzione di un percorso storico lungo tutti i 150 anni e più che ci separano dall’unità nazionale” [dalla quarta di copertina].

Recensioni ***

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ni razionali della natura” [dalla quarta di copertina]. ***

La squadra e il compasso. La Massoneria in Sardegna. Storia e cronaca Melkitsedeq e la Tradizione primordiale J. Tourniac, traduzione di E. Zinellu, prefazione di M. Bizzarri, Irfan Edizioni, San Demetrio Corone (CS) 2012, pp. 292, €. 24,90 [opera pubblicata col contributo della Fondazione Banco di Sardegna].

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elkitsedeq è sicuramente il personaggio più enigmatico dell’Antico Testamento. Senza una genealogia, egli appare solitario e scompare senza che sia fatta menzione della

G. Murtas, a.c. di A. G. PIRASTU, Editrice Democratica Sarda, Sassari 2013, pp. 232, €. 20,00.

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l 21 settembre 1913 si inaugurava a Cagliari il monumento a Giordano Bruno, realizzato grazie ad una pubblica sottoscrizione cui partecipò il vasto e articolato mondo del laicismo isolano. L’evento centenario ha dato l’abbrivio a questa storia della Libera Muratoria sarda, perché certamente l’Ordine massonico ebbe una parte non secondaria nella vicenda, e di tanto fu emblematica espressione finale l’incombenza affidata al Venerabile Pernis, in quanto però assessore della giunta Bacaredda, di ricevere in dono, dal Comitato promotore

Tra squadra e compasso e Sol dell’avvenire. Influenze massoniche sulla nascita del socialismo italiano M. Novarino, Prefazione di Gian Mario Cazzaniga, Università Popolare di Torino Editrice, Torino 2013, pp. 356, €. 20,00.

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el libro Tra squadra e compasso e Sol dell’avvenire “Marco Novarino ci offre una riflessione originale sulle origini del movimento operaio italiano, ove vengono analizzate le forme organizzative e i filoni culturali che caratterizzano il passaggio da una cultura democratica repubblicana ad una democratica socialista e dove la presenza di figure massoniche e l’osmosi fra circoli, periodici e logge risultano assi più ampie di quanto non sia apparso finora nella letteratura storiografica. […] Questo lavoro di ampio respiro risulta sostenuto da un ampio utilizzo di fonti primarie,

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spesso utilizzato per la prima volta, da una preziosa disponibilità di materiali muratori inediti e da una puntuale attenzione ai filoni culturali coinvolti, offrendo al lettore una proposta originale di rilettura delle origini del movimento operaio e socialista in Italia” [dalla prefazione di Gian Mario Cazzaniga]. ***

misteri, altri ancora hanno stimolato viaggi ed esplorazioni così che, insegnando un’illusione, viaggiatori di ogni paese hanno scoperto altre terre” [dal primo risguardo di copertina]. ***

Metamorfosi dell’idea di natura e rivoluzione scientifica P.A. Rossi, Virtuosamente, Genova 2014.

Del resto che cos’è l’innaturale? Alberto Savinio

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Storia delle terre e dei luoghi leggendari U. Eco, Bompiani, Milano 2013, pp. 478, illustrato, €. 35,00.

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a nostra immaginazione è popolata da terre e luoghi mai esistiti, dalla capanna dei setti nani alle isole visitate da Gulliver, dal tempio dei Thugs di Salgari all’appartamento di Sherlock Holmes. Ma in genere si sa che questi luoghi sono nati dalla fantasia di un narratore o di un poeta. Al contrario, e sin dai tempi più antichi, l’umanità ha fantasticato su luoghi ritenuti reali, come Atlantide, Mu, Lemuria, le terre della Regina di Saba, il regno del Prete Gianni, le Isole Fortunate, l’Eldorado, l’Ultima Thule, Iperborea e il paese delle Esperidi, il luogo dove si conserva il Santo Graal, la rocca degli assassini del Veglio della Montagna, il paese della Cuccagna, le isole dell’Utopia, l’isola di Salomone e la terra australe, l’interno di una terra cava e il misterioso regno sotterraneo di Agarttha. Alcuni di questi luoghi hanno soltanto animato affascinanti leggende e ispirato alcune delle splendide rappresentazioni visive che appaiono in questo volume, altri hanno ossessionato la fantasia alterata di cacciatori di 142

un lungo viaggio quello che Paolo Aldo Rossi ci propone nelle tante e nutrite pagine di questo libro. Un viaggio per territori che rischiano ormai di non essere più conosciuti e apprezzati nella loro varietà e ricchezza. E tante bellezze appaiono a chi decide di seguirlo. Alla più nota famiglia di piante, allevate nella più ‘recenti’ serre della cultura occidentale: la matematica, l’astronomia, la scienza della natura, la medicina , s’affiancano in Metamorfosi dell’idea di natura fiori più rari d’Oriente (di cui pure i cospicui frutti l’Autore ricorda) e d’Occidente, più rari e più fragili, effimeri talvolta, ma che rendono composito il quadro, danno più vasta contezza delle menti degli uomini di varie epoche, riempiono lacune, ridisegnano profili, permettono di aggiornare le mappe. Si vendicano epoche, come il Medioevo, di cui, in ragione anche di fortunate ricerche novecentesche, si possono dilatare i termini, ma su cui soprattutto si può cambiare idea, la canonica idea di depauperata vita, di oscuri tempi. Oddio, gli amanti e gli intendenti d’arte sanno da sempre che non fu così, ma in queste pagine è in base ai ‘sogni’ che oggi diremo tecnologici (ovviamente si riadatti il termine cum grano salis), in ragione dei ‘meccanismi’ pensati e anche realmente attuati, di programmi di ricerca ‘scientifici’ (per dirla ancora col nostro più consueto gergo), che l’Autore ci costringe a rivedere il consueto giudizio, là dove antecedenti proficue letture o meritevoli pensamenti in proprio non abbiamo già operato l’opportuna revisione. Anche il profilo degli uomini, dei protagonisti di questa lunga storia, Paolo Aldo Rossi lo restituisce talvolta vivace e bello per un collegamento che ancora non si era fatto, per un passo delle loro Opere che il contesto valorizza in modo nuovo, per un inciso magari, che lui butta lì per consuetudine con i suoi temi, ma che il lettore attento e sagacemente rapace (come s’ha da essere sulla via della ricerca)

prenderà sicuramente al volo e grato lascerà che fruttifichi nella sua testa. Qualche esempio a spizzico: l’immagine che queste pagine ci compongono innanzi, strada facendo, del padre Mersenne; il Cartesio che si riarticola nelle nostre menti fissate spesso su un effigie troppo canonica e settoriale del gran francese (che peraltro non sono sicuro abbia mai sciolto a Loreto quel voto gratulatorio per la grande illuminazione, Paolo invece lo dà per certo, ma - s’intende - si tratterebbe pur sempre di aneddotica che non sposta d’un nulla le questioni che lui affronta); l’importanza di Galilei non solo per le sue grandi e conosciute scoperte scientifiche, ma per il sostrato che le ha permesse, per la conoscenza e l’importanza di quella ‘divina’ lingua che è la matematica, ignorata invece da Francis Bacon che perciò combatté Aristotele e non poté però davvero andare oltre, mentre tanto oltre andrà il platonico Galilei. Harvey e Malpighi che giganteggiano e non è una novità per chi sa storia della medicina, ma bisogna saperla e in genere non la si sa e quei nomi, davvero grandi, si leggono in limine alle più informate Storie della filosofia, ma poi rimangono nomi e nomi soltanto nel repertorio culturale medio-alto. Così come poco si sa di quella prodigiosa Scuola padovana che non fu soltanto baluardo, che resiste ancor oggi, dell’aristotelismo, ma poté sviluppare la propria ricerca e le risorse di tante elette menti - forse proprio per l’interesse che quel greco ebbe al mondo naturale e a tutti i suoi regni - in campi che s’apprestavano a diventare ‘scientifici’. Alle nostre metaforiche ‘piante’, alle loro variegate famiglie, si affiancano, nel vasto continente che a più riprese l’Autore torna a esplorare, gli animali o per meglio dire quell’animale inquieto e inquietante che è l’uomo, che non solo è al mondo, ma ha mondo perché se ne


fa delle immagini, e facendosene delle immagini lo trascende. E lo replica o lo popola di artefatti. Ed ecco il punto focale del libro: naturale versus artificiale, naturale-artificiale, e infine: ma c’è qualcosa di ‘artificiale’ oppure è naturale che menti come le nostre in una realtà come la nostra producano artifici? Animali e automi; corpi come macchine e macchine che sempre più assomigliano a corpi: differenze solo di complessità in questo assottigliarsi delle distanze o differenze, da ultimo, d’’infinito intervallo? È difficile far muovere meccanismi, ma fin dall’antichità greco-romana e nel mondo arabo del periodo grande e fiorente (come Paolo ricorda) macchine meravigliose sono comparse e neppure il Medioevo (come sopra si diceva) le ignorò, è meno difficile complicare i meccanismi per ottenere sempre più mirabili prestazioni una volta che le strade sono state aperte e le ruote girano - per dirla in metafora, torna invece ad essere difficile questione (certamente su di un altro piano) quella che s’affacciò alla mente di Cartesio allorché il far muovere, il muoversi, il voler muoversi e il sapere di muoversi poterono essere pensati soltanto su uno sfondo che rese sostanze (anime e corpi) pensiero e spazio. Da qui l’avvio per i temi sulla convivenza in uno (nell’uomo, appunto) delle due modalità d’essere, sul progressivo affermarsi del modello meccanicistico (che tenterà in ogni modo di cacciare il fantasma dalla macchina e in tempi per noi non troppo lontani crederà di poter cantar vittoria), ma anche delle difficoltà di una teorizzazione che non potrà più infine reggersi su un determinismo metafisico e rigido - Paolo Aldo Rossi sostiene che già in Galilei l’immagine meccanicistica è più che altro uno schema euristico e metodologico - e su una versione del mondo-macchina. Comunque, sono problemi questi dei nostri giorni. Senza giungere fino a questo punto – l’Autore tratta in altri scritti quei problemi –, nelle pagine di Metamorfosi dell’idea di natura veniamo condotti per mano in quel laboratorio della Modernità che fu il secolo XVII. Illuminanti saranno allora le pagine sull’anatomia dissutrix (dello scomporre per giungere a ciò che non si può più scomporre), dell’impiego all’uopo dell’’occhialino’ (microscopio), della convinzione del padre Mersenne che mai l’operare umano potesse giungere a quel fine e che si potesse emulare la natura nel così piccolo e così perfetto. Le ricostruzioni di tanto fervore di ricerca che l’Autore ci offre introducono in un mondo di meraviglie e di problemi così affascinanti che il lettore se ne distaccherà con accresciuta dottrina e mente grata. Nelle ultime parti del libro s’imbocca esplici-

tamente la strada della storia della medicina. Paolo Aldo Rossi segue la linea Galilei Harvey Malpighi e ci apre prospettive che non solo non provo a riassumere (ché è sempre una vera indecenza da parte di chi invitato a copiosa mensa far mostra d’esser più cuoco del cuoco, e se cuoco anche lui è reputato parco sia il commento), ma che neppure tratteggio perché qui le competenze dell’Autore sono alte e specifiche e anch’io le ho seguite da discente. Si tratta di pagine assai belle su temi che, se conosciuti in ambito specialistico, sono però per lo più ignorati. Risultano poi ancor più istruttive nel contesto che l’intero libro ricostruisce. Su questa soglia mi fermo, ma prima vorrei mettere a fuoco per il lettore volenteroso la più grossa questione sottesa a queste pagine. Se l’’essere’ si dice in molti modi e anche l’’avere’ non scherza, ‘natura’ va oltre le possibilità di una fantasia pur non debole. È una storia che occorre conoscere per rendersi conto degli insospettati significati che vi emergono e per comprendere quante frontiere tra ‘naturale’ e ‘artificiale’ non sono tali. Il fatto è che quando udiamo o pronunciamo la parola natura noi pensiamo un ente per antichi retaggi di immagini, di miti antichi e nuovi, di sedimentati e non problematizzati saperi, ma non conosciamo ciò che con esso significhiamo. Qualche esempio: che cos’è se non immagine il Grande Cosmo Animato di Platone, la natura come Organismo di Aristotele o invece come Grande Orologio del Sei-settecento? Queste immagini non hanno altro compito che quello di cogliere la totalità della ‘natura’ a partire da una modalità o da un aspetto di essa. Si tratta di un eccesso di proiezione, che non tiene conto dell’ascesi, o della parsimonia che dir si voglia, che dovrebbe caratterizzare la conoscenza. Per dirla con una distinzione leopardiana noi usiamo in tal caso una parola non un termine, evochiamo non definiamo. I confini della natura sembrano essere come quelli della psyché eraclitea: più cerchiamo di stabilirli e più si allargano in profondità, invece che disegnarsi e precisarsi. La ragione è che su tale parola noi costruiamo l’intera immagine di noi nel mondo, con tutte le conseguenze che un simile pensare comporta. Ogni volta le frontiere tra naturale, non naturale e innaturale sono così stabilite più in base ad una Welthanschauung che in forza di solidi argomenti. Invece, proprio in casi come questo dovremmo ricordarci della lezione di Kant cui sopra rimandavo con l’espressione ascesi del pensiero. Le fasi che Paolo Aldo Rossi ricostruisce delle metamorfosi della natura sono incentrate sullo sforzo di rendere più oggettivo possibile il riferimento. Sono il tentativo di trasfor-

mare la parola in termine. E sono alcune delle fasi centrali che una tale impresa ha richiesto e continua a richiede. Tuttavia, una domanda può essere posta: lo sforzo di oggettivazione che la scienza moderna e contemporanea sostiene per coronare completamente il suo intento coglie tutti, ma proprio, tutti gli ‘abitan-

Recensioni ti’ e tutte le modalità dell’essere reale, oppure proprio i parametri e i metodi di oggettivazione lasciano per principio fuori della porta insidiose presenze, come l’io, la coscienza e la libertà del volere? Ma questa è un’altra storia o meglio il prosieguo della storia che con l’Autore potremo raccontarci nella sua casa genovese che guarda il mare invitando all’ardimento. Ora però è il tempo di lasciarci condurre dai risultati della sua ricerca nel temporaneo porto di un accresciuto sapere. Valerio Meattini

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I Fregi di loggia pubblicati – ad oggi – sulla rivista ‘Officinae’ La sequenza dei Fregi è in ordine alfabetico per denominazione di Loggia e successivamente per Oriente.

R∴L∴ 14 Juillet Or∴di Savona R∴L∴ 4 Giugno 1270 R.G. Or∴di Viterbo R∴L∴ Ab Initio Or∴di Portoferraio R∴L∴ Ad Justitiam Or∴di Lucca R∴L∴ Aetruria Nova Or∴di Versilia R∴L∴ Alef Or∴di Viareggio R∴L∴ Aleph Or∴di Lecce R∴L∴ Aletheia Or∴di Roma R∴L∴ Alma Mater Or∴di Arezzo R∴L∴ Anita Garibaldi Or∴di Firenze R∴L∴ A.Garibaldi/A.Giulie Or∴di Livorno R∴L∴ Antares Or∴di Firenze R∴L∴ A.Toscano Or∴di Corigliano Calabro R∴L∴ Antropos Or∴di Forlì R∴L∴ Archita Or∴di Taranto R∴L∴ Aristotele II Or∴di Bologna R∴L∴ Astrolabio Or∴di Grosseto R∴L∴ Athanor Or∴di Brescia R∴L∴ Athanor Or∴di Cosenza R∴L∴ Athanor Or∴di Pinerolo R∴L∴ Athanor Or∴di Rovigo R∴L∴ Athena Or∴di Pinerolo R∴L∴ Atlantide Or∴di Pinerolo R∴L∴ Audere Semper Or∴di Firenze R∴L∴ Augusta Or∴di Torino R∴L∴ Aurora Or∴di Genova R∴L∴ Ausonia Or∴di Siena R∴L∴ Ausonia Or∴di Torino R∴L∴ Bereshit Or∴di Sanremo R∴L∴ C. B.Conte di Cavour Or∴di Arezzo R∴L∴ C. Rosen Kreutz Or∴di Siena R∴L∴ Carlo Fajani Or∴di Ancona R∴L∴ Cartesio Or∴di Firenze R∴L∴ Cattaneo Or∴di Firenze R∴L∴ Cavour Or∴di Prato R∴L∴ Cavour Or∴di Vercelli R∴L∴ Chevaliers d’Orient Or∴di Beirut R∴L∴ Cidnea Or∴di Brescia R∴L∴ Clara Vallis Or∴di Como R∴L∴ Concordia Or∴di Asti R∴L∴ Corona Ferrea Or∴di Monza R∴L∴ Cosmo Or∴di Argentario Albinia R∴L∴ Costantino Nigra Or∴di Torino R∴L∴ D.Di Marco Or∴di Piedim.Matese R∴L∴ Dei Trecento Or∴di Treviso R∴L∴ Delta Or∴di Bologna R∴L∴ Eleuteria Or∴di Catania R∴L∴ Eleuteria Or∴di Pietra Ligure R∴L∴ Emanuele De Deo Or∴di Bari R∴L∴ Enrico Fermi Or∴di Milano R∴L∴ EOS Or∴di Bari

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R∴L∴ Epidamnus Or∴di Durazzo R∴L∴ Erasmo Or∴di Torino R∴L∴ Ermete Or∴di Bologna R∴L∴ Etruria Or∴di Siena R∴L∴ Excalibur Or∴di Trieste R∴L∴ Falesia Or∴di Piombino R∴L∴ Fargnoli Or∴di Viterbo R∴L∴ Fedeli d’Amore Or∴di Torino R∴L∴ Fedeli d’Amore Or∴di Vicenza R∴L∴ Federico II Or∴di Catania R∴L∴ Federico II Or∴di Firenze R∴L∴ Federico II Or∴di Jesi R∴L∴ Fenice Or∴di Massa Marittima R∴L∴ Fenice Or∴di Spotorno R∴L∴ Ferdinando Palasciano Or∴di Roma R∴L∴ Francesco Nullo Or∴di Varsavia R∴L∴ F.Rodriguez y Baena Or∴di Milano R∴L∴ Fidelitas Or∴di Firenze R∴L∴ Filistor Or∴di San Severo R∴L∴ Fra Pantaleo Or∴di Castelvetrano R∴L∴ Fratelli Cairoli Or∴di Pavia R∴L∴ Fratelli d’Italia Or∴di Piombino R∴L∴ Galahad Or∴di Roma R∴L∴ G.Ghinazzi Or∴di Roma R∴L∴ G.Mazzini Or∴di Livorno R∴L∴ G.Mazzini Or∴di Parma R∴L∴ G.Biancheri Or∴di Ventimiglia R∴L∴ G.Bruno - S.La Torre Or∴di Roma R∴L∴ G.Papini Or∴di Roma R∴L∴ Garibaldi Or∴di Castiglione R∴L∴ Garibaldi Or∴di Cosenza R∴L∴ Garibaldi Or∴di Mazara del Vallo R∴L∴ Garibaldi Or∴di Toronto R∴L∴ Gaspare Spontini Or∴di Jesi R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di Catanzaro R∴L∴ Gianni Cazzani Or∴di Pavia R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di Bari R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di Firenze R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di R.Calabria R∴L∴ Giosue Carducci Or∴di Follonica R∴L∴ Giosue Carducci Or∴di Partanna R∴L∴ Giovanni Bovio Or∴di Bari R∴L∴ Giovanni Pascoli Or∴di Forlì R∴L∴ Giovanni Risi Or∴di Firenze R∴L∴ Giustizia e Libertà Or∴di Roma R∴L∴ Goldoni Or∴di Londra R∴L∴ Graal Or∴di Livorno R∴L∴ Herdonea Or∴di Foggia R∴L∴ Heredom Or∴di Torino R∴L∴ Hiram Or∴di Bologna R∴L∴ Hiram Or∴di Sanremo

R∴L∴ Hispaniola Or∴di Santo Domingo R∴L∴ Horus Or∴di Padova R∴L∴ Horus Or∴di Pinerolo R∴L∴ Horus Or∴di R.Calabria R∴L∴ Humanitas Or∴di Pistoia R∴L∴ Humanitas Or∴di Treviso R∴L∴ Ibis Or∴di Torino R∴L∴ Il Cenacolo Or∴di Pescara R∴L∴ Il Nuovo Pensiero Or∴di Catanzaro R∴L∴ Internazionale Or∴di Sanremo R∴L∴ Iter Virtutis Or∴di Pisa R∴L∴ Jakin e Boaz Or∴di Milano R∴L∴ Kipling Or∴di Firenze R∴L∴ La Fenice Or∴di Bari R∴L∴ La Fenice Or∴di Chieti R∴L∴ La Fenice Or∴di Forlì R∴L∴ La Fenice Or∴di Livorno R∴L∴ La Fenice Or∴di Pieve a Nievole R∴L∴ La Fenice Or∴di Rovato R∴L∴ La Prealpina Or∴di Biella R∴L∴ La Silenceuse Or∴di Cuneo R∴L∴ Le Melagrane Or∴di Padova R∴L∴ Leonardo da Vinci Or∴di Taranto R∴L∴ Les 9 Soeurs Or∴di Pinerolo R∴L∴ Libertà e Progresso Or∴di Livorno R∴L∴ Liguria Or∴di Orspedaletti R∴L∴ Logos Or∴di Milano R∴L∴ Luce e Libertà Or∴di Potenza R∴L∴ Luigi Alberotanza Or∴di Bari R∴L∴ Luigi Spadini Or∴di Macerata R∴L∴ Lux Or∴di Firenze R∴L∴ Lux Solis Or∴di Cosenza R∴L∴ M’’aat Or∴di Barletta R∴L∴ Magistri Comacini Or∴di Como R∴L∴ Manfredi Or∴di Taranto R∴L∴ Melagrana Or∴di Cosenza R∴L∴ Melagrana Or∴di Torino R∴L∴ Minerva Or∴di Cosenza R∴L∴ Minerva Or∴di Torino R∴L∴ Monviso Or∴di Torino R∴L∴ Mozart Or∴di Castelvetrano R∴L∴ Mozart Or∴di Genova R∴L∴ Mozart Or∴di Roma R∴L∴ Mozart Or∴di Torino R∴L∴ Navenna Or∴di Ravenna R∴L∴ Nazario Sauro Or∴di Piombino R∴L∴ Nigredo Or∴di Torino R∴L∴ Nino Bixio Or∴di Trieste R∴L∴ Oltre il Cielo Or∴di Lecco R∴L∴ Omnium Matrix Or∴di Milano R∴L∴ Orione Or∴di Torino

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