Officinae Dicembre 2011

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Trimestrale internazionale di attualità, storia e cultura esoterica Anno XXIII - n.4 - Dicembre 2011 Direttore Editoriale e Responsabile LUIGI PRUNETI Direttore ANNA GIACOMINI Segreteria di Redazione ROBERTO PINOTTI SIMONE TADDEI Comitato di Redazione LINA ROTONDI LUISA CERAVOLO SABRINA CONTI VALERIA DI PACE STEFANO MOMENTÉ FEDERICA POZZI GIANCARLO GUERRIERI MATTEO BARTOLETTI RENATA SALERNO Comitato Scientifico Vittorio CIANCIO ALDO A.MOLA PAOLO ALDO ROSSI IDA LI VIGNI RAFFAELE MARRŸ PAOLO MAGGI Renato ARIANO BARBARA NARDACCI Consulente Legale PIERPAOLA MELEDANDRI hanno collaborato a questo numero MASSIMO ANGELINI luca bagatin ANTONIO BINNI GIUSEPPE IVAN LANTOS IDA LI VIGNI PAOLO MAGGI MARCO MATERASSI PIERPAOLA MELEDANDRI ALDO ALESSANDRO MOLA BARBARA NARDACCI LUIGI PRUNETI PAOLO ALDO ROSSI progetto e realizzazione PAOLO DEL FREO


L.Pruneti - per Anna — 2 A.A.Mola - Scrittori e giornalisti massoni per la nuova Italia — 4 L.Pruneti - L’Italia, il Montenegro e la Massoneria — 10 A.A.Mola - Giacomo Novicow e la missione universale dell’Italia — 18 M.Materassi - Musica di corte e musica delle sfere — 24 I.Li Vigni - La fata Alcina — 28 P.A.Rossi - Il fungo degli sciamani — 34 B.Nardacci - P.Meledandri - Galahad — 42 G.I.Lantos - Bet Ayn Zayn — 50 V. Di Pace - I risvegliati e i dormienti — 56 P.Maggi - Singularity — 60 M.Angelini - Sole e Terra — 64 A. Binni - ‘Discorso sulla servitù volontaria’ — 66 L.Bagatin - Helena Petrovna Blavatsky e la Società Teosofica — 72 Historique de la Franc-Maçonnerie feminine en Suisse — 74 In Biblioteca — 77 Fregi di Loggia — 80


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ra amabile e colta, sembrava sicura e distesa e conversava con logica stringente, ma negli occhi chiari vi era la nostalgia dell’infinito, l’impronta vaga del sogno. La salutai come di consuetudine ed appena la porta si chiuse domandai ad Italiano Zappelli: “Chi è? Viene da Siena ma non ha accento toscano”. Il Gran Segretario, che fra i tanti meriti aveva quello di conoscere tutti, mi rispose: “È Anna Giacomini, è brava sai, inci­ de delle tavole splendide, un domani potrebbe offrire un buon apporto ad Officinae”. Sono passati tanti anni da quel giorno fortunato, era primavera e quando uscii dalla sede di Borgo Pinti, uno scampolo di cielo azzurro m’inebriò il cuore. Era proprio un bel pomeriggio. Dopo pochi passi raggiunsi piazza Santa Croce e una panchina di pietra m’invitò a sedermi; mi accomodai davanti alla statua corrucciata di Dante e mentre caricavo la pipa, agli ultimi raggi di un giovane sole, mi ritornò in mente l’incontro di poco prima. “Se Italiano avesse ragione? – mi domandai - un nuovo collabora­

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tore per la rivista farebbe comodo … domani le telefono”. Fu così che incontrai Anna e in breve oltre che Fratelli, diventammo amici, compagni di aspirazioni, di progetti, forse di chimere. Abbiamo sognato insieme e insieme abbiamo costruito, lottato, sperato; insieme abbiamo sorbito il calice amaro della delusione e quello inebriante del successo. Ma ora Anna se ne è andata e le nostre strade, per il momento, si sono divise. Il treno è arrivato, il lamento stridulo dei freni anticipa un ultimo sussulto. Il convoglio si ferma, chiudo Officinae … non sarà più la stessa senza di lei ed ogni numero nuovo sarà per me una sofferenza. Scendo … la stazione mi accoglie in un crepuscolo novembrino di corniola e acquamarina … anche i tralicci della ferrovia sembrano belli in questa luce pudica e dimessa. Per Anna il Sole non giocherà più a nascondino, né le foglie, orfane dell’estate, danzeranno nel vento, un altro vento, quello impetuoso del tempo strapperà i giorni dall’albero

della vita, altri volti sfumeranno nello stagno dei ricordi, fino a quando anche il nostro li seguirà oltre il velo del sensibile. Alcuni ragazzi stranieri sotto la pensilina ridono e parlano, quanta emozione, quanta attesa gioiosa nelle loro voci! Mi abbottono il soprabito, fa freddo e il trolley sembra pesare come il bagaglio della memoria, immagini su immagini si affollano davanti a me: è il film melanconico di una vita. Nel cielo polveroso della città brillano due stelle … “Pupille ardenti, o voi senza ritorno stelle tristi, spegnetevi incorrotte! Morir debbo. Veder non voglio il giorno, per amor del mio sogno e della notte. Chiudimi, O notte, nel tuo sen materno, mentre la terra pallida s’irrora. Ma che dal sangue mio nasca l’aurora e dal sogno mio breve il sole eterno”1. Ciao Anna, Sorella carissima, che la notte sia per te un’alba senza fine nella chiarità dell’Eterno Principio. 1

G. D’Annunzio

P.2: Da sin: Aldo A.Mola, Anna Giacomini, Luigi Pruneti; p.3: 2008, Ritratto (foto P.Del Freo).


Sulle colline della memoria i ricordi intrecciano ghirlande di brina solo il silenzio mi aggrada in questa notte vuota di stelle

per Anna

Luigi Pruneti

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Scrittori e giornalisti massoni per la nuova Italia

Storia

Aldo A. Mola

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a massoneria italiana degli anni tra la fondazione della loggia “Ausonia” a Torino e l’avvento della Sinistra al governo (ottobre 1859 - marzo 1876) è stata solitamente raccontata ripercorrendo il travagliato cammino delle logge verso la costituzione del Grande Oriente Italiano, poi denominato Grande Oriente d’Italia. Nelle sue linee essenziali, ricalcate anche in opere recentissime, è una vicenda nota da quasi un secolo1. Con il rinvenimento di carte di Ludovico Frapolli, essa venne arricchita da documenti che hanno gettato più luce su singoli momenti e su sue varie comparse, ma non hanno modificato l’asse del racconto né le sue interpretazioni. Queste rimangono ferme a quanto da un canto scrissero Ulisse Bacci e Giuseppe Leti e dall’altro Alessandro Luzio, che ebbe il merito di documentare con qualche inedito le sue affermazioni. L’impressione che si ricavava e ancora si trae dai verbali della “Ausonia”, approntati per la stampa da Pietro Buscalioni sin dal 1914 ma poi rimasti in bozze sino agli studi di Augusto Comba, è quella di un groviglio di gruppi e correnti di massoni che tra il 1859 e il 1870 rimasero divisi su quasi tutti i capisaldi della vita politico-istituzionale della nascente Italia, sul cui avvento, nei mesi cruciali (aprile 1859-febbraio 1861) la rete liberomuratòria non avrebbe esercitato alcuna influenza davvero determinante, né in bene né in male. Questa lettura nasce dall’intreccio tra l’antica convinzione che la massoneria fosse geneticamente estranea all’Italia e dalla profonda diffidenza nei confronti della sua presenza. La massoneria fu considerata un’intrusa, eterodiretta, inconciliabile con i veri pilastri portanti dell’Italia verace, la chiesa di Roma e l’assetto politico-militare conferito all’Italia dalla Restaurazione del 1814-1815, ancor oggi rimpianto da sabaudisti contrari allo Statuto, nostalgici del granducato di Toscana, veteropapalini e altri cultori del nulla. A costoro si contrappongono altri perdigiorno, che, ignorando i documenti e vagando tra tutti i settarismi passati recenti e presenti, anche lasciandosi sfuggire dalla penna qualche compiacimento autobiografico, fanno della massoneria il vivaio di tutte le cospirazioni. Tornerò in altra sede sui problemi di metodo e di

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merito da porre a base di una convincente storia della massoneria in Italia. Qui mi limito a registrare che la produzione editoriale dell’ultimo decennio ha determinato vari passi all’indietro rispetto alle acquisizioni degli anni Settanta-Novanta, quando per stabilire se massoni e massoneria abbiano davvero svolto un ruolo costruttivo per e nella Nuova Italia si perlustrarono le opere di scienziati, letterati, scrittori, artisti, compositori, uomini politici, militari,…alla ricerca di un disegno riconducibile a una comune idea di Italia, connessa ai principi costitutivi della massoneria, quali furono indicati dalle costituzioni di Anderson e Desaguliers e ripetuti nelle costituzioni del Rito scozze-

se antico e accettato del marzo 1821. L’opera attuata dalla prima generazione dei massoni unitari e postunitari non va cercata nel reclutamento di iniziati, nell’allestimento di logge, nella gara per dar vita a un corpo unitario nazionale capace di fondere le diverse organizzazioni preesistenti o locali, né, infine, nella preparazione e nello svolgimento di assemblee costituenti che furono teatro di lunghe e serrate lotte per la conquista del dominio sul potere centrale della massoneria. Essa si espresse in altro modo: attraverso il contributo effettivo che i singoli massoni dettero alla nascita e all’avvento di quell’idea di Italia che perfino a quel tornante della storia era rimasto patrimonio

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di una esigua minoranza di militanti politici, militari e dottrinari. Per venirne più in chiaro giova vedere quale fosse la cognizione dell’Italia da parte degli abitanti del Regno al momento dell’unificazione e quali enormi progressi di coscienza nazionale vennero realizzati in brevissimo tempo e grazie a chi, anche senza direttive di un potere centrale massonico, che non esisteva se non nel delirio di chi aspirava a ottenerlo e di chi dipingeva le novità come macchinazioni di Satana. Nel 1861 che cosa davvero gli italiani sapevano dell’Italia? Alcuni ne parlavano moltissimo e con fervore, ma di seconda mano, sulla base di reminiscenze, resoconti, racconti. Pochissimi ne avevano cognizione diretta. Valeva per Cavour, che conosceva Svizzera, Belgio, un po’ di Inghilterra, Parigi e dintorni ma niente della “Francia profonda” e non mise mai piede a Venezia o a Ravenna, né mai si spinse a sud di Firenze ove andò solo una volta di sfuggita, dopo la sua annessione. Cavour volle Roma capitale d’Italia senz’averla mai ve-

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duta, a differenza di Massimo d’Azeglio che l’aveva vissuta e ne rimase scettico. Mazzini vide l’Italia e Roma stessa con la fantasia della dottrina più che con gli occhi. Anche Gioberti un po’ la visitò, ma solo dopo aver scritto delle origini pelasgiche dei suoi abitanti. Altrettanto vale per centinaia di patrioti che s’immolarono per l’idea di Italia senza conoscerne la realtà effettiva. Le loro gesta sono nobili, esemplari, ma lasciarono in eredità l’obbligo di far coincidere il nome con i fatti, lo spirito con la carne: un passaggio né facile,né immediato. A percorrere l’Italia da un capo all’altro furono Garibaldi e Vittorio Emanuele II. Il loro incontro presso Teano, in un sito che ancor oggi appassiona chi ha tempo da perdere, sintetizza bene come a fine 1860 si dovesse percorrere l’Italia per liberarla o conquistarla o anche solo per farsene un’idea: a piedi, a cavallo, in carrozza, senza conoscenza dei territori, affidandosi a guide locali, non sempre affidabili. La stragrande maggioranza degli abitanti del “Paese Italia” sapeva poco più

dei fatti con i quali iniziava e finiva la sua magra esistenza, anche perché non sapeva né leggere né scrivere e se anche era alfabeta aveva altro di cui occuparsi. I due libri oggi citati quali capolavori letterari del patriottismo, Pinocchio di Collodi e Cuore di De Amicis, non sono del 1859-1861 ma degli Anni Ottanta, cioè vent’anni dopo lo sbarco di Garibaldi a Marsala e l’unificazione. Essi furono scritti per la scuola elementare obbligatoria e gratuita di Coppino, che è del 1877. Sull’unificazione affrettata del 1861 gravarono secoli di arretratezza e sottosviluppo, di guerre esterne e interne, e altri innumerevoli guai. All’avvento del regno, l’Italia era molto meno di “un’espressione geografica”, come si ritiene fosse stata definita dal cancelliere dell’impero d’Austria, Clemens von Metternich. Metternich era illuminista. Conosceva e apprezzava l’Italia, la sua cultura, la sua storia. Disse quanto ogni persona colta del suo tempo pensava dopo aver veduto gl’italiani dilaniarsi nelle guerre civili del 1798-1800 e chinarsi a Napoleone I e poi


alla Restaurazione: l’Italia non era e non sarebbe stata un “Paese” sino a quando non ne avesse preso coscienza una parte significativa dei suoi abitanti. Purtroppo l’idea di Italia, troppo a lungo fu falsata da letterati e sedicenti poeti, che adattarono ai tempi nuovi il formulario del Cinque-Seicento. L’Italia veniva celebrata come giardino d’Europa. Invece aveva, come ha, climi differenziati, durissimi in molte regioni. Il Mezzogiorno continuò a essere presentato con la frasetta di Goethe, la terra “dove fioriscono i limoni”: una cartolina ricordo che non dava da vivere. Quelle formule fecero gravi danni. In primo luogo chi visitava l’Italia scopriva che la realtà era del tutto diversa dalle descrizioni di chi l’aveva raccontata solo passando dall’uno all’altro palazzo di notabili o esplorandone posti e postriboli e rimaneva sconcertato e deluso dinnanzi ai fatti: il “sentimento” evocato da Giuseppe Cesare Abba nelle Noterelle di uno dei Mille. La visione distorta della realtà fornì anche un alibi per la dirigenza postunitaria, che si ritenne dispensata da affrontare la realtà del Paese quale era: cruda e amara. L’Italia non era affatto il giardino d’Europa. Aveva un’agricoltura arretrata e mancava di risorse naturali. Aveva un territorio infelice, bonificato con secoli di lavoro durissimo, strappato all’inclemenza dei climi con opere ingegnose d’idraulica agraria, di adattamento dei fianchi impervi di colli e monti per coltivarvi alberi da frutto, ulivi e viti: una lotta faticosa, lotta insegnata dal poeta latino che esortò a piantare gli alberi che gioveranno alla generazione seguente. Malgrado tanti secoli di sacrifici, nel 1861 gran parte del territorio rimaneva incolto e inospitale. Ciò valeva per vaste plaghe del Piemonte, acquitrinose, paludose, infette; per la “bassa padana” e il delta del Po, per la dorsale appenninica, le paludi pontine, tanta parte delle Puglie e della Sicilia, che stavano meglio di Basilicata e Abruzzi. Giovanni Giolitti, che nel giardino di casa, a Cavour, puliva di persona i tronchi degli alberi col guantone di ferro, saliva sulla Rocca per ricordare e contemplare la bonifica della plaga intrapresa dai monaci cistercensi ottocento e più anni prima. La prima seria ricognizione dell’Italia venne avviata dall’Istituto Geografico Militare di Firenze nel 1878. Esso studiò

palmo a palmo il Paese e lo riprodusse in carte riservate, vitali per la sua difesa, perché il governo di Roma non aveva né alleati né amici. Tanta cautela aveva una ragione. Solo nel 1882 essa sottoscrisse un patto difensivo con Vienna e Berlino. Era difficile coniugare quel presente con la storia che scolari e studenti leggevano nei sussidiari o sentivano narrare ed evocare in tante cerimonie. Come sentirsi alleati di chi aveva incarcerato Pellico, impiccato don Tazzoli, combattuto la Lega Lombarda, arso vivo Arnaldo da Brescia per far piacere a un papa, fatto il sacco di Roma del 1527 per costringere Pio VII a subire la riforma protestante e via continuando? Al tempo stesso era impossibile pretendere che i giovani d’Italia smaniassero per la Francia che l’aveva invasa per secoli. Il nome di Napoleone III suo-

nava sinistro per il sanguinoso annientamento della Repubblica Romana e della spedizione garibaldina a Mentana e per la protezione accordata a Francesco II di Borbone dopo il plebiscito che nel Mezzogiorno aveva votato l’Italia una e indivisibile con re costituzionale Vittorio

Storia Emanuele II. La politica estera e, conseguentemente, quella militare pesarono sull’immagine che l’Italia poteva e doveva darsi di sé. Perciò divenne necessario proporne almeno la descrizione geografica, il profilo della sua storia e del suo patrimonio artistico. V’era un motivo. Per molti decenni dopo l’avvento del regno d’Italia tanta parte degli italiani visse stanziale. Le grandi mete erano i santuari

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a due passi da casa, visitati una o due volte l’anno coniugando fede e colazioni campestri. Statistiche e memorialistica dicono che gli abitanti delle città passarono la vita nel loro quartiere ignorando gli altri. A modo loro la gara tra le contrade era un fattore di conoscenza reciproca, ma vale-

Storia va per alcune città (il caso più famoso è Siena), e non per la generalità. Ruolo unificante svolsero giornali e riviste. I quotidiani non potevano vivere dei lettori di poche vie. Dovevano ampliare la distribuzione dalla tipografia alla città, ai comuni viciniori, all’intero collegio elettorale, a una provincia, a una regione. L’Ottocento finì senza che si fossero affermati quotidiani davvero nazionali. Vi erano molti giornali politici influenti (La Gazzetta del Popolo e La Gazzetta piemontese, che poi divenne la Stampa, a Torino, Il Secolo e il Corriere della sera a Milano, La Tribuna, il Roma di Napoli, l’Ora di Palermo, il glorioso Corriere Mercantile di Genova e tanti quotidiani o fogli di provincia, come la Gazzetta di Parma e poi quella di Mantova) ma nessuno di essi raggiungeva l’intero territorio nazionale. Però parlavano al cuore della nazione, il Parlamento, raggiungevano le amministrazioni provinciali e i comuni di grandi dimensioni, alimentavano il dibattito. Giornalisti e pubblicisti furono pionieri e protagonisti nella formazione dell’identità nazionale, che ebbe due piani di

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costruzione: quello degli studiosi e quello di ricercatori divulgatori. Non furono conflittuali ma complementari. Ognuno svolse il proprio ruolo, con pregi e difetti, consapevoli di sé. Tra i molti esempi possibili tre sembrano paradigmatici. Il primo è Gustavo Strafforello (Porto Maurizio, 1820 – 1903). Giornalista ed erudito dalla penna brillante, lavorò per l’editore Pomba di Torino, in prima linea nella pubblicazione di enciclopedie popolari, che ebbero per modello opere straniere. Strafforello tradusse molto dal tedesco e dall’inglese e collaborò anche al Brockhaus’s Conversation-Lexikon. Per un’Italia che aveva fretta di crescere rinunciò a scrivere opere proprie. Si prodigò invece per far conoscere i classici del pensiero straniero contemporaneo per accelerare l’europeizzazione degli italiani. Nel 1865 tradusse Self-Help di H. Smiles con il titolo subito famoso Chi si aiuta, il Ciel l’aiuta: vero proprio breviario della Terza Italia. Strafforello non badò alla qualità letteraria dell’opera, ma alla sua efficacia pratica. L’Italia doveva rimboccarsi le maniche. Il pragmatismo di Smiles fu terreno di confronto con gli scrittori cattolici ispirati da don Giovanni Bosco, impegnati a loro volta a formare per la vita. All’epoca nessuno pensò che Strafforello complottasse contro l’integrità morale degli italiani. Il progresso era lo statuto di tutti gli europei, incluse le istituzioni culturali dei pontefici, incrementate da Pio IX e dai suoi successori. La Specola Vaticana ne fu un modello di prestigio universale. Quando fu abbastanza sicuro di sé Strafforello pubblicò una cascata di opere, impastate di enunciazioni, esempi, aneddoti. Ebbero immediato e durevole successo: Storia popolare del progresso (1871), Gli eroi del lavoro (1872) sino a Le bat­ taglie per la vita (1902) che fu il suo congedo. La sua opera promosse pragmatismo e positivismo senza pretese filosofiche né rigidità ideologica. Echeggiava lo spirito del tempo e concorreva a suscitarlo, in un circolo virtuoso tra autore e lettori. Si cimentò anche in opere di maggior polso come La sapienza nel mondo e Il dizionario universale di geografia, sto­ ria e biografia. All’Italia dedicò un’opera che fu insieme di affetto e di orgoglio, La Patria. Pubblicata a dispense dalla Utet

di Torino con sedi a Messina, Palermo, Roma, Napoli, Firenze, Catania e Cagliari, fece conoscere non solo la geografia ma attualità economica, imprenditoriale e commerciale, storia e figure significative dell’attualità: tutto corredato da carte, piante topografiche, ritratti, monumenti, vedute.., un vero e proprio capolavoro divulgativo, sintetizzato nella copertina. L’ “Illustrazione Italiana” fu la televisione dell’epoca per le case di abbienti e professionisti. “La Patria”raggiunse molti altri. Nessuno dei due volle il primato. Competevano a chi meglio faceva per un obiettivo comune. Non duello, ma sinergia. Per l’Italia. Altrettanto incisiva fu l’opera di don Antonio Stoppani (Lecco, 1824 - Milano 1891). Fervido ammiratore di Manzoni e di Gioberti, nel 1848, quando ancora era seminarista, Stoppani aiutò i milanesi nelle Cinque giornate. Dopo l’ordinazione si dedicò, affermandosi, a studi scientifici di fama europea sulla paleontologia e la glaciologia. Nel 1857 dimostrò per primo l’unità delle Alpi lombardo-svizzere. Non era una ricognizione accademica. Stoppani fu tra i fondatori dell’Istituto geologico del regno e concorse alla redazione della carta geologica dell’Italia, importante anche per la vulcanologia e lo studio dei terremoti. Apprezzato da Sella, fu il primo presidente del Club Alpino Italiano. La sua opera principale fu e rimane Il Bel Paese, pubblicato nel 1875 e subito caratterizzato da immensa fortuna. Don Stoppani non entrò in dispute teologiche, dottrinarie né politiche. Non si schierò né a favore né contro il “potere temporale”. Parlò dell’Italia, delle sue bellezze naturali e ne esaltò il Creatore. L’unificazione era un fatto compiuto. Bisognava guardare avanti. Alla pace e alla fratellanza operosa. Don Stoppani istruì e educò senza alzare la voce. Scienza e fede non erano affatto contrastanti, come non lo erano la Nuova Italia e la libertà di religione. Altrettanto efficace di quella di Strafforello e di don Stoppani fu l’opera divulgativa di Mauro Macchi (Milano, 1818 - Roma, 1880): discepolo di Carlo Cattaneo e collaboratore del “Politecnico”, anch’egli prese parte alle Cinque Giornate milanesi del Quarantotto, e concorse alla redazione dell’ Archivio triennale delle cose d’Ita­ lia di Cattaneo. Espulso dal Canton Tici-


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no, migrò nel regno di Sardegna, voltò lo spalle a Mazzini dopo il fallimento della rovinosa cospirazione del febbraio 1853 e si dedicò a organizzare le società operaie di mutuo soccorso. Massone, Mauro Macchi collaborò nella promozione del “Libero Pensiero” con don Giuseppe Bonavino, che lasciò l’abito, prese nome di Ausonio Franchi, si fece iniziare in loggia e assunse la guida del Rito Simbolico Italiano, ma poi tornò in religione. Garibaldino, Macchi fu vicepresidente della Lega per la pace e la libertà adunata a Ginevra ove il Generale predicò la pace universale, ma tra i popoli liberi dalla tirannide. Poche settimane dopo non esitò a salire a cavallo per liberare Roma dal potere temporale di Pio IX. La sua opera più durevole fu l’ Almanacco istorico d’Italia pubblicato dal 1868. Lo scrisse da solo, a lume di candela, tra mille difficoltà. Era il suo modo di credere nell’Italia. I maggiori studiosi di statistica lo vollero al proprio fianco: Leone Carpi, Angelo Messedaglia, Cesare Correnti, tutti massoni o amici di massoni o comunque fautori di quell’ “idea di Italia” che talvolta nelle logge era motivo di contesa ma era

condivisa dai veri patrioti. Per lui storia e statistica non erano erudizione, né arida informazione: costituivano le basi per la ricognizione del passato e additavano la via del futuro, lo Stellone d’Italia che ciascuno era libero di interpretare a proprio modo. Nel 1879 il garibaldino e massone Mauro Macchi venne nominato senatore del regno. Fu tra i segnali della serena pacificazione della Terza Italia, il Bel Paese ove i saggi erano uniti come fossero stati dipinti da Raffaello Sanzio. A fare l’Italia tanto concorsero cospirazioni e battaglie, ma altrettanto fecero studiosi che si dedicarono al giornalismo e alla divulgazione ed ebbero spiccata sensibilità per la letteratura e la lingua popolare, incluse le lingue regionali. Fu il caso di Macchi, come di Costantino Nigra, solitamente ricordato solo come incaricato d’affari e ambasciatore, di Felice Govean, autore di romanzi storici e fondatore della “Gazzetta del Popolo” di Torino e di Luigi Pietracqua, il cui nome non figura nella maggior parte delle recenti storie della massoneria italiana. Eppure fu suo alto dignitario ed ebbe la genialità di scrivere romanzi popolari in

piemontese proprio quando la costruzione della Nuova Italia costrinse Vittorio Emanuele II a trasferire la capitale da Torino a Firenze e a Roma. Fu un altro colpo d’ala di un patriota che aiuta a comprendere il vero ruolo svolto dalla Libera Muratoria per unire l’Italia, accanto all’abate Stoppani e al poligrafo Strafforello, iniziato all’idea di Patria. ______________ Note: 1 È il caso degli articoli raccolti in Massoneria e Unità d’Italia. La Libera Muratoria e la costruzione della nazione, a di Fulvio Conti e Marco Novarino, Bologna, il Mulino, 2011, le cui basi rimangono l’articolo di Adolfo Colombo (“Rassegna storica del Risorgimento”, 1914) sulla genesi del Grande Oriente Italiano nelle Carte Govean, il “brogliaccio” di Pietro Buscalioni (citato nell’edizione Brenner del 2001, ma vale altresì quella dedita dalla Madre Loggia “Ausonia” di Torino) e d’articolo di Augusto Comba su Patriottismo cavouriano e religiosità democratica nel Grande Oriente Italiano (1973). P.4: Edmondo De Amicis, ritratto; p.5: Copertina di una edizione fine ‘800 de ‘Le avventure di Pinocchio’; p.6-7: Fascicoli de ‘L’Illustrazione Italiana’; p.8: Frontespizio della ‘Geografia dell’Italia’ di Strafforello, 1896; p.9: Lapide ‘Macchi’ a Cremona.

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La Grande Guerra e la questione balcanica La Grande Guerra costò all’umanità 14.000.000 di morti e 20.000.000 di feriti, bruciò una quantità immensa di risorse, spazzò via quattro imperi e numerosi stati fra i quali il piccolo Montenegro. Il regno di Nikita, all’inizio delle ostilità si schierò con la Serbia e il 6 Agosto entrò in guerra. L’esercito Montenegrino riuscì a reggere il fronte fino all’Ottobre del 1916, quando le truppe Austro – Ungariche iniziarono inesorabilmente ad avanzare e Nikita, il 19 Gennaio, insieme alla famiglia reale e al Presidente del Consiglio fu costretto ad abbandonare il Paese. Rimasero il principe Mirko, il generale Janko Vukotic e alcuni ministri che il 25 firmarono una resa, sprovvista di valore legale in quanto priva dell’autorizzazione della corona1. Le speranze però non erano, comunque, perdute. Nikita si trasferì in Francia, prima a Bordeaux e poi a Neuilly, vicino a Parigi, dove tenne corte ed organizzò un governo in esilio. Egli, in particolare, contava sull’aiuto dell’Italia alle cui sorti era strettamente legato, tanto che, Romano Avezzana, ambasciatore presso la corte di Nikita conveniva che il futuro del Montenegro “è in massima parte nelle nostre mani”2. Affettivamente si poteva stare tranquilli, il Patto di Londra non solo assicurava l’indipendenza del Montenegro sotto la dinastia dei Petrovich Njegos, ma prevedeva un allargamento dei confini, con l’annessione dell’Erzegovina e a Sud di Scutari3. All’inizio del 1916, la Francia sembrava essere propensa a mantenere le promesse e non lesinava aiuti, tanto da versare 200.000 Franchi all’anno al re e al suo entourage. Per di più il ministro degli esteri, in una nota ufficiale del 16 Ottobre 1916, dichiarava: “Il governo francese non intende affatto immischiarsi negli affari in­ terni di uno stato alleato. È, quindi, eviden­ 1 A. Sbutega, Storia del Montenegro … cit, pp. 351 – 352. 2 A. Madafarri, Italia e Montenegro (1918 – 1925): La legione montenegrina, in Studi Storico – militari, Ufficio Maggiore dell’Esercito, Roma 1996, p. 87. 3 Lo stesso Nikita aveva, fra l’altro, più volte postulato il suo progetto di riunire sotto la sua corona Albania e Montenegro. G. Paresce, Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1929, Firenze 1935, p. 235; M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Bologna 2007, p. 94.

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te che, quando le autorità militari francesi entreranno in Montenegro, esse non po­ tranno assumere altro atteggiamento che il riconoscimento dell’autorità legale che è quella di re Nicola”4. Anche le altre potenze alleate si erano affannate ad assicurare il loro appoggio a Nikita. In tal modo si erano espresse Gran Bretagna, Russia e Stati Uniti, il cui Presidente Wilson l’8 Gennaio del 1917 nel discorso al Congresso parlò di restaurazione del Montenegro e ancora il 4 Luglio del 1918 inviò un telegramma a Nikita ove scriveva: “Spero che vostra Maestà e il nobile e antico po­ polo montenegrino non si scoraggeranno e avranno fiducia nella determinazione de­ gli Stati Uniti d’America, i quali nel gior­ no prossimo della Vittoria finale agiranno perché l’integrità e i diritti del Montenegro siano riconosciuti e assicurati”5. In realtà 4 E. Guerrazzi, Il Montenegro oppresso. Episodio della politica anti-italiana della Francia, in “Adriatico Nostro”, a. II, 1921, n. 24, p. 296. 5 Oltre alle citate assicurazione del presidente degli Stati Uniti d’America, Cesare Gotusso su “Adriatico Nostro”, elencava altre 21 note o dichiarazioni ufficiali delle potenze alleate nelle quali si assicurava l’indipendenza del Monte-

fin da allora la Francia era tesa ad assecondare il progetto serbo di inglobare il Montenegro in uno stato degli slavi del sud, che avrebbe impedito l’egemonia italiana in Adriatico e nell’area balcanica6. Per questo motivo Parigi impedì la formazione di un’armata montenegrina in esilio che affiancasse le truppe alleate o che avesse almeno un valore simbolico; non sfuggiva, infatti, al dicastero degli esteri che una legione di esuli, seppur di ridotte dimensioni, sarebbe stata utile a restaurare la dinastia autoctona dei Petrovich Njegos. L’anno successivo la Gran Bretagna cessò di finanziare il governo del gospodar e la Francia dimezzò il contributo, subentrò allora l’Italia versando 100.000 lire, una somma insufficiente a mantenerlo7. Finalnegro. G. Gotusso, Esposizione, in ordine cronologico, delle garanzie date al Montenegro dagli Stati, in Adriatico Nostro”, a. II, 1921, n. 24, p. 298. 6 Cfr. M. Rallo, Il coinvolgimento dell’Italia nella Prima guerra mondiale e la “vittoria mutilata”. La politica estera italiana e lo scenario egeo – balcanico dal Patto di Londra al Patto di Roma, 1915 – 1924, Roma 2007. 7 A. Madafarri, Italia e Montenegro (1918 –

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mente nel 1918 Serbi e Francesi gettarono la maschera e la situazione precipitò: mentre Nikita era tenuto di fatto prigioniero in Francia, nonostante le rassicuranti parole del governo8, l’Armée d’Orient comandata dal generale Franchet d’Esperey, amico personale del Reggente di Serbia, facilita-

Storia va l’avanzata delle truppe di Belgrado e la nascita di cellule pro unificazione, i cosiddetti comitagi che facevano capo al “Comitato Montenegrino per l’Unione Nazionale” di Andrija Radovic. Era questo un ex ministro di Nikita, in seguito allontanato9 per i suoi disegni ambigui ed antinazionali. Radovic era allora approdato in Serbia ed era diventato uno dei più fidati collaboratori del leader serbo, il massone Pasic10. Il governo italiano che da tempo era stato informato dall’Ufficio III/B del Ministero degli Affari Esteri sulle manovre francesi, reagì in maniera confusa ed incerta. Se da una parte vi era il desiderio d’impedire il progetto di una grande Serbia, dall’altra si temevano eventuali ritorsioni economiche statunitensi. Si consentì pertanto a Badoglio, Sotto Capo di Stato Maggiore, di rendere operativo un piano già da tempo messo a punto, che prevedeva l’occupazione dei gangli strategici della “Montagna Nera”11. Il Regio Esercito, pertanto, occupò il massiccio di Lovcen, Antivari, Dulcino e Vir Bazar e puntò su Cettigne, l’avvicinamento alla capitale fu, però, ostacolato dai comitagi che organizzarono manifestazioni antitaliane. Questo bastò perché Orlando, Presidente del Consiglio, ordinasse a Badoglio il ripiegamento delle truppe sulla costa, cosic1925) … cit, p. 89. 8 Il ministro degli esteri francese, rassicurava così Nikita: “Vostra Maestà può stare certa che le truppe poste sotto il comando del generale Franchet d’Esperey nulla trascureranno per assicurare al Vostro Regno il mantenimento dell’ordine e che rispetteranno tanto le autorità costituzionali quanto la libertà del popolo montenegrino”, W. Warren, Montenegro: il delitto della Conferenza della Pace, Bologna 1923, p. 30 9 Ibidem 10 A. Sbutega, Storia del Montenegro … cit, p. 353. 11 P. Caccamo, Il sostegno italiano all’indipendentismo croato, in “Nuova storia contemporanea”, n. 6, 2004, p. 39.

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ché l’Italia si autoescluse dall’occupazione del paese. Contemporaneamente i Serbi e i loro seguaci si mossero velocemente e mentre s’impediva, armi alle mani, il ritorno in patria di migliaia di sudditi fedeli al re12, Radovic, guidato passo per passo da Parigi, indisse delle consultazioni affinché il popolo si esprimesse sui destini del Paese. Questa sorta di referendum si svolse in un clima d’intimidazione, fra continue violenze e prevaricazioni. Il voto non fu affatto segreto, a Cettigne si giunse a stampare i nomi degli unionisti su carta bianca e degli indipendentisti su verde. 12 A. Sbutega, Storia del Montenegro … cit, p. 361.

Ne derivarono due partiti che caratterizzarono, la storia del Montenegro13. I rappresentanti dei Bianchi e dei Verdi si riunirono a Podgorica il 26 Novembre del 1918. I Bianchi erano in maggioranza ma a tacitare definitivamente i Verdi fu l’esercito serbo che insieme ad alcuni miliziani circondò minacciosamente l’edificio dove si svolgeva la riunione. Fu così che, al termine dell’assemblea, si decise di deporre Nikita e di unire, senza garanzie o assicurazioni, il Montenegro alla Serbia: “l’U­ nion entre le Montenegro et la Serbie sous le roi Petar I. Karadjogjevic est proclamè et qu’ainsi unie entre l’Etat des Serbes, Croa­ 13 Ibidem, p. 362.


tes et Slovènes”14. L’Italia cercò una seconda volta di reagire inviando a Cattaro, il 30 Novembre, l’agente Giovanni Baldacci, sotto copertura d’inviato del “Corriere della Sera”, il suo fine era quello di organizzare la resistenza. Egli si accordò subito con l’ex primo ministro Jiovan Plamenac; il piano insurrezionale era semplice: mentre era diffuso un proclama di Nikita che denunciava i soprusi dei comitagi e l’illegittimità dei deliberati di Podgoritza, tre colonne di armati, guidati rispettivamente dal generale Vucinic, dal voivo­ da Petrovich e dallo stesso Plamenac, sarebbero marciate all’interno del Paese per poi convergere sulla capitale. Il disegno fu però scoperto dal metropolita ortodosso Mitrofan Ban che avverti il comando delle truppe serbe e immediata scattò la reazione15. Il 22 Dicembre Baldacci fu arrestato e solo il pronto intervento di un mas ne impedì la prigionia, contemporaneamente il governo fantoccio di Cettigne fece operare centinaia di arresti fra i sostenitori di Nikita e gli indipendentisti. Nonostante ciò l’azione insurrezionale scattò ugualmente e il 4 Gennaio del 1919 le colonne degli insorti strinsero d’assedio la Capitale. Come al solito la risposta del governo italiano risultò incerta, contraddittoria, inconcludente. Sonnino e il Presidente del Consiglio, ritenevano, infatti, di non doversi “in alcun modo implicare […] nell’attuale movimento montenegri­ no” e impedirono al generale Badoglio e a Carbone di fornire un sostegno seppure indiretto ai realisti, invece, incredibilmente, perorarono un aiuto dei Francesi. L’esito di una siffatta azione fu scontato: l’8 Gennaio del 1919, gli insorti stremati, privi di vettovagliamento e di munizioni furono costretti a ritirarsi nell’Albania occupata dalle truppe italiane, qui furono disarmati e concentrati a San Giovanni di Medua16. Intanto nel Montenegro, abbandonato a se stesso, la reazione fu durissima, i bianchi scatenarono il terrore, ma nonostante ciò la resistenza monarchica continuò ad essere attiva per anni17. 14 A. Madafarri, Italia e Montenegro (1918 – 1925) … cit, pp. 93 -94. 15 A. Sbutega, Storia del Montenegro … cit, 365. 16 A. Madafarri, Italia e Montenegro (1918 – 1925) … cit, pp. 98 – 100. 17 La resistenza dei Verdi fu accanita. Nell’inverno del 1919 le truppe serbe attaccarono i fi-

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4. La Legione Montenegrina e l’eclisse di Re Nikita Il 18 Gennaio la Conferenza di Pace di Parigi, pur ammettendo alla prima seduta un delegato di Nikita, si “dimenticò” nel prosieguo dei colloqui del problema Montenegro, spianando di fatto l’annessione dello stato balcanico alla Serbia18. In questo contesto, l’Italia, ormai isolata sul piano internazionale, continuava nella sua amletica politica, in bilico fra inerzia e aspirazioni da grande potenza. Se da una parte si limitava a proteste fini a se stesse, loindipendesti e commisero atrocità anche sulla popolazione civile, a loro volta i ribelli uccisero diversi capi della fazione avversaria e attaccarono sedi amministrative e politiche. La lotta armata proseguì fino al 1924, quando, nel mese di Novembre, furono massacrati 350 musulmani, fra i quali donne e bambini. Pure queste rappresaglie non furono sufficienti ad imporre la “pacificazione” armata e ancora nel 1927 era operativo un reparto di dodici guerriglieri. A. Sbutega, Storia del Montenegro … cit, p. 366,. 371 e 378.. 18 A. Giannini, L’Albania dall’indipendenza all’unione con l’Italia, 1913 – 1939, Roma 1940.

dall’altra appoggiava il gospodar che aveva nominato primo ministro Plamenac. Questi prima di raggiungere il Re in Francia, si fermò a Roma dove il 13 febbraio ottenne assicurazione sulla formazione di una legione montenegrina in Italia19. Il 21 dello stesso mese il sottosegretario agli esteri Borsarelli si attivò per organizzare il trasporto dei reduci e profughi concentrati a San Giovanni di Medua in Italia, operazione che fu completata nel mese di Aprile. Fu così che un migliaio di combattenti giunse nella Penisola e fu acquartierato in due caserme, una a Gaeta e l’altra a Formia. Contemporaneamente il generale Caviglia aveva firmato una convenzione con il governo Montenegrino in esilio che assicurava da parte del Regno d’Italia il mantenimento della piccola armata. È evidente che il Governo sperava di usare tale iniziativa sia per riaprire la questione del Montenegro, sia per indurre la Jugoslavia e gli alleati a una favorevole soluzione dei confini orientali italiani. Nel Giu19 A. Madafarri, Italia e Montenegro (1918 – 1925) … cit, p. 103

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gno del 1919 cadde il Governo e Orlando fu sostituito da Nitti. Le mosse del nuovo esecutivo confermarono che l’Italia usava il Montenegro, soprattutto, come merce di scambio ed era pronta a sacrificarlo per ottenere ulteriori concessioni. D’altra parte sia la Francia che la Serbia erano preoccupate: la “Montagna Nera” non era affatto pacificata, la repressione non era valsa a fiaccare l’iniziativa dei seguaci del re e la guerriglia, fra le aspre giogaie calcaree, dove era facile nascondersi e colpire, era sempre attiva. I partigiani del vecchio re Nikita erano sovvenzionati dall’Italia che, per tutto il 1919 e in parte del 1920, continuò ad elargire finanziamenti alle bande armate, inoltre da Gaeta, in più occasioni, partirono ufficiali ben addestrati per rafforzare le schiere degli insorti20. Quel che mancava era comunque una sufficiente coerenza dell’esecutivo, cosa impossibile per la fragilità della compagine politica che, sostenuta da deboli e instabili maggioranze, sfornava di continuo nuovi ed effimeri governi. Il 12 Maggio del 1920 cadde il gabinetto dell’onorevole Nitti, questi fu sostituito dall’anziano Giolitti che affidò a Carlo Sforza il dicastero degli Esteri. In questo clima di provvisorietà l’8 Novembre si aprì a Rapallo la conferenza Italo-Jugoslava che si concluse cinque giorni più tardi. Nel corso dell’incontro si stabilì sul Monte Nevoso il confine fra Italia e Jugoslavia; in Istria, si decise, inoltre, di creare lo stato libero di Fiume e di annettere Zara all’Italia, l’Italia da parte sua lasciò cadere ogni pretesa sulla Dalmazia. Infine si cercò di gettare le basi per un riavvicinamento fra i due paesi21. Non fu affrontato il nodo del Montenegro, ma è ovvio che se ne parlò, stabilendo che l’Italia, pur salvando la faccia, avrebbe lasciato cadere la questione. Intanto re Nikita era abbandonato da tutti: la Francia ruppe le relazioni diplomatiche col suo governo, seguito a ruota dagli Stati Uniti che nel Gennaio del 1921 ritirarono le lettere patenti al console Montenegrino a New York. Il gospodar però, non demordeva e il 12 Gennaio riunì ad Antibes il Consiglio della Corona e decise di continuare ad oltranza la battaglia per l’indipendenza del 20 Ibidem, p. 111. 21 M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Bologna 2007, pp. 162 – 167; L. Monzali. Italiani di Dalmazia, Firenze 2007, pp. 191 e segg.

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gliere la Legione25. Già il 18 Aprile Sforza era in grado di comunicare a Manzoni che l’ordine di disperdere i combattenti era già stato inoltrato. In realtà rimasero nelle caserme di Gaeta, Sulmona, Padula e Vittoria di Siracusa circa 400 montenegrini che furono liquidati il 14 Giugno, quan-

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Paese22. La lotta era priva di speranze, anche l’Italia ormai stava per abbandonare la patria della sua Regina. D’altra parte, come scriveva a Sforza, Gaetano Manzoni nuovo ambasciatore a Belgrado, non si poteva continuare a tenere il piede in due staffe, si doveva scegliere “tra l’amicizia colla Jugoslavia e l’appoggio alla causa montenegrina. Non è possibile conciliare le due cose”23. La scelta in realtà era già stata fatta e fin dal Febbraio del 1921, il ministro della guerra Bonomi, sollecitato dal collega responsabile degli Affari Esteri, stava pensando ad un piano per sbarazzarsi dei legionari. Tutto era già stato predisposto: Sforza aveva ottenuto dagli jugoslavi un’amnistia generale, per i rifugiati nella Penisola, mancava solo una valida scusa per liquidare l’armata. L’esercito dei rifugiati si era frattanto rafforzato, era costituito da quattro battaglioni di fanteria, da una compagnia di Guardia Regia e da una sezione di artiglieria, per un totale di 867 soldati e di 679 fra ufficiali e sottufficiali, acquartierati nelle caserme “Menabrea” e “Cialdini” di Gaeta e nella “Sant’Erasmo” di Formia. I soldati erano muniti di un buon equipaggiamento, oltre a fucili modello ’91 e a pistole Glisenti, erano dotati di dodici mitragliatrici e di due pez-

zi da montagna da 75 a tiro rapido. La legione, dunque, non era una scatola vuota, da potersi gettar via con un decreto, inoltre bisognava fare i conti con l’opinione pubblica e con i numerosi parlamentari che nutrivano evidente simpatia per il Montenegro e ne rivendicavano l’indipendenza, al di là di ogni calcolo politico. Sforza, in questa occasione, fu fortunato giacché i suoi piani furono agevolati dalla morte di Nikita che, passato a miglior vita il 1 Marzo del 1921, fu tumulato nella chiesa ortodossa di San Remo. Alla sua morte il principe Danilo, sul quale gravavano ombre per trascorse simpatie austrogermaniche, abdicò. La corona passò di conseguenza a suo nipote Michele24 ma in considerazione della giovane età dell’erede, fu nominata reggente la regina madre Milena. Questa scelta non piacque a diversi legionari, ne conseguirono episodi d’insubordinazione sia a Gaeta che a Formia. I tumulti provocarono difficoltà al prefetto di Caserta Caruso e al console del Montenegro a Roma Ramanodovic che chiese a Sforza di istituire una commissione d’Inchiesta e di espellere i legionari ribelli. Era ciò che occorreva al Ministro degli Esteri, il quale, con estrema rapidità, incaricò il colonnello Vigevano di scio-

22 A. Madafarri, Italia e Montenegro (1918 – 1925) … cit, p. 118. 23 Ibidem, p. 120.

24 A. SBUTEGA, Storia del Montenegro … cit, p. 374.

do ormai Rodinò aveva sostituito Bonomi al ministero della difesa26. Nella stessa estate le truppe italiane si ritirarono dall’Albania e dal Montenegro27, sarebbero ritornate sulla Montagna Nera venti anni più tardi, questa volta come truppe di occupazione dell’Asse28. Poco tempo dopo l’ultimo governo Giolitti cadde e si creò una nuova debolissima maggioranza guidata da Bonomi che, memore delle durissime critiche mosse alla precedente compagine governativa accusata di “aver fatto mercato” del Montenegro29, decise di non eliminare l’ultima larva diplomatica del Regno di Nikita. In effetti, dopo un’aspra polemica riportata dalla stampa30, il 20 Giugno l’on. Federzoni attaccò violentemente la politica estera del governo Giolitti e il giorno di poi Mussolini, che stava creando parte della sua fortuna proprio sulla politica estera, rincarò la dose31. In 25 A. Madafarri, Italia e Montenegro (1918 – 1925) … cit, p. 121. 26 Ibidem, p. 123. 27 M. Montanari, Le truppe italiane in Albania (1914 – 20 e 1930), Roma 1972, p. 265 e segg. 28 F. Cordova, C. Gavagna, M. Themelly, Le scelte di allora. I militari italiani in Montenegro dopo l’8 settembre, Milano 2001, p. 19 e segg. 29 Così si esprimeva, sulle pagine del “Corriere della Sera”, l’Onorevole Eugenio Chiesa, in “Corriere della Sera” 6 Luglio 1921. 30 Il 6 Giugno, sul “Corriere della Sera”, uscì ad esempio una lettera al direttore firmata dall’on. Eugenio Chiesa dove si muovevano pesanti accuse al governo per la questione del Montenegro. Si rimproverava fra l’altro all’esecutivo di avere fatto false dichiarazioni in Parlamento, di aver votato positivamente a Ginevra per l’ammissione nella “Società delle Nazioni” di Estonia e Lituania ma di essersi astenuto su quella del Montenegro, di non aver reagito alle elezioni condotte nel Paese di Re Nikita con “un metodo terroristico, con la gendarmeria e i soldati serbi alle spalle degli elettori”. In “Corriere della Sera”, 6 Giugno 1921. 31 E. Di Nolfo, Mussolini e la politica estera italiana, Padova 1960, p. 30; A. Tasca, Nascita

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quello che fu il suo primo discorso parlamentare, si dilungò in particolare sulla questione del Montenegro. “Non vi parlo dell’Alta Slesia – Egli tuonò - Non vi parlo degli avvenimenti di Egitto, ma non posso tacere sulla sorte che si prepara al Monte­ negro. Come ha perduto la sua indipen­ denza il Montenegro? De jure non l’ha mai perduta; ma de facto l’ha perduta nell’ottobre del 1918. Eppure il conte Sfor­ za m’insegna che l’indipendenza del Montenegro era completamente garantita dal Patto di Londra del 1915, che prevede­ va l’ingrandimento del Montenegro a spe­ se dell’Austria e la restituzione di Scutari; dalle condizioni di pace esposte da Wilson agli alleati […] dalla decisione del Consi­ glio Supremo della Conferenza di pace del e avvento del fascismo, vol. I, Bari 1967, p. 394; R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino 1995, pp. 529 – 530; G. Rumi, Alle origini della politica estera fascista, Bari 1968, pp. 9 – 10 e 37 – 40.

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13 Gennaio del 1919 […] Non solo, ma quando Franchet d’Esperey andò, con al­ cuni elementi francesi e serbi, in Monte­ negro, diede ad intendere che avrebbe go­ vernato in nome di Sua Maestà Re Nicola. Quando però, Re Nicola, la Corte ed il Governo intendevano riguadagnare la Montagna Nera, la Francia, che aveva tutto l’interesse a creare la grande Jugo­ slavia, per fare da contro – altare nell’A­ driatico all’Italia, fece sapere al Governo del Montenegro che avrebbe rotto le rela­ zioni diplomatiche, se il Re e la sua Corte fossero ritornati a Cettigne. Quale è stata la politica italiana in questo frangente? L’Onorevole Federzoni ha parlato ieri di una convenzione del 30 Aprile 1919. In questa Convenzione sono chiaramente stabiliti dei patti fra il Governo d’Italia e il Governo del Montenegro. E si dice pre­ cisamente: “A seguito dell’accordo inter­ venuto fra il ministro italiano degli affari esteri e il Governo del Montenegro […] si costituirà a Gaeta , per cura del Governo

montenegrino, un nucleo di militari, uf­ ficiali e truppa, tratti dai profughi mon­ tenegrini” […] Ora questa Convenzio­ ne è stata stracciata dopo la morte di Re Nicola di Montenegro […] Non solo ma in data 27 Maggio, il Conte Sforza mise nuovamente il coltello alla gola del Go­ verno Montegrino dicendo: “O sciogliete o non vi darò più i fondi per mantenere questi vostri soldati!” […] Ma, in fine, il conte Sforza si è giovato dell’esercito mon­ tenegrino per un calcolo politico. Agevo­ landone l’esistenza in Italia, il conte Sfor­ za credeva di poter avere dei patti migliori dalla Jugoslavia. Questo non è avvenuto, ed in un dato momento l’esercito mon­ tenegrino è stato buttato sotto il tavo­ lo, come una carta che non si poteva più giuocare. Il fatto nuovo, le elezioni della Costituente, non basta a giustificare l’ab­ bandono tragico, in cui l’Italia ha lascia­ to il Montenegro, perché solo il 20% degli elettori hanno partecipato alle elezioni, e solo il 9% ha votato per l’annessione alla Serbia. Le autorità serbe hanno istaura­ to nel Montenegro un regime di vero ter­ rore e hanno impedito la presentazione di liste, che contenessero nomi di candidati favorevoli all’indipendenza del Montene­ gro. Ma non riteniate, onorevole Sforza, che la questione del Montenegro sia stata liquidata! Prima di tutto perché il popo­ lo del Montenegro è ancora in armi con­ tro la Serbia, e voi lo sapete, ed in secon­ do luogo perché il popolo italiano, per una volta tanto, è unanime in tale questione! Persino i socialisti, e lo dico a loro onore, parecchie volte nel loro giornale, hanno dichiarato che la causa dell’indipendenza del Montenegro è sacrosanta. […] Voi do­


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vete riscattare la pagina vergognosa che avete scritto assassinando il popolo mon­ tenegrino […] 32. Il discorso di Mussolini è estremamente interessante, in primo luogo perché egli ricostruì con una certa precisione gli eventi e in secondo luogo giacché denunciò la strategia del Governo che aveva permesso la formazione della legione montenegrina a Gaeta, solo per avere uno strumento di pressione sul piano internazionale. In realtà al Ministero degli Esteri non interessava tanto la sorte dello stato balcanico, quanto definire a proprio vantaggio la linea di confine con la Jugoslavia. È inoltre vera l’asserzione del leader fascista sulla simpatia che opinione pubblica e forze politiche nutrivano per quello che era stato il regno di Nikita. D’altra parte uomini come Leonida Bissolati, esponente di spicco degli “interventisti democratici”, non potevano difendere il principio della nazionalità chiedendo all’Italia “di rinunciare a tutte le rivendicazioni basate sulla logica della potenza”, mentre nella “Montagna 32 Atti Parlamentari, Legislatura XXVI – 1^ Sessione – Discussioni Tornata del 21 Giugno 1921, pp. 92 – 93. Il discorso fu poi riportato su “Il Popolo d’Italia”, cfr. “Il Popolo d’Italia”, 23 Giugno 1921.

Nera” l’autodeterminazione era stata ridotta a farsa33. Nonostante la benevolenza degli Italiani e le concioni di Mussolini il de profundis per il Montenegro fu cantato pochi giorni più tardi, quando il 28 Giugno del 1921, nel fatale, solito giorno di San Vito, fu approvata la Costituzione del Regno Jugoslavo, che s’ispirava al modello centralista adottato dal Belgio nel 1830. Tale scelta non fu condivisa da tutti i deputati, tanto che vi furono su 416 votanti 35 contrari e ben 158 astenuti34. Nonostante siffatte contraddizioni, 13 Luglio del 1922, una dichiarazione della Conferenza degli ambasciatori ufficializzò il nuovo stato ed accettò la spari33 L’11 Gennaio del 1919 Leonida Bissolati tenne un comizio alla Scala di Milano ove espose, fra salve di fischi, urli e minacce le sue idee sul principio di nazionalità. Gaetano Salvemini considerò la contestazione di Bissolati “il primo grande e vittorioso esperimento di un metodo di violenza sistematica, materiale e morale, per impedire l’attività politica agli avversari, e metterli al bando della nazione”. M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale … cit, pp. 121 – 122; R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo: l’Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma, Bologna 1991, pp. 215 e segg. 34 G. Franzinetti, I Balcani dal 1878 ad oggi … cit, pp. 46 – 47.

zione del Montenegro. In Italia continuò, tuttavia, a permanere un governo in esilio che aveva la propria sede nel consolato di Roma, in via XX Settembre. Pur ridotto ormai ad un’icona, questo ultimo baluardo del fiero stato balcanico, ebbe vita travagliata per l’ostilità ormai profonda che sussisteva fra Milena, la reggente, e Plamenac. Mussolini, diventato capo del Governo risolse la questione espellendo Plamenac e i suoi seguaci. Poco più tardi una commissione interministeriale stanziò 554.000 Lire a favore degli ultimi esuli. L’atto finale giunse il 16 Marzo del 1923 quando Milena passò a miglior vita. Essa fu sepolta accanto a Nikita nella chiesa ortodossa di San Remo, con la sua morte la storia pose una pietra tombale anche sul Regno del Montenegro, la terra che aveva dato i natali ad Elena, la regina più amata dagli Italiani. 35 Il 29 Settembre del 1989 le salme reali, con una solenne cerimonia furono inumate per essere traslate nella terra natia. P.10: Ritratto fotografico della regina Elena; p.11-13: Nikita del Montenegro, foto d’epoca; p.14: Grande Guerra, trincea all’aperto sul monte Ursic e - in basso - Vitt. Emanuele e il Generale Diaz sul fronte; p.15: 24 Maggio 1915, il ‘Corriere della Sera’ annuncia la dichiarazione di guerra; p.16: Mussolini in Parlamento, gennaio 1925 e - a destra - ritratto di B.Mussolini, primissimi anni ‘20; p.17: La ‘Marcia su Roma’, dipinto di G.Balla.

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Giacomo Novicow e la missione universale dell’Italia Aldo A. Mola

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remessa Sulla fine dell’Ottocento l’Italia parve avviata verso l’abisso: la rovinosa guerra d’Africa, chiusa con la sconfitta di Abba Garima (o Adua, il 1 marzo 1896), le insurrezioni sanguinosamente represse in varie città, incluse Milano e Pavia, l’ostruzionismo parlamentare, il muro contro muro tra il governo presieduto dal generale Luigi Pelloux e l’opposizione radicaldemocratica e socialista … L’assassinio di Umberto I a Monza, il 29 luglio 1900, sgomentò, ma al tempo stesso accelerò una riflessione generale sulla necessità di far quadrato attorno alle istituzioni, la monarchia statutaria: un progetto avviato dall’estate precedente da Giovanni Giolitti e Giuseppe Zanardelli, che nell’autunno 1899 pronunciarono importanti discorsi programmatici per avviare la “svolta liberale” annunciata dal governo presieduto dall’ottantenne Giuseppe Saracco (1900 - 1901). Un segnale venne dato dal saggio di Giacomo Novicow, La missione dell’Ita­ lia (Milano, Treves,1902), scritto in francese e tradotto da Alessandro Tassoni, che ne scrisse un’ampia introduzione. Novicow (Odessa, 1852 - Istanbul, 1912), sociologo apprezzato in Occidente più che nella sua terra d’origine, laureato in giurisprudenza e docente universitario, aveva unito studi di economia a sociologia e filosofia. Nel 1886 pubblicò La po­ litique internationale, seguito, tra altre opere, da Les gaspillages des sociétés mo­ dernes (1899) e La Fédération de l’Europe. Duramente avverso al darwinismo sociale, cui dedicò uno tra i suoi volumi più celebri, in La missione dell’Italia del 1902 [Questo volume è ristampato in ediz. anastatica nella collana “Massoneria: storia e fonti”, ed. Forni, Sala Bolognese]. Novicow incitò il giovane regno ad assumere la guida degli Stati Uniti d’Europa, nella certezza che la loro costituzione avrebbe fatto riemergere le regioni, vero tessuto connettivo di ciascun Paese, fecondato dalla civiltà sorta dalla romanizzazione, dalla cristianizzazione e dalla mescolanza dei popoli. L’alternativa a quel programma era la guerra, una guerra generale e devastante che Novicow previde e tentò invano di scongiurare con la sua predicazione civile. Il suo messaggio fu condiviso e diffu-


so dalla Federazione studentesca universitaria internazionale Corda Fratres, ideata nel 1898 da Efisio Giglio Tos, a sua volta impegnata a promuovere la fratellanza delle future classi dirigenti, diversamente costrette un giorno a cozzare sui campi di battaglia, in un conflitto che avrebbe oscurato le coscienze e generato i totalitarismi. Giacomo Novicow fu relatore di spicco al Congresso universale del Libero Pensiero (Roma, 20-22 settembre 1904) accanto a Nicolas Salmeron, Marcelin Berthelot, Roberto Ardigò, Cesare Lombroso, Giuseppe Sergi e altri fautori della fratellanza tra i popoli. Nell’Italia avviata al nazionalismo e al massimalismo, la sua opera venne accolta con freddezza e dopo la Grande Guerra giacque dimenticata. Il suo monito risulta nondimeno profetico: un incitamento a guardare oltre le cronache e alle spinte espansionistiche del militarismo e del fanatismo. Esso merita di riecheggiare oggi, mentre la pace rimane un miraggio. Eccone, per saggio, la parte conclusiva. Io ho dimostrato che la missione dell’Ita­ lia era di ridiventare ciò che fu per lungo tempo, la madre delle scienze e delle arti. Ma in­sieme a questa missione intellettua­ le essa deve compierne anche una politi­ ca assai importante: prendere cioè l’ini­ ziativa della fe­derazione d’Europa, opera per la quale nes­suna nazione è più adatta dell’Italia. Io esporrò in quest’ultimo capitolo le ra­ gioni di fondo questa mia affermazione. Sulla facciata del municipio di Palermo, si vede una lastra di marmo che porta la seguente iscrizione: ADDÌ 21 OTTOBRE 186O IL POPOLO SICILIANO VOTÒ VOLERE ITALIA UNA E INDIVISIBILE CON VITTORIO EMANUELE RE COSTITUZIONALE E SUOI LEGITTIMI DISCENDENTI. DI 432 720 VOTANTI 432 053 AFFERMARONO.

Questa iscrizione non è unica nel suo ge­ nere in Italia. Ne’ miei pellegrinaggi attra­ verso questo paese ne ho trovate molt’altre consimili, nel palazzo pubblico di Siena, ad esempio, a San Gimignano e altro­ ve. Queste iscrizioni sono i titoli di nobil­

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tà della nazione italiana. Esse segnano la fine della barbarie nell’umanità e il prin­ cipio dell’era di pace e di giustizia, cioè di vera civiltà, la quale non comincerà sul globo che a partire dal momento in cui i diritti delle nazioni saranno scrupolosa­ mente rispettati, in cui queste cesseran­ no di essere un vile gregge appartenente a qualche grande della Terra e avrà fine l’ab­bietto sfruttamento dell’uomo, e gl’in­ dividui saranno liberi, come le società, di disporre dei loro destini politici. Né ciò po­ trà avvenire che con un sol mezzo: il ple­ biscito. Un giorno la storia dell’umanità sarà in­ dubbiamente divisa in due periodi: il pe­ riodo anteriore ai plebisciti, nel quale re­ gnò la forza, cosa abbietta e brutale, e il periodo plebisci­tario in cui regnerà il di­ ritto, cosa ammira­bile e gloriosa. Infatti, da che cosa deriva l’anarchia in­ ternazionale odierna, che piomba l’uma­ nità nella miseria e nella sofferenza? Essa de­riva dalla conquista politica. Ogni Stato con­sidera come un bene l’appropriazione vio­lenta dei territori altrui. Ma il giorno in cui si stabilirà che ogni cambiamento territoriale non può compiersi senza il li­ bero consenso dei cittadini, non vi saran­ no più conquiste violente e l’ordine giu­ ridico internazionale avrà preso il posto dell’attuale anarchia selvaggia. Allora gli uomini non avranno più bisogno di con­ sacrare la migliore parte del loro tempo a preparare assalti contro i vi­cini, e a garan­ tirsi dagli assalti di questi. Allora gli uo­ mini potranno consacrare tutta la loro at­

tività all’utilizzazione del nostro pianeta e, assai facilmente, potranno uscire dal­ la miseria. Questa trasformazione del­ l’uomo da animale di preda in produtto­ re, cioè in essere intelligente e razionale, se­gnerà precisamente la fine della barba­ rie e il principio della vera civiltà. L’Italia avrà allora avuto il merito insigne di essere entrata per la prima in questo lu­ minoso periodo e di aver aperta la via alle altre nazioni di Europa. I detrattori dell’Italia dicono che i plebi­ sciti del 1860 non furono sinceri; ma è un’affermazione gratuita, che non sostie­ ne l’e­same dei fatti. A Napoli e in Sicilia non vi fu alcuna pressione del governo piemontese. D’altronde, è difficile eserci­ tare una pressione sopra 1.300.000 uomi­ ni, poiché tale fu il nu­mero degli individui che votarono l’unità nel reame di Napoli. Ma, pure ammettendo che il voto non sia stato sincero (ciò che non fu), il principio resta salvo e però stabilisce incontestabil­ mente il fatto che l’Italia, sola fra le na­ zioni europee, deve la propria ori­gine non alla forza brutale ma al libero con­senso de’ suoi concittadini. Tale origine mette gl’Italiani ben al di so­ pra dei “nobili” anglo-sassoni e dei “fio­ renti” germanici, malgrado la pretesa deca­denza latina! ... L’Inghilterra è fie­ ra delle sue libertà politiche, che datano dalla magna charta del 1215, ed ha ra­ gione. Disgraziata­mente la sua libertà è limitata perché si ri­ferisce soltanto al di­ ritto interno: la magna charta non im­ pedisce agl’Inglesi di violare i diritti del­

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le collettività. Attualmente gli Inglesi fan­ no una guerra atroce per obbligare i Boeri a subire la loro dominazione; bene inte­ so, quando si deporranno le armi, gli In­ glesi non consulteranno i Boeri per sapere se desiderano o meno diventare sudditi di Re Edoardo VIII.

Storia Ed i ‘fiorenti” Germanici? ... Nel 1848 il Parlamento di Francoforte offre la coro­ na del­l’Impero a Federico Guglielmo IV, re di Prus­sia. Il re rifiuta di prenderla per­ chè offerta dalla volontà del popolo, origi­ ne, per lui, diffamante! ... In tal modo un sovrano della “fiorente” Germania, consi­ dera come un di­sonore il conformarsi ai voti delle nazioni! Qual’è dunque la vera missione di un so­vrano quaggiù? È forse quella di contrariare sempre i voti de’ suoi

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soggetti, di lavorare cioè alla loro sventu­ ra? Si può concepire una tendenza più an­ tisociale? E, più tardi, come fanno Guglielmo I e Bi­ smarck ad effettuare l’unità del­ la Germania? Solo con la forza e con la violenza! Nel­l’anno medesimo la Prussia annette l’Anno­ver e I’Italia la Venezia. Ebbene, Vittorio Emanuele consulta su­ bito i Veneziani: 647 246 lo vogliono per re, 69 no! Guglielmo I invece si guarda bene dal consultare gli Annoveresi; pri­ ma di tutto perchè la cosa non è confor­ me al suo spirito gotico e poi perché è già si­curo di una risposta negativa; poiché gli Annoveresi avrebbero certamente votato con­tro Guglielmo I con la stessa maggio­ ranza con la quale i Veneziani votarono per Vit­torio Emanuele. I procedimenti coi quali fu costituito il Regno d’Italia han­ no fatto battere il cuore di tutti gli uomini

che si preoccu­pano degli interessi generali dell’ umanità. I procedimenti coi quali si è invece costituita l’unità tedesca sono stati un ritorno verso la barbarie, piombando l’Europa nel più odioso militarismo e ral­ lentando sensibilmente il cammino della civiltà. Per il fatto adunque di essere fondata sul diritto e non sulla forza, l’Italia può pren­ dere l’iniziativa di proporre il medesimo re­gime agli altri paesi. Né la Russia, né la Prussia, né l’Inghilterra non lo posso­ no come l’Italia. Al congresso socialista di Zu­rigo nel 1893, si è votata una risoluzio­ ne do­mandante che “in tutti i paesi an­ nessi da meno di cinquant’anni le popola­ zioni siano invitate a dire a quale nazio­ nalità vogliono appartenere”. Se questa proposta diventasse domani la base del diritto pubblico europeo (ciò che sarebbe il più prezioso dei benefici) essa smembre­ rebbe parecchi Stati del nostro continente, ma lascerebbe l’Italia nella sua condizio­ ne attuale. Un’ altra ragione per la quale l’Italia po­ trebbe prendere l’iniziativa della federa­ zione è d’ordine militare. L’Italia, essendo la più debole delle gran­ di nazioni, non ha la possibilità di fare conqui­ste brutali e di strappare province alle sue potenti vicine. Se essa rivendica ancora certi territori (il Trentino, l’Istria, la Corsica) è dal punto di vista del dirit­ to nazionale (a torto od a ragione poco importa) e non in nome della forza. Per questo fatto soltanto l’Italia è una nazio­ ne eminentemente paci­fica: essa non può e non vuole fare brutali conquiste, ciò che equivale a dire che essa vuole rispettare scrupolosamente i diritti delle nazioni vi­ cine e non violarli; ossia, ch’essa vuole far regnare la giustizia sulla Terra. Ma vi è di più. Non soltanto l’Italia non è fra le nazioni che vogliono attaccare, ma non è nemmeno fra quelle che possano difen­dersi con le loro proprie forze. Di recente è stato riconosciuto che l’ar­ senale della Spezia potrebbe essere impune­mente bombardato da una squa­ dra nemica perchè i cannoni de’ suoi forti non hanno che la portata di dieci chilo­ metri e quelli delle grandi corazzate mo­ derne di quindici chilo­ metri. Quando questa constatazione è stata fatta, fu im­ possibile di portare rimedio al male, per­ ché per munire Spezia di un’ arti­glieria efficace e nuova occorrono 23 milioni di


L’Italia ha già formato per due volte l’uni­ tà dei popoli civili dell’Occidente: la pri­ ma volta con la dominazione politica di Roma, la se­conda volta con la domina­ zione spirituale dei papi. Ciò dà all’Italia una superiorità enorme. Una voce parti­ ta dal Campidoglio o dal Vaticano acqui­

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franchi. Ora il tesoro italiano non dispone attualmente di questa somma. Ciò che è vero del forte della Spezia in particolare, è vero della flotta italiana in generale. Essa sarebbe incapace di resistere non soltan­ to alla flotta inglese, ma anche alla flotta francese. La Francia può spendere per la sua marina 313 milioni di franchi all’an­ no mentre l’Italia non può spenderne che 118. Quantunque l’esercito italiano si tro­ vi in migliori condizioni della flotta, esso pure non potrebbe difendere il paese con­ tro un attacco simultaneo della Francia e dell’Austria. Si vede dunque che, l’Italia non può pro­ curarsi la sicurezza internazionale con le sue proprie forze militari. E bisogna inol­ tre considerare che gli armamenti attua­ li sono il principale ostacolo che impedi­ sce all’Italia il suo sviluppo economico ed intellettuale. Se adunque l’Italia non può procurarsi la sicurezza coi cannoni e con le baionette, essa deve cercarla al­ trove, e, prima di tutto, nell’equilibrio del­ le grandi potenze vicine e nel loro anta­ gonismo. Quale sarà il risultato di questo

equilibrio? Sarà che la Francia, per esem­ pio, dovrà perdere la speranza di strap­ pare province alla Germania con la for­ za delle armi, la Germania alla Francia, la Russia alla Germania, e così di seguito. Ma dal momento che non sarà più possi­ bile fare conquiste, le guerre diventeran­ no senza scopo e non si sentirà più il bi­ sogno di farne. E quando le nazioni civi­ li non si fa­ranno più la guerra, l’anarchia internazio­nale non esisterà più. L’Italia essendo incapace di garantire la sua indipendenza con le sue proprie for­ ze, è più interessata che le altre potenze a ve­der regnare l’ordine giuridico interna­ zionale. D’altronde, siccome i suoi arma­ menti non le procureranno la sicurezza, l’Italia sarà la prima a comprendere ch’es­ si sono assoluta­mente inutili, poiché inef­ ficaci, e che sono anzi nocivi impedendo lo sviluppo della sua ricchezza e della sua civiltà. Alle ragioni giuridiche o militari che pos­ sono far prendere all’Italia l’iniziativa della Federazione d’Europa, se ne aggiun­ gono altre d’ordine storico e morale.

sta immediatamente nel mondo un’im­ portanza eccezionale, un prestigio stra­ ordinario, perché questa voce è ingran­ dita da venticinque secoli di gloria e di grandezza. Nessun’altra città al mondo può uguagliare Roma sotto questo rap­ porto: né Parigi, né Londra, né Berlino, né Pietroburgo, né Washington. Roma è stata il centro del gruppo di civiltà euro­ peo e, per ciò solo, può ridiventarlo più facilmente che ogni al­tra grande capita­ le del nostro continente. Certo, se un par­ lamento federale dell’Europa dovesse ri­ unirsi in qualche luogo, Roma sa­rebbe la città che toglierebbe ogni rivalità fra le nazioni, raccogliendo tutti i suffragi. I de­putati dell’Europa unita salirebbero al Cam­pidoglio. Sembra che le parole del linguag­gio comune approvino già questo grande avvenimento, poiché la frase “sali­ re al Campidoglio” significa oggi, in tutti i paesi civili, salire alla gloria. E quale più glorioso momento per l’umanità di quello in cui essa uscirà dalla barbarie, per l’u­ nione e la con­cordia? Roma contiene inoltre nel suo seno una potenza internazionale di prim’ordine, la sola potenza internazionale, anzi, che oggi esista: il papa. Gli spiriti progrediti considerano oggi il papa come il nemico della civiltà. Alleato ai Gesuiti, è il gran prete dell’oscuran­ tismo rea­zionario, quasi lo spirito del­ le tenebre che impedisce i progressi del­ la scienza, e quindi il benessere del gene­ re umano. Egli contri­buisce a mantenere gli spiriti nelle vecchie pastoie alle qua­ li dobbiamo la nostra bar­barie attuale e la nostra disastrosa anarchia presente. Insomma, agli occhi di un gran numero di spiriti progrediti, il papato è assai nocivo oggi, e i popoli avrebbero un gran vantag­ gio a vederlo sparire. Io, personalmente, non sono di questo parere, ma ammetto che si possano avere molte buone ragioni per con­dividerlo. Ebbene, il papato potrebbe immediata­

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mente modificare questo modo di vede­ re metten­dosi alla testa di una grand’o­ pera umani­taria, quale sarebbe l’unione giuridica dei popoli civili. Il papato po­ trebbe risollevarsi agli occhi delle nazioni consacrandosi al lavoro per la loro felici­ tà. Tutto lo spin­ge a intraprendere questo

Storia compito mira­bile. Innanzi tutto la base, fondamentale della morale, il comanda­ mento supremo di Gesù Cristo: amate il prossimo vostro come voi stessi. Poi la sua condizione d’istitu­ zione essenzialmente internazionale e la considerevole potenza ch’essa ancora con­serva sopra un immen­ so numero di spiriti. Se il papato si prefig­ gesse il compito di stabilire l’ordine giuri­ dico fra gli Stati, di­venterebbe a un tratto una delle istitu­zioni più preziose e benefi­ che che esistano sul globo, e la sua impor­ tanza aumentereb­be come per incanto di­ nanzi agli occhi degli uomini. Nell’opera della propaganda contro la guer­ra, per la solidarietà internaziona­ le, il papa ha una superiorità enorme sui più grandi potenti della Terra: quella cioè di poter chiudere e aprire le porte del cie­ lo. Se il papa proclamasse che lavorare per la federazione dell’Europa è un mezzo si­ curo per acqui­stare il paradiso, darebbe al movimento pa­cifico un’impulsione gi­ gantesca. Milioni d’uo­ mini conservano ancora una fede profonda: per essi la pa­ rola del papa è un ordine. Come un tempo i papi hanno fatto crociate belli­cose pro­ mettendo il regno dei cieli ai con­quistatori di Gerusalemme o di Costantinopoli, po­ trebbero oggi organizzare una cro­ciata universale contro l’errore mostruoso del militarismo. La curia romana è compo­

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sta di uomini troppo abili, troppo illumi­ nati ed intelligenti per non comprendere quanto la missione che le assegniamo po­ trebbe tornarle di enorme utilità. Il papa Leone XIII, d’altronde, che ha uno spiri­ to tanto vasto e consapevole, è già intie­ ramente guadagnato all’opera della paci­ ficazione europea. Fino dal 1894 egli in­ dirizzava ai principi e ai popoli di Europa una lettera che conteneva questo mirabi­ le passo: “Noi abbiamo dinanzi agli occhi la situazione dell’Europa. Da molt’anni si vive una pace più apparente che reale. Inva­sati da continui e reciproci sospetti quasi tutti i popoli sollecitano a gara i pre­ parativi di guerra. Da qui le spese enor­ mi e l’esau­rimento del pubblico tesoro, da qui un danno fatale portato alla ricchezza delle nazioni, come alla fortuna privata; e a tal punto si è giunti che non si possono più a lungo sop­portare i pesi della pace ar­ mata. Sarebbe questa, forse, la condizione naturale della società?” Dobbiamo spera­ re che i succes­sori di Leone XIII, al par di questo nobile pontefice, comprenderanno quanto grande sia il loro dovere di lavora­ re all’opera santa ed augusta della frater­ nità dei popoli civili. Il re d’Italia, contem­ poraneamente al papa, potrebbe prende­ re a cuore la causa della fe­derazione eu­ ropea. Sarebbe bello vedere que­ste poten­ ze, oggi nemiche, lavorare insieme a una grande opera umanitaria. Ecco come po­ trebbe effettuarsi, in pratica, l’azione del­ la Corona italiana. Quest’azione potreb­ be essere triplice: diplomatica, ufficiale e non ufficiale. Innanzi tutto parliamo del­ la prima. Il governo italiano può benissi­ mo ri­prendere, per suo conto, l’idea, attri­ buita al conte Goluchowski, di una fusio­ ne della Tri­plice con la Duplice Alleanza. Il governo ita­liano può riprendere questa idea con mag­giore probabilità di succes­ so dell’Austria-Ungheria, appunto per­ ché l’Italia non desta sospetti. I malinte­ si che esistono, per esem­pio, fra l’Austria e la Russia, possono far nascere esitazio­ ni. Nulla di simile potrebbe ac­cadere per l’Italia. La mia proposta, del re­sto, ha già avuto un principio di esecuzione con l’in­ vio della squadra italiana a Tolone, che ha segnato il lieto riavvicinamento del­l’Italia alla Francia. E poiché l’amicizia con la Francia vuol dire amicizia con la Russia, è evidente che l’unione della Duplice con la Triplice Alleanza, non è una chimera, e date nuove circostanze favorevoli po­

trebbe com­piersi in maniera diretta, con un trattato for­male, segnato dalle cinque potenze. ... Se il governo italiano riuscis­ se a concludere la Quintuplice Alleanza avrebbe attuato in realtà, la federazio­ ne dell’ Europa. Infatti, che cosa signifi­ cherebbe la Quintuplice alleanza? Che la Francia, la Germania, l’Austria, l’Italia e la Russia si garantirebbero reciprocamen­ te i territori rispettivi da ogni aggressio­ ne violenta o, con altre parole, che queste potenze rinuncerebbero a strapparsi pro­ vince l’un l’altra con la violenza. Ma ciò equivale, semplicemente, a stabilire rela­ zioni giuridiche fra gli Stati, invece del­ le re­lazioni anarchiche attuali. Sarebbe adunque la federazione dell’Europa inte­ ra. È evidente che quando i cinque grandi colossi del nostro continente avranno ri­ nunciato a sbranarsi l’un l’altro, non sa­ ranno certo la Serbia, l’O­landa, il Belgio o la Romania che inizieranno una guer­ ra per strappare qualche provincia all’Au­ stria o alla Germania. Quanto all’Inghil­ terra ognuno comprende ch’essa non so­ gna più alcuna conquista sul continente eu­ropeo. Tale è la via diplomatica, che, accorta­ mente e insistentemente proseguita, po­ trebbe un giorno venir coronata dal suc­ cesso. La via diplomatica non esclude però anche l’impie­go della via ufficiale. Il re d’Italia, infatti, potrebbe prendere l’ ini­ ziativa di convocare un congresso per, esa­ minare le questioni pendenti in Europa. Il fatto che le potenze non accettino, non si­ gnifica nulla, poiché i grandi movimenti umani richiedono molto tempo per matu­ rare. Le proposte dell’Italia potrebbero es­ sere respinte una, due, dieci volte. Ciò non dimostrerebbe che l’ Italia ha torto di far­ le. L’Italia, invece di diminuire, aumente­ rebbe il suo prestigio e la sua aureola glo­ riosa di fronte alle masse popolari di tutti i paesi civili, dimostrando coi fatti di esse­ re il paese più progressivo del mondo. Ora passiamo all’azione non ufficiale. Il re d’Italia potrebbe prendere sotto il suo patrocinio le società per la pace che oggi esistono in tutti i paesi civili, esprimendo il desiderio d’ esserne nominato presiden­ te onorario. Dovunque egli sarebbe eletto per acclamazione. Basterebbe che il re d’I­ talia seguisse una simile politica per crear­ si una posizione eccezionale fra i sovrani d’Europa. La sua popolarità sarebbe così grande, il suo prestigio così immenso che


il suo esempio non potrebbe tardare ad es­ sere imitato. Ora è evidente che il giorno in cui i sovrani lo vorranno, l’anarchia in­ ternazionale non durerà un solo minuto e che l’ordine giuridico fra le nazioni sarà subito stabilito. Tali sarebbero i mezzi pratici che per­ metterebbero all’Italia di prendere in pu­ gno la grand’opera della federazione eu­ ropea. Tale è la missione politica dell’I­ talia, ed anche la più intieramente con­ forme al suo diritto pubblico e alla sua storia passata. Missione fra le più utili e proficue, poiché nulla è più ingrato e dan­ noso che l’andare contro la corrente. E’ vano impiegare in questo compito sterile e odioso la più straordinaria energia, poi­ ché le forze della natura sono più poten­ ti delle forze del­l’uomo e, presto o tardi, l’imprudente nuota­tore che risale il cor­ so dell’acqua è impla­cabilmente travolto. Guardate, per esempio, Guglielmo II. Egli ha sempre lo spirito ri­volto al passato, in modo da sembrare un uomo del X secolo vivente in pieno secolo ventesimo. Egli ha un bel ripetere in ogni occasione ai suoi soldati che debbono tirare sopra i padri e le madri, poiché tali parole non trovano eco in nessun cuore e conferma in nessu­ na intelligenza; esse non ottengono che il solo risultato di diminuire la popola­rità di Guglielmo II, com’egli stesso l’ha con­ statato, recentemente, parlando dell’eclis­ si del principio di autorità. Quanto invece è più vantaggioso discen­ dere le correnti e camminare col secolo e mettersi a capo del progresso e favorire le nuove tendenze, oltrepassandole, anzi, con lo sguardo del genio! Allora si è porta­ ti alle stelle dalle mille voci della fama, si conqui­dono i cuori, si diventa l’idolo dei propri contemporanei e l’onore della sto­ ria. Allora si aumenta la propria poten­ za in immensa misura, perchè basta pro­ nunciare una pa­rola per essere obbediti da migliaia di uo­mini con entusiasmo e devozione. Il sovrano d’Europa che si pro­ porrà la missione di fare la federazione d’Europa acquisterà un così enorme pre­ stigio morale da diventare quasi il capo del nostro continente. Più che ogni altro sovrano del mondo, il re d’Italia potrebbe diventare questo capo! S’egli compisse questa missione, l’Italia ri­ diverrebbe per la terza volta il centro del­ la civiltà occidentale. Per la terza volta essa dominerebbe sulle nazioni, come ai

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tempi di Augusto e d’Innocenzo III. Ma tale predo­minio sarebbe ben più durevo­ le dei prece­denti perché sarebbe fondato non sulla forza più brutale (l’agente più distruttore della fe­licità umana) ma sulla simpatia e sulla giu­stizia, cioè sulla base più solida e inconcussa sopra la quale pos­ sa stabilirsi un’istituzione quaggiù. Pensate quale vita, quale attività, qua­ le slancio, quali speranze rinascerebbero in Italia, se la dieta federale dell’Europa po­tesse di nuovo sedere in Campidoglio! Pen­sate in quale vuoto abisso di oscurità si perderebbero allora quegli spiriti picci­ namente pessimisti che vedono dovun­ que la corruzione e la morte e che nega­ no ogni missione alla gloriosa Italia. No, mille volte no, essa ha una missione, e la più grande, la più luminosa che immagi­ nare si possa: e basterà che gl’Italiani ne abbiano chiara vi­sione per comprendere che possono e deb­bono compierla. Io sono felice di constatare che molti Italiani pensano ora come me, né posso più degnamente finire questo libro che ce­ dendo la parola a un Italiano. “Per fare

la federazione d’Europa (dice il marche­ se Alessandro Tassoni) ci vuole una na­ zione giovane, che non abbia forti tra­ dizioni militari, che per temperamen­ to e per bisogno di economia di forze, si tenga lontana dalla conquista, an­ che perchè consolidatasi quando qua­ si tutti i possedimenti coloniali erano governi spartiti fra governi più ricchi e più maturi. E questa nazione è l’Italia, culla della romanità e della rinascenza, terra che per incanto di natura e per l’influsso di una civiltà millenaria è considerata dai migliori spiriti di Europa come una secon­ da patria. Essa sarebbe il luogo più adatto per diventare il centro del movimento d’i­ dee per la federazione d’ Europa, il paese migliore nel quale possono avere diritto di cittadinanza quante menti elette, quanti cuori generosi lavorano per questo ideale in ogni paese!”. P.18 e 23: Allegoria dell’Italia in cartoline fine ‘800; p.19: Bandiera Italiana; p.20: Il re d’Inghilterra Edward VII (seduto col cilindro bianco) e la regina Alexandra (in piedi, mano appoggiata al re), Otto von Bismark e - a lato - il Kaiser Wilhelm I; p.21: Venezia che spera (part.), dipinto allegorico del 1861 del milanese Andrea Appiani; p.22: La Lupa capitolina, Siena.

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n versi latini carichi di patetica suggestione Pietro Bembo raffigura poeticamente la morte che coglie d’improvviso Agnolo Poliziano mentre intona un lamento funebre per Lorenzo de’ Medici, straziando fra i singhiozzi le corde del suo liuto (insano fe­ rientem pollice chordas / viscera singulto concutiente virum).1 Per quanto immaginaria, la situazione rappresenta una condizione caratteristica del far musica al tempo e nella cerchia del Magnifico. Cogliendo Poliziano morente in un atteggiamento che potremmo definire musicalmente “iconografico”, i versi bembeschi confermano la netta preferenza che il rinascimento italiano accorda al « cantar alla lira o al liuto » - cioè all’intonazione per voce sola di melodie su base strumentale di liuto, viola o lira da braccio - piuttosto che alle elaborate trame sonore della polifonia. Il culto rinascimentale della parola come mezzo di comunicazione e scambio culturale - oggetto di raffinate attenzioni stilistiche nel segno dei modelli classici - porta a privilegiare l’intonazione monodica di testi poetici «per accompagnar le rime con musica stesa e piana, acciocché meglio la eccellenza delle sentenziose e argute parole si potesse intendere» (V.Calmeta). Nell’ambiente culturale italiano del rinascimento la polifonia rimane una risorsa musicale destinata a occasioni particolari quali le celebrazioni solenni, civili e religiose, che richiedono apparati esecutivi particolarmente consistenti. Per la musica di quotidiano intrattenimento cortese, il colto umanista continua a preferire la maniera di intonar versi « al liuto » o « alla viola » dove « l’unione di parola e canto è modellata in tal modo che non potrebbe esservi cosa alcuna più dolce » (P. Cortese, De cardina­ latu libri tres, 1510). È questa un pratica di ascendenza classica, largamente diffusa nelle corti del primo rinascimento: da Mantova a Ferrara, da Milano alla Firenze laurenziana dove lo stesso Magnifico, e con lui Ficino, Pico e Poliziano, si dilettano di declamare musicalmente versi latini, strambotti, sonetti, ballate. V’è in proposito una testimonianza di Marsilio Ficino riguardante Lorenzo de’ Medici, 1 P. Bembo, Politiani tumulus, in Carminum libel­ lum, Venezia, apud Gualterum Scotum 1552, p. 45.

sociati. Orfeo e il suo cantus ad lyram assumono un preciso valore simbolico che rinvia ai fondamenti stessi della speculazione filosofica ficiniana. Orfeo, con Pitagora e Filolao, è per Ficino un tramite di quella dottrina teologica che nel mito discende da Zoroastro ed Ermete/Mer-

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‘Musica est exercitium arithmeticae occultum nescientis se numerare animi’ S.W. Leibniz Epistolae ad diversos, Lett.154 rappresentato mentre canta accompagnandosi alla lira «quasi preso da divino furore»: (ad lyram canentem, furore quondam divino, ut arbitror, concitum). Questa immagine di Lorenzo impegnato nel suo estatico canto si può assimilare a quella, poetica, di Poliziano che la morte coglie abbandonato anch’egli alla musica. L’intensa voluptas che emana dagli atteggiamenti dei due rinvia al misticismo orfico ficiniano, adombrato sia pur superficialmente nella Fabula de Orpheo composta da Poliziano per la corte di Mantova verso il 1474. Tratto d’unione fra l’orfismo di Ficino e la Fabula polizianesca è l’immagine del «cantar alla lira»; evocazione di una maniera classica e mitica insieme di far musica, che in Poliziano si ripropone in termini di una pratica musicale alla moda, tornata in grande favore nelle corti rinascimentali proprio sulla scia del culto per la classicità, mentre in Ficino il canto alla lira diviene quasi una sorta di identificazione con Orfeo e con i culti misterici a lui as-

curio Trismegiston (tre volte grandissimo) e giunge, come tradizione filosofica della verità divina, fino a Platone e alla sua scuola. Nella Theologia platonica di Ficino abbondano le citazioni di scritti attribuiti a Orfeo e sue traduzioni di inni orfici, che troviamo talora a corredo di qualche lettera. La visione musicale di Ficino trascende il semplice fatto pratico esecutivo per collocarsi in un ambito dottrinale che ha radici nelle antiche cosmologie sonore e in particolare nella nozione pitagorica di «armonia delle sfere celesti». Il canto - come gli inni rivolti da Orfeo alle divinità cosmiche - diviene nella speculazione ficiniana mezzo per rendere l’animo più “consonante” ai moti e alle influenze astrali; melodie talismaniche indirizzate a Saturno consentono di superare la “malinconia” (nell’uomo, nostalgia della sua origine celeste) e pervenire a uno stato di sublimazione spirituale. Il suono musicale, particolare vibrazione del logos, mette l’essere umano in uno stato di comunione mistica con lo spiritus mundi. Scrive Ficino nei Commenta­ rii a Plotino (Opera omnia, Basel 1561): «Il nostro spirito è in consonanza con le emanazioni celesti che, occulte o palesi, tutto penetrano. Possiamo farle a noi ancor più consonanti proiettando con forza i nostri sentimenti verso l’astro dal quale vogliamo ricevere qualche beneficio [...] soprattutto se rivolgiamo il canto, la luce e anche il profumo appropriati alla deità astrale, come negli inni di Orfeo alle divinità cosmiche [...]. Quando il nostro spirito diviene più consonante alla deità planetaria attraverso le nostre emozioni, il suono, il profumo, la luce, esso inspira più copiosamente l’influsso proveniente da questa deità». Ficino riporta ai moti astrali i rapporti musicali di consonanza e dissonanza, non soltanto richiamandosi alla pitagorica « armonia delle sfere », ma collegando

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anche i gradi della scala musicale ai segni zodiacali e accostando gli aspetti favorevoli e contrari dei dodici segni agli intervalli consonanti e dissonanti. Vicinissimo a Ficino nella sua rappresentazione della musica mundana (la musica planetaria) è il maggior teorico

Musica musicale del tempo, Franchino Gaffurio, (esiste una copia degli scritti platonici di Ficino con annotazioni dello stesso Gaffurio). Il suo trattato Practica musi­ cae (1496) raffigura nel frontespizio una allegoria della musica mundana: la scala di otto suoni [vd. a destra] si distende dal mondo sublunare (Terra - Aqua - Aer -

Ignis) al trono celeste di Apollo passando attraverso le Sfere planetarie/Muse. La collocazione delle figure in alto nell’immagine (le tre Grazie, Apollo, il motivo floreale) mostra precise attinenze con la botticelliana raffigurazione della Prima­ vera (1478), pure fortemente influenzata dalla teoria ficiniana della magia natura­ lis e planetaria. Anche qui troviamo le tre Grazie a sinistra, una divinità al centro (Venere, sormontata da Cupido) e l’immagine floreale (Flora) a destra. Si può rilevare come la disposizione dei grup-

pi nel quadro sia perfettamente analoga a quella delle note in un doppio tetracordo musicale, con due triadi simmetriche ai lati e una nota centrale comune (suono “polare” del sistema: Venere che presiede all’operazione magica); la figura all’estrema sinistra del quadro (Hermes/Mercurio) completa la scala di otto suoni. Nella prospettiva del pensiero analogico che il rinascimento eredita dal pitagorismo, potremmo anche concludere che «le otto figure rappresentano, per così dire, una scala nella tonalità di Venere»2 e che dun-

que il quadro, come le disposizioni planetarie di cui parla Ficino, può essere “cantato”. Sempre per analogia possiamo accostare la figura di Hermes/ Mercurio al serpente tricipite del fontespizio gafforiano che collega i due estremi della scala: il mercurio degli alchimisti, infatti, è spesso definito Draco o Serpens e scritti ermetici ne rilevano la natura di composto metallico ternario.3 Le tre teste del serpente possono altresì rappresentare la triplice natura della musica secondo Severino Boezio (De institutione musica, sec. VI), divisa dall’alto in basso in musica mun­ dana (delle sfere celesti), musica huma­ na (l’armonia interiore dell’uomo) e mu­ sica instrumentalis (l’unica manifesta ai sensi, ossia udibile: quella vocale e strumentale). All’idea del mercurio si connette, sempre in chiave alchemica, quella della circulatio, ossia della rigenerazione del Sé attraverso i quattro elementi4 (pure presenti alla base dell’imagine nel frontespizo del Practica musicae) con un moto rotatorio analogo a quello delle « sfere celesti » che girando producono la 2 E.Wind, Misteri pagani del Rinascimento, Milano, 1985, p. 161. Nel suo breve trattato De ra­ tionibus musicae (ca. 1484) Ficino riferisce alle tre Grazie le consonanze musicali di 3a, 5a e 8a, considerate « le più gradite » (Precipue vero tertia, quinta octava, ceteris gratiores, tris nobis Gratiae referunt) 3 Cfr. G. Sermonti, Cappuccetto Rosso o il mer­ curio, « Abstracta » n. 34 (febbr. 1989), pp. 78-85. 4 M. von Franz, Alchimia, Torino, Boringhieri 1984, pp. 121, 134.

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musica mundana secondo la teoria pitagorica. Di musica come «armonia celeste» parla anche Pico della Mirandola, i cui interessi cabalistici trovano precise coincidenze nella dottrina musicale risalita attraverso Boezio alla trattatistica medievale, secondo la quale «la musica è la scienza dei numeri che si trovano nei suoni».5 Della qabbalah Pico si serve per la sua descrizione dell’univer5 «Musica est disciplina, qui de numeris loqui­ tur, qui inveniuntur in sonis ». L’espressione ricorre identica in molti scritti a partire dal VI sec., in particolare in Cassiodoro (Institutiones divinarum et saecularium litterarum) e Isidoro di Siviglia (Etymologiarum sive Originum Libri XX). Eco di questa concezione della musica si trova ancora alle soglie del secolo XVIII nel celebre aforisma di Leibniz per il quale la percezione musicale «è prodotto di un interiore cal­ colo aritmetico che l’animo compie inconsape­ volmente».

so contenuta nell’Heptaplus (commento ai primi capitoli della Genesi); indagine cosmogonica dove ancora una volta è l’«armonia delle sfere» a risuonare come suprema forza d’ordine e di coesione. Se dunque «non può esservi operazione magica d’una qualche efficacia, se non in connessione implicita o esplicita con il metodo cabalistico» (Pico, Conclusione magica XV), la speculazione musicale – disciplina cabalistica per eccellenza in ragione della sua essenza numerica – è dunque opera magica realmente efficace. Al suo grado più elevato di esperienza conoscitiva, la musica diviene silenzio mistico, pura risonanza interiore che mette in diretta comunicazione lo spirito individuale con lo spiritus mundi; «chiave essenziale per interpretare l’armonia segreta di Dio e della natura» (Boezio). V’è in tal senso analogia fra questo operare magico/musicale

e i canti talismanici propiziatori di Ficino, entrambi associati all’armonia delle sfere celesti. Nella cerchia accademica che si riunisce intorno a Lorenzo de’ Medici il far musica si carica di valenze simbolico/esoteriche, sia al più basso livello sensibile della musica instrumenta­ lis – con le evocazioni orfiche cantate sul liuto – sia al più alto livello sapienziale dove, nella magia naturale e planetaria di Ficino come nell’opus cabalisticum di Pico, l’interiore musica humana e la suprema musica mundana si rimandano reciproche vibrazioni in un perenne rifluire che, come vuole il precetto ermetico, rende «ciò che sta in basso uguale a ciò che sta in alto per il miracolo della cosa una». P.24: Allegoria della Musica, Michelangelo Merisi, detto ‘il Caravaggio’; p.25: Frontespizio di un’opera di P.Bembo, 1560; p.26: (vd. testo); p.26: Frontespizio del ‘Practica musicae’, 1496 di Franchino Gaffurio; p.27: Apollo ed Artemide, G.B.Tiepolo.

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I Letteratura

La fata Alcina Da Sibilla a incantatrice Ida Li Vigni

l mio nome dirotti; io son Cumana, Detta così da la città Romana. Di Cuma di Campagna sono io nata E mille e dugento anni al mondo vissi Pria ch’io fussi in tal luogo giudicata, E molte belle cose già predissi . Quand’Enea in Italia fe’ passata, Io ne l’inferno lo guidai, e fissi, Aveano i cieli dal mio nascimento, Anni d’intorno a punto settecento ...1 Con queste parole la Sibilla replica al recalcitrante Guerrino che le ha appena rinfac­ciato l’antico peccato di superbia, per il quale Dio l’aveva condannata a risiedere nelle viscere della Terra fino al giorno del Giudizio Universale. Il passo è rilevante in quanto, come già nell’originale di Andrea da Barberino, consolida la leggenda, di origine indubbiamente locale, della presenza nelle viscere della montagna appenninica, presso il lago di Pilato, di una profetessa (da identificarsi con la Sibilla Cumana, stando ai letterati umanisti e rinascimentali) ivi imprigionata per aver osato aspirare ad essere la vergine prescelta per l’incarnazione del Redentore. Proprio in questi termini il Guerrino di Andrea da Barberino apprende a Norcia, sulla piazza della chiesa, del­l’esistenza della profetessa: ... Ne le Alpe di questa montagna ho udito dire che v’è la savia Sibilla, la quale fu ver­ gine al secolo et aveva spirito di profetia, ma non tanto che la ignorantia non fus­ se in lei che li parve meritare che ‘l verbo eterno dovesse scendere in lei, dove scese in Maria, la quale si reputava indegna, et però li piacque l’humiltà et la purità; et la Sibilla per sdegno si disperò et è incarcera­ ta nel ventre di queste montagne... Profetessa che palesa la propria identità cumana allorquando ricorda, come si è visto in apertura, il ruolo di psicopompa avuto nell’episodio virgiliano della discesa di Enea agli Inferi. La presunta identità con la Sibilla Cumana non deve destare meraviglia dal momento che è palesemente il frutto di un intervento dotto nel quadro di una tradizione popolare che già in età medievale aveva tradotto il ricordo di lontani culti pagani nei termini cristianizzanti di una presenza femminile, dotata di capacità profetiche, condannata al­l’esilio co-

1 Tullia d’Aragona, Il Meschino detto il Guerri­ no, 1560, canti XLII-XLIII)

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atto in luoghi di selvaggia e orrida bellezza per essersi ribellata al volere di­vino e dunque avvertita come pericolosa, se non ancora negativa e malvagia. L’ap­ porto dei letterati completò poi il quadro sia convalidando l’identificazione della Sibilla Appenninica con quella Cumana, sia completando il processo di negativizzazione, fino a trasformarla da saggia profetessa a fatale incantatrice, se non perfida strega (ruolo, quest’ultimo, reso più facile dall’in­tervento degli uomini della Chiesa). Un primo punto di partenza di questa trasformazione letteraria della Sibilla da profe­ tessa antica degna di venerazione ad appenninica maga incantatrice in combutta con le forze del male, passando anche attraverso suggestioni cortesi, è, almeno allo stato at­tuale delle testimonianze letterarie conosciute, il Guerrin Meschino, di Andrea da Bar­berino; un’opera certo di non eccelsa qualità artistica ma di grande fortuna popolare, tanto da rimanere nel patrimonio della narrativa di destinazione “bassa” fino a tutto il xix secolo, con prolungamenti nelle bibliotechine circolanti di paese anche nei primi decenni del nostro secolo, insieme ai

... la Sibilla, da antica e saggia profetessa degna di venerazione, a pericolosa e malvagia incantatrice Reali di Francia, sempre dello stesso da Barbe­rino. Scrittore alquanto prolifico, Andrea seppe coniugare la sua probabile personale espe­rienza di cantore di piazza con una buona conoscenza dei romanzi cavallereschi in versione franco-veneta o toscana che ancora sul finire del Trecento circolavano fra il nascente pubblico borghese. Il suo saper farsi interprete delle esigenze di una parte della società (mercanti, artigiani, notabili), ancora estranea alla cultura dotta ma affamata di una propria letteratura di “evasione”, gli garantì un notevole successo, grazie alla ge­niale formula, ancor oggi valida per tanta letteratura “rosa” o “fantasy”, che combina av-

ventura, magia e cauto erotismo con una patina di moraleggiante perbenismo. Al pari del suo pubblico, Andrea ci appare non solo lontano dagli ideali epicocavallereschi-reli­giosi delle chansons del ciclo carolingio, ma anche indifferente alle implicazioni psico­logiche sottese alle vicende d’amore e di magia dei romanzi arturiani; né ha quel gusto per il fantastico puro e per la narrazione che renderà grande l’Ariosto. Come ogni bravo cantastorie, ama le avventure fantastiche, ma come bravo borghese sente anche il bisogno di moralizzare questa “evasione”, sicché i suoi eroi non conoscono il fa­scino intrigante della tentazione né si abbandonano al piacere dell’avventura e al ri­schio che essa comporta: mettere in gioco se stessi. Si muovono spinti da esigenze realistiche, si tengono lontani dal peccato e quando s’imbattono nel meraviglioso lo af­frontano piegandolo a quella ra­ tio cristiana che già aveva provveduto a trasformare il mirabilis (il soprannaturale non cristiano) in magicus (il sovrannaturale demoniaco). Ciò è ben evidente nel Guerrin Meschino e in particolare nella parte quinta del ro­

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manzo, dove Guerrino incontra la Sibilla, resistendo alle sue malie di fascinosa incan­tatrice. Eccone in breve la trama. Guerrino, giovane principe rimasto orfano in tenera età, ab­bandona, dopo essere stato schernito in duello con l’appellativo di “me-

Letteratura schino” (ovvero “figlio di genitori ignoti”), l’esercito dell’Imperatore d’Oriente per partire alla ricerca delle proprie origini. Appreso da un mago tunisino che solo presso Norcia po­trà sciogliere l’enigma interpellando la maga Sibilla, muove alla volta dell’Italia e dopo numerose peripezie giunge nei luoghi della profetessa. Qui apprende dagli abitanti che l’ascesa al monte è ostacolata da venti impetuosi che già avevano impedito a messer Lio-

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nello di Francia di portare a compimento il viaggio intrapreso per amore di una soave fanciulla. Fermo nella decisione di venir a capo delle proprie origini, Guerrino decide comunque di proseguire e lungo il sentiero incontra tre eremiti che, dopo aver tentato invano di dissuaderlo, lo avvertono della natura demonica della profetessa e gli elargiscono saggi consigli: non restare oltre un anno nella grotta incantata e recitare più volte l’invocazione “Gesù, Maria” ogni qualvolta si trovi in tentazione. L’eroe prose­gue il cammino e faticosamente giunge alle quattro entrate oscure del monte. Armato di una semplice candela accesa tenta un’entrata e si ritrova, dopo aver percorso un ponte altissimo gettato su acque impetuose, nel cuore della montagna. Mentre avanza faticosamente nel fango, calpesta inavvertitamente un enorme serpente: è Malco

(o Macco, secondo taluni l’Ebreo errante), reo di peccati così ripugnanti da essere con­dannato a stare, fino al giorno del Giudizio Universale, al di là della soglia del regno della Sibilla, primo terribile monito agli incauti viaggiatori. Nonostante gli avverti­menti minacciosi di Malco, Guerrino procede fino a trovarsi dinanzi a una pesante porta di bronzo incorniciata ai lati da due orribili draghi scolpiti nella roccia; bussa e gli viene incontro un gruppo di deliziose fanciulle che lo guidano nella reggia della Si­billa. Il nostro eroe si trova in un paradiso di delizie, popolato da giovani cavalieri e da dame bellissime, ricco di ogni genere di frutta, scintillante di ori e gemme preziose, cui certo non sono estranei gli echi delle descrizioni medievali della leggendaria reggia del Prete Gianni. Qui regna l’incantatrice, la perfida maga Sibilla che dispiega ogni arte seduttiva per tentare di condurre in perdizione il piacente cavaliere. Resiste però Guerrino e ancor più si fa saldo allorquando, al calar della notte, il venerdì assiste a uno spettacolo ter­ribile: di colpo gli abitanti che popolano la reggia e la stessa regina Sibilla si trasfor­mano in immondi animali (tutto il repertorio del bestiario ctonio: draghi, serpenti, basilischi, scorpioni, rospi e vermi, piegato cristianamente a simboleggiare un po’ confusamente i diversi tipi di peccato: lussuria, gola, avarizia, accidia, invidia, ira e superbia), destinati a riprendere le sembianze umane all’alba della domenica. Per un anno rimane Guerrino presso l’incantatrice senza che questa riesca a sedurlo, ma an­che senza riuscire a farsi rivelare l’identità dei genitori, finché allo scadere dell’ultimo giorno, vinte le astuzie di una dama della fata che tenta ancora di trattenerlo con pro­messe e lusinghe, riesce a ritrovare la via che lo conduce fuori della montagna. Fa così ritorno a Norcia e da qui parte per Roma, per chiedere perdono al Pontefice e ottenere la sua benedizione. Nell’economia del romanzo questa parte svolge una funzione da cerniera fra il piano laico del racconto (i viaggi dell’eroe alla ricerca dei genitori in terre lontane ed esoti­che: l’estremo Oriente, l’Africa del monte Atlante, l’Italia del monte della Sibilla) e quello per così dire simbolico-spirituale (dalla discesa nella grotta incantata della Si­billa al viaggio penitenziale che da San Giacomo


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di Galizia lo porterà in Irlanda in vi­sita al Purgatorio di San Patrizio e all’Inferno), secondo uno schema riconducibile al tema del viaggio di iniziazione e formazione dell’eroe, così caro sia alla tradizione folklorica che a quella dotta e cristiana. Certo Guerrino è ben lontano dall’essere, nel suo viaggio di purificazione spirituale, anche un Dante minore (e le fonti di Andrea, d’altra parte, sono le vite dei Santi e non la complessa teologia della Commedia), né ha le intemperanze, i dubbi, le passioni dei cavalieri arturiani o la follia degli eroi arioste­schi. Anche se nobile (il ché è condicio sine qua non di ogni romanzo cavalleresco che si rispetti), egli è prima di tutto un eroe del suo tempo e della sua società, tipico rap­presentante di quella cultura urbana di fine Trecento/ primi Quattrocento che si era data saldi punti di riferimento - la famiglia (intesa come garanzia del proprio essere nella comunità terrena), l’affermazione sociale, il rispetto della morale cristiana - e che guardava al meraviglioso con sentimenti ambigui, divisa fra fascinazione e repulsione. È un eroe che non pecca perché si attiene a pochi ma saldi principi morali, ma anche perché, viene il dubbio, il peccare è perdita di tempo, distoglie dal raggiungere con efficienza l’obiettivo, così come sfiora il meraviglioso senza farsene conquistare, sia perché è saldamente convinto che tutto ciò che è magico è Male, sia perché a dominare in lui è quella ragion

pratica che non lascia spazio a turbamenti e incertezze (basti pen­sare alla gelida mancanza di pietas di Guerrino nei confronti di Macco e degli altri sventurati dannati che incontra nella grotta della Sibilla). A far le spese di questa forma mentis è proprio la figura della Sibilla, non più profe­ tessa ma maga; anzi, perfida incantatrice lussuriosa, “belle dame sans merçi” più prossima alla strega che non alla fata (e la parola “strega” ricorre più volte in questa parte e in tutte le edizioni). Come si notava in apertura, e come numerosi critici hanno evidenziato, la duplice natura che Andrea da Barberino conferisce alla regina Sibilla è facilmente riconducibile alla commistione di suggestioni classicheggianti, virgiliane, e francesi (né dobbiamo dimenticare che la trama del Guerrino ricalca in buona parte il racconto del romanzo francese Huon d’Auvergne, che lo stesso Andrea tradusse in prosa italiana) raccordate attorno all’immagine, di origine indigena, di una maga-in­dovina, erede temibile di una ormai misconosciuta divinità femminile pagana. Questo “suggerimento” popolare viene accolto dallo scrittore toscano e assunto come cornice cre­dibile per una presenza femminile indispensabile non solo ad animare il genere edifi­ cante del conte pieux cui si conforma parte del Guerrino, ma altresì a garantire la pre­senza di quel meraviglioso che è elemento fondante dei romanzi d’avventura

cortesi. In effetti, nel leggere questa parte quinta (magari confrontandola con la relativa riela­borazione di Tullia d’Aragona) si ha la netta sensazione di trovarsi di fronte alla co­struzione meramente letteraria di una figura femminile rispondente alla sensibilità e alla mentalità, anche popolare, del tempo, a una mundi visio che sempre più deci­samente andava negativizzando il femminile e che all’incantato paese delle fate stava sostituendo la terra del sabba. Fin dalle prime battute di questa parte v si avverte la volontà dell’autore di presen­tare la regina Sibilla come un’incantatrice, una fata, una strega superba e blasfema, non certo come la saggia e nobile profetessa dell’antichità circondata da venerazione e accolta benevolmente dal Cristianesimo in quanto annunciatrice dell’avvento del Re­dentore, tanto che nelle edizioni più tarde del romanzo al nome Sibilla si sostituisce quello di Alcina, per indubbia suggestione ariostesca, ma anche a segnalare il netto su­peramento di una qualsivoglia identificazione con la Sibilla “buona”, cristiana. Ecco, infatti, come ne parla un forestiero sul sagrato della chiesa di Norcia citiamo l’edizione popolare del 1889, dove la trasformazione della Sibilla nella fata Alcina è già consoli­data): Messeri, ho sentito dire taluno che in que­ ste vicinanze trovasi una incantatrice, per nome Alcina, la quale tiene per fede che Dio comunicasse seco, quando s’incarnò nel grembo della Vergine Maria: onde per

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Letteratura

questa falsa ed empia credenza ella si dan­ nò l’anima, e fu giudicata per strega a mo­ tivo di sì assurda dottrina. Facendo proprie le credenze popolari (ancora presenti in tempi a noi prossimi, come dimostrò il Neri, in Sicilia, ma dimenticate ormai in territorio appenninico), Andrea da Barberino abbraccia dunque l’immagine negativa della maga che, a causa della sua dissennata invidia, si mette al servizio delle forze del Male. Da creatura sacra, pura voce del Divino, la Sibilla del Guerrino si trasforma in un’ambigua creatura, metà donna e metà fata, destinata a regnare sul mondo bruto e peccaminoso della materia e ormai incapace di elargire conoscenza e saggezza. Il suo sembiante e i suoi modi sono quelli di una voluttuosa cortigiana: ... Il colorito aveva soavissimo, le forme in­ cantevoli, il linguaggio affascinante ... La fata, copertasi la faccia con un velo sottil sot­ tile, traverso a quello guardava di tanto in tanto amorosamente il Guerrino, mostran­ dosi negli occhi accesi fortemente invaghita di lui. ... Intanto, fattasi notte, egli fu menato in un’altra ricchissima stanza, dove la fata cercò di intrattenerlo con mille giuochi, tali da soddisfare ogni corpo avido di pia­ceri ... Né vale a stemperare quest’impressione il più leggiadro e sensuale ritratto che ne dà, con sensibilità erotica, Tullia d’Aragona: ... done usciro / Molte altre damigelle, e

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con lor quella / Saggia Sibilla, quant’orna­ ta, bella. / Con quel riso l’accolse e quella grazia, / Ch’in bella donna immaginar si possa, / Ella di contentezza, intorno sazia, / Ciò ch’ella mira, e dove ella fa mossa / Col picciol piede, che leggiadro spazia / Il figu­ rato spazzo, e con la possa, / Che più può sua virtù, sì bella appare, / Che ‘l costante Guerrin fa vacillare ... Rise allor la Sibil­ la, e per la mano / Il prese, e con isguar­ do d’amor caldo, / Cominciogli a parlar d’amor pian piano, / Con sollazzevol vol­ to, allegro e baldo; / Sì che l’ pensier rende­ va a Guerrin vano, / Né farà poco s’egli si tien saldo; / Che le due stelle, ch’a sotto le ciglia / La donna, ogni disegno gli scompi­ glia. / Il bianco, il rosso, col soave misto, / I coralli, le perle orientali / L’eban, l’avorio l’alabastro ha visto, / Che nei labbri e nei denti fan segnali / Nel ciglio e ne la gola, già d’acquisto, / Se Guerrin cede, d’infini­ ti mali ... / Affissa ella i begli occhi a i va­ neggianti / Già di Guerrino, e gli passa nel core ... / La Sibilla di sé fe’ bella mostra, / E nel letto ricchissimo si stende, / Pen­sando indurlo a l’amorosa giostra ... / Fe’ por nel letto il cavaliero intanto, / Ed ella ignuda gli si pose a canto. ... / Ecco le svelte e pure braccia, dove / Vena non macchia il terso avorio puro, / Nessuna de le tonde poppe move / Ordin dal luogo suo, ... Ac­costa il petto del Meschino al seno, / E comincia il carnal dolce saluto. ...

Questa cortigiana che utilizza quel poco che le è rimasto di potere profetico per circuire il bel cavaliere e che dispensa false perle di sapere, come qualsivoglia meschina ciarla­tana, per trascinare il Meschino nell’alcova ha ormai poco da condividere anche con le creature feriche del folklore e della tradizione bretone, da Melusina a Morgana e Viviana. L’appellativo di fata che spesso le viene attribuito non risponde più alle prerogative originarie o, per meglio dire, segna il passaggio a caratteri spiccatamente negativi, che l’avvicinano al mondo umano della stregoneria (il che, per altro, era già presente nella letteratura cortese, nella contrapposizione fata/maga, ma senza la demonizzazione ossessiva dei secoli successivi). Come fata dovrebbe essere esperta di incantamenti, ma le sue arti valgono solo a creare false illusioni, come intuisce subito, con il suo spirito pratico, Guerrino: ... onde il Guerrino si accorse che tutto ciò aveva luogo sotto l’influsso di un incante­ simo, e che nulla di vero vi era al di fuori di una falsa illusione. ... E se della fata conserva il commercio con il soprannaturale (la sua metamorfosi in serpe richiama la metamorfosi della fata Melusina), della maga ha già il carattere mortale, seppur posticipato al giorno del Giudizio Universale:


Letteratura

... sebbene io abbia forme umane eguali alle tue, pure sono fantasma e spirito in­ cantato, che trovasi così ridotto per ordi­ ne del divin giudice supremo, che mi con­ dannò, insieme ai demoni, a questa vita incorporea e incomoda. ... Dell’antica natura le rimane soltanto il ruolo di guida agli Inferi, ma anche in questo caso è un’eco lontana. Piegata al volere divino, non deve più accompagnare l’eroe lungo il sentiero della conoscenza epocale; il suo compito ormai è quello di illustrare, contro la sua stessa volontà, i pericoli insiti nelle lusinghe dei sensi, quei sensi che nei trattati di demonologia vengono indicati come la materia che consente alle streghe di operare in parvenza di soprannaturalità. È scontato che in questi panni la nostra Sibilla non ci si trovi e, infatti, risponde con evidente noncuranza alle domande del cavaliere, spia non tanto di ostilità nei confronti della volontà divina (come sarebbe negli intenti dell’Autore), quanto di fastidio per un mondo che non conosce più veri eroi destinati a plasmare gli imperi, ma banali cavalieri (per di più riottosi alle gioie dell’amore) alla ricerca dei genitori. Potremmo dire che, diventata incapace di vedere nel futuro, non le resta che vivere il presente ed è un presente in cui la forza umana ha il sopravvento sulle doti soprannaturali tanto dell’indo-

vina antica quanto della fata. I tempi ormai sono cambiati; non c’è più spazio per le dame incantate, benevole o malevole che siano. La “coesistenza pacifica del meraviglioso ferico e del meraviglioso cristiano” - come ha ben dimostrato Harf-Lancner a proposito dei romanzi del XIII secolo - non è più possibile, se pure poteva esserlo. Privata della profezia e dell’immortalità, Sibilla/ Alcina deve morire, o almeno scomparire, inghiottita nel ventre di una montagna. Ed è questa una fine ancora pietosa, perché fuori dalla letteratura, dalla torre eburnea della pagina scritta che le concede ancora fremiti di lussuria e d’amore (si pensi all’Armida del Tasso, incantatrice vinta dalla forza dell’amore), altro è il destino che l’attende. La profetessa, l’incantatrice, la maga si sta trasformando in strega e come tale viene smascherata dal pio cristiano che sa resistere alle sue false lusinghe. “... O iniqua e rinnegata strega, sii tu maledetta dall’Eterno Iddio! ...”, la insulta Guerrino ed è la maledizione che, da lì a poco, sinistramente accompagnerà al rogo tante sventurate. Scivolata dalla letteratura nella Storia, Sibilla entra nei verbali dell’Inquisizione e acquista un’identità storica ben più drammatica. Colei che in campo letterario rappresentava l’ambigua, fascino-

sa, natura femminile, a un tempo diurna e notturna, che tanto spazio ha nell’immaginario maschile, diventa l’incarnazione terrena della forza malefica della donna e di Satana, di cui questa è la naturale alleata. Finché era stata voce e fantasma le era stato riconosciuto il diritto di esistere; ora che acquista un corpo (e, paradossalmente, gli antichi poteri, ché il riconoscerglieli consente poi di perseguitarla) diventa il capro espiatorio di una società che ha disimparato l’arte del convivere con il meraviglioso e il soprannaturale. E sorge il sospetto, ma forse è solo una suggestione di parte, che la forza di un nome sia di per sé un destino, pensando a quelle tante Sibille che nel xvi-xvii sec., forse solo a causa di un nome che ne palesava agli occhi di tutti un supposto commercio col magico, forse perché l’appellativo Sibilla veniva a sostituire la loro reale identità o forse perché avevano ereditato quel nome da una parente in odore di stregoneria, finirono ridotte in cenere, disperse al vento, come al vento svanivano le foglie cui l’antica profetessa affidava i vaticinii del Dio. P.28, 32-33: Le sibille della cappella Sistina, Michelangelo; p.28: Criptoportico dell’Antro della Sibilla, Cuma; p.30: La Sibilla Cumana, Siena. p.31: Costume della Sibilla per una rappresentazione teatrale.

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Antropologia

Il fungo degli sciamani I parte Paolo Aldo Rossi

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I

funghi allucinogeni del genere Amanita1 - assieme a Psilocybe, Stropharia, Conocybe (chiamate in lingua nauatl teonanacatl, ossia ‘carne di dio’), Panaeolus, … fanno parte di una sola grande famiglia, quella delle Agaricacee2. Di 80-90 delle più di 5000 specie di funghi conosciute (vegetale privo di clorofilla) sono state fino ad oggi dimostrate le proprietà psicoattive vuoi del gruppo psilocibinico e psilicinico, che del gruppo isoassazolico (di cui fanno parte solo alcune poche specie del genere Amanita). Genere: Amanita - Sottogenere: Amanita­ ria / Specie: Amanita muscaria3(Linneo) Fries (1821). In particolare l’Amanita muscaria (e l’A­ manita pantherina sua congenere) è il fungo più conosciuto nel mondo occidentale, il più celebre e rinomato nei racconti e nelle favole … tanto che la sua descrizione viene usata come presenza estetica diffusa e costante: candeline per le feste, segnaposto da tavola o da gioco, sedie e tavoli da giardino, cioccolatini e meringhe, cartoline e cartoncini di auguri, ninnoli e gingilli preziosi, copertine e figure di libri … e non c’è un bambino che non la metta nei suoi disegni (con i soliti casa, sole ed albero). Cappello: diametro 8-20 cm, inizialmente sferoide, poi quasi emisferico, infine dilatato, qualche volta con una spianata o depressione al centro. Margine sempre finemente striato negli esemplari adulti. Cuticola asportabile, appiccicosa e vi-

1 Il nome di questi funghi proviene dal monte Amanos in Cappadocia da cui l’amanita cesa­ rea, il fungo degli imperatori. 2 Il termine Agarico deriva da Agaria in Sarmazia, dove cresceva il Poliforo del larice, un tempo confuso con il Boleto; la famiglia delle agaricacee corrisponde agli basidiomiceti con cappella a lamelle rivestite dall’imenio o funghi carnosi lamellati 3 L’aggettivo moscario deriva dal potere (presunto!) insetticida del fungo. Nel 1349, Corrado di Megenburgo, autore di una storia naturale, Das Buch der Natur, menziona il fatto che il succo di questo fungo mescolato al latte uccide le mosche. Da quel momento tutti riportano la notizia. Una tale credenza è molto diffusa in certe regioni slave e tedesche, in Spagna e in Inghilterra, nei Vosgi e in Russia; questo fungo si chiama difatti: amanite tue-mouches in francese, matamosca in spagnolo, fly agaric in inglese, fliegenschwamm in tedesco ed in russo mu­ chumor.

Antropologia

Italiano: tignosa dorata, moscario, uovolaccio. dialett. milanese: cocch velenous, cocch bastard piemontese: bolé brut, bolé fauss bolognese: ovul matt veneto: coco mato toscano: ovolo malefico Francese: amanite tuemouches, fausse oronge, agaric aux mouches, mo­ folo, crapaudin Spagnolo: agarico pinta­ do, oronja falsa, oriol fol, reig vermell, matamosca Inglese: fly agaric, toadstolls Tedesco: fliegen­ schwamm, fliegenpilz Russo: muchumor Cinese: zhi 35


schiosa con tempo umido; di colore rosso vivo o rosso-arancio brillante, tempestato da verruche bianche o biancastre, più o meno appuntite e detersibili, molto decorative, residui del velo generale. L’Ama­ nita pantherina ha, invece, la cuticola di un marrone color caffelatte, per il resto

Antropologia sono totalmente simili. Lamelle: bianche, talvolta con sfumature crema, fitte e libere dal gambo, larghe e frammiste a lamellule tronche, con filo finemente denticolato. Gambo: di norma alto (15-28 cm), robusto, saldo e slanciato, cilindrico, con base bulbosa e ingrossata; bianco, striato sopra l’anello, dapprima fioccoso poi subliscio; pieno, poi midolloso, semi-cavo; anello membranoso, ampio e persistente, bianco orlato da fioccosità giallastre. Volva: bianca friabile, dissociata in placche aderenti al tratto bulboso, imbrunenti nelle parti più esposte ossia è costitiuita da molti cercini concentrici di verruche aderenti. Carne: soda bianca, sfumata di giallo-arancio sotto la cuticola del cappello, quasi senza odore e sapore insipido. Trattata con acido solforico si colora di bruno chiaro. Spore: bianche, ialine (trasparenti) al miscoscopio, di forma ovale; dimensioni 9-11x6-8 m. Non amiloidi. Trattate con iodio si colorano di blu-nero. Habitat: cresce preferibilmente in montagna, sotto latifoglie e aghifoglie. Questo singolare fungo cresce solo in relazione simbiotica (micorizza) e cioè stabilisce un legame sotterraneo con betulla, abete e pino (su terreno silicioso, argillo-silicioso o silicioso calcareo prevalentemente acido). Predilige i luoghi aerati e scoperti, i boschi cedui, le lande e i terreni marginali. Fruttifica da fine agosto a fine novembre, con punte massime verso la fine della stagione fungina, in Europa e da giugno a ottobre in America del Nord. È una delle ultime specie subalpine (che arrivano fino a 2100 metri di altitudine) e delle regioni nordiche. Molto comune. Distribuzione: Europa, America boreale, Africa australe e Asia settentrionale, Siberia, Giappone. In Italia manca solo in Sicilia, ma nelle regioni del sud è mal considerato.

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Commestibilità: Fino alla metà del xix secolo l’Amanita muscaria era considerata altrettanto tossica e mortale dell’Ama­ nita falloide (e fino agli anni ’70 del Novecento era accreditata di alta tossicità4); questo dopo che nel 1869 venne estratto l’alcaloide muscarina dall’Amanita mu­ scaria.5 Opinione completamente erronea. Il più grande micologo esistente, Roger Heim, membro de l’Académie des Sciences de France e direttore del Museo Nazionale di Storia Naturale di Parigi, scrive: In effetti, la muscarina è uno dei corpi attivi di questo fungo di cui si può dire che agisca non sul sistema centrale, ma periferico; ma d’altra parte il suo tenore estremamente debole lo rendono particolarmente inoffensivo … Bisognerebbe che una persona ingerisse una quantità enorme di Amanita muscaria – cioè molti chili senza alcun dubbio - per attenderci una intossicazione grave o mortale.6 L’unico concreto rischio del raccoglitore di agarico muscario di confonderlo con un fungo velenoso – scrive G. Samorini – si presenta quando esso viene raccolto nel suo stadio di sviluppo iniziale, ancora in forma di ovulo. Le Amanite nascono da un ovulo, e nonostante le forme iniziali di Amanite phalloides e Amanite muscaria siano fa4 L’Amanita pantherina provocherebbe la morte nel 10% dei casi, l’Amanita muscaria nel 2% dei casi!!! Tale notizia non solo è completamente priva di qualsiasi dato statistico serio, ma è ottenuto da una ricerca in cui sono stati mescolati diversi “ovoli” (velenosi come la phalloide, la verna, la virosa … altri confondibili con la cesa­ rea, la vaginata, la crocea e principalmente con la curtipes, la citrina … ) e oltretutto non interrogando i contadini (Piemonte, Toscana, Lombardia) che tale fungo facevano bollire e conservavano per poi mangiarlo, oppure gli toglievano la cuticola. 5 La sindrome muscarinica caratteristica dell’avvelenamento da certi altri funghi appartenenti ai generi Inocybe e Clitocybe (specialmente le clitocybe bianche) che contengono forti dosi di muscarina (nell’Inocybe patouillardi vi sono 37 mg. di veleno per 100 gr. di fungo, nell’Inocybe fastigiata 10 mg. e nell’Inocybe um­ brina 3 mg.), mentre nell’Amanita muscaria se ne trovano soltanto 100 mcg. su 100 gr di fungo. Si veda quindi l’incertezza e i dubbi della sintomatologia “muscarinica”, in casi di avvelenamento da Amanita muscaria o pantherina. 6 R. Heim, Les champignons toxique et halluci­ nogenes, Boubéé, 1978, Paris, pp. 92-97.

cilmente distinguibili fra loro, il raccoglitore di agarico muscario deve fare attenzione a non sopravvalutare le sue abilità di tassonomista. Una buona regola consiste nell’evitare i campioni di agarico muscario quando: sono privi delle verruche bianche sul cappello; il colore di questo non è rosso scarlatto bensì scolorito; non si ha certezza assoluta dell’identificazione di campioni raccolti nel loro stadio iniziale7. L’Amanita muscaria esplica, infatti, tre generi di azioni: una debolmente venefica (attenuati disordini gastrointestinali, annebbiamento della vista, profuse sudorazioni, respiro affannoso, rallentamento del battito cardiaco e diminuzione della pressione sanguigna) in parte dovuta alla 7 G. Samorini (a cura), Amanita muscaria, Torino, p. 21.


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presenza della muscarina e dei suoi isomeri8; una seconda allucinogena dovuta al muscimolo (e non alla muscarina); una terza ipnotica e sedativa legata all’acido ibotenico9 e al muscazone (quando 8 Ad azione parasimpaticomimetica o colinergica (delirati anticolinergici), dà luogo ad un insieme di sintomi raccolti sotto il nome di sindrome muscarinica. La muscarina, contenuta nel fungo in minime quantità (100 mcg. su 100 gr di prodotto), è assimilata con lentezza nel tratto intestinale e non riesce a passare attraverso la barriera emato-encefalica: ciò ci fa fare delle riserve su un fenomeno neuro-psichico. Negli anni ‘60 l’isolamento e l’identificazione degli isossazoli, tra cui il muscimolo (il principale composto attivo che per conseguire effetti psichici è di 7-15 mg.) fa sì che la concordanza tra i dati etnomicologici e chimici si attribuisse maggior potenza ai funghi essiccati (decarbossilazione dell’acido ibotenico a muscimolo) e a quelli a crescita estiva piuttosto che autunnale. Il solo muscimolo (e l’acido ibotenico) non sembra indurre la totalità degli fenomeni ed è quindi possibile che altri composti convergano nell’indurre gli effetti allucinatori. 9 La tossicità dell’Amanita muscaria e dell’A­ manita pantherina è dovuta al complesso di tossine a prevalente azione atropinica o micoatropinica principalmente presenti nella cuticola. Si è parlato anche di bufotenina, ma non è certo, anzi!; infatti, i reperti di alcaloidi tropanici (solanacee) e di bufotenina (che è invece presente nelle Amanite citrina, porphyria e tomen­

il fungo viene seccato avviene una decarbossilazione dell’acido ibotenico in muscimolo). Tutti questi appartengono al gruppo isossazolico (costituito da poche specie del genere Amanita), di cui il muscimolo è il composto attivo principale, ma ve ne sono anche altri fra cui, come si è detto, il corrispettivo carbossilato acido ibotenico, il muscazone e probabilmente il (-)-R-4-idrossi-pirrolidone-(2) e l’acido (-)-1,2,3,4-tetraidro-1-metil-b-carbolin3-carbonico (MTC) [le ben note b-carboline allucinogene]. Sostanze psicodilettiche, ipnotiche, sedative, aminoacidi, nucleotidi, esteri, zuccheri, alcool, acidi organici, ammine … nella carne di questo fungo ne fanno un laboratorio vivente che terrà impegnati ancora per anni i chimici seri e capaci. Queste due amanite (muscaria e pan­ therina) possono provocare (occasionalmente e fortuitamente) vomito, dolori addominali di natura spastica, diarrea, sudorazione profusa, ipersecrezione nasale e lacrimale, bradicardia, eventuali turbe respiratorie, diminuzione della pressione sanguigna e, nei casi più gravi, convulsioni. Ma quello che c’interessa qui sono le manifestazioni neurolotella) sono dovuti, forse, ad errori sperimentali.

giche rappresentate spesso da midriasi, forte agitazione, con esplosioni rabbiose, allucinazioni, stato confusionale, delirio alternato con crisi motorie, specialmente a carattere di tremori muscolari risolventisi in stato di sonno profondo. Chi assume questi funghi può avere euforia, macropsia, allucinazioni acustiche o fantasie visive piacevoli e abbandonarsi ad urli, grida o danze; l’agitazione delirante o il semplice stato di confusione mentale solo di rado sfocia in un coma, di regola transitorio. Il recupero della coscienza può accompagnarsi con amnesia dell’accaduto. Non esiste avvelenamento cronico. Nel racconto di G. Wells The Purple Pileus (L’ombrello color purpora) il protagonista, Mr Coombes, uomo docile e arrendevole, tenuto soggetto e dominato da una moglie malvagia, sgualdrina e perfida decide, non potendo fare altro (essendo un debole) di suicidarsi. Si reca nel bosco e raccogli un fungo color porpora, ch’egli riteneva velenoso, e lo mangia; ma invece di morire diviene un altro: intrepido e forte, preso da euforia ed allegria canta e danza con gaiezza, affronta coraggiosamente la moglie, manda via i suoi amanti e rimette ordine in casa propria in cui ritorna ad esserne il padrone. Alla fine cade in un sonno pro-

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fondo e ristoratore. La morale della storia è dichiarata ed evidente: che questo fungo (di color porpora!) sia l’agarico delle mosche non è detto (anche se a noi piace crederlo), ma d’altra parte è suggerito che dobbiamo tenere sempre rigorosamente distinti i funghi velenosi da quelli allucinogeni perché i primi sono venefici e i secondi narcotici, stupefacenti e ipnotici. L’idea originaria di una vita dopo la morte in cui l’anima, resa libera dal corpo, e svincolata dai confini dello spazio e del tempo, trova la propria esistenza senza principio né fine -, deriva forse dalla scoperta casuale e fortuita delle piante allucinogene che danno l’estasi, spostano il centro della coscienza e distorcono il tempo e lo spazio, allargandoli su paesaggi ben più vasti? Inizialmente tutti provarono l’ebbrezza e l’esaltazione, ma solo in pochi ebbero le visioni, la trance, l’entusiasmo; con il tempo lo saman riesce a fare a meno (del tutto o in parte) delle sostanze allucinogene, ma agli inizi furono proprio queste a renderlo simile al dio. Il viaggio estatico che l’anima compie al di fuori del corpo per approdare a un diverso modo di vedere (trance) e, quindi, di concepire il mondo (mistica), l’idea di una conoscenza non mediata attraverso il corpo, della ‘realtà ultima’ e delle sue caratteristiche essenziali, nasce col sorgere della nozione di anima non più intesa come alito vitale, sede dei sentimenti, eterea misteriosa trama intessuta di umani istinti, appetiti, emozioni, intuizioni ..., ma come principio costituente un’entità a sé, come un “io occulto”, sostanziale, separato e contrapposto al corpo. Tra il ii e il i millen-

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nio il popolo degli Arii emigrò dal nord (la loro patria era prima la steppa dei Kirghisi in Kazachistan - attorno al lago d’Aral - e quindi Europa nord-orientale) verso l’Iran e la valle dell’Indo e verso la Grecia (dando adito alle migrazioni degli indoeuropei10). Tutti questi popoli facevano uso di bevande allucinogene che procurano l’estasi: il soma (ossia lo “spremuto”) per gli indiani, l’haoma (come il soma) per gli iranici, il ciceone (la bevanda che da l’epopteia, il più alto grado della visione eleusina) per gli ellenici, il pharmakos (che dà l’entheos e l’extasi) per gli iperborei della zona uralico-altaica, l’ambrosia e il nettare per gli olimpici 10 Gli indoeuropei sono imparentati solo attraverso la lingua. Tutte le lingue europee, ad eccezione di quella dei Baschi e degli Ungrofinnici, sono idoeuropee: le lingue celtiche, germaniche, italiche, baltiche e slave, greco, l’armeno e le lingue iraniche, il sanscrito (estinte l’illirico, il veneto, il tracio, il frigio, l’ittita, il luvio, il tocario e l’antico indiano). Si suddividono in due gruppi: le lingue satem (gruppo orientale) e le lingue centum (gruppo occidentale). Ricavarne da ciò la pretesa superiorità degli “ariani” (e ancor più dei germanici) sarebbe come usare il sussidiario delle elementari per fare una storia universale.

sono tutti estratti acquosi e tutte contenenti, come agente principale, un fungo. Gli skiopodes (il piede che fa ombra) o monopodi (un solo piede) per i greci, gli ombripedi per i latini, i chattra (i parasole), am’sû (un solo gambo), Aja Eka­ pad (un solo piede non generato) in sanscrito, sono tutti pseudonimi e epiteti per designare il vegetale che nasce improvvisamente, senza seme (non generato), con il gambo che fa ombra (parasole). D’altra parte gli “indoeuropei” non possono stabilire da quale fungo (o pianta) sia formata la bevanda allucinogena (3-4.000 anni di storia sono passati), ma i loro vicini (le popolazioni siberiane) che ne fanno uso ancora oggi, possono precisarlo certamente: essa è l’Amanita muscaria. Dal Mare Glaciale Artico fino ai confini con la Cina, in una regione solcata da grandi fiumi, in cui alla tundra desolata si alternano grandi boschi (la taiga), popolazioni come i Tungusi, gli Iacuti, i Buriati, i Samoiedi, gli Altaici, i Mongoli … hanno conservato lo stile di vita legato alle tradizioni ancestrali e principalmente lo sciamanesimo. La tecnica arcaica dell’instasi-estasi: l’ebbrezza, le allucina-

zioni, la trance, le visioni … dovute all’A­ manita muscaria, è nota in Siberia dove la coppia fungo-betulla rappresenta l’origine della religione. Lo saman per poter salire e scendere sull’albero del mondo (la betulla è l’asse del mondo) e visitare le tre regioni cosmiche: Terra, Cielo, Inferi, ha bisogno della musica e, principalmente, del fungo (che con la betulla micorizza). Il collegamento fra le zone cosmiche avviene attraverso questi tre piani collegati da un asse centrale che passa per una fenditura cioè per un foro, usando il quale gli spiriti celesti scendono sulla Terra e i morti salgono dalle regioni sotterranee ed è sempre attraverso quest’apertura che l’anima dello sciamano in estasi può innalzarsi in volo o discendere negli Inferi. La Stella Polare sostiene la volta celeste come fa una tenda (yurta) che attraverso l’asse centrale costituisce il pilastro centrale dell’axis mundi.11 (Un’altra im11 La Stella Polare non è detto sia la a-Ursae minor (0°,9 dal polo celeste); ad es. nel 2800 a.C. la a-Draconis era a mezzo grado e nell’800 d.C. la 32 H Camelopardalis era la stella polare dei vichinghi (a 4 gradi). Dall’anno 4000 al 8000 d.C., la Stella Polare sarà prima g e poi a-Cephei

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magine per l’albero del mondo, secondo altre culture, è la Montagna Cosmica). Al centro delle religione sciamanica – scrive R. T. Furst12 - si staglia la personalità dello sciamano che vive esperienze estatiche che sono unicamente sue, e che di volta in volta assume il ruolo del

Antropologia mago officiante, dell’indovino, del veggente, del poeta, del cantore, dell’artista, profeta della caccia e dei cicli climatici, custode delle tradizioni e guaritore delle malattie del corpo e dell’anima. Con la sua scorta di spiriti aiutanti, lo sciamano sovrintende in particolar modo all’equilibrio psichico e fisico del gruppo, per il quale intercede confrontandosi personalmente con le forze del Soprannaturale e dell’Oltretomba, mondi dei quali è venuto a conoscenza attraverso crisi iniziatiche, esperienze e trance estatiche. Spesso, anche se non sempre e dovunque, il sogno estatico dello sciamano sottintende l’uso di piante sacre allucinogene cui si attribuisce un potere soprannaturale. Per la prima volta13 i coniugi V. e G. Wae quindi, dal 14000 d.C , Vega nella Lyra. 12 P. T. Fursrt, Allucinogeni e cultura, Roma, Ciapanna 1981, p. 3. 13 Robert Gordon Wasson nacque il 22 settembre 1898 a Great Falls, nel Montana. Laureato alla Columbia School of Journalism e alla London School of Economico, lavorò per anni come giornalista. Sposatosi a Londra con la moscovita Valentina Pavlovna Guercken, si recarono nello stato di New York, dove lui doveva occupare un posto di direttore di banca presso la Guaranty Company. Trascorsero la loro luna di miele sui monti Catskill, dove la coppia faceva delle camminate nei boschi; un giorno, Valentina Pavlovna uscì dal sentiero per raccogliere dei funghi selvatici e la risposta del marito fu di totale disgusto, ma anche di timore al pensiero che la sua compagna potesse restare intossicata. Ognuno dei due trovò subito che l’altro, in merito ai funghi, aveva delle gravi ossessioni, manifestando o un grande paura e avversione per i funghi o un grande attrazione verso di loro, perché culture diverse sono micofobe o, alternativamente, micofile. Questa particolare diversità culturale, della quale ciascuno di essi rappresentava un aspetto (e che pensavano li avesse divisi in una breve età della vita cui tutto si fa insieme) li spinse a ricercare ovunque riferimenti sui funghi - nei musei, nei proverbi, nei miti, nelle leggende, nelle storie popolari, nei racconti epici, nella storia, nella poesia, nei romanzi, nei rap-

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sson (pionieri dell’etnomicologia) andarono alla ricerca del fungo delle popolazioni prima centroamericane e quindi siberiane, mettendolo a confronto con le varie culture cui questo dono è stato trasmesso dalla divinità, cioé cercando così di giungere ad una vera e propria monografia (ricca di cognizioni) di tutti i funghi tossici e allucinogeni e ai rapporti fra l’uomo e i funghi. Alla luce delle nostre recenti esperienze messicane, - scrivono Robert Gordon Wasson e Valentina Pavlovna Guercken14 - rileggemmo quanto Jochelson e Bogoras avevano scritto sui Coriachi e sui Chukchi. Scoprimmo così dei sorprendenti paralleli fra l’uso della Amanita muscaria in Siberia e i funghi divinatori dell’America centrale. In Messico il fungo “parla” al suo consumatore, in Siberia parlano “gli spiriti dei funghi”. Jochelson afferporti degli esploratori e così via. Tutto iniziò col ritrovamento di un fungo sacro nella città di Huautla de Jiménez nella provincia di Oaxaca in Messico, dove Richard Evans Schultes sostenne la tesi che potesse essere il fungo dei Nauatl, il teonanacatl (carne del dio). Nello stesso tempo, Robert Graves richiamò l’attenzione sulla quantità (quasi 200) di sculture a forma di fungo che si andavano allora rinvenendo sugli altopiani del Guatemala, in El Salvador e nel Messico sud-orientale. Fu così che R. Gordon Wasson riandò agli scritti di Schultes di 15 anni prima e formulò l’ipotesi che già uomini di 6000 anni fa venerassero un simbolo ancora vivo creato anticamente dai fedeli di una “religione del fungo. Iniziarono così le otto spedizioni condotte dai coniugi Wasson nel Messico sud-orientale. Il 29 giugno 1955, nel villaggio di Huautla de Jímenez conobbero la famosa curandera Maria Sabina, che li portò, dopo averli iniziati al “fungo”, a vedere nel buio dei colori simmetrici ed armoniosi, delle forme geometriche e uditive e gran quantità di paesaggi, panorami e visioni di palazzi, giardini, giochi di luce. Il susseguente viaggio di studio nell’Oaxaca avvenne nell’estate del 1956 accompagnati da un autorevole esperto di funghi, Roger Heim, direttore del Museo Nazionale di Storia Naturale di Parigi, alla riscoperta del teananacatl; la notizia fu divulgata per la prima volta dalla rivista Life nel maggio 1957, nella serie Le grandi avventure, in 10 pagine di disegni e di fotografie a colori. E prima che Valentina morisse di cancro, in quello stesso anno, i coniugi Wasson analizzarono le loro scoperte e avanzarono l’ipotesi di una connessione diretta tra funghi e religione. Pubblicarono un’opera monumentale, Musbruoms, Rus­ sia and History. 14 Valentina e Gordon Wasson, Mushrooms, Russia and History, 2 vol. Pantheon Books, 1957, New York.

ma che, come in Messico, anche presso i Coriachi “l’amanita svelerebbe a qualsiasi uomo, anche non sciamano, che cosa lo affligge se ammalato, e gli spiegherebbe un sogno, o gli indicherebbe il mondo superiore il mondo nascosto o gli predirebbe il futuro”. Proprio come in Messico dove il giorno seguente coloro che hanno mangiato i funghi raccontano le loro esperienze, così anche in Siberia, secondo Jochelson, i Coriachi “passata l’ebbrezza, si raccontavano dove li avessero portati “gli uomini dell’amanita” e che cosa avessero visto”. Con Bogoras scopriamo un legame fra il fulmine e il fungo. Secondo una leggenda dei Chukchi, il fulmine è un uomo a metà che trascina sua sorella per un piede. Ogni volta che questa batte sul pavimento del cielo il rumore del colpo produce il tuono. La sua urina è la pioggia, ed essa è posseduta dagli spiriti dell’Amanita muscaria... Si iniziò così a studiare, anche per quel che si riferiva alla Siberia, le qualità, i pregi e i meriti di questo fungo. Nel 1658, un prigioniero di guerra polacco, parlando degli Ostiaci della regione dell’Irtysh nella Siberia occidentale, scrisse: Mangiano certi funghi dalla forma dell’Amanita muscaria, inebriandosi in tal modo più che con la vodka, e questo per loro costituisce il miglior banchetto15. Nel 1730 venne pubblicato, a Stoccolma, il resoconto, scritto da un colonnello svedese che trascorse 12 anni di prigione in Siberia, sull’uso di questo fungo “chiamato in russo Muchumor … - che i Coriachi ottenevano dai russi, barattandolo - … con pelli di scoiattolo, volpe, ermellino, zibellino ed altre ancora … I più ricchi si forniscono di una buona scorta di questi funghi per l’inverno. In occasione di qualche festa versano un po’ d’acqua sui funghi e li lasciano bollire. Ne bevono quindi il liquido col quale si inebriano...”16. Johann Georgi, in un’opera del 1776 scritta a Pietroburgo, scrive: Molti siberiani si eccitano con i funghi, specialmente gli Ostiaci che dimorano vicino Narym. A questo scopo mangiano uno di questi funghi freschi o bevo15 ibidem 16 ibidem


no il decotto di tre. Gli effetti si manifestano immediatamente con la comparsa di brio e buon umore che gradatamente aumentano, verso un’allegria talmente straordinaria da farli cominciare a cantare, danzare, saltare e gridare; compongono versi d’amore, sonetti epici e canzo-

Antropologia ni di caccia. Questa ebbrezza presenta la straordinaria proprietĂ di renderli particolarmente forti; ma appena cessata non ricordano piĂš niente. Dopo dodici o sedici ore di questa allegria si addormentano e, al risveglio, si trovano in uno stato di profonda prostrazione psichica a causa della straordinaria tensione nervosa cui sono stati sottoposti; ad ogni modo questa maniera di ubriacarsi produce loro meno mal di testa che le bevande alcoliche; questa usanza non comporta neppure delle conseguenze pericolose.17 17 ibidem P.34 e 35: Illustrazioni russe sullo sciamanesimo siberiano; p.35, 36 e 37: Funghi del genere Amanita muscaria (rossa) e pantherina (marrone); p.38, 39, 41: Ritratti di sciamani asiatici. p.41: Rituale sciamanico di guarigione (in alto).

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U Simbolismo

Galahad La simbologia del quadro di Loggia del Cavaliere Perfetto Barbara Nardacci Pierpaola Meledandri

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n cerchio nero, all’interno il disegno ispirato alla pianta ottagonale di Castel del Monte, delimita quattro spazi, tre superiori contenenti la dicitura R.L. Galahad Or. di Roma; uno inferiore che conterrà il numero di assegnazione. Nel campo principale si staglia la figura di un cavaliere, bianco il cavallo, vestito di un’armatura splendente, con veste vermiglia, che impugna con la mano destra, sguainata in alto, la sua spada: il volto scoperto illuminato da un astro radiante posto a destra. Sullo sfondo, in basso la sagoma di una montagna impervia. Ecco i dettagli dell’immagine [vd. pag.44 - ndr]. Il Cavaliere. La figura di Galahad si colloca come personaggio chiave del ciclo leggendario del Graal, ove si sottolinea la sua duplice natura, umana, perché figlio di Lancillotto, cavaliere senza eguali e divina, in quanto discendente della stirpe di Davide. Egli, da cavaliere illuminato, come il Kadosh nel nostro Rito degli alam, ha un grande compito, sconvolgente per sè stesso e per chi lo comprenderà. Kadosh è una parola di origine ebraica, significa santo o consacrato, ovvero eletto per meriti di superiorità interiore; infatti Dante, vertice della società della Fede Santa, Frater Templarius, non a caso pone come guida del suo viaggio celeste San Bernardo, che aveva stabilito la regola dell’ordine dei templari, esaltante emanazione del cavalierato. Come iniziato, Galahad può arrivare alla conoscenza di quello che può essere visibile solo alla percezione sovrasensibile, attraverso il superamento di prove che portano, di volta in volta, l’osservazione ad un punto di vista sempre più elevato. L’iniziazione dunque rende veggente l’uomo ad un grado superiore: questo è il cavaliere iniziato al quale ci riferiamo. Egli non è profeta, ma semplicemente un Ri-velatore per il quale il tempo è un atto di Dio, così come lo spazio, egli è in grado di percepirlo nel suo “statico divenire”. Il cavaliere perfetto arriva al suo grado pronto quindi all’azione, a morire e a risorgere, umile lettore della “parola capita”, vivido guerriero nel sacro vento divino, fortunato savio che attinge con l’occhio spirituale la traccia del suo esistere. Uno solo, fra tutti i cavalieri della corte di Artù, giungerà, nella storia, veramente a “vedere il Graal”, in una visione talmente


Simbolismo

intensa da richiedere la morte dello stesso cavaliere. Galahad è l’estrema rappresentazione spirituale-iniziatica dell’esoterismo, ripercorre in chiave cristiana e sacra l’antico mito dell’eterno ritorno, come quello della Fenice che nutrendosi di incenso, viveva per poi ardere sul rogo e quindi rinascere dalle sue stesse ceneri più pura e più bella, simbolo di trasformazione, compimento della trasmutazione alchemica. Citando Goethe : “… e fino a tanto che non sei padrone di questa verità -muori e diventa-, non sei che un offuscato ospite sopra l’oscura terra.” Il Tempo della Fine ha il valore del Solve et Co­ agula, dell’iniziazione stessa, nella quale non c’è vita nuova senza morte”. Galahad è figlio di Lancillotto e, dal punto di vista iniziatico, la Saga del Graal, esiste una precisa analogia, nei rapporti tra Galahad e Lancillotto, con quelli tra Cristo e Giovanni, laddove il Battista dirà: “Dopo di me viene un uomo che è passato avanti a me, perché era prima di me” (Gio­ vanni, I, 30). Egli vive nel figlio”, sembra chiaramente racchiudere un significato estremamente profondo non solo dal punto di vista iniziatico, ma anche genetico e archetipico. Dal punto di vista interiore, ci insegna come noi ereditiamo e siamo l’eredità, come il Maestro massone, il nostro Cavaliere, è architetto amorevole dell’’immortalità dell’Uomo. Il Sé ha il senso dell’eterno, un eterno presentificato ma in divenire, quello che Assa-

Un pensiero bello chiuso dentro di voi, che non dite, che tuttavia concepite, vi illumina come una fiamma un vaso trasparente Maeterinck gioli chiama “l’eterno ora”, la vita piena, sintesi di essere e divenire, cicli vitali organicamente collegati da qualcosa che li trascende … Ovvero dall’ombra della Morte spersonificante e dolorosa, si assiste alla Rinascita nella luce senza tempo, quella che Wilmsurst definisce “la luce inestinguibile”. È questo il Graal …? Galahad ci rappresenta la struggente nostalgia di quel momento di statica dinamicità, di quell’archetipico momento di pienezza dell’essere che Il massone tenterà di ripetere nell’esperienza, attraverso l’uso del rituale ed il carattere incisivo dei simboli, che diventano così portatori di energia evolutiva. Lo strumento alchemico, dinamizzante è il fuoco dell’athanor, l’incendium amoris, la forza trasformatrice e sublimante dell’amore spirituale e così amando dare, creare, effondere e attrarre a sé le energie da trasformare; que-

sta spinta, questo anelito ci rivela il segreto della natura e della funzione salvifica dell’amore. L’universo è basato sul principio di polarità secondo una legge di attrazione, una serie di atti di riproduzione. Questi principi li ritroviamo in tutte le manifestazioni d’amore, nella materia inorganica, nell’elettricità, nella chimica, in tal senso la morte come assimilazione all’archetipo, altro non è che una manifestazione di amore, come l’immortalità dell’unicità dell’Uno. “L’uomo è fatto della stessa sostanza di cui sono stati fatti i sogni” (Shakespeare) e niente è più forte dell’immaginale, del percettivo, nella composizione del pensiero, il senso dell’unità originaria, un’assillante sete di eterno, di ritorno all’unità, la più grande forma d’amore che il Maestro massone possa provare ed effondere, l’intuizione pura percepisce la dualità trascendente ed il lampo intuitivo è il suo sublime mezzo di comunicazione, come il nostro cavaliere ci narra nelle sue imprese. Galahad giunge alla Tavola Rotonda e si siede fra gli altri cavalieri, nel giorno della Pentecoste, come ad imprimere il suo “marchio” salvifico a tutta l’assemblea riunita, viene misteriosamente introdotto da un vegliardo dalla veste bianca (effige di purezza e anche di autorità sacerdotale) al cospetto di Artù, per occupare il centro, vale a dire il Seggio periglioso, rimasto vuoto sino ad allora. Galahad, nato dall’alto lignaggio di Re Davide e di Giuseppe d’Arimatea appare in veste ver-

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miglia, colore di regalità, in quanto simbolo del sangue, della schiatta, senza scudo e senza spada. Viene allora condotto dal Re davanti ad una misteriosa piattaforma che galleggia sull’acqua, invitato ad estrarre una spada che vi è conficcata, impresa considerata impossibile. È così

do non nasce dalla profondità della terra, il cavallo nasce dalle acque madri dell’oceano ed assume il suo ruolo celeste, uranico. Il simbolismo psicologico identifica nel cavallo e nel cavaliere il rap-

Simbolismo che appare una Damigella sopra un cavallo bianco, la quale annuncia pubblicamente che Lancillotto (… “Egli vive nel figlio”…) è decaduto dal suo rango di “Miglior cavaliere del Mondo”, dato che Galahad è finalmente riuscito ad impadronirsi della spada. All’apparizione del Santo Graal vengono rinnovati i giuramenti cavallereschi, esempio iniziatico della figura di Galahad: che si sostituisce a chi, pur virtuoso ed acclamato, è troppo intriso di materialità e prosegue il suo percorso di ricerca introdotto dai simboli della Regalità e della Sacralità. Si legge in questo, il passo dell’Apocalisse: “Io vidi il cielo aperto ed ecco apparve un cavallo bianco. Colui che lo montava si chiama Fedele e Veritiero... Egli era rivestito di una veste tinta di sangue”. Il cavallo bianco. Il cavallo, nella simbologia mitologica, contiene un’ambivalenza di fondo: viene rappresentato come un essere nobile ed intelligente, affascinante e carico di sensualità, ma anche come un concentrato di forza istintuale, solare e funerario, uranico e ctonio. Nell’immaginario collettivo è emblema di libertà senza limiti e confini: la sua corsa affascina per misteriosa alchimia di armonia e potenza, che induce il cavaliere a sentirsi tutt’uno con il magnifico animale. In ambito leggendario, la principale qualità del cavallo è quella di prevedere il futuro; conoscitore delle cose dell’altro mondo, vede ciò che l’uomo non riesce a vedere, conduce il carro del sole nella sua corsa notturna, così come Ermes e Caronte accompagnano le anime dei defunti nell’oltretomba. Quan-

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porto esistente tra l’Es, e l’Ego e l’irruenza dell’energia pulsionale propone all’individuo la difficile e necessaria sintesi di natura e cultura, di istinto e coscienza. Il suo galoppo è associato alla corsa delle onde e lo si ritrova anche accanto a Venere, come simbolo dell’impetuosità del desiderio. Il cavallo, inoltre, per la rapidità fu associato al tempo. Nell’antica letteratura induista ed in certe tradizioni buddiste, il cavallo è considerato sostanzialmente il simbolo dei sensi umani correlati allo spirito: questi trascinerebbero caoticamente la mente dell’uomo qualora non fossero guidati dal sé, ovvero dal “signore del carro”. In questa lettura il cavallo esprime regalità. Tale concezione traspare esplicitamente nell’Apocalisse di Giovanni: qui le armate angeliche che accompagnano il Cristo appaiono su destrieri bianchi. In effetti, il cavallo bianco fu spesso associato alla maestà peculiare dei santi, dei conquistatori spirituali e degli eroi; tutte le grandi figure messianiche sono state raffigurate o tramandate in sel-

la ad un cavallo bianco: Cristo, Maometto, Abramo, lo stesso Visnù e Buddha. In conclusione, si pensa che il cavallo abbia costituito uno degli archetipi fondamentali della mente e della memoria dell’uomo. Il suo simbolismo si estende in due poli distinti, dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita, dagli istinti all’azione, sintetizzando così la coincidentia oppositorum. L’astro radiante – il Graal. Nella saggezza v’è uno spirito intelligente, santo, unico nel suo genere fatto di molte parti, che è sottile, libero di muoversi, lucido, senza macchia, chiaro, invulnerabile, che ama ciò che è buono, ardente, senza ostacoli, benefico, gentile con gli uomini, costante, infallibile, non toccato dalla preoccupazione, potente, che tutto sorveglia, che permea tutti gli spiriti intelligenti, puri e delicati e che epoca, dopo epoca penetra nelle anime facendone profeti e amici di Dio. Più radioso del sole, sorpassa ogni costellazione; paragonata alla luce del sole la eccede; poiché il giorno fa posto alla notte, ma di fronte alla saggezza non v’è malvagità che prevalga Essa inonda il mondo di potere da parte a parte e ordina benignamente tutte le cose (da La Saggezza di Salomone, testo apocrifo del Vecchio Te­ stamento). Il termine ebraico Shekinah, Sekinah o Shekinat El deriva dall’akkadico, mentre nell’antico e magico aramaico (che deriva anch’esso dall’akkadico) suona come: Sekinthà e significa, in generale, presenza divina. Questo termine è composto da tre fondamentali lettere ebraiche e sta a significare la viva presenza di Dio nel creato, sulla terra, quella che alberga nelle acque all’inizio dei tempi e che aleggia sulla testa dei giusti. Presenza che si percepisce grazie al totale perfezionamento di un essere umano (illuminazione). Sekinta è anche assimilabile al concetto ebraico di Or-Ein-Sof, la Luce Infinita (la lux eterna della Tradizione latina) e da qui, al concetto di Ziw (lo schen degli orientali), che si riferisce a quella particolare luminosità


del corpo, del viso e soprattutto degli occhi, che caratterizza le grandi anime risvegliate, i mistici, gli spirituali che praticano la Presenza divina, tutti quegli esseri che si sono incamminati in un arduo ed ignoto cammino spirituale. Me – Ziw Sekinta lo splendore della schekinah, un rigoglio di cui si nutre l’anima e che non fa sentire la fame e la sete corporale: Ziw è la luminosità dell’entusiasmo, che denota salute, pienezza, gioia e spiritualità, pienezza e compiutezza dell’uomo … Ziw è l’aspetto raggiante dell’uomo su cui aleggia la Shekinah … di questo frutto (Tal e Ziw), si nutriranno i giusti e gli eletti, i “segnati” del futuro senza più cibo fisico e corporale … questa è la luce della conoscenza che irradia Galahad e con la quale viene rappresentato il Graal. Sono molte le tradizioni esoteriche che hanno accostato al Graal il simbolismo antico della Conoscenza, della Sapienza, della Tradizione Arcaica. In questo senso il Graal rappresenterebbe la “Parola Perduta” ovvero quella conoscenza che era propria di Adamo e che viene rappresentata con l’Albero della Vita. Il Graal è un oggetto materiale e spirituale insieme. Non si può identificare: forse è una pietra, forse è un libro, forse un contenitore; è certo che permette di bere (l’ultima cena), ma vi si può anche versare all’interno (il sangue di Cristo crocefisso). Può guarire le ferite, ha il potere di allungare la vita, trasmette la conoscenza, pur essendo, dotato parimenti di poteri terribili e devastanti. Per la tradizione cristiana, il Graal rappresenta l’evangelizzazione del mondo barbaro, operata dai missionari (Giuseppe d’Arimatea), stroncata dalle persecuzioni e ripresa da un gruppo di uomini di buona volontà guidati da un Druido (Merlino), o, ancora, la cacciata dall’Eden e la successiva redenzione grazie all’intervento di Gesù. Il Graal va inteso anche come il principale simbolo esoterico della cavalleria e l’espressione di tutti i suoi valori morali. La cavalleria è soprattutto un ordine permeato di valori ascetici; il Graal esprime la ricerca della sapienza, dell’antica conoscenza, dell’elevazione mistica e della sublimazione dell’Uomo. Il percorso della “liberazione” spirituale dalle catene della materia, come il richiamo alle Upanishad, potrebbe indurre all’erronea conclusione che, questi percorsi di estremo

spiritualismo, siano soltanto di origine orientale. In realtà, lo sviluppo di ciò che attualmente si conosce come “ciclo” del Graal è stato tracciato in dettaglio dalla ricerca storiografica: il nucleo deriverebbe da una leggenda orale gotica, traslata forse da alcuni racconti folcloristici precristiani e trascritta in forma di romanzo tra il XII secolo e l’inizio del XIII quando Chretien de Troyes, introduce nella letteratura le gesta di Re Artù. Il Vaso Sacro viene così identificato come il calice dell’Ultima Cena, lo stesso calice nel quale Giuseppe d’Arimatea aveva raccolto il sangue di Gesù crocifisso. Si narra infatti che durante la preparazione del corpo per la sepoltura, fuoriuscirono alcune gocce di sangue dalla ferita inferta nel costato dal colpo di lancia vibrato dal centurione Longino. Giuseppe raccolse il sangue nella stessa coppa adoperata per la consacrazione del vino durante l’Ultima Cena e lasciata la Palestina

in seguito alle persecuzioni, si rifugiò in Britannia portando con se il Santo Graal, affidando poi la coppa al “Re Pescatore”, un guardiano che tempo addietro sfamò un gran numero di persone con un solo pesce, proprio come nel miracolo narrato dai Vangeli. Galahad, incontrando

Simbolismo il Re Pescatore, viene invitato ad una festa al castello, ove appare ai suoi occhi il Graal, carico di tutte le sue valenze mistiche ed esoteriche. La maledizione che si abbatte sul paese provocando uno stato di devastazione fisica e spirituale, è forse quella che più ci lascia intravedere la realtà, una realtà fatta di tempi bui, di oscurantismo clericale e di lotte religiose, tutte circostanze dolorose che allontanano il Graal dalla vista degli uomini. Per annullare questa maledizione è necessario rinvenirlo; questa è l’intuizione di Merlino.

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Simbolismo

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Comincia così la famosa ricerca, cammino iniziatico, travaglio interiore dell’umanità e del suo bisogno di ritrovarsi. La montagna. Galaad non è solo il nome che la tradizione attribuisce al cavaliere perfetto conquistatore del Santo Graal, ma è soprattutto il nome di un luogo sacro in Israele, nome che ricorre più volte nelle Sacre Scritture: Galaad è il monte santo dei guerrieri, simile al Carmelo, all’Oreb, al Sinai e al Tabor. I monti santi sono luoghi di manifestazione privilegiata di Dio e nel contempo vie elette per l’iniziazione a Dio. Anche il monte Galaad, nella regione di Karnain e quella di Ammon, nelle vicinanze del Giordano, è monte che Dio stesso rivendica con grande forza quale sua proprietà esclusiva nei salmi 59 e 107: “Mio è Galaad, mio Manasse, Efraim è la difesa del mio capo, guida lo scettro del mio comando…” Non ogni terra è uguale agli occhi di Dio. Il Monte Galaad compare nell’antico testamento con il Patriarca Giacobbe il quale, come ricorda il libro della Genesi, siglò un patto con Labano e per sacralizzare tale patto eresse una stele con una pietra e poi ordinò ai suoi parenti di raccogliere altre pietre e disporle attorno alla stele e chiamò quel luogo Gal-Ed cioè ‘mucchio della testimonianza’, segno di giustizia e di delimitazione, ricordo della protezione divina su Giacobbe e della riconciliazione con Labano: – Raccogliete delle pietre – . Con queste pietre fecero un mucchio (gāl, da gālal che significa ‘rotolare pietre’, 29, 3; Gs 10, 18; 1 Sm 14, 33; Pr 26, 27). Esso servirà come segno di confine, come kudurro sacro, che deve essere rispettato religiosamente dai popoli confinanti. E perché i contraenti del Patto, non dimentichino tanto facilmente l’obbligo che si stanno assumendo, celebrano la cena della testimonianza sopra il mucchio di pietre, segno dei confini tra i due popoli nelle rispettive lingue: in aramaico Yegar Śāhadutā, e in ebraico Gal’èd. Tutti e due i nomi costituiscono un’ etimologia popolare per il Galaad, che viene spiegato di solito con l’arabo Ğal’ad, che non significa muro di testimonianza, ma duro, fermo. Labano ci fornisce la spiegazione popolare del nome: Gal’èd si chiamò così, perché questo mucchio – disse – sia oggi un testimonio tra me e te. Luogo “terribile” perchè Dio viene invocato quale mentore dell’ac-


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cordo di pace fra Giacobbe e Labano e sarà sempre luogo importante di Israele. (Deute­ ronomio 3, 12-13 e 34; Nume­ ri 32, 39-40; Giudici, 12,ecc.). Quando Galaad è in pace Israele prospera, quando il popolo di Dio si ribella e tradisce l’Alleanza allora Galaad è oggetto di disordini, violenze e deperisce. Tale luogo è quindi testimone e sigillo dell’alleanza fra Dio e gli uomini. È pietra di rivelazione dell’armonia divina e umana. Galaad viene ricordato anche nel Cantico dei cantici di Salomone : “Le tue chiome sono come un gregge di capre che scendono dalle pendici del Galaad…” lode attribuita allo sposo per la sua sposa. Lo stesso S.Antonio da Padova nei suoi Di­ scorsi commenta Galaad come simbolo dell’anima rigenerata nel suo elevarsi verso la grazia di Dio. Tanto più alta la vetta raggiunta, tanto maggiori i pericoli di rovinare in basso. Il pericolo è sempre presente nella cammino dell’iniziato e lo è massimamente nel caso del Cavaliere Ka­ dosh, una volta che si approssima ai Misteri Maggiori. La discesa va intesa come assoluto dovere dell’iniziato a reintegrarsi nell’Umanità, nella quotidianità, condividendo il patrimonio acquisito con gli altri, con impegno e sacrificio. E per farlo, considerando i pericoli intrinseci alla discesa, il Cavaliere Kadosh deve fortificarsi nelle virtù, di cui forse necessita ben più che nel percorso di ascesa. Non è un caso che la Massoneria nella sua saggezza ab-

bia voluto sottolineare, per prima la Prudenza (Ghemoul, in ebraico), che necessariamente deve informare ogni atto ed ogni rivelazione nei confronti di quanti non abbiano sperimentato la conoscenza dei Misteri (per non incorrere in una Babele moderna). Nella solitaria anabasi, durante la sua sofferta ricerca, il cavaliere è in grado di cogliere l’animo degli individui nel diluvio scatenato dal mondo contemporaneo, annullante e livellante; quella stessa vetta dalla quale egli è tornato ricco come i Magi da Babilonia e come Noè egli può mostrare agli iniziati la via per sfuggire all’annegamento nel mare dell’anonimato spirituale. Il cavaliere Templare è per primo ruolo sempre un Ospitaliere con il dovere di ridiscendere - come i Magi - per diffondere, prudentemente ma con animo puro, serenità, fede,

scienza e giustizia. La pianta di Castel del Monte. La pianta è ottagonale: otto torri perfettamente uguali, le cui misure si attengono ai valori minimi della sezione aurea, al di là di ogni connotazione simbolica, è l’unica forma che, in equilibrio, permette il passaggio da una costruzione quadrata ad una cilindrica. Nell’anno 1190 nasce l’Ordine dei Cavalieri Teutonici, i quali entrarono presto in contatto con i Sufi, tradizione kistica dell’Islam che tentava di coniugare in sinergia tra loro le tre grandi religioni: Ebraica, Islamica e Cristiana. Questi contatti furono favoriti molto dall’atmosfera creata da Federico II, Imperatore illuminato che seguiva una strada di sinergia tra le religioni, per l’unico Dio da portare come riferimento. Il Graal, custodito in Oriente, sarebbe stato affidato proprio a Federico II dai Sufi per mezzo dei Cavalieri Teutonici, in modo da essere difeso dalle enormi distruzioni provocate dalle Crociate. Proprio per questo, secondo quanto narrato, il Graal si troverebbe o si sarebbe trovato per un periodo, a Castel del Monte, la famosa costruzione di forma di coppa ottagonale, che venne edificata apposta per custodirlo; in effetti, molto stranamente, Castel del Monte non venne mai utilizzato, almeno ufficialmente, per nessuno scopo, civile o militare, né tanto meno venne mai abitato dall’Imperatore. La fruizione

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diveniva in tal senso peculiare dell’élite cavalleresca cui il castello era indirizzato. Così, Castel del Monte è il concetto vivificato della quadratura del cerchio, che non è un assurdo matematico, ma l’allusione alla fissazione di un ciclo; cosa questa che non può essere raggiunta nel

Simbolismo divenire del movimento ma nel suo superamento, sinteticamente operato. Il quadrato, il cerchio e l’ottagono con la stella a otto punte costituiscono la simbolica Tavola da disegno utilizzata dai maestri costruttori medioevali, ereditata dalla Massoneria. L’esplicita allusione al cammino iniziatico in senso stretto, ovvero il passaggio dal quadrato al cerchio, dalla Terra al Cielo, dalla contingenza all’assoluto, dalla divisione all’Unità, dall’umano al divino; il tutto attraverso l’ottagono che funge da veicolo, simbolo dell’equilibrio cosmico. Se il quadrato simboleggia il mondo, il cerchio rappresenta il cielo e l’ottagono la rigenerazione spirituale, in quanto intermediario tra il quadrato e il cerchio tra il mondo terreno ed il cielo. La spada e la giustizia cavalleresca. Nel “ciclo del Graal” si rinvengono alcuni strumenti tipici, come la sacra lancia e la spada spezzata di Davide, che nell’epopea viene riparata da Galahad. Le Scritture riportano che Davide batté Golia “con una fionda e una pietra, vinse il Filisteo; lo colpì e lo uccise, senza avere spa-

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da in mano” (1 Samuele 17:50). Più tardi, nel momento del pericolo Davide confida soltanto nella sua forza e stringe fra le mani la spada di Golia, dimostrando di aver dimenticato il piano di Dio per la sua vita. Conformemente, quante volte facciamo leva sulla nostra energia fisica e mentale, per superare determinate situazioni? Un uomo illuminato non è “abituato all’armatura di Saul” e non ha bisogno della spada di Golia, ma deve solo impugnare “la spada dello Spirito, che è la parola di Dio” (Efesini 6:17). In vero, l’uomo ricorre alle armi nella speranza di essere liberato dalle sue ombre, speranza effimera, tanto che anche la spada di Golia si spezzerà e se ne perderanno le tracce. Essa è pertanto è segno tangibile della potenza ottenuta tramite l’illuminazione e dall’audacia spirituale, frutto di fatica e di predisposizione, ma anche emblema di morte e di rinascita. Il cavaliere si emancipa grazie alla sua audacia: egli non ha la presunzione di rivelare i misteri e neppure di rovesciare il dogma, non vuole tramutare il senso ed il valore dei simboli, ma viene investito del compito di inserirsi nel movimento della storia contemporanea, pur trascendendone. Non a caso, la spada che Galahad impugna era stata spezzata e lui soltanto, essendo predestinato e, quindi illuminato, può ripararla ed usarla a buon fine. La spada mostra il coraggio, in un solo oggetto contiene la dualità dell’offesa e della difesa, suo tramite viene esercitata la cavalleria e

la giustizia. Nella storia, nella letteratura e nell’arte, la giustizia quando è intesa come rigore, è infatti sempre raffigurata con la spada, a sottolineare che in essa è insita la possibilità della punizione. E ciò in quanto, nessuna violazione della legge deve rimanere priva di reazione, di sanzione; i rigori della legge si applicano con la fredda cesura di una lama che penetra e taglia in modo netto, irreversibile. Seguendo l’ideale cavalleresco, non si persegue la cieca vendetta, ma il necessario ed implacabile ristabilimento di un equilibrio infranto: le azioni errate commesse provocano l’ineluttabile giustizia immanente, che riordina il caos. L’anarchia, in questa lettura, diviene sinonimo di nichilismo, del nulla; la giustizia rimarca i limiti dell’agire umano, l’esistenza si estrinseca in ragione di principi inviolabili cui tutte le creature sono sottoposte. Di contro, la bilancia che spesso si associa a tale immagine, regola la mera pesatura del disordine universale e quindi la misura della gradazione delle colpe. Essa quindi non appare rappresentativa nell’ideale dell’immediata giustizia cavalleresca. La codificazione del diritto, nei suoi differenti rami, già avvenuta in epoca romana, in seguito alla dominazione longobarda prosegue, sfociando nelle scuole giuridiche che stigmatizzano il processo penale. Si delineano, le figura dell’Accusa, della Difesa e del Terzo Giudicante, il processo diviene una conquista civile necessaria per l’evoluzione sociale. La giusti-


Simbolismo

zia, acquista tuttavia una valenza diversa, non più connessa al mondo di valori cavallereschi, al sentire di soggetti illuminati, ma un compito legato alle regole del contraddittorio e all’abilità di professionisti e mestieranti.. L’inosservanza di un termine, la prescrizione, come un errore di procedura, nelle mani di esperto del settore, sono il mezzo per annullare colpe e sospetti, avallando così reati, condotte illecite e riprovevoli. In tale maniera, la giustizia non coincide più con la ricerca della Verità, assume addirittura i connotati di un’arte, non a caso la retorica e la dialettica venivano inserite già nel Medio Evo nel novero delle così dette ‘arti liberali’. Nel mondo cavalleresco, il diritto rimane teorico e privo di valenza se non trova concreta applicazione, una concatenazione logica fa si che ogni azione comporti, in stretto nesso causale, le sue conseguenze. Ma, colui che è chiamato ad amministrare la giustizia, deve essere illuminato da imparzialità, onestà, indipendenza, disciplina e sottoposto egli stesso alle regole che limitano l’attività animatrice. Come esternazione del comando, la lama può condurre ad abuso, discriminazione, distruzione, ove chi la impugni non abbia

capacità di discernere ciò che la stessa divide: il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, poiché l’equilibrio, l’armonia, si regolano sulla dualità per l’azione dei contrari, integrandosi vicendevolmente. La scelta tra positivo e negativo, vocazione del cavaliere iniziato, è frutto di un profondo percorso interiore, in cui l’uomo si è già battuto con sé stesso, ove le emozioni non infuriano, non travolgono, non sono più insopportabili. La giustizia diventa intuitiva anche per la rapidità degli scontri in battaglia: il cavaliere deve riuscire a sentire oltre quello che appare, trovare la luce nelle ombre, che celano la verità creando una visione ingannevole. Le passioni, i sentimenti, se non canalizzati, sviano da ciò che è giusto: le energie fisiche e spirituali, vanno indirizzate in maniera univoca e retta. Nella lama metallica, come in uno specchio, si riflette così l’immagine di quanto il cavaliere porta realmente con sé. Perseguire il male contamina la coscienza e la fisionomia dell’essere, facendo perdere all’individuo la sua stessa umanità. La spada diviene l’anima del cavaliere: solo un lungo apprendistato consente l’introspezione e l’elevazione necessaria a conquistare il discernimento.

Tra il basso e alto Medioevo, con le crociate, si delinea l’ideale del cavaliere soldato, cristiano, difensore dei deboli che, brandendo l’arma al grido di: “Dio lo vuole”, concede allo strumento connotazioni quasi mistiche, espressione della forza benevola e della giustizia, volta a dare a ciascuno il suo. La spada a due mani, tipica dello scontro cavalleresco, parimenti, rappresenta innanzi alla comunità, colui che è disposto a mettere in gioco la sua vita per difendere i deboli, per l’ordine, per l’onore: all’idea di giustizia si associa quella di armonia cosmica. In questa interpretazione, Galahad come cavaliere iniziato, con la spada rivolta in alto in segno d’invocazione, rappresenta colui che media tra la terra ed il cielo; la luce della sua lama rischiara il mondo dalle tenebre e dell’ignoranza, che generano l’ingiustizia. L’uomo solo esercitando la giustizia come virtù, ottempera al suo compito, al disegno universale, ove tutte le cose occupano un posto e svolgono un compito determinato e perfetto. P.42: Sir Galahad, olio su tela, George Frederick Watts (1817– 1904); p.43: Elsa di spada cruciforme a doppio taglio; p.44: Galahad, B.Nardacci, 2011, collez. privata; p.45: Coppa mistica, argento sbalzato; p.46: Monte Sinai, Egitto; p.47: Castel Del Monte e pianta dello stesso; p.48: Spada medievale a doppio taglio; p.49: Cavaliere crociato (46 e 46: foto P.Del Freo).

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Massoneria

Bet Ayn Zayn I parte Giuseppe Ivan Lantos

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C

on l’adozione del nuovo Ri­ tuale per il Grado di Appren­ dista Libero Muratore della Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori, Obbedienza di Piazza del Gesù - Palazzo Vitelleschi, la Parola Sacra del Primo Grado - boaz - compitata1 tradizionalmente secondo la cadenza delle consonanti e delle vocali nella translitterazione in caratteri latini, viene ora scandita seguendo la pronuncia delle consonanti ebraiche, ‫ב‬-‫ע‬-‫[ ז‬Bet-Ain-Zain]. Tra le varie motivazioni che, dopo approfonditi studi, hanno indotto alla modifica di una consuetudine consolidata nel tempo, ma riferita a interpretazioni che Arturo Reghini nel suo Le Parole Sacre e di Passo definisce “non […] molto chiare e soddisfacenti”, c’è stata quella di restituire la Parola alla sua lettura originale, tenuto conto del fatto che l’Alfabeto ebraico, scritto da destra a sinistra, è composto di ventidue caratteri consonantici, mentre non esistono segni vocalici. Alla mancanza delle vocali si sopperì da parte di studiosi, chiamati Rabbini Massoreti, con sistemi di punteggiatura, sull’esempio delle scritture siriache e arabe. Il sistema ancora in uso è quello detto “di Tiberiade”, elaborato nell’VIII secolo prima dell’Era volgare. Questo metodo prevede tre tipi di punti: quelli propriamente vocalici, Nequdoth, sono sette, segnati sotto, sopra o al centro delle lettere; i segni di pronuncia delle consonanti e gli accenti, Teamim, che sono segni tonici. L’uso della punteggiatura, però, restò, e resta, limitato al testo biblico, alla poesia e alle parole la lettura delle quali può ingenerare equivoci. Così, possiamo costatare, come rammenta lo stesso Reghini, che, secondo le pronunce locali, Boaz può, diventare Bohaz o Booz. Nell’uso delle Comunioni massoniche italiane, si è preferito Boaz. L’altro criterio di valutazione che ha indotto alla “riforma” della Parola Sacra dell’Apprendista è stato di tipo simbologico-iniziatico, 1 Nel Rituale d’Iniziazione dell’Apprendista Li­ bero Muratore si dice: “L’Apprendista ha una sola parola: la Parola Sacra […] Quando è richiesta, l’interrogato risponde all’interrogante: io non so né leggere né scrivere, so solo compitare; datemi voi la prima lettera e io vi darò la seconda.

Massoneria

riferito al fatto che il Primo Grado della Massoneria si articola sul simbolismo del numero tre. Tre sono i Segni: il Segno dell’Apprendista all’Ordine, il Segno della marcia e il Segno manuale del toccamento; i saluti dei Fratelli Apprendisti sono anch’essi tre, rivolti rispettivamente al Maestro Venerabile, al Primo Sorvegliante e al Secondo Sorvegliante. Completando il ternario dell’Apprendista, tre anni sono la sua età muratoria. La parola Boaz era, sotto questo profilo, anomala poiché compitata secondo un ordine quaternario. Da dove la tradizione massonica ha mutuato la parola Boaz? Nel Tanàkh, l’acronimo con il quale si designano i testi sacri dell’Ebraismo, Torah, Nevi’im, Pro­ feti, Ketuvim, Agiografi, Boaz, è il nome del marito di Ruth, protagonista dell’omonimo Libro. Boaz e Ruth furono i bisnonni di Davide e quindi, nella tradi-

zione neotestamentaria, progenitori di Gesù2. Tra le leggende ebraiche, ma non nei libri canonici della Bibbia, compare anche un Boaz, decimo figlio di Caino, il quale avrebbe ucciso il padre per errore3. Infine, Boaz è il nome che l’architetto Hiram di Tiro diede a una delle due colonne che ornavano l’ingresso del Tempio fatto costruire da re Salomone a Gerusalemme. Boaz era la colonna presso la quale gli apprendisti addetti alla costruzione del Tempio ricevevano il salario. La parola ebraica può essere tradotta con “Forza, Fermezza, nella Forza”. La colon2 Matteo 1:2-17 3 In Genesi 4, il figlio di Caino è Enoch. C’è un’altra leggenda secondo la quale CAino fu ucciso, sempre per errore, dal quinto dei suoi discendenti, Lamech, un cacciatore cieco che inseguiva le prede con l’aiuto del figlio

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na Boaz rappresentava il pilastro regale, Mishpat. L’altra fu chiamata Jakin4, parola ebraica che può essere tradotta con “Stabilità, che Dio l’ha fermata” e rappresentava il pilastro sacerdotale, Zedeq. Con il consolidarsi della Massoneria speculativa, soprattutto di Rito Scozzese

Massoneria Antico Accettato, che modellava la propria tradizione sulla “leggenda hiramitica”, iniziò la costruzione di Templi l’ar-

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4 “Eresse le colonne nel vestibolo del tempio. Eresse la colonna di destra, che chiamò Iachin, ed eresse la colonna di sinistra, che chiamò Boaz” (1 Re 7:21). “Eresse le colonne di fronte alla navata, una a destra e una a sinistra; quella a destra la chiamò Iachin e quella a sinistra Boaz” (2 Cronache 3:17). Le due colonne sono menzionate in scritti massonici già dalla prima metà del XVIII secolo

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anche quello degli spazi tra parola e parola e tra lettera e lettera. Da questo deriva che la piena comprensione del Sepher Torah consiste nella possibilità d’interpretazione dei misteri che si occultano proprio negli spazi bianchi e che soltanto le lettere nere potrebbero rivelare. Ma, ammonisce la Qabbaláh, i misteri del bianco saranno completamente svelati soltanto con l’avvento del Mashiach. A questo punto è opportuna una digressione sulla storia della scrittura ebraica e sul suo significato religioso.

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chitettura dei quali s’ispirava, almeno in parte, a quella del Tempio salomonico. Le due colonne Boaz e Jachin ne divennero elementi portanti sia materialmente, sia simbolicamente. Originariamente le due colonne erano in bronzo perché questo metallo resiste a tutte le intemperie per indicare che i principi della Massoneria sono immortali e devono essere trasmessi immutabili; erano cave per contenere il salario degli operai, gli attrezzi propri del Grado, il tesoro e i gioielli di Loggia. Ma torniamo alla Parola Sacra, Boaz o, meglio, alla sua nuova compitazione, Bet-Ain-Zain. Proprio questa ci ha suggerito di valutarne il significato simbolico alla luce della Qabbaláh, la corrente mistico esoterica ebraica sviluppatosi in Europa dal VII-VIII secolo. Intendo precisare che i riferimenti alla Qabbaláh in quest’articolo prescindono da una connotazione specificatamente

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religiosa, ma fanno piuttosto riferimento a quel patrimonio tradizionale che la Libera Muratoria ha attinto ampiamente alla cultura tradizionale ebraica e che, in particolare, per quel che riguarda il Rito Scozzese Antico Accettato, è largamente testimoniato dai Rituali in tutti i suoi trentatré Gradi. Il Venerabilissimo e Potentissimo Fratello Albert Pike 33\, Sovrano Gran Commendatore del Supremo Consiglio del Rito Scozzese Antico Accettato per il Sud degli Stati Uniti, storico, esegeta e “codificatore” del

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Rito stesso ebbe a scrivere: “Tutte le associazioni massoniche devono alla Cabala ebraica i propri simboli e i propri segreti”5. E il rabbino e cabalista italiano Elia Benamozegh: “Lo spirito della Massoneria è lo spirito del giudaismo nelle sue credenze più fondamentali”6. Gli studi dei cabalisti si concentrano fondamentalmente sul Sepher Torah, il grande rotolo di pergamena contenente il testo dei già citati primi cinque libri dell’Antico Testamento. Il contenuto dei rotoli del Sepher Torah, custoditi in uno speciale armadio nelle sinagoghe, è sacro e viene scritto a mano da rabbini esperti detti Sofarim seguendo particolari e severe regole. Nella letteratura cabalistica e, in particolare, nel Sefer ha-Zohar, il Libro dello Splendore, citato semplicemente come Zohar, il testo più importante della tradizione cabalistica, la scrittura del Sepher Torah è definita “fuoco nero su fuoco bianco”. Nero è il colore dell’inchiostro, il “sangue” della Torah, l’energia vitale, la forza, la potenza dinamica del testo. Bianco è non soltanto il colore della pergamena, ma 5 Albert Pike (1809-1891), in Morals and Dog­ ma of the Ancient and Accepted Scottish Rite, 1871. In italiano, Morals and Dogma, Foggia 6 Elia Benamozegh (1823-1900), in La vérité israélite, Parigi,1865

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Kaf

Tav

Tutto ebbe inizio con la scoperta, avvenuta tra il 1905 e il 1906, durante gli scavi di Serabit El-Kahdim, condotti nella regione del Sinai dall’archeologo inglese sir William Matthew Flinders Petrie, di iscrizioni definite “protosinaiche” redatte con caratteri particolari risalenti alla metà del 2000 prima dell’Era volgare. Poi, iscrizioni simili, furono rinvenute in altre località palestinesi come Gaza, Lachish e Shekem. Si tratta di un sistema di scrittura “acrofonico”, cioè di un alfabeto nel quale ogni lettera rappresenta, in maniera più o meno stilizzata, qualche contenuto concreto: un bue, una casa, un occhio ecc, ed è la lettera iniziale della cosa rappresentata. La semplificazione dei pittogrammi della scrittura protosinaica diede origine alla scrittura protocananea adottata dai Fenici, dall’alfabeto dei quali, formato da ventidue consonanti, derivarono tutte le scritture alfabetiche che si diffusero nel bacino del Mediterraneo. Tra queste c’era anche la scrittura ebraica, una variante della scrittura aramaica, detta Ketav Meruba, scrittura quadrata. Queste sono le ventidue lettere dell’Alfabeto ebraico. Secondo la Qabbaláh, il Signore creò prima le lettere dell’Alfabeto ebraico e con il loro aiuto creò l’Universo. È l’interpretazione della prima frase della Genesi: “In


principio Elohim creò Aleph-Tav”, dove s’intende che creò le lettere dalla prima, Aleph, all’ultima, Tav e tra esse tutte le altre. Nello Zohar si legge che, prima che il Signore intraprendesse l’opera della creazione, le lettere dell’Alfabeto fossero ancora allo stato embrionale e che, per duemila anni, Egli le contemplasse e gioisse di esse. Quando il Signore decise di dare il via alla creazione per mezzo della sua Parola, le lettere dell’Alfabeto incominciarono a litigare: a chi sarebbe toccato l’onore del primo posto nella Torah? Con quale di esse avrebbe avuto inizio la creazione? Le ventidue lettere scesero dalla corona di pura luce che attornia il capo del Creatore e si misero ognuna a vantare le proprie lodi. Tutte, eccetto la schiva Aleph, che rimase in silenzio. Soltanto dopo averle ascoltate tutte, il Signore scelse la Bet, la forma della quale, può ricordare quella di una casa dal portone spalancato [ ] Quale migliore simbolo per l’inizio degli inizi: “Bereshit barà Elohim hashamaim ve haaretz”. All’inizio creò Dio il cielo e la terra. Il Signore, nella sua infinita bontà e saggezza, volle premiare l’Aleph assegnandole il primo posto nell’Alfabeto e l’onore di essere la prima lettera del Decalogo, Ani, “Io [sono il Signore, tuo Dio]” 7. Secondo il Sepher Yetzirah, l’insieme delle ventidue lettere, Othioth, dall’Aleph alla Tav, consentono il passaggio dalla forma al suono, da questo al pensiero e poi ai gradi dell’evoluzione spirituale rappresentati nei dieci livelli dell’Albero sephirotico8, collegati tra loro da ven7 Zohar I 2b-3b. Per il Decalogo: Esodo 20,2-17 e Deuteronomio 5,6-2 8 In ordine discendente 1° Kether - Corona
; 2° Hockmah - Sapienza o Origine dell’esistenza; 
3° Binah - Intelligenza o Ritorno; 
4° Hesed

tidue sentieri rappresentati dalle lettere dell’Alfabeto ebraico. Ma, secondo alcune scuole, esiste anche un’undicesima Sephirah, segreta o nascosta, Daath, Consapevolezza; in questo modo, sommando le undici Sephi­ roth con i ventidue sentieri otterremmo trentatré, cioè il numero dei Gradi del Rito Scozzese Antico Accettato, e potremmo assimilare, l’idea non è certamente originale, l’Albero sephirotico alla “scala gnostica” della Massoneria Scozzese. Ma torniamo alle nostre Bet-Ain-Zain. E, alla luce di quanto scritto finora, cer-

chiamo di darne alcune possibili letture simbologiche lettera per lettera. Bet, nella scrittura protosinaica è rappresentata da un quadrato o da un rettangolo, la forma della costruzioni dell’area geografica dove questa scrittura è - Grazia o Misericordia; 
5° Ghebourah - Giudizio o Rigore; 
6° Tiphareth - Armonia o Bellezza o Equilibrio; 
7° Netzach - Eternità o Vittoria; 
8° Hod - Splendore o Maestà o Potenza; 
9° Yesod - Fondamento o Alleanza;
10° Malkuth Regno o Pelle

nata. In ebraico, il suo significato di casa, è estensibile a quello di Tempio, di Santuario, Bet ha-Miqdash, il luogo nel quale l’uomo può trasformarsi9. E dove, se non nel Tempio, il profano si trasforma in iniziato, in Massone? E dove, se non nel Tempio il Massone può incrementa-

Massoneria re il proprio livello di crescita in un succedersi di iniziazioni? Nello Zohar si sostiene che la Bet sia aperta su un lato per ricevere la Luce e sia chiusa sull’altro perché il Signore ha detto: “… non vedrai il Mio volto”. La Bet racchiude, dunque, la conoscenza, il sapere, la Luce. Se, come già abbiamo suggerito, vogliamo interpretare la Bet come una raffigurazione del Tempio massonico, appare evidente che la porta, cioè la parte aperta, è rivolta verso sinistra, nella direzione dell’Occidente, mentre la parte chiusa è l’Oriente. Il recipiendario, entra nel Tempio da Occidente con l’espresso desiderio di ottenere la Luce, ma è incapace riceverla perché la benda della concezione profana della vita gli preclude la visione dell’Oriente da dove, soltanto a compimento dell’Iniziazione al Primo Grado, gli sarà svelata la “piena Luce”, indispensabile a consentirgli di avviarsi sul percorso della Conoscenza. Bet è anche la lettera iniziale di Binah, la terza delle Sephiroth superiori, e rappresenta l’Intelligenza, la Comprensione, l’Intuizione. Se ci riferisce al ternario Apprendista, Compagno, Maestro, Bi­ nah, potrebbe corrispondere proprio alle caratteristiche dell’Apprendistato massonico, tanto più se si considera una delle caratteristiche richieste a Binah per generare le altre due Sephiroth, Hockmah, 9 Isaia 56, 7

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Massoneria

Sapienza, e Kether, Corona, è il silenzio. Di più, osservando la disposizione delle Sephiroth in questione, vediamo che esse formano un triangolo nel quale Binah si trova in quella che, nel Tempio Massonico, corrisponde alla Colonna degli Apprendisti. Tra gli strumenti d’indagine della Qab­ baláh c’è la Ghematria, lo studio numerologico delle parole scritte in lingua ebraica, nella quale le lettere rappresentano anche i numeri. Secondo la Ghematria, Bet è il numero 2, cioè la dualità che nella cultura tradizionale massonica ha un’importanza di non poco conto. Bet è, dunque, il simbolo del bene e del male, di quel vizio per il quale i Liberi Muratori scavano “oscure e profonde prigioni”, e di quella virtù per la quale edificano Templi. In quest’ottica binaria, possiamo considerare Bet anche come la sintesi del pavimento a scacchi bianchi e neri. Il principio maschile e quello femminile, quell’Adam Qadmon, l’essere umano primordiale, l’archetipo divino di uomo e donna, che la Massoneria ha mutuato dalla sapienza mistica ebraica, e che la nostra Comunione ha inteso realizzare ammettendo le donne all’iniziazione liberomuratoria. La parola Bet, formata dalle lettere Bet, Iod, Tet, lette da sinistra a destra, ha come valore numerale 412, 4+1+2= 7, e sette è il numero del Maestro Libero Muratore. Nello Sepher Yetzirah si legge: “Egli fece

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regnare la lettera Bet e la coronò. Con essa formò Saturno nell’Universo”10. Creduto per lungo tempo l’ultimo dei pianeti, Saturno ha un ruolo non secondario nella Tradizione massonica. Sa­ turno nella mitologia romana, Chronos in quella greca, figlio di Urano, il cielo, e di Gea, la terra, emersi, secondo a Teogonia di Esiodo, dal Caos, diede origine al mondo organizzato, quell’Ordo ab Cao che è il motto del Rito Scozzese Antico Accettato. Saturno/Chronos è la divinità del tempo nel suo continuo divenire che è trasformazione. La Clessidra del Gabinetto di Riflessione, il luogo dal quale principia il viaggio del profano verso l’iniziazione, nella quale scorre lentamente la sabbia, rappresenta Chronos-Saturno il Signore del Tempo che passa, il Signore che presiede alle prove di colui il quale aspira all’iniziazione. Nella tradizione alchemica, per tanti aspetti mutuata da quella Massonica, il regime di Saturno, l’Opera al Nero, inizia o, secondo altri, si conclude alla fine del Visita Interiora Terrae, Rectificando, Invenies Occultum Lapidem, “Visita l’interno della Terra e, rettificando, troverai la pietra nascosta”, sintetizzato nell’acrostico vitriol che spicca in alto sulla parete nord del gabinetto di riflessione, laddove è tenebra e abisso. Da questa pa10 Sepher Yetzirah 4-5


rola il recipiendiario parte per portare a termine il suo primo viaggio, quello riguardante la Terra. Nel Tempio, Saturno è rappresentato dalla candela centrale della Menorah, il candelabro a sette bracci, l’accensione del quale segna l’apertura dei Lavori e lo spegnimento la loro chiusura. Alla candela-Saturno si associano il settimo giorno della creazione, quello del riposo e della contemplazione, e il chakra dell’illuminazione posto sulla sommità della testa. Nello Zodiaco, Saturno presiede il segno del Capricorno, segno di terra, la terra che si trasforma. Nel Tempio massonico, il Capricorno è il segno dell’Esperto Terribile, al quale infonde misticismo, saggezza, responsabilità, metodo, coscienza, lealtà, fedeltà, costanza, profondità, senso analitico, precisione, perseveranza, tenacia, riservatezza, prudenza, inflessibilità e materialismo. Il suo posto in Loggia è a Meridione, mezzogiorno in punto, ora nella quale i Massoni danno inizio ai loro Lavori Massonici. Insieme con il Maestro Venerabile, Ariete, con il Maestro delle Cerimonie, Cancro, e con il Copritore Interno, Bilancia, forma la Croce Cardinale del Tempio Massonico. Il Grande Esperto Terribile provvede al controllo dell’operato del Primo e del Secondo Esperto, facilitato nel suo compito dall’influsso del Capricorno. Nel corso della cerimonia dell’iniziazione ha un ruolo fondamentale nel momento della morte del profano nel Gabinetto di riflessione per poi rinascere trasformato nella terra di Capricorno del Grande Esperto Terribile. Secondo l’interpretazione astrologica di Jean-Marie Ragon11, uno dei maggiori esponenti della Massoneria francese, autore di numerosi saggi, dei sette brindisi, dedicati al Sole e ai vari Pianeti, che si susseguono nel corso delle Agapi rituali, due delle quali dovrebbero essere tenute in occasione dei Solstizi, l’ultimo è intitolato a Saturno, il Pianeta che, con la sua orbita, comprendeva tutti gli altri, 11 Jean-Marie Ragon de Bettignies (1781–1862), iniziato nel Grande Oriente di Francia, fondatore della Loggia parigina Les Vrais Amis e del Capitolo e dell’Areopago del Rito Scozzese Antico Accettato, in Cours philosophique et interprétatif des initiations anciennes et moder­ nes, 1841

Massoneria

rappresentando così il limite fra ciò che è “dentro” e ciò che è “fuori”, nella nostra ritualità quest’ultima libagione è dedicata ai Fratelli Liberi Muratori sparsi su tutta la Terra. Nella tradizione religiosa romana, il Solstizio d’Inverno era celebrato con i Satur­ nalia, la ricorrenza più gioiosa dell’anno, feste che, come suggerisce il nome, erano dedicate a Saturno, che iniziavano il 17 dicembre, per concludersi, sette giorni dopo, il 24 dicembre, cioè alla vigilia del Natalis Solis. Il Solstizio d’Inverno, uno dei “punti cardinali” dell’ideale “bussola zodiacale”, massonica, è segnato dall’ingresso del Sole nel cielo del Capricorno. Il Sole sem-

bra sprofondare inghiottito nell’Interiora Terrae, di quell’elemento Terra al quale il Capricorno appartiene. Quello del Nadir è il regno dell’oscurità, delle tenebre che scatenano il primordiale terrore panico, tuttavia questa discesa è indispensabile per la rinascita della Luce, analogamente a quanto accade al recipiendario il quale, immerso nelle tenebre della condizione profana, per ottenere la Luce massonica, deve scendere nelle oscure profondità della Terra, il Gabinetto di Riflessione. P.50: Rovine romane, Libia; p.51: Fregio massonico in ferro, XIX sec; p.53: Tavolo in pietre dure con decori ed intarsi massonici; p.54: Colonna ‘B‘ massonica e arredo di gabinetto di riflessione; p.55: VITRIOL in un Gabinetto di Riflessione (foto P.Del Freo).

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Filoso–a

I risvegliati e i dormienti Valeria Di Pace

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E

raclito, l’Oscuro. Così soprannominarono gli abitanti di Efeso il loro concittadino, l’aristocratico filosofo che scrisse un’opera profonda ed enigmatica Della natura o, come traducono altri, Dell’o­ rigine, deponendola sull’altare di Artemide; il filosofo del Fuoco Cosmico e del Divenire, sdegnoso e sarcastico, che tanto influsso ha avuto sull’intera storia del pensiero occidentale. Della sua opera ci sono rimasti solo pochi frammenti, accuratamente conservati e commentati da generazioni di pensatori, affascinati dalla saggezza e dal mistero che traspaiono da quelle manciate di parole. Ho scelto di scrivere questo articolo ‘in compagnia’ di questo filosofo, a me da sempre molto caro, perché alcuni suoi detti possono gettare molta luce su un argomento che mi preme affrontare: la questione dell’illuminazione, una meta importantissima di ogni sentiero spirituale. Mi sembra che ad ogni percorso spirituale si diano due livelli: uno essoterico e uno esoterico. Al di là della forma che prende questa distinzione, noto che ci sono persone che considerano un percorso spirituale una delle tante aree della loro vita, che ne traggono giovamento e la ritengono importante, ma non esclusivo. E vi sono invece altre persone il cui senso della vita riposa in maniera quasi completa nella loro spiritualità. Non che le seconde siano migliori delle prime: ognuno segue il suo destino, questo è ciò che rende gli uomini valevoli e grandi, indipendentemente da quale sia questo destino. E servono entrambe le tipologie di individui per far girare il mondo. Mi rivolgo, in questo articolo, in particolare alle seconde, per cercare di riflettere un poco e capire se possa darsi nel sentiero spirituale una sorta di meta “ultima”, un’illuminazione, un punto in cui un individuo possa dire: ce l’ho fatta, ho raggiunto un obiettivo importante. Mi pare che questa visione sia fondamentale in ogni percorso spirituale. È ciò che dà senso, dove senso vuol dire proprio direzione. Di fronte alla dispersione che la realtà quotidiana mondana, sempre e comunque, genera, c’è un principio unificatore, un qualcosa che ci riporta sempre a noi stessi, al nostro sé autentico. “Morte è quanto vediamo da svegli; quanto vediamo dormendo, sogno”. To-

nelli, commentando questo frammento di Eraclito, ci parla di una classificazione degli stati di coscienza: la coscienza di veglia e la coscienza onirica, per incominciare. Entrambe, secondo Eraclito, ci pongono di fronte a mondi illusori: la prima, perché invece di farci percepire

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Morte è quanto vediamo stando svegli, sogno quanto vediamo dormendo Della Natura, framm. 21

un cosmo fluido, in costante mutamento, in cui gli opposti sono connessi uno all’altro, ci mostra piuttosto un cimitero di forme statiche, morte, immutabili e soprattutto indipendenti rispetto a noi; la seconda invece, ci apre un regno diimmagini tanto impalpabili quanto reali. Esiste però una terza coscienza, la coscienza del risveglio: questa coscienza ci mostra la verità del Principio (il lo­ gos simboleggiato dal Fuoco di cui parla Eraclito), non tanto al di là del mondo di veglia e del mondo dei sogni, quanto attraverso di essi. E qui serve un importante appunto: nel percorso spirituale non esiste e non può esistere un mondo vero dietro il mondo falso dell’apparenza sensibile. Se così fosse il concetto di immanenza verrebbe scardinato e ciò porterebbe ad una polarizzazione della realtà in un mondo vero e buono, trascendente e soprasensibile, e in un mondo falso e malvagio, il dominio dei sensi ingannevoli e del corpo corrotto. È chiaro che una simile china è quanto di più distante vi sia da un percorso spirituale: i sensi e le apparenze sensibili, la corporeità, tutto questo va salvato, contro ad un ampio spettro di tradizioni che trovano la spiritualità al di fuori del corpo e della materialità del mondo. Ecco perché la coscienza del risveglio non è una coscienza che fa percepire qualcosa (un Principio) che sta al di là del mondo: essa mostra il Principio attraverso il mondo, nel suo operare in tutto, dai luoghi comunemente ritenuti più spirituali (il pensiero, l’amore per il prossimo, la bellezza), fino a quelli più sordidi. La coscienza del risveglio ci pone innanzi ad un cosmo integralmente salvato. Ma cos’è questo principio? Come si può definirlo? Fra i vari frammenti quello che, secondo me, lo enuncia più chiaramente è questo: “ma tutto governa la fol­ gore”. Eraclito paragona il Principio, l’Uno, al Fuoco, per i suoi caratteri di eterna

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giovinezza e ci dice che “questo cosmo non lo fece nessuno degli dei né degli uo­ mini, ma sempre era, ed è, e sarà. Fuoco sempre vivente, che con misura divampa e con misura si spegne”. Ricordiamoci anche che paragona il Principio eterno, che sta al di sopra degli dei e degli uomini, alla folgore, alla saetta: la folgore è Fuoco, ma Fuoco che si accende in un istante, che balena per un attimo e poi tace, lasciando tutto di nuovo nell’oscurità. Ebbene, mi pare che qui venga valorizzata propria la dimensione dell’Istante, del guizzo subitaneo: come se il mondo non fosse appoggiato su qualcosa di stabile ed immutabile, ma si creasse ad ogni attimo, un cosmo che si autogenera in ogni secondo; e che la verità sul Principio possa essere colta solo in questa visione del mondo come un luogo di genesi continua e mai terminata. Il Principio dunque non è un dio, un’entità, un’energia, una forza; è l’apparenza stessa, il fatto che qualcosa ci sia, piuttosto che non esserci nulla. Secondo il mio pensiero, è un’idea affine al Tao: un qualcosa (che non è una cosa) presente in tutto eppure distante da tutto, ineffabile, inafferrabile. Il Tao può essere percepito solo nel mutevole spettacolo del mondo che da lui sgorga. Le parole non possono afferrare questa esperienza, che pure credo baleni, di tanto in tanto, nella vita di ogni essere umano. Vedere il mondo come un sogno, un incredibile sogno, e capire che nulla vi è al di là di questo infinito mare di forme che si trasformano in continuazione; perché questa costante metamorfosi è l’essere stesso. Credo che questo sia il Risveglio: arrivare al nocciolo della metafisica della spiritualità e sperimentare, in un lampo, come il mondo sia sospeso sull’abisso del puro niente, come non ci sia mai nulla di garantito, di eterno, se non questo eterno lampeggiare del Principio, in un universo di perpetua contingenza. “Coloro che dormono sono artefici e com­ plici delle cose che sorgono nel cosmo”, ossia il mondo viene plasmato dalle credenze e dal pensiero di coloro che vi dimorano, in particolare dai Dormienti, contrapposti ai Risvegliati. Non che i Risvegliati non partecipano a questo atto di plasmazione, ma “per i Risvegliati c’è un cosmo unico e comu­ ne, ma ciascuno dei dormienti si involge


in un mondo proprio”. I Risvegliati vedono il Principio alla radice del mondo e dunque sanno che ogni prodotto, ogni credenza, ogni realizzazione dell’essere umano non è altro che una folgore nella notte del nulla, una parentesi che potrà sempre essere revocata; e in questa coscienza vedono l’unità del tutto, in opposizione ai Dormienti che credono che quanto vedono sia la vera e statica realtà, non suscettibile di essere trasfigurata dalla loro volontà. Questo Uno primordiale ci si manifesta tuttavia sempre con delle leggi, delle regolarità: è logos, dice Eraclito, un termine greco che vuol dire molto: parola, ragione, rapporto. Come è possibile che in un mondo in cui nulla permane vi siano tuttavia delle leggi assolute? Chissà, forse non vi sono, e siamo solo noi che le costruiamo perché in questa fase storica così, noi Dormienti, abbiamo forgiato il mondo... Due sono gli ambiti precipui in cui scorgo questo dispiegarsi del Fuoco cosmico: la natura e l’anima, entrambe con i loro cicli, difficilmente separabili. Sulla prima non trovo ci sia molto da dire: chi ha una stretta affinità con le maree della natura, col mutare delle stagioni, la vita animale e vegetale, i moti della luna e del sole e tutto il mondo selvaggio e naturale. Più interessante fare qualche osservazione sul secondo aspetto: l’anima. “I confini dell’anima, per quanto lontano tu vada, non li scoprirai, neanche se percorri tutte le vie: così abis­ salmente si dispiega”. L’anima è un abisso senza fondo, un’essenza – che siamo noi stessi – che cela misteri, ignoti ai nostri stessi occhi. E questo perché “è dell’anima un logos che accresce se stesso”, ossia l’anima è in contatto diretto col Principio e, nel suo eterno mutamento che si accresce approfondendosi, il Principio si dona in maniera molto trasparente; l’uomo è l’animale che deve prendere posizione rispetto a sé stesso, l’animale non ancora definito (come scriveva Nietzsche). In questa sua indefinitezza costitutiva, nel suo doversi definire per essere, ecco svelato il Fuoco – il doversi definire che caratterizza il

mondo stesso. Ma, oltre a questa apertura dell’indeterminato, ricordiamoci che il Principio si mostra anche in leggi. Scavando alla ricerca dei confini dell’anima, scopriamo uno dei sensi della vita: “demone all’uomo l’indole”. Cosa vuol dire questo frammento? L’interpretazione è dibattuta, ma d’accordo con Tonelli e con altri esegeti, preferisco pensare che parli del daimon, del demone che ognuno di noi ha in sorte. Secondo i greci (e così pure i romani), ognuno di noi vive accompagnato da un’entità numinosa, chiamato appunto demone (ossia entità intermedia fra l’uomo e la divinità) dai

greci e genio dai romani. Questa entità, in fondo, non è altro da noi, ecco cosa ci dice Eraclito: il demone, il nostro destino personale, è il nostro carattere, quella parte di noi che orienta il corso della nostra vita facendo si che invece di un’accozzagli di eventi vi sia una storia, la nostra storia. Ecco un altro mistero sul sentiero del Risveglio: noi siamo parti di questo tutto che è il demone (potremmo ben chiamarlo sé) e allo stesso tempo ci relazioniamo a lui come se fosse altro da noi. Questa entità è riconoscibile lungo il corso del pensiero esoterico: è la mente o nous dei filosofi, l’Agathodaimon gnostico, l’Io Divino, il Santo Angelo Custode di Abramelin, la vera volontà di A.Crowley. Il sé custodisce il nostro destino, ciò che non possiamo fare a meno di essere e che dobbiamo trovare il modo di essere. Ma la relazione fra noi e lui non

è solo verticale, ma è quella fra un’entità superiore e una inferiore. Credo che l’esperienza del Risveglio possa anche tradursi così: l’armonia fra il sé (daimon) e l’Io (la nostra coscienza). Conseguire questa coscienza significa comprendere qual’è il proprio posto nel cosmo e deci-

Filoso–a dere della propria esistenza. Il rapporto fra il sé e l’Io diviene il dialogo, di parità: il sé modifica l’Io, attribuendogli un destino; ma l’Io modifica il sé, decidendo liberamente come, quando e dove realizzare questo destino. Forse il sé, come insegnano talune tradizioni, è quella parte della nostra anima che non si incarna mai, che impara da ogni vita e muta costantemente. Questo demone può assumere molte forme: un’entità personale con cui si dialoga, l’ispirazione, la visione; in ogni caso i suoi messaggi giungono da una sfera esterna rispetto alla coscienza e credo che l’obiettivo ultimo, l’esperienza che io chiamo Risveglio, debba essere di spianare la strada per la comunicazione con questo essere che noi stessi siamo, la nostra autenticità. Un dialogo che sempre si rinnova, perché fa parte della natura umana e della mutevolezza del tutto perdere continuamente il contatto col daimon. Ho illustrato il mio pensiero su cosa possa essere un’illuminazione, cercando sempre di sottolineare che in essa manca il carattere di “salvezza” e “fine definitiva” e forse che mancano persino scopi trascendenti. Per concludere vorrei citare un ultimo frammento di Eraclito che esprime bene questa natura priva di scopi del tutto: “l’eternità è un fanciullo che gioca, muovendo i pezzi sulla scacchiera: di un fanciullo è il regno”. ______________ Nota: Per questo articolo mi sono valsa della traduzione dei frammenti di Eraclito di Angelo Tonelli, in Eraclito, dell’Origine. P.56: Scacchi; p.57: Testa di filosofo e - in basso - folgore; p.58: Fuoco; p.59: Il gioco degli scacchi.

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Scienza

Singularity Paolo Maggi

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U

n nuovo termine circola da qualche tempo negli ambienti scientifici internazionali: sin­ gularity. La parola è presa a prestito dall’astrofisica: si riferisce a punti molto particolari nel sistema spazio-tempo, per esempio i buchi neri, in cui le regole della fisica che noi conosciamo sono completamente sovvertite. Analogamente, applicata alla tecnologia, indica il momento in cui l’evoluzione dei computer diventerà così rapida e profonda da creare una frattura senza precedenti nella storia dell’ umanità tra un prima e un dopo. Oggi non abbiamo in alcun modo la possibilità di prevedere le leggi che domineranno il mondo della singularity. Sappiamo solo che, da un certo momento in poi, nulla sarà più come prima. E questo momento forse è molto vicino. I teorici della singularity partono da una semplice osservazione: la velocità con cui i computer si evolvono è diventata ormai rapidissima. La loro potenza si duplica ogni due anni. Se tracciamo un grafico della loro crescita vediamo che esso disegna una curva di tipo esponenziale che si incrementa per multipli di due. A questo sviluppo esponenziale partecipa anche il progressivo abbattimento dei loro costi di produzione. Immaginare un fenomeno che si sviluppa nel futuro seguendo una curva logaritmica non è per niente intuitivo: la nostra mente si è evoluta ragionando in termini lineari e fa molta fatica ad immaginare un evento storico che avviene a velocità esponenziale. Per comprendere le ragioni della singularity occorre fare un grosso sforzo di immaginazione. Ma proviamo a considerare per un momento alcuni fatti: i nostri cellulari sono oggi circa un milione di volte più piccoli, un milione di volte meno costosi, e mille volte più potenti del computer che aveva in dotazione il Massachussets Institu­ te of Technology 40 anni fa. E solamente cinque anni fa nessuno avrebbe immaginato che 600 milioni di persone sarebbero state collegate fra loro usando un singolo social network. Ora c’è Facebook, e altri social network presto lo rimpiazzeranno. Cinque anni fa era impensabile avere a disposizione uno strumento come l’Iphone. E oggi c’è qualcuno che ipotizza di miniaturizzarli e di impiantarli nel cervello per curare alcune malattie. Utopia? Forse no, visto che già oggi 30.000 mala-

Scienza

ti di Parkinson sono portatori di impianti neurali. E la tecnologia sta rapidamente sostituendo l’uomo in settori in cui pensavamo che non ne avremo potuto fare mai a meno: più di 2.000 robot sono utilizzati nella guerra in Afghanistan (gli ormai famosi droni, ovvero uav, unmanned ae­ rial vehicles). Se dunque è vero che i computer stanno diventano così incredibilmente veloci e che la loro potenza cresce a ritmi così rapidi, è ipotizzabile che possa arrivare il momento in cui essi diverranno capaci di fare cose simili a quello

che può fare un’intelligenza umana, di generare un’attività cosciente, non solo fare calcoli aritmetici o comporre musica, ma guidare un’auto, leggere un libro, prendere decisioni etiche, apprezzare un’opera d’arte, magari fare qualche battuta spiritosa ad una festa di compleanno. I teorici della singularity sono convinti che i computer continueranno nel loro progresso, fino a diventare talmente intelligenti da superare di gran lunga le capacità mentali dell’uomo. Secondo loro, a questo contribuirà il fatto che, ad un certo punto del loro sviluppo, essi stessi si prenderanno carico della propria crescita, affrancandosi dalla inefficiente mente dei loro creatori umani. Quando (e se) questo avverrà, l’umanità, i nostri corpi, le nostre menti, la nostra civiltà saranno completamente, irreversibilmente e imprevedibilmente modificati. Questa sarà l’era della singularity. Potrebbe trattarsi dell’evento culturale più importante nella storia dell’uomo, dopo l’invenzione del linguaggio. D’altro canto, già nel lontano 1965, agli albori dell’era dei computer, il matematico inglese I.J.Good descriveva uno scenario che egli chiamò “esplosione dell’intelligenza”: “Definiamo macchina superintelligente una macchina capace di superare di molto l’attività intellettuale di un uomo comunque molto intelligente. Poiché la progettazione di macchine è una delle attività intellettuali dell’uomo, se un computer molto avanzato diventasse in grado esso stesso di progettare strumenti meglio della mente umana si creerebbe un’ “esplosione dell’intelligenza” il cui primo risultato sarebbe che l’invenzione di questa macchina superintelligente sareb-

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be l’ultima invenzione che l’uomo avrebbe bisogno di fare”. Ma è possibile calcolare quando avverrà tutto ciò? Secondo i calcoli di Raymond Kurzweil, unanimemente ritenuto il massimo teorico della singularity, questo mutamento epocale avverrà fra 35 anni. Kurzweil stima che, alla fine

Scienza degli anni ‘20 di questo millennio i computer saranno capaci di prestazioni a livello della mente umana. E nel 2045, grazie al vasto incremento della potenza dei computer e ai loro bassi costi, la quantità di intelligenza artificiale creata sarà circa un miliardo di volte la somma di tutte le intelligenze umane esistenti oggi. Definire Kurzveil un mitomane e le sue ipotesi follie forse potrebbe essere un errore: Bill Gates, che di fiuto sulle previsioni ha dimostrato averne parecchio, lo ha definito la persona più qualificata per poter avanzare una previsione sul futuro e sull’intelligenza artificiale. E Bill Gates non è l’unico a credere nella singularity: da tre anni, la NASA ospita nella sua sede i corsi di studio interdisciplinari per laureati e manager della Singularity University. Ma cosa accadrebbe se tutto ciò dovesse davvero realizzarsi? Come abbiamo visto, la singularity ci dice che è estremamen-

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te difficile, se non impossibile, predire il comportamento di queste superintelligenze artificiali con le quali potremmo dover condividere il pianeta. Eppure qualcuno ha provato ad immaginare cosa accadrebbe se tutto ciò dovesse realizzarsi. Potremmo doverci parzialmente fondere con esse (o con loro?) per potenziare le nostre capacità mentali così come oggi potenziamo le nostre capacità fisiche entrando nelle nostre auto e nei nostri aerei. Alcuni pensano che le intelligenze artificiali ci aiuteranno a gestire gli effetti dell’età e della morte prolungando indefinitamente la nostra aspettativa di vita. Altri pensano che un supercomputer potrà riscrivere e correggere il genoma umano. Qualcuno ipotizza addirittura che potremo scannerizzare le nostre coscienze dentro un computer e vivere virtualmente all’infinito, in forma di software. Ma, secondo altri ancora, i com­ puter potrebbero decidere che sia ora di fare a meno dell’umanità, e distruggerla. E quest’ultima ipotesi non è propriamente campata in aria: non c’è bisogno di essere computer superintelligenti per capire che introdurre una forma di vita superiore nella nostra biosfera è un macroscopico errore darwiniano che potrebbe portare all’estinzione della specie umana, divenuta inutile, inadeguata, e magari scomoda. È questo lo scenario ipotizzato più di die-

ci anni fa nella saga filmica di Matrix. Gli scenari possibili sono molti, spesso in contrasto fra loro. Ma quello che queste teorie hanno in comune è la trasformazione della nostra specie in qualcosa di irriconoscibile rispetto all’ umanità dell’inizio del terzo millennio. Per la verità le critiche non mancano: molti ritengono che la Sin­ gularity sia un nonsenso. Gli scettici si domandano se un computer potrà mai replicare la complessità della biochimica di un cervello umano e divenire realmente intelligente. Ma soprattutto si chiedono cosa si intenda per intelligenza, nel caso di un computer. Qualcuno ha la risposta già bella pronta: un computer potrà dire di possedere un’ intelligenza artificiale, per così dire forte, quando sarà capace di superare il test di Turing. Cioè, a spiegarla molto semplicemente, un computer dovrebbe essere capace di spacciarsi per un uomo in un test cieco, per esempio parlare a telefono convincendo l’ascoltatore che sta parlando con un vero essere umano, magari la nostra cameriera che spiega a un creditore che il suo datore di lavoro è partito all’estero per un lungo viaggio. I computer potranno mai riprodurre la complessità della mente umana? Difficile dirlo, ma non possiamo escluderlo dogmaticamente. Nel frattempo una risposta a questa domanda sta cercando di darla l’Ecole Poli­ technique di Losanna, in Svizzera, dove dal 2005 si sta lavorando al Blue Brain project: un tentativo di creare una simulazione, neurone per neurone, del cervello di un mammifero usando un supercom­ puter Blue gene IBM. Ad oggi sembra che siano riusciti a riprodurre una piccola parte della neocorteccia di un topo, contenente circa 10.000 neuroni. Il programma è di riprodurre per intero un cervello umano nei prossimi dieci anni. Resta da capire a questo punto a chi spetterà il compito di educare questo cervello e quanto tempo si dovrà impiegare. Nel frattempo è già bell’e pronto il supercomputer Watson, un sistema che prende il nome dal fondatore di IBM. Si tratta di un esempio della tecnologia Deep Que­ stion Answering, capace di comprendere il linguaggio umano su innumerevoli argomenti e in grado di giudicare consapevolmente in base a quanto ascoltato. Come il supercomputer IBM Deep Blue che ha battuto il campione mondiale di scacchi Kasparow nel 1977, Watson è stato messo alla


Scienza

prova sfidando e battendo due campioni storici del seguitissimo telequiz americano Jeopardy (una specie del nostrano Chi vuol esser milionario). Dunque, il mondo scientifico, o almeno una parte di esso, si preoccupa di non poter più essere in grado, fra qualche anno, di prevedere e programmare lo sviluppo della scienza e della tecnologia. La preoccupazione è degna di lode, ma risulta un po’ curiosa, se si pensa che sono almeno trecento anni che la scienza, tranne rarissime eccezioni, ha rinunciato al compito di interrogarsi seriamente sulle sue prospettive future. Quei pochi che lo hanno fatto, operavano spesso in contesti del tutto teorici e, comunque, lontanissimi dalla realtà scientifica corrente. D’altronde gli stessi esperti della singularity ammettono che nessuno aveva previsto l’enorme sviluppo attuale della tecnologia. Ma, aggiungerei io, per caso qualcuno aveva previsto la crisi di credibilità in cui versano oggi le scienze mediche, pure all’apice del loro progresso? E dopo aver considerato negli anni ’60 dello scorso secolo in via di estinzione tutte le malattie infettive, qualcuno aveva previsto che a cinquant’anni di distanza, saremmo stati preda di centinaia di malattie infettive pressoché incurabili? E ancora, dopo il boom demografico del dopoguerra che tanto aveva allarmato gli intellettuali dell’epoca, qualcuno aveva previsto che il mondo occidentale sarebbe rimasto senza figli? E infi-

ne, dopo gli entusiasmi per lo sbarco sulla luna nel 1969, qualcuno aveva forse previsto che un presidente americano avrebbe rinunziato ad ogni progetto di conquista dello spazio? Dunque il disinteresse ad interrogarsi sulla direzione, sul criterio e sul senso da dare al progresso scientifico, è un vezzo ormai antico e radicato. Gli scienziati e i tecnici oggi, barricati nei loro laboratori, stanno perdendo l’intelligenza complessiva della scienza e della tecnica nella storia e nella società. E questo è un errore che potremmo pagare ad un prezzo assai elevato. Come quello di non essere in grado di prevedere e di governare un fenomeno così complesso come quello della singularity che, però, potrebbe essere solo una questione, appunto, di intelligenza complessiva del progresso. Perché, indubbiamente, la singularity così come alcuni la prefigurano, può essere anche molto pericolosa. Ma eliminarne i rischi potenziali fermando il progresso della tecnologia non sarebbe etico, e forse sarebbe ancor più pericoloso. Forse è meglio accettare la sfida. Ma possediamo le armi per poterla vincere? L’intelligenza complessiva della scienza non è più considerata oggi prerogativa del singolo, ma è stata avocata a sé dalle chiese, o dai partiti, o quel che resta di loro, che esercitano il loro potere di previsione e di programmazione, anche piuttosto male, forse più preoccupati di mantenere il controllo sulla scienza, che da altre ragioni filosofiche.

Possedere l’intelligenza complessiva del proprio ruolo è una caratteristica di quei pochi che sono ancora capaci di coltivare campi diversi del sapere umano, e che riescono a sottrarsi alla marea montante dell’analfabetismo culturale, che oggi ci vorrebbe tutti superesperti nel nostro ristrettissimo campo d’interesse e totalmente ignoranti di tutto il resto. Tornare ad avere l’intelligenza complessiva della scienza, vuol dire tornare considerare l’uomo di scienza come punto di incontro e di sintesi tra sapere scientifico e sapere umanistico, riuscire a individuare come il proprio campo di conoscenza si colloca nella società e nella storia. Questa prerogativa, considerata imprescindibile in età pregalileiana, si è progressivamente perduta nei secoli successivi. Nella cultura dell’antico scienziato filosofia, religione, letteratura, scienza erano collegati tra loro, come in quel gioco in cui si uniscono tanti punti tra loro, per delineare sul foglio un’unica immagine. Lo scienziato pregalileiano conosceva bene il mito cinquecentesco del Golem, che ammonisce l’uomo a non costruire mostri, a non generare prodotti la cui potenza non si abbia la capacità di dominare. Mi chiedo quanti giovani scienziati oggi sappiano cos’era il Golem. P.60: The Matrix, il codice; p.61: 1968, l’attore Keir Dullea interpreta David Bowman in ‘2001, A Space Odissey’ e sotto il computer HAL9000; p.62: L’implacabile Terminator modello T800101; p.59: Il supercomputer IBM Blue Gene.

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Sole e Terra Massimo Angelini

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a coscienza comune a tutti gli uomini mi conferma che appare ciò che è nella realtà; la maggior parte dei rappresentanti della filosofia e della scienza cercano con ogni sforzo di smascherare questo “appare” come concetto vuoto e ingannevole: sembra ciò che non è. Per me non è assolutamente indifferente il fatto di pensare e sentire con il genere umano oppure con chi è incline alla negazione, vale a dire all’eresia di ciò che è comune a tutti gli uomini, al pensiero di cerchie isolate, di circoli e di singoli.1 A scuola s’impara che il sole sta al centro del suo sistema e che la Terra e gli altri pianeti gli girano intorno lungo orbite ellittiche; e s’impara che la Terra gira intorno al proprio asse in un giorno e una notte e compie l’orbita intorno al sole in un anno: questo e molto altro è cosa abbiamo imparato ad accettare e conosciamo da circa 400 anni, dopo che sono state accolte le critiche al modello di Tolomeo (che al centro dell’universo poneva la Terra) proposte nel passaggio tra i secoli xvi e xvii da Copernico, Keplero e Galileo. Il nuovo modello funziona, fonda l’astronomia di oggi, spiega ogni fenomeno e nessuno ha dubbi. Ora, però, se per un attimo mettiamo da parte le buone ragioni che la scienza sperimentale ci ha dettato e quanto s’impara a scuola, e se proviamo a guardare il cielo da un altro punto di vista - dal punto di vista dei nostri occhi, così come lo guarderebbe un bambino - possiamo vedere un mondo diverso da quello che siamo sicuri di conoscere. Guardiamo con gli occhi e senza pregiudizi: notiamo che la Terra pare ferma, immobile nello spazio che la circonda, nulla ci parla del suo movimento; vediamo la luna e il sole che ogni giorno le girano intorno, da oriente a occidente; vediamo i pianeti che si muovono di un moto regolare anche se a prima vista pare erratico; vediamo una stella che pare fissa, la stella polare, anche se l’osservazione di molte generazioni racconta 1 Pavel A. Florenskij, La venerazione del no­ me come presupposto filosofico, in Il valore ma­ gico della parola [1920-1922], Milano 2003: pagina 22. Nell’edizione italiana, il termine obščečelovečeskoj è reso letteralmente con “omni-umano”: qui ho preferito sostituirlo con “comune a tutti gli uomini”.


che si muove di un moto lentissimo, e vediamo la volta celeste che le ruota intorno in senso antiorario. Vediamo che il sole percorre un giro completo intorno alla Terra nel tempo di un giorno e una notte; il ritmo regolare del suo movimento nel cielo descrive un arco diurno che di giorno in giorno cambia progressivamente: quanto più la traiettoria del sole si abbassa nel cielo e si avvicina all’orizzonte, tanto più diminuisce il tempo fra l’alba e il tramonto, fino a quando diventa brevissimo e cessa di diminuire - è il giorno del Solstizio d’inverno - poi torna a crescere. Quanto più la traiettoria del sole si allontana dall’orizzonte e si alza nel cielo, tanto più aumenta il tempo diurno fra l’alba e il tramonto, fino a quando diventa lunghissimo e cessa di aumentare - è il giorno del Solstizio di estate - poi torna a diminuire. E da quando la traiettoria del sole si è trovata nella posizione più bassa o più alta sull’orizzonte a quando ritornerà nella stessa posizione, passa un anno. Ecco, noi con i nostri occhi vediamo semplicemente questo: vediamo il giorno e la notte; vediamo la corsa delle stagioni nel cerchio dell’anno; percepiamo la Terra ferma e vediamo il sole che le gira intorno. E se fosse davvero così? Affermarlo può sembrare uno scherzo, una provocazione o un’espressione di follia. Ma - pensiamoci - in assenza di punti di riferimento fissi nell’universo, che sia il sole a girare intorno alla Terra o, come da quattrocento anni siamo educati a pensare, la Terra intorno al sole, quale differenza fa? La differenza sta nel modello che spiega le geometrie del cielo e i suoi movimenti. Tutto qui. In assenza di un punto fisso di riferimento, che al centro della giostra celeste si voglia pensare il sole, o la Terra, o la luna, o la stella Sirio, tutto sommato può essere considerato equivalente, a patto di cambiare il calcolo delle posizioni dei corpi celesti, delle loro traiettorie e delle loro velocità. Dal proprio punto di vista, Galileo Galilei aveva ragione, ma anche il suo contemporaneo Tycho Brahe - che affermava la Terra immobile al centro dell’universo, con la luna e il sole che le girano intorno, e i pianeti che girano intorno al sole - dal proprio punto di vista, aveva ragione, e anche il suo model-

lo, coerente con l’evidenza, può spiegare con grande precisione le meteore, le stagioni, le eclissi, il moto di stelle e pianeti e ogni fenomeno celeste. Questo significa che è indifferente sostenere che la Terra gira intorno al sole o il che sole gira intorno alla Terra? Qualcuno potrebbe sostenere che un modello è superiore all’altro per ragioni matematiche o teologiche; ma forse si potrebbe anche osservare che l’adozione di un modello rispetto all’altro può comportare alcune conseguenze riguardo alla salute mentale di ciascuno e ... alla salute della democrazia. Perché? Pensiamo. I nostri occhi vedono il sole che ogni giorno gira intorno alla Terra: questo vuole dire che secondo la teoria che pone il sole al centro del suo sistema i nostri occhi ci ingannano, che il nostro sguardo non basta a capire come funziona il mondo, che ci servono attrezzature complicate ed esperti che ci aiutino a comprendere come veramente stanno le cose; vuole dire, dunque, che non possiamo fidarci di ciò che vediamo, ma dobbiamo delegare la nostra comprensione del mondo a chi ci spiega che i nostri sensi sono ingannevoli e apprendere che le cose non stanno come ci sembrano ma come dice la scienza e rinunciare all’evidenza; noi vediamo una cosa, ma la verità è tutt’altra: non sembrerebbe una buona strada per diventare un poco matti? Se invece pensassimo la Terra al centro del movimento celeste, allora i nostri occhi direbbero la verità, basterebbero per capire il mondo; potremmo avere fiducia nei nostri sensi; avremmo meno necessità di affidare la nostra capacità di conoscere il mondo a chi ci traduce cosa vediamo, spiegandoci che la verità è un’altra; i sacerdoti del sapere, dunque, avrebbero un po’ meno potere; il semplice sguardo del più semplice tra gli uomini basterebbe a cogliere e capire ciò che è evidente a tutti, a cominciare dai bambini. Chissà, forse potremmo sentirci un po’ meno matti e forse impareremmo a riprendere il gusto per le semplici evidenze e ... anche a delegare un po’ di meno la nostra arte di decidere cosa è vero e cosa non lo è.

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P.64-65: L’alba dallo Space shuttle, NASA.

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‘Discorso sulla servitù volontaria’ Un testo del «500 che aiuta a ri—ettere sulla servitù volontaria nelle odierne democrazie - parte I Antonio Binni

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Il 7 maggio 1579 il parlement di Bordeaux condannó alle pubbliche fiamme la seconda edizione del pamphlet ugonotto di Simon Goulart (1577) dal titolo Mémoires de l’e­ stat de France sous Charles IX. L’evento, per quanto grave, in verità, non avrebbe, in sé, alcunchè di straordinario, dal momento che la pratica del rogo, più che frequente, era addirittura usuale nel conflitto religioso che, all’epoca, divorava la Francia, divisa fra cattolici e ugonotti. Nella cui linea di pensiero militante parve ricondursi l’opera destinata al fuoco divoratore. Se l’avvenimento ha finito, peró, per divenire degno di attenzione, ció è dipeso, in primis, dal fatto che, nella serie di pubblicazioni protestanti, che componevano le Memoires, figurava anche il testo Discours sur la ser­ vitude volontaire con il titolo Contr’un. Un’opera dal contenuto ancor oggi di sorprendente modernità nel panorama degli studiosi della politica. Tanto, nella sua lunga vita, da essere (per quanto del tutto impropriamente: sul che vds. infra sub 10) divenuta un testo di riferimento per tutti i gruppi anarchici, e libertari in genere, e, addirittura, dei fautori, in politica, del principio di «non violenza». La ragione principale per la quale l’accadimento – a prescindere dall’indubbio valore dell’opera, oltre che dall’interesse che suscita la sua parabola interpretativa – è divenuto particolarmente meritevole di memoria sembra, tuttavia, essere altro. L’autore del Discours altri non è, infatti, che Etienne de La Boétie, l’amico idealizzato da Montaigne. Da qui, quanto meno, l’opportunità di una avvertita indagine, particolarmente accurata, sulla vicenda nei suoi profili più significativi. Il che motiva poi – e, se non andiamo errati, pure giustifica – la ragione per la quale non abbiamo fatto l’ancorchè minimo cenno al caso oggi in esame nel di­ vertissement che abbiamo, a suo tempo, dedicato al tema del «rogo dei libri»1. 2— È inutile negarlo. Per i più, Etienne de La Boétie è noto, principalmente, se non esclusivamente, per essere stato l’amico nobilitato di Montaigne, che lo conobbe quando aveva, all’incirca, venticinque anni, lavorando, entrambi, al parlement di Bordeaux2. Ciascuno aveva sentito parlare molto dell’altro, ancor prima di

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conoscersi3. Il che avvenne, peraltro, non subito. Oltre che per caso, ad una festa. Alla quale erano stati entrambi invitati4. Da subito, si trovarono peró «tanto uni­ ti, conosciuti e legati l’uno all’altro» che, da quel giorno, divennero amici intimi5. La loro, fin dall’inizio, fu una grande amicizia, «cosí completa e perfetta che certo non si legge ne sia esistita un’altra simile (…). Per costruirne di simili è ne­ cessario il concorso di tante cose che è già molto se la fortuna ci arriva una volta in tre secoli»6. Nelle amicizie, come queste, le anime «si mescolano e si confondono l’una nell’altra con un connubio cosí totale da cancella­ re e non ritrovare più la connessura che le ha unite»7. Montaigne non sembrava neppure in grado di esprimere a parole ció che provava. Come scrisse in una nota a margine: «Se mi si chiede di dire perché l’amavo, sento che questo non si

puó esprimere che rispondendo: «Perché era lui; perché ero io»8. A scanso di malignità e sospetti, che pure non sono mancati9, va, al proposito, chiarito che ambedue si ispiravano ad un preciso modello classico di amicizia, quale quello in essere fra il filosofo Socrate e il suo amico di bell’aspetto Alcibiade10. Descrivendo la propria amicizia, Montaigne, proprio per uniformarsi al paradigma classico vagheggiato, non ha, infatti, mai perso occasione per parlare della «bruttezza» di La Boétie che, peró, «rivestiva un’anima bellissima»11. La verità è che, sebbene per molti aspetti diversi, i due erano fatti per intendersi per natura, per studi e cultura. Ambedue estremamente intelligenti, avevano entrambi studiato giurisprudenza. Tanto l’uno che l’altro erano inoltre appassionati di letteratura e di filosofia, nonché determinati a vivere una vita piena come quella degli

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eroi e dei saggi, in compagnia dei quali erano cresciuti12. Si frequentarono per soli sei anni e circa un terzo di quel tempo lo passarono lontani, poiché entrambi erano spesso in viaggio per lavoro13. Eppure, quel breve lasso di tempo cementó la loro unione

Letteratura spirituale più di quanto avrebbe potuto fare una vita intera spesa assieme14. Non va, infatti, dimenticato che Montaigne rimase più di una settimana al capezzale dell’amico colpito dalla peste, mostrando, col che, un coraggio, per certo, non comune, frutto, all’evidenza, di un sentimento amicale profondamente autentico. La Boétie morí alle tre di mattina di mercoledí 18 agosto dell’anno Domini 1563, dopo avere affrontato la morte da perfetto stoico, ossia, con fermezza e saggezza, perché, come scrisse Montaigne, «aveva lo spirito foggiato sul modello di altri secoli e non di questo»15. Montaigne, che ne descrisse minuziosamente tanto l’agonia, quanto il sofferto transito16, non si riprese mai del tutto dalla morte dell’amico, al quale, nei propri sentimenti, riserbó sempre un posto assolutamente previlegiato. Neppure minimamente scalfito dal pur indubbio affetto mostrato nei confronti della sua discepola Marie de Gournay, fondatrice dell’influente Académie Française, della quale, in quanto donna, non potè, peraltro, mai far parte, pioniera dell’ascesa del femminismo, che, con malcelata invidia, nella prefazione ai Saggi, da lei curata, scrisse: «Fu mio per soli quattro anni, non più a lungo di quanto La Boétie fu suo»17. A tener desto quel sentimento, contribuí poi sicuramente il fatto che Montaigne ereditó tutti i libri dell’amico. A conferma che il filo, dolce e forte, che legava i due era, anche da questo significativo profilo, destinato a sopravvivere alla finitezza del tempo che la sorte aveva riserbato all’amico sfortunato. 3— Ci conferma Montaigne – che è la principale fonte di conoscenza della vita dell’amico, ricordato sempre con affetto e malinconia – che il “Discorso sulla servitù volontaria” circolava manoscritto a livello locale fra le persone più colte. Sicchè non è neppure azzardato congetturare

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che proprio la lettura del “Discorso” abbia poi indotto Montaigne a volerne conoscere l’autore. Sia come sia, va riconosciuto che Montaigne comprese, da subito, la straordinaria importanza dell’opera. A tal segno da essere intenzionato a presentare i suoi Saggi puramente e semplicemente come una cornice, il cui quadro centrale avrebbe dovuto essere proprio il “Discorso sulla servitù volontaria” del suo geniale amico. Il che avvenne, peraltro, per gradi, oltre che con continui ripensamenti18, dettati, tuttavia, unicamente dai venti della Storia. Poco più di un decennio dopo la morte di La Boétie, il suo Discorso cominció, infatti, a circolare come un trattato protestante estremista, sotto il titolo, a effetto, già sopra ricordato di Contr’un. In quest’ottica, va, infatti, letta tanto la menzione del libro e la sua difesa nella

Introduzione alla prima versione finale dei Saggi – assolutamente coraggiose perché, in quello stesso momento, in una piazza di Bordeaux, il “Discorso sulla ser­ vitù volontaria” veniva dato alle fiamme – quanto il tentativo compiuto da Montaigne di sottrarre all’opera quel carattere rivoluzionario e di disobbedienza civile che le era stato invece (arbitrariamente, oltre che strumentalmente, come si dirà oltre) attribuito. Non è, infatti, un caso che Montaigne, proprio a tutela della reputazione dell’amico, si sia fatto premura di informarci che il “Discorso” è stato scritto dal suo autore «a mo’ di eser­ citazione soltanto, come argomento vol­ gare, fritto e rifritto mille volte nei libri»19. Per di più quando questi era appena un «ragazzo di sedici anni»20. Il che, alla luce della straordinaria importanza dell’opera, è, francamente, dubbio.


nella scrittura, la circostanza che Montaigne avrebbe potuto avere un interesse personale, in verità, sicuramente tutt’altro che marginale, nell’attribuire l’opera ad altri, visto che, proprio in quel momento, la Servitù volontaria stava bruciando nella piazza di Bordaux.

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Anche se il testo mostra, sicuramente, la precoce genialità dell’autore, come dimostra il suo esame, per quanto necessariamente circoscritto alle linee portanti dell’impianto logico-argomentativo accolto da La Boétie per addivenire alle conclusioni poi tratte per inferenza. 4— Preliminarmente, non ci si puó, tuttavia, sottrarre dall’affrontare un problema, per certo, non di poco conto. E’ noto, infatti, che non è mancato chi ha sostenuto che la paternità della Ser­ vitù volontaria, anziché a La Boétie, dovrebbe, invece, essere attribuita allo stesso Montaigne21: assunto desunto precipuamente dalle divagazioni, cosí care a Montaigne, presenti pure nel Discorso. La tesi va, perció, sottoposta al vaglio più rigoroso. Il che permette all’autore di queste righe

una digressione che, per certo, non spiacerebbe, né a Montaigne, né a La Boétie. 5— Il Discorso, fin dal suo incipit, è pieno di esempi tratti dalla storia classica. Proprio come i Saggi. Come Montaigne, anche La Boétie è sicuramente incline alle digressioni. Frasi quali: «Ma per tornare al nostro tema, che avevo quasi perso di vista»22 o del tipo: «Ma per riprendere il filo del di­ scorso, da cui non so come mi ero allonta­ nato»23, riportano, infatti, inevitabilmente, alla mente lo stile colloquiale di Montaigne, che, anziché scrivere in abiti paludati, preferiva, invece, come noto, esprimersi in termini discorsivi. A favore della attribuzione del Discorso all’autore dei Saggi si potrebbe addurre, altresí, e con un fondamento assai meno labile di una mera somiglianza stilistica

Sicchè, ascrivere la paternità dell’opera ad altri sarebbe stata una perfetta opera di disinformazione che Montaigne era sicuramente in grado di compiere, da fine psicologo qual era. In ogni caso, capace di ricorrere all’inganno, ogniqualvolta lo aveva ritenuto necessario24. L’idea, per quanto affascinante, tuttavia, non convince25. Non solo perché è difficile scorgere in Montaigne una vena rivoluzionaria. Ma anche, e soprattutto, perché la veduta antagonista urta irrimediabilmente contro l’amicizia esistente fra i due scrittori. Un’amicizia che, in Montaigne, era alimentata da una profonda, sincera, ammirazione nei confronti di La Boétie, attestata in tutta la sua opera, che, all’evidenza, non avrebbe mai tollerato l’abuso strumentale del nome dell’amico per sottrarsi al pericolo incombente. Fronteggiato, invece, sempre con coraggio e determinazione. Come si è già in precedenza ricordato, allorchè Montaigne sfidó il contagio della peste pur di non abbandonare l’amico sul letto di morte. Quanto poi al fatto che i due stili di scrittura si assomiglino cosí tanto, la circostanza trova un’altra, e invero più semplice, spiegazione, rinvenibile nel confronto abituale fra i due autori. Oltre che nella elaborazione costante delle idee dibattute, cosí intenso da divenire, successivamente, dal profilo formale, un’autentica fusione, un vero e proprio unicum26. Anche perché ambedue gli autori erano per di più pur sempre cresciuti in compagnia dei più grandi scrittori dell’antichità, letterati o filosofi che fossero, al cui stile si erano uniformati e dal quale erano rimasti comunque permeati. 6— Appurata, cosí, con ragionevole certezza, la paternità dell’opera, è possibile scendere all’esame del contenuto del “Discor­ so”, che riconduce il suo autore nel cam-

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po dei teorici della politica. Il saggio, per quanto risenta ampiamente della formazione largamente nutrita di rimeniscenze classiche, con sottili ed acuti argomenti, si dipana sul filo della sobria voce della ragione. L’obiettivo polemico dell’autore è la tirannide, incarnata da un «qualche omuncolo che spesso è il più vigliacco e il più effemi­ nato della nazione»27. Eppure, questa sbiadita figura, attraverso quei solo «cinque o sei individui», che le sono più vicini solo perché «complici delle sue crudeltà, compagni dei suoi pia­ ceri, ruffiani delle sue dissolutezze e soci delle sue ruberie» ‑ che, a loro volta, hanno, sotto di loro, «seicento approfittatori che hanno sotto di loro seimila cui fanno fare carriera», e, dopo costoro, «una lun­ ga schiera»28 ‑ riesce a tenere in schiavitù l’intero paese. La catena di sottoposti, che si rendono, a loro volta, padroni gli uni agli altri, tiene, infatti, tutti costoro attaccati al tiranno, come ad una corda, esattamente come Omero29 dice di Giove, che «si vanta di potere tirare a sé tutti gli dei dando uno strattone alla catena»30.

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Spietata è poi l’analisi di queste figure di incatenati, che pagano, a caro prezzo, la rispettiva possibilità di farsi tiranno l’uno dell’altro, (homo homini tyrannus), ovviamente, sempre del più debole, in un decrescente crescendo. La loro briciola di libertà è, infatti, contrassegnata dal costante pericolo costituito dal capriccio del tiranno. Che, spesso, si traduce in crudeltà, e sempre, in pedissequo conformismo. In crudeltà, perché la violenza è pur sempre un istrumentum regni, che, per definizione, nega lo stesso concetto di amicizia, non potendo «esservi amicizia dove c’è crudeltà»31. L’amicizia «si alimenta», infatti, «dell’uguaglianza, che non vuole procedere squilibrata ma sempre alla pari»32. Il che non è appunto possibile perché il tiranno è «al di sopra di tutti» 33. Sicchè «sta già oltre i confini dell’amicizia»34. In conformismo, perché chi vuole sopravvivere, deve «pensare» e volere come il tiranno, e, «per soddisfarlo precedere addirittura i suoi pensieri. Non basta», infatti, «che obbediscano», ma «devono compiacerlo, devono darsi da fare, tor­

mentarsi, ammazzarsi per occuparsi dei suoi affari; e inoltre devono godere del suo piacere, abbandonare i propri gusti per quelli del tiranno, forzare il proprio tem­ peramento»35. In sintesi, «spogliarsi della propria natu­ ra»36, per essere pronti a presentarsi al tiranno «come se andassero al macello, per offrirsi a lui cosí grassi e ben pasciu­ ti, e fargli voglia» perché il tiranno «ama solo le ricchezze e depreda unicamente i ricchi»37. Una vita che, come emerge in termini di fulgida evidenza, tutto è tranne che vita, posto che non esiste una condizione «più miserabile del vivere cosí»38. Pure perché, da un tale tormento, non si ricava alcun apprezzabile vantaggio, considerato che «Il popolo di solito non accusa il tiranno per il male che soffre, ma i propri governanti»39, che «accumu­ lano contro di loro migliaia d’oltraggi, migliaia di insulti, migliaia di maledizio­ ni»40 da parte dei vessati, «tutti a gara» fra loro nel maledirli per averli «in orrore più delle bestie selvagge»41. Questa è, dunque, la «gloria» e «l’onore» che si ricava


I, 28, pag. 244. 4 Cfr. Biografia, op. pag. citt. 5 Cfr. Saggi cit. pag. 250-251. 6 Cfr. Saggi cit., pag. 244. 7 Cfr. Saggi cit., I, 28, pag. 250. 8 Saggi cit., 28, pag. 250. 9 Cfr. Biografia cit., particolarmente a pag. 167. 10 Biografia cit. pag. 106.

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a essere non governati, ma tiranneggiati. Il percorso logico-argomentativo dell’autore prosegue quindi col chiedersi perché è cosí tanto radicata «questa testar­ da volontà di servire». Che non affonda le sue radici, né nelle «alabarde», né negli «squadroni a cavallo», né nelle «armi»42, quanto, invece, nell’abitudine, nell’igno­ ranza, nei «circenses» e nella «religione». Nell’abitudine, «che ci insegna a ingurgi­ tare, senza trovarlo amaro, il veleno del­ la servitù43, che immunizza come accadde a Mitridate. Nell’ignoranza, perché «i libri e l’istruzione più di ogni altra cosa danno agli uomini il sentimento e l’intel­ ligenza di riconoscere se stessi e d’odiar la tirannide» 44. Come sapeva il “Gran Turco”, nelle cui «terre non ci sono sapienti ed egli non ne richiede»45. Nei «circenses» che, unitamente alle elargizioni, «era­ no gli strumenti con cui gli antichi tiran­

ni addormentavano i loro sudditi sotto il giogo. In tal modo i popoli instupiditi, in­ vaghiti di tali passatempi, divertiti da un vano piacere che abbagliava la loro vista, s’abituavano a servire pedissequamen­ te»46. Nella religione, perché i tiranni assumono «gli attributi della divinità a di­ fesa della propria vita malvagia»47. ______________ Note: 1 Al tema dei libri condannati alle pubbliche fiamme, e ai profondi significati sottesi al gesto, abbiamo dedicato alcune riflessioni nel saggio Il rogo dei libri, comparso in questo numero della Rivista, al quale ci permettiamo di rinviare per ogni riferimento. 2 Cfr. Sarah Bakewell, Montaigne, L’arte di vive­ re pag. 103, Roma, nella collana Campo dei Fiori alla quale, di seguito, si farà, per lo più, riferimento come Biografia. 3 Cfr. Saggi, di seguito sempre citati nell’edizione a cura di Fausta Garavini, Milano, 1992, sub

11 Cfr. Saggi cit., III, 12, pag. 1414. 12 Per tutte queste notizie, cfr. Biografia cit. pagg. 103 e ss. 13 Cfr. Biografia cit. pag. 103. 14 Cfr. Biografia cit. pagg. 103 e 104. 15 Cfr. Saggi cit. I, 28, pag. 259. 16 Cfr. Biografia cit. pag. 118 e ss. 17 Citazione tratta dalla Biografia cit., pag. 333. 18 Cfr. Biografia cit. pag. 110 e ss. 19 Saggi cit. pag. 259. 20 Saggi cit. ivi. 21 Anche questo profilo risulta ampiamente trattato dalla Bakewell nella sua Biografia, ormai più volte citata, a pag. 115 e ss. 22 La citazione è tratta dalla pag. 32 del Discorso da ultimo pubblicato, nella forma di Istant Bo­ ok, Milano, 2011. A questa pubblicazione si farà riferimento pure per tutte le ulteriori citazioni del testo di La Boétie. A conferma della fortuna, anche recente, che l’opera ha riscosso nel panorama letterario italiano, va, altresí, ricordata l’edizione Macerata 2004, traduzione it. di Carla Maggiori, nonché la traduzione di Fabio Ciaramelli, Torino, 1995. 23 Cfr. Discorso, pag. 44. 24 Cfr. Biografia cit. pag. 116. 25 Cosí anche la Bakewell, in op. cit., pag. 115. 26 Cosí pure la Bakewell, in op. cit., a pag. 117. 27 Cfr. Discorso nella edizione cit., a pag. 6. 28 Ivi, pag. 45. 29 In Iliade, VIII, 5-27. 30 Discorso nella edizione cit., pag. 45. 31 Ivi, pag. 53. 32 Ivi, pag. 53 cit. 33 Ivi. 34 Ivi. 35 Ivi, pag. 48. 36 Ivi. 37 Ivi, pag. 49. 38 Ivi, pag. 48. 39 Ivi pag. 56. 40 Ivi. 41 Ivi. 42 Ivi, pag. 44. 43 Ivi, pag. 22. 44 Ivi, pag. 30. 45 Ivi. 46 Ivi, pag. 36. 47 Ivi, pag. 41. P.66: La casa natale di Etienne de La Boétie a Sarlat-la-Canéda in Aquitania, Francia; p.67: Ritratto di Montaigne; p.68: Incipit del ‘Contr’un’ o ‘Discours sur la servitude volontaire’; p.69: Pagina degli ‘Essays’ con correzioni autografe di Montaigne; p. 70: Stampa con illustrazione dell’attentato al re Henry IV; Statua equestre di Henry IV, Pont Neuf, Paris (foto P.Del Freo).

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N Esoterismo

Helena Petrovna Blavatsky e la Società Teosofica Luca Bagatin

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essuna vita può dirsi più avventurosa della sua. Nessuna vita può essere descritta come un vero e proprio romanzo d’appendice. Nessuna vita fu più ricca di spiritualità e di emozione di quella di Helena Hahn, futura Helena Petrovna Blavatsky, fondatrice della Società Teosofica. Paola Giovetti, giornalista e scrittrice, esperta di tematiche esoteriche, ce la descrive magnificamente nella sua recente biografia - edita dalle Edizioni Mediterranee - “Helena Petrovna Blavatsky e la Società Teosofica”. Helena Hahn, di nobili origini, nacque nella Russia meridionale fra il 30 ed il 31 luglio del 1831. Spirito libero e ribelle che si manifestò sin in tenerissima età, sposò per sfida, a soli diciassette anni l’anziano generale Blavatsky, dal quale presto divorziò per seguire la sua vera vocazione: i viaggi e la spiritualità. A soli diciassette anni, infatti, abbandonò la famiglia per visitare l’Asia Centrale, l’India, l’America del Sud e l’Africa, visitando le zone più impervie del pianeta. Sin da bambina, peraltro, mostrò le sue doti di chiaroveggente e la capacità di parlare con quelli che saranno poi da lei definita i “Maestri” o “Mahatma”, ovvero esseri viventi che in questa loro incarnazione avevano scelto di guidarla nel suo cammino verso il misticismo (il Maestro Koot Humi ed il Maestro Morya). Tornata in patria, Helena Petrovna Blavatsky (o HPB, come amava firmarsi), dimostrò in suoi poteri di chiaroveggente all’intera famiglia e persino al suo scettico e positivista padre: ella era infatti in grado di produrre suoni o musica da qualsiasi oggetto volesse; ottenere fra le sue mani oggetti o lettere da lei distantissime (i famosi “apporti”); fornire risposte alle domande anche solo mentali dei presenti, far mutare di peso gli oggetti e le persone presenti. HPB spiegò poi che tali fenomeni non erano da considerarsi “paranormali”, bensì fenomeni latenti, presenti in ogni individuo e che lei era riuscita in qualche modo a risvegliare. Madame Blavatsky non credette mai agli spiriti o ai fenomeni medianici, per così dire, ma dimostrò come questi fossero prodotti della mente umana e come i Maestri non fossero spiriti di anime morte, bensì esseri viventi che avevano scelto - in questa incarnazione - di gui-


darla. Madame Blavatsky, peraltro, come ci racconta Paola Giovetti, nel 1851 era in Italia e fu assidua frequentatrice dei circoli repubblicani di Giuseppe Mazzini (di cui peraltro influenzò profondamente il pensiero spirituale, legato anche alla reincarnazione) e combatté persino nella battaglia di Mentana a fianco del generale Giuseppe Garibaldi (anch’egli profondamente affascinato da HPB e dalle sue dottrine spirituali) contro le truppe pontificie e lì fu ferita. Da allora HPB, fu solita indossare una camicia rossa “alla garibaldina”. Negli anni ‘70 dell’800 riprese i suoi viaggi verso Oriente, ove conobbe numerosi maestri spirituali e yogin. Sarà purtuttavia determinante il suo incontro con il colonnello americano Henry Olcott, profondo studioso di Massoneria ed esoterismo, di un anno più giovane di lei, che la porterà ad una svolta. Assieme al colonnello Olcott (con il quale condivideva, oltre gli interessi e gli studi, anche la passione per il fumo, che non abbandonerà nemmeno in punto di morte), Madame Blavatsky intraprese un sodalizio spirituale destinato a durare negli anni al punto che Olcott l’aiuterà nella redazione della sua monumentale opera “Iside Svelata”: condensato di scienza, spiritualità, cosmogonia, antropologia e religione che HPB riuscì a scrivere in trance, “sotto dettatura” dei Mahatma e per mezzo di apporti di documenti e libri rarissimi che solo lei riuscì a reperire (alcuni contenuti anche negli archivi segreti del Vaticano). Nel 1875, su sollecitazione dei Mahatma, Olcott e HPB, fondarono a New York la Società Teosofica, associazione filantropica e adogmatica di studi esoterici, destinata a combattere il dogmatismo, il materialismo ed il bigottismo imperante. Alla Società Teosofica erano (e sono tutt’ora) ammessi tutti coloro i quali avevano (hanno) desiderio di perseguire questi tre scopi: fondare un nucleo della Fratellanza Universale senza alcuna distinzione di razza, ceto sociale e sesso; studio non dogmatico delle religioni e delle filosofie e riscoprire i poteri latenti dell’individuo. Successivamente HPB ed Olcott si trasferirono in India, ove iniziarono a fare proseliti ed a fondare il Quartier Generale della Società Teosofica, proprio allo scopo di risvegliare la coscienza spirituale del popolo indù, così ricco di tradizione vedica. La

Dopo l’”affare Coulomb”, ad ogni modo, Madame Blavatsky, ormai malata, decise di tornare a Londra e di scrivere un nuovo testo: la monumentale “La Dottrina Segreta”, ancora oggi testo fondamentale di ricerca esoterica e teosofica, oltre che scientifica. A Londra, HPB, farà un

Esoterismo

Società Teosofica fondava il suo insegnamento sul karma, ovvero la legge di causa ed effetto e, dunque, sulla reincarnazione ed il ciclo delle rinascite. Il Mahatma Gandhi stesso, futuro teosofo, raccontò nella sua biografia che fu grazie all’incontro con Madame Blavatsky se lesse per la prima volta la Gita, ovvero il testo fondamentale della tradizione indù. E fu grazie all’impulso della Società Tesofica se riuscì a conseguire l’unità nonviolenta del popolo indiano contro l’oppressione britannica. Purtroppo, nel 1884, Madame Blavatsky e la Società Teosofica rischiarono di essere screditati a causa dei due coniugi Coulomb, prima fraternamente accolti da HPB, che trovò loro anche un’occupazione, ma che successivamente produssero delle lettere fasulle secondo le quali Madame Blavatsky stessa dichiarava di essere un’imbrogliona. Tali accuse giunsero nelle redazioni dei giornali e gettarono grosso scandalo. Fu dunque avviata un’inchiesta dalla Society of Psychical Research (SPR) di Londra, la quale, per mezzo di Mr. Hodgson, effettuò una superficiale ricerca che portò a sostenere le tesi dei Coulomb e a dar credito alle loro lettere fasulle. Sentitasi screditata, Madame Blavatsky piombò in un profondo stato di sconforto che la porterà presto alla morte. Occorrerà attendere il 1986, ovvero cento anni dopo, affinchè la SPR giunga a scusarsi con Madame Blavatsky, per mezzo delle loro autorevole rivista, nella quale, sostanzialmente, si smascherarono i Coulomb e si disse che HPB era una vera mistica e maestra spirituale.

altro incontro fondamentale per la sua vita, ovvero conobbe Annie Besant, fervente socialista ed attivista dei diritti civili e sociali delle donne e dei lavoratori. Annie Besant - già co-fondatrice della Società Fabiana e delle prime Logge CoMassoniche in Inghilterra - aderì ben presto alla Società Teosofica e, alla morte di Madame Blavatsky, ne prese le redini e l’eredità spirituale. Annie Besant fu protagonista delle prime lotte per l’indipendenza dell’India e per la causa anti-razzista ed anti-casta che pervadeva l’India dell’epoca. Sarà Annie Besant, assieme al Reverendo Leadbeater, ad adottare e crescere il giovane Jiddu Krishnamurti, futuro filosofo e maestro spirituale conosciuto in tutto il mondo. La sig.ra Besant e Leadbeater credevano, infatti, che, viste le sue profonde doti spirituali, Krishnamurti fosse il nuovo Messia, ma ciò divise la Società Teosofica fra favorevoli e contrari a tale tesi. In età adulta, ad ogni modo, fu lo stesso Krishnamurti che, pur offrendo riconoscenza ai suoi maestri, rifiutò di legarsi a qualsiasi istituzione ed a qualsiasi religione ed insegnò, per tutti gli anni ‘60, ‘70 ed ‘80 del ‘900, la libertà dai dogmi, dai condizionamenti e dalle istituzioni. La biografia di Paola Giovetti ci parla di questo e di molto altro. Una sezione è peraltro dedicata al già teosofo e poi fondatore dell’Antroposofia Rudolf Steiner, oltre che dell’attuale situazione della Società Teosofica che conta, nel mondo, 30.000 soci di cui 1.100 in Italia. Chi vi scrive è iscritto alla Società Teosofica Italiana da dieci anni. Se mi sono avvicinato politicamente e culturalmente al pensiero di Giuseppe Mazzini lo devo solamente ad Helena Petrovna Blavatsky ed alla teosofia: una scuola di elevazione morale ed interiore, utile a comprendere la Storia e la realtà molto più di quanto si possa credere. P.72: Helena Petrovna Blavatsky; p73: HPB ed il colonnello Henry Olcott.

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dans les Obédiences masculines, que décidément ces dames travaillent vraiment bien. Point de vantardise toutefois. Les SS\ sont studieuses, les SS\ travaillent, les SS\ apprennent, les SS\ s’encouragent les unes les autres, les SS\avancent sur le chemin de la Connaissance avec assiduité, le sourire aux lèvres…

HISTORIQUE DE LA FRANCMAÇONNERIE FEMININE EN SUISSE et de la GRANDE LOGE FEMININE DE SUISSE (GLFS) Confédération de Loges et de Rites CREATION, VIE et DEVELOPPEMENT Petit rappel géographique Tout un chacun sait que la Suisse est un pays relativement petit en superficie. Villes et villages se cachent au milieu d’innombrables montagnes, parmi les plus hautes d’Europe. Il est aisé d’imaginer la diffi-

organisations internationales sises sur leur territoire… Ils sont connus pour être plutôt conservateurs, pas toujours prêts aux changements rapides, mais s’ils avancent

Les faits Le 26 avril 5964, onze SS.˙. MM.˙. de la Grande Loge Féminine de France (GLFF) apportent la Lumière Maçonnique en Suisse en créant une Loge féminine sous le titre distinctif LUTECE à l’Or.˙. de Genève, et le numéro 16, leur but étant d’aider les futures SS.˙. suisses à fonder un jour

culté que rencontrent ses habitants pour se rendre d’un bout à l’autre de leur nation, même si les distances ne sont pas si grandes! Sans compter qu’elle est la seule nation à se partager en quatre régions linguistiques bien différentes. On peut se demander comment font les Suisses pour s’entendre! Essayez d’imaginer une Tour de Babel implantée en Helvétie… avec la Suisse Romande, où l’on parle principalement le français, la Suisse alémanique, germanophone, le Tessin qui parle la langue de Dante, les Grisons, seul canton à parler le romanche, doux mélange de latin, français et italien… À n’en point douter, nos Helvètes sont très doués, non seulement pour les langues, mais aussi pour s’adapter aux mentalités si variées, qu’ils empruntent aux pays qui les entourent, tout en conservant solidement la leur! Aussi se doivent-ils d’être particulièrement ingénieux, car leur sous-sol ne contient aucun minerai, aucune des richesses comme le pétrole, ou le fer, le cuivre ou le manganèse, l’or ou les diamants... dont peuvent se targuer tant d’autres contrées. Alors voilà, ils ont su développer idées et savoir-faire en matière de gestion de l’argent avec leurs banques, du temps avec leur horlogerie, d’agriculture avec leurs fromages et leur chocolat, de chimie avec leurs laboratoires pharmaceutiques, d’accueil avec les moult

lentement, ils le font sûrement, avec un raisonnement solide et intelligent. Parmi les richesses auxquelles la Suisse a su s’ouvrir, il en est une que vous connaissez bien : c’est la Franc-Maçonnerie! Alors comment font les FF\ et les SS\ pour se développer, mais surtout pour se rencontrer et travailler ensemble ? À vrai dire, les difficultés ne manquent pas, mais pour les « Helvètes aux bras noueux », rien n’est insurmontable. Il est une qualité dont ils et elles font preuve à tout instant : c’est le goût du travail et le sérieux avec lequel il est accompli. Pour la Grande Loge Féminine de Suisse, la valeur n’attend pas le nombre des années. Elle n’a pas encore un demi-siècle ; or, ce sont vingt – bientôt 21 - branches solides qui ont bourgeonné de cet arbre robuste duquel fleurissent désormais quelque 400 SS\ multilingues (en fait, la GLFS comporte quatre LL\ en Suisse alémanique, deux au Tessin, 14 (et bientôt 15) en pays romand. Il y a même quelquesunes de ses branches qui travaillent à des rites différents du REAA, comme le Rite Français et le Rite Emulation (et pour cette branche-là, la langue de travail est l’anglais, comme il se doit dans la Genève internationale!). Il ne faut pas oublier non plus que nos Loges sont très accueillantes, puisque FF\ et SS\ d’Obédiences de tous azimuts sont les bienvenus ; il se murmure même,

leur propre Obédience. (Le nom de Lutèce a précédé celui de Paris dans l’appellation de la capitale de la Gaule celtique. Lutèce provient probablement du celte et signifie lieu des marais. Autour de l’Ile St-Louis et de l’actuelle Ile de la Cité vivaient des palafittes. La forme des îles, qui rappelle une nef a certainement déterminé la devise attribuée à la ville naissante par les Romains «Fluctuat nec mergitur», elle flotte mais ne coule pas.) Le 25 octobre 5970, quelques SS.˙. de la GLFF, aidées par les SS.˙. de LUTECE créent une nouvelle Loge féminine en Suisse, à Neuchâtel, sous le titre distinctif ISHTAR. Désormais, deux LL.˙. féminines de la GLFF travaillent sur territoire suisse. Cette seconde création donne un espoir aux SS.˙. suisses : un pas de plus est franchi vers leur but. Toutefois, le projet de LUTECE de créer un Loge (IRIS) à Lausanne ne rencontre pas la pleine approbation de la GLFF, qui estiment que ces trois LL.˙. pourraient vouloir créer une Obédience autonome de façon prématurée. Le 26 octobre 5972, la R.˙. L.˙. LUTECE décide de se séparer de la GLFF par 18 voix contre 6, et devient Loge régulière et indépendante. La raison (après moult autres tracasseries) en est que la GLFF refuse les VV.˙. MM.˙. élues et par LUTECE et par les Fondatrices de la future L.˙. IRIS. Six

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membres de l’Atelier décident de se rattacher à la GLFF, et à l’aide de SS.˙. françaises constituent une nouvelle Loge portant ce même titre distinctif LUTECE (deuxième du nom). Les membres de LUTECE indépendante fondent à Lausanne l’Atelier déjà prévu. Le 5 décembre 5972 a lieu l’Allumage des Feux de cette deuxième Loge indépendante dénommée IRIS (fleur aux propriétés purificatrices et protectrices, elle est également médiatrice entre la Terre et le Ciel, symbolisée par l’arc-en-ciel.) Le 22 novembre 5973, LUTECE prend le titre distinctif ALPHA DE LA CARENE (nom de l’étoile la plus brillante du ciel, située dans la Constellation du Navire qui

sert également de point fixe pour la navigation dans l’espace). Elle garde ainsi un lien avec le premier nom de l’Atelier. Le 26 juin 5974, la Loge LUTECE (deuxième du nom) décide de quitter la GLFF. Le 15 janvier 5975, cette Loge indépendante prend le nom de THELEME (du mot grec «volonté» et de l’hébreu «sillon»: «sanctuaire de l’ataraxie intelligente» imaginé par Rabelais). Quelques SS.˙. restent rattachées à la GLFF et fondent une Loge, à nouveau sous le titre distinctif LUTECE (troisième du nom). Elles sont à nouveau aidées par des SS.˙. françaises. Ainsi, 11 ans après l'Allumage des Feux de la première Loge en Suisse, trois Loges féminines régulières et indépendantes - ALPHA DE LA CARENE, IRIS, THELEME et deux Loges dépendant

de la Grande Loge Féminine de France LUTECE (troisième du nom) et ISHTAR travaillent sur le territoire helvétique. Le 14 décembre 5975, ALPHA DE LA CARENE, IRIS et THELEME engagent le dialogue en vue de l'éventuelle création d'une Grande Loge Féminine de Suisse. Onze ans d'expérience ont abouti à la conception et à la gestation de la GLFS. En bien des points, cette création rappelle celle de la Confédération Helvétique sur le territoire de laquelle elle s'est enracinée. Ayant accepté à l'unanimité les bases essentielles de leur union, les RR.˙. LL.˙. ALPHA DE LA CARENE à l'Or.˙. de Genève, IRIS à l'Or.˙. de Lausanne et THELEME à l'Or.˙. de Genève décident définitivement

la création de la GRANDE LOGE FEMININE DE SUISSE, lors de l'Assemblée constitutive du 28 février 5976. La constitution de cette Puissance maçonnique nationale, souveraine et indépendante a lieu le 3 avril 5976. Obédience modeste, elle s’est dotée, non pas d’une Grand

massonica Maîtresse et d’un Grand Collège, mais d’une Présidente, d’une Secrétaire et d’une Trésorière, respectivement VV.˙. MM.˙. des RR.˙. LL.˙. IRIS, THELEME, et ALPHA DE LA CARENE. Ces trois officières forment le Comité Directeur de l’Obédience. Elles ne portent aucun décor spécifique.

«Parce qu’elles ont su laisser leurs métaux A la porte du Temple, Parce que la terre, l’air L’eau et le feu les ont purifiées, Parce qu’elles veulent employer le Ciseau et le Maillet A façonner leur propre Pierre plutôt que celle d’autrui, Parce que pour elles l’usage de la Truelle Est devenu un geste de chaque instant, Parce qu’elles consentent librement à se conformer A la discipline de l’Equerre et du Compas, Parce qu’elles travaillent en un lieu clos et couvert, Où règnent le concorde et la fraternité, Et parce que leurs regards sont orientés vers la MEME LUMIERE. Trois Loges Maçonniques ont SU découvrir leur UNANIMITE, Trois Loges on OSE accepter leurs diversités, Et tout en respectant leur souveraineté réciproque, Elles ont VOULU, Sous le Serment du SILENCE, s’accorder, Afin de favoriser la manifestation cohérente De l’Idéal de la Fraternité! Ainsi, trois Loges, Justes et Parfaites Se sont retrouvées sur le Niveau pour constituer, En vertu des Pouvoirs qui leur ont été conférés, Une Confédération de Loges et de Rites Au SERVICE de la Franc-Maçonnerie féminine en Suisse; Un centre de coalition vivant et dynamique, Dont la volonté de synthèse est le point d’inspiration Et dont l’Amour bienveillant constitue la sphère d’expression irradiante. La S.˙. G.de Oratrice

Afin de conserver aux LL.˙. la possibilité de travailler au Rite de leur choix, la GLFS s'est constituée en CONFEDERATION DE LOGES ET DE RITES. Le terme de ‘Confédération’ à été choisi de préférence à celui de ‘Fédération’ car le premier garantit la souveraineté des LL.˙., tandis que les membres d'une ‘Fédération’ sont soumis à l’organe dirigeant. (Grand Collège). Les principes généraux de la GLFS sont basés sur "la liberté absolue de conscience", le "respect des règles traditionnelles, us et coutumes de l'Ordre", le "respect de la souveraineté et l'indépendance des autres Puissances maçonniques, et réciproquement" [vd. figura, ndr]. Ainsi, après une période douloureuse et mouvementée, la Franc-Maçonnerie féminine suisse peut enfin naviguer en eaux calmes. La nouvelle Obédience procède le 30 jan-

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offre abri et protection.) Le 20 mars 5982 c’est le tour de la R.˙. L.˙. LE MILIEU DU MONDE à l’Or.˙. de Penthalaz, situé à quelques lieues de la source appelée «le milieu du monde» à Pompaples. (L’eau jaillit, après une longue traversée entre sable et gravier, vive et claire, activant un moulin.

symboliques, est le signe de la puissance du Dieu Céleste et l'annonce de sa victoire sur le monde des ténèbres. Sur la médaille sont gravés ces mots : "Quand tout change pour Toi - La nature est la même - Et le même soleil - Se lève tous les jours.") Le 30 mai 5981, la R.˙. L.˙. LA TABLE D'EMERAUDE est créée à l'Or.˙. de Genève. Ainsi, en 5983 onze loges féminines travaillent en Suisse, sept sous les auspices de la GLFS, quatre sous les auspices de la GLFF. Les événements de 5972 (onze ans auparavant) sont oubliés: depuis un certain temps déjà, trois SS.˙. (deux de la GLFF et une de la GLFS) ont le désir profond d’unir ce qui est épars, et en cherchent le moyen. Les contacts fraternels se concrétisent en

sents et absents du monde entier. Reconnue par les Obédiences amies comme représentative de la Franc-Maçonnerie féminine en Suisse, la GLFS devient membre du CLIPSAS en 5985, et du CLIMAF en 5987. La nouvelle GLFS est consciente de porter désormais de très grandes responsabilités: bâtir solidement sur les fondations qui furent posées ce jour-là; tenir sans faillir les engagements qu’elle à pris; garder fermement uni ce qui était épars, et faire croître et fleurir la Franc-Maçonnerie féminine sur le territoire de la Confédération Helvétique. Une 12ème Loge, IL CAMMINO DI VITA, s’est ouverte à l’Or.˙. de Lugano en 5990. Ensuite, TEM-

Puis ce premier ouvrage accompli sépare ses eaux, un cours partant pour le nord, l’autre vers le sud. Comment mieux illustrer nos devoirs maçonniques? De plus l’eau, élément naturel, féminin par excellence est génératrice de toute forme vivante. L’existence de la vie sur terre dépend toujours de sa générosité et de son abondance. Elle est un puissant moyen de purification et de régénérescence.) Le 25 juin 5983, la R.˙. L.˙. Indépendante ISIS à l’Or.˙. de Zürich (fondée initialement par le F\Emanuel Howard et d'autres FF\) est affiliée à la GLFS qui, le 3 décembre 5985, allume les feux de la R.˙. L.˙. DIE PLEJADEN à l'Or.˙. de Berne. (Les Pléiades, filles d'Atlas, étaient au nombre parfait de sept. La plus grande étoile de cette constellation s'appelle Alcyone qui signifie paix. "Naissance, Commencement", trouvent leur allégorie dans les Pléiades ainsi que les archétypes de "Mère et de Centre".) Ces deux dernières Loges travaillent en langue allemande. De leur côté, les SS.˙. d’Obédience française des R.˙. LL.˙. LUTECE (troisième du nom) à l'Or.˙. de Genève et ISHTAR à l'Or.˙. de Neuchâtel travaillent activement. Elles collaborent à la fondation de deux nouvelles Loges sous les auspices de la GLFF. Le 30 janvier 5977, la R.˙. L.˙. AURORE voit le jour à l'Or.˙. de Lausanne (L'aurore avec toutes ses richesses

rencontres régulières, puis en projets. Les Grands Collèges respectifs changent, mais reprennent le projet, avec la ferme volonté des SS.˙. de part et d’autre de poursuivre envers et contre tout l’avance vers l’unité prévue depuis 5964, qui se transmet à leurs successeurs dans un formidable élan de fraternité. L’occasion de mettre enfin en pratique ces théories, dont on parle depuis si longtemps, enthousiasme les SS.˙. des sept Loges suisses et les porte vers une solution aussi logique que désirée. Le 16 juin 5985, les quatre Loges suisses travaillant sous les auspices de la GLFF s’unissent, sous la bienveillante autorité de cette dernière, en GRANDE LOGE FEMININE D’HELVETIE, obédience éphémère, mais combien importante pour la démarche suivante. Le 29 juin 5985, un événement exceptionnel, voire unique, à lieu à Genève. De très nombreuses obédiences d’Europe et d’ailleurs tiennent à être représentées à l’occasion de l’UNION DE LA GRANDE LOGE FEMININE D’HELVETIE et de LA GRANDE LOGE FEMININE DE SUISSE. La nouvelle Obédience ainsi formée, de par le voeu de toutes les SS.˙. des onze Loges, s’appellera GRANDE LOGE FEMININE DE SUISSE. Elle reçoit, en ce jour d’Union, les félicitations et les voeux les plus fraternels des Francs-Maçons pré-

PERANCE à l’Or.˙. de Nyon en 5992, DIE KETTE DER HOFFNUNG à l’Or.˙. de Bâle en 1993, et SHAKTI à l’Or.˙. de Genève rejoignent la GLFS en 5994. En 5996, cette dernière, victime de dissensions internes, quitte l’Obédience. Elle la réintègre en 6006. Entre-temps se sont ouvertes ou affiliées les LL.˙. DEMETER à l'Or.˙. de Chexbres en 6002, LA RYA DI MARTSE à l'Or.˙. de Bulle en 6003, SERENITY à l'Or.˙. de Genève en 6004, LA MISTICA FENICE à l'Or.˙. de Lugano en 6006, et SUB ROSA DICTUM à l'Or.˙. de Winterthur en 6007. Un partenariat avec la R.˙.L.˙.La IZVOR à l'Or.˙. de Constanza à été signé en 6007, de même qu’avec KREOUSSA à l’Orient d’Athènes en novembre 6009. La GLFS compte donc actuellement 20 LL.˙. travaillant sur le territoire helvétique. Une 21ème L.˙., TANIT, est en cours de création à l’Orient de La Chaux-de-Fonds. Toutes travaillent au Rite Ecossais Ancien et Accepté en français, allemand, ou italien, à l’exception de SHAKTI qui travaille au Rite Français et SERENITY, qui travaille au Rite Emulation et en langue anglaise. Persuadée de la conviction et de l’enthousiasme des SS.˙. suisses, certaine d’avoir beaucoup appris par son histoire mouvementée, la GLFS regarde l’avenir avec confiance et avec espoir.

vier 5977 à l’Allumage des Feux de la R.˙. L.˙. L’ARBRE DE VIE à l’Or.˙. d’Aigle. (L’Arbre, par ses racines puise sa force dans les énergies enfouies au plus profond de la terre et incite à bien assurer ses bases. Son tronc, symbole de l’Axe du Monde, invite à s’élever vers les hauteurs. Son feuillage

Geogra–a

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Benedetto Croce e la “mentalità massonica” Valerio Meattini

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l libro è un’attenta e completa analisi dei testi crociani, polemici con la “mentalità massonica”, che vanno dal 1905 al 1925, anno in cui, votandosi al Senato la legge sulle Associazioni, Croce si astenne per coerenza con il suo passato antimassonico e con la sua coscienza liberale che non gli permetteva di avallare col suo voto leggi illiberali. Il libro si compone di una lunga riflessione (dal titolo Le ragioni di un conflitto) e di una sezione di Testi in cui si ripropongono tutte le pagine polemiche del filosofo napoletano sulla Massoneria e due Lezioni del periodo della militanza massonica del filosofo tedesco J. G. Fichte, che si configurano come un anticipato controcanto a quella dura e annosa polemica. In uno stile chiaro e ragionato l’Autore ripercorre le tappe del dissidio culturale che oppose la figura centrale nel panorama della cultura italiana di tutto il primo Novecento alla Massoneria italiana dello stesso periodo. Le pagine di Meattini individuano i motivi per cui Croce ritenne di combattere la mentalità e l’ideologia massoniche. Senza troppo soffermarsi sui motivi polemici consueti e indulgere ad una polemica di basso profilo, Croce ricollega la mentalità massonica a quel Settecento che non ebbe, a suo vedere, né cultura storica (con l’eccezione del solo Vico) né una filosofia che desse ragione di quella concezione della realtà come svolgimento, in forza di spinte e leggi immanenti, che erano invece i capisaldi della sua filosofia dello spirito, battezzata in età tarda come storicismo assoluto. Così, sempre nella prospettiva crociana, la mentalità massonica, in quanto ritardataria sulle istanze vive e operanti della cultura, sarebbe stata un impedimento per lo sviluppo di una cultura politica e civile all’altezza dei reali compiti storici. Meattini mostra i limiti della polemica antimassonica crociana, dettata da una concezione filosofica che non è detto debba essere accettata e ragionando sulla complessità dell’eredità massonica che non è bloccata, come Croce ritenne, all’ideologia del Settecento, ma si nutre continuamente dell’apporto dell’intelligenza e della ricerca degli ascritti. L’Autore, inoltre, cerca di motivare il lungo silenzio, fatte salve rarissime eccezioni, su questo importante capitolo della cultura italiana del secolo scorso. A suo vedere, nel secondo dopoguerra – quando quel tema si sarebbe potuto svolgere nelle sue implicazioni –, la volontà da parte di molti di porre una pietra tombale sul nome di Croce e l’imbarazzo

di dover prendere atto che la Massoneria era già schierata da tempo sul versante repubblicano, democratico e degli arbitrati internazionali hanno impedito una serena valutazione della questione. Si sarebbe, insomma, voluto il silenzio su molti aspetti dell’eredità culturale massonica verso cui forze politiche e culturali

Recensioni di quel periodo avrebbero dovuto riconoscere sia un debito e sia una compartecipazione. La parte, però, a nostro avviso più interessante del volume non è questa pur doverosa restituzione di nobiltà culturale e sociale agli intenti massonici, ma quella che si concentra su questi intenti nella prospettiva propriamente iniziatica. Con un raffinato gioco di rimandi, Meattini mostra, testi alla mano, come Fichte si fosse posto il problema, sul finire di quel Settecento non amato da Croce, del compito e della funzione della Libera Muratoria. La risposta che Fichte dette è oggi come ieri propria del massone. Occorre un linguaggio – e la Massoneria lo avrebbe – per ritradurre i linguaggi delle varie specializzazioni umane, in cui con pedanteria (il vocabolo è di Fichte) ognuno di noi, secondo la propria specifica cultura, ritraduce l’intreccio della realtà, in una dimensione di compimento umano che almeno avverte (ma può anche curare il male se la via iniziatica è seriamente percorsa) del pericolo incombente sulle nostre vite prodotte dalla sempre più decisa professionalizzazione. Così, proprio l’accusa che Croce faceva ai massoni di essere uomini di “mezzana cultura” che non svolgono appieno la loro umanità è il tema tipicizzante con cui essi (quando sono seri) guardano alla loro vita e al mondo in cui operano. Ci sembrano queste le pagine del libro più proficue per una meditazione che non è più soltanto riflessione su eventi storici. Queste, e le ultime, veramente decisive, in cui s’insiste sulla scelta liberomuratoria come votata ad un progetto personale e responsabile di vita che non vuol essere succube delle mitologie dell’appartenenza culturale. Sono proprio tali mitologie che riducono gli individui negli stampi previsti dalle culture d’appartenenza, svuotando le esistenze personali dell’onere e del privilegio di configurarsi. L’Autore, invece, dice chiaramente che la scelta liberomuratoria (come, in fondo, tutte le grandi scelte iniziatiche) impegna sempre per una vita che, mentre guarda alla provenienza, volge anche lo sguardo a compiti e figure della vita che ci profilano mentre le forgiamo. La Redazione

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Riflessioni sulla massoneria - Revisione critica delle fonti storiche Maurizio Galafate Orlandi, Ed. Atanòr srl Roma – Ottobre 2011 – Euro 13,00

Recensioni

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uando mi pervenne la comunicazione che, per i tipi della romana Atanòr srl, Maurizio Galafate Orlandi, Gran segretario genarale della Gran Loggi d’Italia, aveva dato alle stampe un suo libro, fui colpito dal sottotitolo: REVISIONE CRITICA DELLE FONTI STORICHE, più che dal titolo: RIFLESSIONI SULLA MASSONERIA. Pensai subito ad un grosso tomo di assemblaggio dello scibile noto sull’argomento, pesante quindi da leggere come, da digerire, pesante è una grassa toma d’alpeggio. Ordino, comunque, e ricevo. Un quasi tascabile d’un centinaio di pagine, che approccio con animo sollevato, mutandosi lo scetticismo che mi prese alla notizia della sua pubblicazione, con la curiosità interessata che mi prende col libro tra le mani: se la botte è piccola, forse c’è del buon vino. È una garanzia la prefazione di Luigi Pruneti, molto apprezzata penna – e voce - della esegesi massonica, ma anche S.G.C.G.M. della Gran Loggia d’Italia, di cui l’autore in questione presiede la Segreteria: “Sta a vedere - insinua il tarlo del dubbio - che Ci­ cero parla pro domo sua”. Occorre dunque, come sempre, andare alla ricerca della Verità. E vado subito all’indice che, come il mattino, dà il buon giorno.

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Con linguaggio figlio dei tempi, cui la Massoneria non è forse ancora adusa, “ANTIENTS VS MODERNS” è il titolo della prima partitura dei capitoli che hanno – alcuni – suggestive intestazioni: “I Landmarks, pietre di nessun confine” – “Il rito degli Antichi ed il Rito scozzese Antico ed accettato: uniti ma divisi” – “I Rituali creano ordine”. L’ultimo capitolo, poi, mi pare esprima contradictio in terminis: “Ed ora lasciamoci con le mani intrecciate”. Come facciamo a lasciarci se le mie mani sono intrecciate con le tue? Qualcosa; più di qualcosa, certo, mi sfugge. “Cominciamo dall’inizio” – mi dico. Tutto avendo letto, non tutto avendo capito, molto avendo appreso, meno di tre ore dopo mi sorprendo a considerare che la lettura di queste RIFLESSIONI non fu pesante, come pesante non è mai la digestione d’un pranzo di poche, ma scelte portate, col residuo di un languorino che spinge a cercare ancora sulla tavola un cioccolatino di quelli già gustati, ma dal sapore ancora incerto. Il libro divorato, fece così di me un ruminante: mi spinse a tornare sui passi perduti di quei tratti che, percorsi velocemente, imponevano d’essere “rimasticati”; e ne giovò l’intelleto, placata la fame del sapere. Troppo breve per essere riassunto; troppo interessante per essere svelato; nella congerie - citiamo dalla Prefazione – di “scritti di massonologia tratti da altri e questi da altri ancora, cosicché posizioni, considerazioni, errori hanno continuato a riprodursi nel tempo”, il libro ha sue interessanti peculiarità. L’autore mostra chiaramente d’aver avuto accesso privilegiato a sorgenti storiche della Massoneria, che attingono da bacini molto alti, non contaminati, i loro getti, esili, ma puri. Così, offre alla curiosità del comune lettore, come alla puntigliosità dello studioso, una REVISIONE CRITICA DELLE FONTI STORICHE di alcuni “fondamentali” della Massoneria e, come il Pruneti stigmatizza nella Prefazione, a tutti “suggerisce ipotesi laddove non sono possibili certezze”. Ogni buon libro è cibo rigenerante, che peraltro si rigenera da solo dopo essere stato consumato. Questo di Galafate Orlandi, che ha molto gratificato il mio appetito, è pronto a soddisfare anche gli appetiti tanto di chi non mi leggerà, quanto di chi mi leggerà, e gentilmente vorrà confermarmelo: non è la solita minestra riscaldata. Armeno Nardini

Luci Nel Cielo – Italia e UFO: le prove che il Duce sapeva di Roberto Pinotti e Alfredo Lissoni – Oscar Mondadori, Milano 2011, Euro 9,50 (pp. 324)

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omunemente si crede che lo studio a livello istituzionale del fenomeno degli UFO (Unidentified Flying Objects o oggetti volanti non identificati) sia nato negli Stati Uniti nel 1947, con gli avvistamenti dei primi “dischi volanti” sul Monte Rainier, nello Stato di Washing­ton e il successivo coinvolgimento dell’United States Air Force, l’Aeronautica Militare USA che fino al 1970 effettuò oltre 12.000 inchieste con oltre 700 casi rimasti inspiegabili. In realtà fin dal 1933 sono documentati avvistamenti di “Velivoli Non Convenzionali” (VNC), e non nei cieli americani ma sopra il territorio italiano. È questa la sconcertante verità emersa da documenti segreti del regime fascista appar­si solo recentemente e successivamente fatti periziare dai periti tecnici del Tribunale di Como dal Centro Ufologico Nazionale italiano. Per tutti gli anni Trenta furono descritti con precisione tantissimi avvistamenti e Mussolini stesso incaricò una task force agli ordini del Senatore del Regno nonché Presidente della Regia Accademia d’Italia Guglielmo Marconi (il segreto “Gabinetto RS/33”, sigla desunta dalle iniziali delle parole “ricerche speciali” e dall’anno della sua costituzione) di studiarli, senza ovviamente divulgarne i risultati. Questo volume, opera di due importanti studiosi


di ufologia di livello internazionale, racconta la rocambolesca ricerca d’archivio sugli x-files fasci­sti dispersi in archivi e biblioteche di mezza Italia, e ricostruisce rigorosamente i fatti, trascinando i lettori in un’indagine tanto affascinante quanto rigorosa, che rovescia molte acquisizioni e dimostra come l’ufologia governativa (oggi infine ammessa da molteplici paesi europei, latino-americani ed asiatici) fatta di commissioni d’in­chiesta più o meno segrete, intelligence, insabbiamenti e riservati studi di retro ingegneria di probabili mezzi alieni, sia nata non negli USA della caccia alle streghe ma nell’Italia del ventennio mussoliniano. Di più. Il volume è anche un affascinante ed intrigante spaccato inedito su informazioni finora poco note relative alle sconcertanti ricerche e credenze a carattere esoterico in ambito nazista, che in parte – dopo l’entrata in guerra dell’Italia nel 1940 grazie ad un Mussolini convintosi che i VNC fossero una rivoluzionaria arma tedesca – si legano a questo capitolo sconosciuto della nostra storia recente, che vede l’Italia più che mai al centro del fenomeno. Un testo documentato, affascinante e godibilissimo. La Redazione

— Nello scaffale — Segnalazioni di libri e periodici di Federica Pozzi

Consulta Giovani Massoni Atti 2008-2009-2010 Settembre 2011, Marpeg Genova, pp. 157, formato, 17x24 bianco e nero, volume non in vendita

È

importante segnalare l’uscita nello scorso mese di Settembre del volume che raccoglie gli atti dei meeting organizzati dalla Consulta dei Giovani Massoni della Gran Loggia d’Italia degli ALAM, negli anni 2008 - 2010. I relatori, di meeting in meeting, hanno cercato di dare delle risposte a vari e complessi interrogativi. Nel primo incontro, quello avvenuto a Bellaria, si chiesero se, nell’età della globalizzazione, vi fosse ancora spazio per una riflessione su spiritualità e percorso iniziatico. In seguito

si sono domandati, come realizzare la finalità massonica del perfezionamento degli uomini ed ancora quale messaggio i Liberi Muratori possano indirizzare alla gioventù dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Infine, durante il meeting di Monopoli dell’Ottobre 2010, discussero su una concezione della vita impostata sui valori massonici di Libertà, Ugua-

Recensioni glianza e Fratellanza, ove l’orizzonte ultimo fosse la ricerca della felicità. Un interrogarsi, quindi, continuo che il momento odierno impone. Da quando, nel lontano 1989, cadde, infatti, il muro di Berlino, siamo entrati nell’era della globalizzazione ed i processi di trasformazione sono stati veloci ed inarrestabili. Società, politica, economia, travolti da un maremoto epocale, stanno cambiando volto e l’uomo sembra essere destinato a diventare la vittima sacrificale di un materialismo e di un consumismo selvaggio. È pertanto indubbio che le riflessioni emerse nei vari meeting e raccolte nel bel volume pubblicato dalla Comunione, siano interessanti e di sprone per tutti giovani e meno giovani.

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R.L. Graal - Oriente di Livorno

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a Spada, il Delta e il Calice presenti sul fregio - oltre a rappresentare tre elementi cavallereschi fondamentali - mutuano il trinomio Libertà, Uguaglianza e Fratellanza, base fondamentale per i lavori delle Sorelle e dei Fratelli della R.L.Loggia Graal, dell’Oriente di Livorno e dell’Obbedienza tutta. La ‘Spada’, dritta e a doppio filo, arma Templare, rappresenta la custodia della libertà nel nome del gadu. Il ‘Delta’, detto anche Triangolo di Salomone o Triangolo Equilatero, esprime Divinità, Armonia e Proporzione, qualità essenziali della Piramide; questa a sua vol-

L’

ta rappresenta la Triplicità, la Perfezione Filosofale e l’Uguaglianza. Il ‘Graal’ infine, oltre ai consueti significati, esotericamente come simbolo di Conoscenza, Sapienza e Tradizione; queste affratellano tutti i Liberi Muratori liberandoli da ogni dogma religioso. Su questa composizione campeggiano Squadra e Compasso per edificare il regolare Tempio della Virtù, della Conoscenza e dello Spirito e per testimoniare la nostra Rettitudine e Volontà di Appartenenza.

R.L. Hispaniola - Oriente di Santo Domingo

isola di Santo Domingo inserita all’interno della squadra e del compasso rappresenta l’abbraccio amorevole al Paese caraibico da parte della Massoneria; le varianti cromatiche dell’azzurro che si irradiano dall’isola rappresentano una benefica espansione dei valori masso-

nici. Le colonne simboleggiano l’imperitura solidità dei valori massonici resistenti ad ogni avversità. Le due comunità latine (italiana ed ispanica) sono qui riunite dagli alti valori della Massoneria e lavorano insieme per la Libertà, l’Uguaglianza e la Fratellanza degli uomini.

Elenco alfabetico delle Logge pubblicate... R∴L∴ 14 Juillet Or∴di Savona R∴L∴ 4 Giugno 1270 R.G. Or∴di Viterbo R∴L∴ Ab Initio Or∴di Portoferraio R∴L∴ Ad Justitiam Or∴di Lucca R∴L∴ Aetruria Nova Or∴di Versilia R∴L∴ Alef Or∴di Viareggio R∴L∴ Alma Mater Or∴di Arezzo R∴L∴ Anita Garibaldi Or∴di Firenze R∴L∴ A.Garibaldi/A.Giulie Or∴di Livorno R∴L∴ Antares Or∴di Firenze R∴L∴ Antropos Or∴di Forlì R∴L∴ Archita Or∴di Taranto R∴L∴ Aristotele II Or∴di Bologna R∴L∴ Astrolabio Or∴di Grosseto R∴L∴ Athanor Or∴di Brescia R∴L∴ Athanor Or∴di Cosenza R∴L∴ Athanor Or∴di Pinerolo R∴L∴ Athanor Or∴di Rovigo R∴L∴ Athena Or∴di Pinerolo R∴L∴ Atlantide Or∴di Pinerolo R∴L∴ Audere Semper Or∴di Firenze R∴L∴ Augusta Or∴di Torino R∴L∴ Aurora Or∴di Genova R∴L∴ Ausonia Or∴di Siena R∴L∴ Ausonia Or∴di Torino R∴L∴ C. B.Conte di Cavour Or∴di Arezzo R∴L∴ C. Rosen Kreutz Or∴di Siena R∴L∴ Carlo Fajani Or∴di Ancona R∴L∴ Cartesio Or∴di Firenze R∴L∴ Cattaneo Or∴di Firenze R∴L∴ Cavour Or∴di Prato R∴L∴ Cavour Or∴di Vercelli R∴L∴ Chevaliers d’Orient Or∴di Beirut R∴L∴ Cidnea Or∴di Brescia R∴L∴ Clara Vallis Or∴di Como R∴L∴ Concordia Or∴di Asti R∴L∴ Corona Ferrea Or∴di Monza R∴L∴ Cosmo Or∴di Argentario Albinia R∴L∴ Costantino Nigra Or∴di Torino R∴L∴ D.Di Marco Or∴di Piedim.Matese R∴L∴ Dei Trecento Or∴di Treviso R∴L∴ Delta Or∴di Bologna R∴L∴ Eleuteria Or∴di Catania

R∴L∴ Eleuteria Or∴di Pietra Ligure R∴L∴ Emanuele De Deo Or∴di Bari R∴L∴ Enrico Fermi Or∴di Milano R∴L∴ EOS Or∴di Bari R∴L∴ Erasmo Or∴di Torino R∴L∴ Ermete Or∴di Bologna R∴L∴ Etruria Or∴di Siena R∴L∴ Excalibur Or∴di Trieste R∴L∴ Falesia Or∴di Piombino R∴L∴ Fargnoli Or∴di Viterbo R∴L∴ Fedeli d’Amore Or∴di Vicenza R∴L∴ Federico II Or∴di Firenze R∴L∴ Federico II Or∴di Jesi R∴L∴ Fenice Or∴di Spotorno R∴L∴ F.Rodriguez y Baena Or∴di Milano R∴L∴ Fidelitas Or∴di Firenze R∴L∴ Fratelli Cairoli Or∴di Pavia R∴L∴ Galahad Or∴di Roma R∴L∴ G. Ghinazzi Or∴di Roma R∴L∴ G. Mazzini Or∴di Livorno R∴L∴ G. Mazzini Or∴di Parma R∴L∴ G.Biancheri Or∴di Ventimiglia R∴L∴ G.Bruno - S.La Torre Or∴di Roma R∴L∴ G.Garibaldi Or∴di Cosenza R∴L∴ G.Papini Or∴di Roma R∴L∴ Garibaldi Or∴di Castiglione R∴L∴ Garibaldi Or∴di Toronto R∴L∴ Gaspare Spontini Or∴di Jesi R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di Catanzaro R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di Firenze R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di R.Calabria R∴L∴ Giosuè Carducci Or∴di Follonica R∴L∴ Giovanni Bovio Or∴di Bari R∴L∴ Giovanni Pascoli Or∴di Forlì R∴L∴ Giovanni Risi Or∴di Firenze R∴L∴ Giustizia e Libertà Or∴di Roma R∴L∴ Goldoni Or∴di Londra R∴L∴ Herdonea Or∴di Foggia R∴L∴ Hiram Or∴di Bologna R∴L∴ Hiram Or∴di Sanremo R∴L∴ Horus Or∴di Padova R∴L∴ Horus Or∴di Pinerolo R∴L∴ Horus Or∴di R.Calabria

R∴L∴ Humanitas Or∴di Pistoia R∴L∴ Humanitas Or∴di Treviso R∴L∴ Ibis Or∴di Torino R∴L∴ Il Cenacolo Or∴di Pescara R∴L∴ Il Nuovo Pensiero Or∴di Catanzaro R∴L∴ Internazionale Or∴di Sanremo R∴L∴ Iter Virtutis Or∴di Pisa R∴L∴ Jakin e Boaz Or∴di Milano R∴L∴ Kipling Or∴di Firenze R∴L∴ La Fenice Or∴di Chieti R∴L∴ La Fenice Or∴di Pieve a Nievole R∴L∴ La Fenice Or∴di Bari R∴L∴ La Fenice Or∴di Forlì R∴L∴ La Fenice Or∴di Livorno R∴L∴ La Prealpina Or∴di Biella R∴L∴ La Silenceuse Or∴di Cuneo R∴L∴ Le Melagrane Or∴di Padova R∴L∴ Leonardo da Vinci Or∴di Taranto R∴L∴ Libertà e Progresso Or∴di Livorno R∴L∴ Liguria Or∴di Orspedaletti R∴L∴ Logos Or∴di Milano R∴L∴ Luce e Libertà Or∴di Potenza R∴L∴ Luigi Alberotanza Or∴di Bari R∴L∴ Luigi Spadini Or∴di Macerata R∴L∴ Lux Or∴di Firenze R∴L∴ M’’aat Or∴di Barletta R∴L∴ Magistri Comacini Or∴di Como R∴L∴ Manfredi Or∴di Taranto R∴L∴ Melagrana Or∴di Cosenza R∴L∴ Melagrana Or∴di Torino R∴L∴ Minerva Or∴di Cosenza R∴L∴ Minerva Or∴di Torino R∴L∴ Monviso Or∴di Torino R∴L∴ Mozart Or∴di Genova R∴L∴ Mozart Or∴di Roma R∴L∴ Mozart Or∴di Torino R∴L∴ Navenna Or∴di Ravenna R∴L∴ Nazario Sauro Or∴di Piombino R∴L∴ Nino Bixio Or∴di Trieste R∴L∴ Oltre il Cielo Or∴di Lecco R∴L∴ Omnium Matrix Or∴di Milano R∴L∴ Orione Or∴di Torino R∴L∴ Palermo Or∴di Palermo

R∴L∴ Per Aspera ad Astra Or∴di Lucca R∴L∴ Petrarca Or∴di Abano Terme R∴L∴ Pietro Micca Or∴di Torino R∴L∴ Pisacane Or∴di Udine R∴L∴ Pitagora Or∴di Cosenza R∴L∴ Polaris Or∴di Livorno R∴L∴ Polaris Or∴di Reggio Calabria R∴L∴ Prometeo Or∴di Lecce R∴L∴ Re Salomone /F.Nuove Or∴di Milano R∴L∴ Risorgimento Or∴di Milano R∴L∴ Ros Tau Or∴di Verona R∴L∴ S.Giovanni Or∴di Bass.d.Grappa R∴L∴ Sagittario Or∴di Prato R∴L∴ Salomone Or∴di Catanzaro R∴L∴ Salomone III Or∴di Siena R∴L∴ San Giorgio Or∴di Genova R∴L∴ San Giorgio Or∴di Milano R∴L∴ Saverio Friscia Or∴di Sciacca R∴L∴ Scaligera Or∴di Verona R∴L∴ Sibelius Or∴di Vercelli R∴L∴ Sile Or∴di Treviso R∴L∴ Silentium et Opus Or∴di Val Bormida R∴L∴ SmiDe Or∴di Stra R∴L∴ Teodorico Or∴di Bologna R∴L∴ Themis Or∴di Verona R∴L∴ Trilussa Or∴di Bordighera R∴L∴ Triplice Alleanza Or∴di Roma R∴L∴ Ugo Bassi Or∴di Bologna R∴L∴ Ulisse Or∴di Forlì R∴L∴ Umanità e Progresso Or∴di Sanremo R∴L∴ Uroboros Or∴di Milano R∴L∴ Valli di Susa Or∴di Susa R∴L∴ Venetia Or∴di Venezia R∴L∴ Vincenzo Sessa Or∴di Lecce R∴L∴ Virgilio Or∴di Mantova R∴L∴ Vittoria Or∴di Savona R∴L∴ Voltaire Or∴di Torino R∴L∴ XI Settembre Or∴di Pesaro R∴L∴ XX Settembre Or∴di Torino R∴L∴ Zenith Or∴di Cosenza R∴L∴ Zodiaco Or∴di Pinerolo


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