Trimestrale internazionale di attualità , storia e cultura esoterica — Anno XXVI - Giugno 2014 - n.2
Trimestrale internazionale di attualità, storia e cultura esoterica Anno XXVI - numero 2 - Giugno 2014 Direttore Editoriale
ANTONIO BINNI Direttore Responsabile LUIGI PRUNETI Segreteria di Redazione ROBERTO PINOTTI SIMONE TADDEI Consulente Legale IVAN IURLO Comitato Scientifico VINCENZO CIANCIO ALDO ALESSANDRO MOLA PAOLO ALDO ROSSI IDA LI VIGNI PAOLO MAGGI RENATO ARIANO
hanno collaborato a questo numero ANTONIO BINNI MARCO GHIONE IVAN LANTOS IDA LI VIGNI PAOLO MAGGI ALDO ALESSANDRO MOLA ANTONELLA OREFICE LUIGI PRUNETI PAOLO ALDO ROSSI JEAN MARC SCHIVO ANTONINO ZARCONE progetto e realizzazione PAOLO DEL FREO
Sommario L.Pruneti - Le nuvole sono trasportate dal vento — 2
A.Binni - ‘Timeo hominem unius libri’ — 4
I.Lantos - I roghi del Talmud — 8
A.Orefice - Giorgio Vincenzo Pigliacelli — 16
A.A.Mola - 1914-2014: Cenetenario Grande Guerra — 22
L.Pruneti - Sotto l'orbace squadra e compasso — 30
M.Ghione - I Tarocchi nel secolo dei Lumi — 38
P.A.Rossi - Le donne son venute in eccellenza — 46
J.M.Schivo - Giardini massonici — 52
P.Maggi - Del cervello degli anziani... — 60
I.Li Vigni - La fondazione della città degli uomini — 64
A.Zarcone - Nino Bixio — 72
In Biblioteca — 76
Fregi di Loggia — 79
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on esistono cieli più belli di quel-
concetto, un’idea, un valore: la libertà.
li di maggio. Sopra di noi tavole di
E cos’è in primo luogo la Massoneria, se non li-
turchese che via via acquistano to-
bertà? Libertà di esprimersi, di pensare, di cre-
nalità più intense, fino a diventare
are, libertà di cercare dentro se stessi un sottile
lavagne di lapislazzulo, con il sole che ricama
filo d’Arianna per meglio attraversare il com-
fra le nuvole pagliuzze d’oro.
plesso labirinto della vita.
Già le nuvole, mi sono particolarmente care
Questo numero solstiziale di Officinae ha come
queste figlie dell’aria e dell’acqua.
tema di fondo proprio la libertà. La si evince
Si parla sempre di stelle, di luna, di sole ma an-
leggendo ora la storia di Bixio e di Pigliacel-
che le nuvole, compagne del vento, hanno una
li ora ritornando col pensiero al Risorgimento
parte importante per la nostra immaginazione.
ora soffermandosi sui giardini esoterici o sugli
Hanno ispirato poeti e scrittori, i pittori le han-
arcani: gli uni e gli altri sono, infatti, esempi di
no ritratte in mille modi: ora livide e minac-
libertà ermeneutica e creativa.
ciose, ora rasserenanti nel loro bianco candore.
Il valore della libertà risalta ancor di più, per via
Durante il barocco, attratto “da tutto quel che
indiretta, quando si affrontano temi di discri-
fugge e si sottrae ”, gli artisti ne rimasero av-
minazione e di ordinaria follia che si scatenò
vinti e ne fecero emblema della brevità del-
quando alcuni uomini decisero che altri non
la vita e della vanità del mondo. Lo spleen del
dovevano esistere perché li ritenevano diversi
XVII secolo fu rivissuto dai romantici e poi dai
da loro, per origini, storia o per pensiero.
decadenti che videro nella nuvola “il distacco
Di fronte a tali orrori, sovviene solo un pensie-
dal mondo e il richiamo del destino ”. Nuvo-
ro: Liberté Cherie, come il nome della Loggia
le in Madame de Stael, in Novalis, Heine, in
fondata nel 1943 da sette massoni in un cam-
Boudelaire … “Au-dessus des étanges, au –des-
po di sterminio, come esplicitò Dante nel Pur-
sus des vallées, / Des montagnes, des bois, des
gatorio, “Libertà […] ch’è sì cara, come sa chi per
nuages, des mers, / Par delà le soleil, par delà les
lei vita rifiuta4”, come gridò Paul Eluard in un
ethers, / Par delà les confins des spheres étoilées,
anno di lutto e dolore: “Su i quaderni di scolaro
/ Mon esprit, tu te meus avec agilité, / Et, com-
/ Su i miei banchi e gli alberi / Su la sabbia su la
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me un bon nageur qui se pame dans l’onde, / Tu sillonnes gaiament l’immensité profonde / avec une indicible et male volupté ”. 3
Sì, le nuvole possono aver tanti significati: evocare la presenza divina, come nelle Scritture, o accennare, come per gli Egizi all’ira malvagia di Seth, o far riflettere sul sottile e sul sublime, come per i neoplatonici, o suggere l’unione mistica, come per Raimondo Lullo. A me, tuttavia, quando le vedo correre nel cielo abbagliante d’azzurro, quando le vedo mutare continuamente di forma, farsi ora torre, ora nave, ora cavallo, ricordano, soprattutto, un 1 J. Kelen, Nuvole, mio bel desiderio …in Il simbolismo delle nuvole. L’eternità fluttuante, a. c. di J. Kelen, ed. it. A cura di G. De Turris, Roma 2008, p. 15. 2 Ivi, p. 16 3 Ch. Baudelaire, Elévation, in Fleurs du mal.
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neve / scrivo il tuo nome / Su ogni pagina che ho letto / Su ogni pagina che è bianca / Sasso sangue carta o cenere / scrivo il tuo nome / […] Sull’assenza che non chiede / Su la nuda solitudine / Su i gradini della morte / Scrivo il tuo nome / Sul vigore ritornato / Sul pericolo svanito / Sull’immemore speranza / Scrivo il tuo nome / E in virtù d’una parola / Ricomincio la mia vita / Sono nato per conoscerti / Per chiamarti / Libertà5”. Perciò, guardando in alto, ovunque ci troviamo, riflettiamo un attimo su questo bene, l’unico al quale ogni uomo e, soprattutto, ogni figlio della vedova, non può mai rinunciare. 4 Purgatorio, I, vv. 71 – 72. 5 Paul Eluard scrisse Libertà, nel 1942, mentre era alla macchia nella Francia occupata. P.2-3: Aurora - (foto P.Del Freo).
Le nuvole sono trasportate dal vento Luigi Pruneti
Le nuvole attraversano le cime Sono trasportate dal vento. All’aurora Gridano le oche selvatiche Che fuggono oltre le montagne. Saygio [ Monaco giapponese, periodo Heian, 794-1195]
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“Timeo hominem unius libri� Antonio Binni
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a peculiarità, che caratterizza e connota il fenomeno associativo, va colta nel vincolo essenzialmente ideale che astringe gli associati fra loro. Per vero, non v’è ambito, nel quale l’associazionismo non abbia arrecato i propri frutti fecondi, perché l’Associazione è, per definizione, il luogo previlegiato per lo sviluppo della personalità dell’individuo. E – si sa – che gli individui, nella loro intrinseca irripetibilità, spargono i loro talenti in ogni possibile cerchia ideale. L’Associazione massonica è, tuttavia, assolutamente diversa da qualsiasi altra Associazione. Pure la più nobile. Il che, per definizione, la rende altra e dissimile da ogni restante diverso raggruppamento. Questa sua alterità – oltre che dalla iniziazione ricevuta da ogni associato all’atto del suo ingresso – esperienza sacra, che non può essere, né descritta, né comunicata, in quanto, per sua natura, ineffabile – le proviene poi da un’altra significativa circostanza, costituita dal suo provenire da lontano. Agli albori abbiamo adorato la Dea terra: la Dea anteriore – persino – alla scoperta delle messi. Per tre giorni e tre notti, ci siamo poi mischiati alla folla di pellegrini, che, in sacra processione, da Atene si recava a Eleusi. E qui, mentre, nel cielo della sera rosata, le stelle salivano una ad una al posto a ciascuna di loro assegnata, fummo iniziati ai misteri, che, per primo, chiamò «sacri» Omero (nell’Inno a Demetra 476 – 482). Qui, per dirla con Pindaro (fr. 137), proprio per «avere visto quelle cose» - il seme morto moltiplicato nei chicchi dell’opulenta spiga – abbiamo conosciuto «la fine della vita», ma pure il suo «principio dato da Zeus». Qui, come a rischio della propria vita, ha rivelato Sofocle (fr. 837), ci fu detto che eravamo «tre volte felici», perché l’«aver contemplato questi misteri», ci avrebbe garantito la vita eterna. Qui abbiamo imparato il segreto, sol perché la realtà della visione è estranea alla parola. Con Apuleio (in La Magia - § 55) abbiamo poi appreso «culti di ogni genere e moltissimi riti e varie cerimonie per desiderio di conoscere il vero e per devozione verso gli dei». Per questo, nell’isola di Samotracia, sia-
Gran Maestro
mo stati iniziati ai «Misteri dei Cabiri», sacri come la carne e il sangue, e a quelli di Orfeo, dove abbiamo appreso la fraternità dolce e profonda. Nel sotterraneo sacro, più tardi, abbiamo ricevuto l’aspersione di sangue fuoriuscente dal toro agonizzante, il cui peso era lì lì per far crollare il pavimento a graticci sotto il quale ciascuno di noi si trovava per iniziarsi ai misteri di Mitra: il Dio che, per la sua severità, nell’ambiente militare, rinvenne i suoi adepti più numerosi e fedeli: un Dio, come il Cristo, nato il 25 dicembre, quando dopo il solstizio d’inverno, i giorni diventano più lunghi e bui: un Dio che, col Cristo, ingaggiò una lotta durata secoli, visto che il Cristianesimo prese il sopravvento soltanto agli inizi del V secolo. Da questo sentimento religioso totalizzante, abbiamo imparato, oltre che a farci carico della «salvezza del mondo e dell’umanità», pure a decorare a stella le volte dei nostri templi. Come i mitrei di S. Maria Capua Vetere e di S. Clemente a Roma ci testimoniano ancor oggi. Ancor prima avevamo poi capito che la grotta può diventare l’immagine del cosmo e, al contrario, che il cosmo può essere rappresentato come una grotta. Ovunque e dovunque abbiamo cercato di aderire al Sacro, al divino nelle Sue molte forme, sempre con la consapevolezza che, dietro le molte maschere, vi è un solo ed unico Volto. Molti secoli dopo, mossi dal fervore che solo il Sacro autentico sa suscitare, ci sia-
mo fatti tagliapietre girovaghi e, con volte ardite, abbiamo scalato il cielo, dopo di avere tracciato nobili navate, che, con la vastità del loro silenzio, ancor oggi, predispongono alla meditazione e invitano alla preghiera. La Cattedrale divenne allora il luogo della nostra iniziazione: il cosmo, nel quale abbiamo conservato la Luce. Ma prima che ciò avvenisse, seguendo la regola di Bernardo, avevamo abitato il Tempio di Salomone e, da lì, monaci – soldati abbiamo trasferito in Occidente la saggezza dell’Oriente per quasi due secoli. Dopo, non ci fu più consentito e molti di noi – dopo di avere sperimentato la tortura sulle proprie carni – furono bruciati vivi. Come Giobbe, abbiamo fatto udire «la voce della vittima innocente». La nostra segretezza e il nostro elitarismo si risolsero nella nostra debolezza. La cupidigia di Filippo ha fatto il resto. Instancabili pellegrini, senza intermediari, abbiamo continuato a ricercare l’Uomo, come segno della presenza di Dio. Per questo, quando le “guerre di religione” hanno immerso l’Europa nel sangue fratricida, non abbiamo esitato ad indossare i panni del mercante e quelli ancora più umili dell’attore per renderci banditori del credo di Giordano Bruno, che, ancor oggi, piangiamo. Allora – come oggi – alla intolleranza delle Fedi abbiamo contrapposto la tolleranza della Ragione, che è rispetto convinto dell’altrui sentire. Come Descartes, fummo poi costretti a 5
Gran Maestro
negare la nostra appartenenza all’invisibile Confraternita dei Rosa+Croce. Come Newton, pure noi abbiamo negato di avere avuto per Madre l’Alchimia. E, tuttavia, proprio da questo clima di pericolo e di persecuzione del mago rinascimentale, abbiamo consegnato all’Europa la figura dello scienziato capace di arrecare al mondo i benefici di quella «riforma universale e generale dell’intero universo», che il movimento rosacruciano si era auto-assegnato come proprio fine principale in uno dei suoi primi manifesti. Com’è stato felicemente scritto, proprio dalla angosce dolorose di un’età caratterizzata dalla caccia alle streghe è nata la «ricca alba di un giorno più vasto», (Tennyson in Idyllis of the King), che ha fiorito, inorgogliendosi, fino a – quasi – smarrire la sua più autentica e profonda ragion d’essere. Come taluni esperimenti di ingegneria genetica di questi ultimi tempi stanno a dimostrare. A riprova dell’indissolubilità di quel legame fra “etica” – intesa come legge morale – e “fisica”, che proprio gli alchimisti, nella loro profonda religiosità, intesa come rispetto del Sacro, hanno per sempre instaurato e rispettato per primi! Con l’esperienza abbiamo poi imparato 6
che le certezza possono diventare polvere; che non è imitando qualcuno che riusciremo ad aprire le porte della Vita, perché le chiavi non si comprano; ma dobbiamo farcele da soli! Abbiamo imparato a camminare verso una meta; poi a preferire il cammino alla meta stessa; alla parola, il Silenzio, perché la comunicazione umana è quasi sempre un attraversare, che non è anche un riempire. Siamo stati sempre laddove ci ha chiamato la Libertà. Chiuse le Logge, abbiamo fatto nascere la “Carboneria” e la “Giovine Italia”. L’Osservatore romano del 14 marzo 1914 ha conferito un diploma d’onore alla Massoneria quando l’ha accusata di essere la “ispiratrice, autrice dell’Unità Statale d’Italia”. E mai affermazione fu più vera, visto che la M., con la sua Scuola, aveva presieduto anche alla formazione della classe dirigente del nuovo Stato. Sempre all’idea massonica si deve l’elevazione culturale del Paese, per avere i massoni patrocinato l’obbligo scolastico e l’avocazione allo Stato della scuola primaria. La perduta libertà ad opera del fascismo ha comportato, con la distruzione dei
templi, lutti e lacrime. Nell’Europa incendiata – che ha gridato al mondo, ancora una volta, l’assoluta incompatibilità fra dittatura e Massoneria, perché dove v’è l’una non può esservi l’altra – abbiamo fatto la nostra parte. Questo nostro esserci l’abbiamo poi calato nella discrezione, come ci è stato insegnato. Oggi, in un sussulto d’orgoglio, del quale, comunque, ci scusiamo, vogliamo, però, rammemorare che una elevata presenza di termini massonici o di intere formule tratte dai rituali è servita come base per indicare in cifra i punti dove dovevano avvenire gli aviolanci – si noti – di una importante rete comunista della Resistenza italiana (la notizia è desunta da L.Canfora, La sentenza, - Concetto Marchesi e Giovanni Gentile – Sellerio Editore, Palermo, qui citato nella seconda ed. del 1992, pagg. 145 e 146). Quello, però, che più conta è ricordare che, fra gli eroi fucilati sol perché affermavano che non era morta l’idea dell’Uomo libero, anche noi abbiamo avuto i nostri Martiri, fieri e fermi nel loro ideale fino all’ultimo istante, porta dell’Eternità. Sotto un cielo muto, nero, più buio della terra stessa, ci siamo trasformati in volute di fumo ad Auschwitz in un silenzio, che ci ha resi autentici enigmi. Poi, quando si è saputo, non si è neppure compreso perché, fra i doni del Creatore fatti all’Uomo, vi è pure quello di impedirgli di capire tutto. Solo così l’Uomo – nella circostanza – si è salvato dalla follia. A macerie ancora fumanti, abbiamo ripreso a costruire con la consapevolezza che ogni città terrena altro non è se non che la pianta di un sogno. I nostri ideali li abbiamo trasfusi nel Preambolo della Carta delle Nazioni Unite, il cui simbolo – non per caso – è circoscritto da rami d’acacia. Eppure – nonostante tutto ciò – anche di recente alcune “Gazzette” si sono precipitate a rendere pubblici i nomi dei nostri associati, con quel palese intento persecutorio, che, nel 1941, aveva spinto il governo collaborazionista di Vichy a pubblicare l’elenco dei dignitari della Massoneria francese! Dove il paragone istituito la dice lunga, visto che, quello della «ingiustificata segretezza», è l’argomento ricorrente, contro il quale si trova a cozzare la Mas-
Gran Maestro
soneria, ogniqualvolta viene posta in discussione, non già la sua legittimità, bensì ‘la stessa Libertà del Paese!’ Quando è vero, invece, che l’accusa di “segretezza” è semplicemente risibile, visto che esistono biblioteche intere – vaste come un ducato! – di letteratura massonica e che non è neppure infrequente che i nostri Rituali … si trovino … sulle … bancarelle dei … libri usati! Verità vuole allora che si dica che la “nostra” libertà è, purtroppo, una libertà difficile! Che, nei secoli, tuttavia, siamo sempre riusciti, con preziosa conquista, a ritagliarci e che, oggi, come ieri, non vogliano perdere!
Essenzialmente perché, della nostra «alterità» - che proviene da lontano – v’è ancora molta necessità. Solo con il concorso della Forza, della Bellezza e della Saggezza, potranno, infatti, tenersi lontane dal nostro Paese tutte le miserie e le violenze che, come altrettante offese e ferite, continuano, purtroppo, a fare scempio del nostro corpo sociale. Solo così cesserà la nequizia dei roghi, che colpisce, sia i testi, sia i nomi dei loro autori. Solo allora diventerà realmente respirabile quell’aria – dolce e cara – che chiamiamo Libertà. Solo allora, sotto quella ciotola piena di
stelle, che l’Uomo chiama cielo, sarà ancora possibile – in pace anche con Chi non avverte il gusto doloroso dell’interrogazione – sporgersi sull’abisso della Conoscenza e, qui, pure fantasticare e, se occorre, anche piangere avanti il mistero, che si fa Mistero – Sacro, che chiama l’Uomo ancora capace di udire e, soprattutto, di accogliere la CHIAMATA, che è REGOLA ORDINANTE. Così sia. Soprattutto: che sia così. Ho detto. P.4: Athena o Minerva (copia romana); p.5: Ercole (XVIII sec.) e Venere (detta ‘di Milo’, Parigi); p.6: Il pellicano nutre i propri piccoli...; p.7: Il Labirinto di Lucca - (p.5 Ercole e 7: foto P.Del Freo).
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Ebraismo
I roghi del Talmud Giuseppe Ivan Lantos
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Ebraismo
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el primo giorno del mese di Tishri dell’anno 5314 secondo il calendario ebraico, ricorrenza di Rosh Hashana, solennità del capodanno per gli ebrei, 9 settembre 1553 del calendario cristiano, per ordine del papa Giulio III1, furono dati alle fiamme, in piazza Campo de’ Fiori, a Roma, i libri del Talmud e altre pubblicazioni ebraiche. Su quella stessa piazza vennero accese altre pire: nel 1583 quella del marrano2 d’origine portoghese Joseph Saralvo3 e, nel 1600, quella del filosofo Giordano Bruno. La Controriforma4 aveva rinfocolato l’atavico antiebraismo della Chiesa Cattolica e quelli che passarono alla storia come i “roghi del Talmud” furono un tentativo di cancellare con il fuoco i fondamenti stessi della religione e della cultura tradizionale ebraica. Il primo documento ufficiale che testimonia l’ostilità della Chiesa verso gli ebrei è la lettera pontificia Impia Judaeorum perfidia indirizzata il 9 maggio 1244 da papa Innocenzo IV5 al re di Francia Luigi IX6 nella quale il papa scriveva tra l’altro: “I Giudei, infatti, istruiscono e nutrono i loro figli con queste tradizioni (che in lingua ebraica sono dette Talmud, che per i Giudei è il sommo libro), Questo Talmud si allontana straordinariamente dal testo della Bibbia e vi si trovano espresse bestemmie verso
‘‘Là dove si bruciano i libri si finisce per bruciare anche gli uomini’’ Heinrich Heine (1797-1856) Dio, verso Cristo e verso la Beata Vergine: storie incomprensibili, erronei abusi e inaudite sciocchezze”. La lettera raccomandava il sequestro di tutti libri ebraici, all’epoca manoscritti, e il loro rogo su una pubblica piazza di Parigi. Raccomandazione che fu entusiasticamente accolta ed eseguita. Pochi anni prima, il 25 giugno 1240, si era svolto a Parigi il primo processo al Talmud, istruito a seguito della denuncia di Nicolas Donin, un ebreo, già allievo di una scuola talmudica, convertito dopo esserne stato espulso, divenuto poi frate francescano. Il processo fu celebrato davanti al cancelliere della Sorbona, Eudes de Châteauroux7. Donin aveva citato diversi brani del Talmud per mostrare come esso incitasse all’eresia e all’odio contro i cristiani, come fosse pieno di bestemmie, come autorizzasse gli ebrei a derubare cristiani. Donin, inoltre, sosteneva che il Talmud avrebbe accusato i
non ebrei di omosessualità, di adulterio, e di zoofilia. I rabbini, inoltre, sarebbero stati responsabili di travisamenti della Bibbia, destinati a imporre le loro interpretazioni talmudiche. Avrebbero quindi considerato il Talmud, alia lex superiore alla legge di Mosè. Il processo portò alla confisca dei libri ebraici. Il 20 giugno 1242 ne furono bruciati ventiquattro carretti sulla piazza de Grève tradizionale luogo per l’esecuzione dei criminali comuni. Quanto al rogo romano, all’insulto delle fiamme è seguito, soprattutto nel nostro Paese, quello dell’oblio per un evento da ascrivere alle pagine più dolorose della storia dell’ebraismo e più vergognose della storia della Chiesa Cattolica. Esattamente quattrocento anni dopo, nel 1953, lo scrittore statunitense Ray Douglas Bradbury8 considerato uno degli autori più importanti del genere fantascientifico, nel suo romanzo più famoso, Fahrenheit 451, scriveva: “Era una gioia appiccare il fuoco. Era una gioia speciale vedere le cose divorate, vederle annerite, diverse. Con la punta di rame del tubo fra le mani, con quel grosso pitone che sputava il suo cherosene venefico sul mondo, il sangue gli martellava contro le tempie, e le sue mani diventavano le mani di non si sa quale direttore d’orchestra che suonasse tutte le sinfonie 9
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fiammeggianti, incendiarie, per far cadere tutti i cenci e le rovine carbonizzate della storia”9. Con questa frase Bradbury racconta lo stato d’animo di Guy Montag, il protagonista del romanzo. Ambientato in un futuro imprecisato, Fahrenheit 451 narra di una società distopica nella quale leggere o possedere libri è considerato un reato, per reprimere il quale è stato istituito un apposito corpo di vigili del fuoco impegnato a bruciare ogni tipo di volume e Guy Montag è il capo degli addetti al rogo dei libri. Ma, come spesso accade, la realtà supera di gran lunga la fantasia e, nella realtà, quel futuro immaginato da Bradbury appartiene al passato e al presente e ci si augura che in un futuro prossimo o remoto i libri e, soprattutto, il loro contenuto di pensiero e di creatività non debbano alimentare i falò della discriminazione, del pregiudizio e dell’ignoranza. Il rogo di libri, che possiamo inventariare anche con i termini biblioclastia, o bibliolitia, pratica, promossa o incoraggiata da autorità politiche o religiose, con la quale si distruggono libri o altro materiale scritto, è legato a forme estreme di fanatismo religioso o ideologico ed è giustificato da pretesti morali, politici o religiosi nei confronti del materiale pubblicato e, soprattutto dei loro autori. L’operazione è generalmente pubblica ed è accompagnata da apparati liturgici simili a quelli adottati per la messa al rogo degli esseri umani. Nella secolare, vergognosa storia dei roghi di libri, ricordiamo tra gli altri quelli delle opere di accademici nella Cina dell’imperatore Qin Shi Huang10 nell’anno 213 avanti Cristo allo scopo di eliminare ogni traccia della tradizione che potesse costituire una minaccia al suo mandato imperiale. Al rogo dei libri si accompagnò una violenta persecuzione contro gli intellettuali, soprattutto di matrice confuciana, quattrocentosessanta dei quali furono sepolti vivi. In epoca romana, sotto l’imperatore Augusto11, nel 25 dopo Cristo, su istigazione del consigliere Lucio Elio Seiano12 vennero condannati al rogo gli Annales di Cremuzio Cordo13, una storia delle guerre civili. Lo scrittore, dissenziente nei confronti del regime imperiale, fu processato per lesa maestà per aver lodato i cesaricidi Bruto14 e Cassio15. Cordo fu costretto al sui-
cidio. Nel 292, l’imperatore Diocleziano16 intimò il rogo dei libri di alchimia dell’enciclopedia di Alessandria d’Egitto. Il 24 febbraio 303 emanò un editto con il quale ordinava la distruzione delle chiese e dei libri dei cristiani, ne scioglieva le comunità, ne confiscava i beni, ne proibiva le riunioni, li escludeva dalle cariche pubbliche e dalla cittadinanza romana. E ancora una delle più famose e criminali distruzioni di libri avvenne nell’anno 642, quando il generale Amr ibn alAs17, comandante delle truppe arabe che avevano appena conquistato l’Egitto, distrusse la biblioteca di Alessandria e i libri in essa contenuti su ordine del califfo Omar. Questa fu la motivazione del califfo: “Quanto ai libri che tu hai nominato», scriveva Omar, «ecco la risposta: se il loro contenuto si accorda con il libro di Allah18, noi possiamo farne a meno, dal momento che, in tal caso, il libro di Allah è più che sufficiente. Se invece contengono qualcosa di difforme rispetto al libro di Allah, non c’è alcun bisogno di conservarli. Procedi e distruggili”19. Ma, come abbiamo anticipato, vogliamo soffermarci sulla biblioclastia che ha riguardato più specificamente la storia dell’antiebraismo di Santa Romana Chiesa: i roghi del Talmud e di altri testi ebraici ordinati dal papa Giulio III. Tuttavia, prima di affrontare questa pagina scritta con il fuoco dalla Chiesa cattolica, è opportuno ricordare che cosa sia il Talmud per gli ebrei. La Bibbia e il Talmud sono le due colonne sulle quali poggia l’ebraismo non soltanto dal punto di vista religioso, ma come weltanschauung. Qualcuno suggerisce di considerali un tutt’uno, perché il Talmud è, per certi versi, l’interpretazione della Torah. Mentre la Bibbia, soprattutto se la consideriamo integrata dal Nuovo testamento, è diventata patrimonio quasi dell’umanità intera, tradotta in centinaia di lingue e considerata sacra da centinaia di milioni di persone, il Talmud, invece, è rimasto un testo esclusivo dell’ebraismo. Il valore del Talmud per gli ebrei è espresso con efficacia dalle parole del poeta ucraino Chajīm Nachmān Bialik20: “Se tu vuoi conoscere la fonte, alla quale hanno attinto i tuoi fratelli, che andavano sereni incontro alla morte, nei giorni del dolore... porgere il collo al coltello affilato e alla mannaia tesa, salire il patibolo o get-
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tarsi sul rogo e morire da Santi, spirando nel nome dell’Unico… recati presso l’antico luogo dove si studia la Legge… e là vedrai ebrei curvi, dai volti solcati dalle rughe, invecchiati innanzi tempo, ebrei, figli dell’esilio, di cui portano il pesante giogo, che cercano di dimenticare tutti i loro affanni nelle pagine logore di un Talmud e dimenticare la loro miseria, parlando delle antiche conversazioni dei Maestri o riversando i loro dolori nel libro dei Salmi”21. Due sono le compilazioni del Talmud: il Talmud Bavlì oTalmud Babilonese, redatto nel V secolo nelle yeshivoth o accademie rabbiniche di Babilonia, e il Talmud Yerushalmi o Talmud di Gerusalemme, redatto a Tiberiade e a Cesarea nel IV secolo. Insieme costituiscono un corpus di quasi trenta volumi di dimensioni enciclopediche. Il Talmud Babilonese per essere posteriore e più ampio è considerato il più autorevole e il più studiato nelle yeshivoth anche ai giorni nostri.
Il Talmud si compone della raccolta di insegnamenti di sei secoli dei Maestri dell’ebraismo. Si suddivide in Mishnah e Ghemarà. La Mishnah, in italiano ripetizione, si compone di sei ordini e ciascuno ordine è diviso in trattati. È anche chiamata Torah orale perché originariamente fu trasmes-
sa oralmente da Maestro ad allievo per essere messa per iscritto alla fine del secondo secolo da rabbi Yehudah Hanasì. Lo studio della Mishnah nelle yeshivoth sia d’Israele, sia di Babilonia diede origine alla Ghemarà . In sintesi, il Talmud è un testo religioso, giuridico, scientifico, filosofico, letterario, esegetico, omiletico e altro ancora ed è così descritto da David Del Vecchio: “Il messaggio legislativo biblico è sviluppato e interpretato dal Talmud con parametri razionali, in vertiginoso turbinio di analisi e sintesi, analogie, sillogismi e deduzioni che costituiscono una piramide logica…”22. È difficile trovare nel Talmud un argomento, attuale o meno, che non sia trattato estesamente o almeno per allusioni. Per esempio, ci sono riferimenti utili per le discussioni di bioetica dei giorni nostri. Trattando del problema della definizione dell’inizio della vita, nel Talmud si afferma che l’embrione fino a quaranta giorni dal concepimento è come se fosse “semplice acqua” e quindi non è una “persona”. Da qui deriva la conclusione che, per quanto l’aborto sia vietato, non è considerato un omicidio a 11
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maggior ragione poiché è un dovere salvaguardare la vita del feto, ma compatibilmente con la salute psicofisica della madre. Prima di riprendere e approfondire il tema dei roghi che incenerirono il Talmud e altri libri ebraici, si rende opportuna un’altra digressione. Tra il 1436 e il 1440 l’orafo tedesco Johann Gensfleisch detto Gutenberg, aveva utilizzato per la prima volta i caratteri mobili da stampa da lui ideati dando vita a una 12
delle più importanti rivoluzioni della storia dell’umanità. Fino ad allora, infatti, i libri venivano scritti a mano e, a mano, ricopiati procedimento che rallentava molto la redazione dei testi e ne alzava enormemente il prezzo, riservando la propagazione della cultura soltanto a un pubblico ristretto e abbiente. Inizialmente Gutenberg sperimentò la stampa su fogli singoli e libretti contenenti testi di grammatica latina, ma a partire dal 1450 circa si dedicò a un progetto molto più ambizioso: stampare il libro più diffuso dell’epoca: la Bibbia della quale, tra il 1454 e il 1455, pubblicò un’edizione che ebbe una grande diffusione. Tra i primi a utilizzare l’invenzione di Gutenberg furono gli ebrei, il “popolo del Libro”, il popolo del Sefer Torah, il Libro con il quale, secondo una tradizione midrashica, il Signore creò il mondo. Se è vero, come è vero, che per secoli la Torah fu trasmessa oralmente, Torah she-be-al peh, è altrettanto vero che da un certo momento in poi fu avvertita l’esigenza di trasferire per iscritto il Pentateuco23, i cinque libri, Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio, che lo compongono: le prime redazioni della Torah
scritta,Torah she-bi-khtav, si fanno risalire attorno al I 1000 avanti Cristo mentre la maggior parte dei testi vennero redatti intorno al VI secolo. I Sifrè Toràh, i Libri della Torah, sono custoditi negli Aronot Ha-kodesh, armadi sacri, delle sinagoghe, e sono ancora oggi copiati a mano su rotoli di pergamena seguendo regole severe. Se, tuttavia, la scoperta della stampa non modificò queste regole, essa diede impulso alla diffusione di altri testi della letteratura liturgica, sapienzale e storica degli ebrei. E dagli ebrei la scoperta di Gutenberg fu quasi immediatamente utilizzata. Tra il XV e il XVI secolo una famiglia di tipografi ambulanti ebrei originari di Spira, in Germania, si stabilì a Soncino, cittadina della provincia di Cremona. Il dotto rabbino e medico, Ismael Nathan ben Salomo. nell’intento di procurare facilmente ai propri correligionari libri sacri, persuase il figlio Giosuè Salomone ad aprire una stamperia, la cui attività tipografica ebbe inizio nel dicembre 1483 con l’opera Massekheth Berakhōth, Libro delle Benedizioni, finita di stampare nel febbraio 1484, e proseguì sino al 1488, con altre poche opere fra cui l’editio prin-
ceps del testo ebraico della Bibbia24. Iniziato a Soncino, l’esercizio dell’arte tipografica da parte di imprenditori ebrei si diffuse in tutta Italia: Reggio Calabria, Napoli, Roma, Piove di Sacco, Bologna, Brescia, Mantova, Ferrara, Riva di Trento, Padova, Cremona. Ma fu a Venezia che l’attività tipografica assunse nel XVI secolo le caratteristiche di una vera e propria industria. Nello stesso anno, il 1516, in cui gli ebrei veneziani furono chiusi nel Ghetto, il primo in Europa, cominciò a svilupparsi nella città lagunare la stampa ebraica che andò acquistando sempre maggior importanza. Esperti stampatori tedeschi ebrei perseguitati in Patria, erano emigrati a Venezia, grande centro dell’editoria internazionale sin dalla fine del Quattrocento, e non potendo aprire tipografie in proprio erano entrati in quella di Daniel Bomberg, un commerciante di Anversa, iniziatore, nel primo decennio del 1500, della stampa ebraica a Venezia e il più celebre editore cristiano di libri ebraici25. Bomberg, nel corso della sua attività, pubblicò, oltre a vari libri liturgici, l’edizione integrale del Talmud babilonese e di quello gerosolimitano, e le tre edizioni della Bibbia rabbinica. Cessata, nel 1549, l’attività di Bomberg, altri tipografi, continuarono a stampare testi ebraici: da Marcantonio Giustinian26 a Alvise Bragadin27, a Giovanni di Gara28 e altri tra i quali si scatenò un’accesa rivalità. Fu una lite tra Marco Antonio Giustiniani e Alvise Bragadin, legata alla concorrenza, all’origine dell’atroce destino riservato ai volumi del Talmud. Entrambe le tipografie stamparono, contemporaneamente, un codice di diritto talmudico del famoso filosofo, medico e giurista ebreo Rabbī Mōsheh ben Maimōn, conosciuto come Maimonide, intitolato Mishnēh Tōrāh, Seconda Legge29. La lite fu avocata a sé dalla Suprema sacra congregazione del Sant’Uffizio30 che i due tipografi speravano risolvesse la questione nella quale, però, intervennero
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tre zelanti ebrei convertiti: Josef Moro Zarfatì, Hananel da Foligno e Shlomo Romano i quali testimoniarono che nelle due tipografie veneziane si stampavano libri ebraici dal contenuto anticristiano e blasfemo. In quel periodo, s’era avviata la Controriforma, a Roma il clima nei confronti degli ebrei s’era fatto pesante. A Paolo III31, il predecessore di Giulio III, il cardinale Jacopo Sadoleto32, nel 1539, aveva posto il quesito: “Com’è possibile veder perseguitati i protestanti in nome della religione, mentre gli ebrei vengono tollerati?”. E il papa aveva prontamente risposto, tra il 1542 e il 1543, con tre Bolle antiebraiche: Cupientes Judaeos, Illius qui e Injunctum 14
nobis. Morto Paolo III, nel 1549, gli era succeduto Giulio III che ne aveva ereditato l’antiebraismo. Proprio nei giorni in cui s’era avviato l’arbitrato tra Marco Antonio Giustiniani e Alvise Bragadin in merito alla pubblicazione dell’opera di Maimonide, un frate francescano, Cornelio da Montalcino, convertito all’ebraismo aveva incominciato a predicare in pubblico contro la religione cristiana citando, a proprio uso e consumo, la Bibbia e il Talmud. Arrestato era stato immediatamente mandato sul rogo. Il fatto aveva, in qualche modo, dato credibilità alla testimonianza dei tre apostati e aveva dato ai santi inquisitori il pretesto per emanare il decre-
to De combustione Talmud nel quale si affermava che la missione della Congregazione del Sant’Uffizio non era soltanto quella di eliminare l’eresia, ma anche di sorvegliare gli ebrei e di qui il proposito di dare alle fiamme tutti i libri “empi e blasfemi in odio a Cristo” sommariamente definiti Talmud. Il decreto venne sottoposto all’attenzione di Giulio III il quale ne accettò l’equivoco contenuto e dispose che il 9 settembre, giorno nel quale gli ebrei festeggiavano il Capodanno 5314, in piazza Campo de’ Fiori fossero bruciati non soltanto i Talmudim ma anche tutti i libri ebraici. Si scatenò la perquisizione in tutte le sinagoghe e case ebraiche, decine e decine di sacchi contenenti i libri sequestrati vennero accatastati sulla piazza e dati alle fiamme. Come se non bastasse il 29 maggio 1554, il pontefice emise la bolla Cum sicut nuper nella quale si leggeva: “Venerabili Fratelli nostri, Cardinali di Santa Romana Chiesa, come già nel passato, non senza pena dell’animo nostro, abbiamo appreso che altri Inquisitori Generali della eretica malvagità in tutti gli Stati Cristiani su nostro mandato hanno condannato e fatto ridurre in cenere un certo libro ebraico detto Ghemarot Talmud contenente molte affermazioni indegne che offendono la legge divina e la fede ortodossa. Ciononostante si dice che tra gli stessi Ebrei vi siano diversi libri che contengono varie bestemmie ed eresie contro Cristo Nostro Redentore e contro il Suo Santissimo nome ed il Suo onore. Ciò premesso, volendo procedere in maniera opportuna, con la presente noi vi affidiamo la missione e vi affidiamo a voi ed a qualsiasi di voi, di intimare e notificare da parte nostra a ogni singola comunità di Ebrei che si trovi entro i confini della vostra giurisdizione, che entro quattro mesi dal giorno dell’intimazione e della notifica ricerchino attentamente con la massima diligenza sia nelle loro sinagoghe e nei locali pubblici, sia nel-
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le case private e in altri luoghi tutti e ogni singolo libro nel quale il nome di Gesù Cristo Nostro Salvatore, che è chiamato Jeseri Hanossi, viene nominato con bestemmie o comunque ignominiosamente. Coloro che per qualunque ragione saranno trovati in possesso di tali libri vengano puniti senza remissione con le pene dovute, sia quelle pecuniarie fino alla confisca dei beni quanto, se sarà emersa la loro contumacia o la qualità della colpa, con le pene corporali, anche con l’estremo supplizio o altrimenti, come apostati della fede. Infine, trascorsi i quattro mesi, con la massima diligenza ricercate quei libri, voi stessi o mediante altri che avrete incaricato ed esaminateli con cura o fateli ricercare ed esaminare e punite in ogni modo e senza remissione con le pene
che si applicano ai suddetti apostati coloro che avrete trovato in possesso di tali libri”. Accadde così che le fiamme si estendessero a Venezia, Ancona, Bologna, Ravenna, Ferrara, Mantova, Urbino, Firenze e, nel 1559, a Cremona e Candia. Dal 1559 il Talmud fu inserito nell’Index librorum prohibitorum33, cioè l’elenco dei libri la cui lettura era condannata dalla Chiesa. Il Concilio di Trento consentì l’uso di edizioni “purgate” del Talmud, ma ciò non impedì che esso continuasse ad essere “perseguitato”. Un nuovo rogo, allestito in piazza san Pietro, fu acceso il 14 dicembre 1601, e incenerì tutti i libri raccolti nelle case degli ebrei e che non era stato possibile “purgare” secondo le norme fissate dal Concilio tridentino. Dalla metà del Cin-
quecento il Talmud non venne più stampato in Italia: le confische e i roghi continuarono fino al 1751 quando il papa Benedetto XIV ribadì la proibizione del Talmud e in una notte dell’aprile del 1753 fece perquisire il Ghetto dal quale uscirono trentotto carri pieni di sacchi di libri. Si dovette attendere il 1810 per ottenere che a Roma, fosse concesso l’imprimatur alla stampa del primo libro in ebraico dal 1547, ma soltanto il Concilio Vaticano II, nel 1966, avrebbe abolito l’Index e riammesso il Talmud nel mondo cristiano.
P.8: Ritratto fotografico di un Rabbino, XIX sec; p.9: Manoscritto ebraico; p.10: Rabbino con i rotoli della Torah; p.11: Copia del Talmud; p.12: Si studiano le Scritture e - in basso - ritratto di Rabbino; p.13: Rabbi, olio su tela, XIX sec; p.14: Libri in ebraico; p.15: Si interpretano le Sacre Scritture, olio su tela, XIX sec, collez. privata.
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Giorgio Vincenzo Pigliacelli Avvocato tra Massoneria e rivoluzione Antonella Orefice 16
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pparteneva certo alla più famosa schiera di giuristi settecenteschi Giorgio Vincenzo Pigliacelli e vi apparteneva per scienza e professionalità. A differenza dei soliti paglietta1, Pigliacelli, formato nello spirito dell’Illuminismo, fu tra quegli uomini esemplari convinti di poter operare nella situazione politico-istituzionale del regno, favorendo l’avvento della Repubblica Napoletana. Sono rarissimi i documenti a lui relativi e di conseguenza le opere biografiche, scarse le citazioni, inesistente un ritratto. Ricostruire pertanto una accurata biografia di questo avvocato martire della Repubblica Napoletana del 1799 non è stata e non è impresa facile per alcun ricercatore. Nato a Tossicia, un piccolo paese abruzzese in provincia di Teramo il 7 febbraio 17512 da Odoardo e Felice Mirti, nei primi anni studiò nella casa paterna, seguito dal padre dottore. Poi, rivelando presto buone capacità intellettuali ed una propensione per gli studi giuridici, seguendo anche il consiglio dello zio Pompeo Mancini, il padre decise di farlo trasferire a Napoli, affinché potesse seguire e perfezionarsi nella disciplina. “E non passò molto che venne in riputazione di giurisperito civile, siccome può vedersi da sette delle sue dotte difese, salvate come Dio volle dai saccheggi, una delle quali postillata di sua mano. Furono salvate e riposte in fondo ad un granaio insieme con poche lettere, e solo nell’anno 1865 si cavarono fuori in Tossicia, per mie richieste ed insistenze. Sono tutte memorie stampate in Napoli (…) A 28 anni già il Pigliacelli doveva esse-
1 Il soprannome di paglietta, proveniente dal cappello di paglia che gli avvocati usavano portare d’estate, fu il nomignolo che il popolo diede a questa corporazione molto venale ed odiata. 2 Archivio Parrocchiale di Tossicia, Registro dei Battesimi, atto del 7 febbraio 1751: Giorgio Vincenzo, Vincenzo, Romualdo, Giuseppe, Raffaele, Francesco, Giovanni, Antonio, figlio del dottore sig. Odoardo Antonio Pigliacelli e della signora Felice Mirti sua moglie, nacque a dì 7 febbraio 1751, e battezzato a dì 8 dello stesso mese dal sig. D’Amico Notarangeli Arciprete dei Castelli, e lo levò dal sacro fonte il sacerdote Don Domenico Amicis, per mandato di procura del Padre Antonio di S. Agnese della Riforma di santo Pietro Alcantara, della provincia di Napoli, con licenza dei suoi superiori. Per ostetrica servì Giusta di Tommaso di questa terra di Tossicia.
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re noverato fra gli avvocati principi, poiché una Comunità e fuori dalla sua provincia, non gli avrebbe certo affidata una causa. (…) Il suo studio ebbe ad essere fiorentissimo, ed io l’ho visto indicato nella case del Barone Angioletti, alle spalle del palazzo che si diceva del Nunzio, poco su di via Roma. Pure non guadagnava tanto da potersi securamente e con decoro ammogliare, siccome ricavasi da una lettera scritta al fratello il 29 ottobre 1787, dopo due anni dalla morte del padre. Chiaro per dottrine legali, famoso in diritto canonico, difensore perciò dei diritti regi contro le prepotenze di Roma, amatissimo della moderna filosofia, del giusto e libero reggimento, dotto nelle lingue antiche e facile parlatore della francese, fu presidente dell’Alta Commissione Militare e uno de’ membri della Giunta di Legislazione nella Repubblica del 1799. Ministro di Grazia e Giustizia, pubblicò il 29 fiorile l’editto per la nu-
merazione delle vie e per l’abolizione degli stemmi pubblici e privati.” 3 “Dottor Giorgio Pigliacelli abitava nel terzo appartamento di una casa, che possiede il Real Albergo de Pellegrini al Postume detto il Vico della Strada nova de Pellegrini a porta Medina, e detto D. Giorgio si serviva di una rimessa dello stesso Real Albergo. Per il piggione di detto appartamento, e rimessa il riferito Albergo sino al dì quattro Maggio anno 1800 era in credito per docati duecento trentatré.”4 Uomo libero d’ingegno e virtù, Giorgio viveva la sua professione come una missione, quasi presagendo una morte prematura. Caratterialmente affine agli spiriti liberi del suo tempo, pur provocando 3 Mariano d’Ayala, Vite degli Italiani, Napoli, 1999, p. 496 e ss. 4 Archivio Storico di Teramo, Fondo Notarile, Notaio V. Magnanimi, busta 753, vol.36, atto del 6/4/1803
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dispiacere nel padre, non prese moglie, rinunciando così all’eredità destinata al primogenito. Il dissenso del padre traspare dal testamento datato 1787: “(Odoardo Antonio Pigliacelli) nomina suoi eredi universali, e particolari li Sig.ri Dr. D. Giorgio Vincenzo, dimorante da più anni in Napoli, e D. Pasquale Basilio Pigliacelli, suoi diletti Figli legittimi, e naturali, e Padrona usufruttuaria la Sig.ra D. Felicita Mirti sua moglie, con godersi tale usufrutto, e Padronanza sua vita durante, vivendo assieme con tutti e due, almeno con uno dei predetti suoi Figli, ma restando da essa il conviverci. E se mai fosse in necessità per governo della propria persona già vecchia, ed acciaccata, dare moglie a detto D. Pasquale Basilio, il che si debba buonamente, e stragiudizialmente fra essi D. Felicita, D. Pasquale concer18
tare, siccome si va prevedendo, stante il non essersi a tanti stimoli risoluto mai il detto Sig. Dott. D. Giorgio ammogliarsi, esso medesimo D. Giorgio rimanga istituito nella sola legittima a titolo universale, tanto più che si trova commodo, e ben situato, onde non à bisogno de beni della Casa per vivere comodamente, e siccome all’incontro D. Pasquale si era già incamminato per gli ordini Ecclesiastici, e la successione universale si destinava a D. Giorgio; onde avendo prevaricato delle medema, viene ad esser proprio, che D. Pasquale abbia più vantaggio per li motivi addotti. (ecc)”.5 Era tale l’affetto che legava Giorgio al fra5 Archivio Storico di Teramo, Fondo Notarile, Notaio V. Magnanimi, busta 750, vol.20, anno 1787, fogli 56 v-58.
tello Pasquale ed alla madre che, nonostante le disposizioni testamentarie del padre, che purtroppo non riuscì a raggiungere a Tossicia se non dopo giorni di viaggio, quando lui oramai era già morto, il nostro avvocato stipulò una procura a favore del fratello, facendo in modo che egli potesse agire legalmente anche a suo nome, dimostrando di avere in lui una illimitata fiducia. Tornato a Napoli alla sua prestigiosa carriera, come moltissimi altri illuminati professionisti dell’epoca, non fu certo insensibile al fervente clima rivoluzionario, tanto che durante i sei mesi della Repubblica del 1799 ebbe diverse nomine tra cui la più eccellente fu quella di Ministro di Giustizia e Polizia. Per tale carica fu poi condannato a morte con il ritorno dei Borbone. L’esecuzione avvenne in Piazza Mercato, il 29 ottobre 1799 e con lui furono impiccati anche i celebri Domenico Cirillo, Mario Pagano ed Ignazio Ciaja. Pigliacelli e la Massoneria Napoletana Dai rapporti di collaborazione e di amicizia con altri giuristi ed avvocati del tempo, tra cui Mario Pagano, si evince l’appartenenza di Giorgio alla loggia massonica dei Liberi Muratori. Il termine Muratori deriva dall’arte del fabbricare evidenziata anche nei simboli e nei riti: la Bibbia, la squadra, il compasso, il grembiule e i guanti di pelle bianca. La Bibbia per regolare e governare la fede, la squadra per regolare le azioni, il compasso per mantenersi nei limiti con tutti gli uomini, specialmente con i fratelli massoni, il grembiule, simbolo del lavoro che con la sua bianchezza indica il candore dei costumi e l’uguaglianza. I guanti bianchi, infine, ricordano al frammassone che egli non deve mai imbrattarsi le mani nell’iniquità. Da un punto di vista tradizionale i Massoni sono gli edificatori ideali per eccellenza e perpetuano la trasmissione in chiave simbolica degli “strumenti” e dei “prodotti architettonici” della loro Arte. Incessante è quindi in Massoneria la tensione a “sollevare”, a “elevare”, a “ristabilire”, ma non propriamente a “completare”, a “terminare”, a “concludere”. La via latomistica è una via sempre aperta, sempre in evoluzione, e per questo si presenta difficile, impervia, faticosa e richiede una buona dose di spirito di sacrificio che, quando valutata con metro
profano, può apparire talora spropositata. Il lavoro muratorio è un lavoro che richiede forza e abnegazione, ma tutti i veri muratori, quelli liberi, sanno esattamente come e dove procurarsi sia l’una che l’altra. Nei momenti in cui la grandezza dell’Opera sembra sovrastarli, essi sanno compattarsi attorno al “segreto” che li accomuna - l’eterna e mai interrotta catena del rispetto e della comprensione tra uomini di buona volontà - e da questo attingono nuove energie e nuove risorse per ricondurre il “tutto” alla sua naturale forma di giustizia e perfezione. A differenza di altri sistemi tradizionali che impongono ai loro adepti le mete da perseguire e i percorsi per raggiungerle, la Massoneria si limita ad accompagnare i suoi “operai” al centro del grande crocevia della vita e ad augurare loro un buon viaggio: la Luce è dappertutto e il Grande Architetto pervade ogni Luogo... “dovunque io vada, guidato dal mio cuore, là porterò la parola e combatterò per alleviare il dolore del mondo”. Così ragiona il Massone quando esercita il suo destino-diritto-dovere di uomo di navigare liberamente gli spazi interni e sospesi della sua anima alla ricerca della sola eterna verità: la necessità di ricondurre, lontano da ogni sovrastruttura, l’uomo all’uomo per poter ritrovare la parola perduta.6 “A voler correre dietro alle origine dei Liberi Muratori c’è da perder la testa”, scriveva nel 1897 Michelangelo D’Ayala.7 La leggenda fa risalire le origini delle società massoniche a Hiram che costituì il tempio di Salomone e diversi autori hanno collegato il concetto di fratellanza al periodo delle Crociate, e quindi, all’ordine dei Templari, mentre il linguaggio ed il rituale sembrano siano stati influenzati dalla filosofia ermetica tardo rinascimentale.8 La Luce Massonica fu introdotta a Napoli dagli ufficiali dell’esercito austriaco nel periodo del vicereame asburgico (1707 – 1734) e dai mercanti francesi, olandesi e inglesi che operavano in città. Dopo un periodo iniziale di scetticismo, 6 Cfr : M. D’Ayala, I liberi Muratori di Napoli nel sec.XVIII, Archivio S. per le P. Napoletane, SNSP, 1897. G. Gigliuto, Abbecedario latomistico, Roma, 2006. 7 M. D’Ayala, cit. p.404. 8 F. Bramato, Napoli massonica nel Settecento, Ravenna, 1980, p.15.
Storia
l’aristocrazia si avvicinò alla loggia napoletana a partire dal luglio 1750, quando vi aderì e successivamente ne fu eletto Gran Maestro il Principe di Sansevero Raimondo di Sangro. Questi non solo riuscì a ricomporre i dissidi interni sorti tra gli adepti, ma anche ad incrementare a tal punto il numero delle nuove adesioni, da essere costretto a suddividere la Muratoria napoletana in diverse logge: la loggia affidata a Teodoro Tschoundy dove si diffuse la pratica per l’alchimia, la loggia Carafa, affidata a Gennaro Carafa, la loggia Moncada, affidata al principe di Calvaruso e la loggia Sansevero, alla diretta dipendenza del nuovo Gran Maestro. Il principe diede impulso al rapido espandersi dei centri latomistici e riuscì a suscitare in Napoli l’interesse per l’esoterismo, con la pubblicazione nella sua tipografia di numerose opere sull’alchimia. Ciò causò uno scontro violento tra il curialismo conservatore dei Gesuiti e la nobiltà illuminata che, insieme a esponenti
del mondo accademico, la parte più rappresentativa della borghesia, soprattutto medici, avvocati e ricchi commercianti, accresceva sempre più il numero degli affiliati alla Massoneria ed era favorevole al partito riformatore. A seguito dell’editto di Carlo di Borbone del 10 luglio 1751 contro i Liberi Muratori, il principe Raimondo di Sangro, dopo aver tentato inutilmente di convincere il re che i fratelli massoni erano animati da un rispetto devoto e sincero verso la religione ed il sovrano, decise di dimettersi il 24 luglio e la loggia napoletana venne ufficialmente soppressa.9 Ma, i centri latomistici continuarono in gran segreto la loro attività. Un nuovo impulso alla crescita della Massoneria fu dato nel 1768 dall’arrivo di Maria Carolina d’Austria, moglie di Ferdinando IV di Borbone, per tradizione familiare vicina agli ambien9 A. Coletti, Il principe di Sansevero, Novara 1990, p.168.
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ti latomistici, e la stessa aderì a una loggia di sole donne, fino a quando gli eventi che avrebbero caratterizzato l’ultimo decennio del secolo, trasformarono le logge massoniche in Società Patriottiche. Da lì la persecuzione spietata della stessa Maria Carolina, accecata dalla smania di vendicare la sorella Maria Antonietta, contro gli adepti accusati di congiura e giacobinismo. La repressione della Massoneria, bandita e perseguitata da inchieste e arresti non solo nel Regno borbonico, ma in tutta Italia fu notevole non solo nell’ultimo decennio del Settecento, ma anche durante i primi anni della Restaurazione ed interessò finanche quegli Stati tradizionalmente più tolleranti e permissivi. Ciononostante, il fuoco continuò a covare sotto le ceneri molto più di quanto comunemente si creda.10 Pur se il nome di Giorgio Pigliacelli non compare nel Notamento dei congiurati giacobini processati nel 1794, rei di lesa maestà e cospirazione, la prova documenta della sua affiliazione alla Massoneria è in un libello ripubblicato a Parigi nel 1832 dove venne citato tra gli appartenenti alla Loggia del Testaferrata. Questa clandestina e criminosa società esistea nella strada de’ Guantari: Colà venne composto il panegirico (si allude all’ Elogio di Filangieri) da quattro antichi Massoni, Melchiorre Delfico, Giorgio Pigliacelli, Mario Pagano ed un quarto, il nome del quale non ricordo.11 Presi10 L. Pruneti, La sinagoga di Satana. Storia dell’antimassoneria 1725-2002, Bari 2002, p.47. 11 A. Capece Minutolo, I pifferi della montagna ossia cenno estemporaneo di un cittadino im-
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dente della Società Patriottica fu nominato Carlo Lauberg, un frate scolopio, tra i maggiori chimici napoletani del suo tempo. Durante i sei mesi della Repubblica Napoletana, il Lauberg fu nominato Presidente del Primo Governo Provvisorio. Con la reazione borbonica non fu tra i martiri ma tra gli esuli. Riuscì a riparare a Parigi, dove vi morì il 5 novembre 1835. In una sera dell’estate del 1793, s’incontrarono a Posillipo, sulla spiaggia di Mergellina gli amici che Lauberg aveva convocato: elementi fidati e sicuramente democratici. Risposero principalmente all’invito giovani avvocati, tra cui è facilmente ipotizzabile anche la presenza di Giorgio Pigliacelli. I motivi che indussero il Lauberg a indire la riunione furono dettati dal bisogno di raccogliere tutte le forze democratiche che operavano a Napoli e nelle Province e prepararsi all’azione per realizzare anche a Napoli, come in Francia “un governo popolare repubblicano … onde ravvivare i diritti dell’uomo soppressi, rimettere la tranquillità, sopprimere gli abusi, rendersi in tutto liberi e perfettamente uguali ed abiurare… ogni religione come estranea agli ordini di natura e costituire da Principi e dalle Potestà supreme per garantire la loro stabilità”.12 La proposta del Lauberg venne discussa ed approvata e si decise di costituire un’associazione articolata in sezioni elementari o clubs composti ciascuparziale sulla congiura del Principe di Canosa e sopra i Carbonari, Parigi, 1832. p.13. 12 Fatto fiscale per lo scoprimento della congiura de’ giacobini, in T. Pedio, La congiura giacobina del 1794 nel Regno di Napoli, Bari, 1986, p.97
no da non più di undici membri che non si conoscessero tra loro. Tale organizzazione fu dettata in modo da evitare che qualsiasi associato, sottoposto a tortura, potesse svelare i nomi degli altri associati. In seguito la Società Patriottica fu suddivisa in due clubs: Lomo (Libertà o Morte) e Romo (Repubblica o Morte).13 Entrambi operarono attivamente raccogliendo adesioni non solo negli ambienti studenteschi e tra gli avvocati, ma anche tra i militari, dei quali molti giovani ufficiali erano stati allievi del Lauberg alla scuola militare della Nunziatella. Tutti i membri della Società avevano giurato odio eterno ai tiranni e molti di essi si proposero di giungere all’insurrezione armata per abbattere la monarchia e istituire anche a Napoli un governo repubblicano sull’esempio di quello francese. Intanto Maria Carolina, contando su una fitta rete di spie, continuava la sua spietata opera di persecuzione. I numerosi arresti operati a Napoli provocarono un’ondata di panico in seno alla Società Patriottica. Dominati dal terrore e dalla sofferenza delle torture, dimenticando i loro giuramenti, quasi tutti gli arrestati confessarono nei più dettagliati particolari le loro attività di congiurati, fornendo elementi e nomi, ponendo in condizione gli inquirenti di ricostruire in molti suoi particolari l’attività svolta a Napoli dal movimento giacobino. Epilogo Nel 1799 Giorgio è all’apice della sua carriera professionale. Rinomato per le sue 13 M. D’Ayala, I liberi Muratori di Napoli nel sec.XVIII, cit. p.808
doti di avvocato era notissimo a Napoli e in tutto il Regno delle due Sicilie e certo un uomo come lui non poteva mancare di assumere cariche politiche all’indomani della proclamazione della Repubblica. Fu dapprima Giudice nella Commissione Militare, poi rappresentante della Nazione nella Commissione Legislativa, e infine il 18 aprile fu nominato Ministro di Giustizia e Polizia. Fu promotore di diversi editti tra cui l’imposizione del coprifuoco, tendente a salvaguardare l’ordine pubblico, contro la fabbricazione e la detenzione di armi, e il discusso decreto emanato il 18 maggio col quale imponeva la numerazione delle vie e l’abolizione degli stemmi pubblici e privati. Purtroppo quest’ultimo decreto, teso a eliminare i simboli del vecchio regime, finì per procurare danni inestimabili ad opere d’arte ed iscrizioni di grande valore storico. Caduta la Repubblica fu tra i primi a essere ricercato. Secondo il Diario Carlo De Nicola14, l’arresto si colloca al 4 agosto e Giorgio risulta tra coloro che calarono dalle navi incatenati e con il cannale al collo furono portati nel Castel Nuovo. Fu giustiziato per impiccagione in piazza Mercato il 29 ottobre e seppellito nei sacelli del pronao nella vicina chiesa del Carmine Maggiore.15 Lo storico Taddeo Ricciardi, sulla base dei pochi ultimi documenti fornitigli dagli eredi di Pigliacel14 C. De Nicola, Diario Napoletano (dicembre 1798- dicembre 1800), Milano 1963, pp. 333334. 15 Con Giorgio Pigliacelli dal 3 agosto 1799 all’11 settembre 1800, furono seppelliti nei sacelli del pronao della chiesa del Carmine Maggiore: Gaetano Russo, Michele Natale, Niccolò Fiani, Ettore Carafa, Ferdinando Pignatelli, Mario Pignatelli, Giuseppe Riario Sforza,Francesco Antonio Grimaldi, Onofrio De Colaci, Domenico Vincenzo Troisi,Francesco Mario Pagano, Domenico Leone Cirillo, Ignazio Ciaja, Severo Caputo, Ignazio Falconieri, Colombo Andreassi, Raffaele Iossa, Leopoldo De Renzis, Niccola Fiorentino, Francesco Granata, Gaspare Cristoforo Grossi, Luisa Molines Sanfelice A.Orefice, La Penna e la Spada, Napoli 2009, pp. 161-173.
Storia
li ricostruì quei drammatici mesi intercorsi tra l’arresto e l’esecuzione della sentenza di morte16. “La notizia dell’arresto di lui giunse a Tossicia, ove viveva ancora la vecchia madre del martire in compagnia dell’altro figliuolo Pasquale. Questi per non far morir di cordoglio la veneranda donna, occultò la disgrazia di Giorgio, e pensò al modo come vedere ed aiutare l’amato germano, che prevedeva serbato a tristissima fine. Egli, perciò, una notte, indossati gli abiti di frate zoccolante, prese la via di Napo16 T. Ricciardi, Biografia di G.V. Pigliacelli, cit. pp. 7-8.
li, munito di alcune commendatizie, date a lui da un guardiano del monastero di Tossicia. Giunto nella nostra città, i frati del Carmine trovarono modo di fargli vedere il fratello detenuto nel vicino castello. Questo incontro doloroso avvenne prima che il grande giurista ascendesse le scale del patibolo. In questo colloquio, il cittadino insigne riferì al dolente fratello le torture a cui lo avevano sottoposto i vili giudici di un monarca spergiuro!” P.16: Abito maschile da cerimonia, seconda metà del XVIII sec; p.17/19:Ritratti di J.L.David, fine XVIII sec; p.20-21: I documenti citati nel testo (vd).
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Storia
I parte
1914 – 2014 ‘Grande Guerra’, il centenario Il generale Angelo Gatti, massone, e l’inchiesta su Caporetto Aldo A. Mola 22
Angelo Gatti, Massoni ed ebrei
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remessa L’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito ha ripubblicato l’ “Inchiesta su Caporetto”, comparsa nell’agosto 1919 e da tempo introvabile anche nelle biblioteche più fornite. L’edizione originaria contò tre volumi: I, Gli avvenimenti dall’Isonzo al Piave, 24 ottobre-9 novembre 1917; II, Le cause e le responsabilità degli avvenimenti; III, Tavole. Per comprensibili motivi di costi, la nuova edizione non ha ristampato in veste cartacea le 22 tavole (quasi tutte di grande formato), ma le ha riprodotte in DVD, con il testo integrale dei due volumi e le introduzioni critiche del Capo dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, col. Antonino Zarcone, e di Aldo A. Mola. Dopo una rigorosa sintesi della “rotta di Caporetto”, il col. Zarcone illustra la resistenza sul Piave, la riorganizzazione del fronte e la riscossa, dalla Battaglia del Solstizio a Vittorio Veneto. Un anno dopo il ripiegamento sotto l’offensiva austro-germanica del 24 ottobre 1917 iniziò l’avanzata degli italiani, conclusa con la richiesta di armistizio da parte di Vienna. L’Italia, come ricorda anche Mola nel suo saggio introduttivo, resisté sul Piave con le proprie forse e poi vinse non solo per sé ma per tutte le potenze alleate, che, invero, non mostrarono leale amicizia né gratitudine per i suoi scarifici. Nella sua prefazione Mola indaga su una figura emblematica: Angelo Gatti e sull’intreccio fra militari e massoneria
nel corso della Grande Guerra. In prossimità del Centenario (2017) l’Opera verrà immessa in rete dall’Ufficio Storico SME. Qui ne pubblichiamo alcune pagine. \ Caporetto, l’Inchiesta, interrogativi aperti. “Caporetto” (24 ottobre 1917) fu una battaglia perduta. Ebbe conseguenze gravissime. Lo sfondamento delle linee italiane sull’alto Isonzo comportò il cedimento della Seconda Armata, l’arretramento dell’intero fronte sino al Piave (3-9 novembre), dopo una primo tentativo di attestamento sulla destra del Tagliamento, e l’evacuazione di migliaia di civili da terre che appartenevano al regno d’Italia dal 1866, inclusa Udine, per anni sede del Comando Supremo, e Gorizia, costata tanti sacrifici. Però, un anno dopo la “rotta, su quel fronte la guerra si concluse con la vittoria dell’Italia sugli Imperi Centrali, travolti a Vittorio (24 ottobre 1918) e costretti alla resa (armistizio di Villa Giusti, presso Padova, 3 novembre). In sé, dunque, Caporetto fu una battaglia perduta nel corso di un conflitto di quarantun mesi. Invece “l’Inchiesta su Caporetto” alimentò e ingigantì uno dei peggiori miti negativi della storia d’Italia. La Relazione, frutto di lavoro febbrile, passò in seconda linea. Nell’opinione pubblica e nella polemica politica, come in tanta parte della storiografia, l’i-
uasi tutti i massoni e quasi tutti gli ebrei entravano nel partito irredentista triestino. Nel Trentino invece il partito irredentista era diverso: c’erano anche aristocratici ed i borghesi non massoni. Anche nella Dalmazia molti massoni ed ebrei erano irredentisti. Per dimostrare la potenza della Massoneria valga il seguente racconto. Montanari Umberto (il vero Montanari, diceva Carlo Montanari) doveva fare una ricognizione nelle isole Brioni nell’estate del 1900. Non si sapeva come farlo arrivare alle Brioni. Allora Porro ne parlò a Felice DeChaurand, che disse, lasci fare a me. L’ultima corografia di Pola e delle Brioni era dell’812. De Chaurand raccomandò Montanari a (Ernesto) Nathan: questi gli diede lettere di raccomandazione per quelli di Trieste3. Sta il fatto che Montanari fu condotto a Pola e alle isole Brioni dagli imprenditori e dai capi operai che erano tutti massoni, e fatto girare tranquillamente sulle opere. Un giorno era lì proprio il capitano del genio austriaco. Montanari volle andar via: il suo accompagnatore gli disse: Ebbene, venga sabato, che il capitano non c’è perché va a far la paga a Pola. E Montanari si poté riportare da Pola e alle Brioni la più completa corografia, con piani delle spese ecc. Si capisce: l’Austria opprimeva gli ebrei e gli italianizzanti ed essi si fecero massoni. 1 Inedito. Da Carte Angelo Gatti, Archivio Storico del Comune di Asti. 2 1881: antecedente la stipula della Triplice Alleanza tra il regno d’Italia e gli imperi di Germania e di Austria-Ungheria. 3 Come documentò Alessandro Levi, Ernesto Nathan soccorse gli irredentisti italiani di Venezia Giulia, Istria e Dalmazia anche con fondi direttamente consegnatigli da Vittorio Emanuele III.
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stituzione stessa della Commissione d’inchiesta significò che la “rotta” e la ritirata avevano origini oscure, riecheggiate anche nella celeberrima canzone “Il Piave”. Serpeggiava il fumus di colpe tenebrose, da mettere a nudo. Si radicò la convinzione che la “Caporetto” avesse cause remote, sicuramente politiche. Forse era persino il frutto di un immane complotto interno e internazionale. Nell’immaginario la conca di Caporetto si popolò di fantasmi. La Commissione doveva individuarne i responsabili, additarli alla pubblica esecrazione ed esigerne la punizione esemplare. L’Inchiesta investì l’intera catena di comando dell’Esercito italiano proprio quando, dopo la lunga sofferta battaglia di arresto tra metà novembre e fine dicembre 1917, il Comando Supremo era impegnato nella riscossa. Di anello in anello essa conduceva al Capo delle Forze Armate, Vittorio Emanuele III. Nel 1919, sulla fine dei lavori, la Commissione si fermò appena un gradino al di sotto della Corona mentre il Paese era nel caos non 24
già per la ritirata di quasi due anni prima ma perché il governo, presieduto da Francesco Saverio Nitti, del tutto diverso da quello dell’ottobre 1917 guidato da Paolo Boselli, non sapeva mettere a frutto la vittoria più di quanto avesse fatto il precedente, con Vittorio Emanuele Orlando e Sidney Sonnino, ministro degli Esteri dal novembre 1914. Tre diversi governi in tre anni, con cambi e ricambi di ministri e di direttori generali della macchina dello Stato, non giovarono alla pacificazione degli animi. Prima che se ne conoscessero andamento dei lavori e conclusioni, l’Inchiesta gettò un’ombra cupa sull’Esercito Italiano, pilastro delle Forze Armate e del Paese stesso. Pur a vittoria conseguita, essa trasformò il ripiegamento dall’Isonzo al Piave in sconfitta morale ancor più che militare. Per chi l’aveva voluta e la seppe strumentalizzare, l’ Inchiesta fu sbandierata come “rivelazione” dell’inconsistenza della Nuova Italia: come poi taluno disse del “fascismo”, non rivoluzione ma rive-
lazione delle cosiddette “tare originarie” dell’unificazione, anzi della storia profonda degli italiani. Da fatto d’armi Caporetto divenne diletto per chiacchiere di antropologia pseudostorica. dilettante. La lunga tenace resistenza sul Piave, la riscossa, la battaglia offensiva di Vittorio e la resa dell’Impero austro-ungarico finirono in un cono d’ombra. Oggi anche molti “storici” ignorano che lo strumento armistiziale di Villa Giusti (Padova) previde che l’esercito italiano potesse attraversare in armi l’Impero austro-ungarico per colpire da sud quello germanico, impreparato a difendersi sul fronte sud. Mentre nazionalisti, proto-fascisti e opportunisti cavalcavano il mito della “vittoria mutilata” e pretendevano che al tavolo della pace il governo OrlandoSonnino ottenesse più di quanto Salandra e Sonnino avessero chiesto col Patto di Londra del 26 aprile 1915 (era il caso di Fiume), i disfattisti elevarono Caporetto a paradigma delle “sconfitte” di un’Italia geneticamente gracile: Custoza nel 1848, Novara nel 1849, ancora Custoza e Lissa nel 1866, Adua nel 1896, Sciara-Sciat nel 1911… In quell’ottica l’Italia era l’“Italietta”: una visione autolesionistica ispirata dall’illusione che dipingere il passato a tinte fosche basti a rendere più luminoso il presente e il futuro. Non in sé, ma per l’eco che la circondò e per l’uso e l’abuso che se ne fece, l’Inchiesta attizzò anche le voci su “tradimenti” o quanto meno su “colpe” di generali, protetti da chissà chi per occultare losche connivenze. Il principale indiziato dell’accusa fu e rimase nel tempo Pietro Badoglio, comandante del XXVII corpo d’armata, investito in pieno dall’attacco austro-germanico del 24 ottobre 1917. Il mito dell’Inchiesta nacque dunque e durò molto oltre la pubblicazione dei volumi nei quali venne sintetizzata: un’opera più citata che letta, anche perché sin dalla pubblicazione essa ebbe circolazione ristretta. La riedizione dell’Inchiesta, irreperibile nella generalità delle biblioteche anche ben fornite, costituisce dunque una generosa apertura di credito dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito verso la maturità degli studiosi e della pubblicistica nell’imminenza del centenario della Grande Guerra. I suoi volumi, in specie il secondo (che non per caso ven-
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ne stampato per primo, il 10 agosto 1919, quasi offa per chi ringhiava contro le Forze Armate), riconducono al clima che ne vide la genesi, alle polemiche violentissime che accompagnarono i lavori della Commissione e la pubblicazione degli Atti e sollecita il confronto tra il suo contenuto e l’immagine che ne venne rispecchiata nella pubblicistica e nella storiografia. La Relazione fu molto esplicita sul “regime disciplinare”: processi, punizioni, condanne a morte decretate ed eseguite, decimazioni e ammutinamenti (fu il caso della Brigata “Catanzaro”, “domata con l’intervento della cavalleria e delle automitragliatrici”). Né tace sul probabile dramma di quanti avevano avuto la sorte “di far parte del fatale picchetto di esecuzione” e la sera si vedevano proporre per distrazione il “teatrino del soldato”. Nell’ambito delle sue centinaia di pagine, la Relazione riservò poche righe a renitenze (48.000) e disertori latitanti (56.000): nell’insieme corrispondenti a “una intera armata fuori legge, pericolosa per la sicurezza e micidiale per la resistenza morale di fronte al prolungarsi della guerra”. Era quanto aveva denunciato Cadorna, era la prova che il Paese
non seguiva perché il governo stava spettatore muto. Ma la Commissione non poteva dirlo. Le era più facile raccattare dicerie e metterle agli atti. La pagina più amara e sconcertante della Relazione è però un’altra: la denuncia della mancata difesa della popolazione civile nel corso della ritirata. Nel 1919-20 la Commissione non poteva certo immaginare la futu-
ra disputa sull’Otto settembre 1943. Però le sue parole ne costituiscono un’anticipazione, non ancora rilevata dalla storiografia: “il Comando Supremo – essa sentenziò - si contenne male astenendosi dal dare alle popolazioni un avviso prudenziale di sgombero, che riteneva possibile solo per epoca ancora lontana (…). Si sarebbe potuto evitare che le autorità civi25
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li locali rimanessero all’oscuro sulla realtà della situazione, e venissero lasciate senza istruzioni sul da farsi nei riguardi di sé medesime e degli abitanti, nonché privi della piccolissima scorta di mezzi di trasporto sufficienti per i documenti ufficiali più delicati (…). Non risulta giustificato il silenzio che l’autorità militare ritenne di dover mantenere con l’autorità civile circa la vera situazione…”. Quella conclusione rimane lugubre lapide sulla cesura tra due Italie che per tanti mesi avevano coabitato nella “zona di guerra”, senza mai raggiungere l’idem sentire. Ma per due motivi riesce impossibile sottoscriverla a occhi bendati. In primo luogo non si comprende quando e con quali conseguenze generali il Comando Supremo avrebbe dovuto allertare la popolazione delle conseguenze di un possibile attacco vittorioso nemico (quanto meno magistrati, amministratori locali, prov26
veditori agli studi, enti economici, banche…:la dirigenza insomma). Qualunque “avviso” di quel genere sarebbe immediatamente dilagato, suscitando sconforto non solo tra i civili ma anche, di rimbalzo, nelle file dell’esercito e avrebbe dato al nemico la percezione di un’Italia allo sbando prima ancora della prova. In secondo luogo, non toccava solo alle Forze Armate, ma anzitutto al governo prevedere le possibili ripercussioni di un’offensiva nemica vittoriosa in profondità e predisporre i piani della eventuale evacuazione della popolazione (o della sua parte più vulnerabile) sotto l’incalzare delle truppe austro-germaniche. Anche con quelle parole la Commissione scaricò sui militari le responsabilità dell’intervento in guerra senza adeguata preparazione e, ancor più, senza i mezzi per provvedere non solo alla macchina bellica ma anche alla popolazione civile.
I commenti dello storico Angelo Gatti sull’Inchiesta Lo capì a fondo Angelo Gatti, uno dei più acuti “osservatori” e studiosi della guerra sin dalla conflagrazione e dell’azione del governo sin dall’intervento, deliberato in sede politica, senza previa verifica della preparazione effettiva, come per altro ricordato in molti passi della non sempre felice Relazione. Fu proprio Gatti tra i primi a condurre un’indagine non solo “privata” sulle cause generali e prossime della “rotta”. Nel “Diario”, in parte pubblicato nel 1964 da Alberto Monticone (Caporetto. Dal diario di guerra inedito, maggio-dicembre 1917, Bologna) egli annotò che sino alle 19 del 24 ottobre il Comando Supremo non aveva alcuna cognizione degli eventi in corso, tanto che il bollettino di guerra della giornata recitava: “Vengano pure (austro-ungarici e tedeschi, il cui apporto era valutato in nove divisioni NdA), noi li attendiamo saldi e ben preparati”. Perciò andò tranquillamente a pranzo. Solo alle 22, tornato “per pura curiosità” al Comando, constatò che gli ufficiali presenti (Porro, Ferrero, Pintor, Cavallero, Gazzera, Sormani, Gallarati, Leone) avevano le prime informazioni sull’avanzata del nemico, penetrato con una marcia di 22 chilometri per monti difficilissimi: “I nostri se li sono visti arrivare alle spalle. Il IV corpo non ha resistito nemmeno un minuto. Il XXVII è stato anch’esso superato subito sulla sinistra (…)” Cadorna si era ritirato per prendere una decisione. “Sentii parlare di Sédan italiana. Il Capo ha detto che ritirerebbe tutto sul Tagliamento. La cosa è mostruosa ed inconcepibile”. Dopo la Scuola Militare di Fanteria e Cavalleria a Modena e una prestigiosa carriera, docente alla Scuola di Guerra di Torino accanto a Costanzo Rinaudo, collaboratore della “Gazzetta del Popolo” e del “Corriere della Sera”, dopo uffici con i generali Cantore e Giardino all’inizio del 1917, raggiunto il grado di colonnello Gatti venne chiamato da Cadorna a ordinare il materiale necessario per la storia della guerra: una posizione privilegiata per assistere agli eventi e conoscere personalità di spicco. Quando Cadorna venne sostituito con Armando Diaz e inviato a Versailles, Gatti lo seguì. I suoi ricordi di quella stagione furono pubblicati da suo fratello, Carlo, musicologo insi-
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gne, in Un italiano a Versailles: dicembre 1917-febbraio 1918 (1958). A lui si debbono anche saggi nei quali indagine storiografica e penetrazione psicologica, acume di biografo e percezione dei movimenti profondi si uniscono con risultati durevoli (Uomini e folle di guerra, 1921; Uomini e folle rappresentative, 1923). Celebre fu la “Collezione italiana di diari, memorie, studi e documenti per servire alla storia della guerra del mondo” da lui diretta per Mondadori: un’impresa di vasto e durevole successo, tuttora di riferimento per serietà d’impianto e molteplicità di apporti italiani e stranieri. Suddivisa in quattro sezioni la Collezione comprese opere di storici e politici (Federzoni, Solmi, Vercesi…), militari (Cadorna, Capello, Giardino, Porro…), economisti (Prato, Prezzolini…) e memorialisti (De Rossi, Ojetti, Valori…). Dalle carte di Gatti, conservate nell’Archivio storico del Comune di Asti, si coglie la complessità della sua personalità. Anche a lui si attaglia la definizione data del generale Adriano Alberti, capo dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, a lungo studiato da Oreste Bovio: il più storico tra i mi27
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litari e il più militare tra gli storici. Inediti rimangono non solo molti materiali raccolti per approntare le opere poi pubblicate (incluse parecchie interviste a protagonisti dell’epoca), ma anche le sue riflessioni sulla guerra, sulla crisi dell’estateautunno 1917 e sulla Commissione d’inchiesta. Per Gatti la “rotta di Caporetto” ebbe cause specifiche da individuare e spiegare nel quadro dei fatti militari. Le sue motivazioni più vere e profonde vanno però cercate nella storia politica, nella biografia del giovane Stato i cui nodi irrisolti essa rivelò con la rude franchezza dei fatti d’arme. Il suo pensiero emerge dalle riflessioni annotate sulla copia della Relazione in suo possesso (poi acquisita e messa a disposizione degli studiosi dal generale Luigi Gratton, autore del 28
documentato Armando Diaz, Duca della Vittoria. Da Caporetto a Vittorio Veneto, Foggia, 2001). Gli appunti, vergati con mano sicura, talora vibrante per l’indignazione che lo animava, ribadiscono con maggior forza quanto via via Gatti aveva confidato al “diario”, ma talora se ne discostano nettamente. Essi meritano attenzione per cogliere il travaglio non solo suo ma di chi in guerra aveva pensato e ripensava la guerra. Ne risulta particolarmente discusso Pietro Badoglio, comandante del XXVII Corpo d’Armata, schierato nell’alta valle dell’Isonzo, il punto più avanzato e vulnerabile della Seconda Armata. Da lì il nemico poteva passare e tutto travolgere. Ma lì esso poteva essere attratto e totalmente disfatto. Quello era il teatro. I fanti
nemici silenziosi e veloci all’attacco, previo bombardamento e uso dei gas. Gli artiglieri italiani altrettanto silenti, in attesa. Badoglio disponeva di 20.000 fucili, 464 mitragliatori e 454 pezzi di artiglieria, nessuno dei quali schierati a riserva sulla sinistra dell’Isonzo. L’ordine impartito da Badoglio il 22 ottobre alle quattro divisioni di fanteria fu netto: quando attaccata, resistere sino all’ultimo sulle posizioni assegnate. Le artiglierie non dovevano rispondere al devastante fuoco nemico di preparazione, bensì attenderne l’avanzata per annientarlo: una direttiva in linea con quelle del Comando d’Armata, approvate dallo stesso Comando Supremo. Nella sua magistrale opera sulle cause militari di Caporetto il generale Adriano Alberti ha insistito sul ritardo dell’impiego della contro-preparazione da parte dell’artiglieria italiana. Sin dalla Relazione però emerge che essa era applicata, ma solo se e quando possibile, perché il fuoco doveva essere centellinato. I proiettili costavano e del loro consumo i comandanti dovevano rendere analiticamente conto. Capello ripeteva che la guerra non si fa come si può, ma come si deve. Però in quelle condizioni era davvero difficile farla bene. Il generale Luigi Capello, comandante della Seconda Armata (quasi un milione di uomini), rimosso dopo il disastro, dichiarò alla Commissione d’inchiesta che il XXVII Corpo d’Armata, cioè Badoglio, “doveva provvedere alla difesa a monte fino all’Isonzo; ma ciò non fu fatto né con l’occupazione effettiva con forze sufficienti della linea Plezia-Isonzo, né con una energica e tempestiva contromanovra”. Anziché bloccare sul nascere l’offensiva austro-germanica, frenarla e colpirla come da tempo stabilito, l’artiglieria tacque. Il suo silenzio risultò subito inspiegabile, tanto più che da giorni, grazie alle rivelazioni di ufficiali disertori dalle file austro-ungariche, soprattutto cechi, gli alti comandi italiani conoscevano nel dettaglio i piani nemici, inclusa l’ora d’inizio del bombardamento (le 2 del mattino del 24 ottobre) e i suoi possibili sviluppi. È quanto confermato anche da vari documenti pubblicati in Gian Luca Badoglio, Il Memoriale di Pietro Badoglio su Caporetto (Udine, 2000), che ricorda quanto scrisse Luigi Cadorna: “Il tiro di contropreparazione non fu eseguito”.
L’autodifesa di Badoglio dinnanzi alla Commissione e le dichiarazioni di altri comandanti sono pubblicate nei paragrafi 162-163 della Relazione. Negli appunti a margine della propria copia Gatti annotò commenti severi: “Ecco la verità (...) il gen. Badoglio voleva fare la difesa al passo Zagradan, Kolovrat (...). Tutto questo dimostra in Badoglio la più grande, la più profonda ignoranza di ciò che doveva fare e di ciò che stava per accadere. La Commissione, stampando le deposizioni Capello, Medici (Capo di Stato Maggiore della 19^ Divisione NdA), ha dato la patente di asino al Badoglio senza accorgersene. O se ne è accorta? A volte viene il dubbio che, messa tra quel che vorrebbe dire e ciò che non può dire, espone le cose così scioccamente, da far capire che fa la stupida per partito preso”. All’opposto, i giudizi di Gatti sulla condotta della Commissione e sull’estensore della relazione, il colonnello Fulvio Zugaro, sono sferzanti. Secondo lui i “politici” si lavarono le mani delle loro gravissime responsabilità. La loro condotta nei confronti di Luigi Cadorna, Capo di Stato Maggiore e poi Comandante Supremo, può essere riassunta in una frase: “Prenditi l’esercito quale il paese te l’ha fatto, e vinci la guerra”. Il suo rovello era parallelo a quello vissuto dal generale Domenico Grandi, ministro della Guerra nel 1914, che si domandò se il Paese avrebbe seguito il governo nella guerra. Il Comando Supremo – annotò Gatti – non poteva “mutare tutto solo con l’intervento”, a cominciare, per esempio, dalla formazione degli ufficiali, che richiedeva rapido adeguamento agli scenari aperti dalla conflagrazione europea. È però sulle responsabilità di Badoglio e sulle strane omissioni della Commissione che Gatti insiste con forza: “Sembra impossibile che ci sia uno, nella Commissione, che abbia fatto il soldato”. Il colonnello forse non ricordava di aver scritto nel “diario”, sotto la data 27 giugno 1917, “Ah, perché non c’è un comando dove ci sia un posto per un Badoglio, per un Pennella, per un Grazioli, per un Di Giorgio, per chi ha dato prova di essere mente pensante e organizzatrice?” P.22: Caporetto, trasporto a spalle di un ferito; p.23: Aerei tedeschi sorvolano il fronte; p.23 a destra: Ritratto di Angelo Gatti; p.24: Manifesto su Caporetto; p.25: Truppe tedesche all’assalto e, in basso, foto notturna di bombardamento; p.26-27: Immagini della ritirata di Caporetto; p.28:’Cacciali via!’, manifesto per la raccolta fondi per la guerra; p.29: San Pietro, Roma, cartolina anni Venti.
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Enrico Caviglia importanza dell’elemento religioso in Italia
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È
curioso osservare come il popolo italiano, che è individualista per eccellenza, abbia ideato il congegno più collettivo che mai ci sia stato, e che è la Chiesa. Si direbbe quasi che esso, con uno di quei colpi d’ala che gli sono non scarsi, dalla dissoluzione in cui vedeva, nei primi secoli dopo Cristo, sciogliersi il mondo romano, abbia voluto avere un succedaneo a quello. Forse, avendo innanzi agli occhi aveva (sic!) un esempio di grandissima unità, come era stato l’impero romano, non faceva fatica a riprendere un altro esempio di grandissima unità come è la chiesa. E forse, sentendo, con la sua intelligenza e col suo buon senso,, che è molto individualista, vedeva che occorreva, per ovviare, avere una forza inquadratrice: così, come il popolo italiano è monarchico, entra volentieri nelle sette, nella massoneria, si iscrive nei fasci, ecc. ecc. Sta di fatto che la costituzione della chiesa è enormemente forte; ed è la sola forza italiana che sia riconosciuta dappertutto: anzi, conosciuta. Ciò deriva dal fatto che il congegno e nella ideazione assolutamente unitario, ed ha una spinta sola, ma nella forma è quanto ci possa essere di più democratico, e quindi si meschia col popolo. Dove qualunque altra chie1 Inedito. Da Carte Angelo Gatti, Archivio Storico del Comune di Asti.
sa, evangelica, luterana, ecc. ecc. non riesce perché i suoi apostoli (meno gli inglesi) non vogliono scendere in mezzo al popolo, la chiesa cattolica riesce, perché i suoi membri vivono coi popoli che vogliono convertire o trarre a sé. E, intanto, c’è una mente sola, che, in tutto il mondo, dirige tutto. Ci sarebbero altre religioni moralmente così grandi come la cattolica: ma non hanno corrispondenze forza combattente. La cattolica contempera l’azione e la meditazione. Deriva, da questa spinta poderosissima interna, che si espande con grande forza fuori, che l’azione della chiesa cattolica è enorme. E fore si sente meglio alla periferia che al centro. Non c’è parte d’Europa in cui la chiesa cattolica non abbia messo radici, almeno morali: e la azione di essa è enorme. Caviglia raccontava che alle Filippine, in un’ isola, giunse con 2 ufficiali americani (le Filippine sono americane) un giorno che si faceva gran mercato in un paese. Disse agli americani: “Volete scommettere lo champagne di questa sera per tutti, che nessuno di questi vostri sudditi sa dove è l’America e Washington?” - “Oh! Impossibile. Scommettiamo”- “Sta bene. E rivolgendosi ai nativi (nelle Filippine ci sono popoli civili, semicivili e selvaggi, e quelli erano selvaggi), disse: “Sapete dove è l’America?” “No”. “E Washington? “- “Mai sentita”. Grande scorno degli americani. “Ora, riprese Caviglia, volte scommettere altro champagne, per domani sera, che tutti sapranno dove è Roma?” - “Oh, impossibile” “Scommettiamo”- “Sta bene”. “Dove è Roma?” - “ In Italia “. Vergogna e confusione degli americani. Ma Caviglia disse: “Ora, per vostra consolazione, vi dirò perché questa gente sa dove è Roma. Chi c’è a Roma?” - “Il papa” risposero i nativi. Questa era la ragione. 29
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Sotto l’orbace squadra e compasso I rapporti fra fascismo e massoneria in una denuncia di Aldo Tarabella Luigi Pruneti
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a mattina del 16 agosto 1924 il sole era ancora basso sull’orizzonte quando il brigadiere dei carabinieri Ovidio Caratelli si alzò da letto e scese in cucina per la colazione. Mentre era seduto a tavola, guardò con apprensione il calendario: quei giorni di licenza erano volati via, tra poco sarebbe tornato in servizio. Doveva approfittare del tempo libero che ancora gli restava; pertanto decise di dar seguito ai buoni propositi, inaugurando quella giornata estiva con una bella passeggiata. Detto fatto chiamò il cane e in sua compagnia si diresse verso la macchia della Quartarella1. La giornata era limpida e si preannunciava particolarmente calda, il militare camminava di passo svelto, felice per quella camminata nella frescura del mattino. La serenità, tuttavia, durò poco: il cane fiutò qualcosa, s’innervosì, latrò, quindi iniziò a raspare e fra gli sterpi, nascosto da un velo di terra, emerse un cadavere: era il corpo dell’onorevole Giacomo Matteotti. Fu questo l’epilogo di un dramma iniziato oltre due mesi prima, quando una squadra fascista aveva rapito il noto esponente politico dell’opposizione. Una vera e propria bufera si era allora scatenata sul capo del governo e leader del 31
Antimassoneria
partito fascista: Benito Mussolini. Già nei giorni immediatamente successivi al 10 giugno, data del sequestro, il potere del Romagnolo aveva vacillato; per gli avversari sarebbe stato facile, in quel momento, far cadere il suo governo, “ma, per sua fortuna – commenta Giampiero Carocci – nessuno degli oppositori seppe essere all’altezza della situazione”2. Ora, però, una nuova e più grave crisi si profilava all’orizzonte; la stampa, difatti, iniziò ad essere aggressiva, ovunque s’imputava al duce di essere il mandante morale di quell’atto efferato e si chiedeva a gran voce che ne rispondesse davanti al Senato, convocato in Alta Corte di Giustizia. Egli non poteva dimettersi, perché quell’atto avrebbe segnato la sua fine 32
politica, non poteva nemmeno mostrare i muscoli scatenando lo squadrismo, giacché ignorava le reazioni della Corona e di conseguenza dell’esercito. Aveva bisogno di prendere tempo, di scaricare su altri la responsabilità dell’omicidio e di tranquillizzare i fiancheggiatori, a iniziare dagli industriali e dagli agrari che davano segni d’irrequietezza e sembravano prendere le distanze dal fascismo3. Come se non bastasse Mussolini doveva fare i conti anche con l’opposizione interna, quella dei “duri e puri”, degli squadristi del manganello e dell’olio di ricino. Italo Balbo da un po’ di tempo si era defilato a causa dell’assassinio, a colpi di bastone, del sacerdote don Giovanni Minzoni, avvenuta il 23 agosto del 1923. Nel
1924, infatti, “La voce repubblicana” aveva pubblicato documenti compromettenti: era stato lui, il ras di Ferrara, a diramare l’ordine di colpire senza problemi ed era stato ancora lui a esercitare indebite pressioni sulla magistratura. Una missiva, in particolare, lo inchiodava; era un ordine impartito a Tommaso Beltrami nel quale si affermava: “A quel prete dategli delle bastonate di stile. E se il questore e il prefetto vi rompano i coglioni io scrivo a Roma”4. Balbo, attaccato da tutte le parti, aveva reagito negando ogni addebito e denunciando per diffamazione il giornale, ma aveva perso la causa e Mussolini lo aveva costretto a rassegnare le dimissione da Console della Milizia5. Ora stava da una parte, torvo e rancoroso nei confronti del duce che lo aveva scaricato senza tanti complimenti; probabilmente tramava nell’ombra, aspettando il momento della rivincita. Intanto s’incontrava segretamente con i suoi fedelissimi e aveva organizzato un comitato di camerati per assumere nel momento giusto il comando della milizia. Chi invece di ombra non ne voleva sentir parlare e anzi si metteva in evidenza in ogni modo era Roberto Farinacci che non perdeva occasione per invocare la seconda ondata rivoluzionaria, un pronunciamento generale degli squadristi capace di liquidare per sempre l’opposizione. La fibrillazione salì ulteriormente quando il 12 settembre Giuseppe Corvi, gridando “vendetta per Matteotti”, uccise il deputato fascista ed esponente delle corporazioni sindacali Armando Casalini. Imme-
diatamente Farinacci tuonò sulle colonne di “Cremona Nuova”, affermando che bisognava sopprimere la stampa contraria, farla finita con l’Aventino e se per tale operazione non fosse stata sufficiente la scopa si doveva usare la mitragliatrice6. Ancora una volta Mussolini si dimostrò abile, agendo su due fronti: da una parte operò sull’ambiente governativo, terrorizzandolo con le prospettive di una catastrofe economica e di una guerra civile che solo la sua persona poteva evitare, dall’altra predicando moderazione, almeno nei toni, agli estremisti.7 Questi però non ne volevano sapere, anzi avevano trovato un portavoce dalla penna tagliente; era un giovane esponente del fascismo della provincia, di quello dal volto feroce, Kurt Sucker, che più tardi avrebbe conosciuto fama con lo pseudonimo di Curzio Malaparte. Sucker, come i suoi mentori Balbo e Farinacci, era un massone di piazza del Gesù, ma mentre loro erano stati costretti ad assonnarsi per la volontà del capo e la conseguente delibera del Gran Consiglio8, lui se ne era fregato e dal mese di maggio9 sull’orbace portava il candido grembiulino d’apprendista. Irriverente nel suo estremismo fino a essere irritante, in un articolo intitolato Mussolini contro il fascismo aveva affermato che il duce doveva essere “o con noi o contro di noi”, insomma i camerati del “me ne frego” e dalla pistola facile non facevano sconti a nessuno, nemmeno al capo. Fra gli oppositori interni non vi erano, però, solo i massoni di Piazza del Gesù e i giustinianei, più impegnati, tuttavia, a combattere i confratelli dell’altra parrocchia che nel contestare il duce; l’uomo del destino doveva guardarsi le spalle anche da un’altra componente: gli ultranazionalisti. La maggior parte di loro erano ex combattenti pluridecorati, Consoli della milizia, picchiatori sfegatati e antimassoni convinti. Tredici di questi arrabbiati fecero comunella e decisero di mettere su un fronte comune che elesse quali leaders Aldo Tarabella10 e Enzo Galbiati. Ben presto il gruppo contò un’adesione di trentatre Consoli e a quel punto il manipolo decise di agire, di mettere Mussolini con le spalle al muro: il Capo, se voleva restare tale, doveva smettere di tergiversare, di dare un colpo alla botte e uno al cerchio; anch’essi erano dell’avviso di Su-
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cker: “o con noi o contro di noi”. Alla fine del dicembre del 1924 intervennero. Si ritrovarono nella Caserma romana della Milizia, comandata da Mario Candelori, poi in gruppetti di due o tre, per non suscitare sospetti, sciamarono nella Galleria Colonna. A quel punto irruppero in Palazzo Chigi, scostarono in mala maniera Quinto Navarra, il cameriere factotum di Mussolini,11 e comparvero davanti al duce. La sorpresa fu totale, il Romagnolo rimase allibito di fronte a quei camerati in camicia nera con il petto luccicante di medaglie. Fu Aldo Tarabella a parlare, senza mezzi termini: la situazione non era più sopportabile, basta con la diplomazia, basta con il prendere tempo, i fascisti inquisiti dovevano essere liberati, l’opposizione doveva cessare di esistere ora e sempre. Il duce replicò, affermando che la sua azione era stata bloccata da quel maledetto cadavere che gli era stato buttato fra le gambe; il ritrovamento del corpo di Giacomo Matteotti era stata una iattura, aveva messo a soqquadro il paese, scatenato la stampa nazionale e internazionale, ridato fiato ai comunisti, suscitato le perplessità dei liberali collaborazionisti, allontanato il ceto imprenditoriale, il fascismo si era di fatto trovato isolato e aveva perso fiancheggiatori. La risposta di Tarabella fu taglien-
te: che razza di capo rivoluzionario era quello che si faceva immobilizzare da un cadavere? I fascisti erano stanchi di tutto questo mollicume, in Toscana i camerati si stavano mobilitando, già 10.000 erano pronti e in altre regioni avveniva la stessa cosa. A quel punto Mussolini cercò di rabbonirli assicurando loro che sarebbe intervenuto, ribaltando la situazione: il 3 gennaio in Parlamento avrebbe scoperto le carte e da quel momento in poi il cadavere non avrebbe più creato problemi. Tompkins riferisce che a quel punto il gruppo dei 33 se ne andò, ma non rientrarono in caserma ritenendolo troppo pericoloso e, seguendo le indicazioni di un amico, si recarono in casa di una persona che Tarabella definì un “vecchietto”. Il vecchietto aveva da poco compiuto sessanta anni e si chiama Vittorio Raoul Palermi12, era a capo della Serenissima Gran Loggia d’Italia e si era palesato come fascista convinto e fedelissimo di Mussolini. Aldo Tarabella perciò si stupì e si offese quando il Gran Maestro di Piazza del Gesù affermò che il duce aveva fatto il suo tempo, andava imprigionato e caso mai sistemato con un colpo di pistola, così avrebbe avuto fine “una situazione intollerabile”. Mussolini, nonostante l’opposizione di casa, rimase ben saldo in sella, dimostrando un’abi33
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lità che gli altri nemmeno si sognavano. Per prima cosa tranquillizzò ulteriormente i consoli ribelli facendo loro pervenire una nota con la quale li ringraziava per avergli tolto “la nube che aveva davanti agli occhi e che gli impediva di vedere chiaramente”, quindi sistemò gli amici infidi e i nemici inconcludenti nella riunione parlamentare del 3 gennaio 1925, quando con un celebre discorso liquidò l’opposizione e istaurò il regime. Ma che fine fecero gli oppositori interni, gli insoddisfatti dell’estate del ‘24 e i consoli autori del blitz di palazzo Chigi? Gli uni e gli altri appartenevano ad aree di dissenso opposte: i primi avevano come leader Italo Balbo e Roberto Farinacci, legati da viscerale e reciproca antipa34
tia, e mantenevano legami con la Massoneria di Piazza del Gesù, i secondi, invece, consideravano la Libera Muratoria il veleno del fascismo. Fra i filomassonici, Italo Balbo ebbe in seguito gloria e onore ma come aviatore, trasvolatore, eroe dell’aria. In realtà fu estromesso dalla politica ed egli non se ne crucciava, tanto che nel 1929 affermava: “La politica non mi interessa più. Facciano quel che vogliano. Io m’occupo d’aeronautica”13. Idolatrato, con ingenti somme a disposizione, condusse una vita da satrapo, tanto che fu soprannominato “sciupone l’africano”. Egli, insomma, divenne un’icona da sventolare nelle manifestazioni ufficiali, ma in realtà gli fu precluso ogni accesso alla stanza dei bottoni. Il “selvaggio
Farinacci”, all’indomani del discorso del 3 gennaio, acquisì una posizione di potere, diventando segretario del Partito Fascista. Con questa nomina fu in grado di fare i conti con i Consoli ribelli e, per allontanare da sé ogni sospetto di massonismo, scatenò una vera e propria campagna contro i Liberi Muratori, fino a quando i fatti di sangue avvenuti a Firenze nell’ottobre del 192514 dettero origine al suo declino. Il 30 marzo del 1926 rimise le dimissioni dalla direzione del partito e da allora in poi visse ai margini della scena politica. Particolarmente interessante è, infine, la posizione dei capi del movimento dei consoli della Milizia che avevano forzato la mano a Mussolini poco prima del discorso del 3 gennaio. Nel maggio del 1925 Galbiati e Tarabella fondarono “L’Ordine dei soldati della buona guerra”, un’associazione che aveva per scopo l’avversare le infiltrazioni massoniche all’interno del partito fascista. In un primo momento sembrò che la loro azione fosse coronata da successo, tanto che Tarabella fu nominato segretario del Fascio di Milano. Fu una vittoria di Pirro, la controffensiva di Farinacci non si fece attendere: il Segretario generale diffidò gli iscritti ad aderire o anche a solidarizzare con “L’Ordine dei Soldati della Buona Guerra”; il 20 luglio, poi, fece radiare sia Tarabella15 che Galbiati16 dalla Milizia e il 10 agosto li espulse dal partito. I due non si rassegnarono. A partire dal 24 agosto fino a tutto settembre pubblicarono su “Il giornale di Milano” una serie di articoli che accusavano il ras di Cremona di essersi affiliato in Massoneria nel 1915 e di “fare il gioco dell’Obbedienza di Piazza del Gesù”. Scrive Renzo De Felice: “La polemica suscitò un’impressione vastissima e fu ripresa da vari giornali di opposizione […] ma come era prevedibile chi ebbe la meglio fu Farinacci”17. “L’Ordine dei Soldati della Buona Guerra” sopravvisse fino al 1927 e in questo lasso di tempo Aldo Tarabella cercò alleati nella sua battaglia contro Farinacci e i Figli della Vedova. In questo quadro s’inserisce un documento assai interessante, si tratta di un comunicato che il 12 marzo del 1926 egli inviò ad alcuni personaggi chiave dell’Italia di allora, fra i quali Giovanni Gentile. Il foglio lamentava le infiltrazioni massoniche nel par-
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tito, di cui era responsabile Roberto Farinacci, ancora per qualche giorno Segretario generale. Alla luce di questo scritto, che riporto integralmente, sorgono ulteriori dubbi sulla parte avuta da Palermi in quegli anni18. Il Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro viene presentato spesso come un millantatore ambizioso19, un illuso voltagabbana20, un truffaldino, tutto “menzogne, bottega, affarismo”21. Si dice che fosse una persona senza ritegno, capace di piagnucolare nel 1928 con Arnaldo Mussolini22 per ottenere un impiego “sicuro” che gli consentisse di mantenere l’onerosa famiglia. In realtà, quest’immagine quasi caricaturale dell’illustre massone, mi sembra non risponda al vero. La parte che egli ebbe nei drammatici eventi del 1924 fu forse più importante di quanto si pensi e l’ottimismo che nutriva sul futuro della sua Comunione, nonostante tutto, riposava non sulle fantasticheria di un “vecchietto” ma su una reale e concreta presenza di Piazza del Gesù in quei quadri del fascismo che, mossi da avventurismo, irrequietezza politica, arrivismo personale e utopie sansepolcriste, pensavano di avere un’altra parte e un altro peso nell’occupazione dello Stato; erano i sognatori di una “seconda ondata”, i seguaci di una liturgia del pugnale e del sacrificio sui quali una malintesa lettura della simbologia scozzese esercitava un certo fascino. Immaginarono forse un regime con un diverso duce, meno politico e più sacerdote, più vicino al mag-
ma ideologico delle origini. Si dimostrarono inadeguati davanti all’abilità tattica del duce e in questo furono emuli dell’opposizione che ben più della Corona ebbe gravi responsabilità nella morte dello stato democratico. \ Comunicato di Aldo Tarabella, “Capo dell’Ufficio Stampa dell’Ordine dei Soldati della Buona Guerra” a Giovanni Gentile – Milano 12 marzo 1926. Romani Imperii custos Sanctissima castrorum discipli Dopo l’approvazione della legge sulle Associazioni, la Massoneria del Grande Oriente d’Italia dichiarava sciolte le sue Logge e faceva appello ai suoi iscritti per ricostituirle in modo compatibile con la Legge. Ma un’intimazione del Partito Fascista faceva chiaro a quella Massoneria che il Fascismo non consente la vita a un organismo nettamente e pericolosamente nemico. Così non si sentì più parlare della Massoneria di P. Giustiniani che per citare una delle più importanti e lumino-
se vittorie del Fascismo. È noto al mondo politico che, oltre al Grande Oriente, esisteva in Italia l’altra Massoneria, di rito scozzese, detta di Piazza del Gesù. Questa Massoneria (vedi circolare del Gran Maestro del 16 Giugno 1925) rassicurava i suoi affiliati che, o che la legge antimassonica non sarebbe stata approvata o, comunque sarebbe stata tale da non danneggiare la Istituzione, poiché “l’Autorità non avrebbe chiesto gli elenchi”. È poi venuta la leg35
Note: 1 La macchia della Quartarella è una zona boscosa posta nel comune di Riano, un centro a nord – est della Capitale. 2 G. Carocci, Breve storia del fascismo, Milano 1972, p. 32. 3 P. Melograni, Confindustria e fascismo tra il 1919 e il 1925, in “Il Nuovo Osservatore”, novembre – dicembre 1965, pp. 855 e sgg.
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4 In “La Repubblica”, 12 gennaio 2002; sulle vicende di don Giovanni Minzoni cfr. N. Palumbi, Don Giovanni Minzoni. Educatore e martire, Milano 2003. 5 G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna. Il fascismo e le sue guerre, vol. IX, Milano 2002, p. 91. 6 G. Salotti, Breve storia del fascismo, Milano 1998, p. 118. 7 R. De Felice, Mussolini il fascista, vol. I, La conquista del potere 1921 – 1925, Torino 1966, p. 675.
ge: con circolare del 23 Novembre scorso il Gr. Maestro aggiunto G. M. Metelli, essendo il Palermi in America, decretava lo scioglimento delle Logge e Camere superiori e la loro ricostruzione con i fratelli che avrebbero accettato le disposizioni della Legge. Il Partito Fascista, in questa occasione, non si è pronunciato né ha creato difficoltà a questa manifestazione di vitalità massonica. Allo stato delle cose dunque la Massoneria di Piazza del Gesù non incontra l’ostilità delle attuali gerarchie del P.N.F. Non è una novità. Abbiamo già da tempo asserito che alcuni gerarchi del P.N.F. sono massoni, che anzi, lo stesso Farinacci è massone, che la Massoneria di P.d.G., trionfante della rivale, prospera coll’appoggio del Segretario Generale del P.N.F. – I suoi coriferi fanno di ciò una grande ragione d’orgoglio, vantando che Piazza del Gesù contiene i quadri e l’ossatura del P.N.F. che, combatterla, significa fare dell’anti fascismo. E oggi aggiungono che, senza Raul Palermi, amico della massoneria anglo – americana, non si avrebbero avute le favorevoli sistemazioni dei debiti inter alleati. A conforto di questa asserzione, che viene ripetuta ovunque, si mostrano delle fotografie ove R. Palermi risulta onorato dalla vicinanza del Presidente della Repubblica Americana, in occasione del viaggio intrapreso dal Gr. Maestro pochi giorni prima della partenza del Conte Volpi. Tali fotografie, inviate dallo stesso Palermi, sono illustrate da entusiastiche corrispondenze dello stesso che, da Washing36
ton, vanta le grandi accoglienze fattegli nel Gr. Tempio con signore musica, canti, gelati ecc. Si tenta di accreditare la panzana che il Sig. Palermi sia andato in America a preparare il terreno al Conte Volpi, mobilitando le sue grandi aderenze massoniche. Il fatto, più semplice, sta che il Sig. Palermi è andato per presenziare ai lavori annuali del Sup. Consiglio della Mass. Anglo – Americana, che incominciò a Washington i suoi lavori il 18 Ottobre ed ebbe la sua apertura ufficiale in seduta generale dei 33 e 32 il giorno 19. Senza speranza di risposta, ma per tenere la Massoneria nella morsa di una vigilanza che non si allenta, chiediamo: Poiché P.d.G. è ossequente alla Legge, farà anche finalmente ossequio alla Legge morale, imponendo ai suoi affiliati di non mentire e di non nascondersi negando la loro qualità di massoni? Si metterà dunque in armonia con i nuovi tempi che non tollerano il segreto pronuto di camorra e di immoralità? E, se la Massoneria è in pari colla Legge, avranno i Fascisti il dichiarato diritto di iscriversi nelle Logge? Ci si è rimproverato di condurre la nostra campagna fuori del partito fascista. Sarebbe forse possibile condurla nelle sue file? Perché dunque non sentiamo una sola voce levarsi dalle file del P.N.F. a denunciare lo scandalo massonico? E si milita degnamente in una organizzazione notoriamente inquinata da una potente società segreta, se non si fa tutto il possibile per distruggere il parassita?23
8 La riunione del Gran Consiglio si tenne il 13 febbraio del 1923; fra membri del Gran Consiglio erano i massoni Alessandro Dudan, Giacomo Acerbo, Cesare Rossi, Italo Balbo, Aldo Finzi, Giovanni Giurati e Roberto Farinacci. L. Pruneti, Annales Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. 1908 – 2012. Cronologia di storia della Massoneria italiana e internazionale, a.c. di A. A. Mola, Roma 2013, p. 86; L. Pruneti, La Sinagoga di Satana. Storia dell’antimassoneria 1725 – 2002, Bari 2002, p. 142. Si astennero dal votare l’incompatibilità fra partito e Massoneria Alessandro Dudan, Giacomo Acerbo, Cesare Rossi e Italo Balbo. A. A. Mola, Storia della massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni, Milano 1992, p. 512. Cfr. C. Rossi, Mussolini com’era, Roma 1947, pp. 174 – 185. 9 L. Pruneti, Annales Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. 1908 – 20 … cit., p. 17. 10 G. Candeloro, Il fascismo e le sue guerre, Milano 1993, p. 94. 11 P. Tompkins, Dalle carte segrete del duce, Milano 2001, p. 222 e segg. 12 Palermi era nato a Firenze il 20 maggio del 1864. G. M. Tonlorenzi, Raoul Vittorio Palermi tra massoneria e fascismo, Bari 2003, p. 27. 13 U. Ojetti, I taccuini (1914 – 1943), Firenze 1954, p. 326. 14 L. Pruneti, La Sinagoga di Satana. Storia dell’antimassoneria 1725 – 2002 … cit., p. 147 e segg.; S. Bertoldi, Camicia nera, fatti e misfatti di un ventennio italiano, Milano 1998, p. 40; L. Pruneti, Aquile e corone. L’Italia il Montenegro e la massoneria dalle nozze di Vittorio Emanuele III ed Elena al governo Mussolini, Firenze 2012, pp. 88 -91; R. Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino 1919 – 1925, Firenze 1972, p. 53; A. Marcolin, Firenze in camicia nera, Firenze 1993, p. 28 e segg.; G. Salotti, Breve storia del fascismo … cit., p. 122; R. De Felice, Mussolini il fascista, vol. II, L’organizzazione dello stato fascista 1925 1929, Torino 1995, p. 131 e segg.
15 R. De Felice, Mussolini il fascista, vol. II, L’organizzazione dello stato fascista 1925 – 1929 … cit., p. 58. 16 Aldo Tarabella fu in seguito riammesso nel partito; morì in un incidente aereonautico nel 1930. Ivi p. 58. 17 Enzo (Emilio) Galbiati fu riammesso nel Partito il 14 luglio del 1926 e fu l’ultimo comandante della Milizia. Morì a Solbiate, vicino a Como, il 23 maggio del 1982. Ivi, p. 58; Dizionario Biografico degli Italiani, vol. LI, Roma 1998.
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18 Sul delitto Matteotti e i rapporti fra Massoneria e fascismo cfr. G. Vannoni, Massoneria fascismo e Chiesa cattolica, Bari 1980, p. 98. 19 Scrive Terzaghi: “Egli [Palermi] era accecato dal suo unilateralismo e dalla sua ambizione, la quale ultima soprattutto nacque a lui colla Massoneria”. M. Terzaghi, Massoneria e fascismo, Milano 1950, p. 70. 20 L. Pruneti, La Tradizione Massonica Scozzese in Italia. Storia del Supremo Consiglio e della Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. Obbedienza di Piazza del Gesù dal 1805 ad oggi, Roma 1994, p. 153. 21 Archivio della Gran Loggia d’Italia, Balaustra n. 44, Grande Oriente di Roma 1 luglio 1947. F.to Giulio Cesare Terzani. Cfr. M. Moramarco, Piazza del Gesù (1944 – 1968). Documenti rari e inediti della tradizione massonica italiana, Reggio Emilia 1992, p. 6. 22 Sui rapporti fra Vittorio Raoul Palermi e Arnaldo Mussolini cfr. G. M. Tonlorenzi, Raoul Vittorio Palermi tra massoneria e fascismo … cit., p. 105 e segg. 23 Fondazione Giovanni Gentile, Fondo Giovanni Gentile, serie 1: Corrispondenza, sottoserie 2: Lettere inviate a Giovanni Gentile / T, busta 123. Bibliografia: S. Bertoldi, Camicia nera, fatti e misfatti di un ventennio italiano, Milano 1998. G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna. Il fascismo e le sue guerre, vol. IX, Milano 2002. G. Carocci, Breve storia del fascismo, Milano 1972. R. De Felice, Mussolini il fascista, vol. I, La conquista del potere 1921 – 1925, Torino 1966. R. De Felice, Mussolini il fascista, vol. II, L’organizzazione dello stato fascista 1925 - 1929, Torino 1995. A. Marcolin, Firenze in camicia nera, Firenze 1993. P. Melograni, Confindustria e fascismo tra il 1919 e il 1925, in “Il Nuovo Osservatore”, novembre – dicembre 1965. A. A. Mola, Storia della massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni, Milano 1992. M. Moramarco, Piazza del Gesù (1944 – 1968). Documenti rari e inediti della tradizione massonica italiana, Reggio Emilia 1992.
U. Ojetti, I taccuini (1914 – 1943), Firenze 1954. N. Palumbi, Don Giovanni Minzoni. Educatore e martire, Milano 2003. L. Pruneti, Annales Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. 1908 – 2012. Cronologia di storia della Massoneria italiana e internazionale, a.c. di A. A. Mola, Roma 2013. L. Pruneti, Aquile e corone. L’Italia il Montenegro e la massoneria dalle nozze di Vittorio Emanuele III ed Elena al governo Mussolini, Firenze 2012. L. Pruneti, La Sinagoga di Satana. Storia dell’antimassoneria 1725 – 2002, Bari 2002. L. Pruneti, La Tradizione Massonica Scozzese in Italia. Storia del Supremo Consiglio e della Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. Obbedienza di Piazza del Gesù dal 1805 ad oggi, Roma 1994. C. Rossi, Mussolini com’era, Roma 1947. G. Salotti, Breve storia del fascismo, Milano 1998. M. Terzaghi, Massoneria e fascismo, Milano 1950.
P. Tompkins, Dalle carte segrete del duce, Milano 2001. G. M. Tonlorenzi, Raoul Vittorio Palermi tra massoneria e fascismo, Bari 2003. G. Vannoni, Massoneria fascismo e Chiesa cattolica, Bari 1980. Documenti: Archivio della Gran Loggia d’Italia, Balaustra n. 44, Grande Oriente di Roma 1 luglio 1947. F.to Giulio Cesare Terzani. Fondazione Giovanni Gentile, Fondo Giovanni Gentile, serie 1: Corrispondenza, sottoserie 2: Lettere inviate a Giovanni Gentile / T, busta 123. P.30: Matteotti insieme ad altri deputati; p.23: Il Brigadiere Ovidio Caratelli e - destra - il trasporto della salma di Matteotti; in basso: Benito Mussolini; p.32-33: Ritratti di Benito Mussolini; al centro Kurt Sucker (Curzio Malaparte); p.34: Roma, il Re e Mussolini in carrozza; p.35: Italo Balbo e una scultura commemorativa della trasvolata atlantica; p.36: Mussolini durante la Marcia su Roma; p:37: Vittorio Emanuele III, anni ‘20 circa.
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Occultismo
I Tarocchi nel secolo dei Lumi Dall’egittomania al mito dell’origine occulta Marco Ghione
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L’
attribuzione di significati occulti alle carte dei Tarocchi e la loro associazione alla magia e alla cartomanzia compongono un fenomeno culturale di cui non si hanno fonti certe durante il Rinascimento. L’uso magico e divinatorio degli Arcani godrà, infatti, di una straordinaria fortuna a partire dalla Francia del tardo Settecento, fino a giocare negli ambienti culturali percorsi da interessi esoterici un ruolo di prima grandezza. Il matrimonio tra Tarocchi e pratiche divinatorie si compie nella tarda Età Moderna. Compito della mia esposizione sarà allora raccontare un breve excursus sul passaggio degli Arcani al loro impiego magico e divinatorio, senza soffermarmi sulle particolari pratiche in tal senso che li vedono protagonisti. Il Settecento è il secolo che consegna i Tarocchi ai domini della cartomanzia e delle ritualità magiche. È necessario tuttavia precisare che il XVIII secolo costituisce anche l’età aurea della produzione dei giochi di carte, soprattutto a scene fantastiche, che seguono le mode e i gusti culturali del tempo. Le fabbriche di carte francesi acquisiscono in Europa il monopolio della produzione e vengono dati alle stampe trionfi con simboli e immagini animali, carte che raffigurano scene di vita quotidiana o anche a carattere ludico-istruttivo. Nelle illustrazioni è spesso presente un rilevante gusto esotico, che si rifà alla percezione dell’Oriente dell’epoca o alle grandi civiltà del passato. Così, dopo le Wunderkammern barocche, lo spirito artistico nelle decorazioni e negli arredamenti cerca l’incontro con motivi orientali o almeno assai distanti temporalmente. Nel campo filosofico, due tendenze di pensiero che si manifestano in pieno XVIII secolo sono lo spinozismo1 e il cosmoteismo, che recano con loro la visione di una divinità immanente profondamente immersa nel cosmo. Si tratta di una Naturphilosophie che i primi romantici cercano di scorgere nello studio dei culti dell’antico Egitto e del1 Sull’importanza della recezione di Baruch Spinoza per la formazione del pensiero illuminista si veda J. Israel, Radical Enlightenment; Philosophy and the Making of Modernity 1650– 1750, Oxford University Press, Oxford, 2001.
Occultismo
‘‘Se un prigioniero senza libri possedesse il Tarocco e sapesse servirsene, potrebbe in pochi anni acquistare una scienza universale e parlare di ogni cosa con inesauribile eloquenza’’ Eliphas Levi
le civiltà passate2 alla ricerca di una mitica sorgente comune di tutte le credenze. Mentre l’egittomania percorre l’Europa di allora, Court de Gébelin nel suo Monde Primitif dichiara l’origine egizia degli arcani. Antoine Court de Gébelin (1725 o forse 1719 –1784)3, protestan2 Sul punto cfr. Jan Assmann, Moses der Ägypter: Entzifferung einer Gedächtnisspur, München, 1998; trad. ital., Mosè l’egizio. Decifrazione di una traccia di memoria, Milano, 2007, passim. 3 La data di nascita dell’autore è incerta. Ufficialmente nacque nel 1728 in Svizzera; tuttavia viene anticipata dagli studiosi al 1725 o addirittura al 1719. Il padre di De Gebelin avrebbe nascosto con una data più recente il grande ritardo nello sviluppo patito dal figlio nella prima infanzia. Vedi Decker-Depaulis-Dummett, A
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Occultismo
te e massone, abbandonò presto la carriera ecclesiastica e divenne membro della loggia Les amis Reunis; inoltre contribuì a fondare la Loggia di ricerca dei Filaleti. Non gli mancarono tuttavia contatti influenti e una certa fama nel più ampio mondo culturale di allora: fu presidente del Musée, una società letteraria parigina, e amico degli enciclopedisti Diderot e D’Alembert. Ebbe frequentazioni con gli scienziati Franklin e Lalande, i teorici della rivoluzione Danton e Desmoulin e con l’eroe dell’indipendenza americana La Fayette, tutti adepti come lui della Loggia massonica Les Neuf Soeurs, che De Gébelin stesso diresse per due anni. Degne di nota sono anche le sue amicizie con Jean Baptiste Willermoz, fondatore del rito scozzese rettificato, e con Louis Claude De Saint Martin, due personalità che lasceranno un segno indelebile nel mondo massonico ed esoterico. L’intento di De Gébelin, comune anche ad alcuni suoi contemporanei, in questo figli del Rinascimento della philosophia perennis4 ancor prima che dei Lumi, era la riwicked pack of cards - The Origins of the Occult Tarot, London, 1996, p. 53. 4 La philosophia perennis è la prospettiva del pensiero neoplatonico del Rinascimento che ri-
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cerca dell’antichissima sapienza primordiale, alle origini della civiltà umana, le cui membra sparse erano sopravvissute all’affronto dei secoli in diverse conoscenze, attinenti sia alle discipline esoteriche allora studiate e praticate nelle obbedienze massoniche5, che alle scienze figlie dell’indagine matematica ed empirica. Questa ansiosa ricerca delle origini è una cifra caratteristica della cultura intellettuale dell’epoca: nell’ultimo scorcio del Secolo dei Lumi il savant francese Charles Dupuis scrive l’Origine de tous les Cultes, ou la Réligion Universelle6, un lavoro in dodici volumi che lo impegna a dimostrare l’unica radice di tutte le mitologie e religioni tramite la sapienza astronomica. De Gébelin tenta invece di coronare il suo programma d’intenti nella redazioprende le visioni speculative della tarda paganità e le dottrine del Corpus Hermeticum, secondo le quali tutte le religioni sarebbero portatrici dell’identica verità. 5 Intorno alla diffusione delle conoscenze esoteriche nella Massoneria nel periodo del suo radicamento nel Continente si veda René Le Forestier, La Franc-MaçonnerieTemplière et Occultiste au XVIII et XIX siècles, Paris, 1970. 6 Charles Dupuis, Origine de tous les cultes ou Religion universelle, H. Agasse, Paris, 1795.
ne di un’opera monumentale, Le Monde Primitif Analysé et Comparé avec le Monde Moderne7, destinata a rimanere inconclusa. Nove libri riescono comunque a essere dati alle stampe, dal 1773 al 1782. L’ottavo volume del Monde Primitif, dal titolo L’histoire, le blason, les monnaies, les jeux8, è quasi interamente dedicato ai Tarocchi, che De Gébelin analizza prendendo a modello la versione Marsigliese, ignorando quindi le più antiche edizioni delle carte risalenti al Quattrocento italiano. Gli Arcani secondo l’autore sarebbero l’ultima vestigia della sapienza dell’antico Egitto, il leggendario libro di Thoth, che nel loro linguaggio figurato esprimevano il codice di un’antica saggezza alle origini dell’umanità. Le carte sarebbero state introdotte in Europa dagli zingari, che l’erudito francese riteneva a torto un’etnia di origine egizia. Un motivo centrale degli hommes de lettres coevi al nostro studioso era del resto la ricerca di una lingua primordiale perfetta, valida per ogni comunicazione9. L’attrazione per l’Egitto si sposava quindi all’ammirazione per il linguaggio dei geroglifici, allora ancora indecifrato, traccia di un idioma universale dai caratteri arcani. Bisogna precisare che l’idea che fa del Paese del Nilo la terra di una conoscenza antichissima ed elevata risale al mondo classico: è infatti ben presente in autori antichi come Erodoto, Cassio Dione, Diodoro Siculo e Plutarco10. Nella prima Età Moderna tale idea viene rinvigorita dalla diffusione di due opere, gli Ierogiphica di Orapollo11 e il Corpus Herme7 Antoine Court de Gébelin, Monde primitif analysé et comparé avec le monde moderne, Paris, 1773-1782. 8 Recentemente tradotto e ristampato in italiano: Antoine Court de Gebelin, Il gioco dei tarocchi, Roma, 2013. 9 La letteratura sul tema della lingua primordiale dell’umanità e la sua fortuna tra i pensatori dell’Età Moderna è sterminata. A titolo introduttivo rimane rilevante Umberto Eco, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Roma-Bari, 1993. 10 Per una ricognizione dell’argomento si legga Erik Hornung, Das esoterische Agypten. Das geheime Wissen der Agypter und sein Einfluss auf das Abendland, Beck, München, 1999, traduzione italiana Egitto esoterico. La sapienza segreta degli egizi e il suo influsso sull’Occidente, Torino, 2006, pp. 33-42. 11 Gli Hieroglyphica, redatti probabilmente in-
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ticum. Come è noto, la scoperta e diffusione del Corpus nell’Europa latina è un evento di importanza epocale. Questa collezione di testi, diciassette trattati che risalgono alla tarda età ellenistica, viene ritrovata a Costantinopoli nel 1459 dal monaco Leonardo da Pistoia. Il principale libro dell’ermetismo viene in seguito tradotto in volgare da Tommaso Benci nel 1463 e dato alle stampe nel 1471 secondo la traduzione latina di Marsilio Ficino. Il Corpus è attribuito a Ermete Trismegisto, figura di prodigioso sapiente che sarebbe vissuto in Egitto molto prima di Platone, all’epoca di Mosè12. torno al V secolo d. C., sono l’unico trattato sui geroglifici che ci è pervenuto dal mondo classico. Il libro fu scoperto nel 1419 sull’isola di Andros e portato a Firenze da Cristoforo Buondelmonti. Il testo raggiunse una grande popolarità tra gli umanisti e venne stampato nel 1505 e tradotto in latino nel 1517. 12 Nel 1614 uno scritto del filologo Isaac Casaubon, De rebus sacris et ecclesiasticis exercitationes XVI, smentisce l’antichità del Corpus Hermeticum. Casaubon data la collezione di scritti di Ermete Trismegisto ai primi secoli dell’era cristiana. Questa scoperta filologica, accettata in seguito quasi unanimemente dalla comunità scientifica, è stata definita dalla storica delle idee Francis Amalia Yates come un vero spartiacque nella storia culturale moderna. Ralph Cudworth, il leader del circolo dei platonici di
Prima della capitale scoperta della stele di Rosetta da parte di Champollion, data di battesimo dello studio scientifico dell’antico Egitto, la terra del Nilo è quindi avvertita nella cultura occidentale come la madre di un’antica saggezza. Il Settecento subisce ancora l’onda lunga di questa influenza e anzi la ammanta di ulteriore mistero. Agli inizi del secolo l’Abate Terrasson pubblica il romanzo Sethos o Vita tratta dai monumenti e aneddoti dell’antico Egitto, falsamente tradotto dal greco, che narra in modo fantasioso delle antiche iniziazioni dell’epoca delle piramidi. Quindi l’egittomania estende la sua influenza anche alla musica: è innegabile che sotto il segno dello stesso Zeitgeist veda la luce lo Zauberflöte di Wolfgang Amadeus Mozart. Il grande musicista conosceva il Crata Repoa, centone di diverse opere antiche che trattavano dei misteri dell’Egitto di appena trentadue pagine, riunite da Karl Friedrich von Köppen, ufficiale prussiano e fondatore di un rito massonico ispirato all’antico Egitto, gli Architetti africani, e da Bernhard Hymmen. Peraltro esiste una strada più diretta che ha influenzato Mozart e il suo Flauto Magico attraverso l’esalCambridge, si oppose alla tesi di Casaubon dalle pagine del suo The True Intellectual System of the Universe.
tazione della saggezza degli Egizi: Ignaz Von Born, maestro venerabile della Loggia di Mozart La Benevolenza, e illustre mineralologo13, nel 1789 fondò il Journal für Freimauer. Il primo numero della sua rivista si apre proprio con un lungo articolo di Von Born sui misteri egizi, che influenzò il librettista del Flauto Magico e il primo Papageno della storia della lirica, Emanuel Schikaneder (mentre la figura sacerdotale di Sarastro sembra ricalcata su Von Born). In questa temperie culturale si colloca l’opera di De Gébelin. Il nostro maestro massone aggiunge alle sue tesi anche alcune fantasiose etimologie sui nomi degli Arcani, tutti derivanti dall’antica lingua del Nilo. Così Tarocco secondo l’autore deriverebbe dalla coppia di termini Tar Ros e risulterebbe traducibile come “sentiero reale della vita”; il nome del primo Arcano, Il Bagatto, risalirebbe invece a Pag e Gad, “Signore del destino”. Il saggio di De Gébelin sul Tarocco è accompagnato dallo scritto di un altro autore 13 Ignaz Edler von Born (1742-1791), nato in una nobile famiglia transilvana di origini sassoni, oltre alla notevole attività muratoria si distinse per i contributi nei campi della mineralogia e della metallurgia. In suo onore è stata battezzata la Bornite, solfuro importante per l’estrazione del rame.
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sullo stesso argomento, dedicato all’arte della divinazione mediante gli Arcani; questo secondo saggio, che De Gébelin acclude al proprio, concerne la divinazione con il Tarocco secondo il suo uso presso gli Egizi. Nel testo l’identità di questo autore è celata da un acrostico. Egli viene definito come “M. le C. de M.”, che gli studiosi Decker-Depaulis-Dummett ricostruiscono in Louis-Raphael-LucrécedeFayolle, conte di Mellet (1727-1804)14. Questi era un collaboratore di Court de Gébelin, che aveva aiutato a comporre la sua opera. Ufficiale di cavalleria, De Mellet fu nominato governatore del Maine e del Perche e insignito della Gran Croce dell’Ordine di San Luigi. Una frase di De Mellet ci aiuta a meglio comprendere il tenore delle idee esposte nel suo saggio: “Ventidue tavole formano un libro ben poco voluminoso; ma se, come appare verosimile, le Tradizioni primordiali sono state conservate nei Poemi, una semplice immagine, capace di fissare l’attenzione del popolo, al quale veniva spiegato il fatto, gli serviva di supporto mnemotecnico, al pari dei versi che le descrivevano”. 14 Decker-Depaulis-Dummett, A wicked pack of cards, cit., p. 67.
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Appare subito di una certa importanza il richiamo di De Mellet alla mnemotecnica15. Questo potrebbe ben significare che i fili della conoscenza tra i più antichi mazzi di carte del Quattrocento e l’Eà dei Lumi non erano andati persi; al contrario, il legame delle Logge e dei circoli intellettuali del Settecento con la cultura del Rinascimento italiano non doveva essersi completamente reciso. Una figura decisiva per la fortuna dei Tarocchi come strumento magico e divinatorio fu pure il padre della cartomanzia moderna, Jean-Baptiste Alliette, più noto con il suo pseudonimo di Etteilla. Alliette, che come De Gébelin appartiene alla Loggia di ricerca dei Filaleti, nel 1785 pubblica il suo libro sui Tarocchi, Manière de se récréer avec le jeu de cartes nomées Tarots, il primo volume a dedicarsi esplicitamente alla divinazione con gli arcani. Nel riscrivere la storia delle carte Etteilla concorda con De Gébelin e attribuisce la nascita dei Tarocchi all’antico Egitto e 15 Il legame tra i Tarocchi e l’ars memorandi rinascimentale è analizzato da Paolo Aldo Rossi in Il gioco dei tarocchi fra ermetismo e teatro della memoria, in Tarocchi: le carte del destino, a cura di G. Berti, P. Marsilli e A. Vitali, Le Tarot, Faenza, 1988.
tuttavia la sua analisi si colora di speculazioni ben più fantasiose. Per l’autore le settantotto carte sarebbero una creazione di diciassette maghi del tempio del Fuoco di Memphis, discendenti di Thoth, esattamente milleottocentoventotto anni dopo la creazione del mondo. Un impatto ancora più notevole hanno gli scritti di Jean Alphonse Louis Constant (1810-1875), che usa lo pseudonimo di Eliphas Levi. Senza tema di smentite Levi è uno dei principali artefici del revival occultista nella Francia del secondo Ottocento16. Il suo percorso intellettuale nella magia e nel mondo occulto è complesso e sfaccetato, ma ruota intorno al suo studio della Bibbia e del cristianesimo delle origini, alla conoscenza e all’approfondimento della cabbala, e all’interesse di Constant per il mesmerismo17, ri16 Cfr. Christoph Mc Hintosh, Éliphas Lévi and the French Occult Revival, London, 1972. 17 Il termine indica la dottrina del magnetismo animale del dottor Franz Anton Mesmer (17341815), medico svevo. Mesmer credeva che tutti gli esseri viventi possedessero poteri invisibili, causati da un fluido magnetico, con i quali era possibile operare guarigioni. La teoria guadagnò numerosi sostenitori tra la fine del XVIII ed il XIX secolo; tuttavia non venne mai ricono-
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tenuto la fonte ultima dei fenomeni magici e paranormali. In uno dei suoi testi più celebri, Dogme et Rituel de l’Haute Magie18, un libro diviso in due tomi dallo stile assai farraginoso, Levi collega i ventidue Arcani maggiori dei Tarocchi alle ventidue lettere dell’alfabeto ebraico. I due volumi del Dogme si articolano in ventidue capitoli, ognuno dei quali è associato a uno dei ventidue Arcani maggiori e a una lettera. Si tratta di una interpretazione che l’esoterista francese illustra nel ventiduesimo capitolo del Rituel, il secondo tomo dell’opera Le livre d’Hermes. Nel capitolo Levi prende le distanze da Court de Gébelin ed Etteilla e al contrario di loro sostiene l’origine ebraica del Tarocco. Levi definisce addirittura il gioco di carte: “… chiave delle arti magiche e di tutti gli antichi dogmi religiosi, perduta dopo la distruzione del Tempio sciuta dalla scienza medica. Nel 1784 Luigi XVi nominò una commissione, di cui erano membri Antoine Lavoisier e Benjamin Franklin, per stabilire l’evidenza scientifica del mesmerismo. Il parere della commissione fu negativo, nondimeno l’approccio terapeutico proposto da Mesmer non cessò di essere diffuso e praticato. 18 Eliphas Levi, Dogme et Rituel de l’haute Magie, Baillière, Paris, 1854-1856.
di Gerusalemme”19. A dire il vero alcune corrispondenze, come quelle tra alcune carte e le sephiroth o i sentieri (cineroth) dell’albero cabalistico erano già presenti in De Gébelin; tuttavia a Constant va il merito di averle sviluppate in forma chiara ed esplicita. Proprio il legame tra lettere ebraiche, cabala e Arcani risulta di capitale importanza, poiché si tratta di un’interpretazione che verrà accolta dalla gran parte degli ordini magici ed esoterici a lui posteriori e certo dai più noti, in primis l’inglese Golden Dawn, fondata a Londra nel 1888 da Wynn Westcott e Samuel Liddell McGregor-Mathers. Insomma, con Levi si assiste a una specie di cambio di paradigma: il ruolo di augusto genitore dei Tarocchi passa dall’Egitto delle piramidi alla cabbala ebraica. Queste concezioni si diffondono profondamente nel milieu esoterico di fine XIX secolo, decretando la fortuna dei Tarocchi e la loro immediata associazione con la cabala e la magia cerimoniale. Tra i molti discepoli e continuatori di Levi merita attenzione Jean Batiste Pitois, let19 Dogme et Rituel de l’Haute Magie, cit.; trad. ital. del secondo volume Rituale dell’Alta Magia, Roma, 1983, p. 143.
terato e giornalista che nascose la sua ampia produzione sotto una notevole quantità di pseudonimi. Pitois si forma grazie al suo lavoro alla biblioteque de l’Arsenal, dove cataloga i libri provenienti dai monasteri sequestrati durante le campagne napoleoniche, e alla sua frequentazione del cenacolo dello scrittore Charles Nodier, direttore della biblioteca stessa. Va precisato che intorno a Nodier gravitavano stelle di prima grandezza del firmamento intellettuale parigino, come Hugo, Balzac e Delacroix. Nel 1852 Pitois conosce Eliphas Levi e per un certo periodo si unisce ai suoi studi di cabala e Tarocchi, ma solo undici anni più tardi pubblica la sua opera più importante, L’Homme Rouge des Tulieres. Sotto lo pseudonimo di Paul Christian lo scrittore presenta un trattato di astrologia onomantica, una disciplina invero poco frequentata dai cultori delle stelle, che risale all’astronomo medievale Ibn Ezra. Pitois si serve tuttavia nella sua lettura degli oroscopi delle settantotto carte del Tarocco, che chiama Lame Ermetiche. Con grande diversità rispetto all’interpretazione di Levi, ogni carta rappresenta un genio planetario e ha una funzione eminentemente astrologica. I tarocchi e l’egittomania ri43
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tornano insieme in un lavoro più tardo di Paul Christian, l’Historie de la Magie et du Monde Surnaturel (1870). Un racconto fantastico dell’iniziazione egizia nell’antica piramide di Menfi occupa infatti gran parte dell’opera. A un certo punto della narrazione, all’iniziato si offre la visione di una parete 44
con ventidue figure simboliche, gli “arcani della Scienza del Volere”. Pitois afferma di aver ripreso l’episodio dal De Mysteriis Aegyptorum di Giamblico, quando in realtà si tratta di un’interpolazione dal Sethos di Terrasson. Qualche decennio dopo la morte di Pitois, Renè Falconnier fece stampare e allegare ai due suoi volu-
mi ventidue trionfi, composti secondo le descrizioni dello scrittore. Un’altra figura centrale, che ha contribuito a traghettare l’interpretazione dei Tarocchi nell’epoca contemporanea, è Artur Edward Waite. Esoterista americano, membro della Golden Dawn e della Societas Rosicruciana in Anglia, lega il proprio nome alla creazione di un nuovo mazzo di Tarocchi, il Rider-Waite, disegnato in collaborazione con l’illustratrice Pamela Colman Smith nel 1909. L’anno seguente Waite pubblica un breve commento alle sue carte, The Key to the Tarot, seguito nel 1911 da una nuova e più ricca versione dello scritto, The Pictorial Key to the Tarot. Waite riprende in parte le idee già esposte da Mc Gregor Mathers in The Tarot, il suo corto saggio sugli arcani del 1888, e tuttavia le amplia e vi aggiunge l’analisi dei cinquantasei Arcani minori, che godono ognuno di una propria precisa simbologia, come del resto l’illustrazione di ogni carta dimostra. Secondo Giordano Berti, che si rifà a Stuart Kaplan, il modello del mazzo Rider-Waite sarebbe il Sola-Busca, uno dei più antichi tarocchi conosciuti, certo il più antico ad esserci arrivato com-
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pleto, prodotto forse a Ferrara nel 149120. Di certo Waite sconfessa le attribuzioni egizie di Gebelin ed Etteilla e riconduce, come il francese Oswald Wirth, la nascita del gioco ai tempi dell’Umanesimo. Infine nell’autobiografia Shadows of Life and Thought21, lo studioso anglosassone propone la sua idea del Tarocco, affatto diversa sia da Levi sia dagli eruditi del secolo della rivoluzione. Per Waite non vi è un deposito di antica sapienza dietro il gioco degli Arcani, piuttosto il metodo per strappare ai Trionfi i loro segreti si approssima a una ricerca individuale e svincolata da ogni 20 Stuart Kaplan, Encyclopedia of Tarot, U.S. Games Systems, 1990, vol. III, p. 30. 21 A. E. Waite, Shadows of Life and Thought: A Retrospective Review in the Form of Memoirs, London, 1938.
sacra investitura: “È necessario comprendere che l’essenza dell’occultismo dipende solo dall’intuizione e dall’invenzione personale. Levi disse di aver ricevuto la sua iniziazione solo da Dio e dalle sue ricerche personali”22. Nell’operazione storica che progressivamente rende i Tarocchi degli strumenti di divinazione e di operatività magiche a parere di chi scrive si perde qualcosa di essenziale. Dietro i fumi dell’occultismo ottocentesco, ormai vincolata a numerosi codici magici e simbolici in via di formazione e in genere incerti, la potenza evocativa delle carte rispetto al Rinascimento dell’ars memorandi sembra in effetti perdere qualcosa. Gli Arcani conquisteranno mano a mano nuovi orizzonti di sen22 Shadows of Life and Thought, cit., p. 143, trad. propria.
so, in apparenza inesauribili, nello spazio che dedicheranno loro nel Novecento scrittori, esoteristi e anche artisti. Il rovescio della medaglia di questa ricchezza è l’esplosione a fini commerciali di ogni possibile variante dei Tarocchi, presentati spesso nelle forme più distanti dalle loro simbologie più antiche e accreditate. Tutto ciò comporta una sempre maggiore presenza dei Tarocchi nella cultura popolare, dove hanno finito per assurgere al ruolo di compagni inseparabili del mago e dell’esoterista, oltre che del cartomante, paraphernalia d’ordinanza del nuovo, ed insieme ciclico, senso del meraviglioso del Novecento. P.38: Apoteosi di Voltaire, stampa, XVIII sec; p.39, 40, 42/45: Tarocchi di vari mazzi, fine XVIII sec; p.41: La Sfinge, olio dell’orientalista J.L.Gérôme.
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‘‘Le donne son venute in eccellenza...’’ parte I
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a non si tratta - verrebbe da chiedersi - di quello stesso Ariosto che nella Satira Terza aveva insinuato il dubbio che la donna fosse un fanciullo-adulto, ovviamente scriteriato, quindi pericoloso, la quale deve essere diretta dal maschio, in quanto incapace da sola di condursi secondo ragione? Qui non è presente la consueta e ritrita mi soginia fatta di insulti intessuti sull’ordito della pretesa inferiorità delle femmine, ma una indagine psicologica atta a dimostrare come la donna resti necessariamente un uomo imperfetto, un essere nel quale si produce un netto squilibrio fra lo sviluppo biologico (che procede normalmente dall’ infanzia alla vecchiaia) e quello psichico (che s’arresta allo stadio della fanciullezza). La misoginia, quel perfido metabolismo per cui il latte materno esce dalla bocca del figlio sotto forma di veleno, non è uno stato mentale costante del maschio intelligente (solo per l’idiota è una fissazione, una bandiera, un’ideologia inscalfibile), per tutti gli altri è un momento dialettico, fa parte della storia persona-
‘‘Le donne son venute in eccellenza / di ciascun’ arte ove hanno posto cura / e qualunque all’istorie abbia avvertenza, / ne sente ancor la fama non oscura’’ Ariosto, Orlando Furioso, XX, ott. 2 le ma, quando si manifesta, pretende di assumere il ruolo di categoria metafisica, per ridimensionarsi nuovamente a semplice categoria storica. Lo stesso principe di Griselidis, il modello irraggiungibile del perfetto e profondo misogino, fa eccezione nei riguardi di una donna: quella Griselda che sottoposta a inimmaginabili ed atrocissime prove, riscatta e redime, seppur solo in parte, il suo sesso malvagio.
Le età dell’Umanesimo e del Rinascimento sono provvide di esempi di uomini che hanno alternato in loro una feroce misoginia ad un tenero femminismo. Quale è l’autentico pensiero del Boccaccio sulle donne: quello che gli fa mettere in scena le “donne savie” del Decameron o l’immonda immagine escremenziale che appare dal Corbaccio? “ .. Niuno altro animale è meno netto di lei; non il porco, qualora è più nel loto convolto aggiugne alla bruttezza di loro; e se forse alcuno questo negasse, ricerchinsi i luoghi secreti dove esse, vergognandosene, nascondono gli orribili strumenti, li quali a tor via li loro superflui umori adoperano” O ancora: vien da domandarsi se sia sempre un unico autore colui che scrive i due seguenti brani?: «...come corte alcuna, per grande che ella sia, non po’ aver ornamento o splendore in sé, né allegria senza donne, né cortegiano alcun essere aggraziato, piacevole o ardito, né far mai opera leggiadra di 47
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cavalleria, se non mosso dalla pratica e dall’amore e piacer di donne, così ancora il ragionar del cortegiano è sempre imperfettissimo, se le donne, interponendovisi non danno lor parte di quella grazia con la quale fanno perfetta ed adornano la cortegiania» “E se donna sana in molte sue parti pute, che cosa può esservi di più nauseante e ripugnante della donna malata? [...] Quante donne vediamo ogni dì, dal contatto delle quali ci parrebbe di rimanere in sozzati come da cosa laida e lorda! Per nessun prezzo e a nessun patto t’indurre48
sti a trascorrere una notte con una di costoro. Immaginate allora un po’ che proprio una di queste vi sia destinata per moglie. [...] Pensate, perdio, qual sarà l’animo vostro, allorché, dopo le fatiche della vita pubblica, tornerete stanchi a casa per trovarvi la quiete, e sulla porta vi verrà incontro una donna con la faccia allungata e cadaverica, con denti guasti, fiato putrido, occhi strabuzzati e distorti, gran raccapriccio destandovi col suo corpo orrendo. [...] E quando sarete costretti ad andarci a letto insieme, non vi parrà di esser condotti alla tortura? Non vi vorrà essa abbracciare? non vi vorrà forse baciare? E sarà come se foste costretti a introgolarvi nel fango delle fogne. E a sentire il cattivo odore delle ascelle e di altre parti ( che in non tollerabile modo offendono insieme la vista e l’olfatto), come potrete, non dico provar diletto, ma chiudere un occhio quanto la notte è lunga ?” Nessuna fatica a riconoscerlo nel primo brano, mentre si resta sconcertati a sapere che è la stessa persona a disquisire in quel modo sul tema An uxor sit ducenda?. Si tratta, come tutti sanno, di quel Baldassar Castiglione che, in anticipo di secoli sulla coprofobia di J. Swift, cam-
bia radicalmente di prospettiva col calar della notte quando, il sesso che di giorno aveva idolatrato, diventa un’immonda sentina. Simili accenti e toni erano già stati usati nel Medioevo, ma solo nell’ottica del comptentus mundi e sempre al riguardo della condizione umana in generale. Il cupo e terribile Lotario di Segni (Innocenzo III) aveva nel suo De miseria humana conditionis messo a confronto le piante con gli uomini ricavandone che ai frutti delle prime corrispondono vermi, pidocchi, sterco, sputo e orina nei secondi, ai soavi odori degli alberi si oppongono gli intollerabili fetori del corpo umano, e ancora San Bernardo: “Homo nisi aliud est quam sperma foetidum, saccus stercorum et cibus vermium. Post hominem vermis, post vermen foetor et horror. Sic in hanc speciem vertitur omnis homo”. Più tardi, invece, lo stesso argomento viene usato intenzionalmente nel contesto del comptentus foeminae, non più come tema di meditazione sulle miserie della vita terrena, ma nell’ambito di una battaglia ideologica dove misogamia ed
erofilia vanno di pari passo, dove la donna-moglie è un impedimento e la donnastrumento di piacere è un divertimento, dove all’antigamia non corrisponde la castità, ma erotismo ed edonismo. Le tradizionali argomentazioni circa l’inferiorità della donna rimangono (e se possibile) si rafforzano nell’età umanistica e rinascimentale, ma a queste s’aggiunge un sentimento nuovo, un sottile ed insinuante sospetto che va sempre più facendosi certezza: la paura che davvero la femmina possa essere uguale, se non migliore del maschio. In quel fatidico 17 luglio 1429, quando Giovanna d’Arco riconsegna a Reims la corona a Carlo VII, Christine de Pisan è presente ed è accanto alla Pulzella d’Orleans, prova vivente della bontà delle sue teorie. In risposta al feroce misoginismo del Roman de la Rose, Christine aveva infatti replicato con la Cité des dames, l’utopica società in cui le donne hanno pari diritti giuridici e politici e partecipano al governo della città. Qualche decennio prima la drappiera di Bath aveva, nei Racconti di Canterbury affermato il diritto della donna alla completa autonomia ed libera scelta della propria vita. Intorno alla metà del 400 Isotta Nogarola assume una analoga posizione e tenta, nel corso di una disputa con Ludovico Foscarini, di abbattere uno dei tradizionali pregiudizi misogini sostenendo che fu Adamo il vero responsabile del peccato originale. Anche nell’ambiente delle monache si fanno sentire analoghi fermenti. Fra le età di Caterina da Siena e di Caterina da Racconigi, due esempi di donne che, già terziarie, rifiutano la conventualizzazione o meglio il voto della stabilità nell’ordine in nome di una autonomia d’azione che realmente mettono in pratica, abbiamo l’esempio di Beatrice del Sera, una domenicana fiorentina, che nel suo Amor di virtù, protesta, dall’interno del suo convento di Prato, contro l’imprigionamento delle donne monacate. (Prodromo alla durissima polemica che un secolo più tardi condurrà la veneziana Arcangela Tarabotti contro la monacazione forzata). Marie de Gournay, l’allieva e figlia spirituale di Montaigne, scrive una Egalité des hommes et des femmes dove annulla con argomentazioni rigorose i tradi-
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zionali pregiudizi circa l’inferiorità morale, giuridica e politica della donna (in parte sulla scorta di Margherita di Navarra) e da filologa ridicolizza l’etimologia dell’inferiorità (vir-mulier = forzamollezza, foemina = fe’ minus, MVLIER ecc...) Olimpia Morato, singolare figura di letterata che tien testa ai più dotti umanisti della sua epoca, sceglie la religione riformata e con questa l’esilio in Germania, mentre non poche furono le donne che nella stessa sua epoca rifiutarono l’imposizione di un marito non voluto e pagarono a caro prezzo l’anelito all’indipendenza. Sono questi soltanto dei segni, semplici segni che moltiplicandosi e rendendosi sempre più profondi acquistano un significato che, inizialmente, non sfugge ai
moralisti tradizionalisti e quindi penetra sempre più in profondità fino a raggiungere l’uomo comune e lo portano a credere che ogni ordine sia ormai stravolto. Che le donne fossero “venute in eccellenza di ciascun arte” era notizia che, fino ad un certo momento storico, conoscevano soltanto gli eruditi. L’Ariosto è chiarissimo su questo punto: “Le donne antique hanno mirabil cose fatto ne l’arme e ne le sacre muse; e di lor opre belle e gloriose gran lume in tutto il mondo si diffuse”. Le donne antique, appunto, figure mitologiche o quasi, personaggi usciti dalle storie o dai poemi classici, la cui lontananza nella memoria rende l’immagine irreale. 49
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Anche per quanto attiene le donne famose dei secoli che han preceduto la “rinascita”, la maggior parte di loro son divenute personaggi letterari o, il che è lo stesso, inserite e cristallizzate nell’agiografia. Nell’arco di tempo intercorso fra le grandi virago dell’antichità e le 50
due combattive amazzoni santa Caterina da Siena e Caterina Riario Sforza “prima donna d’Italia” e, ancora, fra le etere-letterate greche e le raffinate cortigiane di Roma e Venezia di quale donna l’età umanistica e rinascimentale conserva il ricordo storico?
A ben pensarci di nessuna di loro. E si che non erano certo mancati esempi di donne che avevano lasciato memoria di “lor opre belle e gloriose” In primis le donne martiri: dalla pagana Ipazia, la continuatrice dell’algebra diofantina e della teoria delle coniche, assassinata dai fanatici seguaci di San Cirillo, alla lunga teorie delle cristiane Agata, Agnese, Cecilia, Lucia, Caterina ecc... che dovettero pagare con la vita il sogno di affermare la propria fede. Secondariamente le vergini: coloro che avevano scelto di non sottomersi nè ad un padre nè ad un marito, ma a Dio soltanto, condividendo nei conventi femminili un’intera esistenza di studio e preghiera accanto ad altre donne. Fra queste Paola ed Eustochia, le prime colte compagne di San Gerolamo; le poetesse Rosvita di Hildesheim e Cassia di Bisanzio; le “filosofe” Ildegarda di Bingen e Herrade di Landsberg; le mistiche Chiara d’Assisi e Margherita da Cortona; le biografe Dulcia e Baudovinia. Quindi le regine: Teodora, la compagna dell’imperatore Giustiniano, Clotilde di Burgundia, che portò Clodoveo e i suoi Franchi al cristianesimo, Radegonda la poetessa corrispondente di Venanzio Fortunato, Eleonora d’Aquitania, autentica dominatrice della politica della seconda metà del XII secolo, come per quella degli inizi del successivo lo sarà sua figlia Bianca, sposa di Luigi di Francia. Ancora le madri come Dhuoda l’educatrice del figlio lontano, Eleonora i cui figli e figlie regnarono su mezza Europa, Adele di Blois, l’energica feudataria che alla morte del marito Stefano regge i possedimenti, educa i figli, gestisce complesse questioni politiche e trova il tempo e la sensibilità per dedicarsi alla poesia. Potremo continuare con la “magistra medicinae” Trotula, l’intellettuale e dolcissima Eloisa, le regine delle corti d’amore, Maria e Adele di Champagne ed Ermengarda di Narbonne, le istitutrici come Beatrice magistra comitissae Andegavensis, le tante copiste il cui nome è ricordato nei colophon. Del Medioevo, oltre alle edulcoratissime donne ormai canonizzate, non resta altro che la “dama” dei poemi cavallereschi, la maga, l’intrigante calunniatrice, l’avventuriera, l’amazzone o in definitiva gli
stessi personaggi che entreranno nuova mente a far parte del cast degli attori delle saghe di spada e di magia del ‘500. A volte si giunse a favoleggiare di donnegiudice (le figlie di Accursio e di Giovanni D’Andrea in toga forense e mascherate da maschio che sostituiscono i padri ammalati) ben sapendo trattarsi di artificio dell’immaginazione come sarà per l’Ortensia della Historia de Grisel y Miravella di Juan de Flores e la Porzia del Mercante di Venezia, oppure di donne-medico, ma sempre ostetriche e levatrici che sostituivano il magister nell’opera di una sconveniente ispezione o operazione sulle parti vergognose. Ma allora quale significato può avere quella conquista dell’eccellenza in ogni arte o scienza da parte delle donne? Non resta che sospettare che tale eccellenza non sia un fatto già accaduto nel passato, ma un qualcosa che sta avvenendo, un evento ancora in fieri del quale si ha paura. “Finalmente, per bene intendere la vita sociale dei circoli più elevati dell’epoca del Rinascimento, - scrive J. Burckhardt nel suo classico Die Kultur der Renaissance in Italien - è di massima importanza sapere che la donna ebbe una posizione uguale in tutto e per tutto a quella dell’uomo”. Noi sappiamo perfettamente che sia de jure che de facto le cose non andarono proprio così, ma è del tutto indicativo che proprio il Burckhardt (uno dei padri della storia delle mentalità) non si fosse accorto che in realtà durante l’età rinascimentale la donna è considerata inferiore sia sul piano giuridico, che morale, che fisiologico, che politico. E non si tratta - come egli preavverte - di “lasciarsi trarre in inganno dalle sofistiche e spesso anche maligne argomentazioni di taluni scrittori”, il fatto è che la discriminazione delle donne non è gioco letterario di taluni misogini, ma norma di diritto e consuetudine pratica. Vergine, madre o vecchia che sia (i tre volti della donna del rinascimento individuati da Margareth King) essa è sempre sottoposta ad un uomo, non gode giuri dicamente di altra libertà che quella concessagli dalle leggi: sposarsi o monacarsi, procreare o pregare, o anche, se lo desidera, porsi fuor dal consesso civile scegliendo la strada della onesta o disone-
...Antique
sta prostituzione. In verità il Burckhardt, talmente innamorato del rinascimento, entra nei panni dei letterati dell’epoca, vi ci si identifica e di conseguenza si fa portatore di uno status mentale particolare: la certezza e il timore che le donne si stiano liberando dai vincoli tradizionali, che abbiano raggiunto l’uomo sul piano delle arti, che aspirino al raggiungimento delle piena parità. Se tutto ciò è scioccante ancora nella nostra epoca, dove continua a serpeggiare il sospetto che si sia sbagliato a dar troppa libertà alle donne, tanto più lo è nei secoli XVI e XVII. Quanto afferma Burckhardt non solo non vale per l’Europa, ma è impropo
nibile anche per quell’Italia che lo storico svizzero considera la culla della nuova civiltà ed egli lo sa benissimo pur continuando l’artificio del mettersi nei panni di un dotto del Rinascimento. Dentro quei particolari panni egli ha pienamente ragione e dalla polemica cinquecentesca misogini-femministi non potrebbe che uscirne convinto di aver favorito la causa dell’emancipazione femminile, anche se in realtà furono i misogini a vincere e le cose restarono esattamente come le si era trovate o peggio.
P.46/47: Manoscritti miniati; p.48/51: Manoscritti miniati di opere di Christine de Pizan.
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Giardini massonici La loro architettura in Europa tra il Settecento e i primi del Novecento Jean Marc Schivo
parte I 52
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opo lunga attesa, varcata quella porta che spesso amiamo sognare ci ritroviamo, in molteplici occasioni, immersi nella luminosità differente di uno spazio inconsueto, permeato di storia, in cui ci sentiamo parte di questo codice universale. Per chi possiede nello sguardo la lungimiranza di immaginare tempo e confini in maniera differente le dimensioni di questo luogo sono definite da geometrie, simboli, oggetti, scritture, astri e costellazioni. In questo scrigno dell’umanità tutto diventa possibile. Qui diventiamo ciò che vediamo, ciò che cerchiamo e le tre grate alle sue finestre, che impediscono al profano di poterne cogliere il messaggio, sottolineano, attraverso la luce delle differenti ore del giorno che ne modifica continuamente lo spazio, il senso del movimento eterno, il senso di energia universale con cui ogni simbolo entra in contatto con gli altri svelando al ricercatore la sua strada occulta. A grande distanza da qui, immerso in una città freneti-
ca e spesso disattenta alle reali necessità dell’uomo, un altro spazio ricostruisce con parole organiche un libro aperto fatto di geometrie, architetture, percorsi, fiori, piante, profumi, vento, terra e acqua. Il Tempio massonico si manifesta sotto forma talvolta di giardino talvolta di parco costituendo uno dei più importanti contributi all’evoluzione dello spazio urbano che la massoneria abbia mai attuato, caratterizzato da un linguaggio naturalistico in cui la simbologia del vivente diventa strumento di dialogo e di trasformazione iniziatica. All’opposto del Tempio che separa i profani dagli iniziati questa realtà urbana diventa motivo di aggregazione, svago e ricerca incarnando la duplice veste di luogo dell’interiorità come anche della meditazione a cielo aperto e della rivelazione per chi cerca in modo impersonale i messaggi più profondi che la natura custodisce. ”Colui quindi che realizza in tutto quanto cresce nella natura a beneficio dell’uomo la destinazione voluta dalla natura, è un alchimista … Dal momento dunque che l’alchimista
porta alla luce quel che è occulto in natura, sappiate che ci sono forze diverse nelle gemme, nelle foglie, nei bocci, nei frutti acerbi, nei frutti maturi…..nel suo manifestarsi la natura si comporta non meno prodigiosamente dell’alchimista che opera nelle cose in cui cessa di agire” (Paracelso). Per comprendere il significato di queste parole e delle importanti realizzazioni che fin dal 1700 hanno fortemente contribuito ad arricchire il paesaggio urbano delle grandi città europee, bisognerà intraprendere un’analisi retrospettiva delle componenti base del linguaggio simbolico, alchemico, geometrico, naturalistico, culturale, storico e sociale e della loro struttura. Attraverso un sistema vegetale integrato da innovativi elementi simbolici viene evocata una visione globale del mondo, come avviene all’interno di un Tempio, in una sequenza di sapere ancestrale che permette ad ogni uomo d’instaurare un contatto con la natura ed esserne coinvolto, di avvertire la presenza di quell’universalità portatrice di ricchezza 53
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che distingue i giardini massonici da altri giardini dello stesso periodo e di iniziare così un processo di trasformazione personale finalmente libero da qualsiasi dogma. In Europa i parchi e i giardini massonici si configurano e moltiplicano in un periodo fortemente influenzato dal pensiero illuminista rappresentando l’evidente espressione di un rinnovamento della società e dell’arte applicato ad un sistema vivente tramite un approccio simbolico e naturalistico. Con la nascita delle prime logge l’Inghilterra apre la strada a questo nuovo mondo parallelo che diventa supporto alla costruzione di veri e propri spazi urbani dalla forte valenza iniziatica. Uomini di cultura come Alexander Pope, massone, William Shenstone, uno dei primi teorici dell’arte dei giardini e William Kent, raffinato disegnatore e cultore dell’arte Palladiana, diventano il punto di riferimento di una classe di pensatori dalle cui idee progressiste e liberali nasceranno innovative visioni urbane. Il giardino di Twickenham (1719) ideato da A. Pope vicino al Tamigi, nei pressi di Richmond, è il primo esempio di questa nuova catena che ripropone in chiave realistica alcuni aspetti del suo poema La 54
foresta di Windsor del 1713. Questo spazio rettangolare organizzato linearmente lungo un asse centrale è caratterizzato, come molti altri in seguito, da due elementi fondamentali. Il primo, centrale, è il tempio chiamato da A. Pope “della Fama”, immagine e sintesi del mondo con i quattro lati corrispondenti alle quattro parti dell’universo, a occidente gli ordini greci, ad oriente le simbologie assire e cinesi, a meridione quelle egizie e a settentrione lo stile gotico ”un invito rivolto ad entrare a tutte le nazioni della terra”. Il secondo è la grotta e rappresenta la caverna iniziatica, “l’uovo del Mondo”, la dove tutto nasce e tutto viene preservato, uno spazio ricco di messaggi allegorici, spazio dell’iniziazione di ispirazione naturale, ma anche sacrario dell’amicizia, recipiendiario di doni di amici, luogo di meraviglie giunte da ogni parte del mondo. Il giardino costruisce la sua immagine attorno a questi due elementi con tracciati lineari, prospettive a raggiera e sentieri naturalistici informali. Tutto viene concepito come un’opera letteraria ricca di rimandi esoterici. Dal punto di vista compositivo il paesaggio viene costruito attraverso una serie di quadri e scene in successione a cui l’amico W. Kent
contribuisce con i suoi preziosi disegni mentre dal punto di vista semantico una serie di elementi architettonici, sculture e scritte compongono un testo narrativo tutto da decifrare. Attorno ad esso si configura, come in un quadro classico, una singolare combinazione di specie botaniche costituita da essenze nordiche e mediterranee che consentono a A. Pope di sfruttare al meglio il loro potenziale simbolico conferendo ad ognuna un preciso ruolo come in una partitura teatrale. A partire da questo primo esempio si avrà un susseguirsi di realizzazioni che caratterizzeranno il panorama europeo fino ai primi del novecento. Al giardino di A. Pope segue quello di Chiswick progettato sempre da W. Kent, pensato con una geometria dal forte richiamo massonico, e quello di Stowe caratterizzato dal tempio delle virtù britanniche. L’impianto originario del giardino viene riprogettato attraverso la trasformazione degli spazi in evocativi luoghi di riflessione, seguendo le idee massoniche del committente, Lord Cobahm, diventando un vero e proprio manifesto politico e ideologico. In Francia l’aristocrazia massonica realizza una sequenza d’importanti interventi aggiungendo nuovi contributi alla concezione inglese del giardino. Tra i più significativi ricorderemo il parco Monceau a Parigi (1774), voluto dal duca
di Chartres, Gran Maestro del Grande Oriente di Francia e fondatore della loggia “St. Jean de Chartres all’Oriente di Monceau”, progettato da Louis Carrogis detto Carmontelle, architetto paesaggista, pittore e commediografo. Il parco oggi allineato con uno dei prolungamenti di place de l’Etoile, meraviglioso scrigno massonico, è concepito come una successione di scene pittoriche in stile anglo – cinese in cui nelle emergenze architettoniche sono evidenziati molti simboli: ”Ce n’est point un jardin anglais qu’on a voulu faire a Monceau …. mais précisement ce qu’on a dit en faisant la critique c’est de réunir dans un seul jardin tous les temps et tous les lieux.” (Carmontelle). Non lontano da Parigi e di più vaste dimensioni il parco di Ermenonville (1776), evocativo della figura di Jean Jacques Rousseau, voluto dal marchese Louis de Girardin, massone affiancato da Hubert Robert, pittore, e Jean Marie Morel, architetto paesaggista, sviluppa negli oltre 100 ettari di estensione un progetto articolato, in cui letteratura, filosofia, esoterismo, architettura, urbanistica e sviluppo economico convivono in un’unica visione. È il parco definito da molti “Il parco della rivoluzione”, un luogo dove le premesse esoteriche diventano linfa per una nuova Arcadia, sostegno ad una nuova concezione della vita rurale basata sull’equità e la condivisione di ogni forma di bellezza e di economia. ”… quando Rousseau vide la foresta che si estendeva fino ai piedi della sua casa ... “, scrive il Marchese de Girardin nella sua “Composition des paysages”, “… la sua gioia fu così grande che non fu più possibile trattenerlo all’interno della carrozza. Quando si vide in pieno possesso della libertà, e della campagna da cui aspirava da tanto tempo, la sua passione per la contemplazione raggiunse tali livelli che egli si abbandonò con un trasporto che assomigliava all’ebbrezza.” Dopo la morte di J.J.Rousseau il giardino diventerà luogo di convergenza e riflessione per artisti, letterati e uomini politici. Da Napoleone Bonaparte a Lamartine, Victor Hugo, George Sand, Voltaire e molti altri. Il parco del deserto di Retz (1774) realizzato da Francois Racine de Monville,
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importante rappresentante della massoneria e amico del duca di Chartres, ha dimensioni più piccole, 40 ettari, ma è altrettanto straordinario. Qui i temi principali dell’itinerario simbolico ed iniziatico sono la grotta che costituisce l’ingresso al parco e la grande colonna spezzata che doveva superare i 100 metri, abitazione luogo di riunioni, osservatorio e laboratorio alchemico. “Tutto è pittoresco, perfino la porta che da accesso al parco, si tratta, infatti, di una grotta di grande effetto ... non è necessario attendere la fine della costruzione della colonna tronca il cui diametro è di quarantaquattro piedi e nella quale egli ha perfettamente distribuito i suoi alloggi per capire che la sua idea è assolutamente originale.” (C. J. de Ligne). Anche nel parco del castello di Argilliers, voluto da Gabriel Joseph de Froment, barone di Castille, il tema della
colonna inserita in una successione di architetture d’influenza italiana è il fulcro dell’intera composizione. Nell’Europa del nord il tema della grotta come strumento di trasformazione e rinascita caratterizza molti importanti giardini massonici. L’aspetto simbolico di questi percorsi è molto evidente nel parco di Karlsburg, realizzato nel 1785 dal Gran Maestro Franz Von Mack, nel cui centro un’isola e il suo monumento erano il preludio all’inserimento di una grotta riservata alle iniziazioni, così come nel giardino di Louisenlund, di proprietà del massone Karl von Hesse, dove, tra percorsi e pietre runiche, una grotta per le riunioni iniziatiche, nascosta da cascate, svelava agli iniziati il suo ingresso solo nelle ore notturne. Questo senso del cammino e del percorso articolato, fatto di pause e rifles55
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sioni, raggiunge la massima espressività nel parco di Worlitz, fonte d’ispirazione per J. W. Goethe, dove la complessità del percorso iniziatico si fonde finalmente con gli aspetti naturali. All’opposto in quello di Varsavia, inserito nel palazzo Mniejszy dall’architetto massone Szymon Bogumil nel 1775, metà scenario allegorico, metà caverna iniziatica, questa struttura diventa un artefatto di pura scenografia, uno spazio ridotto, ma capace di suscitare visioni immaginifiche senza confini. L’apporto probabilmente più importante anche per il successivo sviluppo dei giardini italiani sarà quello dato dall’emblematica figura del principe C. J. de Ligne, massone, che proprio dall’Italia e dai suoi architetti del passato traeva grande ispirazione. Nel suo giardino filosofico di Beloeil in Austria egli applicherà in maniera creativa tutta la simbologia iniziatica relativa ai giardini descritta in uno dei suoi trattati: ”numerose vasche splendidi boschetti di carpini ne faticosi ne affaticanti, come altrove, pergolati all’italiana, gallerie magiche, grandi rotonde a stella … splendidi schieramenti in quinconce di querce e di faggi” si alternano ad una 56
serie di manufatti architettonici dall’evidente valore iniziatico come per la capanna del filosofo o la colonna dell’immortalità tutti inseriti in questa rigogliosa vegetazione.” Anche l’Italia sarà presente in questo scenario per il considerevole numero di parchi e giardini realizzati, probabilmente la più importante testimonianza a livello urbano e paesaggistico che la massoneria italiana abbia saputo fornire, ancora oggi di grande valore storico, monumentale ed iniziatico. L’architetto Giuseppe Jappelli, attento osservatore della scena europea e del suo evolversi ne è l’esponente di spicco. La Liguria si distingue sia per il giardino Lomellini a Multedo, realizzato da Andrea Tagliafichi e Agostino Lomellini, sia per il parco di villa Pallavicini presso Pegli. Il Veneto sarà prolifico di ville e giardini dall’aspetto esoterico, ma è soprattutto a Padova che l’architettura Jappelliana potrà maggiormente esprimersi: nel giardino Pacchierotti vicino all’orto botanico, nel giardino Treves dè Bonfili, nel giardino Trieste, nel giardino Giacomini Romiati dove i percorsi culminano nell’emergente torre tempio modellata su 3 piani all’insegna dei 3
gradi e le cui 7 aperture del terzo piano, corrispondente al grado di maestro, ne convalidano il messaggio e il passaggio dalle tenebre alla luce. Infine nel giardino della villa Cittadella Vigodarzere a Saonara Jappelli, assieme al marchese Vigodarzere, realizzerà un perfetto percorso iniziatico vegetale che si concluderà con la cappella dei Templari secondo la tradizione che prevede il tempio come meta finale del giardino. In Toscana il giardino Torrigiani, realizzato dal marchese Torrigiani con l’aiuto dell’architetto Luigi De Cambray Digny, entrambi appartenenti alla Rispettabile Loggia Napoleone (1807), è il primo esempio di un organismo esoterico completo all’interno delle mura di Firenze dove tutte le partiture di questo articolato programma trovano la loro precisa collocazione. L’ingresso nel parco è segnato da due Sfingi e poco lontano è collocata la statua di Osiride per comunicare in modo inequivocabile il messaggio di morte e resurrezione, messaggio di speranza per chi cerca. Anche qui, come nei grandi complessi francesi, la grotta dedicata a Merlino si contrappone alla torre che con i suoi tre livelli simbolici diventa un importante simbolo urbano. Inoltre è opera dello stesso architetto la nuova sistemazione degli Orti Oricellarii, voluta dal marchese Stiozzi Ridolfi, anch’egli appartenente alla Loggia Napoleone, in cui al termine del percorso, una struttura ipogea articolata in tre spazi consecutivi si contrappone al tema della torre per preparare l’iniziato ad una nuova ascesi nel parco e verso la luce. Sempre a Firenze nel giardino Stibbert, ristrutturato da Federico Stibbert, appartenente alla Rispettabile Loggia Concordia, i canoni neoegizi scandiscono l’immagine esoterica dei suoi principali punti d’incontro. Oltre le mura della città sia il giardino Puccini a Scornio che villa Paone presso Siena interpretano in maniera diversa il messaggio massonico. Altre importanti tracce massoni sono presenti a Roma, dove Jappelli lavorerà all’ampliamento del parco di Villa Torlonia, a Caserta, con il giardino all’inglese della reggia realizzato per volontà della regina Maria Carolina, adepta della massoneria, dove realizza un se-
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gno naturalistico territoriale di dimensioni notevolissime, a Napoli con il giardino a croce di villa Caramanico, progettato da Domenico Antonio Vaccaro, dove la geometria e prospettiva del giardino esaltano l’architettura del palazzo e della reggia. In Sicilia il giardino massonico riprende forza nell’eleganza delle proporzioni dell’impianto di villa Florio Pignatelli dei duchi di Monteleone a Palermo. Il tempio di Bacco, l’Osservatorio e la Piramide s’inseriscono in uno spazio geometrico, confluenza di quattro ordini, connesso con tutto l’insieme. Infine sempre a Palermo il monumento nel giardino della collina di Gibilrossa ad opera di G. B. Filippo Basile, dedicato ai Mille in occasione del sesto centenario dei Vespri Siciliani (1882), rende omaggio a Garibaldi. Attraverso il suo messaggio compositivo e architettonico, caratterizzato da un
basamento quadrato su cui si inserisce una struttura commemorativa a croce sormontata da una piramide, che assume per la sua angolazione anche le caratteristiche di obelisco e di centro, il giardino diventa un forte richiamo ai fondamenti massonici e simbolo augurale verso il nuovo stato nascente. Il numero di questi parchi e giardini va ben oltre gli esempi qui citati per complessità e mancanza di spazio lasciando a chi ama percorrere la via della ricerca la possibilità di ritrovarsi in luoghi qui non citati, ma forse in alcuni casi ancor più particolari e ricchi di significati e di spunti, per provocare nuove riflessioni ed azioni conseguenti. Ma per instaurare un dialogo dinamico con questi luoghi, comprenderne la struttura, la sintesi della forma, il messaggio intrinseco e non limitarsi solo all’esteriorità occorre effettuare una analisi sistematica dei loro princi-
pali componenti simbolici, sviluppando un approccio simile a quello che si verifica nel Tempio in cui ogni simbolo rimanda ad un altro e contemporaneamente al tutto lasciando all’azione successiva il compito di rivelarne il significato. Il giardino massonico è uno spazio di nuova concezione articolato e ricco di molteplici contenuti che affianca la nascita delle logge massoniche e dei nuovi Orienti travasando nel tessuto urbano messaggi simbolici ed iniziatici appartenenti agli aspetti più significativi della cultura liberale e della ricerca esoterica. Il bosco, il labirinto, la grotta, lo spazio geometrico e informale, le piante, le stagioni, l’architettura, l’acqua) rappresentano una serie di elementi guida per la corretta comprensione di questo percorso. Questi componenti di dimensioni estremamente variabili, inseriti nel cuore del tessuto urbano in piena evoluzione ed 57
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espansione, spesso collocati nei punti strategici della città, rappresentano veri e propri poli di attrazione e convergenza urbana costituendo il prolungamento urbanistico dei grandi assi di comunicazione. Caratterizzati da un tempo differente, costruiti su basi architettoniche, geometriche e astrologiche precise, essi sono di fatto l’espressione di un’elite di uomini motivati dalla costante ricerca della comprensione delle leggi universali e dalla volontà di ricostruire le proporzioni originali dell’edifico morale proprie del Tempio di Salomone. S’intende quindi una ricostruzione che sia modello di sviluppo spirituale, un Tempio senza confini per uomini che ricercano, ma anche per uomini smarriti che a contatto con un semplice segno, con un profumo o con una visione possono ritrovare 58
la strada della ricerca e della comprensione dei valori universali. I giardini come spazi ritualizzati, espressione di una costante ricerca della felicità, diventano il tema centrale dell’espressione della passeggiata urbana come “esercizio moderato costituito dal movimento alternato delle gambe e dei piedi, con cui ci si sposta dolcemente per diporto da un luogo all’altro”, così il termine “passeggiata” viene descritto nell’Encyclopedie. Si tratta di uno spostarsi lungo assi urbani precisi in una cornice di verde e di spazi scenografici pensati per favorire l’arte della socialità. Il parco e il giardino ne rappresentano la meta finale, la natura diventa così spazio a disposizione del cittadino e non più solo privilegio della nobiltà. La Loggia come studio della Natura e delle leggi universali In quel periodo le logge massoniche diventano luoghi di ricerca, di istruzione e formazione per eccellenza. Matematica, geometria e architettura ne sono l’asse portante. Le arti liberali completano la ricerca finalizzata alla comprensione di un sapere dove le regole di un’architettura “divina” basata sulle leggi naturali delle proporzioni diventano espressione di una nuova” bellezza interiore”. L’architetto inglese progettista di giardini e massone Batty Langley, prolifico scrittore cui dobbiamo vari testi tra cui “The builder’s jewel” e “The principles of gardening or the laying out and planting, gro-
ves, widernesses, labyrinths, avenues, parks, & c.” (1741), applica questi principi oltreché nella realtà anche nella sua scuola di disegno in Dean Street a Londra insegnando, insieme al fratello, fondamenti dell’arte reale, giardini articolati, arredi urbani e scenografie paesaggistiche che applicano le sue teorie. Giovani, nobili e artisti si cimentano a ridisegnare gli ordini architettonici, a progettare schemi geometrici, ma anche templi, grotte, cascades e altre scenografie che arricchiranno i futuri giardini urbani della città. Molti nobili, intellettuali, uomini politici, proprietari terrieri, architetti, giardinieri, agronomi e medici si inseriscono in questo filone cooperando, confrontandosi e applicando le simbologie massoniche formando una catena creativa transnazionale. Figure emergenti quali Alexander Pope, Edward Harley, il conte di Chesterfield, James Addisson, Richard Steele, Jonathan Swift, Richard Boyle conte di Burlington, lord Montague, Voltaire, Johann Wolfgang von Goethe, Montesquieu, Jean Jacques Rousseau, Giuseppe Jappelli e molti altri ancora guardano ai grandi artisti e architetti italiani del passato come Vitruvio, Bramante, Palladio come modelli di perfezione, di studio e di stimolo alla progettazione. In particolare la villa palladiana, simbolo di proporzione e purezza, diventa il centro del nuovo giardino rafforzando il significato di Tempio massonico come esempio di centralità e di finalità da raggiungere. Il Bosco, tempio a cielo aperto La foresta, più di ogni altro componente, esprime il senso di sacro ed iniziatico che questo macrocosmo riflette attorno alla sua struttura. Una serie di reti associative configureranno un’insieme intelligente di diversificate essenze finalizzato ad evocare i ritmi più segreti della natura. Alberi particolari, talvolta sacri come nelle tradizioni celtiche, greche o romane, diventano simboli di quella lunga sequenza che conferisce particolarità a tutto l’organismo del parco. La parte boschiva è dunque l’espressione centrale della conoscenza primordiale, dell’Ordine Sublime, il luogo per eccellenza da cui tutto nasce, luogo della prova iniziatica, luogo incantato, ma anche luogo dello smarrimento. Qui, nel silen-
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zio, si compie l’avventura spirituale di ogni uomo. La foresta diventa una prova cruciale nel processo d’iniziazione, come ben rappresentato nell’articolato significato della saga arturiana. Nella foresta bretone dai siti leggendari come la “valle senza ritorno” si intrecciano leggende e verità nascoste. La Dama del Lago imprigiona Merlino in un albero e anche se il suo richiamo viene udito dai cavalieri della Tavola Rotonda lo smarrimento predomina e rende il contatto impossibile. La foresta è richiamo per molti, ma ricompensa per pochi, poiché le passioni che essa nasconde assumono molteplici forme, circoscritte in uno spazio privo di orizzonte. Il bosco assimilabile al labirinto, il cui interno conduce spesso all’ingresso del mondo sotterraneo come nella tradizione del mondo greco e romano, assume anche valore di luce intravista nella radura alla fine del percorso. Il Labirinto Al labirinto informale della selva iniziatica verrà affiancato in molti giardini un altro elemento simbolico per eccellenza, un componente essenziale che assumerà in più occasioni forme diverse. Il labirin-
to è uno schema costruito con razionalità che comporta un percorso difficile, tortuoso ma dall’esito certo a differenza di un altro schema, questa volta esaltazione irrazionale dall’esito più incerto, che ribalta il concetto di virtù trionfatrice finale e che costituisce uno dei dogmi della cultura umanistica. Un richiamo alla difficoltà nel trovare la strada che porta al vero centro, ma anche quella per uscirne e riprendere il cammino della conoscenza. È l’emblema della ricerca alchemica al cui centro è collocato l’altare della pietra filosofale, la Grande Opera ritmata da un susseguirsi di passaggi purificatori difficili da scoprire. Talvolta come nel labirinto di Versailles, mascherato da sculture e giochi d’acqua che si alternano alla struttura vegetale, questo sistema rappresenta la prima fase dell’iniziazione con passaggi impenetrabili o ricchi di allegorie dove le sculture rendono omaggio alle favole di Esopo. Qualunque sia il suo disegno il gioco diventa per il profano perdita di ogni punto di riferimento spaziale tramite l’immergersi in un ciclo temporale diverso, opposto a quello della foresta in
un viaggio che svela le realtà della vita e le sue difficoltà. Nel trattato Flora, seu de florum cultura di Giovanni Battista Ferrari (1638) vengono codificati modelli, proporzioni, misure, modi di piantumazione e disposizione dei fiori recisi. Il labirinto diventa oggetto di innumerevoli studi, ricerche e pubblicazioni, ma anche spunti per romanzi. Nel giardino Pisani a Stra presso Padova (1721) il labirinto è fonte d’ispirazione per Gabriele D’Annunzio: “Dal centro dell’intrico s’alzava una torre e in cima della torre la statua di un guerriero pareva stesse alle vedette, egli salì in furia la scala a chiocciola e vide … il labirinto sotto di sé, nerastro di bossi e maculato di carpini, angusto nei suoi interminabili avvolgimenti con l’aspetto di un edificio smantellato e invaso dagli sterpi, simile ad una ruina e a una macchia, selvaggio e lugubre (Gabriele D’Annunzio, Il fuoco). P.52 e p.56: Firenze, Osiride e la Torre del Giardino Torrigiani; p.53: Twickenham, acquerello di W.Turner; p.54: Giardino di Chiswick; p.54 a destra: Jean Jaques Rousseau a Ermenonville; p.55: La ‘colonna spezzata’ del giardino di Desert de Rez; p.57: Firenze, Giardino Stibbert; p.58: Batty Langley e ‘The Builder’s Jewel’; p.59: Pianta del Labirinto di Versailles (foto pag. 52 e 56 Paolo Del Freo).
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Del cervello degli anziani, dell’eterna giovinezza e del pensiero iniziatico Paolo Maggi
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età media della popolazione occidentale, si sa, è in progressiva crescita. E, con ogni probabilità, in futuro la nostra società sarà costituita da una maggioranza di anziani e di grandi anziani. Ma già oggi vediamo sempre più spesso brillanti e iperattivi ultraottantenni sedere ai vertici di banche, grandi aziende, istituzioni pubbliche e private. Dunque non c’è da stupirsi se la scienza voglia conoscere meglio il funzionamento del cervello dei vecchi, grazie anche all’aiuto di nuovi e sofisticati strumenti, come la risonanza magnetica funzionale. Forse quello che davvero può meravigliarci è l’apprendere che il cervello degli anziani funziona molto meglio di quanto si credesse nel passato. Ma l’aspetto più interessante di questi studi è che ci stanno aiutando a capire meglio i meccanismi alla base del pensiero creativo e dell’intuizione. Ma procediamo con ordine. Innanzi tutto è bene abbandonare da subito ogni falsa illusione: l’invecchiamento cerebrale esiste e come. Non solo, ma inizia anche prima di quanto comunemente si creda: il cervello comincia il suo lento declino già a partire dai 45 anni e, fino ai 49 le attività di ragionamento e di memoria calano del 3,6%, sia negli uomini che nelle donne. Tra i 65 e i 70 anni poi, l’attività cerebrale arriva a perdere il 9,6% negli uomini e il 7,4% nelle donne. E, in tutto questo, ovviamente, alcol, fumo, droga, alimentazione scorretta e mancanza di esercizio mentale giocano un ruolo decisivo. Ma se la vecchiaia ci fa perdere inesorabilmente neuroni, il nostro cervello non si arrende facilmente al suo declino e mette in atto sofisticati meccanismi di compenso. Il calo delle funzioni cerebrali è parzialmente vicariato da una sostanziale riorganizzazione delle sue attività. Nel cervello degli anziani, infatti, particolarmente negli ultraottantenni, i due emisferi cerebrali, destro e sinistro, si vengono reciprocamente in aiuto, come quelle coppie di anziani coniugi che uniscono sempre più le loro residue energie per far fronte alle difficoltà sopraggiunte con la vecchiaia. Ma questa cooperazione non genererà un semplice potenziamento funzionale: i risultati sono davvero sorprendenti perché le funzioni dell’emisfero destro e di quello sinistro sono sostanzial-
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mente diverse. Così, un cervello riorganizzato tra destra e sinistra comincerà a funzionare in modo differente. Gli emisferi cerebrali sono le strutture nervose più recenti dal punto vista evolutivo. E parlano tra di loro tramite un enorme fascio di fibre che li collega, chiamato corpo calloso. Per molto tempo abbiamo ritenuto che essi rappresentassero un classico modello di coppia di opposti che, interagendo, costituisce un’unità funzionale che ha permesso all’uomo di evolversi e di adattarsi nel corso della sua storia evolutiva di milioni di anni. Sebbene oggi sappiamo che le differenze tra i due emisferi non sono così nette come si credeva, possiamo ancora, almeno per semplificare il ragionamento, considerarli come due elementi sostanzialmente diversificati. L’emisfero sinistro controlla i movimenti e la sensibilità della parte destra del corpo. Il destro controlla la parte opposta. Ciò avviene perché le fibre nervose provenienti dai due emisferi cerebrali si incrociano a livello della parte terminale dell’encefalo (il midollo allungato). Ma le differenze tra i due emisferi non si limitano al controllo del movimento e della sensibilità del corpo. Riguardano anche diverse specializzazioni rispetto alle funzioni cognitive. Per fare semplice una cosa molto complessa possiamo dire che l’emisfero sini-
stro controlla la lingua e la comunicazione, mentre il destro controlla la vista e lo spazio. Questa diversa specializzazione dei due emisferi risale ad alcuni milioni di anni fa, ed è stata probabilmente successiva alla conquista della stazione eretta. Quando l’uomo è riuscito a restare in piedi sulle sue gambe ha avuto la possibilità di controllare meglio lo spazio circostante, e di utilizzare le mani per manipolare gli oggetti in maniera fine. Questo ha spinto le due metà del cervello a diversificasi e specializzarsi in funzioni differenti. Probabilmente è proprio da questo che nasce la specializzazione del’emisfero sinistro nelle funzioni di comunicazione: in origine il linguaggio era soprattutto di tipo gestuale e l’emisfero sinistro è proprio quello che controlla la mano destra, quella più abile nelle attività motorie fini. Quando poi la comunicazione è diventata di tipo verbale, l’emisfero sinistro ne ha mantenuto il controllo sorvegliando anche le funzioni linguistiche. L’emisfero sinistro è stato per molto tempo il più studiato dai medici per la semplice ragione che, quando si ammala, si osserva facilmente il venir meno di precise funzioni. Già nel 2500 a.C. circa i medici egiziani segnalavano la stretta associazione tra paralisi del lato destro del corpo e disturbi del linguaggio. Questo emisfero sembrerebbe avere anche la ca61
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pacità di scomporre figure, ma anche problemi e concetti nei suoi elementi costituenti. Insomma a lui sono affidate le attività di analisi. L’emisfero destro invece è stato assai meno studiato perché, quando si ammala, non dà sintomi altrettanto evidenti. Solo da pochi anni abbiamo capito che è specializzato nelle attività visive spaziali e, cosa che in questo momento ci interessa di più, negli aspetti affettivi ed emotivi del comportamento. Sembra che i ruoli dell’emisfero destro siano essenzialmente due. A lui è stato affidato il duro compito di vigilare sul territorio di appartenenza, con comportamenti di paura, attacco, lotta; ma anche quello di rappresentare mentalmente lo spazio fisico in maniera opposta rispetto al suo partner sinistro. Infatti, mentre quest’ultimo, come abbiamo visto, è specializzato nell’analizzare i concetti, quello destro ha il compito di sintetizzarli. In altre parole, partendo dagli elementi che compongono un’immagine, una figura, un problema o un concetto, l’ emisfero destro unisce l’insieme dei dettagli e ci restituisce l’elemento nel suo insieme. Questa capacità gli permette anche di ruotare una figura, di ricollocarla in altri contesti, e ancora di riconoscere i volti e loro le espressioni interpretandone il loro stato emotivo. Inoltre, a lui è affidato l’ascolto e la produzione della musica. Come dicevamo prima, è certamente riduttivo attribuire all’emisfero sinistro tutto il pensiero logico e razionale e al destro il pensiero creativo ed artistico. I due emisferi funzionano come un’unica 62
struttura. Tuttavia è innegabile che si siano, almeno in parte, diviso i compiti nella gestione delle attività superiori. Dunque possiamo certamente dire che il modello “emisfero sinistro = pensiero razionale, emisfero destro = pensiero creativo”, se non viene inteso in maniera troppo rigida, è in realtà un modello utilizzabile. A questo punto è facile immaginare che quando cade il muro tra i due emisferi, come accade dopo una certa età, il risultato è un grande potenziamento dell’unità razionale-intuitiva. E questa riorganizzazione funzionale è di particolare vantaggio nelle attività artistiche e nel pensiero creativo in genere. Un classico esempio di collaborazione tra i due emisferi è rappresentato dalla produzione di una metafora. La metafora è un ponte tra un’immagine ed una parola e, come è facile immaginare, è una tipica attività in cui il cervello destro collabora con il sinistro. È un’antica sapienza in cui eccelleva il Maestro Dante, e che oggi sembra non sapersi usare più. La Divina Commedia, in realtà, è una miniera di metafore. Per quanto possa essere stato arduo rincorrere le metafore dantesche sui banchi del liceo, il loro valore comunicativo è immenso perché sostituiscono un concetto astratto, complesso, con un’immagine, di più immediata comprensione. La produzione di metafore, ci dicono gli studiosi, aumenta con l’età, man mano che cresce la collaborazione tra l’emisfero destro e il sinistro. Altre interessanti scoperte sono state fatte studiando con la risonanza magneti-
ca funzionale (d‘ora in avanti la chiameremo fRMN) persone impegnate a risolvere anagrammi. Come tutti noi sappiamo, quando ci cimentiamo in questo genere di passatempi, la soluzione può arrivare alla nostra mente per due strade diverse. Facciamo un esempio molto semplice. Se dobbiamo risolvere l’anagramma AMOR, la nostra mente può trovare la soluzione all’improvviso, in forma di intuizione immediata: ROMA! Oppure facendo un passo alla volta, cioè seguendo un ragionamento logico: proviamo R come prima lettera, poi ci mettiamo accanto la O, poi forse la M… finché, per tentativi, risolviamo il problema. È evidente che la via della soluzione immediata è quella che appare più interessante: è la più rapida e, soprattutto, diciamoci la verità, è quella che ci dà la maggiore soddisfazione. L’intuizione immediata, quella che gli anglosassoni chiamano insight solution o pop-up solution è un importante esempio di pensiero creativo. È l’idea improvvisa da cui nascono le opere artistiche, e non è affatto estranea alla genesi delle grandi scoperte scientifiche. Ma torniamo ai nostri signori che, sotto la fRMN sono intenti a risolvere i loro anagrammi. Nell’esperimento, hanno a disposizione due pulsanti. Devono premerne uno se la risposta arriva alla loro mente attraverso un ragionamento logico, e l’altro se è frutto di un’intuizione. Lo studio delle immagini alla fRMN ha rivelato che, nel primo caso, l’attività cerebrale proviene solo dall’emisfero sinistro, nel secondo si attivano entrambi gli emisferi. E non solo: si registra anche un’attività in aree del cervello deputate all’emozione, come l’insula e il tronco cerebrale. E questo spiega anche quell’ineffabile piacere che avvertiamo quando abbiamo un’intuizione. Perché anche l’emozione entra in gioco. Insomma, più i nostri emisferi dialogano, più produciamo intuizioni. Più utilizziamo il nostro pensiero intuitivo, più piacere intellettuale proviamo. Questo ci stimola a utilizzarlo sempre di più. E tali attività sembrano particolarmente congegnali agli anziani. La conoscenza di come queste due parti del nostro cervello interagiscono, ci spiega perché a volte ci capita di tentare di risolvere un problema la sera, senza riuscirci, e svegliarci la mattina con
Medicina
la risposta giusta. Quando dormiamo, la corteccia cerebrale prefrontale si riposa. Quest’area ha il compito di consolidare ed integrare le nostre conoscenze, ma anche quello di mantenere in linea le altre regioni del cervello. Una specie di vigile urbano che, razionalmente, dirige il traffico dei nostri pensieri. Di questo momentaneo calo della vigilanza da parte del cervello razionale ne approfitta un’altra area cerebrale: quella occipitale, un’area molto creativa, che ha il compito di elaborare le informazioni sotto forma visuale e simbolica. Durante la notte questa parte del nostro cervello è libera di costruire storie, idee non convenzionali, trovare soluzioni impreviste, e proporcele sotto forma di sogni o, semplicemente, di suggerircele al nostro risveglio, prima che la corteccia prefrontale, più logica, torni al lavoro. Negli anziani, ma anche nei creativi, tutto questo avviene anche di giorno. Come dire che riuscire a eludere il dominio della metà razionale del nostro cervello può avere i suoi vantaggi. La creatività dunque resiste all’usura del tempo, anzi aumenta con gli anni e aiuta il cervello a vivere più a lungo. Un cervello attivo, lo sappiamo bene, si mantiene lucido più a lungo, resiste alla demenza e agli altri disturbi neuro cognitivi tipici dell’età che avanza. Al contrario, una mente annoiata, depressa, pigra è più soggetta a disturbi, anche fisici. E gli studi di neurobiologia ci
stanno dimostrando con evidenze sempre maggiori che le menti creative tendono a vivere più a lungo. Gli esempi nella storia non mancano: pensiamo a menti geniali come Pablo Picasso, Igor Stravinsky, Frank Lloyd Wright o Benjamin Franklin, che hanno continuato a produrre opere geniali fino a tarda età. Ma, allora, potremmo chiederci, se la collaborazione tra cervello destro e cervello sinistro potenzia la creatività e l‘intuizione, è di grande aiuto nel pensiero artistico ma anche nelle scoperte scientifiche e a risolvere enigmi, se ci dà piacere intellettuale, e ci consente persino di vivere di più, perché dovremmo aspettare di diventare ottantenni (sempre ammesso che si riesca a farlo) per ottenere questi splendidi risultati? Proviamo ad analizzare alcuni aspetti di questo problema che ci coinvolgono direttamente. Vi sono modalità di pensiero che rappresentano veri e propri ponti lanciati tra le due metà del nostro cervello. La metafora, lo abbiamo visto, è un’immagine che si lega alla parola. Ma si possono fare altri esempi. Come sappiamo bene, un altro classico esempio di collegamento tra immagini ed emozioni sono i simboli. E le allegorie, che rappresentano sequenze di simboli. E ancora i miti: simboli che, perduta la loro staticità, acquistano un loro dinamismo e una loro storia. E infine i riti, che fanno divenire chi vi partecipa simboli stessi di
eventi trasformativi. I simboli, le allegorie, i miti e i riti ci parlano con le parole, con le immagini, con le emozioni. È una comunicazione a 360 gradi, perché sfrutta tutte le potenzialità, dateci dalle due metà della nostra mente. È chiaro che mi sto riferendo al linguaggio proprio della cultura iniziatica. E non dobbiamo dimenticarci che anche l’enigma è parte integrante di tale cultura. Dunque, dai risultati degli studi che abbiamo esaminato insieme, non ci è difficile inferire che le modalità di pensiero caratteristiche della tradizione iniziatica sono in grado di far comunicare le due metà del nostro universo mentale, di potenziarlo e di renderlo, per certi versi, eternamente giovane. ______________ Bibliografia: Kluger J. The art of living. Time Sept 23, 2013. Singh-Manoux A, Kivimaki M, Glymour MM, Elbaz A, Berr C, Ebmeier KP, Ferrie JE, Dugravot A. Timing of onset of cognitive decline: results from Whitehall II prospective cohort study. BMJ. 2012 Jan 5;344:d7622. Global versus local processing: is there a hemispheric dicotomy? Boles D.B. in Neuropsychologia 22: 445-455, 1984. Hemispheric laterality in animals and the effect of early experience. Denenberg V.H. in “Behavioural and Brain sciences”, 4; 1-149, 1981.
P.60-61: Cervello, immagini concettuali; p.62: TAC a falsi colori del cervello; p.63: Rete neuronale, computer-art.
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La fondazione della cittĂ degli uomini Gli studia humanitatis di Francesco Petrarca Ida Li Vigni 64
ualora volessimo fissare simbolicamente il punto di cesura tra la forma mentis medievale e quella umanistica dovremmo guardare sulla scia del Burdach, ma ribaltandone parzialmente le conclusioni, alle reazioni del Petrarca a proposito del fallito tentativo di Cola di Rienzo di far rivivere la grandezza di Roma nella forma di una civitas Dei compiutamente universale e terrena. È noto come il Petrarca, dopo aver guardato inizialmente con simpatia all’azione del tribuno romano scambiandola per una rivendicazione di libertà comunali o nazionali, la biasimasse duramente non appena comprese che in realtà Cola tentava di autoinvestirsi di una missione universalistica travalicante la sfera del mondano. Il fatto è che il mito della renovatio spirituale, indubbiamente presente tanto nel sogno politico di Cola quanto nell’opera letteraria del Petrarca, si stava progressivamente laicizzando; ovvero, andava via via opponendo al sogno mistico del Regno dello Spirito il progetto di una civitas terrena dove gli uomini avrebbero potuto realizzarsi moralmente in virtù delle loro attività mondane e nella consapevolezza che la destinazione divina dell’uomo non preclude una realizzazione virtuosa nella sfera del mondano. Così, ciò che per Cola di Rienzo doveva essere palingenesi del mondo, riconversione della città terrena nella città di Dio, per il Petrarca è soltanto rinascita dell’antica libertà di Roma, instaurazione di una città degli uomini in cui ogni salvezza spirituale si ottiene all’insegna della conciliazione fra studia humanitatis e studia divinitatis. L’anelito messianico che aveva spinto il tribuno romano a fare proprio il profetismo di Gioacchino da Fiore e degli spirituali in nome dell’instaurazione in terra della monarchia del Signore entro i termini del Sacro Impero di Roma, tanto da fargli annunciare con tono ispirato “... Si sono spalancati i cieli e, nata dalla gloria di Dio Padre, la luce di Cristo, diffondendo lo splendore dello Spirito Santo, a voi che abitate le ombre tenebrose della morte ha preparato la grazia di una inattesa e mirabile chiarità...”, e ancora, in una fusione di libertas, pax e renovatio, “... Dio mira ad una riforma universale, già preannunciata da molti uomini dello spirito ... È vicino il momento dell’inizio dell’età dello Spiri-
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to Santo ... Riformeremo il mondo insieme con l’Imperatore eletto...”, era l’espressione di una crisi mistico-politica che non poteva conciliarsi con la crisi spirituale, e tutta interiore, di quanti come il Petrarca venivano riscoprendo con l’humanitas classica i valori dell’individuo concreto nella sua univocità di “essere”, al di là delle giustificazioni e delle sistematizzazioni dottrinarie della Scolastica. Una nuova strada filosofica, in aperto dissidio con quella di ispirazione aristotelica, si stava delineando sulla traccia dell’esigenza occamista d’eliminare le distinzioni formali e le necessità concettuali per fare strada all’esperienza immediata e diretta e alla integrità concreta dell’individuo. Come afferma Garin: Le specie scolastiche ... che dovevano essere il tramite attraverso il quale la nostra mente raggiungeva le cose, erano diventate dei diaframmi che impedivano all’uo-
mo il rapporto con il mondo, con gli altri, con Dio. La cultura umanistica, con quel suo appello alle cose, fu appunto uno sforzo di liberazione o, come si amò dire, una sorta di rinascita nuova, di purezza riconquistata in seno a una realtà riscoperta ... Con il suo amore per le humanae litterae, la sua fame di sapere e la sua critica alla cultura scolastica, Petrarca si pone naturalmente all’alba dell’Umanesimo e vi si colloca come letterato e poeta, inaugurando quella feconda generazione di “non filosofi” (ma poeti, letterati, giuristi, politici e predicatori) che nel corso del Quattrocento getteranno le basi di un nuovo sapere e di una nuova cultura filosofica; ovvero, per citare ancora una volta Garin, di una “... concezione davvero nuova della realtà intesa sub specie hominis, e cioè in termini di libertà e volontà e attività; non un mondo immoto, definito in tutte le sue articolazioni, non una sto65
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ria tutta scontata, ma opera, e miracoloso trasformare il tutto, e rischio e, insomma, virtù...”. Né questo deve stupire, ché la filosofia prima di essere la “gabbia” di sistematizzazioni dottrinarie è formulazione di metodi tramite i quali strutturare le indagini sulle verità mondane; umane ed extramondane. In questo senso gli Umanisti e prima di loro il Petrarca furono filosofi: essi, infatti, seppero fondare un nuovo universo metodologico e speculativo avvalendosi dei loro propri strumenti: la filologia, la grammatica, la retorica, la poesia. Si potrebbe obiettare che di alcuni di questi strumenti si era già servito il pensiero medievale, così come già i filo66
sofi medievali avevano operato il recupero diretto dei classici, latini e greci. Tutto questo è vero, ma è altrettanto incontestabile che gli Umanisti assumono consapevolmente altri oggetti di indagine e piegano i loro strumenti ad altri fini. Per loro la riscoperta dell’humanitas classica e la rinascita delle humanae litterae non soggiaciono al progetto di una quanto mai difficile conciliazione fra verità di ragione e verità di fede, fra parola umana e Verbo divino, ma rispondono all’esigenza ormai non più procrastinabile di recuperare l’uomo alla sua dignità naturale, di risalire alle scaturigini del pensiero umano e divino per ridurre le distanze fra l’attivi-
tà umana e l’atto creativo di Dio, di fondare una comunità umana spirituale sovratemporale ma non per questo identificabile con l’immota e conclusa città di Dio. L’aggancio alla humanitas classica e il modo di intenderla vennero offerti mirabilmente dal Petrarca, il cui discorso sui tormenti interiori dell’anima e sulle falsità del mondo scorre parallelo allo studio profondissimo degli scrittori classici per approdare, infine, alla denuncia dell’impossibilità di una vera conoscenza del reale attraverso la scienza empirica e della vanità di questa scienza per la salvezza umana, in linea con quel suo agostinianismo che lo porta a condannare ogni scienza astratta e verbosa che isola il mondo dalle sue radici e a cui è necessario sostituire la scienza socratica, ovvero la scienza del rinnovamento interiore. È un percorso speculativo che si dipana cronologicamente nell’arco di oltre un ventennio, dal 1342 al 1367, e che si fissa in cinque opere latine, il Secretum (considerando la prima redazione del 1342-43 e la stesura definitiva del 1353-58), il De vita solitaria e il De otio religioso (concepiti nel 1346-47, ma portati a compimento nel 1356), l’Invectiva contra medicum (1357) e il De sui ipsius et multorum ignorantia (o De ignorantia, del 1367), ma di cui troviamo amplissime tracce in tutto l’Epistolario. Proprio in quella straordinaria autobiografia che è l’Epistola posteritati Petrarca evidenzia vigorosamente la propria inclinazione meditativa e il proprio amore per il mondo antico: ... Fui d’intelligenza equilibrata piuttosto che acuta; adatta ad ogni studio buono e salutare, ma inclinata particolarmente alla filosofia morale ed alla poesia. Quest’ultima con l’andare del tempo l’ho trascurata, preferendo le Sacre Scritture, nelle quali ho avvertito una riposta dolcezza (che un tempo avevo spregiata), mentre riservavo la forma poetica esclusivamente per ornamento. Tra le tante attività, mi dedicai singolarmente a conoscere il mondo antico, giacché questa età presente a me è sempre dispiaciuta, tanto che se l’affetto per i miei cari non mi indirizzasse diversamente, sempre avrei preferito d’esser nato in qualunque altra età; e questa mi sono sforzato di dimenticarla, sempre inserendomi spiritualmente in altre ... Ne emergono tre tratti inconfondibili: la naturale inclinazione per la “filosofia mo-
rale” (e si noti quale differenza con Dante, di certo assai più filosofo di lui e tuttavia umilmente seduto ai piedi dei sapienti a raccogliere i frammenti del loro sapere), la sostituzione della poesia con le humanae litterae (ché il riferimento alle Sacre Scritture è da situarsi nel quadro dei suoi studi filosofici e classici) e, ancora, l’amore per il il mondo antico in nome di una comunione spirituale che travalica la temporalità per instaurare un intimo colloquio con le anime nobili, accomunate nel culto della verità e della bellezza. Il percorso è chiaro: per sfuggire al fastidio ingenerato dalle cose terrene (il presente), occorre isolarsi e colloquiare col passato (mediato, appunto, dagli studia humanitatis e dalla filosofia morale), al fine di pervenire alle gioie dell’interiorità (notomizzata socraticamente in tutte le sue pieghe più nascoste e segrete), di cui poi si comprenderà il vero significato in virtù della meditazione “religiosa”. In tal modo, humanae e divinae litterae si incontrano e si conciliano armoniosamente, anche se la sete insaziabile di “cose oneste” che guida l’anima è tutta rivolta agli scrittori classici, a coloro che invitano con il loro esempio morale alla fondazione dell’ideale città degli uomini: ... L’oro, l’argento, le vesti purputee, i palazzi, marmorei, una bella campagna, le pitture, gli adorni destrieri, e tutte le cose di questo genere, recano un piacere muto e superficiale. I libri dilettano in profondità, parlano con noi, ci consigliano, ci restano uniti in una consuetudine viva e sottile... Far tacere i rumori del mondo e dare voce, nel silenzio della solitudine interiore, a coloro che non muoiono e che trasmettono la verità; recuperare l’uomo alla sua umana univocità attraverso il contatto con le anime nobili, anche se ancora in presenza di Dio: questo è il sogno umanistico del Petrarca. Ma per accedere al colloquio con le anime nobili e vivere nell’interiorità la solitudine e il silenzio del saggio, occorre liberarsi dagli errori umani, cercare fuori e al di là della molteplicità delle cose quello che si può trovare solo dentro di sé. Occorre, cioè, “confessarsi”, mettere a nudo il conflitto dell’anima perpetuamente combattuta fra rinuncia e mondanità, fra amore terreno e amore celeste, denunciare le falsità e le vanità del mondo per ritrovare quella verità del mondo che prepara gli uomini alla verità eterna.
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E appunto una confessione apre il percorso filosofico del Petrarca: quell’intimo colloquio che egli instaura con Agostino nel Secretum alla presenza della Verità altro non è che la confessione delle miserie umane e al contempo il tentativo di pervenire alla virtù morale tramite una maieutica dell’errore. Non è questa la sede per celebrare l’assoluta grandezza poetica e psicologica di una tale opera; si tratta, piuttosto, di scoprire dietro il velo poetico di queste pagine confessionali i presupposti di una filosofia morale che via via il Petrarca svilupperà sempre più organicamente e coscien-
temente nelle opere successive. Come è noto, nel libro I del Secretum sant’Agostino individua quale punto esiziale della “infermità” del Petrarca l’assenza di una forte e convinta volontà che gli impedisce di estinguere ogni desiderio terreno e quindi di cancellare quei phantasmata (le impressioni sensoriali) che lacerano l’anima e che nutrono l’inquietudine. Dunque, è solo in forza di un atto di volontà che l’uomo si libera dal mondo dei fatti fisici e dei virtuosismi logici che portano a un falso sapere, dato che la verità del mondo sta in Dio, che ne è radice, e nell’anima umana che partecipa per sua natura 67
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a quella verità. Seguono nel II e III libro le analisi dettagliate degli errori più gravi del poeta: l’egritudo o accidia, l’amore per Laura e per la gloria. L’egritudo, spiega sempre Agostino, è il fastidio dell’esistenza, lo scontento profondo e senza ragione immediatamente riconoscibile di se stessi e delle cose del mondo; è l’incapacità di riscuotersi dallo stato di angoscia in cui si giace, il vano desiderio di una beatitudo che si può ottenere solo nella tranquillità interiore apportata dall’esercizio della virtù meditativa. È evidente l’invito alla solitudine, alla fuga dalle parvenze illusorie che animano il mondo terreno, per ritrovare nell’isola68
mento quella integrità interiore che le passioni terrene continuamente distruggono. Di queste passioni le più pericolose sono quelle che spingono a cercare l’oggetto dell’amore e della beatitudo nelle persone fisiche o nella gloria mondana ed è proprio qui che l’agostinismo del Petrarca si fa più radicale. Denunciando senza mezzi termini la peccaminosità dell’amore per Laura, Agostino oppone di fatto alla filosofia stilnovistica dell’amore sostenuta dal poeta una durissima disamina delle inclinazioni erronee di una siffatta interpretazione dell’amore. Egli nega che l’amore per una donna mortale possa costituire un’esperienza metafisica e quindi reden-
trice tramite la semplice contemplazione di una realtà apparentemente beatificante. In realtà, anche qualora si ammettesse una ipotetica perfettibilità dell’anima in virtù dell’amore, una siffatta esperienza è destinata a rimanere esclusivamente terrena, sicché essa non potrà mai essere angelica o catartica, ma sarà sempre e soltanto peccaminosa in quanto soggetta all’illusorietà dei dati sensibili. Infatti, amare Dio tramite una sua creatura significa operare una pericolosa inversione di valori che allontana l’anima dall’unico vero amore, quello puro per il Creatore, di cui la creatura è solo un pallido riflesso. L’amore per una donna, come quello della gloria (e non a caso Laura è amata anche per il suo nome, che rimanda alla gloria poetica), è pertanto vano e peccaminoso, dal momento che costituisce un’inclinazione morbosa verso quei phantasmata che distolgono l’uomo dalla considerazione delle cose eterne. Ma come conciliare l’amore per le “cose oneste”, la passione per le humanae litterae, con l’invito agostiniano ad abbandonare tutto ciò che è fragile e disviante riflesso del divino in terra? Come conciliare gli amati classici e la filosofia pagana con il cristianesimo agostiniano? Se il Secretum si chiude sull’immagine di un Petrarca dolorosamente consapevole di non sapere, o volere, applicare i consigli agostiniani, nelle opere successive e nelle Epistole (soprattutto le Familiares e le Seniles) scopriamo agevolmente come egli abbia risolto, almeno filosoficamente, quel conflitto. Il punto di transizione si trova delineato in due trattati, il De vita solitaria e il De otio religioso, di carattere più morale che dottrinale, più umano che teologico. Nel De vita solitaria il Petrarca esalta la solitudine e la beatitudo che contraddistinguono la vita ritirata dell’uomo virtuoso, lodandole quali strumenti morali che assicurano la piena libertà dagli affanni della caotica vita mondana e placano i tormenti e i dubbi dell’anima. All’esistenza inutilmente affannosa del cittadino che trascina la sua misera vita nella ricerca delle vane ricchezze e nell’esercizio dei vizi, si oppone quella ideale dell’uomo solitario, intento a coltivare la meditazione religiosa, la pace dell’anima e lo studio affettuoso dei classici. Si tratta di una visione ascetica, ma quanto lontana da quella dei santi e degli eremiti, dai
patriarchi ai profeti biblici, dagli anacoreti della Tebaide a san Francesco e Celestino V (lodato dal Petrarca proprio per quel “rifiuto” che tanto aveva sdegnato Dante). Tanto lontana, che il Petrarca non riesce a trattenersi una volta dal definire “orrida” la visione eremitica tradizionale che così crudamente sviliva la naturale dignità umana. Il suo solitario, infatti, è un saggio che non rifiuta il mondo perché tutto ciò che è terreno è peccaminoso e tentatore, ma se ne isola per non disperdersi nella molteplicità delle cose: egli non sceglie di vivere in un arido deserto lontano dal consorzio umano, ma ama isolarsi all’interno della comunità umana, trascorrendo la sua giornata fra le preghiere, gli studi e gli onesti svaghi, avendo come compito principale quello di occuparsi delle lettere, ora studiando e meditando sugli antichi, ora impegnandosi a produrre egli stesso quello che dovrà essere letto e studiato amorosamente dai posteri. Il modello di questa ascetica singolare è chiaramente quello antico di otium letterario offerto dai filosofi e dai poeti classici, da Cicerone a Seneca, da Orazio a Virgilio; ma ciò che più conta sottolineare è che esso non viene più visto in contrapposizione insanabile con i valori cristiani di ascesi mistica in Dio. Le humanae litterae non sono più di ostacolo alla salvezza eterna ma sono un cibo spirituale che avvicina a Dio e che sostiene fermamente l’uomo nella sua lotta contro le passioni terrene, come ricorda il poeta al Boccaccio in una delle Seniles quando questi voleva abbandonare gli studi letterari profani: ... No che non deve l’amore della virtù né il pensiero della morte vicina di storci dallo studio delle lettere ... Né fan le lettere impedimento a chi con animo ben disposto se ne procaccia il possesso, e nelle difficoltà del terreno viaggio, non di inciampo gli sono, ma di conforto e di aiuto ... Il mondo classico non entra più in conflitto morale con il mondo cristiano, dal momento che la filosofia e la letteratura antiche vengono riconosciute quali strumenti di morte alla vita mondana e di recupero della luce spirituale. Non ci si deve stupire pertanto se nel De otio religioso, celebrazione della vita monastica condotta sulla falsa riga del De vera religione di Agostino, le citazioni tratte dai Padri della Chiesa vengano spesso chiosate, rafforzate o
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chiarite tramite citazioni di Cicerone e Seneca, di Plinio e Stazio. Se le humanae litterae non sono nemiche delle divinae, a maggior ragione Cicerone non si oppone ad Agostino ma ne è in certo qual senso il precursore, tanto che in un passo del II libro del Secretum lo stesso Agostino esortava il poeta a leggere gli scrittori antichi (soprattutto Cicerone e Seneca) e a far tesoro delle loro massime: Ogni volta che, leggendo, ti imbatti in qualche sentenza salutare, adatta a spronare o a frenare il tuo animo, non fidarti della forza del tuo ingegno, bensì riponila nei penetrali della tua memoria, opera con ogni studio a rendertela familiare; affinché, come i medici esperti, tu abbia in pronto, bene impressi, per così dire, nella mente, i rimedi, allorché in qualsiasi tempo o luogo, insorga una malattia che esiga di essere curata senza indugio ... Tale concetto viene ribadito più chiaramente in una delle Familiares, indirizzata al Colonna: ... Non arrossì mai Agostino nel riconoscere la grandezza di Cicerone. Perché mai avrebbe dovuto arrossire? Nessuna guida è da disdegnare, se mostra la via
della salvezza. In che mai possono nuocere Platone e Cicerone alla ricerca della verità? La scuola dell’uomo non solo non combatte la vera fede, ma la insegna e la diffonde; i libri dell’altro sono guide nel cammino che ad essa conduce ... Platonismo, stoicismo e agostinismo: ecco i tre poli filosofici che il Petrarca si sforza di conciliare nel tentativo di dare una risposta a quella crisi del pensiero medievale che con la progressiva dissociazione di fede e ragione portava a mettere in dubbio la validità di ogni ricostruzione sistematica e a ripudiare gli strumenti dell’indagine logica e naturalistica. Soprattutto il platonismo ci permette di comprendere meglio la posizione filo del Petrarca. Di Platone Petrarca lesse soltanto nella traduzione latina il Timeo e il Fedone, affidandosi per un quadro generale del pensiero platonico alle notizie che poteva ricavare da Cicerone, Apuleio, Agostino, dalla tradizione platonica medievale, dai commenti di Calcidio e di Macrobio, integrati forse con le riflessioni di Barlaam, il monaco basiliano buon conoscitore della cultura bizantina, che proprio in quegli anni criticava la separazione pla69
tonica e negava validità alla concezione di una beatitudo collocata nella pura spiritualità e conquistata attraverso il distacco assoluto dalla vita sensibile (il corpo). Proprio da questa conoscenza disorganica e indiretta Petrarca derivava la convinzione che già in Platone fosse presente quel-
Filoso–a la concezione della filosofia come rivelazione morale e “religiosa” che poi Agostino avrebbe trasformato in scienza della coscienza e della conoscenza del Verbum divino. Il platonismo, insomma, gli serviva come strumento polemico di contestazione degli aristotelici, da lui accusati nell’ Invectiva contra medicum e nel De sui ipsius et multorum ignorantia di aver sostenuto la separatezza della natura e la sua conoscibilità per mezzo della ragione, quando in realtà le cose terrene sono di per sé inconoscibili e quindi non riducibili a sistematizzazioni logiche. Il fatto è che per il Petrarca la vera filosofia non è riducibile alla scienza empirica, così come non deve affrontare i problemi morali e religiosi (gli unici oggetti di meditazione che le competono) come se si trattasse di fatti fisici o di eventi riducibili ad astratti sofismi. Essa è, invece, scienza dell’uomo nella sua complessa struttura psichica, disamina morale delle facoltà interiori, delle debolezze, delle speranze e delle illusioni umane, ovvero “... non è quella (filosofia) che s’innalza su ali fallaci e con verbosa iattanza si avvolge nel vuoto di inutili discussioni; bensì l’altra che con passi sicuri tende direttamente alla salute dell’anima...”. Ed ancora: “... Il meditare appunto sulla morte, l’armarsi contro di essa di disprezzo e pazienza, l’andarle incontro se sia necessario, e in nome della vita eterna, della felicità e della gloria, sopportare questa breve e misera esistenza con alto animo, questa infine è la vera filosofia, quella che giustamente fu detta essere non altro che contemplazione della morte...”. Frase quanto mai emblematica per il nascente Umanesimo in forza di quel suo fondere il mito della beatitudo a quello della gloria sotto l’insegna di una teoresi della “buona morte” sempre più destinata a laicizzarsi; ma ancor più significativa in quanto posta nel I libro delle Invectivae contra medicum a ribadire la vanità della scien70
za empirica per la salvezza umana. Come è noto, le Invectivae furono scritte dal Petrarca per ribattere alle grossolane accuse di un medico che non pago di tacciare il poeta di ignoranza filosofica, aveva anche sostenuto l’inutilità degli studi classici e della poesia. Il Petrarca insorge vivacemente soprattutto contro quest’ultima accusa e non lo fa certo in nome della sua ormai superata “militanza” poetica, bensì in nome di una filosofia morale dell’uomo che non ha bisogno di forzare i segreti della natura per ingabbiarli in inutili sistematizzazioni logiche, così come non ha bisogno di piegare le rivelazioni della fede nelle forme di sterili sofismi, ma che si sostiene anche della sapienza poetica, poiché essa sa dare voce ai contenuti morali. Per questo la poesia, anche quella pagana, non è “per nulla contraria alla teologia”: gli antichi possono aver trattato di temi lontani dalle verità del cristianesimo, ma la loro poesia, quando parla delle verità umane, è pura, così come è pura la poesia in se stessa, tanto che la teologia stessa può essere intesa come una sorta di poetica intorno a Dio. Ai teologi scolastici si vengono così a contrapporre i teologi “poeti” come Agostino che non “... discorrono di Dio, come i filosofi della natura, favoleggiando in modo temerario...”; ed è una polemica che egli riprenderà in forma più articolata nel De sui ipsius et multorum ignorantia, rispondendo alle irreverenti contestazioni di alcuni giovani averroisti veneziani che, fra l’altro, lo avevano definito “buon uomo, anzi ottimo, ma illetterato e affatto idiota”. Qui la polemica filosofica del Petrarca sembra appuntarsi definitivamente contro Aristotele: … ritengo che Aristotele sia stato un grand’uomo e pieno di dottrina, ma pur sempre un uomo; e perciò penso che abbia potuto ignorare qualcosa, anzi molte Cose. Dico di più ... io credo, e non ho il minimo dubbio, che egli abbia completamente sbagliato strada non soltanto in piccole cose, dove l’errore è modesto e senza alcun pericolo, ma nelle cose più rilevanti, quelle riguardanti la suprema salvezza. E quantunque al principio dell’Etica e alla fine abbia trattato ampiamente della felicità, io avrò cuore d’affermare ... ch’egli non ebbe alcuna idea della vera felicità ... È evidente che l’Etica del “fisico” e “dialet-
tico” Aristotele non poteva offrire molte soluzioni a quella “... perversa e morbosa libidine d’ingannare se stessi...” di cui parla Agostino nel Secretum e che costituisce uno dei più gravi tormenti di quell’uomo interiore cui fa riferimento il Petrarca. Ma è altrettanto chiaro che la polemica è diretta più che contro Aristotele contro gli aristotelici e gli averroisti, colpevoli di aver abbandonato il problema morale dell’uomo e di essersi rivolti alla natura di per se stessa, nell’illusione di poterla svelare facendo ricorso a mezzi razionali e di poterne fissare le leggi, quando in realtà “i segreti della natura” e “i ben più difficili misteri di Dio” non possono essere penetrati con i falsi strumenti della logica e dell’empirismo. E poi, a che cosa serve contare i peli della criniera del leone o le penne dello sparviero, o sapere quanto duri la gravidanza degli elefanti o come sia unico e infelice il parto della vipera? ... Codeste cose, in gran parte, o son false, il che apparve quando se ne potè fare esperienza, o sconosciute a quelli stessi che le affermano ... ma quand’anche fossero vere, a nulla servirebbe per la vita beata. Io infatti mi domando a che giovi il conoscere la natura delle belve e degli uccelli e dei pesci e dei serpenti, ed ignorare e non curare di sapere la natura dell’uomo, perché siamo nati, donde veniamo, dove andiamo... L’indagine logica e la ricerca naturale vengono così rifiutate in nome di una filosofia morale che considera la natura ancora come cifra del divino e che guarda soltanto all’anima e alla sua salvezza eterna. E tuttavia, proprio perché i filosofi sono Cicerone, Seneca e Platone, accanto ad Agostino, appare evidente come ormai il problema filosofico tenda a spostarsi verso l’Uomo inteso nella sua univocità di individuo e non come specie. Di lì a poco, sulla scia della riscoperta dell’uomo morale attuata da Petrarca, Coluccio Salutati si assumerà il compito di laicizzare definitivamente l’uomo, trasformando il mondano nella palestra assolutamente terrena dell’agire umano e avviando quella costruzione della città degli uomini che nel Petrarca costituiva soltanto un sogno di comunicazione sovratemporale con le anime nobili. P.64/71: Immagini tratte da ‘I Trionfi’ di Francesco Petrarca, manoscritto, XV sec.
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Nino Bixio Antonino Zarcone
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...in uniforme
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ixio Gerolamo, detto Nino, nasce a Genova il 2 ottobre 1821. Ottavo e ultimo figlio di Colomba Caffarelli e di Tommaso, direttore della Zecca di Genova, perde la madre a soli nove anni. Trascurato dal padre, ammogliatosi di nuovo, e abbandonato a sé stesso, si imbarca giovanissimo tredicenne come mozzo nel brigantino Oreste e Pilade in partenza per l’America. Durante questo periodo per la sua giovane età viene chiamato Nino. Tornato a Genova nel 1837, a novembre dello stesso è spinto dalla matrigna ad arruolarsi “volontario” nella marina sarda quale surrogato al posto di un fratello. Sotto le armi, nonostante il carattere impetuoso e talvolta ribelle, riesce ad cattivarsi l’affetto del capitano Milelire comandante dell’avviso a ruote Aquila su cui è imbarcato, che gli consente di studiare e formarsi per la carriera nella marina militare, e nel 1841 viene promosso al grado di aspirante. Tre anni dopo lascia il servizio perché a sua volta surrogato da un altro volontario grazie all’aiuto del fratello maggiore Alessandro che intanto era divenuto un importante funzionario di una banca in Francia. Tornato a Genova conosce la nipote Adelaide Parodi, figlia della sorella mag-
‘‘Qui si fa l’Italia, o si muore!’’ Garibaldi a Nino Bixio, Calatafimi, 15 maggio 1860 giore Marina, con cui convolerà a nozze, dopo un lunghissimo rapporto clandestino, undici anni più tardi. Impaziente e votato all’avventura, lasciato il servizio regio, grazie all’esperienza maturata nella marina sarda trova ingaggio come ca-
pitano in seconda su un bastimento mercantile diretto in Brasile. Giunto a Rio de Janeiro Bixio scopre che la nave è stata passata ad un nuovo armatore che intende utilizzarla per il trasporto degli schiavi e rifiuta di assumerne il comando. Tornato a Genova viene ingaggiato come secondo nostromo e, sempre insieme a due amici, il Parodi e il Tini, salpa alla volta di Sumatra imbarcato su una nave americana. Dopo un tentativo di fuga, nel quale uno dei due amici, il Parodi, muore divorato dai pescicani, nel 1846 raggiunge New York negli Stati Uniti e poi Anversa. Ai primi del 1847 si trova a Parigi, ospite di suo fratello Alessandro, dove conosce il Mazzini dal quale viene attratto per le sue idee rivoluzionarie. Tornato a Genova e divenuto amico di Mameli, diventa iniziatore e capo di dimostrazioni politiche. Il 4 novembre 1847 in Piazza Carlo Felice a Torino afferra per la briglia il cavallo di Re Carlo Alberto, che incita a varcare il Ticino per muovere guerra all’Austria. Scoppiata la prima guerra d’indipendenza, si arruola volontario nella “Legione Torres” di Crema, poi partecipa alla “Colonna Mantovana” e combatte con la “Legione Zambeccari” a Bologna, a Governolo, Venezia, Vicenza e Treviso. Ver73
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so la fine del ‘48 entra nella legione italiana di Giuseppe Garibaldi e partecipa alla difesa della Repubblica Romana del 1849. Sbarcati i Francesi a Civitavecchia, è incaricato di recapitare la lettera di protesta inviata dall’Assemblea costituente al generale Oudinot, giunto in soccorso per ripristinare il potere temporale del Papa Pio IX. Il 30 aprile 1849 si mette in evidenzia durante i combat74
timenti di porta a San Pancrazio, compiendo atti che parvero «racconti fantastici di bravate orlandesche». Il 9 maggio 1849 viene nominato capitano per il suo valoroso contegno nel combattimento di Palestrina. Il 3 giugno, aiutante di Garibaldi, si copre di gloria a Villa Corsini, dove il combattimento era più accanito e decisivo, guidando alcuni assalti alla baionetta. Rimasto gravemente ferito, è ricoverato insieme con il Mameli all’o-
spedale dei Pellegrini. La sua condotta gli vale una medaglia d’oro decretata dalla Repubblica Romana ed il personale elogio di Garibaldi che lo promuove sul campo al grado di maggiore. Caduta la Repubblica, Nino Bixio torna a Genova dove studia per conseguire il diploma di capitano di lungo corso. Divenuto Comandante si dedica alla navigazione per sei anni continui e, nel frattempo, si sposa. Alla vigilia della seconda guerra d’Indipendenza contro l’Austria fonda e dirige il giornale, il San Giorgio (poi Nazione). Durante la campagna del 1859 gli è affidato il comando di un battaglione di Cacciatori delle Alpi, alle dipendenze del generale Garibaldi, con cui combatte dal Po al passo dello Stelvio, dimostrando di essere il grande combattente difensore della Repubblica Romana, tanto da essere insignito della Croce dell’Ordine Militare di Savoia. Dopo l’armistizio di Villafranca si porta in Toscana, nell’esercito della Lega dell’Italia centrale, a comandarvi un reggimento, di nuovo a fianco di Garibaldi. Scoppiata l’insurrezione della Sicilia nel 1860, è uno dei più fervidi preparatori della spedizione dei Mille. Comandante del vapore Lombardo fino allo sbarco a Marsala; combatte a Calatafimi, ove, alla testa del primo battaglione, prende come sempre coraggiosamente parte all’azione. All’ingresso in Palermo, dove guida l’assalto al ponte dell’Ammiraglio, riporta una ferita alla clavicola causata da una palla vagante. Dopo una breve convalescenza, è incaricato di guidare la 1ª Brigata della Divisione Turr verso Corleone e Girgenti, trovandosi ad espletare incarichi di polizia militare, su disposizioni di Garibaldi che
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temeva il verificarsi di eccidi. A causa di questo incarico, Bixio è mandato a reprimere disordini a Santa Croce Camerina, dove erano stati trucidati i marinai di un bastimento svedese, ed a Bronte, dove le giuste rivendicazioni delle terre da parte dei contadini si erano trasformate in una rivolta in cui erano stati saccheggiati alcuni edificio e assassinati sedici cittadini. Fermo e irruento reprime la rivolta con severo rigore e istituisce un Tribunale di guerra che giudica circa 150 persone condannandone 5 all’esecuzione capitale. Promosso Maggiore Generale con decreto del 15 agosto, assume il comando della 15ª Divisione, con la quale sbarca a Melito di Porto Salvo e, nella notte del 21 agosto, prende d’assalto la città di Reggio Calabria, conquistandola Durante i combattimenti il suo cavallo viene abbattuto da 19 pallottole, mentre Bixio rimane ferito al braccio sinistro. Passato in Calabria, Raggiunge a Napoli Garibaldi, che nelle giornate del Volturno (ottobre 1860) gli affida la posizione dei Ponti della Valle, ove spezza l’urto delle forze del generale von Mechel. Promosso luogotenente generale, viene eletto deputato nell’VIII e IX legislatura del Regno per il 2° collegio di Genova, partecipando ai lavori di 4 importanti commissioni par-
lamentari: sul brigantaggio, sulle condizioni della marina mercantile e militare, sulla marina in generale e sul bilancio. Durante il suo mandato cerca di promuovere ogni possibile azione per liberare Venezia e Roma, nel vano tentativo di riconciliare le posizioni di Cavour e Garibaldi, e nell’incitare continuamente il governo italiano ad intensificare i traffici commerciali con il Medio ed Estremo Oriente, creando basi marittime sul Mar Rosso e in Cina, come già facevano Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti d’America. Comandante della divisione militare di Alessandria, viene mobilitato per assumere il comando di una divisione attiva in occasione della campagna del 1866. Preso il comando della grande unità provvede a riorganizzarla ed addestrarla con vigore. Contrariato dal modo con cui viene condotta la campagna e addolorato dalla sconfitta di Custoza spinge per mantenere un atteggiamento offensivo verso gli austriaci. Massone, iniziato probabilmente nella loggia “Trionfo Ligure” del Grande Oriente d’Italia, nel 1867 viene nominato Primo Sorvegliante della Loggia “Valle di Potenza” di Macerata. Il 3 novembre 1867 partecipa alla battaglia di Mentana dove è inizialmente fat-
to prigioniero da un battaglione transalpino, ma riesce a sfuggire. Il 6 febbraio del 1870 Bixio viene nominato senatore del Regno e poco dopo assume il comando della divisione militare di Bologna. Nel successivo settembre, è chiamato a far parte del corpo d’operazioni nello Stato pontificio e, anche per prevenire azioni derivanti dal suo dichiarato anticlericalismo, la sua divisione viene incaricata di espugnare la cittadella fortificata di Civitavecchia che capitola con pochi scontri, dopo un ultimatum di Bixio. Lasciato l’Esercito con un memorabile ordine del giorno alle sue truppe, si dedica alla costruzione di un bastimento in ferro, battezzato Maddaloni col quale viaggia per qualche mese nell’arcipelago malese. A causa di un’epidemia colerica propagatasi tra il suo equipaggio, muore il 16 dicembre 1873, nel porto di Atjein, nell’isola di Sumatra. La sua salma viene trasferita a Batavia e poi, rimpatriata dall’ammiraglio Canevaro, nel 1877 a Genova dove è deposta nel cimitero di Staglieno. P.72-73: Ritratti di Nino Bixio; p.73: Calatafimi: ‘Qui si fa l’Italia o si muore!’; p.74: Reduci garibaldini, primi del ‘900; sotto i due piroscafi ‘Piemonte’ e ‘Lombardo’. della spedizione dei Mille; p.75: Giuseppe Garibaldi e - a destra - una medaglia commemorativa del Municipio di Palermo.
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bile giungere solo attraverso l’operatività massonica. Operatività intesa come lavoro diretto alla realizzazione dell’Opus, della Grande Opera, del Capolavoro spirituale …”. Dalla prefazione
perché ha fatto qualche Master e tirocini formativi in giro. In realtà è, come tutti, un perdente. Che ha fatto però della sua sconfitta un mestiere. Per questo, nonostante gli schiaffi, è ancora qui.
Testamento di un massone F.Castelletti Cazzato, Edizioni Tipheret, Catania/Roma.
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Compagno Libero Muratore, vol. II Manuale o avviamento ad uso degli iniziati al grado di Compagno G. Galassi, , Edizioni Secreta, Monteriggioni (SI) 2013, illustrato, pp. 130, €. 9,90.
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l grado di Compagno è, senza dubbio, quello meno noto, tra i tre gradi simbolici, perché, solitamente, il meno praticato nell’ambito dei lavori libero – Muratori. Gli si preferisce, infatti, anche per un maggior coinvolgimento dei neofiti, la camera di Apprendista, nell’ambito della quale sono normalmente trattati argomenti di carattere filosofico – iniziatico o, nella migliore delle ipotesi, antropologico – iniziatico. Si agisce così su un piano meramente teorico o, se si vuole, speculativo, nel modo in cui lo intendeva René Guénon. Speculativa è l’operazione che consiste nel rivolgere lo sguardo su una superficie riflettente, per cogliervi “qualche cosa che”, dice appunto Guénon, “è soltanto un riflesso come un’immagine vista in uno specchio”. E, proprio per questo, incapace di assicurare la penetrazione della dimensione iniziatica, alla quale, invece, è possi-
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Un Dio che riposa fra i fenomeni del Mondo M.Cascio, Edizioni Tipheret, Catania/Roma.
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io c’è ma non si vede. Qualche religione lo vuole rivelato, in una storia e in una geografia. Lui invece pare si diverta a nascondersi. Così l’Arte, la Religione e la Filosofia diventano luoghi di un sottrarsi che non può essere più qualcosa di definitivo. Queste pagine – ironiche, colte, amare – sono la sintesi di un dialogo continuo tra l’uomo e il suo creatore. Un dialogo che se ne stava da qualche parte a dormire. È ora di svegliarlo... Mauro Cascio, filosofo e consulente filosofico, è uno di quelli che pensa che i suoi problemi debbano interessare a qualcuno. Ricerca il suo senso ed è convinto che per dirsi uomini davvero bisogna ragionarci su. Si dice ‘filosofo’ perché una laurea ce l’ha, e ‘consulente’
os’è la Massoneria? Bella domanda! Esistono interessanti libri che ne raccontano la genesi e lo sviluppo storico. Ma, questa non è Massoneria. Questa è storiografia. Esistono profondi libri che ne trattano i principi, gli ideali, la morale. Ma, questa non è Massoneria. Questa è filosofia. Esistono libri ricchi di spiegazioni sui vari simboli. Ma, questa non è Massoneria. Questa è manualistica. La Massoneria è solo e semplicemente una volontà di conoscenza unita alla capacità di rinunciare ai propri desideri. Facile a dirsi, difficile perseguirlo. Ciò non può accadere se non la vivi, respiro dopo respiro, passo dopo passo fino a quando le tue scarpe si sono consumate. Questo è il mio testamento. La testimonianza di un individuo che, ad un certo punto della sua vita
decise di entrare nell’istituzione massonica. Una memoria per meditare su di essa, raccontare la storia di un viaggio e condividere pensieri e domande. Soprattutto domande. Federico Castelletti Cazzato nasce il 23 giugno 1960 sotto il segno del Cancro. Per ventuno anni lavora nel servizio clienti dell’agenzia Armando Testa seguendo la comunicazione di molte aziende nazionali e multinazionali. Nel 2004 decide di arricchire la propria esperienza personale e professionale e diventa libraio, creando a Torino Il tastebook. Oggi si occupa di comunicazione e innovazione digitale. Nel 1995 viene iniziato al cammino massonico.
All’attività di giornalista e a quella di insegnante si affianca quella di scrittore. È stato autore di vari manuali scolastici per diversi ordini e gradi di insegnamento. Le opere per le quali è maggiormente ricordato sono quelle di carattere storico, tra cui I processi di Mantova e il 6 febbraio 1853, Milano nel Settecento, Milano e le cospirazioni lombarde dal 1814 al 1820 e Il Mondo Secreto che ebbe anche una traduzione in inglese. Michele Leone nasce a Bari nel 1973. Laureato in Lettere e Filosofia presso l’Università degli Studi di Bari. Dalla fine degli anni ’90 ha indirizzato le sue ricerche prevalentemente nell’ambito delle “scienze tradizionali”, con particolare riferimento alla tradizione ermetica e alla massoneria. Dopo un lungo periodo di riflessione e studio negli ultimi anni ha intrapreso l’attività di autore, sia come articolista free lance sia come saggista. È responsabile e curatore della collana I Ritrovati per Mondi Velati Editore srl. Collabora con alcune testate periodiche tra le quali Delta, Rassegna di Cultura Massonica, della quale è vice direttore di redazione. Partecipa come relatore a conferenze su argomenti vicini al pensiero ermetico e simbolico.
nosophìe, una curiosa opera mistico-alchemica che per la prima volta si presenta in traduzione italiana. La Très Sainte Trìnosophie è la «storia» di un viaggio iniziatico e raccoglie in sé tutti gli apporti simbolici di quell’ermetismo, cosi tipico del Settecento, legato alla cultura massonica da una parte e alla tradizione alchemica dall’altra. La ricchezza di simboli dell’operetta è realmente enorme e può permettere una attenta e utile serie di decrittazioni, come ancora una vera e propria irruzione del fantastico di cui si deve saper cogliere l’aspetto labirintico sotto la bella specie delle metafore del « sacro ». Non per nulla il viaggio iniziatico si conclude con le parole JE VIS, che possono essere facilmente riconducibili al tetragramma sacro nella «langue des oiseaux».Seppure opera collettiva, la Très Sainte Trinosophie realizza perfettamente l’archetipo del «viaggio esoterico», trasportando il lettore in una geografia dell’anima difficilmente dimenticabile.
L’alchimia della Confraternita dell’Aurea Rosacroce A.Galli, A.Boella, Ediz. Mediterranee, Roma.
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uesto volume costituisce un ulteriore e fondamentale contributo alle ricerche finora condotte sull’enigmatica Confraternita dell’Aurea Rosacroce, di origine italiana e risalente al XVI secolo. Sono qui pubblicate le parti più importanti di un manoscritto italiano dell’Aurea Rosacroce conservato a Napoli, contenente testi che
Il mondo secreto G.De Castro, Edizioni Tipheret, Catania/Roma.
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l Mondo Secreto è un lavoro in IX volumi e tratta della storia delle società segrete e di quelle che potremmo definire “scuole iniziatiche”, parte dai Magi e si dipana nello spazio e nel tempo sino al XIX secolo della nostra era. È un lavoro importante e certosino che, per completezza, può essere definito unico nel suo genere. Il lettore viene accompagnato passo dopo passo dai misteri eleusini agli alchimisti, dai templari alla massoneria, dalle società segrete cinesi ai Beati Paoli, in un percorso ricco di dettagli e particolari. L’opera edita per la prima volta nel 1864 ebbe una notevole fortuna al punto da essere tradotta in inglese nel 1875. Giovanni De Castro (Padova 1837-Bellagio 1897) ha una produzione vastissima, inizia molto giovane la collaborazione con diversi giornali e a tradurre soprattutto dal francese.
La Très Sainte Trinosophie Conte di Saint-Germain, Ediz. Mediterranee, Roma.
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l mitico conte di Saint-Germain è figura sospesa tra ciarlatanerìa e saggezza e rispetta in pieno i canoni della temperie culturale in cui vive. A lui è attribuita la Très Sainte Tri-
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curatori di recuperare all’Aurea Rosacroce anche un testo contenuto nel Theatrum chemicum, intitolato Rythmi germanici. Il volume presenta inoltre: i primi documenti che fanno riferimento all’Aurea Rosacroce; una traccia italiana alle origini de Le Nozze chimiche; le implicazioni dell’Aurea Rosacroce con la Voarchadumia di Giovanni Agostino Panteo, con Giovan Battista Agnello, John e Arthur Dee; testimonianze indirette dell’Aurea Rosacroce in Italia in un cenacolo ermetico gravitante intorno ai Gonzaga che vede protagonisti Giacomo Antonio Gromis, Cesare Della Riviera e Angelo Ingegneri; il reperimento di un fratello dell’Aurea Rosacroce tedesca, Paulus Stein. Il volume è corredato da una bibliografia inedita di testi manoscritti e a stampa che fanno esplicito riferimento all’Aurea Rosacroce. dimostrano un’avanzata conoscenza della pratica dell’alchimia in seno alla Confraternita, nonché gli statuti del 1678 della Confraternita nella loro integralità, che testimoniano della sua esistenza sin dal 1542-1543. Grazie alla riscoperta di un ermetista italiano del XVIII secolo, il conte Francesco Onofrio da Marsciano, e di un suo manoscritto conservato a Vienna, sono emerse inoltre nuove e importanti informazioni riguardo alla Confraternita dell’Aurea Rosacroce di cui è mostrato l’arcaico emblema, già illustrato e spiegato (ma passato totalmente inosservato) dal filosofo ermetico Ludovico Conti, membro dell’Aurea Rosacroce e autore del primo trattato specialmente dedicato all’alkahest, pubblicato a Venezia nel 1661. Altre informazioni provenienti da Marsciano hanno permesso ai
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Atalanta Fugiens Michael Maier, A cura di Bruno Cerchio, Edizioni Mediterranee, Roma.
cisioni, gli emblemi, opera di Merian, forse il massimo, il più noto senz’altro tra gli incisori alchemici, portano spessore immaginativo, ottico, al “sogno” della comprensione ermetica, operando con un modello iconologico d’indole, più che di data, barocca. Si tratta d’incisioni che, com’è d’uso nell’epoca, offrono una solida fedeltà al dettato dell’epigramma, traducendo obbedientemente in immagini, fotografando per così dire, la velata lettera del testo e non lo spirito intimo, lasciato all’arguzia caritatevolmente intellettiva del lettore. Ma a proporre “L’Atalanta” come mirabile compendio nel panorama alchimistico del tempo, panorama denso della temperie illuministicoutopistica del rosacrucianesimo, è l’apparato musicale che conforta il libro e ne fa un’opera unica e irripetuta. Si tratta di cinquanta fughe genialmente costruite sugli epigrammi, ricche di dottrina e di astuzie musicali, naturalmente coerenti e conseguenti alla descrizione epigrammatica e alle bellurie iconologiche degli emblemi.
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icevi dunque in un solo libro quattro specie di cose: composizioni allusive, poetiche, allegoriche; emblemi nel venereo rame incisi e di venerata grazia adorni; verità chimiche secretissime che l’intelligenza tua sonderà; infine musiche delle più rare: fà buon uso di ciò che t’è qui dato”. Così Michael Maier, uno dei più significativi “operatori” ermetici dell’epoca rosicruciana, medico, filosofo e musicista presenta la sua “Atalanta Fugiens”. E l’accorto lettore si renderà conto, col solo sfogliarlo, di come l’Atalanta si configuri quale testo di “traduzione” alchemica tutto teso a formulare, nella sua ampiezza, e per il suo invito ad una prima decifrazione estetica, un’opera di estremo equilibrio barocco. Questo perché in Maier il gusto ed il brivido spirituale della conoscenza ermetica si sposano felicemente ad una volontà ermeneutica che compara, giustapponendo, varie formule espressive. E saranno l’epigramma, l’incisione, la fuga musicale, i vari possibili gradini d’intendimento della “crisopeia”. Gli epigrammi, ma soprattutto i discorsi che chiosandoli li accompagnano, sono tutti “ambientati”, secondo la tendenza propria dell’epoca, a collegare il mito all’alchimia e, con essa, spiegarlo svelandolo, Maier disincantato lettore di miti, ne intravede il possibile, per lui certo, velame alchemico e ne propone, aprendo la strada ai futuri Pernety, l’ampia qualità e disponibilità analogica; facendo della mitologia greca una “metafora in divenire” che permetta una decifrazione reciproca alle tappe dell’”opera alchemica”. Le in-
Alla soglia del mistero S.De Guaita, Edizioni Atanor, Roma.
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lla Soglia del Mistero” è la prima opera di una trilogia che si propone di guidare il lettore verso la Luce e introduce i principi fondamentali dell’ermetismo e della Kabbala oltre alla spiegazione e allo studio dei segni cabbalistici e di figure pentacolari come il Grande Androgino e il Pentacolo della Rosacroce di Khunrath. De Guaita infatti, sebbene in vita sia stato accusato di magia nera, negromanzia e fatture, ne aveva in realtà affrontato uno studio così attento da spingerlo a rifiutarne i loro aspetti estremi.
R.L. Hercules Oriente di Cagliari
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l fregio della Loggia è composto da un cerchio col bordo azzurro nella cui circonferenza compaiono, di poco spostate, il nome e l’oriente a cui la Loggia appartiene. All’interno sono presenti, sempre in azzurro, le due colonne ‘Beth/B’ e Jod/J unite da un nodo d’amore per sottolineare che una loggia può crescere proficuamente quando regna l’armonia tra le colonne; in più questi tre simboli così disegnati compongono una grande H, iniziale del nome della Loggia. Sopra il nodo d’amore campeggia il tetragramma ebraico, mentre sotto, alla base delle colonne, c’è il pavimento a mosaico. Quest’ultimi due simboli sono stati scelti come immagine del lavoro che questa Loggia si propone di portare avanti: lo studio del simbolismo, riscoprendo la tradizione pura, rimanendo, cioè, fedele ai principi basici dell’insegnamento massonico.
duce il concetto di dualità nell’uomo. In ognuno di noi risiede contemporaneamente una parte “luminosa” e una parte “buia”. La consapevolezza di questa dualità porta il Cavaliere a combattere il suo lato oscuro. I Templari sono fratelli tra di loro. Lo spirito di unione è la prima cosa che si respira quando si viene investiti del titolo di Cavaliere. Nessun Templare è mai solo e mai si sente solo. Strettamente collegata alla fratellanza c’è lo spirito di protezione. Un Templare è sempre protetto non solo dai suoi fratelli, ma specialmente dall’Arcangelo Mik’Ael e attraverso lui, da Dio. Il sentimento di fratellanza, però, non si circoscrive solo ai Cavalieri poichè essi si aprono al mondo e si mettono al servizio e alla protezione di tutti gli uomini, nello stesso modo in cui i primi Cavalieri del tempio proteggevano i pellegrini che si recavano in Terrasanta. Ed ora un’altra caratteristica Templare presente nel simbolo. Due Cavalieri sullo stesso cavallo rappresentano umiltà ed il non attaccamento alle cose materiali. Solo attraverso umiltà ed il ripudio di tutto ciò che porta all’egocentrismo si può arrivare a mettere in pratica ciò che è stato spiegato fin’ora. Tutte queste caratteristiche, però, non devono far pensare al Templare come ad un uomo debole. Al contrario, i Cavalieri del Tempio erano famosi per non ritirarsi mai, se non in casi di estrema inferiorità. Si dice infatti che i Templari non chiedessero mai quanti fossero i nemici, ma dove erano...
R.L. Paolo Ventura Oriente di Lamezia Terme
R.L. Cavalieri del Tempio Oriente di Roma
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ra i simboli templari più conosciuti e ricchi di contenuti c’è quello dei due Cavalieri sullo stesso cavallo. Prima di tutto i due Cavalieri sullo stesso cavallo simboleggiano la doppia natura del Cavaliere Templare: monaco e guerriero allo stesso tempo. Questo intro-
Fratelli fondatori nel dare il nome a questa Rispettabile Loggia hanno deciso di ricordare il Fratello Paolo Ventura, massone illuminato che non ha mai gradito essere seduto in prima fila, ma che con umiltà e saggezza è stato uno tra i maggiori protagonisti del ‘laboratorio massonico’ che ha notevolmente caratterizzato, negli anni a cavallo tra 1800 e 1900, la storia della Massoneria nella vasta area del Lametino. Il Gioiello di Loggia è co-
stituito da una Piramide, immagine centrale, al cui interno si può accedere solo attraverso la porta creata da due Colonne sovrastate dall’architrave magistrale. Sulla parete della Piramide viene anche raffigurato l’impegno del Libero Muratore, con dei mattoni che in tutte le direzioni da quattro iniziali diventano uno solo e perciò un tutt’uno. Nel Gioiello si eleva il maestoso spettacolo delle due colonne, la dorica e la ionica, vestite dalla Luce emessa dai raggi del Sole posto a nord-est. In fondo le acque che uniscono l’Istmo e che con il loro lento ma inesorabile fluire, modellano e scolpiscono le pietre con garbo e sapienza. La squadra e il compasso non sono dimenticati, ma opportunamente collocati perché elementi imprescindibili dell’Arte Muratoria. Nel cerchio esterno, emergono diciotto Nodi d’Amore che simbolicamente raffigurano i diciotto Fratelli Fondatori.
R.L. Parmenide Oriente di Salerno
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l Fregio di Loggia della R:. L:. Parmenide all’Oriente di Salerno raffigura l’effige del filosofo di Elea. La scelta di dedicare la Loggia a Parmenide deriva dal fatto che il grande filosofo aveva fondato la propria scuola di pensiero proprio ad Elea, vicino a Salerno. Il suo pensiero era guidato da un intento metodologico di fondo, che consisteva nella rigorosa determinazione della “verità”, ossia del discorso filosofico e dei suoi contenuti, in contrasto con “l’opinione”, con il pensiero comune. Ciò che a noi interessa è l’affermazione dell’unicità dell’Essere, a significare che la nostra R\L\ intende collocarsi nel solco della Tradizione Perenne, che trascende ogni contingenza spazio-temporale e permane immutata ovunque, da sempre e per sempre, come, d’altra parte, evidenzia lo sviluppo dei gradi del R\S\A\A\ che raccoglie, le istanze di varie correnti, in particolare cavalleresche, che, nel corso dei secoli hanno interpretato la Tradizione Unica.
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I Fregi ad oggi pubblicati La sequenza dei Fregi è in ordine alfabetico per denominazione di Loggia e successivamente per Oriente.
R∴L∴ 14 Juillet Or∴di Savona R∴L∴ 4 Giugno 1270 R.G. Or∴di Viterbo R∴L∴ Ab Initio Or∴di Portoferraio R∴L∴ Ad Justitiam Or∴di Lucca R∴L∴ Aetruria Nova Or∴di Versilia R∴L∴ Alef Or∴di Viareggio R∴L∴ Aleph Or∴di Lecce R∴L∴ Aletheia Or∴di Roma R∴L∴ Alma Mater Or∴di Arezzo R∴L∴ Anita Garibaldi Or∴di Firenze R∴L∴ A.Garibaldi/A.Giulie Or∴di Livorno R∴L∴ Antares Or∴di Firenze R∴L∴ A.Toscano Or∴di Corigliano Calabro R∴L∴ Antropos Or∴di Forlì R∴L∴ Archita Or∴di Taranto R∴L∴ Aristotele II Or∴di Bologna R∴L∴ Astrolabio Or∴di Grosseto R∴L∴ Athanor Or∴di Brescia R∴L∴ Athanor Or∴di Cosenza R∴L∴ Athanor Or∴di Pinerolo R∴L∴ Athanor Or∴di Rovigo R∴L∴ Athena Or∴di Pinerolo R∴L∴ Atlantide Or∴di Pinerolo R∴L∴ Audere Semper Or∴di Firenze R∴L∴ Augusta Or∴di Torino R∴L∴ Aurora Or∴di Genova R∴L∴ Ausonia Or∴di Siena R∴L∴ Ausonia Or∴di Torino R∴L∴ Bereshit Or∴di Sanremo R∴L∴ C. B.Conte di Cavour Or∴di Arezzo R∴L∴ C. Rosen Kreutz Or∴di Siena R∴L∴ Carlo Fajani Or∴di Ancona R∴L∴ Cartesio Or∴di Firenze R∴L∴ Cattaneo Or∴di Firenze R∴L∴ Cavalieri del Tempio Or∴di Roma R∴L∴ Cavour Or∴di Prato R∴L∴ Cavour Or∴di Vercelli R∴L∴ Chevaliers d’Orient Or∴di Beirut R∴L∴ Cidnea Or∴di Brescia R∴L∴ Clara Vallis Or∴di Como R∴L∴ Concordia Or∴di Asti R∴L∴ Corona Ferrea Or∴di Monza R∴L∴ Cosmo Or∴di Argentario Albinia R∴L∴ Costantino Nigra Or∴di Torino R∴L∴ D.Di Marco Or∴di Piedim.Matese R∴L∴ Dei Trecento Or∴di Treviso R∴L∴ Delta Or∴di Bologna R∴L∴ Eleuteria Or∴di Catania R∴L∴ Eleuteria Or∴di Pietra Ligure R∴L∴ Emanuele De Deo Or∴di Bari R∴L∴ Enrico Fermi Or∴di Milano R∴L∴ EOS Or∴di Bari
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R∴L∴ Epidamnus Or∴di Durazzo R∴L∴ Erasmo Or∴di Torino R∴L∴ Ermete Or∴di Bologna R∴L∴ Etruria Or∴di Siena R∴L∴ Excalibur Or∴di Trieste R∴L∴ Falesia Or∴di Piombino R∴L∴ Fargnoli Or∴di Viterbo R∴L∴ Fedeli d’Amore Or∴di Torino R∴L∴ Fedeli d’Amore Or∴di Vicenza R∴L∴ Federico II Or∴di Catania R∴L∴ Federico II Or∴di Firenze R∴L∴ Federico II Or∴di Jesi R∴L∴ Fenice Or∴di Massa Marittima R∴L∴ Fenice Or∴di Spotorno R∴L∴ Ferdinando Palasciano Or∴di Roma R∴L∴ Francesco Nullo Or∴di Varsavia R∴L∴ F.Rodriguez y Baena Or∴di Milano R∴L∴ Fidelitas Or∴di Firenze R∴L∴ Filistor Or∴di San Severo R∴L∴ Fra Pantaleo Or∴di Castelvetrano R∴L∴ Fratelli Cairoli Or∴di Pavia R∴L∴ Fratelli d’Italia Or∴di Piombino R∴L∴ G.Ghinazzi Or∴di Roma R∴L∴ G.Mazzini Or∴di Livorno R∴L∴ G.Mazzini Or∴di Parma R∴L∴ G.Biancheri Or∴di Ventimiglia R∴L∴ G.Bruno - S.La Torre Or∴di Roma R∴L∴ G.Papini Or∴di Roma R∴L∴ Galahad Or∴di Roma R∴L∴ Garibaldi Or∴di Castiglione R∴L∴ Garibaldi Or∴di Cosenza R∴L∴ Garibaldi Or∴di Mazara del Vallo R∴L∴ Garibaldi Or∴di Toronto R∴L∴ Gaspare Spontini Or∴di Jesi R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di Catanzaro R∴L∴ Gianni Cazzani Or∴di Pavia R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di Bari R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di Firenze R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di R.Calabria R∴L∴ Giosue Carducci Or∴di Follonica R∴L∴ Giosue Carducci Or∴di Partanna R∴L∴ Giovanni Bovio Or∴di Bari R∴L∴ Giovanni Pascoli Or∴di Forlì R∴L∴ Giovanni Risi Or∴di Firenze R∴L∴ Giustizia e Libertà Or∴di Roma R∴L∴ Goldoni Or∴di Londra R∴L∴ Graal Or∴di Livorno R∴L∴ Hercules Or∴di Cagliari R∴L∴ Herdonea Or∴di Foggia R∴L∴ Heredom Or∴di Torino R∴L∴ Hiram Or∴di Bologna R∴L∴ Hiram Or∴di Sanremo
R∴L∴ Hispaniola Or∴di Santo Domingo R∴L∴ Horus Or∴di Padova R∴L∴ Horus Or∴di Pinerolo R∴L∴ Horus Or∴di R.Calabria R∴L∴ Humanitas Or∴di Pistoia R∴L∴ Humanitas Or∴di Treviso R∴L∴ Ibis Or∴di Torino R∴L∴ Il Cenacolo Or∴di Pescara R∴L∴ Il Nuovo Pensiero Or∴di Catanzaro R∴L∴ Internazionale Or∴di Sanremo R∴L∴ Iter Virtutis Or∴di Pisa R∴L∴ Jakin e Boaz Or∴di Milano R∴L∴ Kipling Or∴di Firenze R∴L∴ La Fenice Or∴di Bari R∴L∴ La Fenice Or∴di Chieti R∴L∴ La Fenice Or∴di Forlì R∴L∴ La Fenice Or∴di Livorno R∴L∴ La Fenice Or∴di Pieve a Nievole R∴L∴ La Fenice Or∴di Rovato R∴L∴ La Prealpina Or∴di Biella R∴L∴ La Silenceuse Or∴di Cuneo R∴L∴ Le Melagrane Or∴di Padova R∴L∴ Leonardo da Vinci Or∴di Taranto R∴L∴ Les 9 Soeurs Or∴di Pinerolo R∴L∴ Libertà e Progresso Or∴di Livorno R∴L∴ Liguria Or∴di Orspedaletti R∴L∴ Logos Or∴di Milano R∴L∴ Luce e Libertà Or∴di Potenza R∴L∴ Luigi Alberotanza Or∴di Bari R∴L∴ Luigi Spadini Or∴di Macerata R∴L∴ Lux Or∴di Firenze R∴L∴ Lux Solis Or∴di Cosenza R∴L∴ M’’aat Or∴di Barletta R∴L∴ Magistri Comacini Or∴di Como R∴L∴ Manfredi Or∴di Taranto R∴L∴ Melagrana Or∴di Cosenza R∴L∴ Melagrana Or∴di Torino R∴L∴ Minerva Or∴di Cosenza R∴L∴ Minerva Or∴di Torino R∴L∴ Monviso Or∴di Torino R∴L∴ Mozart Or∴di Castelvetrano R∴L∴ Mozart Or∴di Genova R∴L∴ Mozart Or∴di Roma R∴L∴ Mozart Or∴di Torino R∴L∴ Navenna Or∴di Ravenna R∴L∴ Nazario Sauro Or∴di Piombino R∴L∴ Nigredo Or∴di Torino R∴L∴ Nino Bixio Or∴di Trieste R∴L∴ Oltre il Cielo Or∴di Lecco R∴L∴ Omnium Matrix Or∴di Milano R∴L∴ Orione Or∴di Torino R∴L∴ Palermo Or∴di Palermo
R∴L∴ Paolo Ventura Or∴di Lamezia Terme R∴L∴ Parmenide Or∴di Salerno R∴L∴ Per Aspera ad Astra Or∴di Lucca R∴L∴ Petrarca Or∴di Abano Terme R∴L∴ Pietro Micca Or∴di Torino R∴L∴ Pisacane Or∴di Udine R∴L∴ Pitagora Or∴di Cosenza R∴L∴ Pitagora Or∴di Guidonia R∴L∴ Polaris Or∴di Livorno R∴L∴ Polaris Or∴di Reggio Calabria R∴L∴ Principe A.DeCurtis Or∴di Rovato R∴L∴ Principi RosaCroce Or∴di Milano R∴L∴ Prometeo Or∴di Lecce R∴L∴ Re Salomone /F.Nuove Or∴di Milano R∴L∴ Risorgimento Or∴di Milano R∴L∴ Ros Tau Or∴di Verona R∴L∴ S.Giovanni Or∴di Bass.d.Grappa R∴L∴ Sagittario Or∴di Prato R∴L∴ Salomone Or∴di Catanzaro R∴L∴ Salomone III Or∴di Siena R∴L∴ San Giorgio Or∴di Genova R∴L∴ San Giorgio Or∴di Milano R∴L∴ Saverio Friscia Or∴di Sciacca R∴L∴ Scaligera Or∴di Verona R∴L∴ Sibelius Or∴di Vercelli R∴L∴ Sile Or∴di Treviso R∴L∴ Silentium et Opus Or∴di Val Bormida R∴L∴ SmiDe Or∴di Stra R∴L∴ Stupor Mundi Or∴di Taranto R∴L∴ Teodorico Or∴di Bologna R∴L∴ Themis Or∴di Verona R∴L∴ Trilussa Or∴di Bordighera R∴L∴ Triplice Alleanza Or∴di Roma R∴L∴ Ugo Bassi Or∴di Bologna R∴L∴ Ulisse Or∴di Bergamo R∴L∴ Ulisse Or∴di Forlì R∴L∴ Umanità e Progresso Or∴di Sanremo R∴L∴ Uroboros Or∴di Milano R∴L∴ Valli di Susa Or∴di Susa R∴L∴ Venetia Or∴di Venezia R∴L∴ Verum Quærere Or∴di Prato R∴L∴ Vincenzo Sessa Or∴di Lecce R∴L∴ Virgilio Or∴di Mantova R∴L∴ Virgo Or∴di Roma R∴L∴ Vittoria Or∴di Savona R∴L∴ Voltaire Or∴di Torino R∴L∴ XI Settembre Or∴di Pesaro R∴L∴ XX Settembre Or∴di Torino R∴L∴ Zenith Or∴di Cosenza R∴L∴ Zodiaco Or∴di Pinerolo
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