Trimestrale internazionale di attualitĂ , storia e cultura esoterica Anno XXIII - Giugno 2011 e Settembre 2011 - n.2 e n.3
Trimestrale internazionale di attualità, storia e cultura esoterica - Anno XXIII - n.2 e n.3 - Giugno 2011 e Settembre 2011 Direttore Editoriale e Responsabile LUIGI PRUNETI Direttore ANNA GIACOMINI Segreteria di Redazione ROBERTO PINOTTI SIMONE TADDEI Comitato di Redazione LINA ROTONDI LUISA CERAVOLO SABRINA CONTI STEFANO MOMENTÉ FEDERICA POZZI GIANCARLO GUERRIERI MATTEO BARTOLETTI RENATA SALERNO Comitato Scientifico Vittorio CIANCIO ALDO A.MOLA PAOLO ALDO ROSSI IDA LI VIGNI RAFFAELE MARRŸ PAOLO MAGGI Renato ARIANO BARBARA NARDACCI Consulente Legale PIERPAOLA MELEDANDRI hanno collaborato a questo numero davide arecco Renato ariano luca bagatin ANTONIO BINNI SERGIO CIANNELLA SABRINA CONTI maurizio galafate orlandi clizia gallarotti anna giacomini serena guidi gerardina laudato IDA LI VIGNI EMANUELA MICONI PAOLO MAGGI PAOLa MArcheggianI PIERPAOLA MELEDANDRI ALDO ALESSANDRO MOLA BARBARA NARDACCI roberto pinotti LUIGI PRUNETI PAOLO ALDO ROSSI annalisa santini LEO TOSCANELLI progetto e realizzazione PAOLO DEL FREO
L.Pruneti - Da Equinozio a Equinozio — 2 S.Ciannella - Per una geografia massonica — 4 S.Ciannella - Turchia e Lussemburgo — 8 A.A.Mola - XX Settembre 1870 — 14 L.Pruneti - L’Italia, il Montenegro e la Massoneria — 18 A.A.Mola - Onore alla storia, onore ai Re d’Italia — 26 R. Ariano - Massoneria e unità d’Italia — 30 L. Bagatin - Diario di un piduista — 34 E. Miconi - A che punto è la notte? — 36 A. Binni - Sui roghi dei libri — 46 P.A.Rossi - Le “grandezze” dell’Italia — 52 A. Santini - Antichi documenti antimassonici — 60 A. Santini, S. Guidi - Antimassoneria trecento anni di storia — 66 D. Arecco - Scienza, massoneria e letture proibite — 70 M. Galafate Orlandi - Tradizione e futuro — 80 P. Maggi - I simboli fra scienza e tradizione iniziatica — 82 G. Laudato - Esoterismo ed alchimia nella ‘pietra’ — 86 A.Giacomini - Alla ricerca del tempo ritrovato — 90 C. Gallarotti - Il paradigma del larice — 92 P.A.Rossi - Luci e ombre del Cavaliere medioevale — 96 I. Li Vigni - Il cavaliere di carta — 106 S. Conti - L’intérieur Alice — 114 P. Marcheggiani - La Scarzuola — 118 R. Pinotti - Massoneria e Futuro — 120 B. Nardacci - Psicologia e psicopatologia nell’azione rituale massonica — 122 L. Toscanelli - Un Maestro — 132 P. Meladandri - Massoneria e Giustizia — 136 In Biblioteca — 140 Fregi di Loggia — 159
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ra marzo e i versi di Petrarca sembravano di felice auspicio per quei giorni che si aprivano alla luce nuova della Primavera. In cielo l’Ariete accennava a miti e immagini di rinnovamento, di viaggio verso lidi di speranza e di sogno, così suggeriva la leggenda di Frisso e di Elle e la visione di Agni, il dio del fuoco principio vitale dell’universo. I giorni passarono veloci, il Sole abbandonò Ariete per entrare nel tellurico Toro, tenace, costante, volitivo. Fu poi la volta dei Gemelli, figli dell’aria, duttili ed assetati di conoscenza ed infine l’Astro proruppe nell’inesplicabile Cancro, profondo e oscuro come le acque primigenie che presiede... e fu il Solstizio d’Estate, ammantato d’oro e di luce. Celebrammo, allora, l’antico rito di rinnovamento e di speranza che ben s’addice al giorno più lungo dell’anno e al ciclo discendente del Sole. Venne quindi l’Estate e il Leone ruggì nel firmamento prima di lasciar campo alla Vergine, inesorabile e insofferente di nebbie e di brume. Giunto è ora il momento della Bilancia che annuncia un nuovo Equinozio: quello di Autunno. Come scorrea la calda sabbia lieve / Per entro il cavo della mano in ozio, / Il cor sentì che il giorno era più breve. / E un’ansia repentina il cor m’assalse / Per l’appressar dell’umido equinozio / Che offusca l’oro delle piagge salse. / Alla sabbia del tempo urna la mano / Era, clessidra il cor mio palpitante, / L’ombra crescente di ogni stelo vano / Quasi ombra d’ago in tacito quadrante. Forse nessuno come Gabriele D’Annunzio è riuscito a rendere l’inquietudine di questo momento, quando il mosaico di bianco e di nero, di luce e di tenebre si ricompone in un fragile, passeggero equilibrio. L’Equinozio ricorda il pavimento del Tempio nel quale alcuni colgono la dialettica degli opposti, il vivere sentimenti divergenti, l’essere lacerati fra forze contrastanti, il subire o il soffrire situazioni antitetiche. Ciò evoca il vi Arcano gli Amanti, metafora della cacciata dal Paradiso terrestre, del desiderio di uscire dall’indeterminato. Eppure, una volta caduti nel mondo delle differenze, gli uomini rimpiangono l’unicità perduta del misterioso En Sof, come la Schekinà, smarrita nel labirintico esilio della materia, anela al ritorno. Per altri l’immagine equinoziale accenna al giorno del Giudizio quando bianco e nero saranno separati e cesserà per sempre la prigionia dello spirito. Vi è, infine, chi coglie nello scaccato la complementarità dei principi dello Yin e dello Yang, aspetti diversi dell’unicità del Tai-Ki. Essi indicherebbero ciò che è in potenza e ciò che è in atto, il manifestato e il non manifestato, la terra e il cielo, Arjuna e Krishna, il mortale e l’immortale, l’io e il sé. Su un tavoliere di tessere bianche e nere il cui numero rammenta l’espansione del
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quaternario, le beatitudini di Siddartha, le generazioni interposte fra Adamo e il Cristo, gli Avatara dei Deva, si svolge il gioco degli scacchi, allegoria della battaglia esistenziale. Ogni pezzo: alfieri, cavalli, torri, pedoni, regina, si muove in modo diverso, ha facoltà e capacità distinte. Avanzano lentamente o corrono libere e possenti, saltano o erompono sulle diagonali, conquistano e minacciano. Guai però a dimenticare l’insostituibile, vulnerabile re: se cade, è scacco matto, la partita è finita, la storia è chiusa. Sappiamo che l’iniziato, a differenza del profano, dovrebbe percorrere la via stretta, che procede lungo la linea di confine fra tessere opposte. Egli conosce sia il bianco che il nero, tuttavia, non ne è coinvolto e ciò gli consente di eludere l’inganno delle fazioni, i tentacoli delle forze antagoniste, in perenne conflitto sul palcoscenico della vita. È facile da dirsi, ma difficile da realizzarsi, perché è agevole smarrirsi e ripiombare nel gioco degli opposti. Abissus abissum vocat, e l’abisso è in noi, nella nostra fragilità di uomini, nella nebbia della vanità, nel narciso impudente che alberga nel cuore, nell’egoismo che ossida ogni virtù, rendendoci incapace di riconoscere i nostri limiti e disposti a negare i meriti altrui. Il considerare il grado un’onorificenza, una patente di comando, un attestato o un diploma in discipline esoteriche via via più alto e prestigioso, il valutare una carica non un servizio, ma una sorta di titolo nobiliare, il dimenticarsi di quando, durante l’iniziazione, ci fu detto Tu sei mio fratello, lo scordare che si è maestri, cavalieri, principi, sovrani, grandi e ...issimi, non per una sciarpa o per un collare ma in quanto gli altri ci riconoscono come tali, ...tutto questo fa sì che la via sia smarrita e la partita persa. Tale è il pericolo; tuttavia, finché ne avremo percezione sarà possibile mantenere la rotta e se riusciremo ad ascoltare, le probabilità di ascendere sui sette gradini della conoscenza e di attraversare il ponte di ametista aumenteranno notevolmente. Ascoltare significa comprendere e il comprendere permette di valutare e di correggere. Non a caso Guido Calogero trasforma la formula: fate agli altri quel che vorreste fosse fatto a voi, in: comprendi l’altro come vorresti essere compreso. Officinae, giunta ormai al suo ventitreesimo anno di vita, vuol essere proprio uno strumento d’ascolto di voci, di testimonianze, di esperienze, di riflessioni, di percorsi di ricerca diversi. La redazione non impone limiti o divieti; può anche non condividere, ma non censura il dissimile, aborrisce, infatti, il conformismo intellettuale giacché è convinta che la via della conoscenza è percorribile solo col contributo di tutti. Perciò, in questo secondo ed ultimo numero doppio, gli argomenti sono molteplici e spaziano su varie discipline, tutti sono, però, legati da un sottile file rouge: la ricerca del cammino capace di mutare una falena insensata in un Ulisse desideroso di virtute e canoscenza. P.2-3: Nebbie e rugiada dell’equinozio di autunno.
Zefiro torna, e ‘l bel tempo rimena E i fiori e l’erbe, sua dolce famiglia E garrir Progne e pianger Filomena E primavera candida e vermiglia
Da Equinozio a Equinozio
Luigi Pruneti
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Geogra–a
Per una geografia massonica Sergio Ciannella
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remessa La fusione delle quattro logge che nel 1717 dette vita alla Gran Loggia d’Inghilterra, più che un evento storico può essere considerato l’atto simbolico fondativo di una Massoneria rinnovata, l’invenzione di una formula universale che, raccogliendo le esperienze iniziatiche maturate in Occidente sia in area mediterranea che nord europea, introduceva per la prima volta nella cultura dell’epoca, grazie ai suoi connotati spiccatamente etici e umanitari, una pratica esoterica alla portata di tutti. Metodi di conoscenza sovrarazionale e di ricerca del sacro sperimentati in ogni civiltà da minoranze curiose e ardite e trasmessi per vie segrete si erano perpetuati nei secoli in numerosi sodalizi ad impronta latomistica, ma la tradizione esoterica non aveva avuto mai larga diffusione, restando riservata solo a pochi iniziati. La nascita della Massoneria moderna imprime una svolta nel mondo delle scuole iniziatiche europee, offrendo una struttura simbolico-ritualistica unitaria e una codificazione di regole raccolte organicamente nelle Costituzioni curate dal reverendo James Anderson e
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pubblicate nel 1723, anno in cui a Londra si contavano già 52 logge. Intorno al 1730 nel nuovo assetto massonico compare il grado di Maestro, elemento simbolico che caratterizzerà l’intero impianto simbolico muratorio, dando origine ai tre gradi della Massoneria azzurra, denominati “Ordine” e adottati da ogni “Obbedienza” che si dichiari massonica. La novità non fu esente da critiche. I massoni più ortodossi legati ai riti del passato, i cosiddetti Antichi (Antients), presero subito le distanze da questa modernizzazione e in realtà dall’impronta socio-politica che coglievano nel nuovo assetto della Società dei Liberi Muratori. Malgrado gli iniziali contrasti, il definitivo consolidamento, che avrebbe dato vita alla più potente e temuta associazione laica conosciuta in Occidente, si realizzò nel 1813, quando le due principali correnti massoniche, degli Antients e dei Moderns si riconciliarono andando a fondare la Gran Loggia Unita d’Inghilterra. A distanza di tre secoli da quella rinascita simbolica, il successo della Massoneria nella sua versione moderna ha confermato la piena validità di una formula che ha il doppio merito di apri-
re vie inedite di conoscenza, come nella migliore tradizione esoterica, favorendo nello stesso tempo l’aggregazione per affinità elettive, sulla base di valori umani, etici e filantropici. Il fenomeno più significativo di questo nuovo corso sta propriamente nella spinta dei liberi muratori ad unirsi, mossi da una medesima formazione morale e dall’orientamento comune che li fa riconoscere fratelli a qualsiasi latitudine ed in qualsiasi condizione storica ed ambientale. Le imprevedibili potenzialità della Massoneria furono subito percepite con preoccupazione dai poteri costituiti, in primis dalla Chiesa cattolica, solo più tardi dalle Monarchie europee, in conseguenza dello sconvolgimento sociale provocato dalla Rivoluzione francese. L’ingenuo Cavaliere Ramsay, ardente spirito massonico attivo tra il 1735 ed il 1736 presso la Corte di Luigi XV, celebre per un discorso apologetico sulla Società dei Liberi Muratori, ritenne in perfetta buona fede di proporre la sorprendente “novità” addirittura al Papa, tramite la figura più potente di Francia, il Cardinale Fleury. Ma il risultato fu la prima scomunica, comminata da Clemente XII nel 1738 con la
Bolla In Eminenti. Cosa spaventava questi potenti? Esattamente la chance che il nuovo corso aveva conferito alla Massoneria, ovvero la possibilità di unire forze indipendenti, di elevato spessore morale e spirituale, fuori da qualsiasi sudditanza e controllo. Se l’attività latomistica era stata tollerata dalle Corti come fenomeno curioso affidata a maghi e istrioni e repressa facilmente dalla Chiesa con l’arma dell’Inquisizione, ciò era dovuto al fatto che la pratica esoterica fino a quel momento era stato appannaggio di singoli “ricercatori” o di piccole comunità. Il nuovo fenomeno dilagante di una società segreta che si andava diffondendo con rapidità in ogni Stato europeo e nel Continente Americano, raccogliendo consensi della parte migliore delle società, andava delineando la nascita di un sodalizio fortissimo, capace di concorrere con i poteri costituiti, sia temporali che spirituali. Singole logge si raggruppavano per costituire Obbedienze denominate Gran Loggia o Grande Oriente, organismi dotati di un proprio statuto e di proprie gerarchie; ogni Nazione ne accoglieva una o più di una, le più antiche e blasonate concedevano “patenti” per costituire altre Obbedienze: la comunione d’intenti diveniva sempre più larga, i contatti sul piano iniziatico tra fratelli di diverse Obbedienze sempre più intensi. Gli storici della Massoneria hanno documentato ampiamente come si sia sviluppata l’Istituzione in questi tre secoli e come si sia radicata in ogni ambiente e strato sociale, a dispetto delle ostilità e delle persecuzioni subite in ogni epoca. Minore attenzione viene data al panorama massonico dei nostri tempi, che pure è motivo d’interesse in quanto permette di valutare l’importanza ed attualità di questo fenomeno associativo. La documentazione al riguardo è scarsa perché, malgrado la rilevanza e originalità dei suoi contenuti, di elevato profilo etico e culturale, una forma moderna di
sofisticato antimassonismo verso questa antica e storica Istituzione, tende a sminuirne la portata, se non a sottacerne l’esistenza. Lo dimostra la tendenza malevola delle cronache, che trascurano gli aspetti fondamentali e qualificanti della Società dei Liberi Muratori, per costruire una immagine deteriore dell’Istituzione e convincere l’opinione pubblica che si tratti di un centro d’intrighi e affarismi piuttosto che di libero pensiero e di solidarietà umana. Queste le ragioni per le quali Officinae nello sforzo di fornire ai suoi lettori una corretta e completa informazione, ritiene utile inaugurare una rubrica che parli della realtà attuale della
Massoneria, una mappa delle Obbedienze nel Mondo nonché degli organismi internazionali ai quali lo spirito di aggregazione dei massoni ha dato vita, raccogliendo esperienze e culture di diversi Paesi e Continenti. La prima associazione di Obbedienze massoniche che viene presentata è il C.L.I.P.S.A.S., la più antica delle formazioni, che per estensione geo-
grafica e per numero di partecipanti, assume un ruolo di primaria importanza nel panorama internazionale. 1. I precedenti storici La nascita del CLIPSAS è legata all’affermazione di una Massoneria delle origini, libera dal dogmatismo che fu in se-
massonica guito introdotto ad opera della Gran Loggia Unita d’Inghilterra. I primi documenti della Massoneria moderna non prevedono alcuna regola rigida imposta come dogma, che sarebbe stata peraltro contraria allo spirito libertario che accompagnò la sua nascita. Le Costituzioni di Anderson del 1723, riconosciute come il documento fondamentale e originario della Massoneria, nella loro versione non ancora appesantita dai rimaneggiamenti che periodicamente avrebbero preteso di dettare principi definitivi e invalicabili, si limitano infatti a definire l’Istituzione un Centro di unione che permette di stringere legami di amicizia sincera tra persone che diversamente sarebbero rimaste per sempre estranee. Il problema religioso, all’origine del dogmatismo della Massoneria inglese, non era peraltro ignorato dalle Costituzioni, ma veniva fortemente temperato da una buona dose di tolleranza massonica. Il paragrafo di apertura degli Antichi Doveri allegati alle Costituzioni riporta testualmente “Un libero muratore è tenuto, per la sua condizione, ad obbedire alla legge morale; e se egli intende rettamente l’Arte non sarà mai un ateo stupido né un libertino irreligioso. Ma sebbene nei tempi antichi i Muratori fossero obbligati in ogni Paese ad essere della Religione di tal Paese o Nazione, quale essa fosse, oggi peraltro si reputa più conveniente obbligarli soltanto a quella Religione nella quale tutti gli uomini convengono, lasciando ad essi le loro particolari opinioni: ossia, esse-
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re uomini d’onore e d’onestà, quali che siano le denominazioni o le persuasioni che li possono distinguere”. 15 anni più tardi, contraddicendo questo spirito liberale, i massoni inglesi introducono l’obbligo si credere in una religione rivelata. Nel 1813, in concomitanza con la riuni-
simbolica e ritualistica. Nasce di conseguenza naturale tra di loro la spinta a riunirsi, per riconoscersi nella scelta condivisa di libertà e per recuperare insieme l’ideale di una Massoneria che cerchi di abbattere ogni motivo di separazione e si impegni a favorire la costituzione di centri di unione fraterna. 2. Le prime esperienze di associazionismo internazionale La ricerca di contatti tra Potenze massoniche di Paesi diversi ha la sua naturale motivazione nelle affinità elettive dei liberi muratori, ma all’inizio la spinta a ri-
ze d’Europa, America Latina ed Egitto, formano un Bureau International des Relations Maçonniques (BIRM).Tra i fondatori figura anche la Massoneria italiana, non ancora divisa tra Gran Loggia d’Italia e Grande Oriente d’Italia, che dimostra così, fin dai primi passi della nuova esperienza, la sua vocazione liberale e internazionalista. La Gran Loggia Unita d’Inghilterra non ficazione dei massoni Antichi e Moderentra a far parte dell’Organismo, ma ni e in un clima storico di restaurazione non mostra nemmeno di essere contradell’ordine politico e religioso sovvertiria all’iniziativa, come attesta la sua preto prima dalla Rivoluzione e poi da Nasenza in veste di osservatore al Bureau poleone, la Gran Loggia Unita del 1913. Il BIRM dura fino d’Inghilterra adotta una nuoal 1921. Due anni dopo nava Costituzione che impone di sce al suo posto l’AMI, Ascredere nell’esistenza di Dio. sociation Maçonnique InQuando nel 1877 il Grande ternationale che, mossa da Le Potenze Massoniche Sovrane riunite a Strasburgo il 22 Oriente di Francia, in nome analoghi intenti annovera gennaio 1961 della libertà di pensiero e del riObbedienze sia dogmatiCONSIDERATO spetto delle opinioni e convinche che liberali. Preoccupache s’impone di ricostituire tra tutti i massoni la Catena cimenti di ciascuno decide di ta questa volta dalla perdid’Unione interrotta a causa di inaccettabili preclusioni consopprimere questa espressione, trarie ai principi delle Costituzioni di Anderson del 1723. ta di leadership massonica, che è necessario a questo fine ricercare insieme, tenendo la Gran Loggia la Gran Loggia Unita d’Inconto di tutte le tradizioni, di tutti i riti, di tutti i simboli, di Unita d’Inghilterra, insieghilterra ripropone il tema tutte le credenze e nel rispetto della libertà assoluta di come ad altre Obbedienze coldelle regolarità fissando in scienza, le condizioni che determinano la qualità di maslegate, crea un fronte di preotto punti i principi di base sone. per “concedere” il riconoscisunta “regolarità” che rifiuta RITENGONO mento. Tra questi la fede nel tutte le Obbedienze non alliche il fatto di porre i lavori sotto l’invocazione del Grande Grande Architetto dell’Unineate a questo indirizzo dogArchitetto dell’Universo e di pretendere che una delle Tre verso e nella Sua Volontà Rimatico, posto come condizioLuci sia il Libro Sacro di una religione rivelata debba essere velata. Questa precisazione, ne per far parte del contesto lasciato all’apprezzamento di ciascuna Loggia e di ciascuche avvicina la Massoneria massonico accettato. Da quel na Obbedienza, più ad una religione che ad momento si delinea una granDELIBERANO una Comunione iniziatica – de divisione, tuttora esistente, di stabilire tra di loro relazioni fraterne e di aprire le porcome in seguito contesterà tra due Massonerie, o meglio te dei loro Templi, senza condizioni di reciprocità, a tutti i la Chiesa Anglicana – protra due modi diversi d’intenmassoni che abbiano ricevuto la Luce in una Loggia Giuduce l’effetto di escludere le dere e d’interpretare la Società sta e Perfetta, Obbedienze che lasciano i dei Liberi Muratori, l’una dogFANNO APPELLO propri membri liberi d’inmatica, legata ai dettami della a tutti i massoni perché si aggiungano a questa Catena d’Uterpretare l’espressione simGran Loggia Unita d’Inghilternione fondata su una completa libertà di coscienza ed una bolica riferita ad un Ente ra, l’altra liberale o adogmatica, perfetta tolleranza reciproca. Supremo e determina una aderente allo spirito universale definitiva frattura ideoloed ecumenico che aveva ispiragica con il Grande Oriente to la nascita della nuova, potente scuola unirsi viene sicuramente incentivata dal di Francia e le altre Potenze massoniche iniziatica. È peraltro evidente che il fenomeno di aggregazione internazionale desiderio di riavvicinamento alla Gran d’impronta liberale. La rigida prescrizione della Gran Loggia Unita d’Inghilterra si sviluppa maggiormente in questa se- Loggia Unita d’Inghilterra. conda area: mentre le Obbedienze ap- Si afferma così un modello di organismo non riesce a mettere in crisi l’AMI, che partenenti allo schema dogmatico sono internazionale formato da diverse Obbe- continuerà ad essere attiva fino al 1940 naturalmente legate tra di loro dall’ob- dienze, la cui finalità è quella di realizza- e riprenderà i suoi lavori dopo la paubligo comune di osservare i dettami del- re incontri periodici per studiare tema- sa bellica portandoli avanti su iniziatila Massoneria inglese, quelle d’ispirazio- tiche d’interesse comune e confrontare va prevalente della Gran Loggia Alpina ne liberale si riconoscono nel principio le rispettive esperienze in uno spirito di fino al 1950, fin quando cioè questa Obdi libertà e di tolleranza che le porta al unione e condivisione. Al Congresso di bedienza, che aveva svolto un ruolo trairispetto delle diversità, anche in materia Ginevra del 1902 venticinque Obbedien- nante, decide di aderire alla linea dog-
Geogra–a
\ Appello di Strasburgo \
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matica inglese e di proporne la fine al e trattare tematiche d’interesse comu- al riguardo: l’apertura alla Massoneria di Convento di Parigi. ne, inerenti il progresso umano e sociale, tutto il Mondo dopo una iniziale tendenIl disorientamento generato da questi che rappresenta l’obiettivo fondamentale za di chiusura europeista e l’ammissione eventi non spegne nell’ambiente masso- della Massoneria. L’Organismo è retto da di Obbedienze miste e femminili, decrenico liberale la volontà di aggregazione, un Regolamento Generale che prevede tata nel corso dell’Assemblea di Liegi nel che da vita ad alcuni sodalizi a livello eu- l’elezione di un Presidente e di un orga- 1983. L’obiettivo di riunire ciò che è sparropeo, ma di breve durata. no esecutivo, il Bureau, formato da sette so, alla base del progetto che ha condotto 3. Il CLIPSAS membri (Presidente e sei Vice Presidenti, Il 28 novembre 1960 il Grande Oriente di oltre ad un segretario generale ed al PreFrancia invia a tutte le Obbedienze mas- sidente uscente). L’ammissione di nuove soniche liberali d’Europa un proclama, Obbedienze è preceduta da una istrutto- alla nascita del CLIPSAS, trovò significacondiviso dal Grande Oriente del Bel- ria affidata a tre membri nominati vol- tiva attuazione nell’Assemblea di Roma gio, con il quale annuncia l’obiettivo di ta per volta, che predispongono un rap- del 1969 dove prese forma l’idea del franricostituire una Catena d’Unione ispira- porto informativo da sottoporre al voto cese Souslacroix di costituire a Vichy ta agli ideali di libertà e tolun centro d’incontro di figli di leranza e indice a tale scomassoni di tutto il Mondo, che po una riunione generale a prese il nome di “Jeunesse fraStrasburgo per il 22 gennaternelle” e che da allora orgaio 1961. Aderiscono undinizza ogni anno una sorta di È formata almeno da sette Maestri Massoni; ci Obbedienze europee che campus sportivo/culturale. accolgono con favore i con3 la dirigono, 5 l’illustrano, 7 la rendono giusta e perfetta. La riunione del 2011 tenuta in tenuti e le finalità del proclaLa Loggia lavora secondo un rituale che usa i simboli maggio a Strasburgo sotto la ma e sottoscrivono un testo Presidenza di Marc-Antoine della costruzione; elaborato sulla base di quei Cauchie, uno dei fondatori e principi, denominato “ApLe Tornate si svolgono in un luogo chiuso e coperto maggiori sostenitori del CLIPpello di Strasburgo”. Quedove si trovano le colonne J e B, le tre Grandi Luci tra SAS, ha celebrato i 50 anni di sta sarà la Carta costitutiva cui Squadra e Compasso, gli attrezzi del grado ed il pavita dell’Organismo. del nuovo sodalizio denovimento a mosaico; Il nuovo Bureau eletto dall’Asminato CLIPSAS, acronimo di Centre de liason et semblea Generale è così comLa Loggia pratica i gradi di Apprendista, Compagno e d’information des Puissanposto: Maestro; ces Maçonniques signataiPresidente Antonio Reis (GranL’Iniziazione al grado di Apprendista, che si effettua sotres de la déclaration de Strade Oriente Lusitano) sbourg, che a differenza dei to il segno del triangolo, comprende il Gabinetto di RiI Vice Presidente Jocelino Alprecedenti, opererà senza ves De Freitas (Gran Loggia flessione, le prove ed il passaggio dalla Tenebre alla Luce. interruzioni ed in continua Unita del Paranà) La promozione al grado di Compagno ha luogo alla luce espansione, fino a proporsi II Vice Presidente Roger Hadoggi come centro mondiadella Stella Fiammeggiante. L’elevazione al grado di Madad (Gran Loggia dei Cedri) le della Massoneria liberale. estro comporta la comunicazione della leggenda di HiIII Vice Presidente Pierre LamI contenuti e le finalità del bicchi (Grande Oriente di Franram. Ad ogni grado corrisponde una promessa solenne. CLIPSAS sono descritcia) È considerato Massone chi è stato iniziato formalmente ti nell’Appello di StrasburIV Vice Presidente e Tesoriere go pubblicato qui di seguito in una Loggia massonica Giusta e Perfetta. Marco Galeazzi (Gran Loggia insieme al testo, di uguad’Italia) le importanza, con il quale V Vice Presidente Bertrand l’anno successivo vennero fissate dall’Assemblea le condizioni es- dell’Assemblea. Nei confronti della visio- Fondu (Grande oriente del Belgio) senziali per considerare una Loggia “giu- ne deista della Gran Loggia d’Inghilter- VI Vice Presidente René Molina (Seresta e perfetta” e quindi massonicamente ra il CLIPSAS non ha alcun pregiudizio nissima Gran Loggia di Lingua Spagnola) né contrapposizione di principio, reputa Segretario Generale Louis Daly (Gran rilevante. Nato su iniziativa di undici Obbedienze, però inconciliabile con la Dichiarazio- Loggia Omega, USA) il CLIPSAS conta oggi la partecipazione ne di Strasburgo imporre ad altre Obbe- Ex Presidente onorario Marc-Antoine Cauchie (Grande Oriente del Lussemburdi Potenze massoniche di quattro Con- dienze regole e comportamenti. tinenti, rappresentate dai rispettivi Gran Una forte impronta laica e liberale sta alla go). Maestri o loro delegati, che si riunisco- radice del grande sviluppo e della resiP.4: Strasburgo, sede del Parlamento Europeo; p.5: Frontespizio delno annualmente in Assemblea Generale, stenza di questo Organismo internazio- le Costituzioni di Anderson; p.6-7: L’Appello di Strasburgo e la Logper confrontare le rispettive esperienze nale. Due tappe sono state determinanti gia Giusta e Perfetta.
massonica
\ La Loggia Giusta e Perfetta \
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Metin Ansen, Gran Loggia Liberale di Turchia Una Confraternita Iniziatica in Anatolia: Ahilik Se si osserva una piantina dell’Europa, si
Geogra–a può vedere che la Turchia si trova all’incrocio di due strade che gli storici chiamano “la Strada della Seta” e “la Strada delle Spezie”. Non voglio dilungarmi sull’importanza e il significato di queste due strade per l’economia mondiale a quell’epoca. La posizione strategica della Turchia ha fatto sì che sia stato un polo di attrazione per invogliare i commercianti dell’Europa a stabilirsi in questa terra per lavorarci ed arricchirsi sviluppando le relazioni commerciali e marittime tra il Vecchio Continente e l’Impero Ottomano. Il commercio tessile, di spezie, le attività bancarie e di scambio, le attività di assicurazione e quelle marittime ed anche alcuni settori dell’industria sono stati i bersagli dei commercianti dell’occidente. Negli anni 1850 tutte queste minorità, vivendo sul territorio dell’Impero Ottomano, hanno cominciato a creare delle logge massoniche. Queste Logge dipendevano dalle Obbedienze site nei loro paesi di origine. Ecco perché si incontra una pletora di logge massoniche, ad Istanbul, a Tesalonica e in varie città della costiera dell’Impero, logge italiane, francesi, inglesi, tedesche, ungheresi, polacche, ed altre. L’eroe nazionale italiano, il nostro Fratello Garibaldi, ha soggiornato qualche tempo ad Istanbul ed ha frequentato le logge italiane. È da notare che tutte queste logge praticavano dei riti diversi ed iniziavano preferibilmente i levantini che avevano la nazionalità dell’Obbedienza madre. Avevano pochi rapporti con loro. Tra queste logge massoniche, quelle che, trovandosi a Tesalonica, facevano parte integrante dell’Impero dell’epoca, erano riconosciute per le loro idee innovatrici e riformatrici. I “giovani Turchi” dovevano molto a
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queste logge di Tesalonica che gli permisero di poter esercitare la loro influenza presso il Sultano obbligandolo a ricorrere a delle riforme. Tanti fratelli e sorelle che ho potuto incontrare durante i miei spostamenti all’ estero mi parlano spesso della loro sorpresa quando si rendono conto della presenza importante (20.000 fratelli e sorelle attualmente, tra le varie obbedienze) e dell’attività sostenuta dalla massoneria
oggi in Turchia, paese laico però imbevuto dalla tradizione musulmana. Perchè per questi fratelli e sorelle stranieri, la tradizione esoterica ed iniziatica della massoneria, di origine giudeo-cristiana avrebbe dovuto normalmente trovarsi in contraddizione con le tradizioni loca-
li, costituendo svantaggio per la pratica dell’Arte Reale in questa nazione. Come conciliare le due culture? Sarebbe interessante far notare l’esistenza di una società iniziatica in Anatolia, risalendo al XII secolo, che ha il suo posto nella storia della civiltà turca che assomigliò molto alla massoneria. Si tratta della confraternita ahilik. La parola Ahilik nel turco antico praticato nell’Impero Ottomano, significa la fratellanza. Gli adepti di questa confraternita si conoscono con la denominazione di Ahi, sinonimo di fratello. La confraternita Ahilik, sotto l’autorità di un Venerabile Maestro, chiamato Ahi Baba, Maestro Ahi, riuniva in suo seno gente con alcuni mestieri escludendone altri, e si proponeva di inculcare le regole dell’arte, il rispetto della religione, l’etica e le regole della vita in società. Mirava anche all’apprendimento delle arti marziali, delle regole del savoir-vivre, della retorica, l’insegnamento dell’alfabeto e della lettura. La confraternita mirava anche all’unificazione dei modi di produzione e dei prezzi, l’introduzione delle misure per instaurare un sistema di sicurezza sociale, con il miglioramento delle relazioni di lavoro tra operaio e dirigente. Si proponeva di stabilire delle condizioni per l’ottenimento delle materie prime e di insegnare il modo di lavorarle, di legiferare il commercio e la circolazione dei beni e di instaurare di nuovo le leggi sulla concorrenza. Prevedeva inoltre di educare le donne, tradizionalmente allontanate dall’attività economica, insegnando loro alcuni mestieri e difendendo il loro diritto. Visto così, si può dunque affermare che le confraternite Ahilik avevano un ruolo molto importante nella vita socio-culturale, economica e politica dell’Impero Ottomano. Al momento della sua creazione e dell’organizzazione delle sue strutture, bisogna far notare che il commercio in Anatolia era nelle mani dei commercianti bizantini che non riconoscevano il diritto di esistenza ad altre minorità che vivevano sulla terra di Anatolia e dominavano tutto ciò che era relativo al commercio. La confraternita Ahilik ha sicuramente voluto giocare un ruolo per lo sviluppo del
commercio tenuto dai popoli turchi, venuti dall’Asia Centrale e nuovamente installati in Anatolia, per poter competere con la gente bizantina di mestiere. Questa confraternita risale agli anni 1200. È stata creata da Ahi Evran, nato nel 1171 a Khorasan, ai confini dell’Asia Centrale, al nord est dell’attuale Iran. I peripli di Ahi Evran l’hanno portato un poco ovunque e ha finito per stabilirsi al centro dell’Anatolia, paese del Levante dove ha fondato il suo movimento per irradiarlo, in seguito, in tutto il paese. Durante i suoi spostamenti, Ahi Evran si è reso conto che i commercianti turchi, venuti numerosi dall’Asia Centrale, incontravano delle difficoltà per affermar-
rimane in sospeso. La confraternita Ahilik - che somiglia tanto alla Massoneria - aveva come lei tre gradi: Apprendista, Compagno e Maestro. Una parte importante del simbolismo usato dalla Massoneria, come la simbologia delle cifre, era anche usato dalla confraternita. L’Impero turco che dominava l’Anatolia al momento della creazione della confraternita si chiamava Impero Seldjoukide. Le autorità dell’Impero hanno favorito questa confraternita perché si rendevano conto che costituiva una forza per rendere il popolo turco più unito nei confronti della presenza bizantina. Si può dire che la confraternita Ahilik era la prima Catena d’Unione nell’Impero Seldjoukide.
Erano disposte a secondo della zona di attività. Sotto questo punto di vista si nota una certa somiglianza con le corporazioni del Medio Evo. Il fondamento della confraternita era basato su tre insegnamenti principali: l’insegnamento della morale e della virtù, l’insegnamen-
si di fronte all’importanza dei commercianti bizantini e della loro istituzione di protezionismo. I bizantini non riconoscevano nessun diritto a quelli che non facevano parte della loro comunità. La popolazione turca era nell’ignoranza, non aveva lo spirito di cooperazione e rifiutava ogni organizzazione per il miglioramento della qualità della loro vita. Queste tre constatazioni sono state le ragioni principali che spinsero Ahi Evran ad istituzionalizzare la sua organizzazione, basata su un andamento iniziatico che ha conosciuto le sue ore di gloria per 700 anni, fino alla fine dell’Impero Ottomano. Sarebbe interessante notare che a quei tempi, l’Anatolia si confrontava con gli assalti dei crociati. Ci si pone la domanda se sia esistito un effetto di interazione tra i crociati che portavano nelle idee comportamenti cavallereschi e le confraternite Ahilik che in un modo o nell’altro, hanno potuto influenzare queste correnti venute dall’Europa. I crociati hanno fondato un principato in Anatolia, il principato di Edessa, che avrebbe potuto avere contatti con la confraternita Ahilik. La domanda
L’attività esoterica ed iniziatica della confraternita si svolgeva nei locali sistemati appositamente, chiamati “Zaviyé”. Le “Zaviyé” erano dei luoghi che non soltanto servivano per le riunioni dell’istituzione, ma anche per mangiare, per in-
ditori, i macellai, i chirurghi, i cacciatori. Il fondamento della sua legge morale era questo: - Tenere aperte la mano, la porta e la tavola. - Dominare la lingua (non dire bugie), gli occhi (non avere grosse invidie, non mirare il possesso degli altri) e dominare la cintura, cioè trattenersi ed avere una certa dignità nelle relazioni amorose… La cerimonia di ricevimento del compagno al grado di Maestro si faceva nello Zaviyé della regione. La loggia era ricoperta di tappeti di tutti colori, confezionati dai membri della Confraternita. Gli Ahi erano seduti direttamente sul pavimento, accovacciati, piegando le gambe, a piedi nudi, ognuno sul suo tappeto, su due file faccia a faccia, il mezzo era riservato allo svolgimento della cerimonia. L’entrata nello Zaviyé si faceva in silenzio, sotto la responsabilità del Maestro delle cerimonie, chiamato Yigitbasi. All’entrata del Venerabile Maestro del Zaviyé, Ahi Baba, l’uditorio si metteva in piedi seguendo il cerimoniale lasciandolo passare fino al suo posto in fondo alla stanza, su un palco con tre gradini. Ahi Baba si
segnare e per ricevere ospiti durante il loro soggiorno. Le Zaviyé erano circondati da case di commercio tenute dagli addetti della confraternita. Queste case si chiamavano “Arasta”, denominazione sempre valida ed utilizzata ancora oggi.
massonica to dell’Arte. Tramite gli uomini che potevano essere ricevuti nella confraternita, alcune categorie della popolazione erano rifiutate: gli infedeli, quelli che seminavano la discordia, gli indovini, i trafficanti di bibite alcoliche, i ragazzi dei bagni turchi che lavavano e massaggiavano, i ban-
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Durante questo tempo, il Maestro delle Cerimonie faceva passi indietro, usciva dalla stanza ed andava all’incontro con i compagni che aspettavano fuori, ognuno con il suo Maestro abituale, che l’ave-
mano destra (simbolo di purificazione). Arrivato all’altezza del palco, si inginocchiava mettendo il suo ginocchio sinistro per terra e piegando il ginocchio destro, metteva la scopa sotto il braccio sinistro, la mano destra sul cuore, le dita divaricate. Salutava il Maestro Venerabile e usciva dalla stanza all’indietro, sempre facendo finta di pulire il viale centrale con la scopa, salutava ancora una volta Ahi Baba. Durante le cerimonia di ricevimento, su una piccola tavola che si trovava accanto al venerabile Ahi Baba erano allineati una tazza d’acqua, una tazza di terra, un poco di sale, una bilancia e una pie-
metteva la sua mano sinistra sulla spalla destra del Compagno ed aveva la cintura nella sua mano destra che il Compagno doveva portare alla fine della cerimonia. L’altro fratello Ahi trovandosi a sinistra del candidato, poneva la mano destra sulla spalla sinistra del compagno e portava su un vassoio retto dalla mano sinistra un esemplare del lavoro compiuto dal compagno durante il suo compagnonnage. Per entrare nello Zaviyé, ognuno imitava il modo di camminare del Maestro delle cerimonie. Questo si spostava in avanti con un primo passo, effettuato con il
va seguito durante tutta la durata del suo apprendimento e del suo compagnonnage. Due altri maestri si trovano lì per aiutarli nello svolgimento della cerimonia. Alla fine della preghiera fatta dal Venerabile Ahi Baba, il Maestro delle Cerimonie entrava nella stanza facendo tre passi rituali, la mano destra sul cuore. Il Maestro delle Cerimonie, dopo aver percorso il viale centrale con tre passi rituali, si rivolgeva ad Ahi Baba confermandogli che il candidato alla maestranza che aspettava alla porta del Zaviyé aveva compiuto il suo apprendimento con il Maestro nominato da lui, che questo percorso era stato effettuato senza nessun sbaglio, che il Maestro responsabile del Compagno dava il suo consenso per la sua elevazione al grado di Maestro, e che la decisione finale per accedere a questa domanda dipendeva dal Venerabile Ahi Baba. Ahi Baba sottoponeva questa domanda al consenso dell’assistenza che esprimeva la sua volontà con si o no. In caso di risposta favorevole, Ahi Baba notificava al Maestro delle Cerimonie il consenso dell’uditorio e gli chiedeva di portare il candidato. Il Maestro delle Cerimonie andava avanti passo dopo passo fino al palco sul quale si poneva il venerabile Ahi Baba, facendo finta di pulire il viale centrale camminando con una scopa che teneva dalla
tra grezza. Il Maestro delle Cerimonie chiedeva di nuovo di entrare nella stanza, portando con lui, su un vassoio, il “Cofano di Mezzo”. Il Cofano di Mezzo conteneva l’importo in contanti equivalente all’aumento di grado, pagato dal Maestro al quale era affidato il compagno. Sul vassoio si trovavano altre offerte fatte dai membri della confraternita: calzini di lana, fazzoletti, tovaglioli, del sapone, l’acqua di rosa, ecc. Il Maestro delle Cerimonie spostandosi in avanti nei rituali passo dopo passo, presentava il vassoio delle offerte e il Cofano di Mezzo al Maestro Venerabile dopo essersi inginocchiato davanti a lui. Ahi Baba disponeva del contenuto del Cofano di mezzo per utilizzarlo al meglio. Il Maestro delle Cerimonie chiedeva una terza volta l’entrata del Zaviyé, accompagnato questa volta di quattro persone: il Maestro messo davanti a destra, il Maestro delle cerimonie davanti a sinistra, il compagni due passi dietro di loro in mezzo, e dietro il compagno alla sua sinistra e alla sua destra due fratelli accompagnatori. Il Maestro e il Maestro delle cerimonie avevano le loro mani intrecciate sulla loro pancia, il compagno aveva le braccia incrociate vicino alle spalle, le dita divaricate, il braccio destro al di sopra del braccio sinistro. Il fratello accompagnatore trovandosi a destra
piede sinistro, portava in seguito il piede destro accanto al piede sinistro e portava l’alluce del piede destro su quello del piede sinistro. Due altri passi si facevano uguali al primo passo. L’alluce del piede sinistro simbolizzava i sentimenti, quello del piede destro la ragione. Ad ogni passo effettuato, questo gesto ricordava all’uditorio che l’uomo comincia in primo luogo ad intraprendere tutte queste cose con i sentimenti, poi man mano che progredisce nella vita, la ragione diventa sovrana e dirige i suoi sentimenti, che il buono, il bello e il vero possono essere raggiunti solo con l’uso della ragione che deve vincere sui sentimenti. Dopo aver salutato l’uditorio, i quattro fratelli Ahi accompagnatori andavano indietro di quattro passi e s’inginocchiavano dietro al candidato, lasciandolo da solo, in piedi di fronte al venerabile Ahi Baba. Ahi Baba si intratteneva con il candidato sul lavoro da effettuare durante il suo compagnonnage, sull’etica del commercio e dell’arte. In seguito a queste domande, Ahi Baba interpellava il Maestro delle Cerimonie chiedendogli se il candidato era quello proposto per la maestranza. Nel caso positivo, Ahi Baba chiedeva al Maestro delle Cerimonie di dare l’identità del candidato, di fare una breve relazione su i lavori compiuti, sul numero degli anni passati in qualità di compagno,
metteva sul palco, sedendosi su tre cuscini sovrapposti, le gambe piegate e incrociate davanti a lui. La tornata iniziava con saluti che Ahi Baba rivolgeva all’assistenza. I membri dell’assistenza impedivano di parlare tra di loro. Il Venerabile Maestro procedeva con una preghiera.
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sulla qualità del lavoro compiuto per la maestranza, e lo pregava di presentare all’uditorio un esemplare del lavoro che il candidato aveva svolto durante il suo compagnonnage. Il Maestro delle Cerimonie presentava su un vassoio, al Maestro Venerabile, ed in seguito a tutta l’assistenza, un esemplare del lavoro svolto dal candidato durante il suo compagnonnage. Il Maestro Venerabile continuava ad interrogare il Maestro delle cerimonie sui buoni costumi del candidato, sulla sua personalità profana e le sue relazioni con l’entourage.
Baba con la cintura di Maestro appoggiata sul braccio. Anche il Maestro andava in avanti verso il palco dove si trovava il Maestro Venerabile, prendeva la bilancia che si trovava accanto a lui e la dava ad Ahi Baba. Ahi Baba faceva nuove raccomandazioni, tenendo la bilancia in mano. I suoi consigli erano basati sull’onestà e la moralità nel lavoro svolto, sulla giustizia, la prudenza e sul rispetto. I consigli di Ahi Baba si concludevano dando tre pacche sulla schiena del candidato. Era ora d’indossare la cintura di Maestro. Il diritto di portare la cintura apparte-
come: il quarto nodo “fisso” esprimeva la coscienza personale del candidato che sorveglia il rispetto dell’etica del grado di Maestro: il quinto nodo “fisso” rende ancora più forte il rispetto di questa etica. Alla fine del quinto nodo, il Maestro prendeva le due mani del candidato nelle
Dopo una risposta soddisfacente, Ahi Baba si girava verso l’assistenza e chiedeva il suo parere per sapere se bisognava accettare il candidato tramite i Maestri ed autorizzarlo a cingere la cintura di Maestro degli Ahi permettendogli di avere il suo negozio. In caso di approvazione, Ahi Baba si metteva in piedi sul palco, seguito da tutti, le mani intrecciate sulla pancia. Il Maestro del compagno prendeva il compagno candidato dal braccio destro, lo avvicinava verso il Maestro Venerabile che gli leggeva le raccomandazioni. Da questo momento, il candidato alzava le braccia intrecciate per tenere i lobi delle orecchie, postura che manteneva fino alla fine della lettura delle raccomandazioni. Alla fine della lettura, il Maestro Venerabile chiedeva al candidato se accettava di seguire queste raccomandazioni. Dopo la risposta positiva del candidato, il Maestro Venerabile Ahi Baba annunciava all’assistenza che il candidato era stato riconosciuto degno di portare la cintura di Maestro della confraternita di Ahi. Dopo di ciò, il candidato andava indietro fino alla porta del Zaviyé, si metteva accanto dei suoi accompagnatori, si toglieva la cintura di Compagno, la dava al Maestro. Il Maestro la piegava e la sostituiva contro la cintura di Maestro. Il nuovo Maestro andava in avanti verso Ahi
neva al Maestro. Però in generale questo prestava la cintura al Maestro Venerabile, o ad un altro membro del Zaviyé particolarmente rispettabile. La cintura consisteva in una larga fascia di stoffa. Si cominciava a fare sulla striscia di stoffa tre pieghe per lungo per poi farne cinque, che si disfaceva facendone cinque, si prendeva la cintura da tutti i due lati e si stendeva fortemente e la si metteva dietro al candidato che stava in piedi davanti ad Ahi Baba, si faceva un giro intorno alla testa del candidato con l’estremità tenuta nella mano sinistra e si annodava e snodava una prima volta le due estremità della cintura al livello della pancia, poi si annodava e si snodava una seconda e terza volta. Ogni volta si recitavano le raccomandazioni e le preghiere rituali con lo scopo di poter affidare il candidato alla protezione di Dio, del Profeta e delle regole morali relative alla maestranza. Un altro significato simbolico dei tre nodi che si facevano e si disfacevano era basato sulla nozione delle tre porte che si chiudevano e si aprivano davanti al candidato, per guidarlo nel suo nuovo percorso. Dopo questi tre nodi mobili, si procedeva all’esecuzione del quarto e del quinto nodo fisso, che non si disfaceva più. La spiegazione simbolica di questi ultimi nodi fissi era tradizionalmente data
mo. Rispondo di tutti gli atti del candidato e sono responsabile del cammino che proseguirà d’ora in poi rispettando la moralità e l’onore della nostra confraternita, provando di diventare un cittadino rispettoso e rispettabile al servizio del proprio paese, un buon credente ed un buon Ahi. In presenza dell’assistenza, vi chiedo di perdonarmi se ho commesso degli errori o se ho offeso qualcuno durante il suo compagnonnage. Da questo momento, il nuovo Maestro Ahi, che non possedeva finora nessun diritto alla parola, chiedeva il permesso di esprimersi e dichiarava: Il mio Maestro non mi ha ne offeso ne ha commesso errori. Mi ha protetto e mi ha insegnato il mio mestiere. Che Dio sia lodato, lo ringrazio e Vi ringrazio. A questo punto, il Maestro prendeva la pietra grezza che si trovava su un piccolo tavolo accanto al Maestro Venerabile Ahi Baba, la stendeva al nuovo Maestro Ahi dicendogli: Questa pietra grezza sarà levigata con il lavoro che intraprenderai ormai nell’esercizio del tuo mestiere. Con i tuoi sforzi diventerà lucida come l’oro. Il lavoro che effettuerai per levigare questa pietra grezza ti renderà ricco e felice. Tutti i maestri Ahi ti aiuteranno nel compimento e nella riuscita del tuo Dovere. In seguito, il Maestro tendeva al nuo-
massonica sue mani e si girava verso il Maestro venerabile dicendogli: abbiamo operato per il miglioramento della personalità e l’arte del candidato. Siamo riusciti nel nostro compito con l’aiuto di Dio e lo ringrazia-
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vo Maestro Ahi lo strumento simbolico del suo mestiere che si trovava accanto al Maestro Venerabile e gli diceva: Ascoltami bene figlio mio: questo strumento è servito a tanti altri prima di te, porta l’impronta dei nostri antenati. Utilizzandolo con criterio, lo segnerai dalla tua impron-
Geogra–a ta e un giorno lo presterai a quelli che ti seguiranno nell’esercizio del tuo mestiere. Se non fai un buon utilizzo di questo
strumento con il rispetto che gli devi, diventerà uno strumento che ti strangolerà nell’aldilà. Così finiva la cerimonia del passaggio dal grado di compagno al grado di Maestro nella confraternita Ahilik. Il nuovo Maestro abbracciava la mano di ciascuno. Poi rispondeva dando a ciascuno tre pacche sulla schiena. Nell’esercizio del suo mestiere, ogni Maestro Ahi era nell’obbligo di portare la cintura di Maestro che gli dava una certa rispettabilità nella società, una diplomazia e una dignità. Se si scopriva che un Maestro Ahi aveva fallito all’onore del suo mestiere, si procedeva alla chiusura del suo negozio con il divieto per lui di esercitare di nuovo. Per questo tutti i maestri Ahi si riunivano davanti al negozio in merito. La popolazione era anche invitata. Il Maestro Venerabile Ahi toglieva la cintura indossata dal Maestro Ahi indegno, metteva un lucchetto sulla porta del negozio, e gli toglieva anche la scarpa portata al piede destro, piede della ragione, per buttarla sul tetto del suo negozio. Ecco da dove proviene l’espressione popolare utilizzata ancora ad oggi in Turchia, avere la scarpa buttata sul tetto, per esprimere l’idea che questa persona non conta più nulla nella società, il suo tempo è passato. La confraternita Ahilik era soprattutto presente nei settori di attività come il lavoro del cuoio, del vetro, dell’ottone e dell’oreficeria, nelle arti marziali ed in al-
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cuni sport. Nei mestieri di guerra e nell’esercito, c’era un corpo dei maestri Ahi che occupava una posizione in primo piano. Gli Ahi erano anche molto ricercati nell’arte della scrittura, la calligrafia occupava un posto importante nella tradizione musulmana. La fine dell’Impero Ottomano è stata anche la fine della confraternita Ahilik. La nuova Repubblica voleva ricominciare da capo senza nessun attaccamento all’antico Impero. Il fondamento della nuova repubblica era la laicità. La confraternita
Possiamo concludere dicendo che la massoneria che faceva la sua apparizione nel corso del XIX secolo nel paese dell’Impero Ottomano, ed anche il sistema iniziatico e il simbolismo, non si sono ritrovati su un terreno sconosciuto o ostile alla pratica dell’Arte Reale. Possiamo valutare che la confraternita Ahilik aveva più o meno preparato le costumi e le tradizioni per familiarizzarsi con la Massoneria. Gli Ahi hanno lasciato un impronta nella storia dell’Impero Ottomano. Come già detto precedentemente, forse hanno pre-
che aveva un contenuto un po’ religioso non era ben vista. Oggi, si commemora questa confraternita ogni anno, durante una settimana in autunno, cominciando da una visita alla tomba di Ahi Evran, al centro del paese, con la rappresentazione simbolica di una cerimonia di passaggio da compagno al grado di Maestro. Tante opere ad oggi sono state pubblicate in Turchia sull’argomento di questa istituzione, tra di loro una gran parte studiano le somiglianze tra la confraternita Ahilik e la Massoneria. Bisogna dire che una parte delle tavole presentate nelle Logge massoniche in Turchia trattano di questa confraternita e delle sue somiglianze con il simbolismo e l’iniziazione massonica.
parato il terreno alla pratica della massoneria in questo paese. Ecco perché, trovo interessante parlare di questo argomento per poter far conoscere un aspetto nuovo delle relazioni e somiglianze che si possano incontrare tra massoneria di origine giudeo-cristiana e le confraternite iniziatiche esistenti o esistite nelle zone che non fanno parte della civiltà greco-romana e della tradizione giudeo-cristiana.
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Alain Chantrain Grande Oriente di Lussemburgo Il Grande Oriente di Lussemburgo è una associazione animata dalla ricerca del progresso per il miglioramento dell’Uomo e della Società, nel rispetto di una Tradizione ereditata dai fondatori della Massoneria. Il Grande Oriente di Lussemburgo è una federazione di Logge Massoniche che si sono poste sotto la sua autorità. E’ una Obbedienza laica, adogmatica e pluralista che può accogliere delle Logge miste, maschili o femminili, costituite da membri regolarmente iniziati. Il Grande Oriente di Lussemburgo inizia soltanto ai tre gradi simbolici di Apprendista, Compagno e Maestro. Le Logge lavorano a qualunque rito da lui riconosciuto.
Per i massoni, la ricerca del progresso è sempre stato un motore nelle loro riflessioni e nei loro atti. Questo principio fa parte integrante della Tradizione dell’Obbedienza. Il Grande Oriente di Lussemburgo opera nel rispetto dei Diritti dell’Uomo e nel principio di democrazia e di assoluta libertà di coscienza. Ecco in breve la cronologia del Grande Oriente del Lussemburgo. 1729 – È menzionata una massoneria a
Lussemburgo. 1763 – Installazione di logge militari i cui ufficiali sono inglesi o scozzesi. 1789 – 1814 – L’arrivo delle truppe rivoluzionarie francesi, poi l’avvenimento di Napoleone Bonaparte, segnano il periodo dove si crea la Loggia LES ENFANTS DE LA CONCORDE FORTIFIEE che riceve la sua patente dal Grande Oriente di Francia. È nata dalle logge LA CONCORDE e LA PARFAITE UNION. A partire del 1815, è collegata al Grande Oriente dei Paesi Bassi. 1814 – 1830 Il periodo prussiano assiste all’inizio del Gran Duca di Lussemburgo e alla creazione della loggia militare prussiana FRIEDRICH ZUR VATERLANDSLIEBE poi della Loggia BLUCHER VON WAHLSATT che riceve la sua patente dalla Gran Loggia Nazionale dei Tre Globi di Berlino. 1926 Nascita della Gran Loggia di Lussemburgo. Dopo la Seconda Gerra Mondiale, la Massoneria del Lussemburgo si divide tra la massoneria adogmatica ereditata dal Grande Oriente di Francia e del Belgio e la massoneria ereditata dalla Gran Loggia Unita d’Inghilterra. Ecco come il 26
novembre 1959 è stato creato il Grande Oriente di Lussemburgo con Fratelli dell’Officina L’ESPERANCE legati alla laicità ed al libero pensiero. Questo primo periodo si conclude nel 1968 dove il Grande Oriente di Lussemburgo si pone in sonno. La Loggia L’ESPERANCE riprende i suoi lavori in autunno 1969 come L’ESPERANCE – indipendente e sovrana. Il Grande Oriente riprende i suoi lavori massonici il 2 ottobre 1982. È composto da tre officine: L’ESPERANCE, LIBERTE e TOLERANCE. È una
Obbedienza pluralista perché la loggia LIBERTE è dalla sua fondazione una officina mista, alcune officine maschili accettano delle sorelle in visita, e se questo non si verifica, potrebbero esserci officine unicamente femminili. Il 17 ottobre 1987, L’ESPERANCE avvia
massonica l’officina TRADITION ET PROGRES: La loggia L’ESPERANCE lascia il Grande Oriente di Lussemburgo nel 1990.
La loggia LICHT UND WARHEIT, all’Oriente di Bonn raggiunge il Grande Oriente di Lussemburgo nel 1991. Nel 1999, la Loggia CARPE DIEM, all’Oriente di Heidelberg e nel 2000, la Loggia MONTAIGNE, all’Oriente di Liège raggiungono il Grande Oriente di Lussemburgo. Il 22 gennaio 2005, le logge FIAT LUX, all’Oriente di LEEUWARDEN (NL) e RUWE KASSEI, all’Oriente di Gand (B) raggiungono il Grande Oriente di Lussemburgo. Il 20 ottobre 2005, le logge DIOGENES all’Oriente di Turnhout (Belgio) e LA FAYETTE all’Oriente di Lussemburgo sono state affiliate al Grande Oriente di Lussemburgo. Altre Obbedienze esistono nel Lussemburgo come la Federazione internazionale del Diritto Umano e la Gran Loggia Femminile di Francia, di cui il Tempio del Grande Oriente accoglie le officine. P.8: Il Gran Maestro turco Metin Ansen e, sotto, il sigillo della Gran Loggia di Turchia; p.12: Il Gran Maestro lussemburghese Alain Chantrain e, a lato, il sigillo del Grande Oriente di Lussemburgo.
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Storia
XX Settembre 1870 L»italianissimo Gió Bernardo Calvino alla liberazione di Roma dal papa-re
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remessa: il XX settembre ieri e oggi Da tempo anche il cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato della Santa Sede, e il presidente della Conferenza Episcopale Italiana, cardinale Angelo Bagnasco, affermano che l’unità politica dell’Italia affonda radici nella cristianizzazione; l’abito (lo Stato nazionale) vestì un corpo (gli italiani, i “popoli d’Italia”) la cui unitarietà esisteva da millenni; perciò lo Stato unitario miracolosamente formato nel 1859-61 agli occhi della chiesa cattolica contemporanea appare realtà positiva e irreversibile. Anche studiosi di storia della Chiesa, come padre Gregorio Penco, da decenni insegnano a guardare oltre i conflitti politico-militari contingenti di metà Otto-
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Aldo A. Mola cento e a cogliere il processo plurisecolare approdato all’avvento del regno d’Italia che fece da contenitore di realtà plasmate dalla chiesa nel corso dei secoli. Tali considerazioni, espresse con forza dal maggio 2010 alle rievocazioni del 150° dell’unità nella primavera 2011, in forma nuova riecheggiano posizioni affermate sin dal 1860-61 da un nutrito nucleo di teologi e di ecclesiastici, convinti che la Chiesa dovesse e potesse accettare senza riserve il regno d’Italia, benché questo fosse nato dall’imposizione della sovranità del re sabaudo su tanta parte dello Stato Pontificio. La legittimazione del processo di unificazione si fondò sui plebisciti, fondamentali anche se largamente trascurati e sottovalutati dalla storiografia. Per intendere le dimensioni del contrasto tra regno
d’Italia e Sacro Soglio, e al tempo stesso le sue dimensioni effettive, ridotte e contingenti, giova ripercorrere rapidamente gli eventi. Nell’aprile-maggio 1859 le popolazioni di Bologna e della Romagna insorsero contro i cardinali legati, si dettero governi provvisori che indissero l’elezione dell’Assembla delle province dell’Emilia, la quale a sua chiamò i cittadini a dire se volessero “l’annessione alla monarchia costituzionale del re Vittorio Emanuele II” oppure “un regno separato”. La consultazione si svolse l’11-12 marzo 1860 e registrò la straripante vittoria degli “annessionisti”. Il 4-5 novembre i cittadini di Marche e Umbria, occupate da un corpo d’armata del regno di Sardegna previ ultimatum e dichiarazione di guerra al go-
verno pontificio che rifiutò di smobilitare e sciogliere le truppe mercenarie al comando del generale de Lamoricière, a loro volta scelsero a larghissima maggioranza di “far parte della monarchia costituzionale del re Vittorio Emanuele II”. Ignorare il voto popolare quale fondamento e legittimazione del regno d’Italia significava negare uno dei cardini del pensiero della chiesa, secondo il quale il potere discende da Dio che si esprime attraverso la libera scelta dei popoli: i plebisciti. Certo le consultazioni del marzo-ottobre 1860 vennero orchestrate e orientate da agenti governativi e si svolsero in un clima artificioso, condizionato da fattori emotivi: ma altrettanto va detto di tutte le votazioni di portata storica, quali il referendum isti-
tuzionale del 2-3 giugno 1946, l’elezione della prima legislatura repubblicana il 18 aprile 1948, quella del 1994. Va però constatato che in occasione dei plebisciti del 1860, inclusi quelli delle province napoletane e della Sicilia, i cui popoli il 24 ottobre 1860 dichiararono di volere l’ Italia “una e indivisibile con Vittorio Emanuele re costituzionale e suoi legittimi successori”, i votanti non furono certo sospinti alle urne con metodi violenti o vessatori. Saggezza voleva che anche la chiesa cattolica ne prendesse atto, proprio in linea con il pensiero politico di padre Luigi Tapparelli d’Azeglio S.J., fratello di Massimo, scrittore, artista e ministro presidente del consiglio del re di Sardegna. Il clero conciliatorista del 1859-61, corag-
gioso e lungimirante, passato in rassegna da Santino Spartà in un saggio molto informato (ma sul quale molto ancora occorrerà indagare), venne sconfessato dal pontefice, che aveva comminato e ribadì la scomunica maggiore di Vittorio Emanuele II e di quanti avessero con lui con-
Storia corso a sottrarre terre allo Stato pontificio, inseguiti dal vecchio malaugurante adagio: “chi mangia del papa ne muore”. Nel Terzo Millennio, l’irruzione dei bersaglieri attraverso Porta Pia il 20 settembre 1870 non costituisce più motivo di lacerazione né alimenta la negazione dell’Unità, considerata anzi quale valore intangibile. Quando però ebbe luogo, la demolizione della sovranità di Pio IX su Roma e il Lazio suscitò sgomento profondo e costituì un vulnus rimasto aperto e sanguinante per decenni e da molti considerato inguaribile. A sanarlo non fu comunque il plebiscito del 2 ottobre 1870 che vide 133.681 votanti scegliere “l’unione al regno d’Italia sotto il governo monarchico costituzionale del Re Vittorio Emanuele II e suoi successori”. I no furono 1.507. A Pio IX sembrò anzi paradossale e offensivo che l’esito della consultazione venisse recato al re da Michelangelo Caetani, duca di Sermoneta, discendente di una famiglia che alla Chiesa aveva dato cardinali e pontefici, incluso Bonifacio VIII (chi ama cogliere negli eventi il riverbero della metastoria ricorda che la salma di Aldo Moro, uno dei fiduciari della Santa Sede nella Repubblica Italiana postbellica, venne fatta ritrovare proprio in via Michelangelo Caetani, tra Piazza del Gesù e via delle Botteghe Oscure, in triangolazione con Palazzo Venezia). Il sindaco Alemanno, il 140° di Roma capitale e la pax concordataria. Il 150° dell’assunzione della corona del regno d’Italia da parte di Vittorio Emanuele II (votata dal Parlamento il 14 marzo 1861 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del regno il 17 marzo 1861) ha offerto nuovi spunti di riflessione, anche sull’impulso dato dal sindaco di Roma, Gianni Alemanno, per rendere solenne “Roma capitale”: iniziative memoriali, storiografiche e scambio di visite che gioveranno alla rievocazione del 150° dell’unione di Roma e del Lazio all’Italia, impropria-
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mente detta “annessione”, un termine, codesto, che evoca ed enfatizza il clangore delle armi e perpetua la contrapposizione tra vincitori e vinti, quasi che il conflitto non sia stato composto 82 anni orsono, con la Conciliazione dell’11 febbraio 1929. A ben vedere, tuttavia, il trau-
Storia ma di Porta Pia durò dunque meno di mezzo secolo; mentre la ricomposizione concordataria tra Italia e Santa Sede si sta avvicinando alla durata del regno (18611946) e molto lascia credere che proseguirà a tempo indeterminato. La pax concordataria vigente non comporta la sottovalutazione dell’asperità dei
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conflitti passati, anzi induce a indagarli senza remore nella loro vera portata, per coglierne il bene che se ne cavò con la debellatio dello Stato Pontificio, il riconoscimento internazionale di Roma quale capitale del regno e la partecipazione dei romano-laziali al processo di italianizzazione avviato nel regno di Sardegna e poi in quello d’Italia con tutti gli ostacoli che esso incontrò nel primo decennio di vita. Si fa presto oggi - nella quiete delle biblioteche e mentre Papa-re e Stato Pontificio appartengono al passato remotissimo discettare di quelle vicende alla luce di dottrine politiche e posporre l’ardimento di Garibaldi alla cocciutaggine di Pio IX. Di certo vi è che il Vaticano alzò bandiera bianca solo dopo la carneficina e che gli
italiani ebbero più caduti rispetto ai pontifici. Di certo vi è che il clima del Settanta non può essere capito se non collocandosi nella temperie dell’epoca: nel flusso della storia. Al di là dei tentativi di appiattire la memoria e di edulcorare i contrasti che si accompagnarono al Venti Settembre (una data segnata anche dai morti e dai feriti lamentati dagli eserciti in guerra: quello d’Italia e il pontificio, che sarebbe riduttivo denominare papalino) e che per un quarantennio videro Stato e Chiesa di Roma su posizioni contrapposte, è innegabile che tra il governo del re e la Santa Sede il contrasto fu duro. La testimonianza di Giovan Bernardo Calvino Lo documenta una lettera sinora inedita di Giovan Bernardo Calvino, nonno di Italo (1923-1985), il celebre scrittore e saggista, che tanto concorse alle fortune della Casa Einaudi di Torino. Gio Bernardo si trovò in prima linea nell’attacco finale. Il 20 settembre 1870 fu tra quanti passarono per la breccia di Porta Pia. Avanzò sotto i proiettili degli zuavi pontifici, armati e guidati da francesi, “orfani” di Napoleone III, sconfitto a Sedan a inizio settembre e consegnatosi prigioniero ai Prussiani, ma sempre nemici dell’unità d’Italia. Il giorno stesso Calvino narrò la sua partecipazione all’impresa in una lettera al fratello Francesco, spedita “a carico del destinatario”, come al tempo si usava. Se ne scusò: “Abbi pazienza se ti scrivo senza francobollo”: non perché fosse... ligure, ma perché, dopotutto, stava facendo l’Italia e trovarne uno (delle poste pontificie, cioè di uno Stato che non esisteva più, o del regno sardo, che a Roma ancora non esercitava sovranità?) forse non era affatto semplice. Tra Gio Bernardo, suo figlio Mario, botanico e floricultore, e i nipoti, tra i quali, appunto, Italo, vi fu ed è agevole da indicare un robusto legame di continuità ideale: Massoneria e libero pensiero quali caratteri distintivi della Nuova Italia. Nel 1870 Gio Bernardo, detto l’Italianissimo, era un giovane medico patriota, innamorato del progetto dell’unità nazionale, che per lui come per la generalità dei patrioti si identificava con Roma. Come ha documentato Luca Fucini, il 14 maggio 1874 Gio Bernardo entrò nella Loggia “Liguria” di San Remo, costituita il giorno prima da massoni iniziati in data
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imprecisata, ma certo da parecchio tempo, e all’obbedienza del Grande Oriente Napoletano istituito dall’arciprete Domenico Angherà (Potenzoni Briatico, 1803-Napoli, 1873), già fondatore della Madre Loggia “Sebezia”: una figura da riscoprire e rivalutare. Gio Bernardo sposò Gerolima Assunta Guagno e ne ebbe due maschi, Mario e Quirino, poi entrambi membri della Loggia “Giuseppe Mazzini” di San Remo, tra i cui componenti di spicco vanno ricordati Orazio Raimondo, sindaco della città, fautore del Casinò, deputato alla Camera, e il pastore Pietro Jahier. Nel racconto La strada di San Giovanni Italo Calvino evocò la fanciullezza vissuta tra il rigoglio del podere e la suggestione dei simboli massonici istoriati sulle pareti della casa. Me ne parlò a lungo tra i filari della vigna di San Giacomo di Dogliani quando ci trovammo per presentazione del volume di scritti di Luigi Einaudi pubblicato nei ‘Meridiani’ della Mondadori. La sinistra italiana all’epoca rimaneva un blocco ideologico compatto, apparentemente privo di screpolature. La realtà era però già diversa, come indicano i nomi degl’insigni relatori chiamati a presentare il volume: Nino d’Aroma, Ruggiero Romano e Leo Valiani. Italo Calvino si occupava di tarocchi e sempre più s’interrogava sulla proprie
radici e ripercorreva una storia di famiglia che rispecchiava quella dell’Italia stessa. In tale luce la lettera ora rinvenuta da Luca Fucini reca un contributo documentario schietto e di alto valore per cogliere lo spirito genuino dei protagonisti della debellatio dello Stato Pontificio. La lettera di Giovan Battista Calvino Questa è stata rinvenuta da Luca Fucini, studioso documentato del Ponente Ligure e autore della biografia di Tomaso Borea d’Olmo, barone dell’Impero di Napoleone I, sindaco di San Remo, massone e ospite di papa Pio VII. La sua figura ispirò a Italo Calvino il romanzo Il Barone rampante. La lettera è pubblicata in Italia. Un Paese speciale per i tipi delle Edizioni del Capricorno. Gio Bernardo fonde entusiasmo e disciplina: fermo al suo posto di combattimento, mentre altri compagni già sfilavano verso il cento della Città Eterna. Tra l’altro l’Italianissimo scrisse: “Sono entrato in Roma e, sebbene per miracolo, ho scampato la pelle. Questa mattina alle ore 4 e ½ incominciò il bombardamento della città colle nostre 166 bocche da fuoco, e verso le nove si assaltavano i papalini sulla breccia aperta a Porta Pia. Dopo un’ora circa di terribile moschetteria si entrava in città facendo prigionieri quasi tutti questi briganti col loro generale
in capo compreso. Il mio battaglione si distinse sopra ogni altro del Reggimento ed il mio Capitano ha detto al Colonnello che io mi sono portato egregiamente. Io per mio conto t’assicuro che mi sono trovato in mezzo ad un fuoco di moschetteria che sembrava cadesse la grandine e però sempre imperterrito non volendo a costo della vita perdere la fama di coraggioso che godo nel Reggimento. Del resto dovo (sic) rendere omaggio all’artiglieria che lavorò con rara perizia e bravura, nonché ad alcuni battaglioni Bersaglieri che si batterono da diavoli. Le perdite non sono molte, però io per ora non posso conoscere il tutto e tu potrai meglio sentire dai giornali, e vedrai che non ti dico molto se ti dico che le armi Italiane si fecero un grande onore. Siamo appresso a trattare la resa di 2 compagnie di Zuavi che si vogliono battere fino agli estremi e perciò io non sono ancora potuto andare nel centro della città”. Così venne coronato il sogno di Cavour, Garibaldi, Mazzini, con Vittorio Emanuele II Padre della patria. Esso ebbe il pieno sostegno di padri scolopi, barnabiti, francescani e di teologi di spicco quali Carlo Passaglia e l’abate di Montecassino, Luigi Tosti. Lì era l’unità d’Italia. P.14: Batteria di cannoni aprono il varco di Porta Pia; p.15: 1870: ritratto di due bersaglieri; p.16: La lettera autografa di GB. Calvino; p.17: Porta Pia ed il varco ove avvenne la battaglia del 20 settembre.
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La principessa venuta dal Montenegro Sabato 24 Ottobre 1896 salve di cannoni salutarono a Roma il matrimonio del principe ereditario Vittorio Emanuele con Elena principessa del Montenegro. Alle 10,30 del mattino si era svolto nella “Sala grande” del Quirinale, il rito civile, alla presenza dei reali, dei principi di sangue, dei membri del governo e del Sindaco. Più tardi gli sposi si recarono alla Basilica di Santa Maria degli Angeli, addobbata per l’occasione dall’architetto Sacconi, il progettista del magniloquente monumento a Vittorio Emanuele II. Qui, di fronte a 5000 romani festanti le nozze ebbero la loro consacrazione religiosa, resa possibile dalla conversione al cattolicesimo della sposa1. I coniugi passarono i primi mesi dopo gli sponsali nella Palazzina della Meridiana2 nel giardino di Boboli a Firenze dove rimasero fino al 22 Luglio 1897. Quindi raggiunsero il porto di Talamone, per imbarcarsi sul nuovo steamer-yacht del principe, ribattezza1 Il rito dell’abiura fu officiato dall’abate Oderisio Piscitelli, gran priore delle basiliche palatine. Elena recitò il Credo, firmò l’atto di conversione e partecipò alla messa secondo il rito cattolico romano. R. Barneschi, Elena di Savoia. Storia e segreti di un matrimonio reale, Milano 1986, p. 128. 2 La Palazzina della Meridiana si trova nel Giardino di Boboli. È una bella costruzione neoclassica, progettata dall’architetto Gaspare Maria Paoletti nel 1778, per volere del Granduca Pietro Leopoldo di Lorena. L’edificio fu terminato da Pasquale Poccianti nel secolo successivo.
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Storia e metastoria di un indomito popolo guerriero
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l Montenegro, Crna Gora, è un paradigma della storia dell’Eurasia, un vessillo di libertà issato su un lembo della penisola balcanica per millenni investito dai marosi delle grandi invasioni che nel lessico storiografico “politicamente corretto” da qualche tempo vengon dette migrazioni. Tuttavia per le genti che via via ne vennero travolte, esse comportarono lotta durissima per la sopravvivenza. Fu il caso dei montenegrini che sopravvissero con l’orgoglio di popolo militare, uso a battersi sino all’estremo per la propria identità. Il grande storico svizzero Werner Kaegi e il francese Paul Godechot hanno insegnato la centralità dei piccoli Stati e il destino storico delle Alpi: geografia che si fa storia e viceversa; ma ne hanno scritto in un’ottica eurocentrica, con occhio di riguardo per la Lotaringia. L’Europa, però, è tanto più vasta. Perciò i Balcani ancora attendono un’opera che ne sintetizzi la lunga durata. Il saggio di Luigi Pruneti su L’Italia, il Montenegro e la Massoneria è un importante mattone per la sua costruzione. Tra le terre dell’antica Illiria, il Montenegro venne risparmiata dall’irruzione degli Avari. La romanizzazione vi fu appena riverniciata da Bisanzio e dal-
la repubblica di Venezia. Secoli dopo, assediata da serbi e albanesi, il popolo montenegrino resse al dominio turcoottomano arroccandosi sui monti. Sangue contro sangue. Nulla di veramente paragonabile a quanto dovettero soffrire i popoli alpini o pirenaici, pesci piccoli nella grande vasca di lotte tra Poteri e genti comunque accomunati dalle radici latine e cristiane. Il Montenegro invece, come per altro Valacchi, Moldavi e i Magiari, furono bastione contro l’islamizzazione, con quanto questa comportava: non solo tributi, ma sottomissione (la dimmitudine) e stravolgimento della vita quotidiana. Dopo la rivoluzione dei Greci, che tra il 1820 e il 1832 faticosamente conquistarono l’indipendenza anche grazie al sacrificio di idealisti romantici quali Santorre di Santa Rosa e George Gordon Byron, il Montenegro divenne antenna sensibile dell’impero di Russia, la Terza Roma, bene attrezzato dalla confessione ortodossa a condurre guerre millenarie. L’Occidente è impasto di mercanti. L’Oriente, invece, è terra di mistici. Non tratta, combatte. Così fecero per secoli i Montenegrini che, ci ricorda Pruneti, irruppero nell’immaginario degli italiani con
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le nozze tra il ventisettenne Vittorio Emanuele di Savoia, principe di Napoli, ed Elena Petrovich Niegos, educata alla corte di San Pietroburgo a pensare un’Europa più vasta di quella carolingia e della recente, a lungo divisa da guerre nazionalistiche poi rivestite con
Storia i drappi dell’ideologia. Dalle crociere giovanili nel Mediterraneo orientale il futuro re d’Italia aveva appreso a vedere l’Italia dalle coste anziché dalle Alpi. Aveva nella memoria la flotta cristiana comandata da Giovanni d’Austria e dal sabaudo conte Provana, che andò a cercare quella del Gran Sultano nel golfo di Corinto e la sconfisse a Lepanto. Vittorio Emanuele sapeva che l’Italia non sarebbe stata davvero padrona di sé sino a quando l’impero turco-ottomano, “il grande malato d’Oriente”, fosse stato sorretto da quelli d’Austria e di Germania. Per il futuro re d’Italia, il Montenegro era una lezione quotidiana di tenacia: come Catone il Censore si ripeteva ceterum censeo, delenda Austria… Gli era consentaneo ripeterselo a fianco della principessa Elena, che nel nome evocava Costantino e la traslazione delle insegne imperiali da Roma a Bisanzio. Numismatico e cultore di araldica, il re si abbeverava di metastoria. Non dava gran credito alle comparse; agli Uomini invece sì, quando essi s’identificano con il Destino storico. Anche Luigi Pruneti in questo succoso saggio mette in guardia da confondere il Tempio con i suoi chierici. Le sue pagine riflettono la grande lezione di François Fejto sul gioco svolto dal Grande Oriente di Francia per repubblicanizzare l’Europa orientale, dai Balcani a Mosca e liberare Parigi dall’incubo della Germania. In quell’ottica ancora lotaringica si consumò il dramma del Montenegro. “Altezza Reale” dal 1900 e re dal 28 agosto 1910, lo volesse o meno Nicola Petrovich Niegos si immerse nel groviglio delle guerre balcaniche e poi nella conflagrazione europea del 191418, che allo storico disincantato sempre più appare quale conseguenza diretta della guerra italo-turca del 1911-12 per la sovranità sulla Libia. Tanti incendi catastrofici nascono dal focherello con
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infantile baldanza appiccato alle sterpaglie. Fu quanto avvenne tra il 1911 e il 1914: un precedente che deve mettere sull’avviso e induce a non entusiasmarsi per le apparenze, inclusa la repentinamente sfiorita “primavera araba”. La perdurante mancata pubblicazione dei Documenti diplomatici italiani per anni decisivi (1905-1909 e 1912-1914) non concorre certo a far luce sulla grande svolta. La vicenda dell’ “armata montenegrina” tradotta in Italia (con un rapporto ufficiali-sottufficiali e truppa di uno a due!) a sua volta è rimasta ai margini della colossale storia dell’ Esercito italiano nella grande guerra, pubblicata dall’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Nondimeno la documentazione disponibile, qui sintetizzata da Pruneti, ci dice che in quegli anni l’Italia non dovette misurarsi solo con l’incombente minaccia dell’AustriaUngheria e, dal 1916, della Germania e dei loro sodali (Turchia e Bulgaria) ma anche della Francia, talvolta alleata ma mai sua amica. Parigi ripagò la missione svolta dai montenegrini sommergendoli in uno Stato artificiale, il regno federale di SHS (Serbia-Croazia-Slovenia) lasciato in eredità a Tito ma condannato alla deflagrazione, come già era accaduto per gl’imperi plurietnici, serbatoio di imperialismi e nazionalismi in insanabile conflitto. La lezione di queste pagine è la stessa che viene dalla Storia: in un’Europa che davvero voglia ergersi a Maestra di libertà, ogni popolo ha diritto alla propria identità, che è fatta di lingua, costumi e - perché no? - di religione (legame di fratellanza) e di percezione dell’appartenenza etnica, che non vuol dire né razzismo né xenofobia. Identità significa, invece, memoria e orgoglio della propria storia: princìpi che hanno ispirato nel 1989, l’anno del crollo dell’URSS e della caduta del Muro di Berlino (emblema metastorico), la traslazione e l’inumazione delle salme di Nicola e Milena di Montenegro da San Remo alla terra natia: un esempio che gli italiani dovrebbero far proprio, anche grazie al pensiero massonico, che educa quanti non hanno dimestichezza con il sacro (i laici) a entrare nel Tempio e a viverne i valori. Aldo A. Mola
to Jela3, iniziò così la loro luna di miele: una lunga, spensierata crociera nel Mediterraneo. Elena piacque subito ai sudditi della sua nuova patria. Era bella, slanciata, alta 25 centimetri più del marito, aveva occhi grandi, sognanti, capelli scuri come l’ala di un corvo e un sorriso dolce, un po’ malinconico, illuminava l’ovale perfetto del volto. Era inoltre, simpatica, gioviale, con gusti e virtù piccolo borghesi e parlava un ottimo italiano con un leggero accento veneto. Come se ciò non bastasse era fornita di un’ottima cultura; al pari delle sorelle aveva, in vero, studiato al celebre istituto femminile “Smolny” di San Pietroburgo, sotto l’ala protettiva dello Zar e della Zarina che l’avevano trattata alla stregua di una principessa imperiale4. Era insomma una compagna ideale per il piccolo principe, schivo, razionale, suscettibile, colto, nemico giurato dell’ampollosità festaiola che caratterizzava la corte di suo padre. In quei giorni si fece un gran parlare anche del Montenegro, la patria della futura regina d’Italia, un minuscolo paese balcanico che fino a due anni prima era stato pressoché sconosciuto all’opinione pubblica. L’aspra montagna di Lovcen che per 3 Jela era il nome in slavo di Elena. 4 A. Sbutega, Storia del Montenegro. Dalle origini ai giorni nostri, Soveria Mannelli 2006, p. 308.
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secoli aveva resistito ai Turchi era, infatti, frequentata da pochi Italiani, in maggior parte studiosi e naturalisti. Fra gli esploratori della “Montagna Nera” si era segnalato un certo Stanislao Cobianchi che, apprezzando particolarmente il Karik, l’infuso di erbe aromatiche in uso fra i pastori, aveva prodotto l’Amaro Montenegro definito da D’Annunzio “il liquore delle virtù5”. Il Montenegro era perciò per i sudditi di sua Maestà Umberto, un buon liquore e poco più, eppure queste terre affacciate sull’Adriatico avevano alle spalle una lunga e drammatica storia. Tutto era iniziato nel xiv secolo quando nel Kossovo, nel corso di una sanguinosa battaglia, le armate turche avevano abbattuto il regno serbo dei Nematich e posto fine all’indipendenza dei Balcani. La conquista però era stata più virtuale che effettiva, quelle terre aspre, prive di vie di comunicazioni ed abitate da combattenti indomabili erano difficili da sottomettere. La resistenza v’imperversava, con colpi di mano, assalti alle colonne dei rifornimenti, agguati. La zona dove la lotta fu 5 R. Barneschi, Elena di Savoia. Storia e segreti di un matrimonio reale … cit, pp. 17 – 18.
più accesa risultò proprio il Crna Gora (Montagna Nera) che, di fatto, ottenne una semi indipendenza, giacché gli ottomani non riuscirono mai ad occuparla in pianta stabile6. Dalla fine del Seicento la regione fu retta dai Petrovich che con Petar II7 riuscirono a imporsi sui clan. Petar, come i suoi predecessori, aveva il titolo di vladika (una carica al tempo stesso religiosa e politica), era in pratica un monaco/principe. Egli fu il primo a dare al Montenegro un embrione di amministrazione pubblica e a trasferire la propria residenza da un monastero ad un palazzo, appositamente costruito. Tale edificio, di modeste dimensioni, fu ribattezzato dal popolo Biljarda, perché il vladika fece sistemare un biliardo, il primo a giungere in questo angolo dei Balcani8. Petar II fu uomo di notevo6 G. Franzinetti, I Balcani dal 1878 a oggi, Roma 2011, p. 22. 7 Rade Tomov Petrovich (1813-1851), aveva 17 anni, alla morte di Petar I che lo aveva disegnato suo successore. Molti si opposero a questa decisione, ma egli si recò in Russia dove fu consacrato vladika col nome di Petar II. 8 A. Sbutega, Storia del Montenegro. Dalle origini ai giorni nostri, … cit, p. 255.
le cultura e di straordinaria intelligenza, educato dal letterato massone serbo Sima Milutinovic Sarajlija e fu, secondo alcuni, massone egli stesso; tale affermazione non è supportata da documenti né da testimonianze certe, ma vi sono aspetti biografici e frequentazioni che lasciano supporlo. Ad esempio frequentò esponenti della libera muratoria serba e visitò altri paesi, prendendo contatto con ambienti internazionali dove i valori e gli ideali latomistici erano diffusi. Curioso e dotato di un’eccellente apertura mentale, introdusse nei suoi domini numerose innovazioni, facendo, fra l’altro, pubblicare il Grlica9, il primo periodico del Montenegro. Inoltre, fu un eccellente poeta e, ispirandosi all’epica orale, scrisse numerose liriche, fra le quali un vero e proprio capolavoro: il poema Il Serto della montagna ove, l’aspirazione alla libertà si coniuga con riflessioni sull’esistenza dell’uomo e con spunti di misticismo10. Nel 1851, alla morte di Petar II la carica di vladika passò al nipote Danilo I, e que9 Ibidem, p. 256 10 B. Meriggi, Le letterature della Jugoslavia, Milano 1970, p. 139.
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sti abbandonò ogni potere religioso, assumendo il titolo di Knjaz (principe) e Gospodar (signore) del Crna Gora, creando così una dinastia laica che accompagnò il Montenegro fino alla fine della propria indipendenza. Il 1 Agosto del 1860, Danilo I fu ucciso
Storia a Cattaro da Todor Kadic e non avendo discendenti diretti la successione passò al nipote diciannovenne Nikita. Questi sposò Milena Vukotich, la figlia adolescente di un voivoda; fu un matrimonio felice: la consorte riservata, pia e melanconica, fu la fedele compagna del gospodar nella buona e nella cattiva sorte. La coppia principesca si rivelò molto prolifica, tanto che fra il 1864 e il 1889 Milena mise al mondo 12 figli, dei quali ben 10 sopravvissero, cosicché, considerando il gran numero di femmine, Nikita fu da alcuni definito “il suocero d’Europa”11. Nikita Petrovich Njegosh fu un ottimo regnante, dotato di un prestigio indiscusso, di un coraggio leonino e di un’intelligenza acuta. Incuteva timore anche per il fisico possente e la forza erculea, inoltre si mormorava che fosse dotato di poteri paranormali, tanto da essere un guaritore, un esorcista e un veggente, per questo, rivelavano i ben informati, sarebbe riuscito a sopravvivere a numerosi attentati. Se disponesse di tali facoltà è impossibile da stabilire, è certa, invece, l’abilità poli11 Sette furono le figlie di Nikita e Milena e tre i maschi. Oltre ad Elena, nata l’8 Gennaio del 1873, ricordiamo la maggiore Zorka che sposò il principe serbo Petar Karagerorgevic, Ana che scambiò l’anello nunziale con Franz Joseph Battenberg, fratello del primo re dei Bulgari, Stana, moglie del duca di Leichtenberg e, in seconde nozze di Nikolaj Nikolajevic Romanov, Milica che convolò con Pietro Nikolajevic Romanov, cugino dello Zar. Queste ultime due appassionate di esoterismo, divennero amiche intime della zarina e introdussero alla corte di Pietroburgo il santone Rasputin. Le altre due figlie Ksenija e Vjera, non lasciarono mai Cettigne e rimasero nubili. L’erede al trono Danilo condusse per lungo tempo una sorta di “dolce vita” nelle principali città europee, tanto da ispirare l’operetta La vedova allegra di Franz Lehar, poi però sposò Yutta Mecklenburg Streliz. Gli altri due figli maschi Mirko e Danilo condussero una vita abbastanza anonima. A. Sbutega, Storia del Montenegro … cit, p. 308 – 313.
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tica e militare di Nikita che a capo di un territorio bello quanto aspro, abitato da 130.000 pastori guerrieri, riusciva, ogni anno, a chiudere il bilancio in pareggio, pur mantenendo in piedi una macchina da guerra che comprendeva 23 battaglioni di fanteria, sei battaglioni della guardia e una batteria d’artiglieria12. Diplomatico astuto, riuscì ad avere sussidi e regalie da Russia e Francia, mentre l’Impero asburgico, per non essere da meno, gli costruì gratuitamente, la carrozzabile Cattaro-Cettigne13. Per 14 anni Nikita riuscì a vivere in pace, poi il 28 Giugno del 1876, nello storico e sempre ricorrente giorno di San Vito14, riprese la guerra contro gli odiati turchi. I montenegrini si allearono con russi e Serbi, il gospodar guidò le truppe in Erzegovina, sconfiggendo più volte il nemico e dimostrò ancora una volta sprezzo del pericolo e abilità militare. Il conflitto terminò con una vittoria totale, l’Impero Ottomano rinunciò ad ogni pretesa sul Montenegro e l’eroico sovrano fu portato in trionfo a Cettigne. L’ammirazione per la sua persona fu tale che lo stesso Garibaldi, nel Marzo del 1878, da Caprera, gli scrisse una lettera piena di apprezzamento, salutandolo come liberato12 Ibidem, p. 290. 13 R. Barneschi, Elena di Savoia. … cit, p. 85. 14 Il 28 Giugno è l’anniversario della battaglia del Kosovo Polje del 1389, quando i Turchi sconfiggendo l’esercito serbo s’impadronirono dei Balcani.
re dei Balcani e vessillo di libertà15. Poco tempo dopo, nel mese di Luglio, il Congresso di Berlino riconobbe ufficialmente l’indipendenza di Montenegro, Serbia e Romania, fu così che il piccolo principato entrò di diritto nel novero degli stati europei e raddoppiò la propria estensione portandola a 8.655 kmq. L’Italia umbertina non mostrò, allora, una soverchia attenzione per quegli avvenimenti, né per il nuovo Stato, fino a quando, nel 1894, il primo ministro Crispi, forse per le sue lontane origini albanesi, pensò ad una delle figlie di Nikita come possibile moglie del principe ereditario. La riluttanza al matrimonio di Vittorio Emanuele stava diventando un problema e già circolavano voci malevoli sul rampollo di Casa Savoia. In realtà il figlio di Umberto I aveva le sue brave avventure galanti, ma geloso come era della privacy le teneva riservate, inoltre l’idea di mettere su famiglia era ben lungi da lui. La necessità di assicurare una discendenza dinastica era, tuttavia, imprescindibile se non si voleva che la corona passasse agli Aosta. Una fanciulla giovane e bella, lontana dal cicaleggio delle corti che tanto infastidiva l’introverso Principe di Napoli, poteva essere una soluzione, perciò l’ex garibaldino iniziò a tessere una tela per accalappiare al laccio matrimoniale l’ignaro Vittorio Emanuele. Senza indugiare volle assicurarsi della bellezza delle 15 R. Barneschi, Elena di Savoia. … cit, p. 91.
figlie del gospodar e incaricò Sanminiatelli di assumere informazioni. Questi, ligio al mandato, si mosse immediatamente e il 21 Novembre scrisse al Presidente del Consiglio: “Quanto al fisico, le due sorelle16 si somigliano. Hanno occhi grandi e assai belli, nerissimi; capigliatura nera, abbondante e increspata; colorito molto bruno; statura media; forme molto regolari; ed un insieme di fisionomia e di espressione, che, senza essere la bellezza, è attraente, piacente, simpatica. La Principessa Elena vince la sorella nella finezza dei tratti del volto e nella dolcezza dell’espressione; è anche un poco più alta di statura17”. Elena sembrava, dunque, adatta a diventare futura Regina d’I16 Elena ed Anna, questa ultima era nata l’8 Agosto del 1874. 17 Ibidem, pp. 39 – 40.
talia, ora bisognava convincere il Principe; cosa non facile, perciò Crispi cercò di facilitare un incontro per poi sperare in una freccia di Cupido. L’occasione fu offerta, nella Primavera del 1895, dall’Esposizione internazionale di Arte moderna di Venezia, la Città lagunare sarebbe stata un eccellente catalizzatore. Vi era forse al mondo un luogo più romantico e intrigante di quello? Lo statista siciliano probabilmente sogghignava, accarezzandosi i baffi: Piazza San Marco, le gondole, Rialto, i tramonti d’oro e di sangue, avrebbero giocato un ruolo determinante. Così fu, i due giovani ebbero modo d’incontrarsi e di simpatizzare, tanto che poco dopo si rividero a Mosca. Ebbe così inizio un idillio felicissimo destinato a durare una vita, a tal punto che Danis Mack Smith definì Vittorio Emanuele ed Elena la cop-
pia reale più felice dell’età moderna18. Gli eventi della love story furono rapidi: il 16 Agosto del 1896, vi fu il fidanzamento ufficiale a Cettigne a cui seguirono le nozze. 2. Elena Regina d’Italia La vita degli sposi fu per alcuni anni se-
Storia rena e spensierata, il Principe di Napoli e la bella consorte alternarono a crociere e a partite di caccia e di pesca, gli impegni ufficiali. Il periodo felice terminò in modo drammatico e inaspettato quando Re Umberto, il 29 Luglio del 1900, fu assassinato a Monza dall’anarchico Gaeta18 Cfr. D. Mack Smith, I Savoia Re d’Italia, Milano 1990; D. Mack Smith, Storia d’Italia dal 1861 al 1997, Bari 1998,
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no Bresci e Vittorio Emanuele III fu, suo malgrado19, costretto a cingere la corona. Salvemini scrisse, a proposito dell’assassinio, che “quella palla di revolver […] Umberto non l’aveva rubata”. Vittorio Emanuele III era un uomo opposto a suo padre: sobrio, positivo, refrattario agli
Storia orpelli e alle lusinghe della corte, non aveva mai condiviso i metodi autocratici di Umberto, era stato contrario alle avventure coloniali e nutriva un’idiosincrasia profonda per tutto ciò che sapeva d’Austria e di Germania. Era, invece, innamorato della Gran Bretagna che riteneva un esempio di civiltà e di stile di vita. Aveva inoltre un sacro 19 Vittorio Emanuele, prima della morte del padre, aveva pensato più volte di abdicare, il “mestiere” di re gli pesava ancor prima di averlo provato. R. Barneschi, Elena di Savoia … cit, p. 157.
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rispetto per la legge, rappresentata dallo Statuto Albertino ed iniziò subito a rispettarlo, astenendosi dal presiedere il Consiglio dei Ministri, in quanto, egli affermava “un re regna, ma non governa”. Anche nell’esercitare le insindacabili prerogative monarchiche si dimostrò assolutamente innovativo, attribuendo il Collare della SS.Annunziata, la più prestigiosa onorificenza sabauda, a personaggi che avrebbero fatto torcere il naso a suo padre. Scrive Aldo Alessandro Mola: “Dopo averlo assegnato al Granduca di Russia, Pietro, al cognato, Danilo di Montenegro, ad Alfonso XIII di Spagna e al Principe ereditario del Siam, il 10 Aprile del 1901 ne fregiò il Presidente della Repubblica di Francia, Emile Loubet, che nei confronti della Madonna nutriva una devozione pari alla sua. Fu poi la volta del Presidente del Consiglio, Zanardelli, l’antico massone che era d’accordo con lui nel progetto
d’introdurre il divorzio in Italia”20. Strano destino il suo, Vittorio Emanuele III fu uno dei re più democratici e legalisti del suo tempo, tanto da venire accusato, durante i ministeri di Giolitti, di avere istaurato in Italia una “monarchia socialista”. Dopo il Secondo conflitto mondiale e il referendum istituzionale, però, fu additato ai posteri come uno dei maggior responsabili, se non “il responsabile” dei mali italiani. D’altra parte, scrive sempre Mola “Per sconfiggere la monarchia bisognava addossarle tutte le colpe, farne la responsabile delle pagine più buie del fascismo, il vero male assoluto”21. Il fascismo, nel 1900, era addirittura inimmaginabile, altri erano i problemi per il Regno che viveva a suo modo la breve stagione della belle epoque. Intan20 A.A.Mola, Giolitti. Lo statista della nuova Italia, Milano 2003, p. 277. 21 A.A.Mola, Declino e crollo della monarchia in Italia. I Savoia dall’Unità al referendum del 2 Giugno 1946, Milano 2006, p. 159.
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to la coppia reale fu allietata dalla nascita dei primi figli. Elena il primo Giugno del 1901 partorì Jolanda e nell’anno successivo Mafalda, la sfortunata principessa che finì i suoi giorni nella baracca n. 15 di Buchenwald22. L’atteso erede al trono, Umberto, nacque a Racconigi il 15 Settembre del 1904 e gli fu conferito il titolo di Principe di Piemonte. Il luogo di nascita non fu casuale, i Savoia, infatti, facevano nascere i principi ereditari, in modo alternato, al Nord e al Sud, per unire anche simbolicamente la Nazione23. Per l’occasione il re mo22 Mafalda di Savoia morì a Buchenwald il 28 Agosto del 1944. Cfr. E. Bedeschi, Vita e morte di Mafalda di Savoia a Buchenwald, Milano 1982; M. Safier, Mafalda di Savoia Assia dal bosco all’ombra, Anzio (Roma) 1998. 23 Vittorio Emanuele III era nato a Napoli ed ebbe il titolo di Principe di Napoli; suo figlio Umberto invece, avendo emesso il primo vagito a Racconigi, divenne Principe di Piemonte. Nel 1937, infine, il figlio di quest’ultimo Vit-
strò una notevole munificenza elargendo un milione alla cassa mutua per gli operai anziani24. L’attenzione per il sociale, se era presente in Vittorio Emanuele III, era fortissima nella Regina. La dimostrazione arrivò quattro anni più tardi quando, il 28 Dicembre del 1908, un terribile terremoto seguito da uno tsunami devastante distrusse Messina, provocando 80.000 morti di cui 60.000 nella città siciliana e 15.000 a Reggio Calabria. Elena si prodigò in ogni modo, trasferendosi nell’area colpita e agendo in prima persona, intervenendo anche in campo diplomatico: ottenne dallo Zar l’ausilio della flotta imperiale che inviò l’incrociatore Slavia e un’altra grossa nave nell’area devastata25. torio Emanuele, nacque di nuovo a Napoli e di conseguenza fu il secondo Principe di Napoli. 24 R. Barneschi, Elena di Savoia … cit, p. 174. 25 La Regina fu ben coadiuvata dal governo Giolitti che si prodigò ottimamente per reca-
L’opera della Regina non fu ignorata. Unanime fu l’ammirazione nei suoi confronti, tanto che le furono attribuiti riconoscimenti e onorificenze da numerosi paesi, fra i quali la Gran Bretagna, la Germania, la Russia, la Spagna e la Serbia. Durante il suo lungo regno spese una fortuna in opere di beneficienza e quando l’Italia entrò in guerra, aprì presso il Quirinale l’ospedale territoriale n° 1 che operò dal 3 Agosto 1915 al 23 Aprile 1919, ricoverando ben 2.648 feriti. P.18: Ritratto della regina Elena; p.19: Nicola I di Montenegro e, in alto, le montagne dal mausoleo di Njegos; p.20: Roma, la basilica di Santa Maria degli Angeli; p.21: Vittorio Emanuele III e la famiglia reale; p.22: Umberto I e V.Emanuele III; p.23: Nicola I di Montenegro; p.24-25: 1908, devastazioni del terremoto di Messina.
re aiuto ai sinistrati. L’opera del primo ministro fu apprezzata palesemente dai siciliani, tanto che egli risultò poi eletto deputato in due collegi elettorali dell’Isola. Giovanni Giolitti al governo, in parlamento, nel carteggio, II l’attività legislativa (1889 – 1921), t. I (1889 - 1908), a.c. di A. A. Mola e A. G. Ricci, Foggia 2007, p. 21.
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Onore alla storia, onore ai Re d’Italia Urge la traslazione in patria delle salme dei Re dItalia Aldo A. Mola
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el 150° del regno d’Italia (1417 marzo /17 aprile 1861)1 di quando in quando è stata affacciata l’urgenza della traslazione in Italia delle salme dei suoi ultimi due sovrani, Vittorio Emanuele III di Savoia e Umberto II e delle rispettive consorti, Elena di Montenegro e Maria José, principessa dei Belgi. I massoni, e specialmente quelli della Gran Loggia d’Italia, hanno un motivo di attenzione in più nei confronti di Vittorio Emanuele III. Tra i documenti per la storia della Massoneria i repertori degli appartenenti alle logge rivestono particolare importanza. Per molteplici motivi ne manca un atlante aggiornato ed esauriente. Neppure le ricorrenze, che solitamente sollecitano studi innovativi, hanno fatto da volano a una vera svolta al riguardo. Per esempio, malgrado tanti propositi e auspici il bicentenario della creazione del Supremo consiglio del Rito scozzese antico e accettato, una data memoriale che ha impegnato a fondo la Gran Loggia d’Italia con convegni e pubblicazioni, non si è accompagnato alla pubblicazione del repertorio delle logge operanti in Italia nell’età franco-napoleonica. Eppure la loro mappa avrebbe dato e potrà dare una risposta convincente e fondata all’annosa disputa sul concorso della massoneria alla genesi del Risorgimento italiano: ora asserito, ora confutato, ora rivendicato ora relegato tra i vanti inopportuni. Essa concorrerebbe anche a meglio chiarire i rapporti tra la massoneria italiana della prima metà dell’Ottocento e quella francese, tanto più dopo l’acquisizione della certezza documentaria che il Supremo Consiglio venne istituito a Parigi il 16 marzo 1805 (e non a Milano, come ancora ripeté Gian Marco Cazzaniga, che su un errore di data incastella un’interpretazione fantasiosa della massoneria italiana di primo Ottocento, giacobina addirittura anziché, qual fu, napoleonica e imperiale senza per questo rinunciare a essere italiana (ma nel quadro dell’ universalità liberomuratoria). Tra i molti “elenchi” di massoni tuttora inediti ne spiccano due della Serenissima Gran Loggia per la Giurisdizione d’Italia e sue Colonie, la cui storia è stata riproposta al centro degli studi dagli Annali di Luigi Pruneti: la “matricola” su cui ha svolto importanti relazioni Marcello Millimaggi nei convegni di Cagliari e di Montesilva-
no (2009-2010 e un Annuario del Supremo consiglio scozzesista della Gran Loggia mostrato da Raoul Palermi a John H. Cowles. Come si legge in una relazione di Giuseppe Dosi, commissario capo della Pubblica sicurezza presso il Counter Intelligence Corps, Cowles ricordava che in quel “libretto rosso” Palermi figurava al n.2 mentre “il n.1 dei membri stessi era lasciato in bianco, affermando il Palermi che i profani non dovevano conoscere chi fosse (da fonte massonica si sa ora che era il re Vittorio Emanuele III)2. Circa l’affilia-
a Palazzo Reale dalla Fondazione DNArt (presieduta da Elena Fontanella), accompagnata da un poderoso catalogo aperto da un saggio del repubblicano Giuseppe Galasso, a conferma che la storiografia supera gli steccati e i pregiudizi: unisce. La rivalutazione del passato, fondata su una
zione massonica del terzo re d’Italia è stato scritto molto, senza conclusioni scientificamente concludenti. L’aiutante di campo di Vittorio Emanuele III, generale Arturo Cittadini, nel marzo 1922 rilasciò un’ampia “dichiarazione”, in cui il sovrano venne descritto agnostico e libero pensatore, ma rispettoso della religione praticata dagli italiani. Nel corso del 150° del regno d’Italia e durante la solenne evocazione del 140° di Roma Capitale almeno in alcune aree (Torino, Firenze, Roma stessa assai più che Venezia o altre antiche capitali di un’Italia che nella storia ne ha contate davvero molte: Pavia, Ravenna, Spoleto, Ivrea, sino ad Palermo e Napoli, Aversa e via continuando… passando Benevento che di capitale di un ducato longobardo conservò sempre fieramente la propria identità sino a quando divenne principato napoleonico, sottratto al Papa e tornò borbonica alla Restaurazione…) si è colto un rifiorire di sensibilità nazionale. Anche Napoli ne ha dato il segno con la bella mostra sulla Regina Margherita allestita
per l’unificazione e l’affermazione dell’Italia nella comunità internazionale quando la summa dei poteri era detenuta dalle corone del Regno unito di Gran Bretagna e Irlanda, dagl’Imperi di Russia, Austria e dei Francesi, dalla Sublime Porta che racchiudeva potere politico-militare e suprema autorità dell’islam. Chi non era imperatore era re, come quelli di Prussia (poi a capo dell’Impero di Germania, una federazione di regni, principati, città… più che un blocco monolitico), dei Belgi, di Danimarca, Svezia comprendente la corona di Norvegia, Spagna e Portogallo. In quell’Europa, quando Europa significava il mondo (il Giappone venne costretto dalle cannoniere degli Stati Uniti d’America ad aprire i porti ai prodotti ‘occidentali’, nel 1859-60 Hanoi fu occupata dalle truppe franco-britanniche che imposero alla Cina di subire l’importazione dei loro prodotti (a cominciare dall’oppio), una repubblica italiana sarebbe stata considerata fattore di destabilizzazione e di tensioni incompatibili con la pax garantita dal
Storia conoscenza più equa ed equilibrata, si è sostanziata nella doverosa riscoperta della centralità del ruolo svolto da Casa Savoia
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concerto delle grandi potenze, come già era accaduto con quella di Roma nel 1849. Solo Vittorio Emanuele di Savoia agli occhi della famiglie regnanti e della diplomazia internazionale aveva i
Storia requisiti per tenere in pugno le redini di tanti e diversi popoli d’Italia e delle macchine burocratico-militari (inclusi i corpi per la sicurezza e l’ordine pubblico) degli Stati preunitari. “Monsù Savoia” dovette però conquistarsi sul campo l’apertura di credito che molto lentamente gli venne accordata nel 1861 dalle potenze che riconobbero il neonato Regno d’Italia (Svizzera, USA, Grecia, Gran Bretagna, seguiti dalla Francia solo dopo la morte di Cavour, mentre Prussia, Danimarca, Spagna, Svezia se ne fecero una ragione solo anni dopo e l’Impero d’Austria lo riconobbe a denti stretti dopo la terza guerra d’indipendenza, nel 1866). Studi recenti (da Domenico Fisichella a Pietro Pastorelli e altri) hanno insomma insistito sul ruolo assolutamente indispensabile svolto dalla Casa. Perciò è in corso la riscoperta delle radici profonde della necessità della monarchia, non quale gabbia nella quale chiudere la popolazione in un professo di sabaudizzazione a marce forzate, bensì, all’opposto, quale volano di libertà e di crescita civile nel rispetto dei diritti di libertà (a cominciare da quella religiosa, garantita dallo Statuto del Regno, a differenza di tutte le altre costituzioni elargite (e poi revocate) dagli altri sovrani nel 1848. Si è anche riscoperto che fu Carlo Alberto a scegliere il tricolore quale bandiera nazionale italiana. Le aggiunse lo scudo sabaudo nel bianco perché questo era il simbolo di secoli di guerre per l’indipendenza e quindi di buon auspicio, oltre che di legittima “pretesa” per chi era re di Cipro, Gerusalemme, Armenia, cioè aveva secoli di proiezioni internazionali e legami parentali con le principali dinastie regnanti
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in Europa. Monarchia, dunque: non per feticismo sabaudistico ma per senso storico e civile, frutto della ragione, che poi è anche l’unica vera premessa della passione non malriposta. In tale contesto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha compiuto il gesto solenne che nessun suo predecessore aveva osato: l’omaggio a Vittorio Emanuele II al Pantheon, ove venne tumulato dopo la furtiva amministrazione del viatico della buona morte da parte di Vittorio Anzino (come ha più volte ricostruito Aldo G. Ricci, sovrintendente all’Archivio Centrale dello Stato). Anche grazie all’importante evocazione del debito dell’Italia nei confronti del iniziativa del Padre della Patria, suo predecessore alla guida dello Stato, l’Italia si è ridestata da un sonno storiografico e civile artificioso. Per comprenderlo appieno basti pensare che il 29 luglio 2000 l’allora presidente Carlo Azeglio Ciampi rifiutò un messaggio di saluto nel centenario del regicidio di Monza. Eppure anche Umberto I è al Pantheon, ove nel 1926 venne raggiunto dalla Regina Margherita, che all’unificazione degli italiani nella
lingua, degli stili di vita, nella cultura e nell’istruzione e persino nella vita quotidiana (dagli abiti alla cucina) dette un impulso straordinario, circondandosi di politici e studiosi quali Marco Minghetti e Giosue Carducci, come documentano il catalogo della Mostra di Napoli e quello per la sua nuova edizione, in corso a Villa Reale Monza, arricchita da manti reali di Maria José generosamente prestati dalla Principessa Maria Gabriella di Savoia. Ma gli italiani e la miriade di stranieri che visitano il Pantheon si domandano: l’Italia ebbe altri re? Dove sono? Alla morte di Umberto I salì al trono il trentunenne Vittorio Emanuele III, che portò l’Italia al vertice della Comunità internazionale. In un quindicennio l’Italia svettò per cultura, scienze, arti, riforme sociali, civiltà. Il sovrano ebbe consiglieri di altissimo sentimento patriottico, come Pasquale Villari che gli disse papale papale di cacciare a calci nel sedere i cortigiani e di ascoltare gli innovatori. Lo fece. L’età giolittiana, cioè il primo quindicennio del Novecento, vide l’Italia protagonita mondiale sotto tutti i profili più avanzati e positivi, come documentarono le feste per il primo cinquantenario del Regno, maculate dal rifiuto di Ettore Ferrari di schierare i labari del Grande Oriente all’Altare della Patria, mentre i Fratelli della Gran Loggia d’Italia attestarono il loro incondizionato patriottismo. Nel 1915 l’Italia entrò nella Grande Guerra: uno sforzo immane. La sua conclusione per l’Italia fu la vittoria della Nazione e del suo piccolo grande Re che nell’incontro di Peschiera, l’8 novembre 1917, fece capire agli alleati che il Paese avrebbe resistito sul Piave a qualunque costo, come appunto fece e avrebbe capovolto le sorti della guerra, come documenta il generale Luigi Gratton nella densa biografia di Armando Diaz (massone di Piazza del Gesù? Lo sospettarono quanti ne colsero il grande patriottismo e l’equilibrio). Vittorio Emanuele III
resse poi il timone dell’unica grande monarchia continentale sopravvissuta al crollo di quattro imperi (Russia, Germania, Austria e Turchia), fronteggiò i totalitarismi, conciliò il regno con la Santa Sede, deglutì e mitigò decisioni del parlamento che non condivideva, come le leggi razziali. Poi l’Italia si destreggiò nei marosi della seconda guerra mondiale. Vi entrò per facilitare la resa della Francia ormai alle corde e condusse una guerra “parallela” a quella della Germania. Fu Vittorio Emanuele III a dimissionare Mussolini e fu lui a accettare l’armistizio del settembre 1943: l’Italia perse la guerra ma cadendo sul fianco meno doloroso, a Occidente anziché nelle braccia dell’URSS di Stalin. Il 5 giugno 1944 il re trasferì tutti i poteri della corona al figlio, Umberto (1904-1983), suo Luogotenente e poi re d’Italia dal 9 maggio alla morte (Ginevra, il 18 marzo 1983). Il 13 Umberto II lasciò l’Italia per l’estero dal 13 giugno 1946; dal 1° gennaio 1948 fu esule. E’ sepolto ad Altacomba, sacrario della casa, con la regina Maria José: vissero a lungo separati, là sono uniti e lì possono essere visitati dagli italiani che sentono la Savoia come regione transfrontaliera, europea, francofona ma non propriamente francese, uno stato di confine più che confine di Stato, quale essa fu dagli Allobrogi ai Borgognoni e poi, appunto, con i conti e duchi di Savoia e i re di Sardegna, da Umberto Biancamano a Vittorio Emanuele II. Nell’Abbazia di Altacomba, per secoli Sepolcreto della Casa (come poi Vicoforte e Superga) i due ultimi sovrani d’Italia riposano serenamente: Principi e princìpi della Nuova Europa. Assai diversa è la sorte di Vittorio Emanuele III e della sua consorte, la Regina Elena Petrovic-Niegos di Montenegro. Anche Vittorio Emanuele III morì (si lasciò morire?) all’estero il 28 dicembre 1947 ad Alessandria d’Egitto, ove viveva col titolo di conte di Pollenzo, ed ebbe sepoltura provvisoria nella chiesa di Santa
i cristiani in Egitto, sempre più affannati dalle persecuzioni dell’islamismo radicale, che si è sostanziato anche nell’incendio di chiese. Siamo sicuri che quella di Santa Caterina ove Vittorio Ema-
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Caterina. Chi ne garantisce l’incolumità nel caos attuale e forse peggiore in futuro? La Regina Elena, sua consorte, si spense a Montpellier e vi è sepolta. Quei due sovrani d’Italia, uniti in un matrimonio saldissimo per cinquantadue anni, sono un esempio straordinario, sia per come vissero sia perché da sessant’anni le loro salme giacciono addirittura in due diversi continenti: Vittorio Emanuele in Africa, Elena in Europa. È assurdo. Inaccettabile. Vittorio Emanuele III morì prima che la Costituzione vietasse il rientro e soggiorno in Italia del re e dei suoi discendenti: misura vessatoria, ma comprensibile, per una repubblica che al referendum ebbe il magro consenso del 42% degli aventi diritto al voto. Vittorio Emanuele III, conte di Pollenzo, morì da cittadino italiano di pieno diritto. La Costituzione vietò il rientro e il soggiorno ai Savoia vivi, non però il rientro delle salme dei re. Esse vanno tumulate con tutti gli onori in Italia perché questo vogliono il rispetto della memoria e la Storia nel 150° del regno d’Italia. Lo esige anche la condizione nella quale vivono
nuele III è sepolto rimarrà per sempre indenne? Chi assicura che non subirà la sorte dei cimiteri militari e civili italiani scempiati in Somalia e ora anche in Libia? Chi ci deve pensare se non se ne occupano gli italiani? Nel corso del 2011 la Consulta dei senatori del Regno, con il favore del suo componente più autorevole, la Principessa Maria Gabriella di Savoia, si è impegnata a ottenere la traslazione in Italia. Sarebbe giusto e doveroso il Pantheon, ma l’Italia vanta tanti altri siti, basti ricordare che Massimo d’Azeglio propose di trasferire tutte le auguste salme da Superga alla Sacra di San Michele. Infine, senza retorica, l’intero suolo della Patria è propizio al riposo di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena. Saranno i pellegrinaggi degli italiani a consacrare di giorno in giorno il qualunque luogo ove le loro salme fossero tumulate e confortate dalla memoria corale dei cittadini educati alla lettura dei Sepolcri di Ugo Foscolo e dell’Ode Piemonte di Giosue Carducci, due massoni che hanno insegnato il senso profondo e il rispetto della grande Storia. Per essere davvero se stessi gli italiani non possono tardare oltre questo fondamentale recupero della propria identità. _______________ Note: 1 Per cronologie sistematiche rinvio a: Aldo A. Mola, Italia. Un Paese speciale. Storia del Risorgimento e dell’Unità, Torino, 2001. 2 Aldo A. Mola, Storia della massoneria italiana, Milano, 2008. Vi si veda il capitolo Nodi di Savoia (Appendice) e, a proposito dell’ agenda di Palermi, ad indicem. P.26: Roma, il Pantheon; p.27: Vittorio Emanuele III e la Regina Elena; p.28: Firenze, Santa Croce, monumento ad Ugo Foscolo; p.29: Ritratto di G.Carducci.
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na delle malattie più terribili che possono colpire un organismo umano è il morbo di Alzheimer. Questo consiste nella progressiva perdita della memoria e nel conseguente dissolvimento della propria personalità. È uno scivolamento inarrestabile verso l’annullamento di chi si era, una perdita d’ogni progetto ed ogni prospettiva futura. Lo stesso accade quando un popolo o una nazione, a causa d’anni d’incuria e controcultura, dimenticano la propria storia e perdono così la propria identità. Chi dimentica e respinge il proprio passato lo fa per vergogna o ignoranza, in quanto pensa di non aver motivi di orgoglio da presentare al prossimo. Certo, luci ed ombre possono convivere nella storia di ognuno, ma un popolo ricco di storia come quello italiano ha ereditato molti più motivi di orgoglio che di vergogna. Lo stesso può avvenire anche per un’associazione come la Libera Muratoria, la cui lunga storia s’intreccia strettamente con quella della nazione italiana. È evidente che l’idea d’Unità d’Italia costituì un sogno di un’elite intellettuale, non sempre condiviso dalle masse. L’esperienza dei fratelli Bandiera e di Carlo Pisacane ne rappresentano due esempi drammatici ed emblematici. Ma è anche vero che il Risorgimento italiano nasce prima dell’ottocento, da diverse tradizioni storiche. Difatti, l’Italia, come unità politica e geografica, fu costituita per primo dall’Impero Romano, nel 293, come Prefettura del Pretorio d’Italia, con capitale a Milano. Dopo la caduta dell’Impero d’Occidente, nel 476, i successivi regni romano-barbarici in Italia, continuarono a mantenere e utilizzare l’amministrazione romana, conservando la struttura dell’antica prefettura, cosi che l’unità territoriale della penisola non venne meno. Nel 568 i Longobardi invasero l’Italia e, dopo un iniziale dominio caratterizzato da durezza, col tempo finirono sempre più per fondersi con la componente latina e tentarono, addirittura, di riunificare la penisola per dare una base nazionale al loro regno. Tale tentativo fallì per l’intervento dei Franchi richiamati da papa Adriano I, introducendo così un copione destinato a ripetersi nei secoli a venire, con il papa che tentava costantemente di impedire la nascita di un potere alternati-
vo sulla penisola italiana. Nel Medioevo il sentimento nazionale italiano non si sviluppò ulteriormente ma ricomparve, significativamente, in alcune occasioni (citate appunto nell’Inno di Mameli), con la vittoria nella battaglia di Legnano per opera della Lega Lombarda contro l’imperatore Federico Barbarossa nel 1176, e la rivolta dei Vespri Siciliani contro il tentativo del re di Francia di assoggettare la Sicilia, nel 1282). Gli intellettuali Dante, Petrarca e Boccaccio furono i primi a proporre una lingua comune fuori dei confini regionali e locali. Sopratutto Dante, con la proposta del volgare, esposta nel Convivio e nel De vulgari Eloquentia, creò le basi per una lingua italica comune. Furono quindi pochi spiriti illuminati che prefigurarono un’unità d’Italia basata su una premessa geo-
grafica e storica. Con l’arrivo delle truppe napoleoniche nella penisola, alla fine del xviii secolo, cominciò a diffondersi maggiormente un sentimento nazionale italiano, già preparato dalle idee dell’illuminismo, che aveva trovato la sua sede più disponibile nella città di Napoli.
Massonica A quel tempo, un’ulteriore testimonianza di una iniziale ma sfortunata istanza di politica nazionale fu rappresentata, in tale periodo, nel Proclama di Rimini, di Gioacchino Murat. Questi, il 30 marzo 1815, durante la guerra austro-napoletana, rivolse un appello a tutti gli italiani per una unione contro l’occupante austriaco per salvare il regno
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posto sotto la sua sovranità, ma che egli presentava come l’unico garante di una indipendenza nazionale italiana. Nell’Ottocento il progressivo sviluppo di una volontà d’unificazione nazionale si delineò imperiosamente ma faticosamente, con aspetti disomogenei. Confluirono in que-
Storia sto magma crescente diversi ideali, diverse esigenze, svariati progetti, a volte anche incompatibili tra loro. Erano in azione confusamente sinergica liberali, repubblicani, nazionalisti, protosocialisti, anticlericali, i sostenitori dell’espansione dei Savoia. Sebbene l’agiografia massonica non manchi mai di citare la presenza decisiva di Fratelli nel Risorgimento italiano, la Massoneria, come istituzione, non risulta aver svolto un ruolo diretto ed ufficiale nel corso del Risorgimento stesso. Tuttavia troviamo numerosi fratelli coinvolti nel Risorgimento (Garibaldi, Mameli, Nino Bixio, Aurelio Saffi, Federico Confalonieri, Francesco Crispi, Giuseppe Cesare Abba, Carlo Pisacane, Rosolino Pilo, ecc.). Occorre ricordare che la Massoneria, in Italia, dopo la caduta di Napoleone, nel 1814, attraversò un grave crisi sino al 1856 circa; la restaurazione vedeva nei massoni dei pericolosi eredi del mito napoleonico. In questo periodo, difatti, le tracce di presenza massonica sono assai poche, forse volutamente o forse le documentazioni sono andate perdute o distrutte dai suoi oppositori clericali e fascisti. Tuttavia i suoi ideali e la sua metodologia continuarono ad essere praticati, discretamente se non occultamente, all’interno delle Logge e, tramite i singoli fratelli, diffusi anche all’esterno, rispondendo ad un’esigenza degli spiriti più illuminati ed erano assimilati anche in altre associazioni più o meno segrete come la Carboneria (di di-
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retta filiazione massonica e i cui iscritti aspiravano soprattutto alla libertà politica e a un governo costituzionale), la Giovane Italia, i Filadelfi, gli Adelfi, i Federati, la società Guelfa, quella dei Raggi ed altre ancora. Con queste altre associazioni la Massoneria ebbe affinità di principi e diversità di programmi; molti massoni erano anche confluiti contemporaneamente i queste associazioni. Purtroppo la storiografia di questo periodo è carente di documenti, forse perduti o distrutti volutamente dagli avversari della Libera Muratoria. Forse la tradizione orale in quel periodo prevaleva su quella scritta, per ovvi motivi di sicurezza per cui le nostre informazioni sono ridotte e spesso deformate ad arte da studiosi non sempre obiettivi. In realtà fino al 1920 la maggioranza degli storici accreditati non
dubitava della tesi della derivazione massonica del settarismo risorgimentale di matrice liberale e democratica e di molte delle associazioni segrete che si erano diffuse in Europa nel periodo post-napoleo-
nico. A questa tesi si oppose, invece, nel 1925 lo storico Alessandro Luzio, secondo il quale il ruolo della Massoneria nel risorgimento era stato del tutto marginale. Gli argomenti di Luzio furono ripresi e condivisi da Gioacchino Volpe, Benedetto Croce e altri storici, in quanto contrastavano l’ipotesi massonica per cui la nascita e lo sviluppo dell’idea unitaria era nata e cresciuta all’interno delle Logge Massoniche; la carboneria era ritenuta “figlia” della massoneria, mentre la Giovane Italia “nipote” . Un’analisi più approfondita degli scritti di Luzio ne ha, in seguito, sminuito la forza, in quanto risulta evidente il suo atteggiamento fazioso e strumentale a sostenere la decisione di Mussolini di distruggere la Massoneria, in quel preciso momento storico, in cui stava preparando il Concordato con il Vaticano. Per il regime fascista era inoltre necessario purificare il mito del Risorgimento, di cui il fascismo si considerava l’erede più diretto, dalla presenza da protagonista della Massoneria. Tuttavia, bisognerebbe anche chiedersi come mai tutti o quasi i maggiori protagonisti del Risorgimento fossero massoni, e soprattutto lo fossero tutti gli uomini insediati in posizioni di potere già nel 1860, all’alba del Regno d’Italia (Garibaldi, La Farina, Persano, Nigra, De Pretis, Crispi, Nicotera). Come avrebbero potuto spuntare dal niente tutti questi massoni se non fossero già stati attivi da anni? Solo la significativa presenza di massoni tra i protagonistì del Risorgimento spiega, infine, l’appoggio decisivo che l’Inghilterra fornì al medesimo, tramite le proprie Logge britanniche, con un fondamentale finanziamento all’impresa dei Mille (furono versati tre milioni di franchi francesi, convertiti, per coprirne l’origine, in piastre turche). Un non trascurabile ruolo fu, inoltre, anche svolto dagli esuli politici in Europa ed in Ame-
rica latina (come Giuseppe Montanelli, Giuseppe Mazzoni, Giuseppe Garibaldi). Furono proprio gli esuli massoni a mantenere i rapporti con le principali obbedienze straniere e a progettare la ricostruzione della Massoneria in Italia, dopo il loro ritorno. Dopo il 1860 il ruolo dei massoni risultò poi più evidente, anche con manifestazioni pubbliche. Occorre riflettere che, subito dopo l’Unità nazionale, la Massoneria costituiva di fatto una delle poche strutture organizzative diffuse su tutta la penisola. Era fisiologico che nelle Logge si dirigessero spontaneamente tutti gli spiriti laici di quel tempo. Ma infine esistono, oltre a quelli storiografici, altri forti elementi indiziari che dimostrano la diretta filiazione del Risorgimento Italiano dalla Massoneria. Più ancora delle documentazioni storiche lo dimostra lo spirito che impronta i giuramenti d’adesione alla Carboneria ed alla Giovane Italia. Diamo un’occhiata al giuramento dell’adepto carbonaro. La vendita carbonara, che si riuniva in una baracca, presentava, al centro e ai lati, dietro i tre tronchi d’albero che fungevano da tavolini, il Gran Maestro, il Primo e il Secondo assistente. Lungo le pareti sedevano, a destra i Maestri e a sinistra gli apprendisti. L’adepto giurava così: “ Io giuro in presenza del Gran Maestro dell’Universo e del Grande Eletto, buon cugino, di impiegare tutti i momenti della mia esistenza a far trionfare i principi di libertà, di uguaglianza e di odio alla tirannia, che sono anima di tutte le azioni segrete e pubbliche della rispettabile Carboneria. Io prometto, se non è possibile di ristabilire il regime della libertà senza combattere, di farlo fino alla morte”. Se poi leggiamo con attenzione anche il giuramento degli aderenti alla Giovine Italia il rapporto diretto è ancor più evidente: “Nel nome di Dio e dell’Italia. Nel nome di tutti i martiri della santa causa italiana, caduti sotto i colpi della tirannide, straniera e domestica. Pei doveri che mi legano alla terra ove Dio m’ha posto e ai fratelli che Dio m’ha dati per l’amore, innato in ogni uomo, ai luoghi ove nacque mia madre e dove vivranno i miei figli, per l’odio innato in ogni uomo, al male, all’ingiustizia, all’usurpazione, all’arbitrio, pel rossore ch’io sento in faccia ai cittadini dell’altre na-
Massonica
zioni del non aver nome né diritti di cittadino, né bandiera di nazione, né patria, pel fremito dell’anima mia creata alla libertà, impotente ad esercitarla, creata all’attività nel bene e impotente a farlo nel silenzio e nell’isolamento della servitù, per la memoria dell’antica potenza, per la coscienza della presente abbiezione, per le lagrime delle madri italiane, pei figli morti sul palco, nelle prigioni, in esilio, per la miseria dei milioni. Io N.N. Do il mio nome alla Giovine Italia, associazione d’uomini credenti nella stessa fede, e giuro: Di consacrarmi tutto e per sempre a costituire con essi l’Italia in Nazione, Una, Indipendente, Libera, Repubblicana; Di promuovere con tutti i mezzi, di parola, di scritto, d’azione, l’educazione de’ miei fratelli all’intento della Giovine Italia, all’associazione che solo può rendere la conquista durevole; Di non appartenere da questo giorno in poi ad altre associazioni; Di unifor-
marmi alle istruzioni che mi verranno trasmesse, nello spirito della Giovine Italia, da chi rappresenta con me l’unione de’ miei fratelli, e di conservarne, anche a prezzo della vita, inviolati ì segreti; Di soccorrere coll’opera e col consiglio a’ miei fratelli nell’associazione. ORA E SEMPRE. Così giuro, invocando sulla mia testa l’ira di Dio, l’abbominio degli uomini e l’infamia dello spergiuro, s’io tradissi in tutto o in parte il mio giuramento.” Ad ogni massone che ha giurato sull’ara sembrerà di rileggere il proprio giuramento di allora. Più d’ogni ponderoso documento d’archivio, più d’ogni documento notarile questi giuramenti testimoniano, in maniera inequivocabile, la loro comune matrice, in quanto vibrano con la stessa lunghezza d’onda e la stessa potenza. P.30-31: Carte geografiche pre e post 1861; p.32: Frontespizio de ‘La Giovine Italia’; p.33: Ritratto d’epoca di uno dei ‘Mille’.
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Memorie
Diario di un piduista Luca Bagatin
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l Colonnello Umberto Granati fu il primo che, allo scoccare del presunto “scandalo P2”, nel maggio 1981, dichiarò di essere affiliato a tale Loggia massonica del Grande Oriente d’Italia. La P2 era infatti una Loggia regolare e per nulla segreta - come invece millantò certa stampa - ideata, come rivela lo stesso Granati, dall’Eroe dei due Mondi Giuseppe Garibaldi e fondata ufficialmente dal Gran Maestro garibaldino Giuseppe Mazzoni nel 1877 al fine di raccogliere personalità di prestigio del mondo della cultura, della politica, della magistratura, delle forze armate, che desideravano mantenere riservata la loro appartenenza all’Ordine liberomuratorio. Dov’era lo scandalo? Lo volle sapere lo stesso Col. Granati, il quale non solo informò i suoi superiori della sua appartenenza alla P2, ma persino i Carabinieri. Fu un fesso? No, semplicemente un uomo onesto, un Servitore dello Stato, che si rifiutava di dichiarare il falso, come invece furono invitati molti suoi Fratelli di Loggia a fare. Tutto questo e molto altro è raccontato dallo stesso Umberto Granati - oggi ottantaduenne e Generale di Corpo d’Armata in pensione - nel suo libro 28 anni dopo: diario di un Piduista, edito dalla casa editrice indipendente Ipertesto Edizioni. Granati era animato da ideali massonici, spirituali e filosofici e si iscrisse alla P2 e dunque alla Massoneria. Non ne poteva trarre vantaggi per il semplice fatto che, nel 1977, data della sua iscrizione, aveva una carriera già ben avviata che si sarebbe conclusa comunque con una promozione pochi anni dopo. Che cosa ne ricavò, invece? Nulla, solo guai personali e giudiziari che lo porteranno, come i pochi suoi Fratelli che avevano dichiarato l’appartenenza alla P2 (fra questi lo scrittore e regista Pier Carpi, che sarà emarginato dal mondo letterario ed artistico sino a morire in miseria) all’emarginazione. Per quanto nessuno gli abbia mai attribuito alcun reato. La P2, come documentato dallo stesso Umberto Granati nel suo libro - ma già anni prima dai saggi di Pier Carpi (Il caso Gelli: la verità sulla Loggia P2 del 1988 e Il Venerabile del 1993) e del prof. Aldo A. Mola (Gelli e la P2 fra cronaca a storia del 2008) - divenne il capro espiatorio del malaffare di gran parte delle
forze politiche di allora (in particolare le due forze del “compromesso storico”), le quali montarono ad arte la famosa “teoria cospirazionista ai danni dello Stato”, istituendo addirittura una costosissima ed inutile Commissione Parlamentare d’Inchiesta presieduta da Tina Anselmi e che si concluse con nulla di fatto e con l’assoluzione piena di tutti i cosiddetti “piduisti” per mezzo delle sentenze della Corte d’Assise di Roma che fra il ‘94 ed il ‘96, assolsero sia la P2 dalle accuse di “complotto ai danni dello Stato” che lo stesso Venerabile della Loggia, Licio Gelli, per le innumerevoli accuse attribuitegli. Umberto Granati racconterà la sua vicenda pubblicamente sul Corriere di Siena nel 1987 con degli articoli a puntate dal titolo Storia di un piduista. Una vicenda che nel suo recente saggio-documento riprende per intero e non risparmia accuse, non solo al mondo politico di allora, a certi mass-media ed a certi settori della magistratura, ma anche allo stesso Licio Gelli, il quale non fece nulla per difendere gli affiliati alla sua Loggia, ma scappò all’estero. Umberto Granati è infatti convinto che, se tutti i membri della Loggia fossero usciti allo scoperto come aveva subito fatto lui, il caso si sarebbe sgonfiato da solo. Come potevano, infatti, personalità diverissime fra loro e che non si erano nemmeno mai riunite (fra cui il cantante Claudio Villa e l’eroe della lotta al terrorismo ed alla mafia Carlo Alberto Dalla Chiesa), complottare contro lo Stato? Altra cosa di cui il Granati è convinto è che il famoso elenco dei “piduisti”, diffuso dalla stampa e da internet sia incompleto. Non solo molti dei nomi degli affiliati mancherebbero all’appello, ma persino molti di quelli contenuti nell’elenco sarebbero persone completamente estranee alla vicenda. Persone estranee che, ad ogni modo, ancora oggi vengono ingiustamente additate come “delinquenti e stragisti”. Umberto Granati parla senza reticenze e raccontando una vicenda senza aver nulla nè da perdere nè da guadagnare, anzi. Racconta ad esempio di quando fu oggetto di insulti e minacce telefoniche da parte di uno sconosciuto che, solo perché componente della P2, lo riteneva un criminale. Il Colonnello Granati fu insi-
gnito nel 1985 dell’Onoreficenza dell’Ordine di Giordano Bruno da parte del Grande Oriente d’Italia ed è oggi Generale di Corpo d’Armata in pensione. Da diversi anni è dedito al giornalismo ed alla redazione di guide turistiche. Nel suo libro racconta di come fu emarginato nel
Memorie suo ambiente di militare, senza capirne il perché e di come fu ostacolato, assieme a sua moglie, persino nella sua umile attività di giornalista di riviste turistiche. Di che cosa era infatti accusato lui, che non aveva mai mentito in vita sua e la cui carriera era immacolata? Come mai ancora oggi la P2 ed i “piduisti” fra i quali, come dice lo stesso Granati, ci saranno anche state delle pecore nere, ma per il resto erano galantuomini, sono considerati il male assoluto? A chi giova tutto ciò? Possibile che il Generale Granati, uscitone completamente pulito come molti suoi pari, debba ancora vedere diffuso il suo nome sulla stampa e sul web, come se fosse un pericoloso criminale? 28 anni dopo: diario di un Piduista è un documento prezioso che getta nuova luce sul caso P2, forse ponendo finalmente la parola fine alla questione e riabilitando degli uomini onesti che hanno pagato la loro appartenenza ad una Loggia massonica regolare. P.34: Campiglia Marittima, busto marmoreo di G.Garibaldi.
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«A che punto è la notte?» Testimoni del silenzio: dalle tenebre di Auschwitz alla luce della Ragione Emanuela Miconi
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homèr ma mi-llailah? A che punto è la notte?», chiede una voce nel buio e, dal buio, la sentinella risponde: «La notte sta per finire ma l’alba non è ancora arrivata. Se volete fare altre domande, tornate di nuovo» (Is. 21, 11-12). Neppure il profeta avrebbe potuto immaginare quelle tenebre nella quale, alla fine di un millennio, il “secolo breve” si sarebbe inabissato e ho scelto le parole di Isaia a titolo di questo mio breve contributo proprio per sottolineare la necessità, a mio avviso sempre più attuale, di ricercare il senso di quanto accaduto, di tornare incessantemente a porre domande, nonostante il timore dell’assenza di risposte. In particolare mi sta profondamente a cuore un quesito fondamentale, che ha determinato la mia ricerca e ne è tutt’ora limite e misura: come rappresentare e parlare oggi, alle soglie del terzo millennio, di un evento che ha segnato in maniera indelebile la storia dell’uomo e come far sì che quella esperienza, nonostante la sua aberrazione, la sua assurdità e il suo carico di dolore, possa tradursi in insegnamento e monito per la generazioni future? Tenterò di richiamare alcune immagini che ci aiuteranno in questo percorso, nel tentativo di contribuire, seppur in minima parte, a fornire, con la riflessione, gli strumenti atti a riedificare un Uomo, degno di questo nome. Se pensiamo alla “selva dei suicidi” descritta da Dante nel XIII canto dell’Inferno, vi riconosciamo uno dei luoghi più desolati, abbandonati e oscuri che la mente uma-
Di questa guerra il razzismo, il nazismo non serberanno soltanto l’amarezza della sconfitta, ma anche il ricordo fascinoso di quanto sia facile uno sterminio di massa. E dovrà tenerlo a mente ogni giorno […] chiunque abbia cari l’onore, la libertà, la vita di ogni popolo e dell’umanità intera. Vasilij Grossman na possa concepire; eppure ai dannati che in essa scontano la loro colpa, nell’arco di una terribile eternità senza luce alcuna, è concesso un barlume di quella dignità che, rendendoli creature, permette di chiedere “perché” di fronte ad un gesto che a loro, esseri ormai del mondo delle ombre, appare incomprensibile: Allor porsi la mano un poco avante e colsi un ramicel da un grande pruno; e ‘l tronco suo gridò: Perché mi schiante? da che fatto fu poi di sangue bruno, ricominciò a dir: Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?1 Non così nel moderno inferno del lager. Nei primi capitoli di Se questo è un uomo, Primo Levi racconta del suo arrivo ad Auschwitz: Spinto dalla sete, ho adocchiato, fuori da una finestra, un bel ghiacciolo a portata di mano. Ho aperto la finestra, ho staccato il ghiacciolo, ma subito si è fatto avanti uno grande e grosso (…) e me lo ha strappato brutalmente. – Warum? – gli ho chiesto nel mio povero tedesco. – Hier ist kein Warum (qui non ci sono perché) – mi ha risposto, ricacciandomi dentro con uno spintone.2 Ad Auschwitz non si fanno domande e, soprattutto, non si fa quella domanda, la domanda del senso, della ragione, della presa di coscienza: Warum? Perché? L’impossibilità di una domanda che in primis sancisce la rottura di un rapporto con Dio, un Dio che non risponde, anch’egli condannato al non-linguaggio, al silenzio perpetuo3, a sua volta metafora di quel non-senso 1 Cfr. D. Alighieri, La Divina Commedia Inferno, a cura di U. Bosco e G. Reggio, Firenze 1984, p.194. 2 P. Levi, Se questo è un uomo, in Opere I, a cura di M. Belpoliti, Torino 1997, p. 23; segnaliamo la bellissima introduzione di D. Del Giudice, pp. XIII-LXV. 3 Cfr. A. Neher, L’esilio della parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, tr.it. C Cestari, Marietti, Casale Monferrato 1983; P. Amodio, R. De Maio, G.Lissa (a cura di), La Sho’ah tra interpretazione e memoria, Napoli 1999; AA.VV., Auschwitz. L’eccesso del male, a cura di P. Amodio, G. Giannini, G. Lissa, Napoli 2004.
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che, ad occhio umano, non può essere altro che morte. Auschwitz rimane simbolo della negazione di senso, umano o divino che sia, e il suo silenzio, insieme a quello di Dio, è simile al caos, al vuoto che nella Bibbia precede la creazione e qui, nell’inferno creato dall’uomo per l’uomo, pare preludere invece a quella distruzione sistematica che riconfina nell’abisso, in ebraico sheol “regno delle tenebre”, tutto ciò che per gli antichi era cosmos, ordine, armonia. Ne consegue quel vuoto, quella desolazione oscura e senza speranza ben veicolata dal termine Shoah, nel tentativo di ricondurre nella dimensione di un linguaggio a misura d’uomo l’indicibilità dell’immane tragedia. Desidero richiamare ancora un’icona famosa, nell’ottica di una suggestione emotiva che ci aiuti a penetrare, anche da un punto di vista empatico, nelle tematiche trattate. Nel Sacrificio di Isacco dipinto dal Caravaggio, Abramo ci appare approntarsi ad immolare il figlio prediletto; è l’estrema prova richiesta da un Dio onnipotente al quale il patriarca si assoggetta senza tremare. Una sua mano impugna decisa il coltello mentre l’altra trattiene il fanciullo il cui sguardo di terrore è quello della vittima innocente che non può comprendere chi la tradisce. Abramo conosce il Dio di Israele, ha sentito la sua voce e sa che quel Padre ricompenserà la sua creatura di quanto ora le toglie. Nel quadro l’urlo disperato sembra inghiottito dalla bocca di Isacco, un buco nero, unica nota tra-
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gica di tutta la composizione: quel grido si infrange contro l’angelo che, altrettanto deciso, ferma il braccio del vecchio padre e, proprio nel gesto estremo, ancora una volta, sancisce l’alleanza tra Dio e il suo popolo. Consideriamo ancora un’immagine, in questo caso una fotografia: anche qui un innocente condotto al macello. Varsavia 1941: un bimbo gracile con un cappello troppo grande sul capo e gambe sottili come matite avanza in primo piano con le braccia levate in gesto di resa e gli occhi, come quelli dell’Isacco caravaggesco, colmi di terrore; intorno al bambino si vedono solo corpi di adulti senza volto, si intuiscono divise militari di soldati che lo incalzano con le armi spianate. 1941, la guerra è appena iniziata, non lo sterminio; quella che per alcuni è solo Endlösung, soluzione finale, e per molti sarà Shoah, catastrofe, sta per compiersi. In questa immagine nessun angelo ferma la mano del carnefice e nessun grido di dolore si leva dalla bocca della vittima; c’è solo lo stupore muto del volto, la paura incommensurabile negli occhi e un incomprensibile senso di assurdità. Il mondo di Abramo è crollato senza fare rumore, lasciando spazio al silenzio che dilaga. Questo è l’inferno. Oggi ai nostri giorni l’inferno deve essere così, una camera grande e vuota, e noi stanchi stare in piedi, e c’è un rubinetto che gocciola e l’acqua non si può bere, e noi aspettiamo qualcosa di certamente terribile e non succede niente e continua a non succedere niente.
Come pensare? Non si può più pensare, è come essere già morti.4 Il piccolo deportato ritratto nella fotografia non farà in tempo ad esperire l’inferno, morirà subito dopo averne attraversato le porte, per dissolversi in una, fra le milioni di “anime di fumo”5 levatesi dai camini di Auschwitz. Interrogare il silenzio: Elie Wiesel e il Male indicibile Un giorno che tornavamo dal lavoro vedemmo tre forche drizzate sul piazzale dell’appello (…) tre condannati incatenati, e fra loro il piccolo pipel, l’angelo dagli occhi tristi (…) le SS sembravano più preoccupate, più inquiete del solito. Impiccare un ragazzo davanti a migliaia di spettatori non era un affare da poco (…) Tutti gli occhi erano fissi sul bambino. Era livido, quasi calmo, e si mordeva le labbra. L’ombra della forca lo copriva. Il Lagerkapo si rifiutò questa volta di servire da boia. Tre SS lo sostituirono. I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi. -Viva la libertà! - gridarono i due adulti. Il piccolo, lui, taceva. - Dov’è il Buon Dio? Dov’è?- domandò qualcuno dietro di me. (…) poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più (…) ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora (…) dietro di me udii il solito uomo domandare: - Dov’è dunque Dio? – E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: Dov’è? eccolo: è appeso lì, a quella forca. - 6 Elie Wiesel, scrittore di fama e all’epoca della deportazione poco più che bambino, pone quella domanda tremenda di fronte al Male indicibile di cui Auschwitz è ora assunto a metafora e immediatamente assimilato a quel “Male in eccesso”7 che erompe nella Storia e appare non più definibile secondo categorie razionali. Nella sua ricerca di nuovi strumenti espressivi per raccontare ciò che “non può essere detto” dall’umana parola, lo scrittore, e testimone della tragedia, arriverà a fare propri concetti e termini della mistica alludendo a una sorta di suo capovol4 P. Levi, Se questo è un uomo, in Opere I, cit., p.16. 5 Cfr. «Keine Rauchseele steigt und spielt mit», in P. Celan, Stretta, in Id., Poesie, a cura di G. Bevilacqua, Milano 20056, pp. 342-343. 6 E. Wiesel, La notte, Firenze 2003, pp. 66-67. 7 Cfr. AA.VV., Auschwitz. L’eccesso del male, cit.
gimento semantico: laddove, nella tradizione, l’uomo ci appare “folgorato” da un “eccesso di divino” che, azzerando ogni categoria di pensiero, apre l’essere umano al “totalmente Altro” e a quella scintilla di luce degli dei ritrovata nella propria interiorità; qui, nella contemporaneità del
suo presenza tutta la terra” (Ab. 2, 20) o talvolta, al contrario, sono gli stessi uomini a confrontarsi, ammutoliti da tanta potenza, con la temibile voce di Dio che irrompe dal cielo con il fragore di un uragano: “Viene il nostro Dio e non in silenzio: lo precede un fuoco divorante, in-
“Se il Signore non mi avesse aiutato, già la mia anima avrebbe trovato dimora nel silenzio”(Sal. 94,17). Gli antichi cabalisti ribalteranno questa equazione di mortesilenzio fino a giungere ad identificare la morte con la sonorità e a ravvedere nelle forze del male la capacità di intromet-
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dopo-Auschwitz, all’individuo si rivela l’annientamento conseguente l’esperienza, altrettanto indicibile, dell’assenza di Dio, resa manifesta dal suo silenzio. Ogni iniziato conosce il valore del silenzio, appreso nel corso del proprio cammino di conoscenza: pratica che, ben lungi dal configurarsi come segregazione e solitudine, in breve si rivela nella sua dimensione di ascolto e progressiva capacità di accogliere in sé voci e parole nuove. Nella tradizione ebraica la sequenza consonantica hrš inclusa nel termine mahariš, colui che tace, rimanda a interpretazioni molteplici e apparentemente tra loro lontane: può significare “tracciare un solco” e quindi, in senso lato, “arare” o “incidere”, espressione di un’abilità appresa e affinata fino a divenire strumento capace di “intagliare linee nell’anima”; ma al contempo rimanda al mutismo e alla sordità, all’isolamento, quindi, dal mondo e dagli uomini.8 Nei libri dei profeti spesso l’apparizione terribile del Signore è accompagnata dall’imposizione del silenzio: “Il signore è nel suo santo Tempio; taccia in 8 Cfr. G. Busi, Simboli del pensiero ebraico, Torino, 1999.
torno a lui infuria la tempesta” (Sal. 50, 1-3). Gli uomini tacciono ma Dio si rivela sempre come qol, voce, un’onda emotiva emanata, così ci dicono le Scritture, da un’entità che prima ancora di farsi suono, sostituisce l’immagine e diventa “parola” che si può vedere: “Ora tutto il popolo vedeva le voci, il suono della tromba e il monte fumante: il popolo vide, tremò e se ne stette a distanza” (Es. 20, 18) Per i cabalisti il silenzio innominabile è proprio di Dio, vibrazione impercettibile che a poco a poco si trasforma in suono lieve e continuo, un soffio inarrestabile che darà vita alle realtà dei mondi inferiori, un vento vitale che risuonerà, senza mai spegnersi, nella voce del mondo. Consideriamo ora l’abisso dello sterminio: shoah diviene allora esperienza di un silenzio senza suono, di una solitudine fatta di tenebra in cui nessun ascolto è possibile perché nessuna voce risuona; in ebraico, nel lessico biblico, un altro termine richiama questo mondo privo di armonia in cui il silenzio di Dio pare voler confinare l’uomo per sempre, è dumah, il silenzio che appartiene all’oltretomba e per esteso, nella tradizione post biblica, appellativo dell’angelo della morte.
tersi nella vita e sfruttare il fragore della materia; tuttavia per chi ha vissuto l’esperienza del silenzio di Dio, nessun rumore, nemmeno quello delle tradotte dei treni e dei forni crematori incessantemente in funzione, potrà essere tale da sovrastare lo sgomento e la disperazione per quell’assenza di voce. Prova intollerabile, questo abbandono nelle tenebre, al punto che i filosofi hanno tentato di teorizzare, in maniera consolatoria, la momentanea “eclissi” di Dio o la sua “attesa”; certo è che allo scrittore Wiesel, ebreo credente, non è dato negare Dio: assumere una posizione atea significherebbe, per lui, sconfessare l’identità ebraica della Shoah, riducendola ad un mero evento storico e, soprattutto, precludere ogni possibilità di una re-interpretazione di valori e concetti pur sempre iscritti nel mistero insondabile della trascendenza divina. Luce, da un lato, tenebra dall’altro, entrambe, se in eccesso, annichiliscono la ragione umana. Il rapporto con il Padre appare ora incrinato per sempre: l’uomo è consegnato alla sua solitudine, al vuoto e alla vertigine di una libertà assoluta in cui sola permane la sua domanda disperata, il suo grido di creatura che non può rescindere il legame e non essere figlio di quel Padre, ora lontano o nascosto, la cui non-risposta, nel silenzio dell’abbandono, conduce ad un iniziale stupore e ad una successiva rivolta. Per Wiesel non più è questione di giustificazione del Male nel mondo, bensì rifiuto del silenzio di un Dio, al quale, incessantemente, si chiede conto del suo rapporto con l’uomo e, non a caso, in un breve scritto teatrale, egli descrive un processo il cui principale imputato risulterà essere Dio stesso al quale, in un crescendo di odio e violenza, si chiede conto della distruzione della piccola comunità, vittima di un pogrom che l’ha sterminata.9 Preferisco (…) le domande e non le ri9 Cfr. E. Wiesel, Il processo di Shamgrod, Firenze 1998.
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sposte, i silenzi e non i discorsi (…). Non posso credere che un’intera generazione di padri e di figli sia scomparsa nell’abisso senza creare, per questo stesso fatto, un mistero che supera la nostra comprensione e ci soggioga. Io continuo a non capire (…) tutte le parole in tutte le bocche dei filosofi
Antropologia e degli psicologi non valgono le lacrime del bambino e della madre che vivono la loro morte due volte. Che fare allora? Nei miei calcoli tutte le addizioni danno sempre la stessa cifra: sei milioni.10 Per chi ha esperito l’abisso del male estremo, al limite del pensabile, in quel vortice in cui Sommo Bene, vertice della trascendenza, e Male assoluto, punto più infero dell’umano, paiono toccarsi nella comune indicibilità, l’unica possibilità di un rapporto con Dio è assegnata al dialogo che, come alle origini, ci appare la sola relazione ancora possibile tra Padre e figlio: - L’uomo si eleva verso Dio per mezzo delle domande che Gli pone (…) ecco il vero dialogo: l’uomo interroga e Dio risponde. Ma le Sue risposte non si comprendono, non si possono comprendere, perché vengono dal fondo dell’anima e vi rimangono fino alla morte. (…) Io prego il Dio che è in me di darmi la forza di poterGli fare delle vere domande (…) - E mi convinsi che Moshè lo Shammash mi trasportava con sé nell’eternità, in quel tempo in cui domanda e risposta diventavano Uno.11 Soltanto un rapporto dialettico permette quindi, secondo l’ottica dello scrittore, l’approdo a quel luogo in cui Dio ci appare separato dalla sua potenza; nuovamente Wiesel non esita a impiegare i termini propri della mistica per descrivere questi aspetti. L’ebraismo può pensare alla presenza di Dio nel mondo come pura e semplice Shekinah, ovvero quell’istante in cui Egli si rivela all’uomo proprio attraverso la sua stessa fragilità; entrambi appaiono così protagonisti di una relazione in virtù della quale il divino, spogliato temporaneamente della sua potenza, diviene Dio-che-soffre nello stesso identico momento in cui a soffrire è l’uomo stesso.12 Non ci deve sorprende10 Idem, L’ebreo errante, Firenze 1998, pp.163-164. 11 E. Wiesel, La notte, cit., p.12-13. 12 Wiesel è comunque lontano da un’ipotesi di
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re il costante ricorso alla mistica nel tentativo di ridefinire il concetto di divino all’indomani della Shoah; il pensiero, in un certo senso, è stato costretto a re-interrogarsi su Dio e a cercare nuove categorie per situarsi nella Storia. Per il giudaismo antico il peccato si configurava come disobbedienza alla Legge e non come metafisica lotta di potenze eterne in conflitto tra loro. Solo con la qabbala di Isaac Luria, nel XVI secolo, la cultura ebraica acquisisce un’interpretazione metafisica del male nel mondo: le potenti metafore della “rottura dei vasi divini” e della dispersione delle “scintille di luce” forniranno un supporto dottrinale alla ricerca di un senso da conferire alla nuova condizione di esilio, conseguito alla cacciata dalla penisola iberica alla fine del XV secolo.13 Ad Auschwitz, un Dio patetico e com-passionevole si rivela al suo popolo, pur rimanendo mistero trascendente. Per Wiesel solo ammettendo la presenza del divino, e mantenendone ferma l’assoDio-debole quale quella teorizzata da Hans Jonas nell’ormai famoso Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Genova 1998. Qui, il filosofo tedesco non riferisce tanto di Dio, quanto di un Gottesbegriff, ovvero ciò di cui noi, di Dio, possiamo dire e pensare; egli rievoca il mito qabbalistico della creazione, ovvero quella teoria dello tzimtzum, il ritrarsi di Dio, tramite il quale Egli ha fatto sussistere il mondo. L’idea proposta da Jonas è quella di un Creatore che ha abdicato ad ogni potere di intervento sul corso fisico della sua creazione e, concedendo all’uomo la libertà, ha rinunciato all’esplicarsi della sua onnipotenza e irrevocabilmente sancito la sua distanza e indifferenza all’umano; più simile ormai al Santo Nulla, all’En Sof di cui dicevano i qabbalisti, che non ad un Dio com-passionevole e debole perché co-sofferente con la sua creatura quale è quello teorizzato da Wiesel. 13 Cfr. oltre al recentissimo G.Scholem, La figura mistica della divinità. Studi sui concetti fondamentali della Qabbalah, Milano, 2010, dello stesso autore La Kabbalah e il suo simbolismo, Torino 2001, pp. 138-150, Id., Le grandi correnti della mistica ebraica, Torino 1993; Id., Il nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio, Milano 2005; G. Busi, La Qabbalah, Bari 2004 e la raccolta antologica tratta dai testi fondamentali della tradizione cabalistica a cura di G. Busi e E. Loewenthal, Mistica ebraica, Torino 2006; utile alla definizione del contesto culturale può risultare invece il volume AA.VV., a cura di P. Reinach Sabbadini, La cultura ebraica, Torino 2000. Polemico, per alcuni versi, con le teorie di Scholem è invece il testo di M. Idel, Cabbalà. Nuove prospettive, Firenze 2010 (nuova edizione ampliata).
luta alterità, può instaurarsi quel rapporto dialettico che rende possibile, da parte dell’uomo, l’interrogazione perpetua in quel luogo di annientamento e non-senso, nel quale egli sperimenta la propria finitezza e solitudine. Narra la leggenda che un giorno l’uomo si rivolse a Dio con queste parole: - Cambiamo. Tu sii uomo, io sarò Dio. Solo per un secondo.- Dio (…) gli chiese: - Non hai paura? - No. E tu?- Io sì – disse Dio. Tuttavia acconsentì (…) l’altro prese il suo posto e subito fece uso della sua onnipotenza: rifiutò di tornare alla sua condizione umana. Così né Dio, né l’uomo erano più ciò che sembravano essere (…) Passarono degli anni, dei secoli, forse delle eternità. E improvvisamente il dramma scoppiò. Il passato per l’uno, il presente per l’altro erano un fardello troppo pesante. La liberazione dell’uno era legata a quella dell’altro; ripresero il dialogo la cui eco ci giunge nella notte, carica di odio, di rimorsi e soprattutto di nostalgia infinita.14 Lo scrittore, nell’ipotesi di un dialogo ininterrotto, ridefinisce e ricostruisce continuamente, anche in assenza di risposte, il rapporto con Dio. Mi domando ora, però, quale linguaggio sia atto a comprendere la risposta divina, quale possa essere la lingua adeguata a questo colloquio. Non certo quella dell’uomo, adesso più che mai lontano, nel suo abisso di dolore, dalla possibilità di comprendere la voce del Padre. Forse potrebbe darsi una risposta, ma di quali strumenti dispone l’essere umano per capire la lingua di Dio? La parola dell’uomo appare inadatta a contenere, intera, quella risposta: Dio rimane infinitamente Altro, tuttavia ciò non ci esonera dal porre interrogativi e forse la stessa vita umana, nella sua costitutiva duplicità di luce ed ombra, non può che risolversi in un unico cammino di conoscenza attuato attraverso l’inesauribile sequenza di domande alle quali, ciò che appare come una non-risposta, in realtà si svela nel silenzio di una lingua incomprensibile. Ma allora, mi direte, che cosa ci resta? La speranza malgrado tutto, nostro malgrado? La disperazione forse? O la fede? Ci resta soltanto la domanda.15 14 E. Wiesel, La città della fortuna, Firenze 1990, p.181. 15 Idem, Credere o non credere, Firenze 1993, p.19.
«Il sonno della ragione genera mostri»: due illuministi di fronte alla Shoah Devo dire che l’esperienza di Auschwitz è stata tale per me da spazzare qualsiasi resto di educazione religiosa che pure ho avuto (…) C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio. (Sul dattiloscritto, a matita: Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo).16 Con la tragedia della Shoah si è attuato un mostruoso processo di disumanizzazione che ha colpito tanto le vittime quanto gli stessi carnefici, sopprimendo nei campi della morte la stessa nozione di dignità umana e rimettendo in discussione la concezione, fino ad allora possibile, dell’uomo. Hannah Arendt parlerà di un tentativo di «eliminare l’umano dalla Storia», di un «estirpare dal mondo il concetto stesso di uomo», insito nel folle e al contempo razionalissimo progetto nazista secondo il quale, attraverso la distruzione del popolo ebraico, si sarebbe arrivati all’annientamento della diversità degli uomini, eliminando in tal modo, dall’umano contesto, ogni capacità di pensiero ed azione politica.17 Questo divieto di accesso all’umano, nel suo senso più elevato e più nobile, mi appare simbolicamente ben reso in quel verboten (proibito), iscritto nella divisa dell’ufficiale nazista, descritto da Giacomo Debenedetti: Tutto divisa, anche lui, dalla testa ai piedi (…) è la parola verboten tradotta in uniforme: proibito l’accesso all’uomo e all’individuale passato che vive in lui, che è la sua storia e la sua più vera “specialità” di creatura di questo mondo; proibito vedere altro che questo suo “presente” rigoroso, automatico, intransigentemente reciso.18 Molto si è detto sulla possibilità di pensare Auschwitz come cesura, come una sorta di “anno zero” a partire dal quale non sarà più possibile intendere la Storia come progresso infinito, ma solo mediante quel termine ebraico, in questo 16 F. Camon, Conversazione con Primo Levi, Parma 2006, p.72. 17 Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Torino 2004. Non diversamente dalla Arendt, lo scrittore Jean Amery riassumerà la vera essenza dei campi nazisti nella definizione di “entmenschter Mensch”, appunto ‘l’uomo disumanizzato’, cfr. J. Amery, Intellettuale ad Auschwitz, Torino 2002, p. 54. 18 G. Debenedetti, 16 ottobre 1943, Torino 2001, p. 16.
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caso hurban, piuttosto che Shoah19, che al meglio ne rende la dimensione tragica: quella rappresentata dal terribile Angelo indicatoci da Walter Benjamin, nella IX delle sue celebri Tesi: Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, (…) egli vorrebbe trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, (…) questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera.20 Ritengo opportuno, tuttavia, in questo contesto, portare attenzione anche ad un’idea di cesura ontologica sancita dalla tragedia dell’Olocausto. Per gli antichi l’essere umano poteva definirsi come locus revelationis divino, l’uomo, costitutivamente “immagine di Dio”, nel fondo della sua anima – il Grund der Seele di cui parlano i mistici – esperiva l’accendersi di quella scintilla propiziatrice, ol19 Cfr. A.V. Sullam Calimani, I nomi dello sterminio, Torino 2001 20 W. Benjamin, Sul concetto di storia, Torino 20002, pp. 35-37.
tre ogni mediazione razionale, di un rapporto diretto con Dio. Ma ora, mi chiedo, dopo l’inabissamento nel Male legato ad Auschwitz, può l’anima umana ancora accogliere il rivelarsi della Trascendenza, del principio del Bene, del divino? Se l’uomo aspira al supremo ricongiungimento all’unità originaria dell’Essere, e tutta l’intera sua vita può essere considerata la traccia di questo percorso, dopo il male in eccesso, elemento che contamina nel profondo la sua anima, non è allora questo cammino precluso per sempre? Forse l’essere umano, monade umbratile e vive di luce e di ombra, dopo Auschwitz risulterà costituito da sola tenebra, annientato egli stesso dall’abisso in cui pare, dopo l’esperienza del “male in eccesso”, condannato a sprofondare. Era cambiato, Moshè. I suoi occhi non riflettevano più la gioia. Non cantava più. Non mi parlava più di Dio o della Cabala, ma solamente di ciò che aveva visto. La gente non solo si rifiutava di credere alla sue storie ma anche di ascoltarle. (…) - Ho voluto tornare a Sighet per raccontarvi la mia morte, perché possiate prepararvi finchè c’è ancora tempo (…) ed ecco che nessuno mi ascolta -.21 L’uomo folle di Nietzsche proclamava la 21 E. Wiesel, La notte, cit., pp. 14-15.
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morte di Dio, ma lo schlemihl 22di Wiesel, al pari, urla di un’altra morte, quella dell’uomo; e allora se la domanda radicale di fronte al male, poteva, prima di Auschwitz, esprimersi nel “Dio dove sei?”o nel grido dell’abbandono, ora non può che porsi nei termini della ricerca del luogo in cui l’Uomo possa ancora essere tale. Le tappe per adire a questa ricostruzione dell’umano si snodano lungo un itinerario doloroso che comporta, fra l’altro, fasi alterne e diversificate. Da un lato è possibile riscontrare il tentativo di dare nuovo significato allo Sterminio, inteso ora come crimine universale perpetrato a danno dell’umanità intera; istanza ideologica, questa, da cui trae origine la ricerca di una nuova categoriainterpretativa, in seguito sintetizzata da Hannah Arendt nel concetto di totalitarismo. Dall’altro lato si evidenziano, nel corso della storia, le problematiche inerenti alle difficili assunzioni di colpa e responsabilità, non solo da parte di chi ha partecipato attivamente alle azioni criminali, ma anche per coloro i quali nulla hanno fatto per impedirle; a ciò si affianchi, per con22 La figura dello Schlemihl, spesso un mendicante o un vagabondo, talvolta un folle depositario di una verità che, come in questo caso, nessuno vuole ascoltare, è fondamentale in tutta la narrativa di Wiesel ed è protagonista di molta di quella cultura popolare appartenente alla Yiddishkeit dell’ebraismo orientale completamente annientata dopo lo sterminio. In proposito si vedano E. Traverso, Cosmopoli, Verona 2004, Id., Gli ebrei e la Germania. Auschwitz e la “simbiosi ebraico-tedesca”, Bologna 1994, H. Arendt, Il futuro alle spalle, Bologna 20062.
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tro, la necessaria valorizzazione di tutte quelle forme di resistenza, individuale e collettiva che, singole voci isolate, tentarono di opporsi, spesso soccombendo, agli eventi. Non è qui possibile ricordare le innumerevoli testimonianze di “resistenza” attuate da coloro che, rifiutando l’asservimento della propria ragione alla assurda volontà di dominio e distruzione, hanno continuato, anche a rischio della propria vita, ad esercitare il libero pensiero e ad agire secondo la coscienza di uomini liberi ponendosi al fianco di chi, in quella contingenza storica, soffriva persecuzioni e discriminazioni di ogni genere. A ricordo di tutti costoro vorrei assumere la vicenda dei ragazzi de La Rosa Bianca che, soli contro l’inumano potere nazista, tentarono, pagando con la vita, di dare voce alle istanze di dignità e libertà dell’essere umano con un’altissima forma di “resistenza civile”. 23 Punto fondamentale di questo cammino di ritorno all’uomo non può non essere il recupero e l’elaborazione di una memoria la quale, vedremo, diverrà il tema fondante di buona parte dell’opera di Primo Levi e di Jean Amery. «Se capire è impossibile, conoscere è necessario» ripeterà Levi più volte, una sorta di Leit-motif che, se da un lato sancisce la necessità assoluta di mantenere viva la testimonianza di 23 Cfr. P. Ghezzi, Sophie Scholl e la Rosa Bianca, Brescia 2003; R. Guardini, La Rosa Bianca, Brescia 2005, P. Ghezzi (a cura di), Noi non taceremo. Le parole della Rosa Bianca, Brescia 1997; ricordo infine il bellissimo film, La Rosa Bianca, Germania 2005, del regista Marc Rothemund.
quanto accaduto, dall’altro ci dice quanto questo recupero sia difficoltoso e carico di dolore, soprattutto per chi, nell’”era del testimone”24, è chiamato a rievocare, e non sempre con esiti liberatori, la tragedia vissuta. Non è detto che chi è si è salvato dall’orrore dell’inferno di Auschwitz riesca ancora a reggerne il ricordo, talvolta fatto a forza riaffiorare alla memoria. Prova ne sia il suicidio di quei tre uomini, qui assunti a simbolo di tutti gli altri morti nell’ombra, Primo Levi, Jean Amery e Paul Celan, «resi alati dalle ferite»25, ciascuno novello Icaro, le cui ali vennero bruciate non dal sole, ma dall’incontro con le tenebre. La fragilità, divenuta costitutiva dell’essere di chi è sopravvissuto e la profonda difficoltà al raccontarsi26, 24 Cfr. A. Wiewiorka, L’era del testimone, Cortina, Milano 1999. 25 «Dei conci \ di quel ponte da cui egli \ andò a schiantarsi \ contro la vita, reso alato \ dalle ferite», cfr. P. Celan, E con il libro di Tarussa, in P. Celan, Poesie, cit., p. 499, alludo in questo caso al fatto che tutti e tre gli scrittori scelsero la morte con un salto nel vuoto. 26 Cfr. P. Levi, Opere II, cit. pp.1056-1057: «Non credo che gli psicanalisti siano competenti a spiegare questo impulso ( a scrivere). (…) i meccanismi mentali degli Häftlinge erano diversi dai nostri (…) tutti soffrivano di un disagio incessante (…) definirlo “nevrosi” è riduttivo e ridicolo. Forse sarebbe più giusto riconoscervi un’angoscia atavica (…) l’angoscia inscritta in ognuno del “tòhu vavòhu”, l’universo deserto e vuoto da cui lo spirito dell’uomo è assente» Si vedano sul tema Bruno Bettelheim, Sopravvivere, SE, Milano 2005, D. Meghnagi, Ricomporre l’infranto, Marsilio, Venezia 2005, A. Piccini, I confini del lager, Mursia, Milano
mi paiono mirabilmente espresse nelle parole della poetessa Nelly Sachs: Noi superstiti \ vi preghiamo: \ mostrateci lentamente il vostro sole. \ Guidateci piano di stella in stella. \ Fateci di nuovo imparare la vita. \ Altrimenti il canto di un uccello, \ il secchio che si colma alla fontana \ potrebbero far prorompere il dolore \ a stento sigillato \ e farci schiumar via \ (…) vi preghiamo \ non mostrateci ancora un cane che morde \ Potrebbe darsi, potrebbe darsi \ che ci disfiamo in polvere \ davanti a vostri occhi \ (…) Noi superstiti \ stringiamo la vostra mano \ riconosciamo i vostri occhi \ ma solo l’addio ci tiene ancora uniti, \ l’addio nella polvere \ ci tiene uniti a voi. 27 Sullo sfondo del tentativo di costruire una memoria collettiva, in grado di comprendere la Shoah almeno nella sua storicità, si stagliano le figure di due intellettuali, Primo Levi e Jean Amery, che fecero del recupero memoriale e della testimonianza il movente primario della loro scrittura. Non sappiamo se Levi ed Amery si incontrarono ad Auschwitz, di certo è testimonianza del loro successivo rapporto il capitolo da Levi dedicato all’amico, L’intellettuale ad Auschwitz, in I sommersi e i salvati;28 fin dalle prime pagine egli ravvede in comune con il filosofo austriaco una formazione illuministica che ben poco aveva a che fare con l’ortodossia ebraica: se da un lato evidenzia la completa assimilazione della famiglia di Amery alla cultura austro-ungarica di cui l’amico si era nutrito fin dall’infanzia, dal canto suo Levi rammenta una educazione impartitagli secondo i principi di quell’etica laica che tanta parte ebbe nella formazione degli intellettuali torinesi del primo Novecento.29 Diversa, per parte sua, è la posizione assunta da Amery 2004 oltre al breve racconto, illuminante pur nella sua finzionalità, di C. Ozyck Lo scialle, Feltrinelli, Milano 2003. 27 Nelly Sachs, Coro dei superstiti, in S. J. Agnon, N. Sachs, Opere, Utet, Torino 1972, p. 612-613. 28 Cfr. P. Levi, I sommersi e i salvati, in P. Levi, Opere II, cit., pp. 1091-1108. 29 Sull’argomento si legga l’intervista a G. Grieco, in P. Levi, Conversazioni e interviste 1963-1987, a cura di M. Belpoliti, Einaudi, Torino 1997. Per ulteriori approfondimenti bibliografici rimando a E. Franco, Primo Levi. La vita, le opere, Einaudi, Torino 2007.
nei confronti del proprio ebraismo: cresciuto in un villaggio tirolese, allevato secondo i principi di un’educazione cattolica e formatosi in seno alla cultura della Aufklärung, l’illuminismo tedesco, definirà la propria coscienza ebraica sempre in negativo, essenzialmente come prodotto della persecuzione e dello sterminio; l’identità ebraica corrisponderà per lui a ciò che si è perduto per sempre, a quella Patria, ciò che lui chiama Heimat, non ricostituibile e identificata piuttosto nella nostalgia per una cultura, una lingua, una terra, ormai definitivamente mutatesi in assenza.30 Entrambi ebrei assimilati appartengono alla cosiddetta westjüdische Zeit, l’universo secolarizzato dell’ebraismo occidentale così diverso dal mondo della Yiddishkeit della Mitteleuropa raccontata da Elie Wiesel e da Joseph Roth; per entrambi l’atto del testimoniare assumerà anche la valenza di una affermazione della propria cultura e del proprio essere. Il loro racconto non sarà soltanto una realistica descrizione dell’esperienza vissuta, esso darà voce alla riflessione sulla condizione umana all’interno di un sistema concentrazionario che tende a distruggere qualsiasi carattere di umanità. Se la narrazione di Levi nasce dall’impellenza liberatoria del raccontare l’altrimenti “insopportabile”, quella di Amery scaturisce da una più tarda e ponderata riflessione, qualificandosi immediatamente come meditazione filosofica sull’uomo e il dolore. In ogni caso, la testimonianza si configura come un tentativo di “pensare Auschwitz” sollecitati da quella ragione, tutta illuministica, che mai perderà, soprattutto in Levi, il suo ruolo salvifico; quella che viene definita come la “salvazione del capire”31, si rivelerà, al contempo, sforzo di comprendere e presa di coscienza del limite di ogni riflessione. Nell’assunzione di un’ottica completamente laica, i due scrittori ben poco concedono a spiegazioni teologiche e al determinismo storico; Auschwitz viene così a delinearsi come esperienze umana, rivelatrice della potenziale capacità, per l’uomo, di costruire una mole infinita di dolore, e che il dolore è la sola forza che si crei dal nulla, senza spesa e sen30 Cfr. J. Amery, Di quanta patria ha bisogno un uomo? in Idem, Intellettuale, cit., pp. 83-109. 31 P. Levi, La ricerca delle radici, in Id., Opere II, cit., p. 1367.
za fatica. Basta non vedere, non ascoltare, non fare.32 Le radici illuministiche della cultura di entrambi, classico-scientifiche per l’uno e improntate alla dimensione dell’Aufklärung austro-germanica, innestata sulla successiva esperienza dell’Esistenzialismo francese per l’altro, sono
–loso–ca a fondamento dell’umanistica necessità del capire, tramutatasi, in questo caso, da bisogno individuale a esigenza etica collettiva, tanto più sentita quanto più ogni comprensione razionalistica appare impossibile. Per Amery il rendere testimonianza allude all’atto di “fare luce”, richiamato ancora una volta da quel verbo tedesco, erklären (illuminare, rendere chiaro) che qui indica la possibilità di “mostrare” e illuminare l’enigma di Auschwitz, senza alcuna pretesa, però, di penetrarlo e comprenderlo; è questo un atto che, sentito e assolto come un dovere civile, consente di attuare una “moralizzazione della storia”.33 Solo attraverso un gesto etico di tal genere sarà possibile la costruzione di una memoria-azione, dall’intrinseco valore politico, a sua volta strumento utile a riportare alla luce e proiettare nel futuro gli eventi di quel passato che si è voluto spesso liquidare come irrazionale, incomprensibile e pertanto non dicibile. La memoria assume così un ruolo redentore, diventa memoria collettiva che ingloba in se stessa il vissuto delle vittime e consente, contemporaneamente, il passaggio da un lutto individuale, inevitabilmente soggetto all’oblio e alla rimozione, alla condivisione di una coscienza civile e di una responsabilità storica, al fine di inserire gli eventi in un omnicomprensivo schema universale di giudizio34. La presa di coscienza di un concetto di colpa, diviene il tema fondamentale nel32 Idem, I sommersi, cit., p. 1058. 33 J. Amery, Intellettuale, cit., pp. 21-22. 34 Sulla costruzione di una memoria politica e il suo passaggio dalla rammemorazione individuale ad un uso collettivo e identitario si vedano, tra i molti, i seguenti testi: A. Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, Bologna 2007; P. Nora (a cura di), Le lieux de mémoire, Paris 1984; Y.H. Yerushalmi, Zakhor, Seattle 1982; E. Traverso, Il passato: istruzioni per l’uso, Verona 2006; T. Todorov, Gli abusi della memoria, Napoli 1996; P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, Milano 2003.
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la riflessione attuata da entrambi gli scrittori: per Amery essa si configurerà come “risentimento” e verrà quindi ancora proposta nella sua dimensione collettiva e politica, con l’intento di porre la nazione tedesca di fronte alla realtà del genocidio e all’assunzione delle proprie responsabilità. Il mondo che perdona e dimentica, ha condannato me, non coloro che commisero, o non impedirono l’omicidio (…) il tempo ha compiuto la sua opera. Silenziosamente. Invecchia con dignità la generazione degli annientatori, dei costruttori di camere a gas, dei generali sempre disposti ad apporre la loro firma, obbedienti al loro Führer.35 Ben diversa è la posizione di Levi, il quale, lungi dal criminalizzare la nazione tedesca nella sua globalità, si sofferma sull’elaborazione di un’idea di colpa, sopraindividuale e sopranazionale, molto vicino, a mio parere, alla “colpa metafisica” teorizzata da Karl Jaspers (e molto ci sarebbe da dire sulle coraggiose posizioni assunte dal filosofo tedesco, all’indomani della fine della guerra, sulla questione dello Sterminio). La sua Schuldfrage, pubblicata tra il 1946 e il 1947, è espressione di una delle poche voci capaci di porre le coscienze tedesche di fronte alla drammatica responsabilità per quanto accaduto. Jaspers non usa mezzi termini, arrivando a dichiarare 35 J. Amery, Intellettuale, cit., p.128; l’intero capitolo, pp. 111-136, è dedicato ai Risentimenti.
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che la Schuld, la colpa dei tedeschi, avrebbe dovuto essere assunta a costituzione di un’identità nazionale al pari di quanto la Heimatlosigkeit, la perdita di patria dei perseguitati, aveva contribuito a definire l’identità ebraico-europea. Una voce isolata, questa, in un panorama che stentava a prendere coscienza degli eventi, e in tale prospettiva suona davvero emblematico quanto scriveva Vittorio Foa nelle sue memorie: Tornavano i superstiti, uno su cento, dai campi di sterminio. Raccontavano e cominciavano a scrivere cose inimmaginabili (…) ma questi racconti non toccavano la nostra gioia di vivere finalmente nella pace. Non si spiega altrimenti la difficoltà di pubblicazione di Se questo è un uomo: si temeva di turbare un sollievo collettivo, con il rischio di cadere nell’omertà.36 Jaspers tenterà di delineare la “colpa metafisica” che consiste nel venir meno a quell’assoluta solidarietà con l’uomo in quanto uomo (…) questa solidarietà viene lesa quando io mi trovo a essere presente là dove si commettono ingiustizie e delitti (…) una volta che quel male ha avuto luogo e io mi sono trovato presente e sopravvivo, dove un altro viene ucciso, in me parla una voce che mi dice che la mia colpa è il fatto di essere ancora vivo.37 36 Cfr. V. Foa, Il cavallo e la torre. Riflessioni su una vita, Torino 1991, pp. 69-70. 37 K. Jaspers, La questione della colpa, Milano
Un concetto di colpa, quindi, scarsamente oggettivabile e difficilmente definibile: Levi tenterà di descrivere quel senso di vergogna che alla riconquistata libertà si impadroniva del sopravvissuto, per il suo essere “ancora vivo” e tuttavia individuo “diminuito”, appiattito nella cancellazione della dimensione propriamente umana patita nel lager. La denutrizione, la spogliazione e gli altri disagi fisici, che è così facile ed economico provocare ed in cui i nazisti erano maestri, sono rapidamente distruttivi, e prima di distruggere paralizzano; tanto più quando sono preceduti da anni di segregazione, umiliazioni, maltrattamenti, migrazioni forzate, lacerazioni famigliari, rottura di contatto con il resto del mondo.38 Egli designerà tuttavia anche quell’altra indefinibile “vergogna del mondo”, di fronte alla quale i giusti appaiono destinati a soccombere impossibilitati, dice Levi, al pari dei propri simili a “essere isole”: glielo impedisce non solo la coscienza del loro essere uomini e fratelli di chi ha dovuto soccombere ma, soprattutto, la sofferenza originatasi da quel mare di dolore che, circondandoli, è salito con il suo livello quasi a sommergerli. Questi “salvati”, davanti al male in eccesso di cui il mondo e l’Essere si sono contaminati, saranno condannati a sentire il rimorso e la vergogna per una colpa che altri e non loro avevano commessa, ed in cui si sono sentiti coinvolti, perché sentivano che quanto era avvenuto intorno a loro, ed in loro presenza, e in loro, era irrevocabile. Non avrebbe potuto essere lavato mai più.39 Levi, nonostante tutto, riuscirà a salvare l’umano, annidato e nascosto nel fondo dell’uomo, anche allo stadio massimo della sua degradazione: Se potessi racchiudere in una immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero.40 Costui è il “mussulmano”, emblema di quella categoria dei “sommersi”, al quale ogni possibilità di testimonianza fu preclusa poiché subito dovettero soccom20012, p. 73. 38 P. Levi, I sommersi, in Opere II, cit., p. 1050. 39 Ivi, p. 1057-1058. 40P. Levi, Se questo è un uomo, in Opere I,. cit., p. 86.
bere all’orrore e la cui voce sempre sarà solo riecheggiata in un discorso di terzi, in un racconto di cose viste da vicino ma non sperimentate fino in fondo. Costoro, a detta dello scrittore, «anche avessero avuto carta e penna, non avrebbero testimoniato, perché la loro morte era cominciata prima di quella corporale». La volontà di mantenere viva la forza della ragione, unica, seppure debole, luce nelle tenebre di Auschwitz, consentirà a Levi di “ricomporre l’infranto” e ritrovare la speranza con cui riaffermare la fiducia nell’uomo; non così per Amery che, nell’istante in cui i versi dell’amatissimo Hölderlin41 resteranno a lui muti e senza significato alcuno, capovolgerà il proprio umanesimo in una disperata, sofferta e tuttavia irreversibile negazione di qualsiasi speranza. Per lui sarà la tortura a sancire questo punto di non ritorno verso l’umano, le sue parole descrivono l’offesa inflitta non solo al corpo dell’individuo: Il torturato non cesserà mai più di meravigliarsi che tutto ciò che, a seconda delle inclinazioni, si può definire la propria anima, il proprio spirito, la propria coscienza o la propria identità, risulta annientato quando nelle articolazioni delle spalle tutto si schianta e si frantuma. Che la vita sia fragile, questa ovvia verità, l’ha sempre saputa, (…) ma solo attraverso la tortura ha appreso come sia possibile rendere un essere umano unicamente di carne e trasformarlo così, mentre è ancora in vita, in una preda della morte. Chi ha subìto la tortura non può più sentire suo il mondo. L’onta dell’annientamento non può essere cancellata. La fiducia nel mondo (…) non può essere riconquistata.42 Levi, al quale sarà invece possibile, nel ritorno, ritrovare una Heimat, terra patria di immutati affetti, cultura e legami, chiederà implicitamente all’antico compagno di prigionia, ancora lacerato dall’angoscia del risentimento e dalla mancanza di radici, di filtrare il proprio dolore ai fini di permettere al mondo, anch’esso, di esperire attenuata l’angoscia e poter proferire il suo NO di fronte all’orrore43. 41 J. Amery, Intellettuale,. cit., p.37. 42 Ivi, p. 82. 43 Cfr. P. Levi, L’altrui mestiere, in Opere II, cit., p. 661: «Non ho nulla da obiettare a chi scrive spinto dalla tensione (…) gli chiedo però che si sforzi di filtrare la sua angoscia, di non scagliar-
Non ci è dato sapere se, in quel destino di sopravvissuti e di testimoni, sia stato loro possibile arginare l’angoscia. Certo è il fatto che entrambi, ad un dato momento della loro vita, scelsero di “levar la mano su di sé”44, e sono fermamente convinta che a noi il congedo per scelta imponga a chi resta, a chi permane, di arrestarsi su quella soglia. Nel più grande rispetto.45 In occasione della consegna del Grifo d’oro, onorificenza conferitagli dalla città di Genova, Elie Wiesel pose attenzione al tema dell’indifferenza, in cui individuava il reale nemico del nostro tempo, quel Male irriducibile, pericoloso, a suo parere, al pari del peggior revisionismo di tanta cultura post-moderna. A posteriori appare chiaro come, dopo il consumarsi della tragedia che per un manipolo di burocrati era solo Endlösung, soluzione finale, ma per altri sei milioni, fu Shoah, catastrofe e per altre migliaia ancora, semplicemente sterminio, divoramento, genocidio, ogni voce, ogni pensiero, ogni memoria non potrà più ignorare l’anatema proferito da Primo Levi, e oggi scolpito alle porte di quella moderna città di Dite, di cui si è detto. Voi che vivete sicuri, Nelle vostre tiepide case (…) Meditate che questo è stato: Vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore (…) Ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, La malattia vi impedisca, I vostri nati torcano il collo da voi.46 la, così com’è, ruvida e greggia, sulla faccia di chi legge: altrimenti rischia di contagiarla agli altri senza allontanarla da sé». L’idea di un possibile e finale recupero di un “universalmente umano” è a mio avviso ancora sottesa a un nuova testimonianza della Shoah quale quella raccolta nel recentissimo memoir di Boris Pahor, Necropoli, Fazi Editore, Roma 2007, lucido racconto della propria esperienza di deportato e della conseguente assunzione di quella colpa di cui ci parla Levi. 44 Cfr. J. Amery, Levar la mano su di sé, Torino 1990, lucido studio sul Freitod, il suicidio inteso come “libera morte”. Sulla scomparsa di Amery si può leggere il necrologio redatto dallo stesso Levi per «La Stampa» di Torino, Jean Amery, il filosofo suicida, ora in P. Levi, Opere I, cit., p.1249. 45 Faccio mio il bellissimo “congedo” di D. Del Giudice tratto dall’Introduzione, in P. Levi, Opere I, cit., p. LXV. 46 P. Levi, Se questo è uomo, in Opere I, cit., p .4
Ora non resta che chiudere il cerchio: un antico detto ebraico recita «chi salva una vita salva il mondo intero». Per questo, dedicato a quei “salvatori”, è stato creato il Viale dei Giusti allo Yad Vashem47, il museo della Shoah di Gerusalemme. In conclusione, allora, vorrei poter pen-
–loso–ca sare che, facendo nostra quest’ottica di speranza, alla scintilla del Bene, dell’universalmente umano, sia ancora consentito di accendersi nel fondo dell’anima di un solo, singolo uomo e che questo renda possibile, per l’umanità intera, rinascere alla luce della Ragione, nel sentimento di com-passione verso i propri simili. Voglio sperare che l’uomo, come la Ginestra leopardiana, fiore del deserto capace di vita nelle condizioni più desolate, possa ergersi sul male radicale dell’esistenza e “resistere”, facendo suo il compito indicato da Italo Calvino: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio.48 Resistere, dunque, come compito etico nostro; noi, affratellati contro la morte nella coscienza comune di questo nostro essere destinati a rimanere sospesi sul filo teso tra il silenzio di una risposta che non consegue alla nostra domanda e la speranza indicibile che ci consente di continuare a interrogare Dio o l’uomo. Concludo con le parole di una grande voce del Novecento, il poeta Rainer Maria Rilke, che ha saputo esprimere in versi sublimi l’essenza di questo nostro destino di uomini. Vedi gli alberi sono, le case che noi abitiamo sussistono ancora / Noi solo, come uno scambio arioso trascorriamo su tutte le cose e tutto ci tace / Metà per vergogna forse, metà per speranza indicibile.49 P.36-37: Reticolati ad Auschwitz; 38: Deportazione, vd. testo dell’articolo; p: 40-45: Auschwitz.
47 Il nome scelto a designare il più grande museo dell’Olocausto al mondo, Yad Vashem, una stele e un nome, trae origine da un passo di Isaia ( 56, 3-4) e oggi questa espressione sta ad indicare, a Gerusalemme, il luogo dove lo stato di Israele onora la memoria dei sei milioni di ebrei uccisi dai nazisti. Sul tema si veda M. Giuliani, Auschwitz nel pensiero ebraico, Brescia 1998, pp. 42- 43. 48 I. Calvino, Le città invisibili, Milano 200418, p. 164. 49 R.M.Rilke, Elegie duinesi, Genova 1985, p. 43.
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Sui roghi dei libri Antonio Binni
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i sa che la soldataglia, in ogni tempo e sotto qualsiasi latitudine, è adusa razziare i libri, ovunque si trovino e, perció, anche dalle chiese, in cerca di fuoco per riscaldarsi o cucinare. La nostra curiosità non è stata, tuttavia, mossa da codesta pratica, frutto, all’evidenza, della necessità e, forse, ancor prima, della disperazione che, inevitabilmente, reca seco la follia di ogni guerra. All’opposto, la nostra attenzione è stata attratta da un fenomeno ben diverso, costituito dal «rogo dei libri», nel quale è dato ravvisare una sorta di sanzione irrogata dalla autorità costituita, sia essa statuale, religiosa o anche semplicemente di tipo culturale, nel quale ci siamo spesso imbattuti, qua e là,
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nelle nostre, non sempre organiche, letture, che, una volta approfondite da codesto profilo, hanno poi permesso di appurare, con assoluta sicurezza, che l’atto di dare alle fiamme pubblicamente i libri è prassi vecchia di millenni. Lungi dall’essere un episodio isolato, il rogo dei libri è, infatti, un fenomeno antichissimo, oltre che, sicuramente, non circoscritto al solo mondo europeo. Come attestano i successivi esempi confermativi. Sicuramente non esaurienti, posto che, addentrandoci ulteriormente nella disamina del fatto, il numero dei casi finirebbe per accrescerne l’importanza: argomento, sul quale, singolarmente, non esiste, invece, alcuna analisi storica seria ed approfondita. Sicchè, occorrerà consi-
derarsi appagati dalla successiva piccola epitome, corredata, a commento, da alcune considerazioni, si auspica, non inutili. La Storia è piena di testimonianze del fenomeno. Il ricordo più antico della pratica di gettare libri nel fuoco per farli ardere fino al loro totale annientamento – almeno a quanto mi consta – risale al 220 a.C., quando l’imperatore Shih Huang-ti, fondatore della dinastia Ch’in, ordinó di dare alle fiamme le opere di Confucio e di altri filosofi. Anche la civilissima Grecia conosce codesta pratica. I libri di Pitagora, una volta espulso da Atene, vengono bruciati nell’agorà. Identica sorte subiscono le opere di Protagora. L’accusa, nella circostanza tramandata, era di empietà, per-
ché il filosofo aveva detto: «Riguardo agli dei non ho la possibilità di sapere né che sono né che non sono né di che natura sono» (B,4). Il che, mentre dimostra il fervore, con il quale veniva difesa la religione dei padri, autorizza, nel contempo, a sostenere la perdita di memoria in ordine ad altri roghi, se non certi, molto probabili. Talete, i «fisici» della Jonia, fino ad Anassagora, sono, infatti, accusati di essere a-theoi. Non è, dunque, azzardato ipotizzare che i frammenti delle loro opere, a noi pervenuti, non siano altro che piccoli lacerti sopravvissuti al fuoco: sorte alla quale sembra, invece, essere stato sottratto il dubbio o l’epochè dei sofisti sull’esistenza degli dei, visto che, nella fattispecie, trattavasi più di un espediente retorico, che non, invece, di una interrogazione reale. Il primo grande rogo di libri del mondo occidentale, ancora, è costituito dalla distruzione della biblioteca ebraica durante l’insurrezione dei Maccabei del 168 a.C. Anche negli Atti degli Apostoli (XIX,V,19) si approva l’usanza di dare i libri alle fiamme. Il Senato romano – ne è rimasta memoria – ha ordinato di bruciare un libro, nel quale erano contenuti falsi insegnamenti sugli dei e, non pago, di rivoltare con l’aratro pure la tomba del suo anonimo autore. Per la loro immoralità, i libri di Ovidio furono tolti dalla biblioteca di Roma e dati alle fiamme. I primi imperatori romani condannarono al rogo le opere dei fautori delle idee repubblicane insieme ai
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libri profetici e oracolari. Nel 292 l’imperatore Diocleziano ordina che vengano bruciati i libri di Alchimia della enciclopedia di Alessandria. Costantino farà dare alle fiamme, prima la letteratura cristiana, poi, quella pagana. L’orgia dei roghi di opere ebraiche non ha, tuttavia, uguali. Il Talmud fu bruciato a Parigi fra il 1242 e il 1244. Il 13 maggio 1248 vengono bruciati a Parigi venti carri stracolmi di libri ebraici. I restanti vengono dati alle fiamme nel 1309, dopo di essere stati, a loro volta, caricati in tre carri, altrettanto stipati. Non sufficientemente appagato di quanto avvenuto a Parigi nel 1244, nel 1553 il Sant’Ufficio torna a ri-bruciare il «blasfemo» Talmud in quel Campo dei Fiori, dove, giovedí 17 febbraio dell’Anno Domini 1600, fu arso vivo, all’età di 52 anni, Giordano Bruno. Paolo IV, al secolo Gian Pietro Carafa, già grande Inquisitore di scuola spagnola, eletto Papa il 23 maggio 1555, strenuo e fermo difensore della ortodossia, acceso da uno zelo offuscato da uno spietato fanatismo, perseguita gli ebrei e ne bru-
cia in pubblico tutti i libri definiti «anticristiani». Il cardinale Ximenès, intorno al 1500, dopo la sconfitta degli arabi, procede alla eliminazione della cultura moresca, facendo bruciare, nella pubblica piazza di Vivarromba, oltre un milione di libri. Il tripudio dei roghi tocca, tuttavia, la sua acme durante la guerra fra cattolici e protestanti perché, particolarmente in questo periodo, torbido e pieno di complotti, il rogo assume il carattere di sanzione nei confronti della vita dello Spirito. Gli esempi, che si potrebbero addurre, sono innumeri. Ci limitiamo a due perché non troppo noti. Nel 1516 viene bruciato il famoso Trattato sull’immortalità dell’anima di Pietro Pomponazzi (1462-1525), che, ció malgrado, perché protetto dai Cardinali Bembo e Giulio de’ Medici, finisce tuttavia ugualmente per morire in pace, titolare della sua cattedra nell’Università di Padova, che, all’epoca, non era propriamente considerata una scuola di devozione. I custodi dell’ortodossia cattolica, nel 1624, sempre nel tristemente famoso
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Campo dei Fiori, dopo di avere messo al rogo Marcantonio de Dominis – gesuita di origine dalmata, editore nell’Inghilterra protestante della Istoria del Concilio Tridentino di Paolo Sarpi – imputato di eresia, per soprannumero, bruciano, contestualmente, pure le sue opere.
Antropologia Tanto esaltante fervore non arresterà, tuttavia, il protestantesimo che, dopo la pace di Augusta, si rafforzerà, inesorabilmente, in Germania, mentre inquietudini sempre più radicalizzate si diffonderanno in Polonia e Francia. L’Inghilterra, con l’ascesa al trono di Elisabetta, consuma definitivamente il suo distacco dalla chiesa cattolica. I protestanti, nella tutela del loro credo, non sono sicuramente da meno dei cattolici, forti dell’esempio dato da Lutero, che, nel 1520, dette alle fiamme la bolla di scomunica. Nel 1547 è consegnato al rogo Jacques Gruet, arrestato per i suoi costumi sospetti, le sue affermazioni pericolose e il suo spirito di opposizione politica, dopo che Calvino ha fatto bruciare un suo libello oltraggioso, oltre che contro i ministri riformati della città di Ginevra, soprattutto nei suoi confronti, in un autodafè pubblico, che ha lo scopo di mettere in guardia gli ambienti miscredenti della città. Nel 1553, sempre a Ginevra, viene bruciato Michele Serveto, accusato di essere l’autore del De tribus impostoribus, un
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testo violentemente osteggiato tanto dai cattolici, quanto dai protestanti, per il suo contenuto empio, in quanto degrada Mosè, Gesù e Maometto ad un trio di autentici impostori. Né la pratica del rogo è sconosciuto al mondo ebraico. Su ordine dei magistrati di Amsterdam, viene, infatti, bruciato il libro pubblicato nel 1624 da Uriel da Costa, intitolato l’Exame das tradiςόes phariseas (Esame delle tradizioni farisee), condannato dalle autorità sefardite perché l’A. negava l’immortalità dell’anima. Il gusto dei roghi non è sconosciuto neppure nel «Nuovo Mondo». Nel XVI secolo il vescovo del Messico brucia, infatti, tutta la letteratura atzeca. Una generazione dopo, un suo delegato condanna al rogo la letteratura maya. Il breve excursus prosegue ricordando che non sono stati esenti dal rogo neppure opere insigni dell’Illuminismo. Risultano, infatti, gettati alle fiamme scritti di Diderot, Rousseau, Helvetius. A questo singolare destino non sfugge neppure Voltaire. Il Parlamento di Parigi, il 3 settembre 1753, condanna, infatti, al rogo due opere in versi di Voltaire (un Prècis de l’Ecclesiaste e un Prècis du Cantique des Cantiques), con l’abituale veleno e con l’usuale arguzia, scritte, probabilmente, in onore, di Madame de Pompadour, amante di Luigi XIV. Pure l’Enciclopedia avrebbe dovuto essere bruciata. Anche se poi, in considerazione del suo alto costo, si preferí conservarla. Nella pratica del rogo non
sfuggono neppure gli scritti massonici di Cagliostro (Palermo 1743 – San Leo 1795), vittima di una pena, probabilmente, ancora più feroce della mancata bruciatura del suo corpo. Il fenomeno della distruzione di beni intellettuali mediante il fuoco accompagna anche tutte le rivoluzioni. Durante il regime staliniano, furono dati alle fiamme milioni di libri di scrittori non allineati. In questo succinto panorama non possono poi non ritornare ai nostri occhi le immagini degli studenti nazisti, che, la sera del 10 maggio del 1933, nella piazza dell’opera a Berlino, fra canti, balli e urla irrazionali, bruciano ventimila volumi, prevalentemente ebraici, a marcare il particolare disprezzo nei confronti di una razza considerata inferiore, con l’osservanza di un autentico rituale pubblico. I libri, prima di essere dati alle fiamme, vengono, infatti, accompagnati al rogo da professori in toga (!), studenti e soldataglia di SA e SS. Fra il 10 maggio e il 21 giugno dello stesso anno, in trenta città universitarie tedesche, si ebbero altri simili roghi, nella sostanziale indifferenza della popolazione, propensa ad inquadrare il fenomeno in una semplice bravata studentesca, priva, perció, di una qualsivoglia valenza simbolica, suscitando, invece, grande scandalo in America e fondato allarme in Francia. Durante la dittatura fascista, oltre alla devastazione delle Logge, si assiste anche alla pubblica bruciatura dei “Rituali massonici”, che lascia una puzza di bruciato rimasta, ancor oggi, nelle narici di quanti, agli immemori, sono costretti a rinnovare il ricordo di quei tempi tristi e bui. In epoca a noi più vicina si segnalano roghi di libri, in Cile, dopo il colpo di Stato dell’undici settembre del 1973 e, in Argentina, dove, in conseguenza dell’ennesima presa di potere da parte dei militari, si assiste ad un imponente rogo collettivo di libri, tra i quali si trovano opere di Proust, Garcia Márquez, Neruda, Saint-Exupery. I casi più recenti di roghi si registrano a Sarajevo e a Baghdad, dove, il 14 aprile 2003, vengono bruciati la Biblioteca nazionale e l’Archivio e la Biblioteca coranica del Ministero della Religione. La Convenzione di Ginevra (1949) e la Convenzione dell’Aia (1954) sulla protezione della proprietà culturale in casi di guerra contemplano come rea-
to la distruzione dei libri tramite il fuoco. Alla luce di questa normativa, i roghi dei libri sono, dunque, da considerarsi crimini di guerra. Posto, tuttavia, che lo jus gentium, per sua natura, è privo di una qualsiasi sanzione immediata, c’è da interrogarsi in ordine alla reale efficacia di questa misura. E’ vero che i fuochi non sono tutti uguali, perché diverse sono le sfumature del rosso. Accanto al rosso tramonto, c’è, infatti, il rosso ciliegia. E pure il giallo rosso, senza nome, a meno che non si dica scarlatto. Parimenti vero è, peró, che non tutti i fuochi rientrano, a pieno titolo, nel nostro excursus, se, dallo stesso, sembrano, ad esempio, esclusi i faló che i seguaci di Fra’ Girolamo Savonarola (Ferrara 1452 – Firenze 1498) facevano nelle strade di Firenze, nella predicazione, profetica e minacciosa, del frate, presentata come città eletta dal Signore. Nuova Gerusalemme, abitata da cittadini vocati a guidare il mondo cristiano a un profondo rinnovamento. Visione che si sposava mirabilmente con una secolare aspirazione dei fiorentini a considerare eccezionale il destino della loro città. In questi roghi, divenuti sempre più frequenti mano a mano che si inaspriva il conflitto con quanti osteggiavano la concezione del frate, oltre ai libri autografi di poesie, veniva, infatti, bruciato tutto ció che le persone amavano; tutto quello che avevano fatto con le loro mani o comprato con il loro lavoro, opere artistiche, anche di considerevole valore; ma, soprattutto, gli specchi, perché la bellezza, da chi alimentava i fuochi, era considerata peccato. Donde la denominazione di “Faló delle vanità”. Dove proprio quest’ultima peculiarità – se non andiamo errati – sottrae il fenomeno succintamente descritto alla sommaria indagine svolta. Anche se l’altezza, e soprattutto la frequenza, di quelle fiamme ne ha reso poi pur sempre inevitabile il ricordo. Sia come sia, il fuoco rimane, peró, sempre e comunque, come un elemento divoratore perché, quando s’arresta, non rimane che cenere. A fronte di un fenomeno tanto diffuso nel tempo e nello spazio, quale quello dianzi sia pure sommariamente soltanto descritto, rimane allora a chiedersi quale sia la ratio sottesa a tale simile pratica.
Antropologia
La risposta non puó che essere complessa, dovendosi, tuttavia, da subito, rimarcare che, quando si incomincia con il bruciare i libri, si finisce, poi, fatalmente, quanto inevitabilmente, per bruciare gli uomini. Da qui tutta la mia attenzione al fenomeno, particolarmente alla luce degli eventi che sono giunti fino a noi sui venti della Storia. Ad Anversa bruciano i libri. Anche Erasmo è andato alle fiamme. A Parigi stanno mandando al rogo i luterani. Queste sono le voci che corrono a Londra quando è all’apice della sua carriera politica Thomas Cromwell, figlio di un fabbro ferraio e maestro birraio di Putney, uomo violento, ubriacone, multato almeno due volte l’anno, o per le contraffazioni della birra che produce con la sua piccola fabbrica, o perché taglia gli alberi degli altri e ruba loro il legname, o per le troppe pecore che porta a pascolare sul terreno demaniale. Spesso ospite pure della galera. Bassi natali che, tuttavia, non impediscono al figlio di portare, sulle sue larghe spalle, la catena da Lord cancelliere d’Inghilterra. Perché Enrico VIII, in una sua, sia pure soltanto, parziale traduzione in inglese, ha letto
attentamente il Cortegiano e gli è rimasta ben impressa nella mente la massima, secondo la quale, negli uomini di bassi natali, si osservano spesso alte virtù. L’arte della memoria, intesa come un insieme di sistemi e tecniche volti ad attivare e potenziare la memoria, com’è noto, affonda le sue radici nell’antichità. Elaborata a vantaggio degli oratori, desiderosi di avere ordinatamente disposti tutti i dati e le argomentazioni di un discorso, si sviluppa nel tempo, con una sua propria autonomia. La “mnemotecnica” è nota, infatti, pure nel medioevo cristiano (Raimondo Lullo, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino) in funzione dell’attività dei predicatori. L’ultima grande fioritura dell’arte della memoria, come noto, si ebbe, tuttavia, nel Rinascimento italiano. Superfluo, a questo proposito, è il ricordare L’idea del Theatro che, nel 1550, pubblicó Giulio Camillo, discepolo di Ficino, del quale fu anche realizzato un modello ligneo: opera che ebbe grande diffusione e i cui principi furono poi sviluppati da Giordano Bruno (De umbris idearum, 1582), dal suo seguace inglese A. Dickson e,
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successivamente, dall’esoterista Fludd. Quest’ultima mnemotecnica, a differenza dell’arte della memoria classica, che legava il dato o l’idea da rammemorare ad un locus (luogo) all’interno di una stanza, di una casa o di una città ideale, operava, invece, attraverso il richiamo di
Antropologia immagini, più o meno inconsuete, con accostamenti fra loro impensati, spesso, oltremodo fantastici. Donde il richiamo a ció che si voleva ricordare, fossero, parole o cifre. Anche quelle sterminate che figurano nella Summa de Aritmetica: opera scritta, in trent’anni, da Fra’ Luca Pacioli. Sulla efficacia di questi sistemi, data la loro macchinosità e complessità, ironizzó G. Flaubert (in Bouvard e Pećuchet). Se la “mnemotecnica” fosse davvero valida, come, ancor oggi, si sostiene, anche se diversa è la tecnica, alla quale si fa poi ricorso, si dovrebbe concludere che, se venissero bruciati anche tutti i libri, l’arte della memoria permetterebbe pertanto ugualmente di ricordare il passato e, dunque, tutte le convenzioni e le usanze che un giorno hanno abitato la terra. A codesta possibilità di affidare tutto il passato alla rimembranza è, all’evidenza, ispirato il romanzo di fantascienza Fahrenheit 451, che, com’è noto, celebra il rogo dei libri come cancellazione del passato. Che continuano, tuttavia, a rimanere ugualmente vivi ad opera di ogni uomo che conserva a memoria il contenuto di ciascun libro bruciato. Il richiamo all’opera, che, nell’immaginario collettivo, ha riscosso tanto successo, qui è compiuto, peró, con un diverso e più profondo significato. L’A., Ray Bradbury, fa, infatti, dire a Montag, il protagonista: «Dietro ogni libro c’è un uomo». Ne segue, come ha scritto Heinrich Heine, nella tragedia Almansor, che: «Là dove si danno alle fiamme i libri, presto o tardi, si finisce per bruciare anche gli uomini [vd. foto]». La citazione ha un suo antecedente in Milton (che, nell’opera
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Areopagitica, del 1644, ha lasciato scritto: «uccidere un buon libro equivale a uccidere un essere umano»), oltre che in Shakespeare. Nella seconda scena del terzo atto della Tempesta, Calibano, lo schiavo ottuso, cerca, infatti, di indurre il cantiniere ubriacone Trinculo e il beffardo furfante Stefano, ad assassinare l’umanista Prospero, togliendogli prima i libri («Prima, ricordati, peró, di impadronirti dei suoi libri: senza libri, è uno sciocco come me»), salvo, poi, subito dopo, invitarli a
gettare nelle fiamme tutta la sua biblioteca («Ma brucia i suoi libri»). Al pari di Heine e di Shakespeare, anche Goethe, narrando (nel quarto capitolo di Poesia e verità) di avere assistito al rogo di un romanzo comico francese, «comprensivo con lo Stato, ma severo con la religione e la morale», associa la distruzione dell’«oggetto inanimato» libro a quella di un essere umano. Salvo poi, argutamente, osservare che «se l’autore avesse voluto procurarsi pubblicità, non avrebbe potuto fare di meglio». L’esempio più spaventoso della simultanea distruzione di un libro privo dell’alito della vita e di un essere umano all’opposto vivo, almeno a quanto mi consta, è, tuttavia, costituito dalla pratica – tutt’altro che rara al tempo delle guerre di religione – di conficcare nella bocca del protestante ucciso pagine della Bibbia proibita. In quest’ottica, si comprende poi perfettamente come e perché una simile pratica abbia inevitabilmente approdato allo sterminio del popolo del libro, gli ebrei, come espressione di una
intellighenzia, che, a tacer d’ogni altro apporto alle c.d. scienze umane, ha avuto il merito incontestabile di insegnare, altresí, la libertà di una interpretazione individuale, e, dunque, pluralistica, contro l’antichissima strategia della Chiesa di tenere, invece, lontano il popolo dalle Scritture, a questa stregua, reso inesorabilmente incapace di leggere e di scrivere, all’ovvio fine di più facilmente governarlo. Analizzato nella sua essenza, il rogo dei libri, prima di tutto e innanzitutto, è un atto materiale. Niente più del rogo puó, infatti, rendere totale la distruzione. Fenomeni naturali, come i terremoti, o fenomeni storici, come le distruzioni di città, lasciano, infatti, dietro di sé delle rovine e, dalle rovine, è pur sempre possibile procedere alla ricostruzione. Dal fuoco, che, per definizione, è un elemento di distruzione radicale, non rimane, invece, che cenere e, dalla cenere, non puó nascere altro che il mito della fenice. Solo successivamente il rogo diventa un atto altamente simbolico, come damnatio memoriae. Non solo dell’individuo e della sua opera, posto che l’estinzione colpisce, ad un tempo, i testi, e i nomi. Ma anche della stessa Storia, perché, con il rogo dei libri, viene cancellata una parte significativa della identità civile dell’umanità, per questo, fonte di riprovazione e di orrore da parte degli spiriti illuminati. Un atto simbolico dettato poi da una finalità precisa, che è una finalità, si potrebbe dire, di tipo igienico. Dietro ad ogni rogo, quale frutto del più acceso fanatismo ideologico, sta, infatti, il preciso disegno di una difesa dell’ordine costituito, sia esso religioso, culturale, o politico, nelle sue diverse varianti. Compresa pure la folle tutela della purezza della razza. Sicchè – sia osservato per incidens – meraviglia profondamente che il fenomeno, qui in esame, non sia stato considerato come argomento degno di approfondimento anche da parte della scienza politica. Quanto dire, in altri termini ancora, che, con il fuoco, si è inteso, non solo
Antropologia
combattere, ma soprattutto eliminare tutto ció che puó infettare il corpo sociale. Non è, infatti, casuale il frequente paragone fra la bruciatura del libro e la peste dell’eresia, sia essa religiosa, politica o anche soltanto culturale. Del resto, da sempre, esiste l’idea che il fuoco purifica dal miasma contagioso. Alla base di questa pratica – autentica orgia di distruzione – per dirla in termini conclusivi, sta, dunque, l’idea che, bruciando i libri e i loro autori, si pone fine a tutte le testimonianze e a tutti i testimoni che hanno arricchito la Storia umana di opere e valori permanenti. Chi ha l’assurda pretesa di cancellare la Storia col progetto di attuare una nuova creazione del mondo, o di conservare quella vigente, non ha, infatti, alternativa diversa da quella della rimozione di tutto ció che si oppone a quel disegno. In quest’opera di reazione al nuovo, con suo conseguente rifiuto e/o di conservazione del vecchio, il rogo dei libri è, infatti, funzionale al conseguimento dell’estinzione della Storia e dell’individuo. Da ultimo, rimane, tuttavia, a chiedersi se codesta pratica sia davvero efficace e risolutiva, nel senso, cioè, se sia atta a raggiungere effetti-
vamente – ossia: sul piano fattuale – lo scopo perseguito. In altra forma, c’è da interrogarsi se una simile prassi sia idonea ad estirpare il dissenso, inteso quale faticoso esercizio della libertà. La risposta al quesito posto non puó, peró, che essere negativa. La Storia conferma, infatti, che gli errori compiuti dal pensiero non si abbattono con i roghi, quanto, invece, attraverso la serietà degli studi e il confronto, leale e costruttivo. Per dirla altrimenti, con la persuasione, che conquista. Per questo, proprio dai libri bruciati, nasce una beffarda risata silenziosa, a definitiva conferma della assoluta, totale, inutilità di quella pratica. A finale e insindacabile suggello di quanto assai poco fruttuoso sia poi questo autentico delitto contro lo Spirito, infine, sia consentito richiamare quanto scrive Tacito (nel capitolo xxxv del iv libro degli Annali). Ricordato che l’imperatore Tiberio, dopo di avere ingiustamente tratto a giudizio uno storico, e ottenuto, ovviamente, pure la sua condanna, ne aveva anche dato alle fiamme i libri, a monito imperituro, ci ha tramandato questa preziosa lezione morale «… è degna di scherno la cecità di co-
loro che credono si possa spegnere con un atto di prepotenza anche la memoria dei posteri. In realtà la condanna accresce il prestigio dei nobili ingegni; e i re stranieri, o coloro i quali hanno usato la medesima ferocia, non altro hanno guadagnato che vergogna per sé, e per quelli rinomanza maggiore». _____________ Note: La massa di note ha formato l’orgoglio delle dissertazioni tedesche. La pratica italiana si è prontamente adeguata perché i richiami delle fonti costituiscono pur sempre la conferma della serietà e della profondità con le quali è stato affrontato lo studio del tema trattato. La mancanza di note non significa, tuttavia, abbandono del solido terreno del materiale. Significa, piuttosto, invito a ricercare le fonti che hanno ispirato l’autore di questa ricerca, che le ha volutamente tenute celate per suscitare, quanto meno, la curiosità del lettore. Sia pure qua e là appagata. P.46, 50: Il rogo dei libri in Opernplatz a Berlino il 10 maggio 1933; p.47: Fahrenheit 451, copertina del romanzo di R.Bradbury e, in alto, una scena dal film omonimo del 1966 di F. Truffaut; p.48: Cile, 1973, si bruciano libri durante ‘el Golpe’; p.49: 6 febbraio 1956, Università dell’Alabama, studenti bruciano libri sull’integrazione razziale dopo l’ammissione di una studentessa afro-americana; p.51: Frankfurt, targa commemorativa del rogo dei libri del 10 maggio 1933 recante le parole di Heine del 1820.
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Filoso–a
Le “grandezze” dell’Italia Paolo Aldo Rossi
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L
a civetta, l’uccello di Minerva, sacro simbolo della dea della Sapienza - dice un celebre aforisma hegeliano - si leva solo dopo il calar delle tenebre. E ancora, potremmo aggiungere, essa intona il suo canto severo, nelle vicinanze degli spazi abitati, lasciandosi guidare anche soltanto dal fioco barlume di una candela. In questa allegoria sta il destino storico dell’Italia: simboleggiata dalla dea “polymetis” dal capo turrito, essa ha saputo, dalle proprie città fortificate, ma trasparenti, irradiare il suo accorto sapere nel corso delle lunghe notti che costantemente e regolarmente calavano fra le Alpi e la Sicilia. Ogniqualvolta sull’Italia irruppero le tenebre, il cielo d’Europa, affermava Fernand Braudel, ne restò interamente illuminato. I dotti, i chierici, i cronisti che scendevano dal Nord e percorrevano la penisola, vuoi da semplici pellegrini verso il sepolcro di Pietro, vuoi da conquistatori al seguito di questo o quel dominatore, lasciarono scritto nelle loro memorie l’attonito stupore di trovarsi in una terra di uomini che avevano eletto la città a loro dimora e i quali, nonostante non disdegnassero armi e commerci, attività di cui erano maestri, coltivavano il sapere con la tipica curiosità di coloro che, pur “cupidi aeternitatis”, sanno vivere negli eventi della storia. Oggi noi diremmo: ricevendo, elaborando e diffondendo l’informazione in termini di interrelazioni sociali e omeostasi individuali. Altri potevano via via vantare supremazie che gli italiani avevano perso: potere militare, primato economico, unità politica, magistero istituzionale; molti stranieri, cui peraltro facevano eco i nostri dotti, ebbero spesso di che lamentarsi nel vedere le tristi condizioni in cui regolarmente cadeva l’Italia sotto il giogo di tanti invasori, ma tutti si trovarono sempre costretti ad ammettere che anche, o proprio, nei momenti del massimo oscuramento, brillava in Italia la fiaccola della cultura. Arroccata dentro le proprie città, le cui mura, spesso incapaci di resistere agli invasori, erano invece in grado di contenere la pressione della barbarie, l’Italia ha svolto la funzione primaria di ogni autentico e specifico sistema culturale: la diffu-
Noi fummo da secoli calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi
Filoso–a
Il Canto degli Italiani Goffredo Mameli, 1847
E quest’Italia, un’Italia che c’è, anche se viene zittita o irrisa o insultata, guai a chi me la tocca. Guai a chi me la ruba, guai a chi me la invade. Oriana Fallaci
sione di sé medesimo, ovvero il contrario dell’interdizione che qualifica le strutture chiuse, esclusive, immobili dei mondi barbari. Se infatti volessimo calibrare la tanto complessa e indefinibile nozione di cultura dovremmo ancora una volta adottare il metro greco che l’aveva contrapposta alla barbarie, non in termini, si badi bene, di aree razziali privilegiate: antropologie etnocentriche fondate su strutture di esclusione e quindi a loro volta barbare, ma in concetti di osmosi comunicative, di sistemi aperti in cui l’informazione gioca sia in senso eidetico che poietico, in continuo e costante “feed-back” dell’irradiamento e riflessione di notizia e azione. Il codice dei mondi barbari è quello della staticità, dell’acritico mantenimento e della tradizionale conservazione dei modi, dei ritmi e delle proporzioni sociali a dispetto delle mutazioni degli intorni e
degli interni; essi non mancano di sapere, arte o lettere, le loro carenze risiedono invece nella trasmissione dell’informazione la quale è caratterizzata da dinamiche monocentriche e da cinematiche unidirezionali, al contrario della cultura dei mondi “civili” che è diffusiva, irradiante ed autoregolante, che accetta e modifica se stessa nel continuo e costante dialogo con l’interno e l’esterno, che non rigetta, ma integra o corregge, che non fonda incontrovertibili e sincronici sistemi egemoni, ma soltanto diacroniche supremazie o aree momentaneamente privilegiate. Sotto questa prospettiva l’Italia è risultata emblematica. Al di là della sterile quanto inestricabile questione sul significato del termine “Italia” quale ipotizzabile referente unitario di una realtà geografica, politica ed istituzionale, è possibile invece, a mio avvi-
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so, porsi il problema del suo fungere da impronta sulla quale si è organizzata e strutturata la cultura dell’occidente medievale e moderno, da referente formale ai modi d’essere del percorso dalla barbarie alla civiltà. In questa dimensione diventa, forse, possibile prendere in esame
Filoso–a il “mito dell’Italia” quale trama simbolica sulla quale si è venuto a costituire tutto quel mondo di significati che ha consentito la nascita della civiltà in Europa. È certamente innegabile il fatto che per tutto il Medioevo, e sostanzialmente anche per gran parte dell’età moderna, il termine “Italia” non denotasse altro che una realtà geografica (oltretutto imprecisa, mutevole e soggetta a numerosissime designazioni regionalistiche intese a pretendere per una sola parte il nome dell’intero), così come è altrettanto degna di nota l’assoluta assenza di unità referenziale del termine “italiano”. A tale riguardo, senza scomodare la questione del “come” e del “perchè” mancasse una qualsiasi unità politica, basterebbe fermarsi al “che” e scorrere gli archivi delle università medievali d’oltralpe per rendersi subito conto dell’inesistenza di una “nazione” italiana che raggruppasse gli studenti provenienti dalla penisola: mentre a Padova e a Bologna i “citramontani” (si badi, non gli italiani) erano suddivisi in nazione lombarda, toscana e romana, a Perugia erano rubricati in nazione toscana, romana, marchigiana e siciliana. Allo stesso modo sulle grandi rotte commerciali e lungo i percorsi mercantili sono noti i nomi di “lombardo”, “veneziano”, “genovese”; la lingua medesima, o meglio la parlata volgare, non è detta italica, ma “lombardesca”, “tosca”, “fiorentina”. Il termine “romano”, infine, ha una sua generalità solo per indicare l’unità ideologica del collettivo religioso, quale forza centripeta atta ad equilibrare il centrifugo “cattolico”, ma è ben lontano dall’indicare una etnia unitaria delle municipalità italiche, quale era forse stato in epoca imperiale e tardo repubblicana,
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tanto più che dopo il trasferimento della sede di Pietro ad Avignone resterà solo un simbolo di valore esclusivamente religioso. L’Italia non perde soltanto il primato politico, ideologico, giuridico e intellettuale, ma non ha neppure più un nome: non si dice una “intentio” capace di far vibrare il sentimento di unità nazionale, ma neppure una “extentio” in grado di consentire di riconoscersi come appartenenti ad una medesima area geografica, etnica o linguistica. Le tanto sbandierate allocuzioni all’Italia dei grandi della nostra let-
teratura, non furono dettate, come ebbe modo di intuire il Machiavelli, dall’amore di patria, ma dall’odio di parte, in quanto l’unica patria riconoscibile è solo quella circondata dalle mura della propria città o addirittura quella raggiungibile dai rintocchi del proprio campanile, sicché ogni città, borgo o paese trovava sempre il modo di definirsi superiore a tutte le altre genti d’Italia e d’Europa. Questa fu allo stesso tempo la debolezza e la grandezza degli uomini che vissero sulla penisola: perduto definitivamente il centro motore dell’impero, moltiplicarono Roma per le innumerevoli città che se ne divisero l’eredità culturale, la sola che non poteva, pur frantumandosi, andar soggetta al medesimo destino già subito con la “traslatio imperii, juris et studii”. Ben potevano uomini come Ottone di
Frisinga, principe dei cronisti svevi, ed il suo discepolo Goffredo da Viterbo dichiarare che saggezza e potenza andavano solidalmente soggette alla stessa legge storica: quella del “trasferimento diacronico e diatopico” da un popolo all’altro, e che, nel presente momento, esse erano passate nelle terre di Germania, Francia ed Inghilterra; ma pur con imperatori e re franchi o alemanni, corpi giuridici costituitisi sul diritto barbarico, università, cattedrali e conventi di preclara fama per la maggior parte ad oltralpe, filosofi e dottori nel cui dettato intellettuale già s’intravedevano i segni di una originalità “nazionale” e del distacco dai sistemi classici, l’Italia resta per tutti i non italiani la “Sehnsuchtland”: la terra dello struggente nostalgico richiamo da cui provengono ammalianti suggerimenti e irrefrangibili tentazioni. Sottile ed invasiva come il senso di nostalgia che trasmette a chi se n’è allontanato, l’Italia è un mondo di meraviglia da cui incessantemente scaturisce la parola che si fa, via via, portatrice dello stupore, del dubbio e dell’episteme. Pur divisa e frammentata, essa rimane l’area della massima diffusione culturale. L’Italia assorbe e trasmette tutto, sia nel bene che nel male. Nelle sue città, modelli di misura umana, in cui nobili e potenti abitano a contatto con il volgo, non è infrequente sentir disquisire di filosofia o verseggiare d’amore nelle piazze; il raffinato sapere dei suoi artisti è proporzionale al gusto dei fruitori di opere uniche ed impareggiabili, fatte non per restare nelle sale dei castelli, ma in spazi visibili e vivibili dai cittadini; le feste non sono soltanto liturgie dovute al potere, ma spettacolo di cui ognuno può essere attore; i suoi abitanti sono assetati di affermazioni dell’ individualità tanto che, come ha ben mostrato Jacob Burckardt, anche la stessa politica diventa opera d’arte di un singolo. Ma accanto agli splendori l’Italia presenta degradi e miserie non solo, o esclusivamente, materiali, ma fondamentalmente spirituali, i quali ancor più non mancano di impressionare perché di analoga intensità e tonalità delle grandezze.
Ben lungi dal consentire a celebrazioni di una cultura “nazionale” vuoi sullo stampo illuministico, laico e razionalista, che tendeva a trovare nei “ribelli” della Rinascenza i germi del nascente spirito nazionale italiano, vuoi su quello cattolico, reattivo all’illuminismo e al razionalismo, che riconosceva all’Italia un ininterrotto primato morale e culturale costituitosi in Magna Grecia, cresciuto a Roma e resosi perfetto con il Medioevo cristiano, io vorrei semplicemente mettere in rilievo, al contrario, un fatto di cui la storia ha reso così trasparente testimonianza da venir assunto ormai come appena degno di menzione: l’assoluta inesistenza in Italia di uno spirito nazionale di stampo “naturalistico” e per contro un diffuso e sentito universalismo culturale. Questo ha fatto sì che la cultura “italiana” venisse accettata e riconosciuta come “inter e trans-nazionale”, un che di non rivendicabile da nessun sistema ideologico particolare o riconducibile a precisi fondamenti etnici o politici. Quando invece, al contrario, anche in Italia si è voluto acconsentire ai “sistemi” e percorrere la strada dello specifico ideologico, allora ci si è esposti al comico: ad esempio i giuristi cavillatori messi alla berlina da Rabelais, i medici chiosatori dileggiati dal Vesalio, i filosofi iperscolastici presi in giro da Galileo. Ovviamente non tocchiamo neppure il tasto del “primato” dello spirito pelasgico e della teorizzazione di un “sistema” di pensiero italico, perché allora il comico si tingerebbe di grottesco. In buona sostanza potremo dire che in Italia è rimasta assente l’egemonia di sistemi d’esclusione, di interdizione, imposti a uno o più livelli del gruppo sociale a uno o diversi altri. Non si vuol dire che questo non sia mai stato tentato; solo, che non è mai riuscito così compiutamente da poterne trarre il fondamento di un’unità di sentito ideologico (l’ideologia è, infatti, per sua stessa natura, lo strumento fondante dell’esclusione) capace di produrre una “cultura nazionale”. “ ... né la filosofia, né la scienza, né l’arte, né la religione - affermava Giovan-
ni Gentile nella prolusione del gennaio 1918 all’Università di Roma - hanno a rigore, aspetto nazionale; e ogni trattazione orientata secondo distinzioni politiche non può non apparire fondata che su criteri arbitrari, empirici e pericolosi ... la filosofia, come forma più rigorosa e concentrata del pensiero, non si può sottrarre a questa legge; e ben può dirsi perché essa è universale e internazionale in quanto è filosofia, e che filosofia non è in quanto è nazionale”. Certamente ogni civiltà è costituita da un’identità sua propria fatta di concer-
tazioni fra i suoi membri circa i sistemi valutativi e normativi assunti, di graduali scoperte e messe in opera dei modi, ritmi, tonalità e proporzioni dell’agire, di sistematizzazioni dell’interrelazione, e perciò unica. È pur vero ed innegabile che ogni popolo esprime una cultura e costruisce una civiltà sulla traccia della propria storia, la quale non è se non la storia di quel particolare popolo: l’itinerario diacronico guidato dalle innumerevoli variabili differenziate e specifiche per geo ed ecosistemi, per interrelazioni fra etos ed habitat, per scelte di percorso (prodotto dialettico di eidos e poiesis) che compongono l’evenemenziale, cioè i singoli avvenimenti, ma che s’affondano nell’insieme di significati sui quali è costituito quel particolare mondo sociale. Ma è appunto a que-
sto universo polimorfo ed iridescente che va fatto riferimento quando si tratta di tracciare una “storia particolare” e non certamente a ipotetiche costanti, cristallizzazioni ideologiche, quali la razza e lo spirito del popolo in cui si incarnano le fantomatiche predestinazioni dell’essere
Filoso–a gli unici e privilegiati profeti e portatori di questa o quella forma culturale (la filosofia, la matematica, la musica, il diritto e via dicendo ). L’Italia, proprio per la sua “storia”, ha accolto nei suoi confini un numero tale di “storie” di popoli barbari e civili, quanto non era mai accaduto ad altre terre. Gli itinerari della barbarie si sono trasformati in civiltà e le civiltà si sono imbarbarite in un tale continuo, rapido, irrefrenabile e caleidoscopico insieme di metamorfosi che nessuna barbarie ha potuto prendervi il soppravvento e nessuna civiltà stanziarvisi da sola e per sempre. Altre terre hanno ospitato popoli in crescita o in decadenza culturale, ma spesso questi processi, numericamente rari, hanno avuto andamenti unidirezionali e irreversibili (o quantomeno di lentissime riprese o ricadute), sicché i modelli culturali hanno avuto il tempo per stabilizzarsi e proporsi in termini egemoni. In Italia questo non è accaduto. Qualunque modello, sistema o struttura culturale ha dovuto fare i conti con innumerevoli concorrenti o coesistenti, tanto che le mediazioni risultanti lasciavano intravedere tutti i componenti, pur non privilegiandone alcuno. Assimilativa e diffusiva l’Italia ha conservato, mediato, elaborato e irradiato una tradizione di cultura in termini internazionali ed universalistici. Come un tempo si diceva di Alessandria: “non in Aegypto, sed ad Aegyptum”, anche le diverse città “ad Italiam” furono officina e negozio di un sapere che non avrebbe potuto fungere da “sistema” in quanto non passibile di esser sottoposto a sistematizzazione alcuna, che non poté essere completamente regionalizzato dato che le sue scaturigini non erano state solo regionali e, nello stesso tempo, mal si sarebbe ac-
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cordato con intenti di omogeneizzazione nazionale, poiché rappresentava il portato di mondi e civiltà che avevano mantenuto la loro unicità e diversità. Né la Roma dei Cesari né quella dei Papi hanno saputo “monopolizzare” l’Italia. Essa fu figlia di una storia interamente scandita sulla fierezza autonomistica dei propri centri urbani. Le polis della Magna Grecia rette secondo le più disparate forme di governo, le città stato dell’oligarchia lucumonica etrusca, le irriducibili “nazioni” ligure e sarda, le combattive tribù latine, sannite, osco-umbre, apule, galliche, furono associate, ma non assimilate all’Urbe. Caduto infine l’Impero, ognuna riprese a vivere la propria storia senza neppur troppo crucciarsi della perdita della città che per secoli ne era stata la guida, accettando ed assimilando, invece, il portato di civiltà dei nuovi popoli che, nel frat-
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tempo, erano venuti ad abitarvi. È noto l’aneddoto in cui l’imperatore d’Oriente, Niceforo Foca, grida in faccia al vescovo Liutprando di Cremona: “vos non Romani, sed Langobardis estis” e questi di rimando elenca i popoli d’Italia: “Langobardi, Saxones, Franci, Lotharingi, Bagovarii, Suevi, Burgundones”, i quali, fieri delle loro etnie, affermano: “nil aliud contumeliarum nisi Romane! dicemus” o in altre parole: orgogliosi delle nostre origini, reputiamo offensivo esser chiamati romani. Ognuno di questi, goti, longobardi, franchi e normanni, tenterà, infatti, di imporre il proprio sistema “socio-politico” mediandolo con inscalfibili realtà preesistenti quali la religione cristiana, la coesistenza delle popolazioni romanizzate con quelle barbariche e la vigile presenza del colosso bizantino, ma, per quanto sincronicamente riusciti (e fungenti da progetto per il resto d’Eu-
ropa), in Italia tali modelli non risultarono assolutamente percorribili. Allo stesso modo sia la Chiesa che l’Impero medievale non furono mai pienamente in grado di giocare un ruolo di omogeneo tessuto connettivo, fra i particolarismi regionalistici, capace di unificare, quantomeno sul piano ideologico, se non proprio istituzionale, i frammenti socio-politici di cui la penisola era composta. In primo luogo la ricorrente ideologia del centro della cristianità e dell’impero riguardano Roma (simbolo svuotato di referenze geo-politiche) e non certo l’Italia. A livello religioso la Roma dei martiri, degli apostoli e dei papi rappresenta la “nuova Gerusalemme” dei popoli cristianizzati, i quali la riconoscono, contro gli imperatori e gli eretici orientali, come l’indiscutibile “caput fidei ac mundi”, essa è una realtà sovranazionale, appartiene a tutto il popolo di Dio e non soltanto agli italiani; in Italia, oltretutto, essa sarà messa in competizione con Pavia sul piano politico, con Milano su quello liturgico e con Ravenna su quello dottrinale. I termini apostolico e romano vengono fatti coincidere per la mediazione dell’immagine di una Roma ideale: la mitica capitale giulio-claudia in cui Virgilio profetizzava la venuta del Salvatore, Augusto fondava la pax romana, foriera della pax cristiana, e ordinava un censimento che faceva di Cristo un “cittadino romano” ed alfine Nerone imbeveva con il sangue dei santi martiri una terra consacrata a sede del Vicario di Dio. Allo stesso modo anche la Roma “mater imperii” è un mero simbolo svuotato di contenuti istituzionali. I pretendenti alla corona imperiale calano sull’Urbe per l’investitura, ma si guardano bene dal risiedervi, intesi più a costruire un impero centroeuropeo che a continuare un dominio avente il Mediterraneo come centro. In secondo luogo il modello carolingiogermanico della “traslatio imperii” assume Roma come simbolo e l’Italia come una delle possibili componenti politiche: il Sacro Romano Impero che pretende il regno sull’intera cristianità non intenderebbe fare a meno dell’ Italia, pur essendone costantemente costretto, ma non trova necessario contendere la capitale ai papi. Scrive giustamente F. Brau-
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del: “Quando si è al corrente del seguito e della fine della storia, si ha l’impressione che il modello del Sacro Romano Impero non avesse alcuna possibilità di riuscita. Esso trascurava almeno tre elementi fondamentali: il papa che non era affatto disposto a consentire a un cesaropapismo; la Germania che si stava evolvendo in tutt’altro senso, e l’Italia, che voleva difendere la sua “libertà” e che vedeva all’opera forze rivolte in direzione completamente opposta “. L’Italia delle città è terra di ribelli: nessuno degli innumerevoli centri urbani intende perdere, anche solo in parte, la propria autonomia o meglio le sue libertà sostanziali, pur essendo disposto a concedere ragionevoli tributi finanziari, privilegi e onorificenze formali a qualunque invasore disposto a non interferire nel governo e nel sistema economico. Frantumata e divisa in territori soggetti a rapine e spartizioni, mera realtà geografica senza alcuna guida, l’Italia “senza un nome” mantiene e sviluppa un ruolo in grado di farla riconoscere come politicamente viva e culturalmente trainante in forza della funzione autonomistica delle sue città. Il modello urbano è stato il collante in grado di mettere insieme il complicatissimo mosaico delle storie degli in-
numerevoli popoli che l’hanno abitata. Esso rappresenta l’autentica particolarità dell’Italia: la frammentazione non ha significato tutta una serie di implosioni ed arrocchi in centri a cultura monovalente con conseguente affievolimento o, addirittura, interruzione del commercio informativo, ma, al contrario, ha permesso l’esplosiva diffusione dei diversi codici culturali e la loro costante e continua retroazione. Va ricordato che, nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, del 1824, Leopardi affermava: “Gl’italiani hanno piuttosto usanze e abitudini che costumi. Poche usanze e abitudini hanno che si possano dir nazionali, ma queste poche, e l’altre assai più numerose che si possono e debbono dir provinciali e municipali, sono seguite piuttosto per sola assuefazione che per ispirito alcuno o nazionale o provinciale, per forza di natura, perché il contraffar loro o l’ometterle sia molto pericoloso dal lato dell’opinione pubblica, come è nelle altre nazioni, e perché quando pur lo fosse, questo pericolo sia molto temuto. Ma questo pericolo realmente non v’è, perché lo spirito pubblico in Italia è tale, che, salvo il prescritto dalle leggi e ordinanze de’ principi, lascia a ciascuno quasi intera libertà di di condursi in
tutto il resto come gli aggrada, senza che il pubblico se ne impacci, o impacciandosene sia molto atteso, né se n’impacci mai in modo da dar molta briga e da far molto considerare il suo piacere o dispiacere, approvazione o disapprovazione. Gli usi e i costumi in Italia si riducono generalmente a questo, che ciascuno segua l’uso e il costume proprio, qual che egli si sia. E gli usi e costumi generali e pubblici, non sono, come ho detto, se non abitudini, e non sono seguiti che per liberissima volontà, determinata quasi unicamente dalla materiale assuefazione, dall’aver sempre fatta quella tal cosa, in quel tal modo, in quel tal tempo, dall’averla veduta fare ai maggiori, dall’essere sempre stata fatta, dal vederla fare agli altri, dal non curarsi o non pensare di fare altrimenti o di non farla (al che basterebbe il volere); e facendola del resto con pienissima indifferenza, senz’attaccarvi importanza alcuna, senza che l’animo né lo spirito nazionale, o qualunque, vi prenda alcuna parte, considerando per egualmente importante il farla che il tralasciarla o il contraffarle, non tralasciandola e non contraffacendole appunto perché nulla importa, e per lo più con disprezzo, e sovente, occorrendo con riso e scherno di quel tal uso o costume.” Le abitudini o tradizioni, che poi è ciò
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che si faceva in un determinato luogo o periodo storico per abitudine, ossia “ciascuno segua l’uso e il costume proprio”. Il costume è un termine che rimanda ad “etica” (dal greco antico ήθος, èthos,
Filoso–a “carattere”, “comportamento morale”, “costume sociale”, invece l’usanza viene detta, ad es. dal Lessico della Crusca, “maniera di vivere, e di procedere comunemente frequentata, e usata”. Vi sono molti modi di dire: ogni luogo ha le sue usanze; paese che vai, usanza che trovi; tanti paesi, tante usanze; usanza di paese, diritto di paese... È chiaro che ogni popolo difende i propri costumi, ma sempre dopo che la sua condotta e il suo modo di pensare sia diventato norma di diritto; quando invece la “lunga usanza vince diritto e ragione” sarà la memoria tradizionale ad imporsi, ossia la storia. Gli abitanti di una terra in cui è stato inventato il diritto romano (la causa come aitia vuol dire accusare, invece come caveo significa mi difendo da...) sono stati tanto intelligenti da preservare le usanze e da sottomettersi alla norma giuridica che essi stessi si ponevano ed osservavano. “È inutile osservare i costumi, - diceva acutamente Marcel Proust - poiché se ne potrebbero dedurre dalle leggi psicologiche”, cioè esaminando le abitudini si potrebbero ipotizzare le leggi di natura e questo, anche se più volte tentato, ha dimostrato la sua inutilità. “Il costume - ci ricorda Blaise Pascal - è una seconda natura che distrugge la prima. Ma che cos’è la natura? Perché il costume è più naturale? Ho gran timore che questa natura non sia altro se non un primo costume, come il costume è una seconda natura”. Speculazione non del tutto intelligibile (a chi non la vuole comprendere), ad altro accessibile e chiara. Molto più comprensibile invece è la seguente: “... e ciò convene/Ché l’uso de’
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mortali è come fronda / in ramo, che sen va e altra vene.” [Dante, Paradiso, XXVI, 137-138]; riprende Orazio in Ars poetica, 70-72 6: “Multa renascentur quae iam cecidere cadentque / quae nunc sunt in honore vocabula, si volet usus, / quem penes arbitrium est et ius et norma loquendi”. [Molte parole che caddero in disuso rinasceranno, e ne cadranno molte altre che oggi sono in onore, se cosi vorrà l’uso, in balia del quale sono l’arbitrio e la legge e la norma del parlare]. Le leggi e i costumi cambiano, ma le usanze restano. “L’Italia non è democratica né aristocratica. È anarchica … – scriveva Giuseppe Prezzolini in Codice della vita italiana, 1921 – Tutto il male dell’Italia viene dall’anarchia. Ma anche tutto il bene… In Italia il governo non comanda. In generale in Italia nessuno comanda, ma tutti si impongono”. E l’anarchia non è una dottrina politica né una forma di vita antisociale e anticonformista o un modo di vivere individualistico, ma una forma dello spirito che indica l’utopica e irrealizzabile con-
quista della libertà. Nessuno degli innumerevoli centri comunali (meglio ancora rionali, ma addirittura un cortile) intende perdere, anche solo in parte, la propria autodeterminazione o meglio le sue emancipazioni sostanziali di indipendenza, ma avendo alle spalle le norme giuridiche che sa che sono valide per tutti. Sotto questa prospettiva è evidentemente privo di senso tentare una storia della cultura italiana in chiave di “nazionalità” né, a maggior ragione, una storia del pensiero filosofico che è, appunto, la prima e privilegiata istanza della “Sinngebung”, il conferimento di senso ai risultati di tutte le altre forme del “sapere”, a meno che si riconosca, a livello meramente euristico, che l’universalismo proprio della filosofia può essere, in termini di individualizzazione temporale, calato nell’ambito delle storie particolari e, quindi, trasformato in processo diacronico. Sotto questa prospettiva esso può essere indagato come prodotto perfettivo e perfettibile dell’itinerarium “mentis ad veritatem” di un popolo. Ma quando, come nel caso presente, la storia di un popolo è in realtà l’integrale di un percorso cui hanno contribuito le più diverse tendenze, si tratterebbe, in prima istanza, di scomporre la banda risultante nei suoi originari elementi costitutivi. L’Italia, sia detto solo in termini di mero rilievo storiografico, ha rappresentato uno di quei punti nodali verso e dai quali sono afferite e dipartite le più significative strade della civiltà occidentale. Questo non in nome del giobertiano genio pelasgico, “il tipo più perfetto dell’ingegno caucasico e quindi umano e universale”, ma, al contrario, in nome di un ingegno ascrivibile agli innumerevoli apporti etnici, antropici e culturali che non consentono di riconoscere un’unica e precisa radice, bensì plurime inseminazioni. In questa prospettiva, ben s’accorda all’I-
talia il grande mito platonico di Amore Filosofo: “Quando nacque Afrodite - narra Diotima di Mantinea, colei che Socrate chiama “ amica di terre lontane” - tutti gli dei stavano a banchetto. C’era anche Espediente, il figlio di Invenzione. Quando il convito terminò, giunse anche Povertà, la quale veniva a mendicare dato che s’era fatta gran festa. Essa se ne stava accanto alla porta. Espediente, inebriato dal gran nettare, entrò nel giardino di Zeus e pesante per l’ebrezza cadde addormentato. Allora Povertà decise di tendergli una insidia e, dato che essa non era ricca di alcun espediente, volle fare un figlio con quegli. Si pose a giacere accanto a lui e concepì Amore... Siccome dunque Amore è figlio di Colui che è ricco d’ogni espediente e di Colei che è assolutamente povera di tutto, ecco quale è la sua condizione. Egli è sempre povero, non delicato nè bello, ma duro, ispido, scalzo, senza tetto; egli giace per terra e non possiede nulla con cui coprirsi; dorme sotto le stelle nelle strade e vicino alle porte. Ha ereditato, infatti, la natura della madre dimorando sempre con la povertà. Da parte paterna, diversamente, Amore insidia con accorti espedienti coloro che sono belli nel corpo e nell’anima; è valoroso, audace e veemente. Cacciatore possente è Amore, intreccia costantemente intrighi ed astuzie; ansioso di possedere una visione acuta e perspicace fa di tutto per procurarsela con mille accortezze. Dedica la vita a colei che ama: la Sapienza. Amore è filosofo, potente incantatore, esperto di filtri, sofista. Per sua natura non è nè mortale nè immortale; ma un momento, nel medesimo giorno, egli è pieno di vita e tutto in fiore quando i suoi espedienti hanno buona riuscita, un altro momento Amore muore e torna di nuovo a vivere grazie alla natura paterna. Ma tutto quel che riesce a procurarsi, nuovamente gli sfugge. Insomma, egli non è mai del tutto povero, nè mai del tutto ricco. Sta a mezzo fra ignoranza e sapienza... Nessuno degli dei conosce quell’amoroso uso
di sapienza che vien detto filosofia. Il dio non aspira a diventare sapiente in quanto egli lo è già... ma, d’altronde, neppure gli ignoranti sono filosofi poichè nulla muove in loro il desiderio di sapienza... Amore è filosofo; è filosofo in quanto intermedio fra il sapiente e l’ignorante. Ciò è per lui conseguenza della sua nascita: suo padre è sapiente e ricco di espedienti, sua madre non è sapiente e non possiede alcun espediente”. Se proprio dovessimo individuare nella Storia dell’Italia un simbolo che ha portato segnatamente in sé e nella sua stirpe l’avventura del genus italico questo è sicuramente Federico II. Nato, il gior-
no dopo Natale, in una tenda sulla piazza del mercato di Jesi, da Enrico VI della dinastia sveva, che dell’Italia aveva fatto la propria sehnsuchtland: la terra dello struggente nostalgico richiamo, e da Costanza figlia di Ruggero, della schiatta degli Altavilla ch’era riuscita a darsi e a dare una “patria” a quella parte della penisola in cui la storia aveva posto a vivere innumerevoli stirpi diverse. Costantino Federico Ruggero si trovò orfano di ambedue i genitori a quattro anni sotto la tutela di un papa, Innocenzo III, Lotario dei Con-
ti di Segni, che mai cessò di operare affinché il suo allievo non crescesse e divenisse adulto; fu educato in un ambiente universalistico, la sua corte era aperta a tutti ed ebbe a vivere fra l’esaltazione e gli odi delle città italiane.” Siquidem illustres heroes, scrive l’Alighieri, Fredericus cesar
Filoso–a et bene genitus eius Manfredus, nobilitatem ac rectitudinem sue forme pandentes, donec fortuna permisit, humana secuti sunt, brutalia dedignitates”. Non era forte di corpo, ma portava in sé il fascino della generosità e la grandezza dell’ingegno; l’avventura culturale della sua corte fu quella di un esaltante Simposio; il suo ideale di sapere fatto di empiria, logos, fantasia, sentimento e speculazione aggiunto al suo operare nel senso diffusivo ed universale della cultura si è identificato con quello di una terra in cui non solo la procuratio va subordinata alla dispensatio, ma la poesia è il più bello degli ornamenti del sapere. Scriveva al figlio Corrado: “Ai re e ai grandi della terra non basta l’illustre progenie, se alla stirpe eletta non si accompagna un nobile essere e chiaro zelo non illustri il principato … non perché siedono più in alto si distinguono i re e i Cesari ma perché più profondamente e più virtuosamente operino. Uomini quali sono partecipano dell’umanità compagni di vita dell’uomo e nulla di speciale possono attribuirsi per se stessi se non splendono sopra le altre creature per virtù di senno. Essi nascono come uomini e come uomini muoiono”. L’Italia e Federico si rimandano e si rassomigliano l’una all’altro come le due parti di un simbolo e sono oggetto di indefinite e contraddittorie definizioni senza che nessuna di queste potesse essere definitivamente esaustiva. P.52: Athena parthenos, la ‘vergine’, Laura De Santi, 2011, terracotta, collez. Gran Loggia d’Italia degli ALAM; p.53: Athena Cherchel-Ostia, Museé du Louvre, Paris; p.54: Polymethis su Tetradracma di Smirne; p.55: La Minerva delle vecchie 100 Lire italiane; p.56-57: Due vecchie cartoline risorgimentali; p.58: Reha Kybele, J.B.Straub, legno, 1772; p.59: Federico II di Svevia in una miniatura medievale.
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Letteratura
Antichi documenti antimassonici Annalisa Santini
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N
egli anni intorno al 1770 una Napoli ormai dimentica dell’Editto di Carlo III, che a seguito della bolla di scomunica di Benedetto XV proibiva la massoneria, era testimone di un gran proliferare di Logge. Forse era stata la partenza per la Spagna di Carlo III che, essendo il principe Ferdinando ancora minorenne, di fatto aveva lasciato il governo dello stato in mano al marchese Bernando Tanucci, ad aver incoraggiato la nobiltà a seguire una tendenza che aveva oramai preso campo in Inghilterra e in Francia; si ricordi inoltre che erano massoni anche il re di Prussia e il marito dell’Imperatrice Maria Teresa d’Austria, l’Imperatore Francesco I di Lorena. La politica matrimoniale asburgica prevedeva che mentre Maria Carolina avrebbe sposato il figlio di Carlo III, suo fratello Pietro Leopoldo, poi Granduca di Toscana, ne avrebbe sposato la figlia, Maria Luisa. E fu proprio Pietro Leopoldo a portare nel 1768 a Napoli sua sorella, Maria Carolina, dal re Ferdinando IV, un giovane balordo, incolto e di cattive maniere che aveva sposato per procura all’età di 15 anni. Nell’occasione egli stabilì anche buoni contatti col marchese Bernardo Tanucci, tuttora agli ordini di Carlo III, che manteneva Napoli in legami di stretta dipendenza da Madrid1. A Napoli erano presenti cinque Logge di obbedienza inglese ed olandese2, che dal 1770 passeranno sotto la giurisdizione inglese. Con questo matrimonio la Massoneria napoletana colse l’occasione per staccarsi dalla Gran Loggia d’Inghilterra e fondare una propria Loggia nazionale, della quale era Gran Maestro il principe di Caramanico, amico e probabilmente amante della Regina. Maria Carolina parlava poco l’italiano (alla corte austriaca della sua infanzia era stata cresciuta parlando il francese), così come Ferdinando il quale, noto come il “Re Lazzarone”, si divertiva per le strade con i popolani intrattenendovisi nel loro dialetto. Una clausola del contratto di matrimonio prevedeva che la regina entrasse a far parte del Consiglio di Stato dopo aver partorito il 1 F. Pesendorfer, La Toscana dei Lorena, Firenze, 1987, p. 48. 2 C. Francovich, Storia della Massoneria in Italia, Scandicci, 1989, p. 189 e segg.
Massonica
primo figlio maschio, cosa che avvenne nel 1775. Grazie allo scarso interesse del marito per gli affari di governo, Maria Carolina riuscì ad avvicinare sempre più il suo regno all’Austria, e del resto questo era il compito affidatole dalla madre Maria Teresa. Le era però di ostacolo il primo ministro, che era dunque era necessario far allontanare, sottraendo così il regno dall’influenza spagnola. L’editto antimassonico emanato il 10 ottobre 1775 da Ferdinando IV nacque dalla sempre più insistente volontà di Carlo III e del capo del governo Bernardo Tanucci di eliminare alla radice il crescente proliferare di logge cui aveva addirittura aderito la Regina Maria Carolina, che cercava di sottrarre Napoli all’influenza spagnola. Esempi di queste pressioni si ritrovano nella fitta corrispondenza fra Carlo III, Ferdinando IV e il ministro
Tanucci, conservata all’Archivio General de Simancas3. Tanucci a Carlos III Napoli, 5 Septiembre 1775 […] Considerò il re le savie riflessioni colle quali V.M. prescrive il non differir quel che si deve per estinguere l’idra risorta dei Liberi Muratori, e mi ordinò […] Ferdinando IV a Carlos III Procida, 12 Septiembre 1775 […] Riguardo ai Frammassoni si è determinato da quei tre che la M.V. già sa di farsi la pubblicazione dell’editto che qui incluso rimetto alla M.V., e di chiamarsi tutti quelli che si sanno, a pubblicamente giurare di mai più unirsi come meglio sentirà da Tanucci. Tanucci a Carlos III, 12 Septiembre 1775 3 J.A. Ferrer Benimeli, La Masoneria Española en nel siglo XVIII, Madrid, 1986, pp. 433-435.
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Approvò in questo dispaccio la M.S. l’Editto contro li Liberi Muratori e volle averne copia per mandarla a V.M. […] L’Editto è di dimensioni importanti (cm. 43 x 31) e presenta una raffinata incisione xilografica dello stemma dei Borbone. Campeggia all’inizio un elegante capolettera, raffigurante un capriccio architettonico particolarmente bizzarro; lo si direbbe la figurazione sintetica e simbolica di un’ antica città portuale, con tanto di imponenti colonne-faro, di sapore arche-
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ologico-romano. Nei pressi navigano due barchette a remi, tra le due belle colonne, si mimetizza la lettera I iniziale, sovrastata da un cielo nero, forse a simboleggiare la collera del re pronta a punire i trasgressori. Abbandonandosi alla fantasia, si scorge anche un uomo con le braccia basse ed aperte, come nel segno di arrendersi e nell’atto di spogliarsi di un piccolo drappo: un grembiule massonico? Fra le colonne una curiosa cancellata, o forse un ponte, o forse, ancora, una balaustra vera e propria: cammino sbarrato o spiraglio? Datato Procida 12 settembre 1775, venne pubblicato il 10 di ottobre dello stesso anno “co’ i Trombetti Reali nei luoghi soliti e consueti di questa Fedelissima Città di Napoli”. Fa riferimento all’Editto di Carlo III in base al quale una Conventicola straniera, nominata dei Liberi Muratori o Francs-Maçons, che si era introdotta clandestinamente nel Regno, sarebbe andata soggetta alle pene stabilite per coloro che continuando a congregarsi minacciavano la pubblica tranquillità. Dal momento che tali società si erano ricominciare a formare con intenti ancor più criminosi, il
Re prometteva la sua clemenza a chi si era lasciato traviare ma rinnovava, a partire dalla pubblicazione dell’Editto, l’ordine di procedere contro i massoni, coloro che li proteggevano o fornivano loro i locali per riunirsi, come per i delitti di lesa Maestà (cioè con la pena di morte), anche ex officio e ad modum belli, ovverosia con procedimento sommario, come necessariamente deve accadere in tempo di guerra. Come si può vedere, l’editto in questione è improntato ad una particolare severità, voluta dal Tanucci in persona4, in quanto nel manoscritto le parole ad modum belli sono aggiunte di suo pugno. Malgrado questa minaccia, la Fratellanza accolse la nuova legge con particolare indifferenza e, sentendosi protetta dall’alto rango dei capi, oltre che dalla stessa Regina, proseguì le riunioni in forma privata, al sicuro riparo delle dimore patrizie. In questo clima si aprì dunque il processo ai massoni di Napoli e a Gennaro Pallante, che durò 4 E. Viviani Della Robbia, Bernardo Tanucci ed il suo più importante carteggio, Vol. I, Firenze, 1942, p. 198.
dal 1776 al 1782 e che si trasformò in strumento di lotta politica. Gli atti del processo Pallante mettono in evidenza come la regina Maria Carolina si preparasse a licenziare Tanucci, fatto che costituì il preambolo della rovinosa politica estera dei Borboni i quali avrebbero pagato con la perdita del Regno la subordinazione alla potenza austriaca. La maggior parte del materiale relativo a questo episodio al quale fanno riferimento tutti gli autori si trova nell’Archivio di Stato di Napoli e la fonte principale è costituita dai volumi della Giunta di Stato raccolti da Giuseppe Giarrizzo5. Di particolare interesse sono il Vol. VIII, Ricorsi del francese Michele Ponsard sulla sua ingiusta carcerazione con altri maltrattamenti patiti…, e il Vol XIX, Borrone della deposizione stragiudiziale del R. Consigliere D. Gennaro Pallante. Tanucci, preoccupato dalla spavalderia dei massoni che, sapendosi appoggiati dall’alto, se la ridevano dell’Editto, e al tempo stesso incalzato dal re Carlo di Spagna, che capiva che in gioco c’era l’interesse della Regina a sottrarsi al giogo spagnolo e a circondarsi di persone a lei fedeli, aveva bisogno di dare una punizione esemplare che doveva al contempo colpire personaggi minori affinché quelli di rango superiore recepissero il messaggio. Fu così che, il primo di gennaio del 1776, ordinò a D. Gennaro Pallante, consigliere della Camera di S. Chiara, caporuota della Vicaria Criminale e ministro della Giunta di Stato, di cogliere con ogni mezzo una riunione massonica in flagranza. È da ciò che prende le mosse uno degli episodi cardine dell’antimassoneria settecentesca6. Pallante era un magistrato di scarsa cultura, come la maggior parte dei suoi colleghi, nato a L’Aquila nel 1714, figlio di un carbonaio, venne da giovane a Napoli, dove entro nelle grazie del principe di Centola, allora reggente della Vicaria, che gli fece sposare una sua cameriera, e da allora salì rapidamente nella carriera poliziesca e divenne l’uomo di fiducia di Tanucci quando doveva fare qualcosa di se5 G. Giarrizzo (a cura di), I Liberi muratori di Napoli nel secolo XVIII, Napoli, 1998, pp. 9-12. 6 A questo proposito cfr. F. Francovich, Storia della Massoneria in Italia, cit, pp. 203-212, e E. Stopler, La Massoneria nel Regno di Napoli, in Rivista Massonica, n. 7, settembre 1975, pp. 395-432.
greto7, ma non sapeva nulla al di fuori del suo piccolo mondo di reati comuni ed era probabilmente la prima volta che sentiva parlare di Liberi Muratori . Del resto su di lui a Napoli girava una poesia8: Se volete sapere chi è Pallante Che camina predando orribilmente, Egli è un villano vil surto dal niente Per calcio di fortuna stravagante. Rediculo fu sempre ed ignorante Superbo, malcreato, impertinente Né altro merto egli ha che un sargente La cameriera tien per moglie innante Dagli occhi storto e dalle guange ardente. Spira straggi d’orror, e nella fronte Tiene furie d’Averno ognor congiunte. O vergogna di noi, non son più pronte Le scoppette, e gli stil non han più punte Per mandare un briccone da Caronte. Ignaro dunque di cose massoniche, quando gli fu chiesto di scoprire una Loggia con tutti i mezzi, si attenne alla legge romana contro hostes et ladrones; del resto per lui fra ladri e massoni non c’era molta differenza. Non essendo stato in grado di scoprire alcunché, il Pallante optò per ricorrere ad una messa in scena, trucco già praticato a Madrid, nel 1751, dal gesuita P. Torrubia, ed il Tanucci vi diede il consenso”9. In una villa a Capodimonte venne dunque organizzata, con l’aiuto di un francese di nome Peyrol, il quale “fa Massoni”10 per denaro, la finta iniziazione di un sedicente “nobile polacco”11, in realtà un servo, al quale era stato promesso in cambio un compenso di 200 ducati. Il 2 marzo 1776 si trovarono nella Villa Marselli a Capodimonte dieci persone, di cui due non erano massoni, sei erano massoni irregolari e due massoni regolari, cioè Felice Piccinini, professore di matematica, e il grecista calabrese Pasquale Baffi, ambedue della Loggia “inglese” La Renaissance. Prima dell’inizio dei lavori la casa fu circondata e il Pallante entrò gridando: «Viva il Re!»; i convenuti furono poi dichiarati in arresto e, mentre il polacco veniva liberato, gli altri nove furono incarcerati nella Casa del Salvatore. Na7 G. Giarrizzo, I Liberi Muratori, cit., p.121 8 Ibidem, p.124 9 E. Viviani Della Robbia, Bernardo Tanucci ed il suo più importante carteggio, Vol. I cit., p.198 10 E. Stolper, La massoneria settecentesca nel Regno di Napoli, cit., pp. 398 11 Ibidem.
turalmente, per evitare ogni scandalo, era stato accertato che nessun membro del governo e dell’alta società si trovasse fra i convenuti. Il processo contro i carcerati cominciò il suo lento corso, sotto gli occhi sospettosi di un’opinione pubblica che generalmente stimava gli imputati ed era
Massonica al contempo a conoscenza dei raggiri del Tanucci e del Pallante. A ciò si aggiunga che la Libera Muratoria era oramai assai potente, tanto a Napoli che in altri stati d’Europa, e ben si comprenderanno le ragioni di una clamorosa svolta processuale. I Frammassoni, protetti dalla regina, dal suo amante principe di Caramanico, dal giudice Consigliere Criscuonio, anch’egli massone, diventarono gli eroi del giorno e per loro si mossero la Reggia, la Corte, l’ambasciatore di Francia e perfino il duca Alberto di Sassonia-Teschen, marito di una delle sorelle della regina e Maestro Oratore della Loggia Tre Spade di Dresda, e la duchessa di Chartres, Gran Maestra delle Logge femminili di Francia. Dopo svariati colpi di scena l’accusatore Pallante fu infatti, del resto giustamente, accusato di simulazione di reato, mentre i prigionieri furono liberati e il ministro Tanucci licenziato. Don Gennaro Pallante si vide inoltre costretto a difendersi dalle accuse di maltrattamenti, in particolare verso un massone di nome Michele Ponsard, che aveva fatto arrestare con falsi pretesti; il Ponsard era infatti un personaggio scomodo in quanto, avendo incontrato per strada il falso nobile polacco, aveva capito che questi era stato un complice della polizia ed era pronto a diffondere la notizia. Il manoscritto che è stato esposto al pubblico per la prima volta durante la Mostra itinerante sull’Antimassoneria è la deposizione resa a sua discolpa dal Pallante in merito alla Supplica di Michele Ponsard, notando a margine le accuse del Ponsard medesimo. Consta di 13 pagine, delle quali 9 sono scritte su 2 colonne, con da un lato le accuse del Ponsard e dall’altro la difesa del Pallante. Riportiamo qui la trascrizione dei passi più salienti, pur lasciando intatto il linguaggio dell’epoca. Discarichi sulla supplica di Michele Ponsard In adempimento al Vostro ordine del 3 del corrente settembre (1776) di dover dire
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prontamente quel che gli si asserisce sul ricorso di Michele Ponsard, stato carcerato come libero Muratore; esso Pallante con sua rappresentanza del 6 suddetto mese, trascrivendo il tale ricorso, vi ha formate al margine le corrispettive note. [Ponsard] Espone il Ponsard che essendo
Letteratura stato verso la fine di febbraio del corrente anno invitato ad un pranzo sopra S. Martino, vi trovò Tommaso Peyrol di Avignone ed Alberto Lubovischi polacco, li quali unitisi con esso Ponsard a passeggiare, gli fu manifestato dal Peyrol che tanto esso quanto il suddetto polacco avevano designata una Cena in un Casino sopra Capodimonte e che vi avrebbero condotti altri amici, al che soggiunse esso supponente Ponsard, che se mai gli fosse avanzato tempo ai suoi affari, forse vi sarebbe anch’egli intervenuto. Che supponendo il Peyrol che a tal dubbia risposta non fosse esso Ponsard intervenuto, per adescarlo, cacciò in presenza del suddetto Lubovischi una borsa piena di monete d’oro, e disse, che tutta la spesa della cena, ed altro si sarebbe fatta da esso lui. Che conoscendo il Ponsard la miseria del Peyrol, ed anche la sua malavita e fama, entrò in sospetto che il medesimo assieme col Polacco, lo volessero tradire, onde disbrigatosi della loro conversazione, non volle aderire alle loro offerte. [Pallante] conferma con questa assertiva, che egli il Ponsard, dovesse essere masone, come fu riferito, e che avesse dovuto intervenire nella Loggia di Capodimonte, quantunque ora colorisca diversamente. [Ponsard] Che quindi avendo inteso esso Ponsard nel dì 3 di marzo che nella notte del 2 era stato arrestato il Peyrol con altre genti, e supponendo, che anche fosse stato carcerato il Polacco, per azzardo passeggiando nel medesimo giorno del 3 marzo suddetto incontrò per Toledo il Polacco, il quale gli disse che era stato anch’egli carcerato, ma che poi era stato messo in libertà, con la sicurezza di non essere più molestato, che nel giorno 9 del suddetto mese di marzo, mentre il Ponsard stava in letto, fu arrestato per ordine del Consigliere Pallante, e trasportato nelle carceri del Ponte di Tappia, fu posto in un orrido criminale, che nella mattina seguente fu condotto avanti Pallante, da chi fu interrogato se conosceva il Peyrol, e egli rispose che, sebbe-
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ne l’avesse conosciuto non l’avea però mai frequentato in amicizia e che domandatogli del suo impiego e dei suoi andamenti, gli rispose che la sua condotta era stata sempre onesta. Il manoscritto prosegue con le accuse di Ponsard e la strenua difesa del povero Pallante, il quale non si era reso conto di essere stato in qualche modo incastrato. [Pallante] Quest’assertiva fa vedere, che o non sia vero il fatto antecedente dell’invito del Peyrol col Polacco sopra S. Martino, o se fu vero, fa conoscere, che a lui la tacque per non dargli campo di proseguire le ulteriori interrogazioni e diligenze che si sarebbero fatte se gli palesava quel che di sopra ha esposto. Fa inoltre notare che all’interrogazione del suo impiego e condotta, non disse il Ponsard l’impiego vero, ma sapersi essere onesto, onde essendo negoziante come ora asserisce, doveva dire il negozio
che faceva e con chi. [Ponsard] che quando credea di essere posto in libertà, fu trasportato nelle carceri del Salvatore, dove ammalatosi vomitò sangue. [Pallante] Dice Pallante, che è vero, che si diede ammalato, ma fu assistito con tutta la carità, come può sapersi dai medici. […] [Ponsard] Che dopo 2 mesi di carcerazione, vedendosi la costanza di esso Ponsard, fu di nuovo semivivo condotto avanti Pallante, che lo costrinse a firmare un mandato penale di anni 5 di galera, se subito non sfrattasse da tutti i domini di V.M., che si conserva dall’attuario Baldassarre. [Pallante] Dice Pallante che quando venne la seconda volta da lui il Ponsard era stato già abilitato dalle carceri ed era perfettamente sano, e poiché niente gli aveva palesato del suddetto invito fattogli dal Peyrol col Polacco sopra S. Martino, né disse altro
bre: “S’il étoit coupable il fallait sans doute le punir selon les Loix […]”12. Leggiamo ancora nel manoscritto: L’Ambasciatore di Francia con suo biglietto degli 11 del corrente mese prega V.E. di far presente a S.M. il ricorso del Ponsard, col quale questo Negoziante francese, come
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fatto concernente alla Processura de’ masoni contro dei quali è stata mente di V.M., di niente operarsi per via di una particolare ricerca contro coloro, che già si sanno di essere masoni, ma di cogliersi soltanto nella fraganza della contravvenzione del Regio Editto; lo aveva scarcerato e che essendosi un forestiere senza un mestiere alcuno, fuggitivo dal suo paese per causa di un omicidio, carcerato nel mese di gennaio dalla Sopraintendenza per causa di carte da gioco; ed attestata altresì la sua povertà e la mala fama, che di lui correva, aveva stimato, operando come a Caporuota di Vicaria, Delegato dei Vagabondi, di fargl’ingiungere mandato di eliggere e di esercitare un mestiere tra 8 giorni, o fosse andato via da questo Regno, a norma delle Regie Prammatiche contro simil gente sfaccendata, e senza alcun mestiere. Che non avendo avuto ulteriore ricorso contro di tal
uomo non ha curato di sapere se egli avea ubbidito al mandato e se sia divenuto negoziante, come egli ora asserisce, il che resta a vedersi dal Tribunale della Vicaria in osservanza delle Prammatiche e del mandato ingiuntogli. [Ponsard] che finalmente querelandosi il Ponsard sull’indoverosa carcerazione sofferta ed asserendo che tutto siasi fatto senza intelligenza della Giunta di Stato, per occultare la mancanza del Polacco; fa istanza ordinarsi dalla suddetta Giunta che dia sull’esposto la opportuna Provvidenza, affinché sia indennizzato dei danni sofferti e se gli tolga il mandato ingiuntogli senza Processo formale. Intanto l’ambasciatore di Francia trasmetteva a Tanucci il 3 settembre una memoria con la quale Michele Ponsard chiedeva giustizia contro Pallante e non, avendo avuto risposta, gli scriveva di nuovo l’11 settem-
dice, reclama la giustizia della M.S. contro un’oppressione sofferta senza esser stato convinto di alcun delitto; soggiungendo il suddetto Ministro che se fosse colpevole bisognava punirlo secondo le leggi; che essendo innocente ha diritto di chiedere giustizia. Che egli a questo solo titolo gli accorda la sua Protezione, e prega l’ E.V. ad informarlo, in caso che il Ponsard avesse avanzato delle falsità. Pochi giorni dopo, il 29 ottobre 1776, il Marchese Tanucci informò con meste parole l’amico Luigi Viviani della Robbia che “tanto il Re Padre che il Re Figlio si sono finalmente mossi a compassione, laonde con eccesso di clemenza il Re mi scrisse di suo pugno il biglietto, del quale accludo copia”13. Il biglietto, in data 25 ottobre, altro non è che il congedo del fedele Tanucci che si vide sostituito dal suo acerrimo nemico, il marchese della Sambuca. Liberati i Liberi Muratori vi fu una serie di processi a Pallante, il quale fu accusato perfino di colpe che non aveva, tra cui quella di aver avvelenato, non si sa per quale motivo, il servo polacco, senza per altro permetterne l’autopsia. Dapprima esiliato senza stipendio, nel 1782 gli fu accordato il perdono generale del Re ed ebbe la sua, in fondo meritata, pensione. La Giunta di Stato ebbe l’ordine di vigilare rigorosamente sulla setta proibita. Sei anni dopo, il 3 novembre 1789, uscì un altro Editto, ancora più severo, emanato da Ferdinando IV a seguito dei moti rivoluzionari francesi; con la morte della sorella Maria Antonietta, Maria Carolina tolse l’appoggio ai massoni, cui si attribuiva la responsabilità del “complotto” e ne divenne feroce nemica. P.60: Maria Carolina d’Austria, olio su tela, XVIII sec; p.61: Bernardo Tanucci, olio su tela, XVIII sec; p.62: La famiglia di M.C. d’Austria in un dipinto del XVIII sec. ed in basso l’incipitdi cui nel testo; p.64-65: Due pagine del manoscritto della ‘Deposizione Pallante’ (vd. testo).
12 G. Giarrizzo, I Liberi muratori di Napoli nel secolo XVIII, cit., p. 230. 13 E. Viviani Della Robbia, Bernardo Tanucci ed il suo più importante carteggio, cit., Vol. II, p. 409.
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L Letteratura
Antimassoneria: trecento anni di storia Annalisa Santini e Serena Guidi
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a prima riunione della “Consulta per la difesa della Massoneria” coincise con la piena del Tevere del 12 dicembre 2008. Le premesse non erano delle più felici, ma munite di stivaloni da pescatore intraprendemmo il viaggio alla volta dello Zenit. Il Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro nel corso della riunione tracciò vari percorsi di ricerca, ma l’argomento che suscitò in noi maggior interesse fu la ricerca di materiale antimassonico o che trattasse di antimassoneria. Cominciammo col guardare più attentamente i testi già in nostro possesso, anche perché il materiale che tratta di antimassoneria è più numeroso di quanto generalmente si pensi. Alla riunione seguente il Gran Maestro, visti i primi risultati, espresse il desiderio di poter avere a disposizione materiale sufficiente a dare vita ad una futura mostra; questo ci spinse a rimboccarci le maniche e ad iniziare una sorta di caccia al tesoro utilizzando la mappa delineata tra le righe della Sinagoga di Satana. Storia dell’Antimassoneria, il testo di riferimento sull’argomento. Trasmettere ad un pubblico massonico, ma soprattutto profano, quanto la diffidenza, la malafede, la paura e i preconcetti sulla massoneria ci hanno indebitamente imputato in 300 anni di storia era più facile a dirsi che a farsi. Frequentando le librerie antiquarie, i vari mercatini dell’usato, le mostre di libri antichi in Italia e all’estero, nonché il mondo di internet, ci siamo rese conto che una raccolta esaustiva era impossibile, in quanto i documenti originali sono rarissimi e per lo più nascosti in collezioni private di difficile accesso oppure presenti solo nell’Archivio Segreto Vaticano. La costanza, l’ostinazione e, perché no, qualche colpo di fortuna, oltre alla collaborazione di qualche Fratello collezionista ci hanno permesso di entrare in possesso e di inserire nella collezione museale della Gran Loggia d’Italia pezzi creduti perduti, come l’Editto del 10 ottobre 1775 di Ferdinando IV, re delle due Sicilie, o i Regi Editti di Vittorio Amedeo III di Savoia del 1794, di Vittorio Emanuele I di Savoia del 1814 e quello di Carlo Felice del 1821 che proibiscono le riunioni delle congreghe ed adunanze segrete, in specie quelle dei “Club di Liberi Muratori”, intendendo come tali le associazioni che si riuniscono per trat-
passati fra le mani, come se i secoli fossero diventati giorni. Dopo lunghe ed estenuanti trattative, un collezionista privato si è deciso a vendere alla Gran Loggia d’Italia una parte della sua importantissima collezione, fra cui: l’Editto di Ferdinando IV di Borbone (1775), quello del Cardi-
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tare di qualsiasi argomento senza l’approvazione reale; si tratta, in questo caso, di tre documenti separati dagli anni che per la prima volta sono stati riuniti in una collezione privata. Nonostante tutto il nostro impegno, però, il primo Editto antimassonico del 1739 emesso dal Cardinale Firrao a seguito della Bolla di scomunica alla Massoneria di Papa Clemente XII, Lorenzo Corsini, fiorentino, rimaneva un miraggio. Numerosi sarebbero gli aneddoti da raccontare su come siamo entrate in possesso dei pezzi più rari, uno dei più significativi riguarda, appunto, l’acquisizione di questo editto. Un pomeriggio del dicembre 2009, entrando nell’ufficio del Gran Tesoriere nella nostra Sede Nazionale, nella penombra della porta abbiamo scorto un quadro che ha attirato la nostra attenzione e, come per magia, l’Editto tanto bramato era davanti ai nostri occhi; l’incredulità ha lasciato il posto all’entusiasmo e all’eccitazione, e senza pensarci due volte ci siamo recate nello studio del Gran Maestro per metterlo al corrente della nostra scoperta. Nemmeno lui voleva crederci, fin quando la preziosa signora Romana non ha svelato l’arcano. Alcuni anni prima, rimettendo in ordine il materiale accumulatesi nei cassetti, resasi conto del valore del documento aveva provveduto a farlo incorniciare. L’Editto Firrao è stato come un porta fortuna per le nostre ricerche: un mondo ci ha aperto i suoi orizzonti, testimonianze storiche delle quali non sospettavamo l’esistenza hanno cominciato ad affluire, grazie ai contatti presi nei mesi antecedenti con collezionisti e libre-
rie antiquarie. Dal seminario di Pasadena in California ci è giunto il volume del 1789, di Fra’ Vincenzo Pani Inquisitore e membro della commissione processuale di Cagliostro, che, difendendo la sua istituzione, vantava l’umanità del comportamento di questa nel processo a Tommaso Crudeli. Era poi nascosto in Olanda uno dei pezzi più importanti: il manoscritto del 1776 che riporta la denuncia di Michele Ponsard contro il Capo Ruota Gennaro Pallante e la sua difesa annotata nella vicina colonna. Nell’Archivio dell’Ecclesiastico di Firenze del 1865, oltre all’analisi dei rapporti fra Carboneria, Giovine Italia e Massoneria, abbiamo rinvenuto il testo dell’indirizzo di condoglianza inviato dal “Gran Maestro Reggente della Massoneria in Italia [Francesco De Luca] all’onorevolissimo sig. Giorgio Marsh, rappresentante del governo degli Stati Uniti d’America a Torino” a nome delle “cento e undici” officine della Comunione datato 28 aprile 1865, per l’assassinio di Abraham Lincoln, nonché quello della Loggia Fabio Massimo dell’Oriente di Roma alla Gran Loggia di Washington “Valle del Tevere, lì 14 del 3° mese dell’anno di Verst Lieu 5865”. In alcuni testi, oltre alle solite accuse che ci venivano rivolte, talvolta abbiamo rintracciato elenchi di Orienti, Logge, Triangoli e nomi di Fratelli anche di 150 anni fa. Bolle di scomunica dal 1738 in poi, libri di Léo Taxil, il congresso antimassonico di Trento, giornali antimassonici italiani e stranieri, moduli di iscrizione alle varie leghe antimassoniche e tutto il ridicolo di coloro che avevano creduto in tali accuse ci sono
nal Ercole Consalvi (1821), quello di Carlo Felice di Savoia (1821), la dichiarazione della Sacra Penitenzieria Apostolica sull’interpretazione da dare alla Bolla di Pio VII riguardante la setta dei Carbonari (1821), l’Epistola Enciclica Qui Nuper (1859), testi, sigilli, timbri, manifesti delle varie Obbedienze del secondo dopoguerra, un’importante collezione di ex libris massonici, numerosi antichi pezzi di oggettistica, innumerevoli faldoni di veline sulla nostra storia del ‘900. Una fonte inesauribile è stata la teoria del complottismo giudaico massonico, iniziata da John Robison, cavalcata dal Barruel e da innumerevoli altri autori, dall’Abate Bresciani a Civiltà Cattolica, passando attraverso le pubblicazioni del Taxil e della rivista cattolica francese Le Pélérin, fino al capolavoro di questa teoria: I Protocolli dei Savi di Sion, tradotti in italiano nel 1921 dall’ex sacerdote Giovanni Preziosi, il falso più tradotto al mondo dopo la Bibbia, citato da Hitler nel Mein Kampf e giustificazione teorica della Shoah. Sono questi alcuni esempi, molti dei quali in prima edizione, dei libri da noi riuniti su questa tematica. Assume notevole rilievo per quantità e spessore la selezione di periodici e libelli dalla fine dell’Ottocento alla fine della seconda guerra mondiale nei quali la Massoneria è attaccata sia con la satira che con l’accusa di antipatriottismo e tradimento. Con la fine del primo conflitto mondiale e con la nascita e il consolidarsi del fascismo, le accuse alla Massoneria, già da tempo sostenute da più parti, andarono inasprendosi; nel discorso alla Camera del 21 giugno 1921 Mussolini dichiarò che il fascismo non era legato alla Massoneria, da lui considerata un enorme paravento, dietro al quale generalmente vi erano piccoli uomini. In seguito, il 23 febbraio 1923, il Duce fece approvare dal Gran Consiglio del fascismo l’incompatibilità tra Partito e Massoneria; da questo
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momento iniziarono le devastazioni delle sedi massoniche e le violenze contro i liberi muratori, come illustrato da Hugo Pratt in Favola a Venezia, o raccontato da Marie Rygier nel suo La Franc-Maçonnerie Italienne devant la guerre et devant le Fascisme. Di particolare interesse stori-
Letteratura co è l’Inchiesta sulla Massoneria, ripubblicata da Emilio Bodrero nel 1925, una raccolta di interviste a numerose personalità della nazione, che doveva servire a far approvare il disegno di legge “Sulla disciplina di associazioni, enti ed istituti e sull’appartenenza ai medesimi del personale dipendente dallo Stato, dalle amministrazioni provinciali e comunali e da istituti sottoposti per legge alla tutela dello Stato e degli enti locali”. Argomento quanto mai attuale, visto che a tutt’oggi la libertà di associazione alla massoneria nella regione Marche e nella regione Toscana resta in discussione per i pubblici dipendenti e per i vari consiglieri e/o assessori comunali; testimonianze di ciò sono rintracciabili nei quotidiani regionali dell’estate 2010. Fin dai primi editti antimassonici era la libertà di associazione dei cittadini, ai quali re, papi, dittatori, governi, politici e magistrati si sono sempre opposti, che veniva, come tuttora viene, messa in discussione. I vari giornali dell’epoca fascista continuavano gli attacchi alla Massoneria nonostante l’apparente scomparsa dell’Istituzione; la propaganda negativa proseguiva, mettendoci in ridicolo con vignette derisorie, e anche nelle copertine dei libri non si risparmiava la satira come in quella di La storia e i misteri della Massoneria, illustrata da Rivalta, dove la setta è presentata come una piovra, alla quale un avanguardista taglia i tentacoli. Nel 1940 la pubblicazione del Fäy La massoneria e la rivoluzione intellettuale del secolo XVIII riprendeva ed ampliava l’opera iniziata dal Barruel; lo stesso Bernard Fäy incaricò Jacques de Boistel di produrre una pellicola di divulgazione antimassonica, e fu così che vide la luce il film, all’epoca record di incassi, Forces Occultes. Affarismo, massoneria ed ebraismo erano considerati i responsabili del disastro del 1940. Come ci ricorda Luigi Pruneti nei suoi testi, alla fine del conflitto
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numerosi storici analizzarono la guerra sotto molteplici aspetti senza quasi mai accennare all’argomento Massoneria. L’opinione pubblica non si soffermò sul tema, oppure non volle farlo; sembrava che l’oblio avesse offuscato nelle menti il ricordo che una delle prime vittime del fascismo fu proprio la nostra Istituzione, alla quale il regime aveva distrutto le sedi, bruciando arredi e documenti. Molti massoni furono vittime prima degli squadristi e dopo dei nazisti, come i Fratelli fucilati alle Fosse Ardeatine. Tra i pezzi più importanti esposti, relativi alla fine della guerra, c’è una copia del settimanale Italia e Civiltà (Firenze, 15 gennaio 1944), nel quale Giovanni Spadolini – futuro fautore della legge (detta Spadolini-Anselmi) che, sciolta la P2 come associazione segreta, il 25 gennaio 1982 vietava le associazioni segrete – spiegava che la crisi del fascismo in Italia era avvenuta dopo il 1936 perché “vi scivolarono dentro e vi presero piede in sempre maggior numero i profittatori, gli ambiziosi, i retori [...], proprio mentre riaffioravano i rimasugli della Massoneria, i rottami del liberalismo, i detriti del giudaismo” e la monarchia si svincolava dal regime “appoggiata da una cappella di generali massonici”. La questione delle associazioni segrete tornò alla ribalta quando molto più avanti, con l’affaire P2 e le logge coperte, nella primavera del 1981 scoppiò il “caso P2”. Nel corso di un’indagine che fu condotta dalla Procura della Repubblica di Milano su un’ipotesi di estorsione aggravata nei confronti di Enrico Cuccia, furono scoperti, a Castiglion Fibocchi, gli
elenchi della loggia di Gelli, consegnati al Presidente del Consiglio il 20 aprile dello stesso anno. Il clamore suscitato fece sviluppare la curiosità dell’opinione pubblica, ben presto degenerata in una vera e propria tensione che, abilmente manipolata, poneva sul banco degli imputati l’intera istituzione massonica. Immane la serie di articoli e volumi pubblicata in proposito. Impossibile elencare tutto il materiale di questi ultimi trenta anni nei quali l’Istituzione massonica è stata accusata di tutto e del contrario di tutto; a partire dall’inchiesta Cordova (archiviata nel 2000), dalle liste massoniche pubblicate sull’Unità del 1993, dalle liste del Cittadino di Siena degli anni ’90, dai continui attacchi degli integralisti cattolici pubblicati sul mensile Chiesa Viva fino ai recenti fatti di cronaca inerenti un neo gran burattinaio della P3. Avevamo il contenuto per una mostra, ma chi ci avrebbe offerto il contenitore? La soluzione si presentò ad Igea Marina in occasione di una Tornata della Gran Loggia, dove l’Elettissima e Potentissima Sorella Franca Barbetti, Delegato Magistrale per la regione Friuli, si innamorò dell’idea e mise in moto quella macchina che ci ha portato ad esporre in tutta Italia. Assieme ai fantastici Fratelli di Udine, che non citiamo nominalmente per il timore di dimenticarne qualcuno, Franca si è fatta carico dell’ideazione e della realizzazione delle vetrine espositive, nonché della sistemazione in cornice di tutto il materiale non librario, oltre che di reperire da un Fratello una galleria d’arte per l’esposizione. Grazie alla dedizione e all’incessante lavoro di tutti noi, la prima edizione della Mostra Nazionale Itinerante sull’Antimassoneria “Antimassoneria, 300 anni di storia”, organizzata dalla Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori – Massoneria Universale di Rito Scozzese Antico e Accettato – Obbedienza di Piazza del Gesù Palazzo Vitelleschi, Delegazione Magistrale del Friuli, è stata inaugurata ad Udine sabato 10 aprile 2010 presso la Galleria d’Arte “Che Quadri”. Il vernissage è stato preceduto, cosi come è poi avvenuto per tutte le altre mostre, da una conferenza stampa, tenuta in questo caso dal Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro Luigi Pruneti, dal Delegato Magistrale della Regione ospitante e dal Professore Aldo Alessandro Mola, Direttore
tezza di San Leo è stato esposto un estratto del materiale raccolto, privilegiando, in accordo con l’assessore alla cultura ed il sindaco, documenti e atti processuali relativi a Cagliostro, ed una ricca documentazione sulla persecuzione dell’l’infame setta “giudaico – massonica” operata du-
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del Centro per la Storia della Massoneria, che hanno illustrato ad un folto pubblico di giornalisti, Fratelli e studiosi gli scopi di questa mostra, nata proprio per mostrare al pubblico profano, al quale è diretta in primis, i pregiudizi e l’infondatezza delle accuse che ci vengono rivolte. È la prima volta che una esposizione di questo tipo viene realizzata in Europa e, probabilmente, nel mondo. Solo la volontà del Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro, insigne studioso di antimassoneria fin dal 1992, anno nel quale ha pubblicato il primo dei suoi numerosi testi in proposito, ha permesso di raggiungere questo traguardo. In ciascuna tappa abbiamo cercato di porre l’accento su episodi di antimassoneria di particola-
re rilievo per la sede ospitante. A Firenze il 27 giugno 2010, nella nostra splendida sede affrescata di Via Borgo Pinti, abbiamo dato rilievo alla Bolla di Clemente XII ed al conseguente processo a Tommaso Crudeli, nonché alle liste dell’Unità e a quelle del Cittadino; a Bologna il 9 luglio, nella monumentale sala del Baraccano, sono state evidenziate la Bolla Providas Romanorum di Benedetto XIV (Prospero Lambertini, bolognese) del 1751, la Bolla del 1794 di Pio VI Auctorem Fidei, unitamente alla Lettera Pastorale al clero e al popolo di Bologna, l’Editto del Barone Steffanini emesso a Bologna 14 marzo 1815 ed altri documenti inerenti i fatti accaduti nella regione. Dal 20 agosto 2010, presso la Torre Valadier della For-
rante il regime fascista. In concomitanza con la mostra, il 25 agosto la Gran Loggia d’Italia ha avuto a disposizione un’intera giornata dedicata al tema “antimassoneria” durante il convegno “Alchimia alchimie”. Dal 16 settembre siamo state ospitate dai Fratelli di Catanzaro presso il complesso Monumentale S. Giovanni, luogo altamente suggestivo, dove è stato esposto un rarissimo libro di Gaetano Capasso, con dedica autografa dell’autore: “Un Abate Massone del secolo XVIII (Antonio Ierocades) – Un ministro della repubblica Partenopea (Vincenzo De Filippis) – Un Canonico letterato e patriotta (Gregorio Aracri)”. Il famoso poeta Antonio Jerocades (Parghelia, 1 Settembre 1738 – Tropea 19 Novembre 1805) è stato fra l’altro, proprio a Catanzaro, il fondatore della Massoneria, alla quale ha dedicato alati canti poetici, per i quali è stato paragonato ad Orfeo e al Metastasio. Fu chiuso prima in carcere e poi nell’ex convento dei Gesuiti a Tropea, dopo la rivoluzione napoletana e vi morì senza abiurare i suoi ideali. Ultima tappa Torino, 13 novembre 2010, al prestigioso circolo della Stampa, mostra inaugurata in occasione del convegno “Fare gli italiani. Il progetto pedagogico della Massoneria”, dove l’attenzione è stata incentrata sugli Editti emessi dalla casa Savoia. Per coloro che ne volessero sapere di più è disponibile il catalogo riccamente illustrato, Inimica Vis. La sindrome antimassonica in tre secoli di scritti e testimonianze, Edizioni Giuseppe Laterza, ringraziando Giuseppe e Renata per il loro splendido lavoro. Doveroso il ringraziamento in primis al Gran Maestro e poi a tutti coloro che con la loro generosa collaborazione hanno consentito quest’evento. P.66: Leo Taxil, il grosso impostore, stampa fine XIX sec; p.67: Cartolina della lega antimassonica ‘L’Epuration’, fine XIX sec; p.68: Crispi la marionetta, vignetta satirica; p.69: Copertina del libro di Leo Taxil.
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Scienza, massoneria e letture proibite tra Piemonte e Liguria Parte II Davide Arecco
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a Massoneria di rito francese che, intorno a metà del Settecento, prese piede in Liguria fu da subito assai diversa rispetto a quella che diplomatici, mercanti e viaggiatori inglesi avevano portato neanche tre lustri prima sbarcando dalle navi britanniche approdate nel porto genovese. Il ritualismo massonico di Francia, templare e spiritualizzante, soppiantò a livello iniziatico il modello di matrice andersoniana, ossia quello di una Libera Muratoria razionalista, illuministica, aristocratica e whig, nonché difensore della tradizione cabalistica e rosa-crociana. Anche nel microcosmo ligure, quindi, la Massoneria consumò la propria parabola continentale. Anzi, la realtà di Genova appare come una sorta di osservatorio privilegiato per confermare in sede storica la metabasi settecentesca di tutta la Libera Muratoria europea, su grande come su piccola scala. Nella Serenissima si riproducono e si riflettono come in un gioco di specchi i meccanismi di trasformazione e le dinamiche iniziatiche che contraddistinguono la vita coeva dei Figli della Vedova sparsi per l’intera Europa. Nella Genova di metà Settecento, non solo cittadini e militari, ma anche nobili diedero il loro nome alla Massoneria. Questa fu dunque prevalentemente aristocratica, non borghese,1 vicina in tal modo all’iniziatismo delle origini ed alla Tradizione esoterico-muratoria più ortodossa e rigorosa. In un documento, del giugno 1751 – l’anno nel quale furono poste all’Indice le Lois di Montesquieu,2 ultimo entusiasta ammiratore del pensiero scientifico cartesiano e iniziato nel 1735 al rito inglese in una Loggia parigina dal Duca di Richmond – si legge che l’Eccellentissimo Magistrato [degli] Inquisitori di Stato ha tali notizie da non potere dubitare, che non vedasi radicando, e diramando in questa città la compagnia detta comunemente de’ Franchi Muratori. Quanto vi sia interessata la religione bastantemente apparisce dalla Bolla di Clemente XII, e da quella emanata di fresco dal regnante pontefice. Non resta altresì di essere materia dedicata a riguardo, che vi hanno nomi di persone di diverse classi, forastieri e cittadini, ufficiali a servigio di Vostre Signorie Serenissime ed anche qualche patrizio. Bisognerà perciò che la cosa sia maneggiata con efficacia bensì,
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ma insieme col minor strepito, e con dovuta cautela, il che dipende da quella suprema ed accorta direzione che è propria di Vostre Signorie Serenissime.3 Il tono, anche se mai eccessivo, è qui chiaramente preoccupato, come attesta il riferimento alla clementina In eminenti apostolatus (1738) ed al più recente decreto di scomunica, da parte di papa Benedetto XIV, Providas Romanorum (1751). Preoccupava, evidentemente, la presenza dapprima a Bordighera di una Loggia e quindi a Genova di almeno due, tutte molto attive tra il 1745 e il 1749, in stretto rapporto – come riferito – con le truppe francesi accorse in difesa della Repubblica contro le milizie asburgiche. I Serenissimi Collegi, dopo avere a lungo dibattuto (il che evidenzia la presenza in
Genova di posizioni non univoche sulla Massoneria), stabilirono di incaricare il Magistrato di Stato, pertanto lasciando fare alla politica e non alla religione per restituire all’autorità statale un potere rivendicato dall’Inquisizione ecclesiastica (lo stesso discorso inerente il controllo sui libri da proibire), a dare tutte le provvidenze che stimerà ad effetto d’andare al riparo di tale disordine, con quelle avvertenze e cautele e circospezione, che merita l’affare, ma in modo che ne ottenga la fine.4 Quello muratorio, nella Genova di metà secolo, era dunque un terreno che scottava. L’intento delle istituzioni politiche era quello di porvi mano, ma si temeva altresì che l’andare incontro ad una cosa in fondo ignota o comunque poco cono-
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in data 22 marzo 1752, l’estratto da una missiva relativa alla Società dei Framassoni, presto comunicata al governo della Serenissima. Dallo scritto si scorge che, almeno per in non affiliati, la Massoneria restava qualcosa di difficilmente de-
verno secolare potesse utilmente invigilare sopra questo punto, con qualche provvidenza opportuna, giacché le premure dei vescovi su tal proposito poco giovano. Se in Genova il Magistrato degli Inquisitori di Stato sulle notizie de’ parroci facesse una seria paterna ammonizione ai contumaci, forse profitterebbero. Suggerisco questo temperamento che dalla di lei capacità, potrebbe essere migliorato.6 La fonte dice, contrariamente alle apparenze, molto: intanto la Massoneria è qui qualificata, in modo erroneo, alla stregua di una setta (cosa che non è mai stata, né mai dovrebbe essere). Il fatto che fosse così percepita giustifica senza dubbio i ti-
cifrabile, nonostante tutte le intenzioni al riguardo. Nella lettera trasmessa da Gavotti alle autorità genovesi si trova scritto che ho sentito leggere un foglio contenente alcune pretese massime della Setta dei Liberi Muratori che si dicono palesate da un confratello moribondo in Napoli. In sostanza contengono la mira di sottrarre il genere umano da ogni dipendenza dal Principe e dal Sacerdozio, come due podestà incompatibili colla libertà nella quale Dio ha creato l’uomo. Se fosse vera l’esistenza reale di questa setta appoggiata a simili massime, crederei che fosse impegno di ogni principe invigilare perché non si radicasse nel suo Stato. Mi dà motivo di temere la circostanza di tanti, che in molte città mancano all’adempimento del precetto pasquale, e mi pare che il Go-
mori che attorno ad essa si raccoglievano. Quindi colpisce, molto in anticipo sugli Illuminati di Baviera, la paura che i Figli della Vedova coltivino il preciso proposito di rovesciare i poteri politici e religiosi costituiti (quando, sin dalle Costituzioni di Anderson, se non dalla Restaurazione degli Stuart, essi avevano il divieto assoluto di trattare temi di natura politica o teologica nelle loro tornate). Peraltro, l’autore stesso pare incerto se credere o no a quanto si racconta sui Liberi Muratori, come se la leggenda ne imbrigliasse la storia, come se il velo del mito ne avvolgesse gli indistinti contorni. Per fare chiarezza, si suggerisce ai poteri secolari una ipotesi di controllo non troppo restrittiva – basata certo, anche se non lo si afferma esplicitamente, su una rete di spie
sciuta poteva produrne un ingigantimento a livello della fantasia (popolare e non solo).5 Nulla infatti si concluse, a parte la sola e isolata espulsione d’alcuni forestieri. L’anno dopo, monsignor Della Torre, barnabita e vescovo di Sarzana trasmise per lettera al canonico Agostino Gavotti,
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– che dialoghi con i religiosi assumendosi tuttavia il carico dell’indagine (segno, forse, delle trasformazioni giurisdizionali allora in corso d’opera,7 pure a Genova). E Gavotti riuscì nel suo intendimento: queste osservazioni vennero passate agli Inquisitori di Stato affinché questi se ne servissero nelle loro incombenze. Nulla ad ogni modo accadde: per un decennio la Massoneria se ne stette tranquilla, senza persecuzioni o condanne. Forse – ma è una semplice ipotesi – la presenza in essa di nobili e di aristocratici, unita al desiderio di non guastare le relazioni diplomatiche con la Francia (da cui questa forma di Libera Muratoria proveniva) finirono con il procurare una sorta di rete di protezione ai Fratelli. Nel 1762, all’improvviso, si ridestarono le paure riguardanti il moltiplicarsi in Genova di varie logge e si giunse, anche, alla cacciata di alcuni Liberi Muratori dai domini della Repubblica di San Giorgio. A risvegliare l’attenzione sulla Massoneria fu un biglietto dei Calici del 3 febbraio 1762, in cui ai Serenissimi Signori si presenta con sicurezza che siano risorte in questa città le note compagnie de’ Franchi Muratori, capaci come bene sanno Vostre Signorie Serenissime a produrre disordini assai pregiudiziali alla quiete del Governo, e molto più alla religione. Altre volte si è da Vostre Signorie Serenissime andato al riparo, conviene pur anco presentemente rintracciarne la verità, e procurarne con tutto lo studio di dissiparle con quei modi che fu da Vostre Signorie Serenissime praticato altre volte.8 Per l’autorità, quella massonica è ormai una presenza disturbante, foriera di ombre sinistre. La pericolosità dei Liberi Muratori è ora soprattutto religiosa, oltre che e più ancora che politica. Forte ed esplicita appare adesso l’esigenza di sciogliere l’Ordine e ridurne al silenzio i membri. Non basta più, sembra, espellere qualche suo membro (non ligure). Incaricati della cosa gli Inquisitori di Stato, questi ultimi risposero dopo due settimane che per decreto del 4 febbraio deliberarono Vostre Signorie Serenissime sotto biglietto de’ Calici del Gran Consiglio di prendere le opportune informazioni sopra l’Unione dei Liberi Muratori, che si presentiva fosse risorta in questa città [...] ed ha con sicurezza giustificato, siasi nuovamente introdotta in città suddetta compagnia dei
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Fratelli Muratori ed essere capi di essi alcuni forastieri qui abitanti, siccome d’essere non pochi di già associati non tanto forastieri che genovesi, incauti questi per la loro età. L’Eccellentissimo Magistrato notiziato di quanto sopra dall’Illustrissimo Deputato di mese è passato a considerare essere stata detta compagnia condannata da Santi Pontefici dalle Bolle dei quali bastantemente apparisce quanto vi sia interessata la religione, ciò che chiaramente conobbero Vostre Signorie Illustrissime nel 1751, mentre deliberarono, dovessero gli Inquisitori di Stato dare tutte le provvidenze avessero stimato ad effetto di riparare il disordine, con quelle avvertenze, cautele, e circospezione, che meritava l’affare, ma in modo d’ottenere il fine. In seguito di che fu dissipata la compagnia collo sfratto di alcuni forastieri, ed ammonizione ai rimanenti e il tutto comunicato al Reverendissimo padre Inquisitore, a norma di quanto fu segnato dal Serenissimo Doge relativamente a decreti.9 Questo documento, benché taccia sul fatto che la Massoneria non era a Genova mai scomparsa (anche per una certa dose di lassismo o benevolenza mostrate in principio dalle autorità), dimostra il desiderio dei Collegi liguri di attuare ora una stretta inquisitoriale che vedeva affiancate la politica e la fede, sentitesi ambedue minacciare da quello che era in realtà un percolo inesistente. Indicativo in proposito chiamare in causa le due scomuniche papali e il richiamo alle prime segnala-
zioni date nel 1751. La Libera Muratoria era ora avvertita dai Serenissimi Senatori come una turbativa dell’ordine pubblico, come una nuvola nera, che si avvicinava sempre di più all’orizzonte. Bastava un sospetto, irragionevole come in questo caso (e siamo nel secolo del razionalismo illuministico), per fare della potenzialità negativa un fatto reale, per trasformare un ‘ipotetica eventualità in minaccia da doversi fronteggiare quanto prima e con una decisa fermezza. A pagare, naturalmente, furono gli stranieri. Il giorno dopo l’esposizione del decreto, i governanti genovesi espulsero diversi forestieri, anche di un qualche nome, mentre la nobiltà cittadina riuscì a restarne fuori almeno ufficialmente. Da un breve biglietto dei Calici possiamo conoscere i nomi di alcuni di coloro che subirono lo «sfratto». Il 17 febbraio 1762. Si sente intimato lo sfratto ai negozianti Jouvielle, Amat, Sturemberg di case di considerazione, e si dice perché Liberi Muratori. Intanto il commercio si distrugge, i forastieri sono mandati via, la popolazione manca, e ci rendiamo ridicoli e odiosi.10 Disamina esatta, perfetta: non manca veramente niente. Un altro biglietto dei Calici ci ha fatto pervenire altri particolari interessanti di questa vicenda. Si tratta, comprensibilmente, di un ignoto – di sicuro uno dei non pochi patrizi genovesi affiliati alla Massoneria, il quale si sente solidale con i Fratelli puniti per la loro obbedienza latomistica e dimostra con ciò la sua osservanza nei confronti dello
spirito dell’Ordine – che si erge a difensore in particolare del Fratello Sturemberg, nella vigilia della sua partenza (mercante e speziale, a maggio egli era ancora a Genova). Nella difesa leggiamo che con grande ammirazione tanto de’ Signori più ragguardevoli, come de’ mercanti di questa piazza, si è inteso l’esilio stato intimato il giorno 12 del corrente maggio ad un certo signor Cornelio Steuremberg [sic] compagno del presente console di Sua Maestà il Re di Danimarca, e che motivo del sopradetto esilio possa essere l’intervento del signor Cornelio ad un pranzo di certa adunanza fuori le porte della Città, creduta dei Framassoni. Signori Serenissimi, sembra che una consimile ragazzata non meriti nel caso presente simile esilio, ponendo sotto la saggia riflessione di loro Signori Serenissimi essere questo socio del Console di Danimarca persona di somma distinzione abbenché occulta, che sono più anni che ha introdotto vivo negozio in questa Piazza, che può dirsi vero cittadino, e che per la molteplicità de’ generi diversi sparsi in diverse piazze, e principalmente in questa capitale, sarebbe una totale rovina di sua casa, e de’ suoi corrispondenti, e per cui verrebbe dannificato lo stesso commercio nella presente città, che deve essere indispensabilmente l’unico oggetto di loro Signori Serenissimi affine di conservarlo.11 Questa sincera ed accorata apologia, proveniente dagli ambienti dell’aristocrazia genovese che apparteneva alla Libera
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Muratoria, cadde nel vuoto e non sortì alcun risultato, malgrado la sincerità dei buoni propositi. Inflessibile, il governo della Repubblica si mostrò duro e severo come – di rado – era stato in precedenza. Il 14 maggio 1762, i Serenissimi Senatori diedero mandato al Presidente degli
Inquisitori di Stato di significare all’Illustrissimo Magistrato il loro gradimento per lo zelo dimostrato in dare i provvedimenti necessari per l’estirpazione di suddetta compagnia dei Liberi Muratori nel Serenissimo dominio, eccitando il di lui zelo a continuare a dare tutti quelli ordini e provvidenze che stimerà necessarie per esterminare suddetta nuova compagnia.12 Raro trovare, se non da parte della Chiesa cattolica di allora, parole più dure. Una scomunica laica, comminata dopo avere individuato – meglio: fabbricato ad arte – un nemico, da colpire senza pietà sfruttando il vincolo della segretezza iniziatica, di cui la cultura esoterica (massonica in questo caso) si contraddistingueva
to alla presunzione giuridica d’innocenza, si sa, non era a quel tempo contemplata da ordinamenti penali ai quali bastava una delazione di poco conto per far scattare la macchina repressiva. Inoltre, non si può escludere nemmeno che i Serenissimi Senatori approfittassero dell’occasione per zittire e impaurire quei nobili dissidenti i quali, delusi dalla politica della Repubblica di San Giorgio, avevano cercato proprio nelle file della Libera Muratoria d’ascendenza francese un nuovo spazio per sé, a un tempo di aggregazione sociale e di miglioramento spirituale. Sociabilità settecentesca e iniziatismo di fede tradizionale, insomma. Di fronte all’ordine di espulsione dei Fratelli – francesi, per lo più – ai massoni liguri rimasti non rimase che ingoiare il proprio orgoglio e accettare controvoglia quella che sembrava essere una condanna dell’intera Libera Muratoria. In un certo senso, Genova fu un banco di prova dove testare l’efficacia delle due Bolle pontificie di Clemente XII e Benedetto XIV, ossequiando così i voleri del papa e della curia cattolica romana. Nonostante ciò, non mancarono i dissidi tra il pote-
e ancora si connota. è probabile che, oltre ad ossequiare il papa re e la sua corte, il governo di Genova volesse dare, con ciò, una pubblica prova di forza ed accentuare, in termini espressamente dirigistici, il proprio centralismo. La Massoneria ligure era la perfetta vittima sacrificale, il migliore capro espiatorio a disposizione: indifesa e facilmente eliminabile. Quan-
re politico e quello ecclesiastico, che proprio a Genova si era cercato di esorcizzare punendo la Massoneria per il solo reato di opinione (e di esistenza). Se alle vittime andò male, si potrebbe affermare, ai carnefici non andò comunque benissimo. Sorse infatti uno spinoso problema diplomatico tra gli Inquisitori di Stato liguri ed il Sant’Uffizio. Quest’ultimo, per
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quanto soddisfatto del decreto di espulsione della Libera Muratoria dai confini liguri, avrebbe preferito vedere affidato ai propri delegati il compito di condurre l’inchiesta e di comminare le pene relative. Viceversa, come era avvenuto e avveniva per i libri da sottoporre a censura, la politica rivendicava laicamente per sé la facoltà di agire sul terreno giurisdizionale che riteneva di sua stretta competenza. Sulla pelle dei Framassoni genovesi finì così per consumarsi anche questa diatriba. Sta di fatto che, da allora, nella Repubblica di Genova non vi fu più vita massonica di alcun segno. Le cose iniziarono a mutare solo dopo un ventennio, recando impressi i sigilli delle continue metabasi storiche che avevano nel frattempo cambiato la dimensione del massonismo. Nuovamente, la capitale ligure non fu soltanto spettatrice. Verso la fine del XVIII secolo nacquero a Genova altre due logge, una nel 1780 aderente, di lì a due anni, al Regime Scozzese Rettificato ed un’altra nel 1782, che ottenne una patente dalla Gran Loggia Unita d’Inghilterra, la quale le riconobbe l’altisonante e rappresentativo titolo di Old British and Ligurian Lodge, fin dal nome espressione del desiderio di tornare alla Massoneria simbolica di oltremanica, con cui i Fratelli della Serenissima avevano inaugurato la propria avventura esoterico-muratoria. Un fatto significativo. Nell’Europa centrale, nella fattispecie nel Brandeburgo-Prussia e in Baviera, sono infatti gli anni – cruciali e importanti, per molti versi senza ritorno – del settarismo di Adam Weishaupt, lo ‘Spartaco’ degli Illuminati, animato da ideali filosofico-egualitari di stampo ateo e materialista, nonché portavoce di un progetto tutto e solo politico, che sacrifica al vecchio ma ricorrente sogno di unificare – in chiave e nazionalista e rousseauiana – la Germania, sotto una sola autorità, ispirata ad una particolare versione dell’associazionismo massonico. Un’utopia, pervasa da una formazione classicista ibridata da una fede cieca nell’immanenza, da brandelli confusi di quello che era stato l’idioma del cosmopolitismo illuministico, a sua volta amalgamato con le aspirazioni alla pace perpetua dell’abate di Saint-Pierre (il Projet era stato pubblicato 1713) e con una forma di comunitarismo dalle probabili (quanto remote) ra-
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dici eretico-medievali. Le cose mutarono in fretta e la prospettiva di cambiamento auspicata ed incarnata dagli Illuminati di Baviera tramontò presto e irrevocabilmente quando, nella setta di Weishaupt (divenuto massone nel 1780), entrò nello stesso anno il barone Adolf von Knigge, deluso dal sistema massonico della ‘Stretta Osservanza’. Questi, «massone di rango, di grande esperienza e di notevole respiro intellettuale rispetto alla modestia di Weishaupt»,13 ristrutturò in base al tipico schema della Tradizione muratoria la setta, facendone un Ordine: in un sistema trigraduale, la proposta politica, lungi dallo scomparire, fu però perfezionata e resa meno ingenua. Von Knigge la sposò ad un’iniziazione di tipo misterico, che incorporava, nel proprio seno, l’anti-cattolicesimo di fondo, l’esaltazione della ragione, la volontà di distruggere le gerarchie sociali ereditate dal passato e l’avversione per ogni politica assolutistica. Nonostante le adesioni,14 la vicenda si concluse, si sa, nel nulla: la mistica politico-dottrinaria e cripto-razionalista propugnata da Weishaupt e von Knigge fu
messa in minoranza e sconfessata al convento massonico di Wilhelmsbad, dove, nel 1782, fu messa da parte dalla Libera Muratoria più fedele alla Tradizione esoterica, alle scienze occulte ed all’iniziatismo. Di lì a breve, le indagini della polizia bavarese e il ritrovamento fortuito di alcuni documenti manoscritti portarono alla fine anche politica dell’Ordine; la Massoneria si riformò con gli Alti Gradi del Rito Scozzese Rettificato, che fece proseliti anche nella Genova dei primi anni Ottanta. Ancora una volta, la Repubblica ligure rispecchiò i più vasti rivolgimenti muratori europei. Questi ultimi, peraltro, tradiscono nuovamente le difficoltà dei massoni continentali di trovare un punto di equilibrio fra Tradizione esoterico-iniziatica e tentativo di materializzare e fare vivere le suggestioni da essa derivanti nel mondo della storia, specie nell’epocale e oltremodo complessa fase di passaggio dall’antico regime agli imminenti tempi nuovi. Spesso, nel tramonto del XVIII secolo, poteva capitare di rinvenire ben poco di mistico o di tradizionale nel cosmo mas-
sonico. Osservando la Libera Muratoria alla quale era stato iniziato, il veneziano Giacomo Casanova ebbe a scrivere che in essa non vi era ormai più «niente di sacro».15 In effetti, anche se non fu la Massoneria a preparare la Rivoluzione francese, quanto piuttosto quest’ultima ad infiltrarsi nelle logge per piegarle alle sue esigenze e dunque a snaturare l’iniziatismo muratorio della Tradizione esoterica, l’imborghesimento del massonismo tra fine Sette e inizio Ottocento fu e rimane lampante. In particolar modo nell’Italia nord-occidentale, la combinazione degli «immortali principi» dell’Ottantanove, del giacobinismo e delle campagne napoleoniche modificò in termini profondi sia la geografia sia i valori della Libera Muratoria. La politica di invasori e occupanti spazzò via l’antico esoterismo, per rimodellarlo ora in una luce diversa e opposta al passato tradizionale della Massoneria. Le idee di libertà, eguaglianza e fraternità uscirono dallo spazio sacro delle colonne di Hiram, per farsi tutte e solo profane, finendo con l’interessare in maniera pressoché esclusiva solo
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l’agire pratico dei Fratelli, coinvolti tanto nella politica rivoluzionaria quanto negli accadimenti bellici che ebbero protagonista il Bonaparte. Quella che ne derivò fu, pertanto, una Libera Muratoria del tutto sganciata dalla Tradizione iniziatica, con protagonisti membri della borghesia e soldati. Quell’ibrido italo-francese prese corpo non soltanto a Genova, ma anche nelle enclaves dell’entroterra. A Novi, ad esempio, il 1° marzo 1810, fu creata la Loggia La Confidenza, tutta improntata alle credenze della Rivoluzione di Francia portate in Italia da Napoleone e dal suo esercito. Un discorso a parte meritano invece le relazioni dei massoni liguri con le log-
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ge mediterranee e francesi in particolare, legami che si intensificarono nell’ultimo scorcio del Settecento. Per un verso i liberi muratori genovesi riallacciarono i contatti con i Fratelli d’oltralpe dopo che questi erano stati interrotti dalla stretta politico-inquisitoriale dei primi anni Cinquanta. Per un altro, forse delusi dalla realtà a loro circostante, che uno spirito dell’epoca non poteva non sentire come attardata e angusta, si seppero aprire a nuovi rapporti (latomistici e sociali) in cerca d’una valorizzazione impensabile in patria. Dal punto di vista francese, infine, poteva così tornare a materializzarsi la possibilità, grazie all’espandersi delle logge all’estero, di allargare il venta-
glio del compasso massonico. Naturale, in merito, che lo sguardo, da zone urbane vivaci come quelle della Francia meridionale – anche sotto il profilo libero muratorio, come Marsiglia – si portasse nella non lontana Genova, vista come testa di ponte per la sempre più estesa affermazione del massonismo francese nel Mediterraneo. In una tavola massonica del 22 ottobre 1783, indirizzata al Grande Oriente di Parigi e redatta mentre gli occhi della Francia (muratoria e non solo) guardavano alla capitale francese, e Cagliostro aveva già dettato il suo Memoriale in una cella della Bastiglia,16 leggiamo che vous désirés connaître l’origine de la Loge St. Jean
d’Ecosse à l’Orient d’Avignon, les pouvoirs qui lui ont été confiés et ce qui peut avoir rapport à ses travaux. La Loge d’Avignon fut constituée par la R[espectable] Loge St. Jean d’Ecosse à l’Or[ient] de Marseille [...]. Dans les pouvoirs qui lui furent transmis par nôtre Loge on ne comprit point celui d’en constituer d’autres. La T[rès] R[espectable] L[oge] E[cossaise] à l’Orient de Marseille tient ses constitutions de la T[rès] R[espectable] G[rande] L[oge] du G[rand] O[rient] d’Edimbourg; elles lui donnent le pouvoir d’en constituer de semblables dans toutes les possessions françaises – l’atelier n’eut pourtant pas de scrupule à constituer à Gênes ou bien encore à Smyrne! – sans cependant lui donner la faculté de transmettre ce pouvoir constitutif.17 I franc-maçons responsabili del manoscritto erano i membri della Loggia Saint-Jean d’Ecosse all’Oriente di Marsiglia, un Tempio libero muratorio a maggioranza mercantile e protestante, ma in maniera non esclusiva e senza pregiudizi. Nella Loggia marsigliese – che, stando a quanto si legge nel documento, era da poco presente anche ad Avignone – pronunciato era l’eclettismo. Anzi, si può parlare di autentico sincretismo massonico: da una parte, anche in quanto legata costituzionalmente alla Gran Loggia all’Oriente di Edimburgo e protestante, essa si richiamava alla linea andersoniana (quindi alla scienza di Newton e all’Illuminismo inglese moderato), mentre, dell’altra, tale tendenza si univa all’afflato esoterico-iniziatico tipico della Tradizione. Lo conferma il riferirsi, sin dal nome, alla Scozia, alle cui leggende libero muratorie la Loggia marsigliese faceva risalire (sino a smarrirle, e creando non pochi ostacoli documentari) le proprie origini, il che la proiettava in un passato anche remoto – gli Statuti Shaw manoscritti furono compilati a Edimburgo, nel 1598 – combinato con una tradizione più caratteristicamente francese (facente capo per lo meno allo Statuto di Strasburgo, che era stato approvato dal capitolo di Ratisbona e in seguito confermato tra il 1464 e il 1488, dal futuro Imperatore Massimiliano I). Sul finire del XVIII secolo, la Saint-Jean d’Ecosse, Loggia del grand négoce marseillais, fu una delle regine dimenticate nel quadro massonico del basso Mediterraneo. Essa creò diverse logge-figlie
(anche nelle isole), per promuovere lo sviluppo d’un vero ‘porto mondiale’ del massonismo. Il suo network di aderenti e di corrispondenti le permise una copertura veramente straordinaria dello spazio mediterraneo. La Loggia marsigliese si nutrì di ambizioni europee e non esitò – nemmeno – a entrare in conflitto con la Gran Loggia di Francia e poi con il Grande Oriente di Parigi, per arrivare ad affermare la sua indipendenza. La Saint-Jean d’Ecosse divenne pertanto una potenza massonica con cui fare i conti,18 la quale poteva contare su una decina di ramificazioni: i suoi affiliati, oltre che in Avignone, erano presenti tra l’altro nei porti di Costantinopoli, Malta, Palermo, Salo-
a vario grado, come il console di Genova.19 Quest’ultimo, al pari degli altri consoli francesi che frequentavano la Loggia madre di Marsiglia e le sue diramazioni, dovette essere avvicinato da membri del personale diplomatico europeo che, per il loro coinvolgimento massonico, garan-
nicco, Saint-Pierre de la Martinique, Genova e Smirne (direttamente chiamate in causa nella tavola del 1783). A Genova si costituì la Loggia Saint-Jean d’Ecosse des Vrais Amis Réunis; a Smirne, invece, la Saint-Jean d’Ecosse des Nations Réunies. L’influsso dell’universalismo illuminista è, come si può vedere, evidentissimo sin dalle diciture. L’elenco dei membri della Loggia madre marsigliese per il 1784 ci consente di fare numerose precisazioni. L’atelier contava allora, tra i suoi membri, avvocati olandesi, diversi diplomatici – del Sacro Romano Impero e del Granducato di Toscana, nonché dei regni di Sardegna, di Danimarca e di Polonia – tutti iniziati
fetto, avevano anche generato un declino del mercato genovese – e, di riflesso, italiano – lamentato allora dai nobili della Serenissima iniziati alla Libera Muratoria. Marsiglia offriva ora, anche attraverso il filtro massonico, la possibilità di farlo ripartire: la Saint-Jean d’Ecosse, aperta sull’Italia, costituì a Genova una Loggia fondata da protestanti (in prevalenza olandesi) a lei fedeli. Come nelle Province Unite e nella stessa Marsiglia, espansione massonica e dinamismo commerciale vanno di pari passo e producono un ibrido tipicamente settecentesco. L’installazione di camere di commercio, unita alla presenza di diversi mercanti, poteva rimettere in moto anche la vita socia-
Storia tivano la copertura dello spazio mediterraneo alla fratellanza libero muratoria. I négotians di provenienza italiana e ligure formano poi la quasi totalità degli adepti stranieri reclutati dalla Saint-Jean d’Ecosse. Le proibizioni e persecuzioni anti-massoniche dei primi anni Sessanta, come ef-
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ra possibile nel 1784, come attesta il caso della Saint-Jean d’Ecosse attiva a Marsiglia e a Genova, ma non più solo pochi anni dopo. L’egualitarismo rivoluzionario posteriore al 1789, come detto, alterò irreversibilmente lo spirito dell’Ordine massonico e la sua storia. _______________
Storia
le genovese, fossilizzatasi nel corso degli anni. Da informale qual era stata in principio, la sociabilità muratoria si organizzò e strutturò, guardando all’Olanda o alla Tolone della Loggia Saint-Jean de Jerusalem. Pure a Genova, senza soluzione di continuità, i mercanti calvinisti svolsero un ruolo di primo piano nell’attività del porto e svilupparono la fratellanza massonica con il medesimo zelo, al punto da inquietare di nuovo gli Inquisitori di Stato. Una rinnovata persecuzione suscitò come reazione uno slancio di solidarietà da parte dei fratelli e correligionari marsigliesi. Sotto l’impulso del Maestro Venerabile della Saint-Jean d’Ecosse, Louis Tarteiron, i massoni iniziati all’Oriente di Marsiglia – testimoniando, con ciò, un’esistenza attiva e di lunga data – si mobilitarono con ardore. Non era per loro cosa nuova: nel 1762 avevano già aiutato Cornelio Sturemberg, allora antico Venerabile dell’Ordine.20 La Massoneria illuminista di Marsiglia e di Genova fece professione di fede cosmopolita. Per i liberi muratori francesi e liguri, lo scopo primario era quello di allargare lo spazio della circolazione armoniosa e della concordia del Tempio della fraternità, sino ai limiti dell’ecumene. In particolare, la Loggia marsigliese SaintJean d’Ecosse tirò le fila del mondo massonico mediterraneo e mobilitò una fitta rete di corrispondenti, anche a Genova. Consoli e viaggiatori, nello specifico, furono molto attivi nell’espansione dell’Ordine e favorirono la diffusione di simboli e rituali. Per queste ragioni, Pierre-Yves Beaurepaire ha parlato di principio del-
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la circolazione e cultura della mobilità nell’area del Mediterraneo al servizio di una corrispondenza generale e universale. Questa doveva passare per il confronto paritario con l’altro – protestante, ebreo, musulmano – portato avanti da massoni devoti al cosmopolitismo e intenzionati a tutto pur di combattere la realtà di pratiche sociali e religiose che parlavano spessissimo il linguaggio della discriminazione e dell’esclusione. Iniziare un apprendista, per i massoni marsigliesi e genovesi, significava accogliere un alter ego. Lo spazio mediterraneo fu quindi per le logge madri una sorta di palestra ove allenare il proprio cosmopolitismo e tradurre nei fatti le credenze illuministiche.21 Fratellanza cosmopolita, ma altresì desiderosa di riconoscimento pubblico e di distinzione sul piano sociale, la Massoneria del tardo XVIII secolo, pur dialogando con la società profana e con il potere politico, mise in atto dei protocolli di identificazione dei visitatori e dei candidati al cammino iniziatico che presto o tardi si rivelarono sempre più difficili da approcciare per i semplici borghesi: la finalità era evidentemente quella di ritornare al binomio tradizionale aristocrazia-esoterismo. Pur tuttavia, in questo laboratorio-osservatorio della società dei Lumi non furono pochi gli avventurieri i quali cercarono di infiltrarsi tra le colonne di Hiram, presentandovi falsi profili e senza curarsi delle norme osservate nel Tempio muratorio.22 Pure questo contribuì a reinnestare un processo di ritorno al passato sotto forma di gerarchizzazione interna. Una situazione che era anco-
Note : 1 Come profondamente aristocratica fu l’esperienza libertina vissuta da alcuni nobili genovesi nella prima metà del Seicento. Tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta del secolo XVII, in particolare, fu a Genova – oltre che in Germania – Ferrante Pallavicino. Si trattava di viaggi fatti in qualità di cappellano del Duca di Amalfi, viaggi i quali lo portarono a conoscere non pochi spiriti liberi della Serenissima Repubblica, appartenenti alle migliori famiglie liguri: Pallavicino li frequentò e li fece aggregare a quello spazio aperto che era, in quegli anni, la veneziana Accademia degli Incogniti. Stando all’elenco completo delle Glorie degl’Incogniti (Venezia 1647), compilato da Girolamo Brusoni e da altri accademici, ben nove erano i genovesi presenti. Questi ultimi, evidentemente delusi dalla vita culturale che allora si respirava a Genova, cercarono pertanto al di fuori una dimensione nuova ed avvertita come più consona in termini di appartenenza e di valori spirituali. La stessa cosa accadde nel secondo Settecento: Celesia si legò ai milieux di Parigi e Londra, l’ormai anziano Lomellini si isolò nel ripiegamento interiore, mentre diversi massoni guardarono alla Francia e furono qui iniziati all’Oriente di Marsiglia (P.-Y. Beaurepaire, Le rayonnement et le recrutement étranger d’une loge maçonnique au service du négoce protestant: Saint-Jean d’Ecosse à l’orient de Marseille, in Revue historique, II, 1996, pp. 263-288). «Nelle logge tutto quel che c’era di meglio a Marsiglia» fu visto da G. Casanova, Storia della mia vita, II, cit., p. 50. Il libero muratore veneziano v’incontrò anche cavalieri di Malta e Rosa-Croce, il cui capo – l’italiano Federico Gualdo – Casanova si sarebbe recato ad attendere anche in Torino (ibidem, II, pp. 187, 212, 841). A Marsiglia il principe dei libertini del Settecento conobbe pure il barone Stuart de Frisot, cavaliere di Tuard e avventuriero (ibidem, II, pp. 32 e segg.), anche lui ascritto alla Massoneria e realista convinto. 2 L’opera di Montesquieu, oltre che nella Genova settecentesca – dove la fortuna a cui andò incontro fu dovuta forse anche a motivi massonici (libero muratore era il Président del Parlamento di Bordeaux, liberi muratori erano molti tra i membri del ceto colto che lo lessero con interesse) – fu accolta con particolare favore nel Piemonte del XIX secolo, segnatamente grazie allo scrittore politico di parte conservatrice Federico Sclopis di Salerano. Questi respinse Rousseau – traditore dei Lumi e profeta del Terrore robespierrista – ed integrò invece,
nella riflessione subalpina, Montesquieu, illuminista moderato e rispettoso delle istituzioni, amico delle riforme e avversario delle pratiche rivoluzionarie. 3 L.M. Levati, I Dogi di Genova e vita genovese (1746-1771), Genova 1915, p. 167. I manoscritti originali sono conservati nella Biblioteca Universitaria di Genova, Secret., filze 88 e 93; Colleg. divers., filza 266. Ringrazio Luca Lo Basso e Guido Galliano per diverse segnalazioni. Sui francesi a Genova, si veda S. Rotta, Une aussi perfide nation. La Rélation de Gênes di Jacques de Campredon, in Genova 1746. Una città di antico regime tra guerra e rivolta, Genova 1998, pp. 609-708. Il primo quadro storico dell’insurrezione anti-francese a Genova, quadro a un tempo sobrio e mosso, è contenuto nelle muratoriane Dissertazioni sopra le antichità italiane, stampate a Milano da Pasquali nel 1751. 4 Ibidem. 5 È quanto sarebbe accaduto, nel secondo Ottocento, con una certa pubblicistica rozza e di bassissimo consumo, che produsse l’anonimo Fatti e argomenti intorno alla Massoneria, e ad altre società segrete (Genova 1862), dal tono e dal giudizio apocalittici, nonché dalla versione ligure del francese L. Taxil, I misteri della Massoneria (Genova 1888), zeppo di farneticanti invenzioni e di accuse deliranti messe insieme per fare cassetta da uno scribacchino tra i più scaltri e volgari del secolo, capace purtroppo con il suo operato scandalistico di rinnovare la dietrologia complottistica circa la Libera Muratoria e le sue presunte azioni nefaste nella storia d’età moderna. In proposito, può essere interessante fare la seguente considerazione: nel secolo XIX si inverte per certi aspetti il processo tipografico e culturale iniziato due secoli prima; il libro non trasmette più conoscenze proibite o scomode, ma serve ad additarle ed a metterne così in guardia. Se in precedenza l’oggetto-libro dava voce a correnti (magiche, scientifiche, libertine, illuministiche) ed a istituzioni (come la Libera Muratoria) sovente al limite dell’eterodossia) nell’Ottocento si pone ora spesso, anche in Liguria, al servizio di nuovi persecutori. Da fonte di sapere alternativo o contro-corrente, il libro a stampa si fa talvolta pamphlet diffamante e accusa-
torio, almeno nei riguardi della Massoneria. È un’altra faccia delle metabasi storiche maturate in età moderna in merito alle tematiche da me affrontate in questa sede. 6 L.M. Levati, I Dogi di Genova e vita genovese (1746-1771), cit., p. 168. 7 J.A. Ferrer Benimeli, Origini, motivazioni ed effetti della condanna vaticana, cit., p. 151. 8 Ibidem. 9 Ibidem, pp. 168-169. 10 Ibidem, p. 169. 11 Ibidem. 12 Ibidem, pp. 169-170. Sulla persecuzione anti-massonica nella Genova di metà Settecento, un fugace cenno in J.A. Ferrer Benimeli, Origini, motivazioni ed effetti della condanna vaticana, cit., p. 163. 13 C. Bonvecchio, Esoterismo e Massoneria, p. 36.
14 Illuminati furono, tra gli altri, Ernesto II di Sassonia e Carlo d’Assia, Ferdinando di Brunswick e von Dalberg, Mozart ed Herder, Goethe e Wieland (C. Francovich, Storia della Massoneria dalle origini alla Rivoluzione francese, Firenze 1974, pp. 328-329). 15 G. Casanova, Storia della mia vita, I, Milano 1984, p. 729. 16 Il Memoriale di Cagliostro è l’autodifesa, la giustificazione e l’accusa ad un tempo dell’avventuriero Giuseppe Balsamo, implicato, suo malgrado, nella truffa della collana della regina, l’ultimo grande scandalo francese prima della fiammata rivoluzionaria. Organizzato con astuzia diabolica, il raggiro fu condotto soprattutto ai danni dello sprovveduto e ingenuo cardinale di Rohan. A tirarne le fila fu
la contessa de la Motte, orgogliosa discendente dei Valois, la quale per coprire la propria palese responsabilità sollevò un polverone di intrighi entro cui, per quanto innocente, venne coinvolto a pieno titolo il sedicente conte di Cagliostro. Lo scandalo assunse in breve proporzioni politiche colossali, in quanto in esso si vide una prova della corruzione e disonestà del-
Storia la regina Maria Antonietta di Francia, del tutto estranea, peraltro, alla vicenda. Come sempre negli intrighi, gli stessi che ordirono la trama finirono con l’ingiuriarsi in pubblico, sovente per mezzo di infamanti menzogne. L’autodifesa cagliostresca fu un libro ambizioso, feroce, colmo di finta disperazione, contrappuntato da malizie verbali e sontuose bugie (Cagliostro, Memoriale, Genova 1991). 17 Parigi, Bibliothèque Nationale de France, Cab. Mss., FM, FM 2 291, dossier SaintJean d’Ecosse, orient de Marseille, f. 1v. 18 P.-Y. Beaurepaire, Saint-Jean d’Ecosse de Marseille, in Cahiers de la Méditerranée, LXXII, 2006, pp. 1-51. 19 Parigi, Bibliothèque Nationale de France, Cab. Mss., FM, FM 2 291, dossier dossier Saint-Jean d’Ecosse, orient de Marseille. 20 Disinteressandosi in fretta, peraltro, del di lui compagno di sventure, l’italiano Fonvive, dal rango sociale certo inferiore, ma anche lui perseguitato come Sturemberg (Parigi, Bibliothèque Nationale de France, Cab. Mss., FM, FM 1 111, collection Chapelle, t. VI, f. 30r). 21 Vedi P.-Y. Beaurepaire, Le cosmopolitisme maçonnique dans les villes méditerranéennes au XVIIIe siècle, in Cahiers de la Méditerranée, LXXVII, 2003, pp. 1-50; Id., Grand Tour, République des Lettres e reti massoniche: una cultura della mobilità nell’Europa dei Lumi, in Storia d’Italia, Annali, XXI, cit., pp. 31-49. 22 Id., Sociabilité des Lumières et exclusion dans les ports méditerranéens au XVIIIe siècle: l’exemple de la Franc-maçonnerie, in Cahiers de la Méditerranée, LXXXIX, 2004, pp. 1-25.
P.71: De l’esprit de le loix di Montesquieu; p.72: Volume massonico del Rito Scozzese A.A.; p.74: Stampa della città di Genova; p.75: Il porto di Marsiglia alla metà dell’800; p76: Volume massonico del 1787; p.79: Copertina di un volume massonico.
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L Tradizione
Tradizione e Futuro Maurizio Galafate Orlandi
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a tradizione non si può ereditare, va conquistata e con grande fatica, così scrisse Thomas Stearn Eliot in Tradizione e talento individuale. La Tradizione è fonte di insegnamento e viene percepita come dono di saggezza, un dono che non possiamo e non dobbiamo accettare passivamente, perché questo farebbe di noi dei meri tradizionalisti. Dovremo invece conquistare la tradizione momento per momento, nel corso di quel cammino che ci conduce alla Conoscenza, il lungo viaggio che compiamo alla ricerca di noi stessi. Ma quali funzioni svolge la Tradizione nel periodo storico in cui viviamo? Sicuramente essa contribuisce, come ha sempre fatto, a rendere più saldi i rapporti sociali, perché non si tratta soltanto di trasferire testimonianze, notizie e ricordi di generazione in generazione, in quanto, così facendo, ne avremmo una visione assolutamente riduttiva che non renderebbe giustizia alle funzioni ben più importanti che essa sottende. La risposta alla domanda che ci siamo appena posti è invece che il compito della Tradizione consiste nell’insegnamento delle espressioni concettuali da essa perpetuate nell’ambito della storicità. L’uomo con il suo agire la consolida e, giorno dopo giorno, continua a scrivere la storia dell’umanità creando ordine e comunione di intenti. Se poi riferiamo il valore della Tradizione al dominio filosofico, notiamo che per Aristotele, Plotino ed altri ancora, essa costituiva il fondamento della verità filosofica, alla cui fonte hanno attinto anche dottrine moderne che, in tal modo, sono state da essa legittimate. Dopo periodi bui, l’uomo tornò a rivalutarla come esperienza spirituale, non più statica o meccanica, bensì continuo rinnovamento per una costante rifondazione dell’esperienza storica. Ciò che viene tramandato non è soltanto il contenuto delle esperienze vissute da altri uomini, ma anche, e soprattutto, il modo in cui essi si posero di fronte agli eventi della vita stessa, il loro atteggiamento di fronte ai fatti storici di cui essi stessi furono gli artefici. Nel corso dei secoli è accaduto che la Tradizione venisse rielaborata e, a volte, addirittura reinterpretata mediante artifici dialettici per assecondare le esigen-
ze di questo o quel personaggio, oppure per giustificare avvenimenti occasionali, tanto da non essere più riconoscibile e perdere così la sua funzione. Essa deve, invece, rimanere a testimonianza del passato ed evolversi mediante scelte consapevoli ed eticamente corrette, mentre gli uomini stanno purtroppo perdendo quei valori morali che fino ad oggi li hanno tenuti legati agli insegnamenti del passato. Noi, da parte nostra, non possiamo permettere che questo accada, perchè in un periodo storico come quello attuale, quando le identità culturali si dilatano, la Tradizione costituisce l’elemento di continuità che ci collega l’uno all’altro nel tempo. Manteniamo vivi i concetti con cui si regolano e si giudicano le azioni, non dimentichiamo il cosiddetto “intellettualismo etico” di Socrate per cui “chi conosce il bene lo fa “, perché l’unica vera conoscenza del bene è soltanto quella che di per se stessa è già amore. Manteniamo ben salde le nostre radici culturali che ci hanno permesso di interagire con altri per il progresso della civiltà umana. Tuttavia, troppo spesso, dobbiamo fare i conti con l’intolleranza, l’oppressione, la prevaricazione, l’esclusivo soddisfacimento dell’interesse dei singoli, quando invece in un mondo che ha assunto natura multietnica tutti gli uomini dovrebbero essere solidali, al di là di ogni individualismo. Può la Tradizione aiutarci nella costante ricerca della Conoscenza, quella che non è sapere bensì cognizione del nostro Essere? Certamente si, se avremo la giusta predisposizione dell’animo. Certamente si, se faremo nostri i suoi insegnamenti. Se così non fosse, alla domanda che ci siamo posti dovremmo rispondere: No! Ed in questo caso le nostre sarebbero soltanto parole vuote, perché la Conoscenza non è soltanto frutto di erudizione. La Tradizione dell’Istituzione massonica fa particolare riferimento alla sfera speculativa, quella dedita alla meditazione, che sviluppa la capacità di anali-
si dei suoi appartenenti affinché possano gettare uno sguardo nel profondo di loro stessi, e meditare così sul rapporto di interdipendenza esistente tra tutte le cose del creato, ed in particolare su quello tra gli uomini. La Massoneria operativa si sviluppò, in tempi molto remoti, nell’ambito del sacro, poi, diventata speculativa e simbolica, tracciò una via iniziatica che potesse contribuire al progresso della società umana. La Massoneria moderna nacque invece nella prima metà del XVII secolo e si presentò subito come il punto d’incontro per coloro che sentivano la necessità di cercare risposte a fondamentali domande esistenziali. Questi uomini, riunitisi insieme, realizzarono il loro intento mediante la ricerca spirituale, utilizzando simbolicamente gli utensili dell’arte
muratoria. Si tratta di un tipo di ricerca che si svolgeva, e si svolge tuttora, in ambito esoterico e permette di stabilire un legame con il passato facendoci scoprire principi ed idee che rivivremo individualmente. Abbiamo parlato di esoterismo, un ambito di ricerca all’interno di quelle situazioni che vengono indicate come esoteriche. Se volessimo definirlo meglio, potremmo dire che si tratta di quell’insieme di situazioni qualificate come esoteriche di fronte alle quali si vengono a trovare gli iniziati. Questo è infatti lo stato in cui si trovano coloro che sono stati introdotti all’uso di parrti-
colari strumenti che consentono di praticare il lavoro speculativo. Come abbiamo già avuto modo di scrivere, l’esoterismo non identifica uno specifico metodo di ricerca, è invece il metodo di ricerca ad essere esoterico nel momento in cui viene utilizzato nell’am-
Tradizione bito della metafisica. L’Istituzione massonica può e vuole fornire la chiave di accesso ad un mondo spirituale in cui i valori etici universali abbiano significato, quegli stessi valori che la Tradizione ha perpetuato. La Massoneria è al servizio di tutti, lavora per il bene dell’umanità ed è pienamente consapevole della responsabilità etica e morale che investe gli uomini del terzo millennio. Stiamo parlando di quel “bene” che Aristotele definì “ciò verso cui ogni cosa per natura tende ed in una costante evoluzione cerca di raggiungere un fine superiore alla posizione in cui si trova, quello che è naturalmente suo”. Se tutti indistamente assumeremo, con coscienza vigile ed attenta, questo atteggiamento mentale nel corso della nostra vita, non dissiperemo i valori dello Spirito che la tradizione ci ha tramandato e che ci aiuteranno ad essere sempre più solidali con i nostri simili, e più sensibili ai loro problemi. Il solenne impegno che ogni Libero Muratore ha assunto nei confronti di se stesso e del mondo rimane pienamente valido ed attuale, ed egli oggi lo rinnova, ripetendo che “Opererà per il bene dell’Umanità e alla Gloria del Grande Architetto dell’Universo.” Così il cammino verso la spiritualità più pura continua e continuerà fino al momento in cui sentiremo “ quel vivido piccolo fuoco che arde in tutti noi, ma che vive solo quando raggiungiamo la perfezione”. P.80-81: Rovine di età imperiale a Leptis Magna, Libia.
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U Simbolismo
I simboli fra scienza e tradizione iniziatica Paolo Maggi
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no degli argomenti più affascinanti e originali che ci riserva lo studio della tradizione iniziatica sono i simboli. I simboli, questi sconosciuti. Sono un argomento sempre poco (e male) affrontato nei consueti percorsi della cultura dominante. Eppure hanno un potere comunicativo ed una capacità di stimolo intellettuale di impressionante efficacia. Il simbolo non utilizza la razionalità come unica modalità di pensiero, né si serve del linguaggio verbale come unico tramite di espressione, ma utilizza un meccanismo di pensiero che è insieme razionale e sovrarazionale e un linguaggio che è insieme verbale ed extraverbale. Grazie a questa capacità di coinvolgere differenti modalità di pensiero e di comunicazione, il linguaggio dei simboli veicola intuizioni profonde e risveglia piani di coscienza consuetamente dormienti. Il simbolo è davvero un universo degno di grande attenzione. Ma anche tra i suoi appassionati non mancano polemiche: come va interpretato il simbolo? L’interpretazione dei simboli è libera e soggettiva nella cultura iniziatica? E dobbiamo considerare degne di rispetto (se non addirittura sacre) tutte le possibili letture di un simbolo? È legittimo, qualcuno si domanda, avere un atteggiamento relativistico e persino oggettivistico nell’ interpretazione del simbolismo? O esistono tradizioni e competenze sui simboli che non si possono bellamente ignorare e che, dunque devono fungere da guida nella loro lettura? Per tentare di rispondere a tali domande non è sbagliato rivolgersi a chi ha affrontato questo argomento in modo scientifico. Forse l’uomo di scienza che più ha approfondito lo studio dei simboli è stato Carl Gustav Jung. La sua elegante ed affascinante teoria dei simboli, formulata nei primi anni del secolo scorso, è quella che più di ogni altra resiste alla prova del tempo. Jung si è imbattuto nei simboli quasi per caso, nel corso dei suoi studi sui sogni. Si dice che un giorno un suo paziente gli raccontò di aver visto in sogno una cattedrale in cui, in fondo ad un pozzo profondo, un dragone faceva la guardia ad una coppa d’oro che conteneva le chiavi della città. Jung, a questo racconto ebbe un sussulto: proprio qualche giorno pri-
ma, in un manoscritto medievale, aveva letto di una visione del tutto simile al sogno del suo paziente. Era da escludere che il malato conoscesse il contenuto dello scritto medievale. Allora come si spiegava questa coincidenza? Jung fece un’ipotesi: forse gli stessi simboli possono manifestarsi nell’uomo in tempi e luoghi completamente diversi. Il medico doveva dimostrare questa ipotesi e, per farlo, iniziò a studiare i simboli, i miti, le leggende e i riti di ogni epoca e tradizione culturale. E iniziò dalle fonti più antiche: visitò il Marocco, l’India, il Kenia, l’Uganda, ma anche gli Stati Uniti, alla ricerca della cultura degli indiani Pueblos nel Nuovo Messico. Poi approfondì la storia delle religioni e l’occultismo. E scoprì che la mente umana ha creato in ogni tempo e in ogni luogo gli stessi simboli. Secondo Jung nei miti, nelle leggende e nelle fiabe di ogni tempo e di ogni cultura, indipendentemente dal luogo di provenienza, ricorrono costantemente temi e immagini dominanti. Queste stesse immagini riaffiorano anche nei sogni, nelle fantasie e nelle allucinazioni dei pazienti. Jung sostiene che, come il corpo umano si è evoluto nei millenni adattandosi alle necessità imposte dall’ambiente esterno, così la nostra psiche si è costruita nel tempo. Dunque, esplorando l’inconscio si possono trovare tracce del suo lontano passato, delle sue radici. Queste tracce sono i simboli. Essi rappresentano i mattoni costitutivi della nostra psiche e, contemporaneamente il suo linguaggio, quello con cui l’inconscio prova a comunicare con la mente razionale, a volte senza riuscirci. Questo patrimonio comune di simboli, che lui chiama archetipi (letteralmente impronte originarie) da sempre, fanno parte della nostra psiche. Essi costituiscono quello che egli definisce l’inconscio collettivo, perché sono un patrimonio comune dell’uomo.
durante l’esecuzione dell’esperimento chimico, l’adepto viveva certe esperienze che gli apparivano come un comportamento particolare del processo chimico... Ma ciò di cui viveva l’esperienza
Simbolismo
In ogni tempo e in ogni cultura troviamo simbologie simili: il sole è benefico o distruttore, la madre è generatrice di vita ma anche portatrice di morte, l’eroe solare sale allo zenit per ridiscendere nel buio e poi risorgere in un continuo alternarsi di speranza e timori. In quest’ottica Jung affronta in modo sistematico anche lo studio dell’alchimia. Egli dimostra che i simboli utilizzati dagli alchimisti coincidono con il simbolismo dell’inconscio. E conclude che i simboli alchemici altro non sono che archetipi, esperienze del nostro inconscio antichissime ed universali, nei quali l’alchimista era inciampato e che proiettava sui fenomeni della natura da lui osservati ed utilizzava per descriverli. In sostanza, per Jung, l’alchimista, proiettando la propria psiche sulla materia su cui lavorava, cercava inconsapevolmente di raggiungere la sua unità interiore. “Tendo perciò a supporre che l’effettiva radice dell’alchimia non vada ricercata tanto nelle concezioni filosofiche, quanto nelle esperienze di proiezione dei singoli indagatori. Con ciò intendo dire che
era in realtà il suo inconscio”. In realtà egli estende il suo giudizio a molta parte della scienza antica, soprattutto l’astrologia: “L’astrologia è un’esperienza primordiale simile all’alchimia. Tali proiezioni si ripetono sempre dove l’uomo tenta di esplorare una vuota oscurità e la riempie di figurazioni vive”. Inoltre, analizzando i parallelismi fra i simboli alchemici e quelli delle diverse religioni, egli osserva che l’alchimia condivide una serie di simboli appartenenti a religioni le più diverse, poiché anche il simbolismo religioso utilizzerebbe archetipi innati provenienti dall’inconscio. “Benché le forme d’esperienza individuali siano d’una molteplicità infinita, pure esse si muovono, come anche il simbolismo alchimistico dimostra, attorno a certi tipi centrali che sono universalmente presenti. Intendo riferirmi a quelle immagini primordiali alle quali le confessioni religiose attingono la loro verità, di volta in volta assoluta”. Insomma, per Jung, i simboli sono già dentro di noi, sono la modalità di espressione del nostro inconscio. Sono un linguaggio antichissimo e universale, prodottosi lentamente nel tempo, durante l’evoluzione della psiche. Per dirla con le sue parole sono “forme presenti universalmente ed ereditate che nella loro totalità costituiscono la struttura dell’inconscio”. Il simbolo junghiano è una chiave di volta fondamentale perché è il tramite fra inconscio e coscienza, ma è anche il collegamento fra mondo interno e mondo esterno dell’individuo. Ed infine è il punto di incontro tra l’inconscio individuale e l’inconscio collettivo. Le antiche
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culture hanno poi utilizzato gli archetipi per produrre i miti che altro non sono che l’esperienza di un popolo, reinterpretata alla luce dei simboli. Questi concetti sembrano difficili da spiegare, ma possono essere facilmente compresi con un esempio che Jung ci propone nella sua opera “I simboli della trasformazione”. Egli ci descrive una danza eseguita in primavera dalla tribù australiana dei Wakandi intorno ad una buca scavata nel terreno e modellata in modo da imitare i genitali femminili. I guerrieri danzano intorno a questa fossa per tutta la notte tenendo le lance erette dinanzi a sé e conficcandole nella buca. In questo incantesimo di primavera è chiara l’ evocazione sessuale. Ma si tratta solo dell’aspetto apparente del cerimoniale. In realtà l’intera cerimonia è un rituale magico di fecondazione della terra. Il linguaggio del simbolo e del rito hanno permesso di incanalare l’energia che proviene da un istinto sessuale in un progetto culturale collettivo: quello di rendere fecondo il raccolto della propria terra. “Il segreto dell’evoluzione della cultura sta nella mobilità e nella dislo-
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cabilità dell’energia psichica” dice Jung. Ma se l’energia psichica può essere dislocata e utilizzata per un progetto, questo si deve alla potenza del simbolo e del rito. Lo studio degli archetipi ci porta inevitabilmente a parlare di inconscio. Jung ha una originalissima idea dell’inconscio: potremmo paragonarlo a un albero che affonda le sue radici nella parte più istintiva, primordiale, animalesca del nostro io, ma le cui chiome si innalzano fino a toccare le vette del divino: “Come la psiche si perde in basso nella base organico materiale, così essa trapassa in alto in una forma cosiddetta spirituale, la cui natura ci è poco nota come ci è poco nota la base organica dell’istinto”. L’inconscio di Jung, che egli identifica con il concetto di anima, è un universo magmatico, privo di polarità dove coesistono indistinti il maschile e il femminile, il bene e il male, l’istinto animale e la pulsione al sacro. L’inconscio è un’enorme fonte di energia e vitalità da cui la nostra mente può attingere forza, ma che ci può anche creare parecchi problemi. Infatti questo nostro lato oscuro della luna è costretto ad una
scomoda convivenza con un altro inquilino anche più ingombrante di lui: il nostro io razionale, quell’insieme di costumi e di valori sociali e culturali con cui la famiglia e la società ci hanno plasmato dalla nascita. L’anima e la razionalità, le due facce della nostra luna interiore, sono spesso in conflitto tra loro e la loro guerra genera disagio psichico e, a volte, malattia mentale. L’uomo, per Jung, deve darsi un obiettivo: riuscire a plasmare una propria autonoma personalità in cui la faccia luminosa e quella oscura del nostro pianeta interiore convivano in armonia. Questo è possibile solo se si è disposti ad esplorare il nostro inconscio, a imparare a conoscerlo e a portarlo alla luce del sole. Insomma, per plasmare la nostra personalità dobbiamo far dialogare inconscio e razionalità. Questo processo è definito da Jung come percorso individuativo, forse l’unica cosa, ci dice il grande medico svizzero, per cui la vita vale la pena di essere vissuta. Ma perché la ragione possa immergersi in questo viaggio nel profondo di noi stessi è necessario conoscere il linguaggio con cui l’anima si esprime.
Simbolismo
Questo linguaggio è, appunto, fatto di simboli. Noi dobbiamo essere capaci di leggerli e di interpretarli. In questo consiste il dialogo con il nostro inconscio. Di questa materia è fatto in sostanza, il percorso individuativo. La teoria di Jung resta tuttora la più completa e articolata analisi dei simboli mai prodotta. Certo, anch’essa ha dei limiti. Qualcuno potrebbe obiettare, ricordandosi della critica che muove Popper alla psicanalisi, che questa non è vera scienza, perché non può essere sottoposta alla prova della falsificabiità. Personalmente ho invece sempre pensato che un limite della teoria di Jung è quello di pensare che gli alchimisti si siano imbattuti casualmente nell’uso dei simboli per tracciare il loro percorso iniziatico. Credo invece che essi sapessero benissimo cosa stavano facendo e che, in generale, sottovalutare la consapevolezza delle tradizioni iniziatiche nell’uso del loro linguaggio sia un errore. Tuttavia, nonostante queste e altre critiche che si possono sollevare, le teorie di Jung ci possono aiutare a trovare molte risposte alle nostre domande iniziali.
Dunque, se il simbolo è il linguaggio con cui il nostro io inconscio è in grado di comunicare con la parte razionale di noi stessi, è evidente che dobbiamo accettare un ampio margine di libertà interpretativa: il simbolo perde la sua efficacia comunicativa solo nel momento in cui smette di parlarci. Fino a quel momento è legittimo prendere in considerazione qualsiasi messaggio egli veicoli alla sfera razionale della nostra mente. Ma allora, come dobbiamo considerare, in quest’ottica, l’immensa eredità che ci proviene dalla tradizione iniziatica? La competenza sul linguaggio dei simboli che la tradizione possiede è una bibliografia di valore inestimabile da cui poter attingere a piene mani. Il patrimonio di esperienza che le culture iniziatiche ci tramandano può orientarci nell’imparare a leggere e ad utilizzare al meglio il linguaggio simbolico. Molti anni fa, a proposito dell’interpretazione dei simboli, Umberto Eco scrisse un aneddoto che, per quante ricerche abbia fatto, non sono più riuscito a rintracciare, ma che diceva pressappoco così: tre esperti sommelier assaggiavano del vino
da una botte. Il primo diceva: “io sento un aroma di legno di sandalo”. Il secondo: per me ha un retrogusto di pesca”. Il terzo: “io avverto un sentore di mandorla”. Non riuscendo a mettersi d’accordo decisero di svuotare la botte ed esplorare il suo interno. Trovarono la suola di un sandalo e il nocciolo di un’albicocca, ma della mandorla nessuna traccia. Il simbolo non è come quella botte. Nessuno potrà mai guardarci dentro e darci il suo vero significato: funzionerà finché sarà in grado di trasmetterci sensazioni. O finché noi riusciremo ad assaporarle. ______________ Bibliografia: Michele Gauquelin Come Jung vedeva l’Uomo in Pianeta n. 3, Firenze luglio-agosto 1964, pag. 32. C.G. Jung. Psicologia e alchimia. Traduzione di R. Bazlen, rivista da L. Baruffi. Torino 1995. C.G. Jung Simboli della trasformazione, Torino, 1970, pag. 237. C.G. Jung, La dinamica dell’inconscio, Torino, 1976, pag. 202. P.82: Il labirinto di Pontremoli (foto P.Del Freo); p.83: Ritratto di C.G.Jung; p.84-85: Infinity road, Australia, 2009, coll. priv.
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Esoterismo
Esoterismo ed alchimia nella ‘pietra’ La facciata occidentale di Notre Dame de Paris Gerardina Laudato
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itagliarono uno spazio, lo resero sanctus (l’espressione latina sancire significa fissare solennemente - rendere inviolabile); ne fecero copia di un archetipo celeste e simbolo di trasmutazione; lo resero imago mundi, materia, spazio e luce che contengono e rappresentano il mondo sublunare organizzandolo a misura del cosmo. Furono le corporazioni di maestri costruttori altrimenti noti come Figli di Salomone o di Maitre Jacques, eredi di antiche conoscenze conservate nel fiume carsico di saperi millenari. Nello straordinario athanor che è la basilica di Notre Dame de Paris, sotto il favorevole auspicio della stella a cinque punte, inscritta modularmente nei timpani della sua facciata restando visibile solo a coloro che vedono con gli stessi occhi dei Maestri Muratori medioevali, si innalzano i portali ornati da raffigurazio-
ni in basso ed altorilievo possentemente strombati, per il mezzo di sette arcate digradanti verso gli immensi timpani il cui corredo scultoreo fissa le storie denominanti i singoli portali della facciata occidentale: Portale del Giudizio (centrale), portale della Vergine (lato nord o sinistro), portale di Sant’Anna (lato sud o destro). La fascia dello stilobate, sottostante agli altorilievi degli Apostoli, disposti sei per parte, lateralmente al portale del Giudizio, vede svilupparsi una serie di ventiquattro medaglioni, dodici per parte ordinati su due file di sei, che sono memoria ermetica pietrificata. Ogni fase dell’Opus, tutta l’eredità della tradizione, è narrata per simboli divenendo guida iniziatica capace di indirizzare verso percorsi di conoscenza utili a soddisfare la brama eterna dell’uomo teso a comprendere per elevarsi, a subli-
mare la materia pesante per fondersi con l’Uno. Trova perfetta attuazione il pensiero di quell’abate Suger che, reinterpretando l’antico pensiero medio e neoplatonico sulla metafisica della luce di Plotino e dello Pseudo-Dionigi, intendeva la bellezza artistica come un mezzo di
Esoterismo ascesa dal mondo materiale a quello immateriale, alla vera luce che è Dio. L’intervento “magico” di trasmutazione che l’uomo è in grado di realizzare, attraverso gradi di consapevolezza e di elevazione sempre più eccelsi, genera un processo atto a trasformare la materia rendendola idonea ad accogliere e restituire l’essenza luminosa. È la sintesi, perciò, di un procedimento anagogico di avvicinamento all’essenza divina capace di “far sorgere lo spirito cieco verso la luce” come spiega Suger o, di divenire strumento fondamentale per ascendere lungo “... l’ardua salita che conduce alle cime della contemplazione” per citare Bernardo di Chiaravalle. Salta subito agli occhi la profonda analogia tra le direttrici di pensiero ed azione, capisaldi del metodo iniziatico, ed i meccanismi di conoscenza trasferiti in una poetica che si rifà alla metafisica della luce, sottesa a tutta l’arte gotica dove il segno, la forma, divengono strumenti visibili dell’azione di scoperta intellettuale e spirituale di discesa nell’interiorità e disvelamento contemplativo del divino. Ritorniamo a Notre Dame de Paris e rileggiamone qualche nota, sfogliando insieme qualche pagina di quel meraviglioso poema epico dell’umanità che si dispiega attraverso i rilievi di una pietra ammorbidita ed estenuata dal tempo. Il portale maggiore, detto del Giudizio, reca una serie di allegorie riferite ai saperi medioevali. Il posto privilegiato è riservato ad un bassorilievo posto sul pilastro di mezzo fra le due porte d’accesso alla cattedrale. Fulcanelli, nel suo scritto, I Misteri delle Cattedrali la denomina L’alchimia (tav.II). Raffigurazione possentemente simbolica della Mater-materia, hyle da cui tutto origina, centro generatore di vita, alma Venus lucreziana, Afrodite delle messi, Iside, Ishtar, Maria, eterna Virgo dai mille nomi, albero della vita radicato sulla
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Esoterismo
terra e collegato ai cieli nel cui troncoseno si generano le molteplici trasformazioni. Assisa su un trono, impugna con la sinistra lo scettro del dominio che ordina, genera e controlla mentre la mano destra stringe un libro chiuso (esoterismo) ed uno aperto (essoterismo). Fra le ginocchia regge una scala, fatta di nove gradini, che si innalza fino al suo petto; è la scala dei filosofi, di coloro, cioè, che, pazientemente, sono in grado di salire i nove gradini del lavoro ermetico. Sulle facce laterali dei contrafforti la pietra dei pilastri, erosa da traversie naturali o da umana insipienza, conserva, racchiusi in ogive, uno a destra e l’altro a sinistra, due bassorilievi esemplari per comprendere l’intrapresa ed il possesso
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dell’iter alchemico. Ecco il tronco cavo di quercia e la sorgente argentea della fontana occulta da un lato, e, dall’altro, l’athanor, che un cavaliere, protetto da armatura e scudo forgiati al fuoco costante della silente ricerca, difende con una lancia capace di contrastare la distruzione. E così, nella fascia narrativa dello stilobate che corre lungo l’intero porticato occidentale, in un susseguirsi e reiterarsi senza posa di allegorie ermetiche scolpite negli estradossi e nei medaglioni, si snodano le simbologie del processo alchemico, dalla preparazione del dissolvente universale al coronamento della Grande Opera. Il corvo e il cane, le colombe, significanti il mercurio che passa dallo stato di ma-
teria pesante a quello di sostanza sublimata, e l’agnello, l’athanor e la pietra (tav. XII), la dissoluzione e l’evoluzione, il corpo fisso e l’unione del Fisso e del Volatile, la Distillazione ripetuta. Non c’è fase del magico processo ermetico di trasmutazione, dal vile al nobile, che non sia simbolicamente narrato. In uno degli estradossi fra le arcatelle delle nicchie, la rappresentazione plasticamente vigorosa dell’ “uomo voltato” segno della retorta distillatio che “... traduce al meglio l’apoftegma alchemico solve et coagula che insegna a realizzare la conversione degli elementi volatilizzando il fisso e fissando il volatile” (Fulcanelli, Il mistero delle Cattedrali, p.181). Ecco la “magia” della trasmutazione al-
chemica. Ecco l’Essere che ha saputo dare le ali all’anima macerando la propria essenza e conferendo silente forza alla flamma non urens, al fuoco interiore sottile ed occulto. Ecco l’Essere che non ha mai smesso di perseverare ed umilmente ha potuto raggiungere “... la dimora di coloro che sono e non divengono, la Cittadella degli Svegliati, il luogo senza confini.” Per far risorgere il vivo occorre che il morto muoia. Occorre svegliarsi dal sonno generatore di mostri, liberarsi dalle catene che appesantiscono l’anima. Est opus occultum veri sophi aperire terram ut germinet salutem pro populo (È opera occulta del vero saggio aprire la terra affinché generi salvezza per il popolo), è scritto sul gradino della porta Ermetica del Palombara nell’epigrafe finale del viaggio ermetico. La “terra” è la stessa della Tavola di Smeraldo, utero accogliente e fecondo del Telesma, è quella che i figli di Ermete recitavano all’inizio delle sacre operazioni alchemiche: “Universo sii attento alla mia preghiera! Terra, apriti! Che la massa delle acque mi si apra! Alberi, non tremate. Che il cielo si apra e i venti tacciano! Che tutte le facoltà in me celebrino il Tutto e l’Uno” (Corpus Hermeticum, XIII, XVIII) È il gremium matris terrae del vitriol, l’acrostico che Basilio Valentino esplicita in Visita Interiora Terrae (corpo) Rectificando Invenies Occultum Lapidem. È l’ambula ab intra del De Pharmaco Chatolico di Agrippa, l’intrapresa del percorso sacrale che iniziammo quando, per la prima volta, entrando nel gabinetto delle riflessioni, si profilò ai nostri occhi il lucore speculare dell’ombra di noi stessi. Ciascuno di noi, accedendo ai diversi livelli di comprensione della conoscenza, scrutando i baratri delle proprie tenebre, può generare la luce che esse contengono. Da novello Giasone scalzo di un sandalo, può trasmutarsi in rinnovato Ercole che, ucciso il drago, custode del giardino delle Esperidi, può penetrare nell’hortus conclusus e cogliere i pomi dorati della conoscenza. “Più si avrà la conoscenza di se stessi più si acquisterà potere attrattivo e
si compiranno cose grandi e meravigliose” così scriveva nel IV sec. d.C. l’iniziato alchimista Zosimo di Panopoli, riecheggiando i temi dell’ermetico Poimandres. Zosimo fa riferimento all’Agatodaimon, lo spirito buono nascosto nell’anima. L’iniziato che intraprende l’Opus può ottenerne la resurrezione trasmutando il metallo, “l’anima” di cui è formato. Zosimo usa il termine “metallo” per indicare l’anima nel suo stato grezzo, reso impuro dalla mescolanza con la materia.
La radice del termine è metà allos (“verso qualcosa” – “che va oltre se stesso”). Dobbiamo perciò intendere l’espressione riferendola a ciò che, in noi, può trasformarsi in qualcosa d’altro, in un passaggio ad uno stato più nobile della mente e dei suoi processi. Visitando e scendendo nella propria interiorità si può trovare qualcosa, la propria pietra o metallo che solo l’iniziato potrà lavorare e sagomare per cercare e trovare ciò che vuole diventare. Potrà farlo dopo essersi disgregato, purificato (solve) dalla nigredo delle varie forme di quelli che Bacone chiama idola, dopo aver scorto l’alba pregna di claritudine ed intravisto la possibilità di accesso all’orizzonte di luce (albedo) che gli farà vincere la morte, realizzare l’oro filoso-
fale, sublimando il suo essere in spirito capace di volare (rubedo - coagula). Dinanzi all’iniziato, dotato di ali pronte per innalzarsi, è preparata la scala e la ruota, le doghe di quercia sono pronte per costruire l’athanor che accoglierà l’aludel ed il lento processo di trasmutazione; sono
Esoterismo anche pronti gli strumenti per intraprendere, con rinsaldata consapevolezza, l’opera di ricerca dell’Essere e della Verità (nel linguaggio copto la parola Ermes deriva dalla radice Er: Essere, Meth: Verità). Muoviamo i nostri passi, uomini di speranza, verso l’Oriente coscienti della dimensione tragica della nostra limitatezza, ma integri nella nostra volontà silente di pervenire alla meta. Al capitolo LVI del Tao Te Ching, il Libro della vita e della virtù, è scritto “... tappare la bocca/ chiudere la porta/ smussare il taglio/ dipanare il disordine/ armonizzare la luce/ mescolarsi alla polvere/ questo si chiama somiglianza al buio/ ... perciò si è visibili al mondo” (p.21). Sostiamo fra il visibile e l’invisibile bevendo al calice dei nostri antenati, temprandoci con gli strumenti dell’obbedienza e della lealtà fedele, facendoci noi medesimi athanor dove si compie e si rinnova la magia silenziosa e tenace del solve et coagula. ________________ Bibliografia: M.Eliade, Il sacro e il profano, Torino, 1973. H.M.Jackson, Zosimos of Panopolis, on the Letter Omega. Texts and translations, Missoula, 1978. Zosimo di Panopoli, Visioni e risvegli, A.Tonelli (a cura di), Milano, 2004. R.Wagner, Religione e arte, Genova, 1987. G.Durand, Le strutture antropologiche dell’ immaginario, Bari, 1991. M.Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino, 1972. Fulcanelli, Il mistero delle Cattedrali, Roma, 2005. Raphael, Il Fuoco dei filosofi. Risveglio a verità tradizionali, Roma, 1997. Ermete Trismegisto, Corpus Hermeticum, G. Vatri (a cura di), Cosenza, 2000. P.82: Lato Ovest della cattedrale di Notre dame de paris, part. della fascia detta ‘degli Apostoli’; p.87: Partic. della foto precedente, vd. testo (G.Laudato); p.88: Notre Dame, veduta verso E; p.89: L’Artista/Alchimista difende l’Athanor (82 e 89 foto P.Del Freo).
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Filoso–a
Alla ricerca del tempo ritrovato Anna Giacomini
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Filoso–a
L
a situazione del mondo ci direbbe che possiamo solo curare le cose recenti pignorando tutto il portato della tradizione. Però anzi, meraviglia delle meraviglie, un nuovo intellettuale tende a negare e a ignorare il valore delle cose fatte nel passato, e che rappresentano per contro un punto di riferimento per lo sviluppo intellettuale futuro. Noi siamo di un’origine in generale cattolicheggiante; il nostro stile, la nostra personalità è spesso condizionata da questa caratteristica. Che noi condividiamo o no il sistema religioso, tuttavia alla fin fine si tratta di ciò che sta alla base dello stile sociale, e quello prevede dei punti inalienabili. Tra i punti inalienabili che abbiamo il dovere di coltivare e ridistribuire nuovamente abbiamo il concetto di rispetto reciproco, che a sua volta poi deriva dall’uguaglianza. La felicità del concetto di reciprocità e di eguaglianza si può reperire in mille at-
teggiamenti, che rendono l’uomo contemporaneo più maturo e saggio di altri. Non è vero infatti che l’uomo mangi un altro uomo: se accendiamo le televisioni ci accorgiamo che ci sono numerosissimi casi di associazioni benefiche, di volontariato, di sostegno, che hanno la finalità di promuovere campagne di aiuti; e allora, dov’è l’uomo che mangia l’altro uomo? Tutte queste attività anni fa non sfioravano la mente di nessuno. Ora invece stiamo facendo cose assolutamente gratuite, il che è un segnale fondamentale. Accanto a queste persone, che sono molte, prosperano poi i medici, che hanno preso sulle loro spalle problemi gravissimi, di solito e prima di oggi destinati a esiti infausti. Tutto questo non si può certo dire che appartenga al mondo dei nullafacenti o degli indifferenti. Eppure noi seguitiamo a lamentarci, a chiederci dove arriveremo senza valori. Senza valori ci accorgiamo che non è tutta la società. Ai senza valori si deve
dare un attributo che collochi la mentalità di questa psicologia in un mondo in cui i cosiddetti valori sono stati selezionati - forse anche si potrebbe dire “ripuliti” - e resi apparentemente logici rispetto ai gruppi di pensiero che non fanno altro che esaltare egoismi, sciocche interpretazioni del senso di libertà, presunzioni. Se passeggiando sotto i cipressi come amava fare il fratello Ugo, la nostra mente si lascia toccare da uno stato di malinconia, possiamo senz’altro considerarci persone salvabili. È attraverso i sottili meccanismi dell’avvicendarsi di questo curioso e insolito dolore, che l’essere umano acculturato si accorge nella sua meditazione - ma non solo – che tutto diventa una prova, ed anche tutto ciò che prova non sarà mai, tutto diventa un momento significativo e di crescita spirituale. P.90: Val d’Orcia, giardino all’Italiana, coll. privata (foto P.Del Freo); p.91: Toscana, panorama aereo.
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Botanica
Il paradigma del larice Clizia Gallarotti
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vunque tu sia nato, c’è qualcosa della natura che a ritrovarlo ti riporta intatte sensazioni dell’infanzia: un odore, una pianta, una pietra levigata o ruvida; può essere l’odore della terra – di quella terra – dopo la pioggia, o il verde più brillante di una chiazza di muschio; la brina che disegna perfezioni insospettate su oggetti banali in un mattino ancora incerto, tra la luce degli ultimi lampioni di periferia e un’alba faticosa di lavoro invernale; la foschia impalpabile di certe estati di pianura, o la nebbia improvvisa e fredda di altre estati in montagna; l’odore del salso camminando sulla sabbia bagnata e pesante dopo la tempesta del mare tra legni, sporcizia da indagare e qualche guizzo del lucore di un’alga non ancora morta; il calore persistente di pietre antiche di città, ancora a notte fonda dopo una canicola, o un profumo di tiglio che ti fa ricordare la fine della scuola, come i viali tappezzati di foglie di ippocastano e ricci rugginosi ti riportano alle mille aspettative di un anno da cominciare. La natura entra nella nostra vita a dirci ogni momento che ne facciamo parte in modo inscindibile, con molti e molti messaggi a guidarci
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nel nostro arbitrio: è sufficiente dar spazio all’intuizione. E invece stanno succedendo cose apocalittiche senza che il mondo si scomponga, ipnotizzati tutti in una sorta di assuefazione che non so dire se sia sopravvenuta incapacità di indignarsi, indifferenza, rassegnazione o cos’altro. Ma quel che è peggio, è la sensazione che le persone, individualmente, non si sforzino di fare la loro piccola parte, quelle famose gocce nel mare senza le quali però il mare non esisterebbe. Ogni tanto leggiamo l’incitamento di Gandhi: “sii il cambiamento che vuoi veder avvenire nel mondo”. Egli ci ha ben dimostrato che intendeva innanzi tutto nelle piccole cose! Il pozzo Macondo nel Golfo del Messico ha sversato in mare milioni di grezzo dal 20 aprile (nel nome un destino? Quel Macondo di Aureliano Buendìa... L’ultimo Aureliano, figlio di Aureliano Babilonia e Amaranta Ursula, nasce con coda di maiale, come predetto da Ursula, e il padre lo trova morto il giorno successivo alla nascita. Sembra quasi una cupa predizione per la specie umana). Contemporaneamente la medesima British Petroleum ha fieramente annunciato che in tempi brevissimi inizierà le trivellazioni al largo della Libia
– con la quale vantiamo relazioni tanto amichevoli - a 500 km dalle coste della Sicilia, di Lampedusa, di Pantelleria. E pare che nessuno abbia alcunchè da obiettare. I nostri mari nascondono tonnellate di barili di veleni; le mafie di tutto il mondo considerano quello degli smaltimenti il più grande business di frodo di tutti i tempi, praticandolo sconsideratamente e spudoratamente in modo assassino, e noi non ci diamo neppure la pena di effettuare la raccolta differenziata nelle nostre case, o lo evitiamo non appena nessuno ci vede. Ma non possiamo fare come gli struzzi, abbiamo una promessa che ci impedisce di essere come gli altri, perchè il bene dell’umanità sta anche e innanzi tutto nel bene del nostro piccolo pianeta sempre più piccolo. A volte i figli ci stupiscono con le loro uscite estemporanee, e il mio era piccoletto quando un giorno mi disse a bruciapelo: “mamma, quando sei triste basta che tu vada ad abbracciare un albero, te ne stai lì per un po’ con la guancia e vedrai che ti passa”. Forse a furia di guardare i cartoni di Heidi era suggestionato? Non sapeva che da bambina a Pieve di Cadore lo facevo, col grande faghèr di San Marco a Monte Ricco, luogo delle incursioni da ragazzi-
ni verso la via del forte della prima guerra mondiale, tenebroso e sgretolato, ancora deposito di cimeli tristissimi, ma per noi ricco di anfratti e nascondigli impagabili. Il grande faggio di 600 anni è ancora lì, con i suoi 7 metri di diametro, ma dubito che qualcuno ancora lo abbracci, e si vede: di anno in anno soffre di più, perde forza e linfa, ingiallisce prima su alcuni rami, fa meno ombra, e sotto al tappeto delle sue foglie non cresce più neppure un bucaneve. Perchè se è vero che per me abbracciarlo era consolante, certamente a mia volta il mio abbraccio gli parlava, lo teneva vivo; e bambini che scorrazzano a Monte Ricco non ce ne sono più, tutti in piazza stravaccati sulle panchine, con gli ipod nelle orecchie o a seminare con noncuranza cartacce di figurine per la strada, sputando in terra le loro cicche senza sapore. Mi dico che la riforma scolastica dovrebbe cominciare dall’imporre una tabella a fianco della lavagna: “quanto tempo impiegherà l’ambiente a decomporlo: - gomma americana: 5 anni - scatoletta di metallo: 50 anni - lattina di alluminio: da 20 a 100 anni - mozziconi e sigarette: da 3 mesi a 1 anno - accendino di plastica: 100 anni - bottiglia di vetro: 4000 anni - polistirolo: 1000 anni - card plastificata o telefonica: 1000 anni - sacchetto di plastica: da 100 a 1000 anni - resti di frutta e verdura: da 3 mesi a 6 mesi - pannolini usa e getta: 450 anni - piatti, bicchieri e accessori di plastica: da 100 a 1000 anni - bottiglie di plastica: da 100 a 1000 anni - anelli sigilla-lattine: 450 anni - giornali e quotidiani: da 3 a 6 mesi”. Dovrebbe essere sconvolgente quanto basta per darsi una regolata, ragazzi e genitori, se erano ignari. Talvolta il pensiero segue percorsi tortuosi per ritrovarsi a comporre un disegno consequenziale, ma se lo lasci andare tutto si incastra e tutto si amalgama alla perfezione. Così di albero in albero devo dire del larice: il preferito. Sui Monti Pallidi, nella val Costeana che dal passo Falzarego scende a Cortina, c’era un torrente d’argento in cui abitavano le aguane, creature acquatiche. Ne era regina Marugiana, una bella fanciulla che, essendo figlia di un’aguana e del signore del castello, conosceva le tragedie e le sventure che colpivano gli uomini. Un giorno un principe che passava accanto al torrente s’innamorò, ricambiato, della regina. Lei, tuttavia, esigeva come dono di nozze che per un attimo alme-
no il dolore e il male fossero cancellati dal mondo: un desiderio quasi impossibile da esaudire, se non nel regno dell’Utopia. Si consultarono i saggi del luogo, finché una vecchia aguana disse: «C’è un istante in cui tutto pare fermarsi in una pace irreale: accade ogni secolo, e si ripeterà proprio quest’anno a mezzogiorno in punto nel giorno di San Giovanni Battista». Così fu, che le nozze dei due giovani si celebrarono in un’atmosfera incantata. Due nani industriosi, che vi partecipavano, pensarono di legare tutti i fiori in un gigantesco mazzo grande come un albero, che piantarono in una radura e chiamarono larice. Camminare in un lariceto, in autunno appena inoltrato, senza alcuna mèta, senza alcun bisogno di “tornare”, è una esperienza mistica, fors’anche terapeutica, che ti resta dentro per sempre. Sulle montagne piemontesi, i vecchi sostengono che al primo sole di primavera i rami dei larici mandino un bagliore accecante, quasi si fossero trasformati in raggi solari. Fin dall’antichità il larice è stato considerato come un albero sacro e protettivo. Per i celti i larici erano abitati dagli elfi e dalle fate del bosco che proteggevano
uomini e animali dagli spiriti cattivi. Anche da noi il larice era considerato un albero sacro, e per questo le immagini dei santi e di Cristo venivano appese su tronchi di larice. “Gli Ostíachi, popolo siberiano di ceppo finnico, stanziato a valle di Tobolsk, considerano un’altra specie di
Botanica larice, il Larix sibirica, come l’Albero cosmico che unisce cielo, terra e inferi, e lungo il quale scendono il Sole e la Luna nelle sembianze di uccelli d’oro e d’argento. Anticamente veneravano un boschetto sacro, composto da sette larici dove ogni passante era tenuto a lasciare una freccia. Era uso appendervi anche pelli di animali cacciati quali offerte al dio che nutriva l’universo, simboleggiato da quell’albero. Ma poiché alcuni mariuoli rubavano le offerte, gli Ostíachi decisero di tagliare un tronco e di trasportarlo in un luogo nascosto dove poterono dedicarsi alle loro devozioni senza il timore di furti sacrileghi”. Forse sembra strano, che il larice sia il preferito per una persona nata in montagna, proprio lui che pare il più esile e delicato, il meno resistente, il meno imponente: ma ogni parola per descriverlo e raccontarlo mi par attagliarsi così bene anche al lavoro del bravo Massone! “Il larice (larix decidua) è l’unica conifera a perdere gli aghi in autunno e a trascorrere spoglio l’inverno. Perché? Gli aghi del larice sono teneri, sottili e si piegano facilmente. Al contrario delle altre conifere come abeti e pini, gli aghi del larice non possiedono meccanismi di difesa contro il gelo o il secco, come ad esempio una spessa e isolante cuticola cerosa. Per questo motivo in inverno, durante le giornate di sole, il larice soffrirebbe la così detta ”aridità da gelo”. Succede così: anche in inverno l’acqua evapora attraverso gli aghi. Ma visto che il terreno è gelato, l’albero non riesce ad assorbirne l’acqua. Se il larice avesse gli aghi anche in inverno si seccherebbe. Affinché questo non accada, il larice perde le foglie in autunno”. Noto solo io alcune concordanze con il credo massonico e le modalità di sopravvivenza di un massone nella società civile? Quando non c’è modo di contrastare le intemperie a viso aperto, è bene “adeguarsi” umilmente e lavorare in silenzio per preservare le forze e custodire le tradizioni. Il larice, che è detto “l’al-
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bero del sole”, è capace meglio di qualsiasi altra specie forestale “di svilupparsi dove il suolo è scoperto e, conseguentemente, il sole investe direttamente le chiome; insensibile alla matrice minerale da cui il suolo stesso si è evoluto, si adatta a qualsiasi tipo di suolo purché sia sufficientemen-
Botanica te profondo, e può raggiungere i 50 metri di altezza e 1,5 metri di diametro a petto d’uomo. Pianta di rapido accrescimento, molto longeva, può superare tranquillamente i 400 anni di età, ha una chioma rada e leggera a forma piramidale”... (in Val d’Ultimo, in Sud Tirolo, vi sono tre larici la cui età viene stimata intorno ai 2000 anni!). È molto importante come albero pioniero per preparare la colonizzazione di altre associazioni vegetali o per formare boschi duraturi lì dove gli altri alberi non possono più affermarsi. Ha radici forti e profonde, anche fino a quattro metri, che gli consentono di utilizzare l’acqua che si trova negli strati più profondi del terreno e di resistere alle intemperie... tra i 20 e 30 anni comincia a fiorire... Anche la Massoneria si adatta a qualsia-si humus, cresce e svetta, è longeva oltre la memoria d’uomo, cresce al sole dei suoi buoni princìpi quando le sue “foglie” sono prudenti e sagge, ha radici forti e profonde, resiste alle intemperie, il desiderio di abbracciarla arriva con la maturità... Il mio conterraneo Danilo De Martin scrive: “Nessun essere vivente al mondo riesce ad ascoltarti come sa fare un larice. Quando la vita diventa confusa ed opaca, quando la mente ingrigisce e senti il bisogno di fermarti, per riflettere e “riprendere la giusta via”, la semplice compagnia di questa grande conifera infonde una serenità senza eguali. Un larice non può parlarti, ma ti sospinge verso le verità che covi dentro te stesso e che la tua paura non ti fa trovare, ti aiuta ad alzare la testa, a delineare i contorni dei tuoi dubbi, a diradare la nebbia delle incertezze. E lo fa creando con la sua chioma, attorno a te, un ambiente magico, uno spazio di aria e luce che riempie, con lenti respiri, la tua anima esausta, donandole nuovo vigore. Quando, coricato ai suoi piedi, guardi verso il cielo, i tuoi occhi restano incantati dai continui, ritmici e tuttavia fievoli bagliori di luce che filtrano fra i suoi rami penduli, coronati da mille ciuf-
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fetti di foglie. Così, quando il vento soffia, vedi ondeggiare il grosso ed elastico fusto, mentre i rametti lassù in alto danzano, creando una pioggia di stelle luccicanti che ti cadono dentro, scintille di luce che riverberano nella lanterna del tuo cuore. Quando poi ti alzi e te ne vai sommessamente, appena prima che sfugga alla tua vista, ti volgi verso il suo luminoso ed elegante profilo per un ultimo breve saluto, colmo di gratitudine, perché hai netta la percezione di essere migliore di prima. E’ questo che fa grande il Larice, è questa sua straordinaria capacità di infondere pace interiore e serenità”. Ebbene, è la descrizione perfetta per dire quel che trovo, e auguro agli altri di trovare, nella pratica massonica. Ma non basta che il bosco sotto ai larici, macchiato di eriche, sia più soffice grazie ai suoi aghi caduti, e non basta la poesia dei suoi colori in autunno, quando i suoi rossi fiammeggiano tra le altre conifere, e neppure basta il verde tenerissimo che mostra in primavera quando rigermoglia, diverso da ogni altra pianta intorno. Il larice è speciale! Come tutti gli abitanti di questo piccolo pianeta, è qui per fare la sua parte, come dobbiamo fare noi per avere cura della
Terra; per ricordarci che non c’è vita senza rispetto reciproco – certo, anche per gli animali e le piante e le pietre! - senza interazione, senza desiderio di migliorare (e non questa imperante disarmante corsa alla distruzione di ogni cosa, siano tradizioni, natura, princìpi). La città di Barcellona ha recentemente votato e bandito la corrida: ebbene, un “filosofo” (ma posso accettare di definirlo così, col titolo di Padri come Socrate e Platone?) - Fernando Savater - ha sentenziato che lui si diverte di più alla corrida che a una partita di calcio, e che “abbiamo doveri etici solo verso gli uomini, non verso gli animali”, argomentando - con parole risibili quanto la sua infantile e preistorica teoria - che “nell’arena va in scena la sfida tra la vita e la morte. L’uomo conosce la morte, l’animale no, quindi non ha diritto a riguardi da parte nostra”; e meno male che ha scritto un libretto che si intitola Etica per un figlio, che pur contiene anche cose ragionevoli! Ma torno al mio larice, che ci si offre con generosità silenziosa. Come una brava cuoca di una volta surclassa con la semplicità la banalità del fast-food e la pretenziosità della nouvelle cuisine, e sa usare tutte le farine e tutte le spezie, conosce ogni taglio delle carni, si ingegna a riciclare gli avanzi con fantasia, cerca utilità in ogni gesto, così cerca di fare il massone, trovando a ogni simbolo un significato nella vita di ogni giorno, trasformando in rito fruttuoso ogni azione anche faticosa, scoprendo una lettura costruttiva anche negli eventi apparentemente ostili; e così è il larice, dall’elegante portamento ottocentesco, nel quale si sposano forma e sostanza: il suo nome proviene dal termine latino lardum (lardo) che si riferiva alla resina dell’albero da cui si ricava la trementina. La resina giallo-dorata del larice viene raccolta fin dai tempi antichi, forando orizzontalmente a circa 20 cm dal suolo il tronco fino a raggiungere il midollo. La trementina, da noi chiamata “lörget”, era un noto rimedio naturale, utilizzata dai contadini come unguento per estrarre le spine di legno dalla pelle e per curare le affezioni delle vie respiratorie e i reumatismi delle mucche. Ancora oggi la trementina di Venezia viene utilizzata nell’industria per la produzione di colle e vernici per il vetro e la porcellana. La resina mescolata con il lardo serviva anche come cera per le scarpe.
In estate trasuda dalle foglie la cosiddetta «manna di Briançon» con la quale le api producono un ottimo miele, mentre dal legno si distilla l’alcol etilico. Il legno è rossiccio, più duro e resistente di quello dell’abete bianco e dell’abete rosso, ed è molto resinoso, perciò è usato nelle costruzioni idrauliche e in edilizia soprattutto per gli esterni. In montagna i tetti delle baite vengono coperti con assicelle in larice dette scàndole. Questo legno resiste molto bene alle intemperie, per cui si dice che un tetto in larice dura in eterno. È impiegato prevalentemente per lavori all’esterno ed a contatto con il suolo ma anche in costruzioni idrauliche, navali e marittime, capriate, solai, pavimenti, abitazioni prefabbricate. Un tempo la corteccia veniva usata per conciare le pelli, che tingeva quasi di nero. Vi sono due qualità di larice all’apparenza uguali ma in realtà un po’ diverse tra loro: gli agiati, piante cresciute su terreno grasso, con comodità e benessere che le rendono leggermente più tenere e malleabili, e quelli che conquistano il diritto all’esistenza su terreni impervi e magri; erano questi i più ricercati, perchè ogni loro centimetro di crescita è figlio del sudore, della fatica di vivere, della stentata corsa agli alimenti. I vecchi cercavano quelli di maggior resistenza e, tolto l’alburno, ne adoperavano solo la parte interna, la rossa, che è indistruttibile”. Mauro Corona, parlando del larice, dipinge con le sue parole: “Per renderli ancora più resistenti alla raspa del tempo, dopo averli tagliati, sempre sul calar della luna, e squadrati, i travi venivano “passati” sopra la fiamma di un fuoco di càrpino. La paura del fuoco, nemico mortale dei legni, e la sua carezza rovente, li faceva ripiegare su se stessi, come a proteggersi dall’attacco. Le fibre si compattavano ulteriormente e il trave bruciacchiato diventava di un colore nerastro come l’ebano e, di colpo, invulnerabile”. Da bambini raccoglievamo qualche goccia di resina e la tenevamo in bocca, un po’ amara ma buona, come fosse una gomma da masticare, attenti a non impegolarci i vestiti perchè non sarebbe più stato possibile pulirli; talvolta ne tenevo in tasca una pallina lasciata un po’ asciugare, così, tanto per avere una piccola riserva profumata o per modellarla ogni tanto riscaldandola. Oggi, in Trentino, esiste un solo raccoglitore di resina,
che nel bosco di Dimaro sotto la sorveglianza della Forestale preleva con amore e accortezza il liquore dalle piante, segnandole con una tacca a triangolo: se il mestiere sopravviverà, generazioni di raccoglitori per due, trecento anni attingeranno da quel larice, aggiungendo la propria firma sulla corteccia e raccontando ai posteri la storia di quella pianta. C’è attenzione nel lavoro del raccoglitore, e amore; non ferisce il larice causandogli dolore, ma si serve solo del necessario provvedendo ad avere la massima cura della pianta: pratica l’incisione tappando subito il taglio con un tampone di legno, ripassa dopo due anni a prelevare la resina, e niente più per almeno dieci anni. Assomiglia al lavoro che noi massoni facciamo su noi stessi e indirettamente su chi abbiamo intorno: apriamo un varco al desiderio di capire, e cerchiamo il risultato nel tempo, con pazienza e rispetto per la nostra e altrui natura. In questo marasma di controesempi, in questa globalizzata schizofrenia che oggi esalta e domani abbatte anche le persone di sano equilibrio, continuiamo noi a fare la nostra parte, mantenendo il nostro aplomb nel rispetto del “grande equilibrio”; puntando in alto senza alterigia, assecondiamo le stagioni con saggezza; con forza affondiamo le radici e cerchiamo luce per i nostri rami; chi vorrà, trova da noi bellezza di ombra e colore. Ora, dopo l’attimo di sospensione di massima luce del solstizio d’estate, entriamo nel tempo del nostro raccolto; per te, Fratello o Profano, il mio augurio: Fermati! Guarda dentro queste crepe, ci si nasconde sempre una sorpresa, un minuscolo fiore giallo acceso, un insetto curioso e titubante, un pezzetto di foglia rinsecchito, una pietruzza verde e misteriosa, un legno che racconta la sua vita, la piuma di un uccello ormai volato, la tua serenità fatta presente. A ben guardare, hai tutto nella crepa della vita che si apre, e apre sempre più a contenere. ______________
Botanica
Bibliografia: - CAI - Agenda 2007, Alberi, le Colonne del Cielo. - Mauro Corona, Le voci del bosco, 1998. - L. Fenaroli, V. Giacomini, La Flora, 1958. - A. Testi, Atlante degli alberi d’Italia, 2000. - F. Senatore, Biologia e botanica farmaceutica, 2004.
P.90, 92, 93: Larice, Gotthardpass (foto P.Del Freo); p.95: La corteccia del larice.
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Letteratura
Luci e ombre del Cavaliere medioevale Paolo Aldo Rossi
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I
l nucleo più consistente della letteratura sul Santo Graal, dalle cronache di Guglielmo di Malmesbury e di Goffredo di Montmouth fino al ciclo del Didot-Perceval, si istalla in modo massiccio tra la fine dell’XI e gli inizi del XIII secolo, in un secolo cioè in cui la civiltà dell’Occidente europeo è sottoposta a profondissime trasformazioni non solo nell’apparato politico e giuridico della Chiesa, ma anche nell’intera Weltangschaung di una società inquieta, costantemente percorsa da un proliferante intreccio di movimenti mistico-religiosi sia ortodossi che eretici. Il “desiderio di Paradiso” rappresenta l’ordito sul quale s’intesse la trama della storia di un secolo in cui la “cavalleria feudale” veste le armi crociate non solo contro gli infedeli, ma anche contro gli eretici, in cui alle mura dei castelli dei signori via via si sostituiscono le torri delle borghesie comunali e la coniuriatio prende il posto dell’homagium, il tempo in cui le università occupano gli spazi culturali ch’erano stati dei monasteri ed una nuova milizia di frati mendicanti percorre l’Europa costruendo speculativamente la “città di Dio” e predicando le virtù evangeliche e nello stesso tempo la lealtà verso la Chiesa, l’epoca in cui l’ Imperatore svevo, l’ultimo perfetto cavaliere che all’atto dell’incoronazione era stato denominato miles Christi, si troverà a soccombere nella lotta contro il Papato e contro il Comuni ed infine, l’età in cui una “turba rusticana” con a capo Arnaldo da Brescia, un riformatore religioso che aveva studiato con Abelardo, tenterà di rimuovere il Papa e i Cardinali dall’Urbe affermando trattarsi “non della Chiesa di Dio, ma di una spelonca di ladri”. La cavalleria si trasforma da profondo ed interiore
modo dell’essere in esteriore forma del vivere, da valore etico a norma giuridica, da fine a mezzo. Il più emblematico degli eroi arturiani, Lancillotto del Lago, afferma: “Sarebbe ben ti-
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Auf einem grüenen achmardî truoc sie den wunsch von paradîs, bêde wurzeln und rîs daz was ein dinc, daze hiez der grâl erden wunsches überwal Su un cuscino di seta color smeraldo la Regina del Graal recava il desiderio di paradiso Radice e germoglio a un tempo Questa era una cosa, chiamata Graal per cui ogni desiderio terreno si eleva Wolfram von Eschenbach Parzifal, 235 (20-24)
mido colui che non osasse ricevere la cavalleria. Ché tutti, se non possono avere le virtù del corpo, possono almeno possedere quelle del cuore. Le prime come la statura, la forza, la beltà, l’uomo le riceve nascendo. Ma la cortesia, la saggezza, l’indulgenza, la lealtà, la prodezza, la generosità, l’arditezza, solo la pigrizia può impedire di possederle, ché esse dipendono dalla volontà. E spesso ho sentito dire che è il cuore che fa il valent’uomo”. Ma dal XII secolo la cavalleria diventa ceto ereditario ed incomincia ad assumere veri e propri contorni di una classe sociale, ricca e potente, che si costruisce una propria intollerante ideologia ed agisce secondo rigide forme rituali. Un ruolo non indifferente, in quest’opera di cristallizzazione, viene giocato dall’apparato ecclesiastico il quale non solo favorì con ogni mezzo la formazione della nuova nobiltà cavalleresca, ma la fornì di ideologie politiche, ne consolidò l’immagine sociale facendola partecipe di quel complesso sistema cerimoniale e rituale da cui è escluso il ‘profano’, le conferì, con il cerimoniale dell’investitura, una specie di dignità sacerdotale e ne fece un ordine religioso. Un mondo andava via via scomparendo lasciandosi dietro una profondissima Sehnsucht, uno struggen-
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te e nostalgico richiamo, che soltanto la letturatura avrebbe saputo raccogliere ed esprimere, non certo una laudatio temporis acti, ma una autentica nostalgia (il dolore della lontananza) per un tempo che diveniva sempre più evanescente tanta più si distanziava il ricordo di quello che era stato il suo universo. Lancillotto è sì il “fiore della cavalleria”, ma come tutti i fiori recisi assume un semplice valore ornamentale e viene assunto come modello formale di un modo di essere che non è più. Nella sterminata letteratura “cortese e cavalleresca” fiorita fra il XII e il XIII secolo, il Parsifal di Wolfram von Eschembach (composto fra il 1200 e il 1210), occupa un posto storicamente e ideologicamente preminente. Ideale continuazione e per-
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fezionamento (sia stilistico che narrativo) del Perceval di Chretien de Troyes (che il principe dei Minnesänger tedeschi riconosce espressamente quale sua fonte primaria), la figura di Parzifal diviene il veicolo ideologico di una nuova cavalleria: quella del “miles” cristiano che la predicazione di San Bernardo aveva indirizzato non più solo ad essere garante e difensore dei deboli, vindice dell’ingiustizia, leale servitore dell’ordinamento feudale, ma fondamentalmente braccio armato dell’ortodossia cattolica contro gli ebrei, i saraceni e ancor più contro gli eretici. Il passaggio dalla “cavalleria terrena” alla “cavalleria celeste” è limpido nel componimento di Wolfram e rimanda inequivocabilmente alla predicazione del grande mistico di Clairvaux.
In sintesi la trama. Parzifal, figlio di un re che aveva offerto la propria vita alla cavalleria terrena, viene “allevato nella selvaggia piana di Soltane, all’oscuro della sua vera origine” e, affinchè non intraprenda la vita del cavaliere, la madre, la regina Herzeloyde, obbliga la sua gente, ormai dedita solo all’agricoltura, a nascondergli ogni sorta di uso cavalleresco. Ma un giorno, nella foresta di Brizlian (la Brocelandia che è teatro di innumeri avventure arturiane), egli incontra quattro cavalieri di Artù, li crede angeli “di figura ancor più luminosa di Dio” ed essi lo informano di tutto quanto gli era stato nascosto riconoscendo che in lui “l’arte di Dio creatore” ne aveva preformato un autentico predestinato alla cavalleria. Non potendolo più trattenere, la madre ricorre allo stratagemma di vestirlo da pazzo in modo che nessuno gli presti fede ed egli sia costretto a ritornare, ma, alla partenza del figlio, ella muore di dolore. Lo “stolto adolescente”, intanto, dopo varie avventure in cui traspare tutta la sua ingenuità e la sua scarsa avvedutezza, giunge alla corte di Artù dove, vinto in torneo il Cavaliere Vermiglio, ne veste le armi e subito riparte per farsi istruire da Gurnemanz, il maestro di cortesia. Educato agli usi cavallereschi e campione invincibile in battaglia e nei tornei, Parzifal si costruisce una solida fama di perfetto eroe cortese, pone la sua spada al servizio della regina Condwiramurs, di lei si innamora perdutamente e la sposa. Ripartito alla ricerca della madre, giunge al Castello del Graal, dove potrebbe liberare il re dalla sua innominabile infermità, ma fallisce la prova, segno evidente che il cavaliere terreno, pur perfetto, nulla può senza che su di lui sia scesa la grazia divina. È qui chiaramente presente la dottrina di San Bernardo per cui la libertà dalla necessità, il libero arbitrio, è propria dell’uomo, mentre la libertà dal peccato, lo stato di grazia, può provenire solo da Dio. È necessaria l’umiliazione praticata attraverso una lunghissima penitenza per raggiungere quella virtù “per la quale l’uomo, con verissimo riconoscimento di sé - scrive il doctor mellifluus nel De gradibus humilitatis - tiene a vile se stesso”. È allora che il perfetto cavaliere abbandona il mondo per andare alla ricerca del Graal: “Non voglio conoscere più gioia, se prima, poco o
tanto che l’attesa duri, non abbia veduto il Graal: questa è la meta cui mi sospinge il mio pensiero e non me ne staccherò più, tutta la mia vita. Se per avere obbedito a ciò che cortesia mi comandava, debbo ora soffrire il dileggio del mondo, è segno che i consigli di Gurnemanz non erano senza difetto”. Da questo momento egli sparisce dalla scena per dar spazio alla mirabile avventura di Gawan, il quale vince il negromante e libera il castello dall’incantesimo. È il tempo in cui Parzifal prepara la sua nuova iniziazione, non più quella cortese che l’aveva portato a sedersi alla Tavola Rotonda al fianco di Artù, ma quella della sublime mistica bernardiana che dalla consideratio (la ricerca) giunge alla contemplatio (la visione ammirata del divino per cui si richiede purezza di cuore e libertà dal peccato) ed infine approda all’excessus mentis (l’estasi deificante). Allora Parzifal ritroverà la strada del Graal e sarà in grado di porre la domanda che risanerà Anfortas. In quel momento egli verrà coronato al più alto grado della milizia cristiana e finalmente Trevrizent, l’eremita di Bretagna, che prima gli aveva mentito sul Graal, in quanto non lo aveva ancora riconosciuto degno di appressarsi alla Sacra Coppa, gli rivela la sua missione di nuovo re del Graal: “Allora io vi dissi che erano gli spiriti banditi dal cielo a custodire con il consenso di Dio il Graal. Ma Dio è immutabile e combatte pur sempre contro quelli che io vi dissi essere nel suo favore. E chi vuole avere in Cielo il suo premio ha da essere nemico di questi spiriti”. E così l’Eroe, ritrovata la sposa Condwiramurs per la quale aveva patito una struggente nostalgia, inizia la sua nuova carriera di missionario combattente e converte l’infedele Feirefiz, il quale però sarà battezzato non dal Perfetto Cavaliere, ma “da un vecchio prete canuto che dentro in quel bacile già aveva immerso molti dei figli di terra pagana”, il quale recita: “Per strappare la vostra anima al diavolo voi dovete credere nell’altissimo Unico Dio e nella Sua Santissima Trinità”. Il nucleo ideologico di Bernardo, accanito difensore dell’ortodossia religiosa e dell’autorità ecclesiastica, è quindi riscontrabile in tutto il suo rigore. Questi era un uomo con la tempra e tutte le contraddizioni del santo, compresi uno spropositato senso della propria missione,
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l’acrimonia delle polemiche, il fanatismo per l’ ortodossia e la tenacia nelle inimicizie. Quella che vien solitamente detta la “filosofia mistica” di san Bernardo altro non è che in ultima istanza il primo, consapevole e ben strutturato apparato teoretico per la pratica della lotta contro le eresie e l’affermazione dell’autorità assoluta della Chiesa. Il pensiero del mistico cisterciense può (anche se in modo semplicistico) sintetizzarsi in tre punti nodali: negazione della ragione come modo di avvicinarsi alla Verità; negazione della corporeità come valore; affermazione della deificazione dell’uomo attraverso l’ascesi e l’identificazione estatica dell’anima in Dio. “La mia più sublime filosofia - afferma - è questa: conoscere Gesù e la sua crocifissione”.
Anche Abelardo, il più amato dei maestri di filosofia dei suoi tempi e il più odiato avversario di San Bernardo, riflette misticamente sul mistero della croce e ne ricava una dottrina di struggente umanità: Cristo non si sacrifica sulla croce per placare l’ira del Padre a cui è stato infranto l’antico patto con l’uomo, Cristo non riscatta la colpa del primo uomo con una redenzione reclamata, ma dà l’exemplum di un immenso atto d’amore, un modo d’essere verso gli altri, che arriva fino all’estremo sacrificio di sè. Ma era questa un’impostazione che da un lato colpiva la gerarchia nella sua pretesa di essere “il tramite della redenzione” e dall’altra giustificava i movimenti evangelici del tempo. Non per nulla fra Bernardo e il grande logico parigino s’era aperto un abisso sia per
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quanto concerneva il metodo che sta alla base della speculazione (il credo ut intelligam contro l’intelligo ut credam) che per quanto atteneva il conferimento di senso ai risultati della ricerca. In particolare la discussione cosmologica abelardiana della Trinità (rapporto fra Dio e il mondo, che sarà ereditata dalla scuola platonica chartrense) è letta da Bernardo come eresia teologica (esplicazione della natura e degli attributi di Dio in termini di desostanzializzazione delle persone divine). La condanna del concilio di Soisson (1121) come quella seguente del sinodo di Sens (1140) furono per il mistico Bernardo vittorie che non gli diedero soddisfazione se non dopo il ritiro definitivo dell’avversario e l’esecuzione capitale del di lui discepolo Arnaldo da Brescia. In particolare sulla dottrina trinitaria abelardiana egli equivocò decisamente interpretando gli attributi delle tre persone come fossero: onnipotenza, semi-potenza, nessuna potenza (cfr. De erroribus Abelardi). Di conseguenza scatenò al riguardo una vera e propria crociata ideologica i cui echi sono fortemente presenti nell’ossatura stessa dei componimenti letterari del ciclo graliano (da Chretien de Troyes a Wolfram
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von Eschembach) e in particolare nel Giuseppe di Arimatea di Robert de Boron e nell’Estoire del Saint Graal dell’Anonimo del XIII secolo. Non sarebbe altrimenti comprensibile la stucchevole e reiterata insistenza cui danno prova i personaggi del Roman boroniano nel ripetere la formula dell’ortodossia trinitaria, un dogma fissato già nel 325 dal Concilio di Nicea. In quest’opera, non v’è catechizzando (e sono tanti trattandosi della storia della prima evangelizzazione dell’Occidente) al quale non venga compitato il dogma niceno in termini inequivocabili, fin da quando lo stesso Cristo dichiara a Giuseppe che la condizione fondamentale per essere custode del Graal è credere in quello che poi il cavaliere d’Arimatea insegnerà a Vespasiano per convertirlo e che sarà ripetuto a tutte le genti che verranno evangelizzate: “...Dio il Padre, Gesù il Figlio e lo Spirito Santo, formano tutti insieme un solo essere”. L’eresia trinitaria, in particolare sotto la forma triteista di Giovanni Filopono (IX sec.), era tornata all’epoca propotentemente alla ribalta, vuoi per mano di Roscellino e di Gilberto Porretano che nel movimen-
to millenaristico dell’abate calabrese Gioacchino da Fiore, sicchè la Chiesa militante contro ogni forma di eterodossia aveva ripreso le due tematiche bernardiane: essenzialità dell’apparato ecclesiastico nella via alla salvezza e salvaguardia dell’ortodossia trinitaria quale è espressa dal Magistero a partire dal Concilio di Nicea. Anche il Perceval di Chretien de Troyes che per cinque anni aveva vagato dimentico della vera fede, nel rispetto della quale la madre lo aveva educato, prima di poter essere ricevuto dall’eremita di Bretagna che lo indirizzerà sul cammino della Sacra Coppa, incontrerà, un Venerdì Santo, un corteo di cavalieri che lo istruiranno sul Credo, talchè pentito verrà colpito dalla grazia. L’Estoire del Saint Graal dell’Anonimo del XIII secolo presenta tale nucleo tematico in maniera ancora più scoperta. Il racconto inizia con le seguenti parole: “Colui che si ritiene e si giudica il maggiore e il più umile peccatore di questo mondo, saluta, prima di dare inizio alla sua storia, chi crede fermamente nella Santissima Trinità e nelle Sue tre persone: il Padre creatore dell’universo, il Figlio redentore dell’umanità e lo spirito Santo che sottrae ogni cre-
atura al potere del Maligno e le infonde la grazia divina”, e subito delinea il nodo originario del suo precorso iniziatico: “Avevo appena preso sonno quando una voce mi chiamò quattro volte per nome, dicendomi: Svegliati e pensa ad una cosa che sia, contemporaneamente, unica e divisa in tre parti. quell’una ha tuttavia da sola tanto potere quanto ne hanno tutte e tre”. Nel prosieguo del racconto la polemica trinitarie diventa sempre più corposa ed assume i tipici toni dell’impossibile dialogo fra la cieca violenza inquisitoriale e l’intelligente uso di ragione. Si veda al riguardo il caso del sacerdote pagano di Sarraz che aveva obiettato: “...che se il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo avevano tutti la medesima divinità, ognuno di essi, preso singolarmente, non poteva dirsi un Dio perfetto. Se quindi il Padre era Dio perfetto, nulla potevano togliergli il Figlio e lo Spirito Santo ed allora, visto che ognuno godeva della propria divinità, sì trattava di tre persone e non era dimostrabile il contrario, cioè che una delle tre aveva un’intera e perfetta natura divina, se sussistevano anche le altre due. Quando si diceva infatti che lo Spirito Santo aveva una divinità intera e perfetta e la stessa cosa avevano tutte e tre riunite, si dimostrava unicamente che una sola di esse valeva quanto le tre insieme e pertanto due non avevano alcun valore perchè lo perdevano per via della terza. Ne conseguiva pertanto che nessuna delle tre persone della Santissima Trinità, presa singolarmente, possedeva la divinità intera e perfetta, perchè premessa indispensabile a ciò era la loro unione.”. In risposta a questa argomentazione, il vescovo Iosefo non trova di meglio che seccare la lingua dell’incauto sacerdote, predire la disfatta militare al re che protegge l’eretico e tirare il gioco il Maligno che, da par suo, porta scompiglio e distruzione nel tempio. Le cose non cambiano, anzi peggiorano, quando entrano in campo altre questioni di fede quali ad esempio la verginità della Madonna. In questo caso chi ne fa le spese è un personaggio che all’inizio del romanzo era stato insignito, per le sue virtù, di un alto incarico ecclesiastico. Lucans osa mettere in discussione il parto virginale: “In nome di Dio! - ribatté Iosefo Con simile affermazione tu sei già caduto in errore e non hai detto la verità. Io prego dunque quella Donna Gloriosa, a propo-
sito della quale tu sostieni una cosa falsa e cerchi di spacciarla per vera che, se Ella fu vergine nel concepire e nel partorire il Figlio di Dio, non ti permetta più di parlare contro di Lei”. Appena Iosefo ebbe pronunziato queste parole, Lucans cominciò a sbraitare ed a dare in escandescenze, indi si prese la lingua con entrambe le mani e, strappatasela, la ridusse a brandelli. Poi, dopo avere così infierito contro se stesso, cadde a terra morto. Ma non sempre la punizione viene dall’alto, impetrata o spontanea che sia, ma, dato che questi missionari portano più spesso la spada che la croce, non è infrequente trovare nel nostro testo frasi del seguente tenore:”... penetrarono in città, dove uccisero tutti i pagani ed i miscredenti, tanto che non vi fu strada che non fosse imbrattata di sangue”. Una sintetica e macabra descrizione dei massacri che sarebbero culminati a Beziers per opera di Simone di Montfort, l’impareggiabile campione della nuova cavalleria. La Chiesa uscita dalla riforma gregoriana, dalla lotta per le investiture, dai pri-
mi scontri con gli “eretici” trova, in questa letteratura espressamente indirizzata ad un fruitore laico e scritta in lingua “volgare”, un pulpito di insospettata utilità omiletica. Da questa cassa di risonanza la propaganda si fa sempre più serrata, si affina, prende toni didattici, ricorre ad argomen-
Letteratura tazioni capziose, paralogismi, exempla d’effetto e, quando non ha altre armi, non disdegna di mettere in campo la minaccia. All’umiltà del grande filosofo cristiano, Agostino, il quale confuso dalla risposta di un bambino si rende conto che voler spiegare con la ragione il mistero della Trinità equivale alla pretesa di trasportare tutta l’acqua del mare con un secchiello senza fondo, si risponde con la presunzione di chi ha avuto risposta direttamente da una visione divina. Tutta una serie di “paragoni”, immagini capaci di far intuire il mistero (che per sua stessa natura richiede di non essere tradito dalla parola, ma semplicemente d’esser vissuto nel si-
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lenzio) vengono utilizzati come spiegazioni: i tre alberi con un’unica radice, i tre rivoli che escono da una stessa fonte, i tre colori che si dipartono da un unico raggio di luce, ecc ... Anche il mistero dell’Incarnazione è giocato sullo stesso tono: il Verbo diventa la parola tramitata dall’angelo Gabriele, la quale entra nell’orecchio della Vergine e scende fecondandole il ventre, mentre il parto virginale è spiegato con il paragone della luce che attraversa il vetro lasciandolo così come l’aveva trovato. I grandi misteri, portati dai primi missionari in terra d’Europa, che avevano colpito l’immaginazione e la fantasia di popoli nella cui mitologia già esistevano racconti sulla morte e resurrezione di Dio, sul Figlio della Vergine, sulla funzione soteriologica della divinità, divengono dogmi, si cristallizzano in parole perdendo la loro originaria funzione di essere radice e germoglio della meraviglia. Nello stesso tempo l’intelligente e tollerante posizione della primitiva Chiesa Missionaria è completamente rovesciata e la storia dell’evangelizzazione è riscrit-
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ta nei termini della conquista armata e del sistematico massacro dei popoli che si rifiutano alla nuova fede. Una enorme distanza intercorre, quindi, tra questa età e quella del grande pontefice Gregorio, il servus servorum Dei, il quale scriveva all’abate Mellito di far bene attenzione a lasciare ai popoli di recente evangelizzazione i loro riti e le loro mitologie e di indirizzarle verso il cristianesimo. I biondi monaci biancovestiti che a Roma vengono consideranti “angeli” (equivocando sull’etimo del termine Angli) avevano accettato e trasmesso un messaggio autenticamente cristiano e, dopo aver portato il Cristo tra i loro popoli, sciameranno dall’Irlanda e dalla Gran Bretagna verso l’Europa, dove continueranno la loro opera missionaria. Ben diversa è la nuova versione di questa avventura, solcata dai nomi di Bonifacio, Colombano, Gallo, Winfrido, Egberto, Beda, Alcuino, uomini per nulla simili ai terribili apostoli gerosolomitani dell’Estoire, per i quali l’unica forma accettabile della croce è quella dell’elsa della spada. Si prenda ad elemen-
to di confronto il seguente episodio dell’Estoire: Quando il re di Northumberland rinvenne, Nascien gli ordinò di arrendersi, se voleva salvarsi, ma quello rispose: ‘E dunque uccidetemi subito, perché preferisco morire qui da pagano, piuttosto che vivere a lungo come cristiano’. A quelle parole Nascien non tentò più di convincerlo ma, sguainata la spada, gli vibrò un fendente tale da staccargli la testa dal corpo”. Un’ulteriore possente eco della riforma gregoriana la si può udire nei continui rimandi alla castità del laico ed alla verginità del clero. L’eremita posseduto dal Maligno che sconta da ventiquattro anni un solo peccato, ma gravissimo, trattandosi di violazione della castità e, per contrapposizione, Iosepho, il primo investito del sacramento dell’Ordine, in quanto dichiara di volersi mantere casto e celibe, stanno a testimoniare la centralità di tale disciplina diventata ormai un punto fermo nella riforma del clero. Se Sigeberto di Gembloux si limitava a raccomandare: “Cosa v’è di più bello e di più giovevole per la cristianità che sottoporre gli ordini
religiosi alla legge della castità?” e il Corrector et medicus di Burcardo di Worms comminava penitenze al laico che avesse dileggiato il prete sposato, l’età di Bernardo non è più disposta nè a raccomandare nè a capire, ma solo a punire con estrema durezza. La morale sessuale diviene monolitica anche per quanto riguarda il laico e la visione paolina del matrimonio come remedium concupiscentiae si restringe ulteriormente divenendo, nei nostri romanzi, un atto di ubbidienza ad una divinità che lo impone intendendolo soltanto come mezzo per perpetuare una stirpe. Il racconto del primo rapporto carnale fra
getta sul cibo e lo divora con una tale rapidità da non gustarlo neppure, così egli ingoierà uno dopo l’altro i suoi peccati, senza sentirne il sapore, perché, se così fosse ed avvertisse l’amaro racchiuso in essi, non avrebbe certo il coraggio di peccare. Ora ti dirò perché il tuo nono discendente [Galaad] sarà inizialmente come un fiume torbido e fangoso ed alla fine apparirà più bello e splendente dì qualsiasi altro corso d’acqua. Il suo stato iniziale vuol dire che sarà concepito dall’ottavo, essere lussurioso ed in peccato mortale, e la sua nascita sarà tenuta segreta, perché generato da madre illegittima ed al di fuori dei
nevra, il tutto è ridotto ad una sola parola: lussuria. Certo nella continuazione del ciclo, e noi qui ci siamo attenuti soltanto a quella parte della storia che precede la materia di Bretagna, le cose vengono trattate diversamente tanto che si può assistere ad un vero e proprio scontro fra l’antica eti-
Adamo ed Eva, su cui il Creatore fa scendere una fitta tenebra onde nasconderne la vergogna, fa da prologo ad una serie ininterrotta di exempla che contrappongano casti sposi, indefettibilmente premiati, a vari generi di lussuriosi, terribilmente puniti. Non è a caso che i due personaggi centrali del ciclo arturiano-graliano, Lancillotto e Galaad, siano contrapposti in ragione di un solo merito: la castità dell’uno contro la lussuria dell’altro: “Tale sarà il tuo ottavo discendente [Lancillotto] - viene profetizzato a Nascien - ed il fatto che ti sia apparso sotto forma di cane significa che si dimostrerà peccatore laido e vile e davvero in tutto simile ad un cane. Infatti, come quella bestia, quando ha fame, sì
precetti della Santa Chiesa, pertanto mediante un atto impuro e peccaminoso. Per questo egli apparirà come un fiume tutto infangato e sporco alla sorgente, ma, a metà della vita, quando comincerà a regnare, sarà così retto e giusto e avrà tanto ardire cavalleresco da superare in bontà e valore tutti gli altri esseri viventi. Si manterrà vergine per tutta la vita e lascerà questo mondo in maniera così prodigiosa che nessuno dei cavalieri suoi contemporanei avrà un simile privilegio. Egli sarà amato da Dio più di chiunque altro ...” Una tale rozza semplificazione dell’intera vicenda umana di Lancillotto è emblematica: la complessità dei sentimenti, la tempesta dei dubbi, le angoscie e i pentimenti, l’amore per Artù e l’attrazione verso Gi-
rivendicato una terra che gli spetta di diritto per non diventare vassallo di Artù, è un suo compagno d’armi, ma non ha ottenuto feudi, la stessa spada di cavaliere gli è stata concessa dalla regina; secondariamente, mentre egli nulla deve ad Artù, questi gli è debitore più volte della vita e del regno; da ultimo l’adulterio è consumato nel momento stesso in cui il re vien meno al proprio vincolo coniugale per cui Ginevra e Lancillotto si trovano in un certo senso scusati del loro atto in virtù della norma che impone la reciprocità di offese e benefici. D’altra parte il romanzo non avrebbe avuto alcuna fortuna se si fosse fermato al “racconto delle origini”, dove l’amore fra uomo e donna è di per se considerato
Letteratura ca laica e la nuova morale religiosa. Se per la Chiesa Lancillotto è sommamente condannabile, per l’antica cavalleria egli ha numerose e valide scusanti: in primo luogo egli non ha reso l’omaggio al re, non ha
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sconveniente se non è nobilitato dal vincolo coniugale ed esercitato nel rispetto dei precetti della Santa Chiesa. Ma il XII secolo è anche l’età del Trattato d’amore di Andrea Cappellano, un chierico al servizio della figlia di Eleonora d’Aquitania, Maria di Champagne, il quale
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man d’Alexandre e del Roman de Troie, ed altri meno noti come Aucassin e Nicolette, Florio e Biancofiore, Galeran di Bretagna si vedranno sorgere i raffinatissimi componimenti dei trovatori: Bertrand de Ventadour, Jaufré Rudel, Peire Vidal, Bertrand de Born, Sordello da Goito, Guilhem de Montanhagol, Guirant Riquier... in cui sono anatomizzate tutte le più diverse sfu-
costruisce una stupenda cattedrale dedicata all’Amore Terreno, mentre è in atto la costruzione della Città di Dio sui concetti di Fides, Charitas et Sacramentum. Il Palazzo d’Amore sta al centro del mondo ed ha tre porte davanti alle quali si raccolgono le dame: quelle che ascoltano la voce d’amore, quelle che la rifiutano e quelle che son preda solo del desiderio sessuale; solo le prime sono degne d’essere onorate dai cavalieri. “Poichè tutto il bene che fanno gli esseri viventi - dichiara Andrea Cappellano - è fatto per l’amore delle donne, per essere lodati da loro e potersi vantare dei doni che esse fanno, senza i quali in questa vita non si fa nulla che sia degno di elogio”. Eleonora d’Aquitania, Ermengarda di Narbonne, Adele e Maria di Champagne sono solo alcuni nomi delle grandi dame che hanno sentenziato nelle “corti d’amore”. Alle regole di Andrea, fra le quali v’era pure la seguente: “Il matrimonio non è una scusa valida per non amare” possiamo far seguire alcuni emblematici giudizi delle regine d’amore: “... l’amore non può manifestare il suo potere fra due sposi - dichiara Maria di Champagne - perchè quelli che amano son tenuti l’un l’altro in maniera gratuita e senza alcuna ragione di necessità”, mentre Eleonora d’Aquitania afferma: “... una donna giovane o anziana che sia, cerca piuttosto i favori dei giovani che degli anziani. Da cosa dipende? Mi sembra che sia un problema d’ordine fisico”. In questa prospettiva i romanzi cortesi dedicati alle questioni d’amore prendono il soppravvento ed il tentativo di portare la riforma gregoriana, dal piano del diritto canonico a quello dell’etica sociale, facendone portatrice la letteratura cortese (così come era stato per l’omiletica e il teatro popolare) si trova a non avere che scarso seguito. La letteratura cortese della cavalleria d’amore avrà invece uno sviluppo inarrestabile ed accanto ai notissimi grandi romanzi del ciclo arturiano, o del Ro-
mature dell’amore. La donna che nei “racconti delle origini” è trattata quale seme di ogni nequizia (si confrontino ad esempio il caso di Ippocrate o della dama ateniese) diventa oggetto di irrefrenabile ammirazione e di lei dirà Aucassin a Nicolette: “La donna non può amare l’uomo come l’uomo ama la donna, perchè l’amore della donna risiede sulla punta delle sue ciglia, sulla punta del suo capezzolo, sulla punta delle dita dei piedi, mentre l’amore dell’uomo è nel fondo del suo cuore e non può uscire”. Se quindi in ogni uomo che lo voglia v’è, secondo Lancillotto, il seme della vera cavalleria, nella donna gentile v’è sempre una regina, il termine ad quem della filosofia d’amore, essa diviene una sorta di oggetto di venerazione religiosa. La stessa Chiesa che, dopo la riforma gregoriana aveva favorito la nascita e la crescita di numerosi nuovi ordini religiosi, si trova ad essere in qualche modo partecipe del fervore che aveva portato la cavalleria terrena a venerare la donna come ideale di perfezione. Il 31 agosto del 1119 Papa Callisto II si reca a consacrare personalmente l’altar maggiore dell’abbazia di Sante-Marie di Fontevraud. Ad at-
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tenderlo v’è la badessa Petronille de Chemillé, unico esempio di una donna a capo di un ordine religioso di frati e suore che vivono in due conventi gemelli, divisi dalla chiesa abbaziale in cui uomini e donne si ritrovano giornalmente per la preghiera e per le funzioni liturgiche. Nel suo testamento, il fondatore Robert d’Abrissel, aveva scritto: “Sappiate fratelli cari, che tutto ciò che ho fatto in questo mondo, l’ho fatto per il bene delle nostre suore, ho consacrato loro tutta la forza delle mie facoltà e inoltre ho sottoposto me stesso e tutti i miei discepoli al loro servizio per il bene delle nostre anime. Ho dunque deciso col vostro consiglio che finchè sarò in vita sarà una badessa a dirigere questa congregazione, e dopo la mia morte nessuno osi contraddire queste disposizioni che ho preso”. Nelle vesti di Giovanni, cui il Cristo aveva affidato la Madre, il grande riformatore bretone aveva preteso che le suore della sua congregazione non fossero vergini, ma vedove, donne che già avevano conosciuto l’amore terreno e la vita matrimoniale. Quante furono le regine delle “corti d’amore” che lasciarono il mondo per ritirarsi a Fontevraud? Se ne facessimo semplicemente scorrere i nomi ci renderemmo conto trattarsi di donne che hanno segnato profondamente la storia del XII secolo. Fra queste ricordiamo ad esempio: Bertrada di Montfort, Matilde d’Angiò, Eleonora d’Aquitania ed Ermengarda di Bretagna. A quest’ultima vengono indirizzati due componimenti davvero emblematici, il primo è in versi e recita: “ Figlia di Folco, onore del paese di Armor. Bella, casta, pudica, candida, chiara e fresca. Se non avessi subito il talamo e il travaglio dei figli, ai miei occhi saresti Diana. Nel corteo delle spose ti si scambierebbe per una dea. Troppo bella tu sei!”, mentre il secondo è una lettera che dice: “Se tu potessi leggere nel mio cuore questo amore che per te Dio s’è degnato di scrivere con il suo dito, capiresti certamente che nè la lingua nè la penna basterebbero ad esprimere ciò che lo spirito di Dio ha potuto imprimere nel mio più intimo midollo! Anche adesso ti sono vicino in ispirito, anche se assente col corpo. Non dipende né da me né da te che io ti sia effettivamente presente, ma c’è nel tuo profondo un mezzo per indovinarmi se non sai ancora quello che ti dico: entra nel tuo cuore, vi vedrai il mio, e
concedimi tanto amore verso di te quanto sentirai di provarne per me...” Non si tratta di due trovatori presi da fervido amore per la bellissima Ermengarda, ma di due austeri e santi uomini di Chiesa: il primo è il vescovo poeta Marbodo di Rennes e il secondo è San Bernardo di Chiaravalle. _______________ A soli fini di orientamento diamo al lettore una breve sintesi bibliografica della cosiddetta Materia di Bretagna. Bibliografia: - Gododdin Aneirin. Si tratta di un testo gallese (secolo VII) in versi. Esso contiene un preciso riferimento ad Artù, il più antico che ci sia pervenuto. - Nennio. Monaco gallese (secolo IX) autore della Historia Britonum (una traduzione, a detta dell’autore, di un libro latino in possesso dell’abbazia di Glastonbury). - Annales Cambriae. Cronache gallesi (redatte verso il 950), in cui si parla della tragica vicenda intercorsa fra Artù e il figlio Mordret. - Guglielmo di Malmesbury. Storico normanno (nato verso il 1090), compose il De gestis regum Anglorum che apparve del 1140 e il De antiquitate Glastoniensis ecclesiae. - Goffredo di Monmouth. Cronista inglese (1100 circa-1155). Sue opere: Profetiae Merlini. Tale scritto fa parte della sua Historia regum Britanniae (1136 circa), la più importante fonte storica a cui faranno riferimento tutte le seguenti “storie” del ciclo arturiano. Ne esiste una splendida edizione italiana a cura di F. Bertini, G. Galli e G. La Placa. Ricordiamo la Vita Merlini, elemento di collegamento fra le “origini” e le “storie di Bretagna”. - Caradoc di Llancarfan. Storico gallese, autore di una Vita Gildae (1130 circa) in cui si narra del rapimento di Ginevra. - Robert Wace. Cronista anglo-normanno (1100 circa-1175 circa). Il suo Roman de Brut (1155) rappresenta una versione versificata di alcune parti dell’Historia di Goffredo di Monmouth. - Marie de France. Poetessa francese (seconda metà del Xll secolo). In uno dei suoi Lais, il Caprifoglio, si narra la storia di Tristano. Etienne di Rouen. (1170 circa): Draco normannicus, in cui si racconta il ritorno di Artù. Eilhart von Oberge. (XII secolo): Tristant. - Anonimo (XII secolo): Folie Tristan. - Chretien de Troyes (1160 e il 1190): Erec et Enide (la storia di un Cavaliere e di una Dama che inizia con il matrimonio e termina con la perfetta unione d’amore): Cliges (il manuale per la pratica dell’adulterio mondano nel rispetto delle regole cortesi); Le chevalier de la charrette o Lancelot (la storia del cavaliere che si sottopone a tutti i capricci dell’amata fino a passare da vigliacco); Le chevalier au Iion o Ivain (la storia del cavaliere posto alla prova della fedeltà fino al delirio e alla follia); Le conte du Graal o Perceval (il primo
racconto della storia di Perceval e il Graal); Le conte du roi Marc et d’Yseult la Blonde (che però non è pervenuto). (L’intero ciclo di Chretien de Troyes è stato riproposto, su licenza della Guanda, negli Oscar Mondadori). - Hartmann von Aue (1170 circa-1220 circa): Erek (opera ispirata all’Erek e all’Ivain di Chretien de Troyes. - Béroul (secolo XII): Poeta normanno autore di un Tristano. - Thomas (seconda meta del XII secolo); autore di un Tristan che servirà da modello a diversi autori del secolo successivo. - Robert de Boron. (XII sec.) Il suo Roman de I’Estoire dou Graal, noto anche come Giuseppe d’Arimatea, fu composto prima del 1201. Il Roman ci e stato tramandato da un unico manoscritto della fine del Xlll sccolo, il fr. 20047 della Bibliothéque Nationale di Parigi. - Woltram von Eschenbach (XIII secolo). Poeta tedesco autore del Parzival (1210 circa). A detta dello stesso autore la fonte è il Perceval di Chretien de Troyes. Esiste una traduzione italiana della Casa Editrice Utet (1981). Sempre ispirate al Perceval di Chretien de Troyes sono: - La visita di Galvano al castello del Graal (1200); Continuazione delle avventure del Graal attribuita a Wauchier de Denain (1200); La Conquista del Graal di Manessier (1210-1220 circa); La fine delle avventure di Perceval di Gerbert de Montreuil (1230 circa); Continuazione del Le chevalier de la charrette di Goffredo di Lagny. - Lancelot-Graal o Lancillotto in prosa (12151235). Si divide in cinque sezioni: L’estoire del Saint-Graal. Merlin, continuazione e ripresa del Merlin di Robert de Boron. Lancelot, infanzia e amori di Lancillotto. La queste del Saint-Graal, il racconto della Santa Cerca. Mort Arthur, la conclusione della tragica vicenda fra Artu e Mordret. - Il Libro nero di Camarthen. Raccolta di antichi poemi gallesi composta alla fine del XII secolo. - Didot Perceval. Continuazione del Joseph e del Merlin di Robert de Boron (XIII sec.). - Goffredo di Strasburgo. (XIII secolo): Tristan (1210 circa). - Layamon ( XIII secolo). Riedita il Brut di Robert Wace. - Il Libro di Taliesin. Raccolta di antichi poemi gallesi (intorno al 1275). - Le roman de Tristan de Leonois, Versione in cui Tristano è uno dei cavalieri della ravola Rotonda. Ebbe due versioni nella prima metà del XIII secolo. - Mabinogion. Raccolta di undici storie gallesi conservate nel Libro bianco di Rhydderch (l325 circa) e nel Libro rosso di Hergest (1400 circa).
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P.96: Dal ciclo ‘The Grail quest’, E.A.Abbey, Boston; p.97: La leggenda di Parsifal, F.C.Cowper; p.98-99: Manoscritto miniato di Wolfram von Eschenbach; p.100: Dal ciclo ‘The Grail quest’, E.A.Abbey, Boston; p.102-103: Glastonbury, Inghilterra; p.101 e 104: Vanità, F.C.Cowper; p.105: Replica di spa. medievale. da
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Il cavaliere di carta La –gura del cavaliere e lideologia cavalleresca in letteratura Ida Li Vigni 106
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e vi fossero dubbi circa il fatto che la letteratura non è soltanto testimonianza e riflesso della società che la produce, ma altresì elaborazione ideologica dei valori e dei modelli di comportamento a cui quella stessa società si informa, basterebbe guardare alla vasta produzione epico-cavalleresca medievale e rinascimentale per fugarli. In effetti, tra l’XI e il XIV sec., con prolungamenti fino al XVI, la chanson de geste - in tutte le sue varianti formali e strutturali - svolge un ruolo fondamen tale nella codificazione di quel sistema etico della guerra che prende il nome di “cavalleria”. Si tratta di un’operazione di continua elaborazione ideologica assai complessa e per certi versi paradossale, visto che non soltanto privilegia la strada della riproposizione ab infinitum degli stessi eroi, ma prende anche origine dalla celebrazione di una “sconfitta”: il sacrificio mortale del paladino Rolando a Roncisvalle. Come giustamente osserva Franco Cardini: “... La cavalleria nasce morta: appena nata, piange attorno al corpo inanimato di Rolando caduto a Roncisvalle. E piange attorno a un eroe caduto da tempo ... la mitologia cavalleresca fa parte di un modo di intendere la storia che si rifà di continuo al tema del mundus senescens e della corruzione del presente, contro il quale s’invoca l’arrivo dell’eroe senza macchia e senza paura! ...” La fortuna storico-letteraria del paladino Rolando e del cavaliere cortese Perceval poggia, dunque, su un fondo di contraddizioni, di cui la principale è di certo la malcelata consapevolezza della fragilità, se non del fallimento, già ab origine, del modello cavalleresco, destinato a rimanere per lo più realizzato nella sfera ideale della parola (nel singolare circuito di oralità-scrittura-oralità) e non in quella concreta delle azioni umane. Ed è una consapevolezza che traspare anche dalle pagine dei cronisti medievali, in particolare i cronisti o comunque i protagonisti-testimoni delle crociate, che continuamente affiancano ai rari esempi di
autentico e sublime ethos cavalleresco la condanna dei “nuovi” cavalieri, uomini violenti e rapaci, mossi dallo spirito di guadagno o - al meglio - di avventura, così lontani dagli “antiqui” paladini, leali vassalli del re e, ancor più, “santi vassalli” di Dio. Ed ecco come primo esempio di questo sentire il ritratto-invettiva che San Bernardo, nel De laude novae militiae, disegna dei milites suoi contemporanei: “Voi appesantite i vostri cavalli con tessuti di seta, coprite le vostre cotte di maglia con chissà quali stoffe, dipingete le
vostre lance, i vostri scudi e le vostre selle, tempestate d’oro, d’argento e di pietre preziose i finimenti dei vostri cavalli. Vi adornate sontuosamente per la morte e correte alla vostra perdizione con una furia senza vergogna e un’isolenza sfrenata. Gli orpelli sono degni di un cavaliere o della vanità di una donna? Credete che le armi dei nemici temano l’oro, risparmino le gemme, non trapassino la seta? D’altronde, ci è stato spesso dimostrato che tre cose principali sono necessarie in battaglia: che il cavaliere sia pronto a difendersi, rapido in sella, sollecito nell’attacco. Ma voi, invece, vi acconciate come delle femmine, avvolgete i piedi in tuniche lunghe e larghe, nascondete le mani delicate e tenere in maniche ampie e svasate. E così infagottati vi battete per le cose più vane, come un corruccio in-
giustificato, la brama di gloria o la cupidigia di beni temporali ...”. Ancora una testimonianza: nella chanson dedicata alla I crociata, la Conquête de Jérusalem, accanto alla figura del valoroso miles Christi Goffredo di Buglione (per inciso, l’unico capo o eroe crociato che riesce a
Letteratura insediarsi sta bilmente nella letteratura, scivolando dalla chanson appena ricordata al poema del Tasso) compare quella efferata di Thomas de Marle, della cui brutalità è testimone lo storico Guiberto, abate di Nogent, qui celebrato come il primo cavaliere che riesce a scalare le mura e che dà inizio al massacro indiscriminato di musulmani, ebrei e cristiani d’Oriente, donne, bambini e vecchi. Certo, per la mentalità medievale il cavaliere che massacra i nemici di Dio, purché animato da sincero fervore religioso, non commette peccato; anzi, si comporta da perfetto cristiano, sempre per citare San Bernardo che così assolve il miles Christi: “... Invero i soldati di Cristo combattono tranquillamente le battaglie del loro Signore non temendo affatto di peccare quando uccidono i nemici, né di perdere la vita, in quanto la morte inferta e subita per Cristo non ha nullo di delittuoso ...” Tuttavia, sia il poeta che lo storico rivelano un identico disagio nel “legittimare” comportamenti assai poco evangelici, che per altro il solito San Bernardo aveva riconosciuti “cristiani” con una certa difficoltà e in forza di una funambolica “monacazione forzata” del cavaliere. “... Vanno e vengono a un cenno del loro comandante; portano le vesti che egli dà loro, non cercando né altri abiti, né altro nutrimento. Evitano ogni eccesso nel cibo come nelle vesti, desiderano solo il necessario, vivono tutti insieme, senza donne, né bambini. E perché nulla manchi loro della perfezione angelica, vivono tutti sotto lo stesso tetto, senza possedere niente di personale ...” D’altra parte non si può non ricordare, almeno marginalmente, come proprio le Crociate costituiscano il momento cruciale della verifica dell’ideologia ca
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valleresca, volta a perpetuare l’origine laica dell’etica della guerra e del cavaliere, sia pur dissimulata sotto l’egida di una parziale sacralizzazione dell’universo militare. Infatti, non solo la crociata, con i suoi Ordini militari religiosi e i suoi “poveri cavalieri di Cristo”, informa dei suoi ideali la chanson de geste, i romanzi e i trattati del XII-XIII sec., ma diffonde nella cultura europea il progetto di una sorta di “mistica della cavalleria” destinata a instaurare un sistema etico in cui i valori feudali di valore, misura e saggezza venivano ad acquisire nuovi significati spirituali. Tanto che persino papa Urbano II, per meglio perorare la causa crociata, portò in Concilio l’esempio di Carlo Magno e dei
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suoi paladini. Contemporaneamente, però, l’inevitabile inconciliabilità del piano ideale con quello reale fa sì che quello stesso sistema etico sfiorisca e degeneri in brevissimo tempo (già all’indomani della conquista della Città Santa, si potrebbe dire) e proprio in quelle terre “d’Oltremare” che avrebbero dovuto strutturarsi come il perfetto “regno di Cristo” in terra. Ancora una volta la letteratura ci assiste nella ricostruzione. Basta, infatti, dare una veloce scorsa alle chansons crociate per rendersi conto di come, proprio nel fervore della “guerra santa”, l’ideale cavalleresco trovi il suo compimento ambiguo; ovvero, la sua realizzazione e il suo esaurimento. Nei poeti-cavalieri che vi-
vono l’avventura d’Oltremare, più ancora che nei cronisti, dietro alle loro repentine esaltazioni (e altrettanto repentine querimonie), emerge un comune sentimento di delusione e di smarrimento che travalica il mero dato oggettivo del rapido declino dei Regni cristiani d’Oriente e che scaturisce dalla consapevolezza amara dell’impraticabilità degli ideali cavallereschi. Né questo deve meravigliarci. Molti di essi, in Occidente, avevano coniugato la poesia con l’arte militare, l’ideale cortese con quello cavalleresco, la fede con la guerra, concorrendo attivamente al consolidamento, in chiave ancora preci puamente laica, dell’immagine-modello del cavaliere “perfetto”, connubio dell’innesto culturale-letterario del paladino di Carlo Magno e del cavaliere arturiano (l’uno modello di “fedeltà”, l’altro di “nobiltà e cortesia), di Rolando e di Yvain o Erec. Molti di essi, poi, colpiti da quel risveglio della fede che spingeva moltitudini di uomini, donne, bambini a lasciare la propria casa e la terra natale per prendere la croce, avevano aderito con entusiasmo alle idealità crociate che rispon devano perfettamente ai propositi edificanti e ai sogni di rigenerazione spirituale della società, individuali e collettivi, che serpeggiavano nell’Europa del XII-XIII sec., facendo propria quell’immagine del miles Christi che le gerarchie ecclesiastiche, a partire dalla riforma di Gregorio VII, venivano deli neando come reinterpretazione spiritualizzata del cavaliere feudale, vassallo sì del suo signore, ma prima di tutto vassallo di Dio e, possibilmente, “santo” guerriero. Non solo. Sull’onda dell’entusiasmo suscitato da Bernardo di Chiaravalle con la sua teorizzazione di una vera e propria “mistica militare”, per la quale il tipico sodalizio militare veniva a confluire nel rigore spirituale della trazione monastica dando vita a una “milizia divina” interamente dedita alla difesa dei poveri e della fede, alcuni di essi entrarono negli Ordini religiosi militari o, comunque, vi gravitarono attorno. E il caso di Ricaut Bononel (2° metà del XIII sec.), cavaliere templare, o di Rutebeuf, che nel Nuovo Compianto d’Oltremare esorta Guglielmo di Belgioco, maestro dell’ordine templare, a partire per la Terrasanta, a far rivivere le gesta dei “valorosi uomini d’un tempo / Goffredo, Boemondo e Tancredi”. Una volta,
però, giunti in Terrasanta, questi trovatori - al pari di altri sognatori - vi trovarono non l’auspicata societas Christi, ma una realtà politica divisa, corrotta, mossa dalle peggiori passioni. Scoprirono, insomma, che per molti l’iter ultramarinum non coincideva con una missione purificatrice e salvifica, bensì con una volgare guerra di rapina che spesso non rispettava neppure i fratelli cristiani d’Oriente. Da qui, appunto, gli accenti - ora commossi, ora indignati - con cui lamentano la triste agonia degli ideali crociati o deprecano gli abusi e i peccati dei potenti, causa prima dei ricorrenti insuccessi; potenti fra cui spiccano per cupidigia di denaro e di potere anche i “poveri cavalieri di Cristo”, Ospitalieri, Templari, Teutonici che siano. Una breve campionatura è, qui, sufficiente a documentare il dramma interiore di quanti avevano creduto nel progetto di rigenerazione sociale e spirituale della “guerra santa”. Così si lamenta Rutebeuf nel Compianto d’Oltremare: “... Ah, Antiochia, terra santa / Com’è doloroso il tuo pianto, / Non avendo tu più nessun Goffredo / Il fuoco della carità è freddo / In tutti i cuori cristiani; / Né giovani né anziani / Si preoccupano di combattere per Dio ...”; cui fa eco Lanfranco Cigala: “ ... Gerusalemme è un luogo derelitto / Sapete perché? Perché manca la pace ...”. Assenza di pace e sconfitte che così motivano Filippo di Nantevil: “... E vi dico che se i templari / ci avessero aiutati, senza essere gelosi di noi, / possederemmo tutta la Siria, Gerusalemme e l’intero Egitto ...”; Elias Cairel (inizi del XIII sec.): “... E a procurare il proprio danno sono ben addestrati / i conti e i re e i baroni e i marchesi / Che s’uccidono l’un l’altro facendosi guerra. / Così faranno perire la cristianità; / e dovrebbero piuttosto uccidere Turchi e pagani / e recuperare la città santa ...”; e il solito Rutebeuf: “... Se essi operano litigando, / andrà tutto a rovescio. / Lì ci sono troppi uomini pieni d’orgoglio, / che provano invidia l’uno dell’altro...” Così, nella Terra Promessa, Gano finisce col trionfare su Rolando, Yvain ed Erec non imparano nulla e anzi finiscono col rinnegare i valori di nobiltà, cortesia e fin’ amors, Lacelot non si redime e con i suoi peccati coopera alla rovina del
regno, mentre Parsifal si perde nelle nebbie dell’utopia. Quale è il suo statuto primario, la letteratura si fa, dunque, portavoce, nel suo trascorrere, dei sogni e dei fallimenti dell’uomo. La ripresa sempre più rilevante, nel XIII-XIV sec., dei cicli carolingi e arturiani è segno, appunto, di come i letterati del tempo vivono, interpretano e riscrivono l’ideologia cavalle resca, prendendo le mosse sempre dai modelli originari. Il ricomparire costante di Rolando, Lancelot e Parsifal non è sterile stereotipia, bensì adeguamento degli antiqui eroi alle mutate esigenze sociali, spirituali ed etiche. Si prenda come esempio la Chanson de Roland, uno dei testi alle origini del
l’ideale cavalleresco medievale. Nella versione più antica le gesta dei paladini di Carlo Magno sono funzionali alla costruzione di una nuova figura di cava liere, aderente alla struttura sociale feudale. L’anonimo cantore riprende - come è noto - un evento storico dell’VIII sec.,
Letteratura di cui con tutta evidenza si era tramandato oralmente il ricordo fino a trasformarlo in leggenda, e lo rielabora col preciso intento di fornire al suo pubblico una nuova, aggiornata costellazione di valori politici, religiosi e civili. In quanto testimone e interprete di una società - quella
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feudale appunto - che avverte la necessità di superare l’etica guerriera “barbara” attraverso una cristianizzazione anche della violenza militare o della semplice faida, egli recupera le ormai leggendarie gesta dei paladini alla luce di un sistema etico che accetta (e dunque può an-
Letteratura che esaltare) la guerra come “positiva” e “buona”, in quanto lotta contro i nemici della vera fede, e che condanna l’orgoglio guerriero perché in esso è contenuto il germe della disgregazione della gerarchia sociale. Così, l’hybris di Rolando è identi ficata con il riemergere in lui del comportamento egotico, tipico del guerriero “arcaico”, che lo porta a dimenticare i suoi doveri verso l’imperatore e la collettività tutta, a inseguire l’onore a discapito della vera gloria. In questo contesto il riscatto di Rolando può consistere soltanto in un sacrificio “santo”, ovvero la morte eroica combattendo contro gli infedeli, dal momento che solo attraverso questo gesto eccezionale (anche se a danno dei compagni) egli riesce a trasformarsi da eroe dell’onore a eroe della gloria, intendendo con quest’ultima definizione il “campione” (= paladino) di Dio e del re, colui che agisce mosso da ideali supremi, estra-
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nei alla sfera esclusivamente materiale e mondana dell’onore. Si comprende così la natura particolare della morte del campione di Carlo Magno; morte santificata dalla discesa degli angeli (rigorosamente guerrieri), inviati da Dio a sostenere e accompagnare l’anima del paladino verso la gloria celeste: “... Orlando sente che tempo non n’ha più, / e verso Spagna giace in un monte acuto. / Con una mano il petto s’è battuto: /”Deus, mea culpa, tanta è la tua virtù, / pe’ miei peccati, i grandi ed i minuti, / che ci ho commessi dal dì che nato fui / sino a quest’ora che qui non vivo più”. / Il destro guanto verso Dio tende: a lui / calano allora gli angeli di lassù. ... Il destro guanto a Dio egli distese; / San Gabriel dalla sua man lo prese. / Sopra il suo braccio e’ tiene il capo chino: / giunte le mani, è ito alla sua fine. / Dio gli mandò l’angelo Cherubino / e San Michel dal mare del periglio. / San Gabriele insieme a lor discese: / l’a nima sua portando in Paradiso.” (Anonimo, Chanson de Roland, XII sec.). Tale lettura simbolica del lontano dato storico si accentua nelle versioni suc cessive coeve alle crociate, tanto che Rolando assume la veste del “santo guerriero”, diventando un’immagine di Cristo in armi. Salvo poi trasformarsi, tra il XIV e il XV sec., per influsso dell’ideologia
mercantile che rigettava l’idea di cavalleria come istituzione e gruppo sociale, da eroe della fede a non-eroe impazzito per amore, quasi che la sconfitta in amore (patrimonio tematico della letteratura cortese) basti da sola a motivare l’hybris di Rolando, ma anche a punirlo (e non è un caso che tanto nel Boiardo quanto nell’Ariosto la morte del paladino sia extra-testuale, laddove nel Pulci risulta addirittura deformata dalla straniante ottica contestatrice del poeta), a estremo degrado di quella figura di cavaliere cristiano ormai irrecuperabile dal mondo cortigiano rinascimentale: “ ... Quello Orlando sono / che occise Almonte e il suo fratel Troiano; / Amor m’ha posto tutto in abandono, / e venir fammi in questo loco strano. ... Tu fai col patre guerra a gran furore / Per prender suo paese e sua castella, / et io qua son condotto per amore / e per piacere a quella damisella. / Molte fiate son stato per onore / e per la fede mia sopra la sella; / or sol per conquistar la bella dama / faccio battaglia, et altro non ho brama. ...” (Matteo Maria Boiardo, Orlando innamorato, parte I, canto XVIII); e ancora: “Fu gloriosa Bretagna la grande / Una stagion per l’arme e per l’amore / Onde ancora oggi il suo nome si spande / Sì che al re Artuse fa portare onore, / Quando
i bon cavalieri a quelle bande / Mostravan in più battaglie il suo valore / Andando con le dame in avventura / Ed or sua fama al nostro tempo dura. / Re Carlo in Francia poi tenne gran corte, / Ma a quella prima non fu sembiante, / Benché assai fosse ancor robusto e forte / Ed avesse Ranaldo e il Sir d’Anglante. / Perché tenne ad Amor chiuse le porte / E sol si dette alle battaglie sante / Non fu di quel valore e quella estima / Qual fu quell’altra che io contava in prima.” (Matteo Maria Boiardo, Orlando innamorato, Libro II, canto XVIII). In un certo senso, forzando gli accostamenti, si potrebbe vedere in questa morte extra-testuale il riflesso speculare di quella di Don Chisciotte, l’uscita di scena di un mondo meramente ideale già al suo nascere e come tale destinato a svanire tra i fumi dell’utopia e la polvere delle giostre-tornei: “... ormai io non son più Don Chisciotte della Mancia, ma Alonso Chisciano, a cui gli esemplari costumi meritarono il nome di Buono. Ormai son nemico di Amadigi di Gaula e di tutta l’infinita caterva di quelli della sua stirpe; ormai mi sono odiose tutte le storie mondane della cavalleria errante; ormai conosco la mia stoltezza e il pericolo a cui mi esposi leggendole ...” (Miguel de Cervantes, Don Chisciotte). Il soggiacere di Rolando alla forza della passione amorosa ci riporta all’altro fi lone letterario che concorre alla costruzione del sistema cavalleresco: i romanzi cortesi, legati alle avventure di re Artù e dei suoi cavalieri. Se nei cantari del ci clo carolingio l’ideale cavalleresco coincide con la preoccupazione di “addomesticare” gli interessi privati e l’idea stessa di guerra attraverso un percorso di spiritualizzazione e sacralizzazione delle gesta militari, nei romanzi arturiani sono l’amore e l’avventura - anche quella “santa” (e infatti si va alla ricerca del Graal, non si combatte contro gli infedeli per conquistarlo!) - ad agire come valori atti a consolidare l’equilibrio fra pubblico e privato e a riportare il guerriero in un sistema etico incentrato sulle tre virtù capitali dell’ideologia laica tardo-feudale: valore, saggezza, misura. A tale proposito non si può sfuggire alla tentazione di cercare nella storia una presenza ideale che in certo qual senso possa
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rappresentare l’inverarsi del nuovo modello di cavaliere “nobile, saggio e misurato”, ma anche la sua definitiva uscita dalla storia: Federico II di Hohenstaufen. Il riferimento non è poi tanto peregrino o forzato, dal momento che in Federico storia, leggenda e letteratura si compenetrano profondamente, quasi a farne una figura sospesa fra due mondi, quello dell’agire e quello del sognare umano. Sul piano storico, indubbiamente, l’Hohenstaufen oscilla fra il modello cortese, con qualche suggestione orientale, del cavaliere e quello del politico accorto e realista, che poco concede agli ideali militari (per non dire ai travestimenti ideologici) del suo tempo. O per essere più precisi: nel “privato” della sua corte veste i panni di un re per così dire arturiano, primo nella caccia (trasfigurazione e addomestica
mento del duello-torneo) e primo nel celebrare il codice erotico cortese, mentre nel “pubblico” va decisamente controcorrente sia per il suo esplicito perseguire la via dell’onore (sì che i valori etici sopra citati diventano i pilastri del suo essere imperator) quando i suoi avversari sventolano (più o meno ipocritamente) il vessillo della gloria, sia per il suo concepire la guerra come mera (anche se spiacevole) necessità politica cui ricorrere quando le trattative si arenano. Eccolo allora, una volta che è stato costretto a partecipare alla crociata, scandalizzare tutti - dal pontefice ai potenti d’Europa - con un comportamento indubbiamente scandaloso rispetto alla Weltanschauung dominante, preferendo alla “guerra santa” la trattativa con gli infedeli, senza ricevere o infliggere perdite umane. Mentre attorno
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a lui si applica ancora la morale diffusa da San Bernardo, che così risuona: “... È pur vero che non si dovrebbero uccidere neppure i pagani qualora ci fosse una maniera diversa per impedire loro di attentare o di opprimere i fedeli. Pertanto, almeno per ora, è meglio ucciderli
Letteratura piuttosto che la verga dei peccatori si abbatta sul destino dei giusti, anche perché i giusti non protendano le loro mani verso il male. ...” (Bernardo di Chiaravalle, Liber ad milites Templi. De laude novae militiae), egli infrange con un’unica mossa tanto il modello del miles Christi quanto quello dell’eroe della gloria, mettendo a nudo le contraddizioni di un sistema ideologico, spirituale e politico ormai in crisi. Ma torniamo a quanto si osservava innanzi a proposito della mentalità laica tardo-feudale. I valori a cui essa s’informa si ritrovano in piena luce nell’opera di Chrétien de Troys, i cui eroi incarnano sempre il percorso educativo del cavaliere ideale, ovvero la sua ricerca di un equilibrio fra l’etica delle armi e quella dell’amore (inteso in senso ampio, come lealtà al signore e lealtà-omaggio alla dama), in vista di una definitiva e perfetta integrazione nella comunità. Come nelle chansons de geste, anche qui troviamo il bipolarismo conflittuale fra valori individuali e valori collettivi, ma in luogo del contrasto fra onore e gloria si impone l’opposizione fra istinto (le passioni individuali) e civiltà (l’acquisizione di un preciso codice collettivo, simbolicamente raffigurato dalla corte di Artù), sicché il modello proposto risulta essere di natura preminentemente laica, con una marginalizzazione della componente spirituale-religiosa, e la parola chiave è cortesia. Significativo, a tale proposito, è il modo di presentare gli scontri fra cavalieri. Infatti, mentre nella chanson de geste dominano le scene di natura militare e lo scontro tra cavalieri si configura come duello santo, nei romanzi cortesi il modello del duello in torneo - ormai codificato e dunque epurato della violenza dei primitivi confronti fra guerrieri - viene esteso alla guerra, tanto che essa (nei rari casi in cui viene presentata e, tra l’altro, sempre in riferimento a un passato arcaico e barba-
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rico) tende a configurarsi come uno sport nel quale il nobile cavaliere muore raramente, in genere per errore o per mano di ignobili soldati, di cavalieri felloni e a causa di mezzi estranei alla pratica militare “corretta”. Di solito, infatti, egli viene preso prigioniero e si riscatta, o pagando un tributo o portando a termine prove impostegli, di tipo iniziatico. L’universo in cui si muove e agisce è un mondo che ha concepito e realizzato la guerra e lo scontro in singolar tenzone come una sorta di “gioco”, con regole proprie tese a ristabi lire sempre l’uguaglianza della situazione degli antagonisti, tanto che sulla morte di un eroe pesa sempre il sospetto del tradimento o di una hybris contaminante che minaccia l’armonia della comunità e che non può essere riscattata neppure con la conversione alla vita monastica. Proprio quest’ultimo elemento costituisce il traite d’union con la soluzione mi stica degli Ordini religiosi militari prefigurata da Parsifal, il cavaliere del Graal. L’evoluzione del racconto delle avventure di questo singolare e unico eroe te stimonia senza ombra di dubbio il venir meno della fiducia negli ideali mondani della cavalleria cortese, ma anche l’inapplicabilità del modello crociato a una realtà ormai orientata verso valori pragmatici. Il destino di Parsifal è dunque il destino stesso della cavalleria medievale, “colpevole” nella storia di non essere riuscita a convogliare la violenza verso fini trascendentali e in vista dell’instau razione del regno della pace. E forse non è casuale la tripartizione della sua vita, ché i tre percorsi esistenziali da lui percorsi sembrano adattarsi perfettamente alle tappe evolutive dell’ideologia cavalleresca. Così il viaggio dalla foresta alla corte della prima parte potrebbe corrispondere al passaggio dal guerriero “antiquo” al cavaliere feudale; il passaggio dalla corte alla foresta per tornare alla corte si allaccia all’iniziazione cortese che consente al cavaliere di risolvere i conflitti fra valori individuali e valori collettivi; il ritorno alla foresta viene a inscriversi nel quadro di un’idea della cavalleria che, per rimanere pura e fedele al proprio ethos, deve accettare l’impossibilità di reintegrarsi nella storia terrena e proiettarsi nella dimensione di un’utopia mistica “celeste”. Utopia che è anche riflesso delle aspettative di rinnovamento spirituale e sociale
che - proprio a partire dal XIII e per tutto il XIV sec. - trovano espressione nelle eresie, nelle manifestazioni mistiche e nella fondazione degli Ordini militari religiosi. E non a caso Parsifal, nella versione più tarda di Wolfram von Eschenbach, entra in contatto con i Templari, custodi della mistica pietra del Graal, sorgente di vita e di rigenerazione spirituale, fondatori di un Ordine che, ancor più rigidamente degli Ospitalieri e dei teutonici, era sorto dall’incontro-fusione tra il sodalizio militare e la regola monastica, ovvero dal quadruplice voto di guerra santa - castità - ubbidienza - povertà: “Valorosi cavalieri hanno dimora nel castello di Montsalvage, dove si conserva il Graal. Sono i Templari, che vanno a cavalcare lontano, in cerca di avventure. Qualunque sia l’esito della loro battaglia, gloria o umiliazione, l’accettano con il cuore sereno, in espiazione dei loro peccati ... tutto ciò di cui si cibano viene loro da una pietra preziosa che, nella sua essenza, è tutta purezza. ... Questa pietra dona all’uomo un tale vigore che le sue ossa e la sua carne ritrovano immediatamente la giovinezza. Si chiama anche Graal. ...” (Wolfram von Eschenbach, Parsifal). Con lui il cavaliere travalica i confini dell’etica feudale e laica sostenuta da Rolando e Lancelot e così espressa dalla Dama del lago: “... Ché le armi non sono state date loro senza motivo. Lo scudo che pende dal collo del cavaliere e lo difende sul davanti significa ch’egli deve interporsi tra la Santa Chiesa e chi l’assale ... Allo stesso modo in cui il giaco lo veste e lo protegge da ogni parte, così egli deve coprire e circondare la Santa Chiesa ... L’elmo è come la garitta da cui si sorvegliano i malfattori e i ladri della Santa Chiesa. La lancia, lunga in modo da ferire prima che colui che la porta possa essere raggiunto, significa ch’egli deve impedire ai malintenzionati di avvicinare la Santa Chiesa. E se la spada, la più nobile delle armi, è a doppio taglio, è perché essa con un taglio colpisce i nemici della fede, e con l’altro i ladri e gli assassini; ma la punta significa ubbidienza, ché tutte le genti devono obbedire al cavaliere; e nulla trafigge il cuore come ubbidire a dispetto del proprio cuore. Infine, il cavallo è il popolo, che deve sostenere il cavaliere e sopperire ai suoi bisogni, ed essere sotto di lui, e ch’egli deve
menare al bene secondo il proprio in tendimento ...” (Anonimo, Lancillotto in prosa, “Infanzia di Lancillotto del Lago”, prima metà del XIII sec.). Il suo destino non è quello di morire per la fede e neppure quello di espiare le proprie colpe abbandonando l’armatura per il saio del penitente. Il fato ha stabilito per lui un’altra strada da percorrere, ben più difficile e disperata: introdurre nella storia, sulla terra, il sogno di una societas Christi universale in cui i bellatores, in virtù di un duro percorso di purificazione iniziatica, fanno propria l’etica monastica della pugna spiritualis e diventano i custodi angelicati dell’armonia mundi. Ecco perché, per la tradizione medievale, Parsifal non muore ma svapora fra le nebbie di una folle speranza. Chi entra nel regno di Utopia, infatti, si condanna a un’esistenza extra-temporale, perché perpetuo è negli uomini il bisogno di purezza, di verità, di giustizia. Parsifal è dunque, in un certo senso, un folle di Dio, ovvero colui che per ritrovare e riportare in terra il Divino si consegna al regime dell’eccesso ascetico e mistico. Il suo messaggio sarà idealmente raccolto dalla pulzella di Dio, Giovanna d’Arco, ché solo una donna poteva far suo, senza contraddizione interiore, il sogno di una “cavalleria mistica”. Ma con Giovanna l’antiqua militia Christi conosce il suo canto del cigno; una donna in armi, una donna che addirittura viene investita cavaliere, ne accoglie l’eredità. è il paradosso finale, una conclusione che mai il teorico di Chiaravalle avrebbe potuto immaginare, ma anche una morte che ha in sé il dramma di Rolando, senza la sacralizzazione compensatoria. Muore Giovanna sul rogo e il fuoco, con lei, distrugge i fantasmi di un progetto etico ormai estraneo agli interessi e agli ideali della società “borghese”. Ma dalle ceneri, araba fenice, sfugge qualcosa: è il mito romantico della cavalleria e del cavaliere ‘senza macchia e senza paura’ con tutti i suoi travestimenti e travisamenti ideologici. Ma questa è una storia non più scritta nei cantari e nei romanzi cortesi.
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P.106, 108 e 109: Armatura del XIV/XV sec. collez. privata, (foto P.Del Freo); p.107: Il sigillo templare; p.110: Cattedrale di Angoulême, bassorilievo sulla Chanson de Roland; p.111: Rappresentazione di cavaliere templare; p.113: Cattedrale di Reims, Joan d’Arc, scultura lignea.
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L’intÊrieur Alice Sabrina Conti
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i sono viaggi che hanno inizio con ore ed ore passate a riempire valigie, ad inseguire aerei, a fotografare paesaggi: sono all inclusive, compreso l’obbligo all’allegria. Altri “itinerari” possono partire, dal gioco di un dito su uno specchio d’acqua: gira ... gira ... gira ... si formano cerchi su cerchi sino a creare una spirale ipnotica dentro cui lasciarsi precipitare, lentamente ... molto lentamente, sino a quando, un coniglio bianco non ci passa davanti correndo. Indossa un bel panciotto ed un cappello a cilindro. In mano un orologio a cipolla che segna le dodici passate ... Un coniglio? Col panciotto?! Non è possibile!!! La mente cosciente vorrebbe ritornare un passo indietro. E per farlo ci espone tutte le sue vere verità ma ... ormai è troppo tardi; Il viaggio verso il Sé è già cominciato: il mondo delle Meraviglie ci attende: qui non troveremo orari per “l’english tea” e neppure giorni in cui festeggiare la nostra nascita ma, sicuramente torneremo cambiati nel profondo o forse non torneremo più, chissà. Così ha inizio il viaggio iniziatico di ‘Alice’ che, scritto da Louis Caroll nel lontano 1865 verrà ripreso e messo in scena come cartoon, da Walt Dysney1 nel 1951 [e, sempre dalla Disney, con la recentissima versione del 2010 di Tim Burton le cui immagini sono a corredo dell’articolo, ndr]. Superfluo sottolineare come, quest’opera letteraria, vedrà in questa trasposizione cinematografica, l’esaltazione di tutti i riferimenti iniziatici già peraltro presenti, nel testo dello scrittore2 inglese. “Ohh ... Puffari, puffarissimo è tardi è tardi è tardi ... ma che, ma che...non aspettano che me in ritardo sono già non mi posso trattener ... è tardi è tardi sai io son già in mezzo ai guai ... non posso dirti ciao, ho fretta ho fretta sai ...” Alice, sopraffatta dalla curiosità, dopo essersi avventurata in una caverna3, antesignano archetipo dei rituali iniziatici, si ritrova a precipitare lentamente, in un pozzo senza fine. Ma guarda che strano! Ci sono quadri alle pareti, libri ... oh un camino, e pure un alambicco ... Davvero sembrerebbe di trovarsi all’interno di una torre4. Ecco, non una torre qualunque, piuttosto ... quella di un Mago o ... di un Alchimista! Sicuramente, questa lenta discesa, mi sta portando oltre la metà dell’asse terrestre, dice Alice ... magari il
luogo dove, eroi e divinità erano costretti a discendere per elevarsi, poi, alle più alte imprese5: diremmo Noi. Ma ecco nuovamente il Signor Coniglio e, l’inseguimento riprende: prima un lungo corridoio poi una porta, un’altra ... trequattrocinque ... infine, una stanza! E’ quadrata. Le pareti sono a riquadri ed il pavimento a scacchi6. Si ma lui?! ... forse ... spostando quella ten-
C’era una volta un Re ... direte voi, e No! Qui abbiamo un Bianconiglio, uno Stregatto, un Capellaio matto, una Regina, ed anche un ‘povero’ Re ma soprattutto Alice ... e la storia incominciò ...
da in basso ... ohhh ... un’altra porticina ... sbirciando dal buco della serratura si intravedono un rigoglioso giardino7 ed un sentiero ... eh si! sicuramente il Bianconiglio è li! Ma come passare dalla dimensione materiale a quella spirituale? Come aprire questa sesta porta8 tanto piccina e
Letteratura chiusa a chiave ... La Nostra eroina, disperata, dopo avere bevuto da una bottiglietta ed avere cambiato statura un paio di volte, piange, piange, piange ... grossi lacrimoni che, pian piano, si trasformano in un lago in cui sta per affogare! Ma ecco, seguendo il flusso dell’acqua Alice oltrepassa la soglia. Il problema è che tutte quelle lacrime hanno creato un mare in cui ora si ritrova ad annaspare. Giunta a riva, purificata9 da tanta acqua, viene coinvolta in una Maratonda: una danza in tondo10 ... tanto per asciugarsi un po’, in attesa del Bianconiglio ovviamente! Ed eccolo arrivare, trafelato come non mai! Inutile la corsa ... Alice si ritrova, nuovamente sola, in un fitto bosco11, pieno di sentierini privi di indicazioni ma traboccante di personaggi assai curiosi, pronti a darle utili consigli! E’ ora il turno di Pincopanco e Pancopinco, due buffi grassocci fratelli gemelli, che si esprimono in rime musicali prendendosi a panciate. La storia che vanno narrando, è quella di un Tricheco che riesce a fare indigestione di ostrichette, invitandole, con blandizie a sedere alla sua tavola!, Nel racconto successivo, un vecchio racconta al suo nipotino di quanto siano simili le loro età ... Alice si allontana furtiva, da questa rappresentazione del divenire, da questo “Theatrum trasmutatorio”: far vincere la verità sull’ignoranza ed i preconcetti è impresa assai ardua e, lei come molti, lascia aperto l’enigma dell’eterna dualità tra Sole e Luna, Jn e Yan il Se e l’Altro. Ha finito per ora di imparare, nuovi lidi deve ora esplorare, ed il Mentore è qua! Vestito da cerimonia rivolge la parola per la seconda volta ad Alice. In realtà l’ha scambiata semplicemente con Arianna, la sua aiutante e, credendola tale, le ingiunge di andare a casa a prendergli i guanti bianchi12. Il comando è chiaro, di guanti ve ne sono più di un paio, ma la bimba mangia un dolcino ed è lo scompiglio totale! La casetta del coniglio non la contiene più! Ma bando a tutto, Alice ormai è un’esper-
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ta (almeno in questo) e, per rimpicciolire mordicchia una carota. Ritrovata la giusta misura, fugge, lasciando il Kaos dietro di se. Un coro di fiori diretti da una rosa rossa13 la accolgono incuriositi, ma la sosta è breve: solo le erbacce non hanno radici,
non compleanno, vorrai dire> appunto! Tra una fetta di non torta ed, una tazza di non tè, in compagnia di un Cappellaio Matto, un Leprotto Bisestile ed un Topino isterico, Alice assiste ad una autorevole lezione sull’importanza, o meglio la non importanza, del tempo17 che si con-
Letteratura e certamente lei appartiene a questa categoria! È troppo differente da loro, guarda che petali! Sembrerebbe, quello di Alice, un viaggio iniziatico pieno di contraddizioni (che man mano si creano nel suo animo) e rifiuti (subiti per la sua “diversità”), con un percorso, non deciso dalla protagonista, ma in balia del Bianconiglio e dello Stregatto, indubbiamente le due figure topiche di tutta la vicenda. Il Bianconiglio14, rappresenta il Maestro, che indica la strada ma lascia libertà di movimento, che osserva ed è presente ma apparentemente ignora. La nostra protagonista non demorde ed ora, al cospetto del Brucaliffo, di quell’essere vivente che, con ogni evidenza, volente o nolente, identifica la mutazione, si ritrova di fronte alla domanda insita in ogni uomo, da secoli e secoli ispiratrice e stimolo fondante dell’Universo: “Chi essere tu?”. La confusione è totale, l’unico spiraglio, l’unica risposta, dopo tutte le “mutazioni” a cui si è sottoposta, è inerente alla sua altezza: otto centimetri sono troppo pochi. Il bruco infuriato le risponde che lui ha quell’altezza e, a dimostrazione che l’apparenza non è nulla al confronto delle possibilità che la mente offre, abbandona i suoi vecchi abiti per compiere la sua magnifica mutazione, innalzandosi nel cielo lancia comunque l’indicazione ad Alice per trovare un suo equilibrio: “un lato ti farà diventare più alta, l’altro più bassa”. La bambina dopo un paio di tentativi, come sempre un po’ traumatici, sembra riuscire a trovare la sua altezza ideale. A questo punto, del racconto, si materializza lo Stregatto Oreste. Mentre con il Bianconiglio il rapporto è di sudditanza, con questo personaggio Alice ha un rapporto diretto. Come Gatto svolge appieno il suo mitico ruolo di confine tra il solare ed il lunare e, come Ὀρέστης, riconduce al terreno15. Cosa volere di più, da un Traghettatore16, in un viaggio verso il Sé? La tavola è imbandita, si festeggia un compleanno: <un
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clude con la trasformazione dell’orologio del Bianconiglio in un bel sandwich. Mentre la festa continua, con una ritualità, perpetuata all’infinito, avendo visto ormai demolite tutte le sue convinzioni e convenzioni, ed avere avuto prova della loro irrilevanza, la nostra “inizianda” vorrebbe ora tornare ad esse, uscendo dalla ricerca, e da quello che sembra solo un mondo pieno di incongruenti paradossi. Ma, persasi nuovamente nel bosco e versate un bel po’ di lacrime, rammaricandosi di avere forse “osato troppo”, privata del sentiero che, “la diritta via le indicava”, grazie al visibile/invisibile Stregatto, Alice si ritrova infine in un labirinto18 fiorito, al termine del quale fa l’incontro fatidico con colei che tutto può e decide: la Regina di Cuori. La simbologia è quella che ha da sempre, incuriosito, corrotto, accresciuto e distrutto l’uomo: il mondo delle carte, coi suoi quattro semi ed i corrispondenti quattro elementi (acqua, fuoco, aria, terra). Nuovamente interviene Oreste e, in un bailamme di teste mozzate, partite a croquet truccate ed un processo farsa, la nostra eroina, si rivede passare innanzi tutti i “personaggi” e gli accadimenti del suo lungo viaggio (ma non accade anche quando si è vicini ad esalare l’ultimo respiro?) e, tra l’ennesima crescita e dimi-
nuzione di statura19, condannata a morte, ritorna alla vita. Presa coscienza di se e di chi è, Alice si ribella dando la giusta collocazione ad ogni “personaggio” e riuscendo a riemergere, dalla spirale20 da cui tutto ebbe inizio, giungendo, sana e salva, al suo mondo esteriore, finalmente con la giusta statura, almeno per il momento. Tra le tante, una domanda fa capolino con impellenza: come mai ora la Regina di cuori, insegue Alice, col suo esercito di carte, per impedirle di uscire dal suo regno? Non sarà che, dopo tante prove, la nostra bambina abbia colto il senso della Verità e che “la Grande Madre” voglia impedirle di divulgarlo? Effettivamente Alice, ridestatasi racconterà l’accaduto alla sorella. Quest’ultima, chiudendo gli occhi coglierà appieno il Messaggio, prendendo dentro di se questo nuovo sapere e conservandolo nel Suo profondo. Fin dalle origini l’Essere Umano si è posto domande sul significato del suo camminare sulla terra, sul senso della sua esistenza e ancor più sul valore del Tutto, al cospetto del suo lento defluire, verso la morte. Le scienze e le religioni, emanazioni di certezze e di fede, sono da sempre porte aperte, atte a “suggerire la Via”. Al contempo, a Oriente ad Occidente, uomini dallo spirito elevato, riempirono e riempiono, pergamene di calcoli e posero e pongono, al fuoco infiniti alambicchi, per purificare la materialità e scinderne lo spirito ... È per questo che, come Alice, coloro che aspirano a fare del corpo, unicamente un mezzo di supporto nella ricerca del profondo, coloro che he rifuggono dagli inganni sempre maggiori di una società dedita all’inutile, sono avvezzi ad attraversare mari infiniti, fitti boschi, labirinti, con una sola via di uscita. A sorreggerli, in questo, spesso inconcludente viaggio, la saggezza acquisita e la conoscenza dei pericoli, fanno si che, nelle tasche della loro mente cosciente, vi siano sempre “biscottini e bottigliette” utili a preservare lo spirito e la materialità, da “abbacinazioni” mentali, molto lontane dalla verità. Ma, ancora più importante, nelle loro “mani” vi è sempre un lumino acceso, ad indicare la giusta via verso la Conoscenza. _____________ Note: 1 Walt Disney, (1901-1966), la sua appartenenza alla massoneria parrebbe provata. Molti so-
no i riferimenti iniziatici nei suoi cartoni animati ed anche nei fumetti, in particolare nella figura di Topolino; 2 Lewis Caroll o meglio Charles Lutwidge Dodgson, (1832-1898) curato protestante di campagna, discendente da una famiglia di “servitori di Dio”. Suo zio Pusey era il discendente diretto di Sir William Sinclair; cavaliere templare, massone, fondatore dell’abazia di Rosslyn luogo in cui le due tradizioni iniziatiche coesistono mirabilmente. Secondo una teoria dello scrittore Charles
za. Ma uguali luoghi si trovano in tutte le tradizioni dai sumeri agli indiani ai Greci ... tutti hanno rappresentato il loro giardino dell’Eden; 8 Il sei numero mistico che predispone all’unione col divino, crea al contempo l’illusione: la stella a sei punte, del Sigillo di Salomone, ha in se materialità e spiritualità, cielo e terra, maschile e femminile; 9 L’essere è come una goccia d’acqua che rifluisce dal mare, ma dal mare ne uscirà una nuova, priva di impurità” Pruneti, La via segreta, Pruneti,
è dunque Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidum, la terra è la nutrice e, dentro le sue oscurità, bisogna penetrare per proseguire il cammino. “La terra è l’Athanor della rigenerazione” (Guénon); 16 Caronte, Dante, Canto III, Inferno; 17 Per uscire dall’immanente e salire al trascendente bisogna superare la dimensione temporale.
D. Skinner Alice non aveva gli occhi verdi, p.132, il nostro pastore sarebbe anch’esso un massone, e volendo analizzare altri testi poco conosciuti, dello stesso autore, si riscontrano alll’interno diverse parodie dei tracing board (simboli nascosti agli occhi dei profani ma riconoscibili agli iniziati). Inoltre il cavaliere Bianco, presente in Alice attraverso lo specchio, richiama un templare. Potrebbe risiedere in questo la motivazione della distruzione, dopo la morte, da parte della famiglia, delle lettere appartenute a Dodgson; 3 L.Pruneti, La via segreta, Bari 2005, Il Prato di Ate; 4 La Torre, lama xvi dei tarocchi rappresenta l’aperura, la necessità di fare emergere il profondo dell’io spirituale (Jodorowsky, La via dei tarocchi). Molto spesso paragonata alla torre di Babele, in questo caso esprime l’entrata di Alice nell’Io più profondo e sconosciuto. La presenza degli strumenti alchemici rafforzano il senso della ricerca, la necessità di purificazione; 5 Luigi Pruneti, La via segreta; 6 Il pavimento a scacchi o a mosaico o a squadra (Irène Mainguy, Simbolica massonica del terzo millennio) è uno dei “gioielli” di una Loggia massonica. Legato alla luce ed alle tenebre, al giorno ed alla notte, a tutte le coppie di opposti e complementari...; 7 Il Giardino: da sempre il giardino più richiamato è quello dell’Eden, della Bibbia col suo Albero della del bene e del male e quello della conoscen-
Il segreto del Bosco incantato, Bari; 10 In tutte le popolazioni, le iniziazioni sono state accompagnate da danze. Tante sono le raffigurazioni, pervenuteci, di danze concentriche con, al centro, la rappresentazione di una icona, un mago, un sacerdote, una strega, una fata...; 11 Pruneti, Il sentiero del bosco incantato; 12 Indossati nelle logge massoniche ad indicare lo stacco dalla materialità durante i “lavori”; 13 Dal Medioevo la rosa rossa è permeata da una ricchissima simbologia, legata a significati, popolari, religiosi, esoterici... rappresentata nelle arti, con significazioni che variano dal numero di petali, esprime l’interiorità dell’uomo, è specchio della rivelazione divina, simbolo della ricerca iniziatica (La rosa di Paracelso) o di espressione del cielo (ros maialis, combinazione di fuoco e di umore acqueo –Guenon)...; 14 Il coniglio, per tradizione legato alla Madre terra, indica un evento inaspettato, che porta alla chiarificazione di una realtà superiore, Dalla mitologia, alle fiabe Cinesi ai racconti dei neri d’America alle leggende dei Celti, sino ad arrivare ai giorni nostri con canzoni rock, film (Matrix), il coniglio, rappresenta il viaggio, l’unione tra il terrestre ed il celeste (la luna) ed è simbolo dell’abbondanza e della chiarezza interiore. In questo caso il coniglio è bianco: simbolo di purezza e positività interiore; 15 Oreste in greco significa abitante del monte,
Nel Tempio la ritualità è il mezzo: l’infinita ripetizione, conduce all’Infinito.In tal modo, i metalli restano al di fuori e così pure il Tempo con le sue lancette inarrestabili. Ogni volta che si attua la morte vi è la rinascita e ciò accade all’infinito sino a quando le dualità si uniscono e divengono Uno, il Tutto. Il mito Kronos, sembra gettare un’ombra sul significato del Tempo e sul suo incalzante incedere; 18 “attorno al Minotauro all’aldilà, secondo le regole della Grande Madre del labirinto, della morte e della risurrezione: Arianna la compagna di Dioniso...”, Elémire Zolla, Le meraviglie della natura, 1975; 19 Dieci sono le volte che Alice cambia di statura: ogni volta per imparare e proseguire deve adeguarsi, calcolare, percepire. Ogni volta la sua percezione differisce da quella di chi le sta a fianco in quel momento. Si deduce che la percezione è relativa ed in effetti lei stessa all’inizio intuisce che “niente è come è, tutto è come non è; e viceversa ciò che è non è, ciò che non è è” come direbbe Osho: “l’esistenza è senza divisioni” o meglio ancora “così sopra come sotto” (Ermete Trismegisto); 20 Nell’alchimia, il cammino di ricongiunzione del corpo verso Uno si attua tramite la forza centripeta della spirale.
Letteratura
P.114-117: Immagini tratte dalla recentissima versione Disney di Tim Burton del 2010 di ‘Alice in Wonderland’. Tutte le immagini, promozionali, sono © Disney Enterprises.
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Simbolismo
La Scarzuola Paola Marcheggiani
U
n viaggio a Scarzuola è un viaggio spirituale. Un itinerario che ci rimette in connessione con noi stessi, facendoci ritrovare la nostra anima attraverso i meandri di un labirinto di pietra che, dopo la discesa nella caverna delle prigioni, ci riporta alla luce, nella luce. La Scarzuola è una città ideale, costruita dall’Architetto Buzzi, Massone, sulle pendici di una collina boscosa dell’Umbria, vicino a Montegiove. Luogo silenzioso, dove finalmente, chi vuole, riesce a sentire il respiro dell’anima. Scelto da S.Francesco come ritiro, fin da quel tempo ha conservato quella silente spiritualità tipica dei luoghi Francescani. Per farsi un piccolo ripa-
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ro Francesco intrecciò l’erba del luogo, la scarza, e sotto quello rimase in preghiera e ritiro. Per arrivare bisogna percorrere una strada sterrata che si dipana dolcemente in un bosco, fino a un grande portone di legno, che interrompe la monotonia di un muro. Dietro il portone, una piccola chiesa, costruita dopo la morte di Francesco. Ma fin qui tutto sembra seguire i canoni di un percorso che ci fa rimanere in silenzio, appagati dalla bellezza dei luoghi. La sorpresa viene dopo essere entrati, dopo aver incontrato il proprietario, dopo essersi lasciati alle spalle la chiesa ed essersi tuffati in un tunnel di verde che porta ad un laghetto grande come una fontana, da cui partono 3 porte. Il proprietario,
nipote dell’architetto Buzzi, ci accompagna in questo cammino, come uno psicopompo che si definisce un giullare, attraverso le costruzioni in tufo che l’architetto volle ideare per pietrificare e rendere visivo e tangibile, il percorso che ogni anima dovrebbe compiere per raggiungere il G.A.D.U. L’occhio cade continuamente su simboli di pietra, posti lungo il cammino per ricordare alla nostra anima chi siamo e dove andiamo. L’acqua ci guida, scorrendo prima e poi inabissandosi nella madre terra che ci aspetta alla fine del sentiero. Dal laghetto coperto di alberi e cespugli, dobbiamo scegliere uno dei tre cammini che le porte ci indicano: Gloria Mundis, Gloria Amoris, Gloria Dei.
Scegliamo la terza, seguendo la nostra guida che ci stupisce, provoca, affligge, sferzandoci e irridendoci, come uno stuolo di anime che deve capire, che deve crescere, decriptando ciò che vede, interpretando i simboli. Il sentiero nel tunnel di verde finisce in un prato e la vista che ci si offre è mozzafiato. Una enorme nave di tufo, con tanto di poppa con cassero, tolda e prua giace adagiata sull’erba, con a fianco un teatro romano, con i gradoni degradanti fino al suo bagnasciuga, e in cui la bocca del proscenio è un enorme mascherone da cui esce, di nuovo, un filo d’acqua che svanisce per poi rinascere dall’altra parte della nave, dove un laghetto più grande sembra voler far galleggiare questa barca di anime, pronta a salpare verso la Gloria degli Dei. Cominciamo a scendere verso la nave. Un orologio alto come una torre, con le lancette che vanno all’indietro, ci avvisa di non cercare più il Tempo. Stiamo entrando in una dimensione a-temporale dove il Tempo del Mito, che esisteva prima dell’inizio della Storia, quando nacque il tempo lineare, ci accoglie in uno spazio sacro. Subito dopo passiamo vicino ad una grandissima statua di una donna, con i seni scoperti, che ritroveremo dopo, scoprendone la valenza, alla fine del percorso. Le api d’oro, applicate sulla poppa della nave, ci ricordano che è in natura che abbiamo incontrato i primi architetti. Il simbolo delle api, sacre in molti Riti, ritorna come uno stemma dell’architetto Buzi, che vuole quasi comunicarci la sacralità della sua opera. Cominciamo a scendere, scendere in un tunnel buio, dove una grata e un burattino argentato attaccato alle sbarre ci fa capire che stiamo scendendo nella prigione dei sensi, nei tunnel della memoria, nel gabinetto di riflessione. Ma si ritorna fuori, alla luce, dopo la
putrefazione delle tenebre e si comincia a salire lentamente una scala larga, comoda, dove la numerologia e le misure dei gradini sono un trionfo di simbolismo. Si vede bene la nave, adesso, adagiata sul laghetto, più in alto di noi, un po’ lontano. Crea un colpo d’occhio che fonde arte e coscienza, senso estetico e simbolo parlante. Si desidera solo raggiungerla, lasciare i tunnel alle spalle, infilarsi in quella barca che, sentiamo, ci porterà lontano. Il nostro psicopompo ci guida ancora, ci sospinge, ridendo a volte con una risata stridula che vorrebbe impaurirci. Ci ricorda le crisi della nostra vita, le chimere che abbiamo inseguito, i sentieri sbagliati che abbiamo intrapreso. “Un pazzo” diranno alcuni. No, la voce di una coscienza forte, che accusa, che ricorda, che spinge. Non siamo abituati a un eloquio così, colpisce alcuni molto sfavorevolmente. Si sentono accusati, non comprendono. Ma il nostro giullare dice cose molto vere, ridendo ci castiga, ci connette con pensieri lontani. Arriviamo alla scala musicale che ci porta verso l’alto, come solo la musica può fare, rappresentazione di una scala di connessione tra la Terra e Dio. Saliamo i gradini di questa scala a chiocciola che si allarga maestosamente, dandoci l’impressione di spazio vuoto, di maestosità. In alto, di nuovo troviamo un tunnel. Usciamo poi sotto la prua, dove un trionfo di omaggi alle divinità ci sovrasta: templi sacri di ogni parte della terra, di ogni forgia e collocazione temporale. Il Tempo e lo Spazio si annullano in questo conglomerato di inni al Dio, lasciando soltanto la sua Idea, la sua luce invitante
per proseguire il cammino. Entriamo in un cunicolo nuovamente, usciamo in un piccolo spazio. Per terrà è disegnata la forma di un utero, dove l’uomo vitruviano si adagia come a invitarci a rinascere. Proseguiamo di poco e per terra troviamo la sagoma di un cuore : anche quello dobbia-
Simbolismo mo percorrere per la nostra nuova nascita, per poter far nascere un uomo nuovo. Si apre una porticina: siamo fuori, nel prato, nella luce. Siamo usciti dal fianco della Donna con il seno scoperto, alta, maestosa, la Madre Terra che ci ha nuovamente partorito come esseri nuovi, che tutto hanno provato e che hanno ritrovato la strada. Alle nostre spalle, in un omphalos, un cipresso bruciato da un fulmine ci connette a G.A.D.U, in un rapporto di energia violenta, bruciante tra terra e cielo. Andiamo via in silenzio, troppo è stato visto e troppo è stato sentito in quei recessi profondi che, solitamente, rimangono in silenzio dentro di noi, incapaci di aprirsi spontaneamente per far entrare la luce. Attraversiamo di nuovo il cortile, la chiesa di Francesco, il giullare di Dio, rimane dietro di noi, immota, orante nel silenzio della sera che ormai ci ha coperto. Il portone si è chiuso dietro di noi, siamo di nuovo nel bosco. Ma questa volta non lo sentiamo come una selva oscura. Scarzuola, con il suo creatore, ci ha donato qualcosa, possiamo andare avanti senza più paura. Scarzuola, loc. Montegiove di Montegabbione (TR)
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Massoneria
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I
n Italia, al di là delle visioni chiesastiche di un mondo cattolico idealmente prigioniero di se stesso, se c’è una cosa che nell’immaginario collettivo laico comunemente caratterizza tuttora a livello profano il concetto di Massoneria è indubbiamente la pur vaga percezione di un qualcosa di comunque vecchio, e quindi di conservatore (se non addirittura reazionario). Chi viceversa sa che la Massoneria ha concettualmente incubato con i propri principi-cardine la moderna civiltà occidentale con le grandi rivoluzioni e la nascita dello stato liberale si rende conto di quanto tale percezione sia erronea. Una percezione enfatizzata dall’antimassoneria spicciola, certo, ma anche dalla semplicistica demonizzazione politica montata grazie alla P2 da forze cui tutto ciò ha fatto comodo. I contrasti interni messi in piazza dalla stampa più o meno scandalistica relativamente a realtà massoniche diverse dalla nostra, poi, non hanno aiutato nè aiutano certo l’uomo della strada a crearsi un’immagine particolarmente positiva. Ciò nonostante, oggi assistiamo ad un boom di adesioni di giovani alle logge, e questo fenomeno apparentemente contraddittorio andrebbe meglio compreso al di là dei numeri. Sebbene stampa ed editoria non abbiano fatto quasi nulla per rimuovere il clima di intolleranza costruito da una certa politica attorno alla Libera Muratoria italiana, infatti, continuano ad essere in crescita le adesioni di giovani di varia estrazione sociale che bussano alle porte dei templi massonici. Per certi aspetti, in presenza di una immagine mediatica tuttora divisa fra insinuazioni, gossip e scandalismo, il fenomeno non si spiega. I profani interessati, una volta tegolati e ritenuti idonei a entrare nell’Obbedienza, sembrano non solo impermeabili a certe informazioni negative comunemente diffuse da sempre, ma anche perfettamente consapevoli del fatto che aderire alla Massoneria non prevede particolari vantaggi: un mito duro a morire la cui infondatezza ed inconsistenza per quanto concerne la Gran Loggia d’Italia è invariabilmente precisata e sottolineata prima e dopo. E allora? E allora se ne deduce che, di fronte alla consapevolezza che a livello pragmatico essere in Massoneria in real-
Massoneria
tà non paga, resta un’unica e sola considerazione da fare. L’adesione dei giovani è dovuta ad un altro fattore. Quello proprio della carenza e della ricerca di valori. Di fronte a strutture religiose inadeguate, al crollo delle ideologie, alla delusione per la politica in genere, è in effetti proprio la ricerca di nuovi valori a portare molti a forme di introspezione e di valorizzazione di elementi tradizionali ed esoterici. Elementi tradizionali che la cultura New Age, indubbiamente semplificandoli e banalizzandoli, ha nondimeno diffuso negli ultimi anni a tutti i livelli. Ed ecco dunque che chi non si accontenta di un tale surrogato di Tradizione è necessariamente portato ad approfondire. Così si legge, ci si documenta; e anche lo stesso internet fa la sua parte. E quando infine si constata che molti di questi valori e di queste conoscenze esoteriche si ritrovano nella Massoneria, il passo successivo verso la Libera Muratoria diventa conseguente. Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Qual è la vera storia dell’umanità? Siamo soli nell’universo? Quasi sono i poteri della psiche umana? Abbiamo vissuto esistenze precedenti? Come possiamo elevare il nostro essere? Questi ed altri interrogativi esistenziali del genere portano tanti alla Massoneria
d’oggi, che non è né deve essere Tradizione imbalsamata, bensì Tradizione viva e in rapporto al futuro ed ai suoi sviluppi, in tutti i campi. Questi giovani Fratelli in cerca della Luce non vanno dunque istruiti semplicemente sulla base di concetti validi ma fine a se stessi, ma anche con un approccio al passo con i tempi, in direzione di quel Segreto Iniziatico che ogni massone deve scoprire in se alla luce di un esoterismo rivolto dal passato al futuro. Un’operazione non sempre facile, certo, ma che dall’ambito dei vertici dell’Obbedienza potrebbe e dovrebbe essere affrontata per poi venire gradualmente contestualizzata ed estesa a tutta l’Obbedienza per vivificarla con energie giovani non solo non deluse, ma possibilmente appagate. Non è un’impresa facile. Ma occorre confrontarsi con tale necessità. In ballo c’è infatti il futuro e la crescita dell’Obbedienza. Tanto più che le oggettive difficoltà di contesti massonici a noi estranei ci pongono, in ultima analisi, in una posizione di vantaggio. Deritualizzare la prassi massonica in nome di “esigenze di semplificazione” non paga, e anzi ingenera inquietudine a chiunque sia sensibile al peso della Tradizione, a qualunque ambiente appartenga. P.120: Costellazione dell’Acquario, stampa, XVII sec; p.121: Verso Est, collez. privata.
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Psicologia e psicopatologia nellâ&#x20AC;&#x2122;azione rituale massonica Barbara Nardacci
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opo aver partecipato ad alcuni lavori rituali, iniziai a percepire una netta differenza tra questi ed una riunione di gruppo di studio. La differenza era rappresentata dal netto senso di benessere che mi accompagnava per il resto della serata, da quell’effetto “teobromina” che mi faceva desiderare che arrivasse presto il giorno dell’incontro successivo ... in altre parole, mi sentivo meglio. Non me ne resi veramente conto fino al commento di un fratello: -secondo me tutta questa teatralità è inutile! Si perde un sacco di tempo! Non potremmo lavorare senza?- Apprezzando, allora, la capacità liberatoria, la valenza “psicoterapeutica” di un lavoro rituale, mi sorpresi ad accomunarla ad una seduta dello psicodramma di Moreno, non mancandovi nessun elemento fondamentale, neanche le figure di ausilio, rappresentate, in Loggia, dagli altri fratelli. Le analogie della ritualità massonica con i principi funzionali e dinamici delle moderna psicoterapia sono davvero impressionanti per gli eventi psicodinamici e neurofisiologici, attivati dagli strumenti psicoattivi del rito efficace: luogo sacro, ripetizione dell’atto con profondo sentire, collegamento e abbandono al Trascendente, comunione col Trascendente e conseguente trasformazione. Nella mia esperienza personale, i liberi muratori si mostrano per lo più persone dall’intelligenza e fantasia vive, riservate e introspettive, generose, prudenti e indipendenti, poco inclini, apparentemente per assurdo, al lavoro di gruppo e non evidenziano gran bisogno di approvazione altrui. Queste caratteristiche si modellano nel tempo, si trasformano a volte in modo esacerbato, tanto da far dire ai loro conoscenti : -ma lo sai che è cambiato, da un po’ di tempo?- Nella maggior parte delle volte il cambiamento notato è in un miglioramento ma non sempre. Per quanto ho potuto osservare personalmente, circa gli aspetti psicologici di alcuni, è possibile che il processo di trasformazione, svolgendosi attraverso stadi di notevole criticità, sia accompagnato da disturbi emotivi o francamente neurologici, indici di passaggio ad una dimensione psichica diversa. Talvolta, proprio per l’estrema potenzialità dell’esperienza psicologica rituale massonica, si può assistere alla slatentizzazione di disturbi della
personalità, come già notava E. Brault1. Osservando - effettivamente - modificazioni comportamentali, inaspettati gesti o manifestazioni, nei fratelli più vicini, viene da chiedersi quale sia il ruolo della natura iniziatica della struttura ritualistica della massoneria, e soprattutto quali
Anatomia della mente
L’uomo è preda di fantasmi interni, di attaccamenti, di complessi. L’uomo vive vedendo ogni cosa attraverso il velo di deformazioni derivanti da influssi esterni, correnti psichiche di massa... mentre egli crede di pensare oggettivamente è invece influenzato da quelli che Bacon chiama idoli, da preconcetti e da suggestioni. Tutto questo produce un vero stato sognante dal quale ci si può e ci si deve risvegliare! Assagioli
siano le innegabili conseguenze psicologiche, talora negative, ovvero, per citare Moramarco, i rischi della “psicopatologia massonica”2. Che cosa accade dal punto di vista neurobiologico partecipando ad un rituale efficace? Un gruppo di ricercatori americani3 ha evidenziato come le azioni ripetitive, agendo sul sistema limbico e sul sistema nervoso autonomo, determinano modificazioni migliorative dei parametri neurovegetativi e dell’attività del sistema immunitario, sensazione di benessere e cambiamento dello stato mentale: “Il rituale umano presenta due caratteristiche principali: produce scariche emotive caratterizzate da un sentimento soggettivo di serenità, estasi ... induce un senso di unione ... assume spesso la forma più o meno intensa di esperienza trascendente”. Il rituale massonico, per la sua natura iniziatica, è emotivamente speciale, in esso tutto deve essere compiuto correttamente, in modo da interagire correttamente sul vissuto stesso. La ripetitività di determinate azioni e gesti, induce a livello dell’amigdala, particolare attività elettrica, correlata all’impatto emotivo determinato dallo scenario cognitivo del rituale stesso. Si attivano, così, le stesse aree corticali interessate nel Disturbo Ossessivo Compulsivo, associate all’attività progettuale, all’affettività e all’emozione ... si avrebbe pertanto una funzione ansiolitica, rassicurante, produttrice di sensazione di benessere. Tutti gli stati mentali sia “normali che patologici”, sono accompagnati da movimenti e reclutamenti muscolari correlati dai quali si ottiene un feedback. Le posizioni del rituale massonico agiscono quindi producendo un attivo feedback, atto all’educazione subconscia del massone, proprio mediante la ripetizione del rituale4. Il cervello umano, infatti, è in grado di percepire il trascendente attraverso stru-
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neurodiagnostica funzionale, nel caso di partecipazione a rituali ripetuti, alla visione di determinati simboli, le stesse aree iperattive durante quelle che Persinger chiama “le esperienze di Dio5”. Inte-
li, come eterno e “vivendo” tutto questo come reale ... il meccanismo di azione dei feedback, peraltro, non è solo elettrico ma anche chimico6, attraverso l’azione dei neuropeptidi che dimostrano l’enorme complessità della comunicazione corpocervello. Sono ormai noti da tempo gli studi inerenti alla produzione di endorfine in attività fisiche caratterizzate dalla ripetizione di atti (Pert, come primo approccio all’argomento, descrisse e dimostrò fisiologicamente “l’euforia del fare jogging”), sostanze che agiscono positivamente sull’umore, sulle emozioni e anche sui ricordi, proprio mediante il sistema
ressante è notare come il coinvolgimento delle aree responsabili della funzione di orientamento e dello schema corporeo, associate alla corteccia visiva, possano, in caso di disturbo elettrico corticale, ricreare “stati mistici” analoghi all’esperienza descritta da Persinger: queste aree sono particolarmente stimolate da movimenti reiterati e posizioni ripetute. Newberg e D’Aquili, inoltre, hanno notato come durante rituali e meditazione particolarmente vissuti, il livello di attività dell’area associativa di orientamento, normalmente regolata da un equilibrio tra sistema eccitatorio e inibitorio, può essere talmente alterata per mancanza di feedback (deafferentazione), da andare “in tilt” ed il soggetto può percepire se stesso come un unico con il resto dell’umanità e senza più limiti tempora-
limbico che è adibito a fissare nella memoria a lungo termine gli elementi di rilievo o utili ... Secondo la teoria dei memi, che esplicherò più avanti, questo sarebbe un altro motivo neurofisiologico del successo duraturo del rituale massonico, basato sull’interazione tra l’attività elettrica della corteccia cerebrale e la produzione di sostanze di “benessere”, stimolate dalla visione di simboli, e da questi del vissuto mitico, dalle afferenze dallo stato muscolo-posturale e dallo schema corporeo, dal feedback emozionale. Immergendo l’individuo in una cornice suggestiva ed emotivamente“ impattante” il rito agisce su sistemi cerebrali che favoriscono il ricordo, la comunicazione esterna ed interna, azionando programmi emotivi e connettendo il Sé individuale al Sé collettivo, sviluppando una mente
menti di stimolo di afferenza quali il rito e il simbolo. L’azione dei lobi frontali e del sistema limbico è assolutamente indispensabile per creare nell’uomo l’idea del tempo, del senso del futuro, di progettualità individuale e collettiva, le stesse aree che risultano particolarmente attive alla
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sociale, spinta dall’affettività che coinvolge i nostri atti. Le menti umane sono il prodotto combinato di geni e di memi (elementi funzionali costituiti da particolari sistemi associativi sinaptici) trasmessi per imitazione (prerogativa della specie umana, come i neuroni specchio!) la cui competizione darebbe impulso all’evoluzione della mente come quella dei geni all’evoluzione biologica. I memi, modellabili attraverso l’attività psichica, ci farebbero “apprendere eventi giusti” che, una volta elaborati, verrebbero commutati in informazioni utilizzabili per orientare il nostro comportamento, come forza motrice del miglioramento collettivo ed individuale, del progresso evolutivo della specie umana. Probabilmente, allora, individuare i memi più utili e stressarli nel rituale, sistema formale di imitazione, è ciò che rende forte e affascinante la ritualità massonica e migliora la maggior parte di coloro che la praticano7. I memi agirebbero come omogenei kit neuropsichici dove condensare e catalogare le esperienze. Ogni kit sarebbe contrassegnato da simboli e avrebbe un ruolo fondamentale nello sviluppo cerebrale attraverso la “potatura sinaptica,” come la definisce Gastaldo, mantenendo trofiche le connessioni sinaptiche e gliali ripetutamente utilizzate, comportando la trasformazione dell’apparato psichico. Queste osservazioni ci indicano la necessità spontanea di un individuo o di un gruppo, alla ritualizzazione ripetuta, per fissare e ricollocare gli elementi più significativi e piacevoli della vita individuale, partecipando inconsapevolmente all’evoluzione della specie. Le caratteristiche peculiari del rituale massonico sono quelle che ne hanno assicurato e ne assicurano ancora e con successo la trasmissione. La neuroplasticità permette di rimodulare, per tutto il corso della vita, le vie associative neuronali, dando le risposte neuropsichiche più adeguate, facilitate da sequenze rituali reiterate. Kit di esperienze incongrue possono far insorgere dinamiche intrapsichiche che possono essere quindi rimodellate ... Questo è ciò che accade, forse, nel training autogeno, nel mindfulness, nello psicodramma, così come nella ritualità di loggia. La neuroplasticità darebbe una spiegazione proprio dell’archetipo del Sé, “struttura strut-
turante”, i cui elementi operanti sono le immagini archetipiche (manifestazioni del suo operare in senso simbolico), a carattere specie-specifico, che nel corso della sua evoluzione strutturale biologica (ritualità nel mondo animale!) e psichica (il numinoso), si formerebbe attraverso la ripetizione delle medesime esperienze come struttura energica ed energizzante immaginifica, regolatore di tutte le attività umane legate alla capacità di comunicare e creare il simbolo, il vero mediatore tra la sfera fisica e quella spirituale8. Studiando l’attività del sistema limbico con moderni esami strumentali neuroradiologici e neurofisiologici funzionali, si dimostra (Marija Gimbutas) una forte risposta evolutiva inconscia a determinati simboli e non a caso, direi, quelli massonici più importanti sono tutti rappresentati (losanga, spirale ...). La vita si effettua secondo precise leggi nella realizzazione (Shultz, 2001) di un piano intrinseco alla vita stessa, dove si legge la tendenza a produrre e ripetere fluidamente, una serie di eventi: da questo processo si costituisce in noi, attraverso l’evoluzione, l’archetipo del Sé. Esso probabilmente permette l’organizzazione del sistema nervoso in strutture neuropsichiche portanti (gli altri archetipi) e primo fra tutti l’archetipo del rito. Tali strutture sono trasmesse geneticamente, simili in tutti gli individui e pertanto appartenenti all’inconscio collettivo ma correlandosi in modo plasmante, modellante e dinamico, con la realtà esterna, contribuiscono alla formazione e al miglioramento della vita psichica individuale, della dinamica degli schemi mentali9. Il rituale massonico ha dunque una funzione archetipica-spirituale e psicologica10, nel sostituire l’Ego del singolo con il Sé e, successivamente, attraverso il Sé di giungere alla sua dimensione trascendente, cioè il Sé spirituale che appartiene già alla specie e poi al gruppo e che travalica ampiamente l’individuo stesso, ricorrendo alle forze transpersonali del gruppo stesso. Mantenendo l’archetipo ben confinato nella sua struttura, carico di forte affettività, la funzionalità energetica del rituale sarà enorme, come enorme potrà essere la conseguenza di un rituale “mal vissuto”. Citando Marrè : “Il cammino rituale è quindi un asse portante della psi-
cologia esoterica e il rituale in sè è una sorta di strumento che fa risuonare e vibrare gli archetipi che portiamo dentro di noi; questa risonanza psichica della struttura del rituale con il mondo interiore è l’obiettivo che dobbiamo perseguire”. Il rito si attua nel reale, quindi e la sua rappresentazione e l’efficacia della simbologia dipenderanno dal significato affettivo dato alle rappresentazioni stesse e dal legame di queste con l’archetipo. Citando Cassirer 11 “... il rito non rappresenta ma costituisce un avvenimento reale; è così intessuto nella realtà dell’azione da diventarne una parte costitutiva.” Nel passaggio operativo, cioè, l’atto rituale utilizza il simbolo come espressione reale di un contenuto latente, non necessariamente rimosso ma preesistente e favori-
sce una trasmutazione potremmo dire organica. Secondo Jung una della funzioni fondamentali del rito è quella di rafforzare, formare l’Io che grazie al rito si vitalizza strutturalmente. Il rito è autoprotettivo e nel contempo difensivo, rassicurante, in
Anatomia della mente grado di ridurre la soglia di veglia e quindi modulante, grazie all’ immagine-simbolo e l’atto che forzano la partecipazione del soggetto, creando una situazione in cui contenuti inconsci vengono esposti. Non è davvero recente la teoria della coazione a ripetere, a difesa di ogni disturbo psichico, barriera contro la catastrofe dissociativa degli stati psicotici estremi
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(Kalshed, 2001). In che modo, quindi, la ritualità nel setting di ogni psicoterapia così come nella ritualità iniziatica, può essere considerata una tecnica di “trasformazione dell’individuo?” La “disciplina” esoterica agisce attingendo a contenuti collettivi originariamente derivanti dall’inconscio: l’inconscio non è qui pertanto un mero contenitore ma un attivatore di immagini archetipe in grado di rafforzare la coesività degli strati profondi della psiche con quelli “sensoriali” riproposti nel rito attraverso ‘‘un’organicità” dei simboli vissuti in modo ontologico, potenziando l’Io. Lo scopo di un iniziato, consapevolmente o meno, non è isolarsi in una fuga mistica ma prendere contatto pieno, sano e totalizzante con la Vita! Jung lo definisce “l’incontro con l’Ombra dell’apprendistato”, che porta l’individuo alla realizzazione del Sé. Infatti, come dice Samuel (Samuel et al. 1987), “il Sé rappresenta il principio unificante della psiche umana, è l’immagine archetipa del sommo potenziale dell’individuo e dell’unità complessiva della personalità”. La struttura rituale è volta a consentire un passaggio, a consentire di vivere la vita cui si è destinati. L’Io, struttura intermedia tra immagine inconscia, mitica e mondo oggettuale, non è il Sé ma è quest’ultimo che gli impone il senso di sé, forse il destino, attraverso l’interpretazione semeiotica del
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vissuto. Citando un intervento di Jung, potremmo dire che l’uomo sano e libero di mente è colui che riesce a “vivere secondo il proprio mito”. A questo aspira il massone, quando partecipa alla ritualità? Alla trasformazione conseguente all’adattamento dinamico dall’esperienza diretta del proprio vissuto individuale alla configurazione mitica? I processi associativi psichici neuromediati, immagini riflesse dell’attività psichica ed affettività individuale e collettiva, identificati come complessi, agiscono come pacchetti di idee-immagini affioranti come tracce di vissuti nascosti alla coscienza perché rimossi o perché non vi sono mai stati. Per Jung essi appartengono alla sfera dell’inconscio personale e gli archetipi a quella dell’inconscio collettivo; infatti l’inconscio non è solo il rimosso ma anche il tesoro collettivo, comune a tutta l’umanità. Gli elementi primari del complesso sono dinamicamente ripetitivi, autonomi perché in continuo sviluppo ma specie-specifici, quindi ecco la natura sia filo che ontogenetica: fuori del controllo della coscienza vi si affacciano, in stati di abbassamento del livello di veglia, come si ottiene durante la meditazione o particolari tipi di rituale, traducendosi nell’attività simbolica della psiche ed irrompendo nella coscienza possono generare effetti positivi o patologici. Come afferma Jacobi12: “Se un complesso rimane
solo un punto nodale maggiore o minore nell’inconscio collettivo senza essere accresciuto o soffocato da eccessivo materiale personale, non solo non è dannoso ma è sommamente fecondo. Se invece è caricato più del dovuto e diventa autonomo, oppure irrompe nello spazio fisico della coscienza, esso può apparire in tutte le forme che generano nevrosi e psicosi”. Ecco pertanto la possibilità della mobilizzazione di un disturbo da parte dell’azione rituale. Gli archetipi e i complessi ad essi correlati “spingono a ripetere le stesse esperienze e ad ogni affiorare, divengono stimolanti sui processi evolutivi psichici e spirituali, producendo simboli e azioni simboliche, agiscono numinosamente, ossia come forza fascinatrice o come incitamento all’azione13”. Quanto più essi sono radicati nell’inconscio collettivo tanto più “numinosa” e coinvolgente sarà la loro comparsa nella coscienza e stimoleranno la crescita psichica in modo subcosciente, orientando l’individuazione in modo inconsapevole, soprattutto attraverso il simbolismo. Il simbolo, rappresentante cosciente del materiale inconscio, è l’elemento nodale tra il materiale archetipico e complessuale da un lato e la “trasformazione” oppure il “sintomo clinico” dall’altro. Esso è il modulatore di energia psichica più diretto, in grado di riproporre pulsioni, istinti, rimossi e di mediare direttamente la dicotomia apparente tra biologico e psichico, tra elementi del conscio e dell’inconscio. Questa capacità dialettica permette al simbolo di attivare la trasformazione o la sua “funzione terapeutica”. Bertoletti ci aiuta in questo: <il simbolo trasformatore ... permetterebbe una coesione (o ri-coesione) dei frammenti del mondo psichico e di quello percettivo (interno ed esterno) attraverso una funzione molto simile alla “sintesi a priori”>. Per dirla con Silberer, “la comparsa di un simbolo sarebbe collegata all’intuizione spirituale di qualcosa che la mente spirituale non può ancora afferrare”. Tale funzione di riunificazione degli opposti, che Jung chiama “funzione trascendente”, sarebbe preposta a reintegrare quei segmenti scissi dell’inconscio che costituiscono la base del male psichico. Quando il simbolo perde la sua funzione “terapeutica”, ovvero si svuota del
suo contenuto, non mostra più di essere espressione di un contenuto archetipico, diventa un mero segno, del tutto inattivo: il rapporto tra simbolo e coscienza non si stabilirà se non come entità formale, priva di comprensibilità, l’Io lo vivrà con indifferenza o come minaccia. Il simbolo, con questa modalità di rapporto con l’Io, può dar luogo ad una condizione di dissociazione psichica, agendo come un frammento autonomo della psiche e può favorire la comparsa di sintomi nevrotici o psicotici. Per questo la ritualità simbolica non deve essere considerata mera coreografia: essa è strumento prezioso ma anche potenzialmente dannoso se male utilizzato! La dimensione simbolica sarebbe in grado di creare un momento dialettico anche fra le attività psichiche dei vari individui e questo è ciò che si avverte durante i lavori di loggia, elemento attivo ben diverso dall’inconscio collettivo. In un momento di regressione, tale attività psichica può essere fortemente energetica e in ambiente suggestivo (religioso, magico, mistico ...) potrebbe privilegiare la componente “irrazionale, intuitiva”. Fa notare Hillman: ‘‘l’intuizione è la percezione attraverso l’inconscio, quindi possiamo ammettere che nell’interpretare un simbolo noi ci avvaliamo delle medesime funzioni strutturanti inconsce comuni a tutti gli uomini, che hanno concorso alla formazione del simbolo stesso ... l’interpretazione implicherebbe nell’osservatore l’attivarsi del medesimo archetipo in sé che ha strutturato il simbolo” ma essendo l’Io parte attiva, ecco l’importanza dell’empatia (riconducibile neurofisiologicamente ai “famosi” neuroni specchio) ovvero della struttura
neurofunzionale alla base della formazione dei simboli più arcaici, rassicuranti, energizzanti ma anche di quella percezione attualizzata dell’altro Sé, anzi degli altri Sé, coinvolti in quel momento, in quel rituale. In queste occasioni la proiezione di parti del Sé negative con la trasformazione di queste in simboli nuovi, avvierebbe la ricostruzione del Sé originario e l’ampliamento della coscienza. Ecco perché il carattere incisivo dei simboli che diventano così “portatori di energia” maturativa ed evolutiva14. “Comprendere un simbolo nella sua totalità energetica equivale al superamento di uno stadio energetico analogamente al significato che questo ha in termodina-
mica, ottenendo una trasformazione15”. Che cos’è che spinge l’uomo alla ricerca di ‘‘quell’indefinibile intuìto”, a superare l’inadeguatezza del linguaggio verbale ad esprimere la vera natura delle esperienze transpersonali, col rito e col simbolo? Interessanti sono le riflessioni di Roth16: “se l’Io cosciente non corrisponde alla Persona, ovvero a quello che rende l’individuo compatibile con la società, ovvero come la società lo vuole, avverrà la produzione dell’Ombra nella quale rimuove-
re gli aspetti indesiderati, per permettere l’adattamento sociale”. L’Ombra, che conterrà l’invisibile, risulterà accessibile solo attraverso l’illuminazione. L’Ombra può dunque disporre completamente di predisposizioni e caratteristiche importanti di un individuo che nel corso dell’indi-
Anatomia della mente viduazione non hanno potuto essere accettate: l’integrazione più o meno drammatica, di aspetti inconsci dell’Ombra, porta ad un mutamento della Persona. Maslow addirittura17 chiama essere “l’insieme delle esperienze che noi chiamiamo Supercosciente, poiché solo esse sono in grado di dare un senso di “pienezza di essere”, di intensità di esistere e di vivere”. Il Supercosciente è l’insieme di manifestazioni dell’inconscio che provengono da un livello psichico qualitativamente superiore a quello ordinario e che la coscienza di veglia, anche volendo, non è in grado di produrre in condizioni normali. l’Io cosciente è il riflesso del Sé integrato col Supercosciente. Il ripetersi delle esperienze col Supercosciente porta ad uno stabilizzarsi del Sé spirituale a livelli via via più alti demarcando un’area sempre più sviluppata dell’Io cosciente, ampliando sempre più la coscienza vigile. Il Sé ha il senso dell’eterno, un eterno presentificato ma in divenire, quello che Assagioli chiama “l’eterno ora”, la vita piena, sintesi di essere e divenire, cicli vitali organicamente collegati da qualcosa che li trascende. La realtà della coscienza spirituale non ha bisogno di essere dimostrata: è un’esperienza diretta come quella di un colore, di un suono, di un sentimento ... è una realtà
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psicologica ... in un dato momento quello che era supercosciente diviene cosciente18> e si assiste così all’espansione della coscienza! Le spinte psicologiche di un libero muratore ad iniziare, a volte inconsapevolmente, un colloquio interno così
Anatomia della mente drammatico possono essere varie (affermazione individuale, desiderio di sviluppare facoltà superiori, evasione dalla vita ordinaria, fascino dell’ignoto, dello straordinario, del misterioso, fascino del Trascendente) così come varia può essere la sua struttura psicologica (le “tegolature come test psicoattitudinali?”) ... e quali caratteri potranno avere gli stati di coscienza prodotti dall’interazione col supercosciente, dall’armonizzazione degli elementi personali preesistenti con quelli stimolati dal rituale? Quali conseguenze psicologiche e psicopatologiche potrà avere la via della trasformazione, psicosintesi personale (malattia) o spirituale (risveglio spirituale) esacerbata dall’ uso dinamico del simbolo? Potrebbero essere enormi: “la trasformazione di tutto l’essere che si rivela nel contegno, nell’influenza sugli altri, nello stesso aspetto esteriore, è più eloquente e significativa di ogni espressione verbale19”, quella trasformazione che, a mio avviso, è il vero prezioso segreto della Massoneria! Nel processo di realizzazione spirituale, Assagioli definì l’<Esperienza e coscienza spirituale, il pervenire o involontario essere portati in contatto con un piano o una sfera della realtà che è al di “sopra” o “oltre” quelli considerati reali ... Chi ne ha avuto esperienza la descrive come qualcosa di più reale, duraturo e sostanziale ... come la vera radice dell’essere, come “vita più abbondante” ...> Egli distingue cinque stadi critici che mi sembrano efficaci a schematizzare l’aspetto psicologicopsicopatologico del “risveglio spirituale”. Crisi che precedono il risveglio spirituale L’uomo soffre un lento mutamento della vita interiore, in seguito a sensazione di mancanza di qualcosa non definibile… la sua vita scolorisce. Iniziano le paure e gli errori per l’errato significato dato a
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questi nuovi stati d’animo. L’uomo li considera turbamenti assurdi, penosi, pensa di star perdendo la testa, si sforza di riaccostarsi alla realtà addirittura buttandosi a capofitto nelle vecchie occupazioni e creandosene di nuove (... lavora per non pensare ...) In questo modo può solo apparentemente dominare l’inquietudine ma certamente non la elimina e questa continua a covare attivamente, rendendo sempre più intollerabile il vuoto interiore: Frank Haronian chiama questo “rifiuto del sublime” ... l’Io, egotico, ne rifugge per l’eccesso di difficoltà, di impegno (vera lotta fra Io personale e Sé spirituale), di ostacoli sociali ... L’uomo non capi-
sce che è il confronto tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, a renderlo così sofferente, che non è “malato” ma solo ignaro di quello che sta accadendo e di come interpretarlo ... Il complesso, che può essere riattivato dalla ritualità, può rimanere totalmente incoscio e debole ed interferire con i vissuti quotidiani come ipoergia di azione e nevrosi ma può essere anche conscio e fortemente energico tanto da agire in contrapposizione all’Io, sviluppando nevrosi ossessiva o può divenire un altro ego, in un quadro raro di doppia personalità, o talmente forte da disgregare l’Io e convogliare il soggetto in una forma di schizofrenia e delirio di onnipotenza. Se la struttura presentificante del rito presenta delle anomalie, il pensiero tende a collassare nell’archetipo e quindi nell’inconscio collettivo, producendo un pensiero psicotico marmorizzato in un mo-
mento senza tempo, come accade nella slatentizzazione schizofrenica; se il cedimento si ha nell’ambito dei significati, allora il delirio, le dispercezioni dello schema corporeo, le sterotipie autistiche. La dissociazione più o meno importante del gesto e della parola dalla sorgente archetipo-mitica, ne riduce o sovverte il significato e ‘‘l’attività agìta” si trasforma in coazione, agire non sano ... l’attività riflessiva può divenire idea prevalente, ossessione, proiezioni di pensiero sterili e pericolose per l’integrità. Le sindromi ossessivo-compulsive sono solo un aspetto della psicopatologia della ritualità, quando verrebbe da pensare il contrario, perché un rapporto alterato tra kit di esperienze esterne e archetipi può causare disturbi psicosomatici e psichici in vari livelli psico-fisici. Questi meccanismi sono alla base di un tipico quadro psicopatologico massonico, l’inflazione psichica20, caratterizzata da sincretismo psichico, reiterazioni e proliferazioni simboliche vacue: tale meccanismo psichico nasce dalla pseudosublimazione del segno, mera oggettivazione della percezione, ovvero dell’incapacità del soggetto a vivere il simbolo. Infatti, al contrario, il rituale vissuto può favorire uno stato di integrazione di un Sé irrigidito, come quello psicotico, sommerso dalle proprie forze inconsce, un meccanismo di difesa e di gratificazione, instaurato attraverso una rassicurante ripetizione: il rito come terapia in latenti disturbi nevrotici e strutturali della personalità. Crisi prodotte dal risveglio spirituale Si ha una presa di coscienza totalizzante di sé stesso ... Chi ne ha esperienza prova un senso di grandezza, di un’interiorità senza confini, la convinzione di partecipare in qualche modo alla natura divina ... l’aprirsi della comunicazione fra Sé e sé può agire come una vera e propria terapia: le sofferenze e i disturbi fisici e neurologici pregressi scompaiono. L’allargamento della coscienza è lo stato fenomenologicamente dominante in questa fase, espansione pulsante, ciclicamente sempre più ampia ... un’espansione nel tempo in cui il nostro Io spirituale esiste e permane al di sopra del flusso temporale: esso può avvenire in modo
“discendente” con l’irruzione di elementi nel campo della coscienza come intuizioni, illuminazioni, ispirazioni, creazioni geniali, fenomeni parapsicologici ... oppure in modo “ascendente” come elevazione del nostro Io a livelli superiori a quelli ordinari, fino alla sfera del Supercosciente. L’allargamento orizzontale è partecipazione ed immersione nella coscienza collettiva che non corrisponde all’inconscio collettivo al quale, invece, Jung da carattere di Superpersonale, fusione della volontà personale con quella transpersonale. L’allargamento orizzontale ha dei limiti e pericoli però, nell’ edonismo estetico, “godimento” della ritualizzazione fine a sé stessa, non arrivando alla realizzazione dell’integrazione totale, limitandosi all’aspetto solo formale ... Improvvisa può manifestarsi l’intuizione (da in-tueri: vedere dentro), dal rapporto tra attività Supercosciente transpersonale e vita cosciente: la percezione immediata dell’oggetto presente colto nella sua realtà individuale, nel suo tutto, senza poterlo spiegare ... empatia? ... azione associativa di neuroni specchio? Spinoza diceva: “la scienza intuitiva è la suprema forma di conoscenza”. In realtà molte persone “normali” non ne hanno e questa è una prova della differenza tra vita psicologica ordinaria e transpersonale. Carattere specifico dell’intuizione è la qualità del divenire, perchè coglie l’essenza della realtà dell’oggetto e così le possibilità realizzabili. L’illuminazione è qualcosa di ancora più ampio, duraturo e totale dell’intuizione, suscita un senso di gioia dirompente fino alla beatitudine estatica. L’illuminazione deriva direttamente da livelli superiori ... gli stimoli potrebbero derivare anche da influssi psichici telepatici (momento propizio durante la catena di unione!) Mi piace menzionare anche l’azione ispirata, impulso potente ad agire, ad effondere, irradiare, far partecipi gli altri della meravigliosa esperienza ... Non ricorda Emmaus? Non ricorda il “proselitismo” massonico? Se però il risveglio non avviene in modo armonico si possono suscitare squilibri. Molto dipende dal substrato psichico e se le emozioni sono esuberanti e mal do-
minate, se l’afflusso di energia spirituale è travolgente, se vi è tendenza alla personalità narcisistica, ad una psicopatia costituzionale o una personalità psicopatica, l’evento può essere intimamente mal interpretato, fra Sé e sé e allora, per esaltazione dell’Io, si può sviluppare un quadro di delirio di grandezza, paranoia ... l’errore è nell’attribuire al proprio Io, non rigenerato, le qualità ed i poteri del Sé spirituale, ovvero una confusione tra realtà relativa e realtà assoluta, fra il piano personale e quello del trascendente. La personalità, infatti, si rende conto delle potenzialità superiori del Sé e del su-
percosciente ... si illude di essere già ad un livello superiore, magari dopo aver percepito qualcosa in una illuminazione e può crearsi confusione tra ciò che è solo potenziale e ciò che è attuale, instaurando anche un semplice un quadro di megalomania. Moramarco fa notare come, tra i liberi muratori, sia possibile lo sviluppo di dissociazione psichica: la ripetuta produzione di immagini di dominio, di farneticazioni, in un soggetto con un Io troppo permeabile, può generare la scissione della realtà dal delirio, per l’estrema sofferenza che ciò comporta ed il conseguente, meno doloroso, rifugio nello stato di malattia vero e proprio. Questi disturbi rientrano nel quadro della psicopatologia osservabile nello squilibrio di relazione dell’Io con l’archetipo-mito. La reazione all’incontro con l’archetipo non è uguale
per tutti ma determinata dalla struttura presente della personalità. Tale incontro può essere appagante ma anche irritativo. I disturbi narcisistici con patologia del Sé rispondono vivacemente all’influsso energetico dell’archetipo, che può assolvere una funzione terapeutica ma la te-
Anatomia della mente rapia deve essere ripetuta, non basta l’occasionalità ed ecco che subentra lo scopo psicoterapico del rituale! Il materiale archetipico mal elaborato, mal filtrato, può irrompere in modo prepotente e incodificabile nella coscienza causando disturbi anche gravi, la disgregazione dell’Io, delirio e allucinazioni, dovute ad un Io debole che non riesce, in stato di coscienza vigile, a distinguere tra immagini reali e immagini interne, non riesce a difendersi da impulsi e fantasie disorientanti dell’insconscio e del superconscio, stimolate dal simbolo e dalla ritualità ripetuta. Il meccanismo di difesa patologico usato da un Io destrutturato, l’identificazione proiettiva, che normalmente contribuisce alla formazione del simbolo, può attivare quadri psicotici schizofrenici. La negazione e l’introiezione, invece, respingendo i contenuti patologici dell’inconscio senza elaborazione simbolica, traducono l’energia espressa in forme autodistruttive come malattie psicosomatiche e tumori maligni. In presenza di relativa debolezza del complesso dell’Io, l’impatto con le forze psichiche e le tensioni sviluppate dal rituale, porta alla formazione di sintomi nevrotici, in particolare fobie e ossessioni, depressione, ipocondria e dipendenze ... Si può avere anche esaltazione emotiva (... quello è diventato matto!) e se si tratta di tipo attivo e dinamico potrebbe atteggiarsi a profeta, fanatico, riformatore ... Se il tipo è rigoroso e rigido, ipercritico ed eccessivo, la rivelazione del trascendente può suscitare un senso di inadegutezza e imperfezione ... depressione, disturbo grave dell’austostima, disperazione autodistruttiva. In alcuni soggetti predisposti si può assistere a manifestazioni paranormali.
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La descrizione del Risveglio dell’anima di Assagioli è davvero esaltante: <l’anima sente come, in questa suprema Unità ogni contrasto, ogni disarmonia si compongano e intuisce il misterioso significato e la vera natura del male ... transitorio, “non sostanziale”: è assenza del
Anatomia della mente bene, disarmonia, squilibrio parziale destinato a sparire. Lo sguardo dell’anima così illuminata scorge ogni fatto connesso con gli altri e giustificato da una logica superiore: vede l’universo sorretto e permeato da una perfetta giustizia e da un’infinita bontà> ... la vera libertà, la rinascita dell’uomo spirituale integrante la sua stessa personalità! Le reazioni che seguono al risveglio Illuminazione della mente, senso di appagamento esaltante, di sicurezza interiore ... senso di appartenenza, senso di amore verso il mondo e le creature, amore evoluzionistico e totalmente coinvolgente, come un vero e proprio “stato di grazia” che tuttavia cesserà di lì a poco, poiché è fisiologicamente ciclico, ritmico ... Quest’ultima esperienza è penosissima, e dominata dal pericolo che le pulsioni inferiori si riaffermino con forza vivida: in seguito al risveglio l’uomo è, oltretutto, più esigente e si giudica con maggiore severità ... ha la sensazione di essere sprofondato più in basso di prima ... senso di angoscia, di piccolezza estrema ... vi può essere una violenta opposizione delle disposizioni “interne” alle aspirazioni trascendenti, che sono colte come minacce estreme fino a negare l’importanza e la realtà della precedente esperienza, nel tentativo di far credere che sia stata tutta un’illusione, una fantasia ... per quanto si sforzi, però, egli non riesce a tornare allo stato di prima, come un’accorata nostalgia del “poter essere”... questo, in un individuo predisposto o in un risveglio non armonico, può assumere carattere morboso, depressivo, fino alla disperazione profonda e al suicidio. Fasi di trasmutazione Per arrivare alla rigenerazione della personalità, il processo è piuttosto lungo e necessita dello sviluppo delle facoltà interiori, all’inizio troppo opache o deboli, nelle quali la personalità deve rimanere solida, sopportando anche il
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possibile periodo di travaglio che rende difficile al soggetto, a volte, far fronte anche alle normali attività quotidiane. Chi lo giudichi superficialmente può trovarlo senz’altro cambiato ma addirittura peggiorato e meno efficiente di prima. Gli eventuali giudizi negativi sono penosi, possono turbare e dar adito a dubbi e scoramento. Anche questo è utile (mi piace l’espressione “palestra massonica!”) per acquistare indipendenza di giudizio e fermezza d’animo. Questo periodo di transizione può essere caratterizzato da disturbi nervosi e psichici, nonché fisici per caduta delle difese immunitarie (ormai nota la correlazione
funzionale diretta chimico-glio-mediata tra sistema nervoso centrale e sistema immunitario) e psicosomatici. Anche il troppo impeto di alcuni iniziati, può causare danni: i disturbi possono essere prodotti o aggravati da eccessivi sforzi personali per accelerare forzatamente lo sviluppo interiore (che deve agire coi suoi tempi e modi) e che possono invece causare un soffocamento degli elementi inferiori anziché una trasformazione, tanto da creare vari quadri di nevrosi. D’altra parte in senso opposto, l’afflusso di forza spirituale può essere dirompente e allora può essere sperperata in “effervescenza emotiva”, come la definisce Assagioli, in attività febbrili ed
eccessive, oppure non canalizzata all’esterno ma accumulata, dando forte tensione e disturbi (per esempio esaurimento nervoso, psicastenia ...) Ostacoli importanti alla realizzazione della trasmutazione sono la tendenza all’autoaffermazione personale con le sue manifestazioni aggressive, che può sfociare nel delirio di onnipresenza e supremazia sociale. Queste forme21, sono tipiche della psicopatologia massonica. Nel delirio di onniscenza, peraltro non eccessivamente dannoso per i rapporti interpersonali, il soggetto si convince e vuole convincere di essere l’unico possessore della Verità! Nel delirio di onnipresenza e supremazia sociale, invece, vi è un intenso coinvolgimento anche del comportamento sociale. Chi entra in massoneria privilegiando l’aspetto profano, perché convinto di entrare in una rete di potere, spesso è un mediocre incapace di affermazione sociale individuale senza l’appoggio funzionale di un gruppo, del quale lui stesso non comprende la trama spirituale ed il fine. Più frequentemente è già presente o latente una psicolabilità complessuale, che lo trascina anche in forme di servilismo nei confronti di “chi conta”, sovvertendo spesso il ruolo e il fine della gerarchia (quella che Moramarco chiama “sollecitazione pseudomassonica”) e di triste elitismo per la gratificante occasione di sentirsi diverso dai più e poter tenere fuori le “persone comuni”, alterando completamente il senso della fratellanza e della stessa ritualità che potrebbe aver slatentizzato questo elemento psicopatologico. Anche il semplice criticismo ha la stessa etiopatogenesi in alcuni liberi muratori (che liberi non sono!), convogliando la loro ostilità e il loro risentimento nel gruppo, allentando la tensione interna attraverso l’appagante senso di condivisione, con gli altri, di un nemico comune. L’esperienza di trasformazione individuale, in un gruppo iniziatico, è favorita dalla potenza della suggestione, dal linguaggio comune, dalla compartecipazione a “segreti da custodire”, dal passaggio attraverso fasi di umiltà e sottomissione, poi di coercizione e infine di rinascita e libertà spirituale, in una sorta di sofferta riconciliazione degli opposti, di quella dicotomia esistenziale tra bene
Anatomia della mente
e male, tra vivere e lasciarsi vivere. Fase della “notte oscura dell’anima” Quando il processo di trasformazione è al suo culmine la situazione è drammatica: la sofferenza può essere davvero intensa, squarciante, assomigliare alla forma psichiatrica della psicosi depressiva grave (mi andrebbe di far notare l’analogia, nel processo alchemico, con la decomposizione, con la morte come passaggio obbligato per la rinascita): crudele autocritica, senso di indegnità assoluta, disperata autocondanna, senso di impotenza intellettuale e sterilità di idee, affievolimento della volontà, disprezzo per il vissuto e difficoltà insormontabile ad agire ... non è uno stato patologico vero e proprio anche se fenomenologicamente ne ha le caratteristiche. Alla luce della moderna medicina, in alcune forme con prevalenza dei sintomi organici, questo stato può essere anche scambiato per la “sindrome da stanchezza cronica”. Va detto, a questo punto, che i sintomi dei malati ordinari hanno generalmente carattere regressivo, per difetto di integrazione nello sviluppo della personalità, persistendo un conflitto tra personalità cosciente ed elementi inferiori. I disagi che possono insorgere dalla stimolazione dell’attività ritua-
le massonica, invece, hanno carattere progressivo, risultato di conflitti e squilibri pulsanti fra la personalità e le energie spirituali. Infatti, la Massoneria non è una religione, ma è una disciplina che si struttura sulla Persona, sulla personalità e sulla spiritualità, il suo scopo è integrare quell’anelito dell’uomo ‘‘all’oltre”, all’energia e alle metodiche per percepirlo e integrarlo sempre meglio. La libera muratoria, con la “tecnica” rituale, può pertanto considerarsi un sistema molto evoluto di eccitazione spirituale22 ed il suo più mirabile prodotto nella “coscienza cosmica”, la percezione occasionale di non distacco dell’Io dal centro cosmico. La moderna neuropsicologia sembra supportarci in questo, quando rivaluta le antiche pratiche di meditazione e dei riti e si muove nell’ambito della consapevolezza mindful o mindfulness23, ovvero nella forma attentiva di consapevolezza piena del vissuto presente. Le ricerche di neurobiologia interpersonale, effettuate da Siegel presso l’U.C.L.A. dimostrano che la mindfulness promuove le capacità integrative della corteccia prefrontale che riguardano funzioni della regolazione corporea, della comunicazione sintonizzata (il “sentirsi sentire” empatico), dell’equilibrio emotivo, dell’insight, della
modulazione della paura, dell’intuizione, della moralità. Per Siegel il benessere mentale emerge dal processo di integrazione funzionale e la sofferenza della mente è dovuta alla tensione che si crea tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, cioè tra reazioni emotive e idee preconcette. La sintonizzazione con se stessi attiva lo stesso processo neurale della sintonizzazione interpersonale, favorendo, attraverso la consapevolezza mindful, “un sentimento di appartenenza ad un tutto molto più grande che trascende la singola persona, un desiderio profondo di partecipazione ... il superamento definitivo dell’illusione della nostra separatezza24”, come è definibile l’allargamento della coscienza, prezioso target psicologico del libero muratore. “L’individuo avverte la vanità dell’umano desiderio e ammira la sublimità e il meraviglioso ordine che gli si rivela ... l’esistenza individuale gli sembra una specie di prigione ed egli vuole sperimentare l’universo come un unico significativo futuro ...” (Albert Einstein). P.122: In Loggia, acquerello di B.Nardacci; p.123: Spirale logaritmica; p.124-125: Scale a chiocciola; p.126: In Loggia; p.127: Battente massonico; p.128: Squadra e compasso in Grado di Maestro; p.129: Emblema del 33° grado di Rito Scozzese; p.130: Elsa di spada massonica; p.131: Vassoio con emblema massonico.
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T Intervista
oscanelli – I nostri incontri si stanno facendo consuetudine. Ho pensato perfino a prossime scadenze in cui Lei potrebbe parlarci di altri temi e personalità. Oggi vorrei scambiare due parole con Lei su Giorgio Colli. Non si tratta soltanto di un omaggio ad uno dei suoi Maestri, ma di soddisfare un’esigenza che alcuni di noi sentono di saperne un po’ di più su questa eccezionale personalità. Lei, che riceve Officinae, avrà notato che alcuni dei nostri più appassionati collaboratori cercano di capirlo. Meattini – Sì, e mi ha procurato un vivo piacere. A Colli stavano a cuore le comunità umane coese che s’impegnano a costruire un’intesa amicale, un vocabolario comune e quegli incontri personali dove si offre la “scintilla” per esperienze e “scuotimenti” che si alimentano alle sorgive profonde della vita. Fin da giovanissimo – è stato uno dei filosofi più precoci del Novecento, come attestano ormai i suoi scritti pubblicati da Enrico Colli, e la precocità, se non sorprende in musica e in poesia, è cosa rara in filosofia –, fin da giovanissimo, dicevo, ha cercato gli affini, si è impegnato per una cultura che fosse redenzione della fugacità dell’individuo e dell’opacità della vita collettiva. Oggi, grazie alla pubblicazione di quegli scritti giovanili, preparatori delle grandi imprese culturali che ha poi realizzato, possiamo seguire passo dopo passo le tappe della sua formazione e capire pienamente gli intenti che la promuovevano e gli scopi che egli si era proposto di raggiungere. T. – Le sue grandi imprese culturali. Vogliamo brevemente ricordarle. M. – La traduzione integrale in lingua italiana dell’Organon di Aristotele, la traduzione della Critica della ragione pura di Kant (con Appendice in cui indicava gli errori, le imprecisioni e le ambiguità della precedente traduzione di Gentile e Lombardo Radice), la magistrale edizione in lingua tedesca, italiana e francese di tutte le opere di Nietzsche, la collana degli autori classici di Boringhieri (con circa cento titoli e alcune pagine, tra le più vive e preziose, di introduzione alle personalità a lui più care e congeniali) e infine la Sapienza Greca, prevista in dieci volumi e di cui ne sono usciti soltanto tre per la sua improvvisa e prematura morte. Poi, i gioielli di stile e di pensiero che sono Fi-
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losofia dell’espressione, Dopo Nietzsche e La nascita della filosofia. Tralascio le traduzioni di libri importanti e di peso (ricordo tra queste soltanto le traduzioni del Simposio di Platone, di molte pagine di Schopenhauer, edite e di Plotino, inedite) perché già quanto detto sopra ci attesta la sua gigantesca statura di filologo, editore e organizzatore di cultura, oltre che di filosofo (ma vedremo da ultimo come questa dimensione filosofica vada intesa). T. – Sì, può bastare. Perché quelle imprese e quegli autori? M. – Perché cercava termini di confronto, voleva una misura dell’eccellenza umana, per questo ha interrogato gli spiriti magni, li ha evocati per se stesso e per noi. Colli detestava la chiacchiera intellettuale, le polemiche meschine, le contrapposizioni su temi secondari e palesemente personalizzati e così – ed è soltanto un esempio – far tradurre l’Etica di Spinoza voleva dire rivolgersi, nel cuore della filosofia moderna, ad un’eccezionale figura di sapiente che è coinvolto con la totalità della propria vita nel compito di trasformarsi in una cometa luminosa e solitaria nei cieli della modernità, capace di rincuorarci e darci forza, se vogliamo levare lo sguardo in alto. Schopenhauer ha per lui la stessa funzione, è veritiero innanzi tutto, non vuol nascondersi né nascondere che questa vita, la nostra vita, è terribile a viversi, e perciò denuda l’individuo riconducendolo alla sua essenza che è tensione, cogliendone lo slancio e il naufragio, e non ne compensa la lotta e la sconfitta (rarissimo è il caso del liberato in vita anche per Schopenhauer) con cosmetici sociali e sovrapposte architetture culturali in cui, con lo scopo di salvarsi, l’individuo si perderebbe in modo ancor più anonimo. T. – Il suo sguardo però è andato ben più indietro. I Greci non sono stati soltanto la sua ultima fatica interrotta dalla morte, sono stati anche il suo inizio, l’alba della sua ammirevole avventura intellettuale e umana. M. – I Greci, i grandi Presocratici che lui ha poi chiamato Sapienti, sono stati l’estremo limite di quella misura d’eccellenza che cercava. Vi ha investito risorse interpretative che hanno rasentato l’evocazione. In una pagina del giovanile Apollineo e dionisiaco egli annota lo scoramento
che lo prende di fronte ai resoconti piatti e snervati datici da Aristotele dei pensatori degli inizi, poi, aggiunge, basta un momento aurorale, uno stato di grazia (atteso e procurato, aggiungo io) per vederne tutta la luce, per attingervi un vigore altrove introvabile. Posso testimoniare che così accadeva davvero. Le dico che nell’ottobre del 1971 quando pellegrinavo per le aule universitarie di Pisa in cerca di ‘pane’ (venivo dalla Maremma che allora si cominciava a coltivare sul serio, ma quasi ancora analfabeta e so che cosa significhi il pane e il ‘pane’!), mi sedei alle undici nell’aula all’ultimo piano dell’Istituto di filosofia in via Galvani. Colli entrò in orario, imponente e solenne, salutò con cortesia squisita – notai il fazzoletto sui toni granata che spuntava dal taschino della giacca –, lesse in greco un frammento di Empedocle che aveva trascritto in un foglietto, tradusse, e parlò per un ora in un modo in cui non avevo mai sentito, e mai più ho sentito parlare. C’era tutto nelle sue parole: affabilità, comprensione cultura, consapevolezza, nobiltà e creazione (per noi giovani) di uno stato d’animo recettivo, grato per quell’universo incognito che si apriva ai nostri occhi. Ma anche lui era grato che noi fossimo lì, era una vera e propria ritualità che s’accendeva ogni volta alle sue lezioni, che solo lui sapeva creare per lo sconfinato amore che metteva nel sondare con noi quelle potenze originarie del pensiero di cui subito capimmo che nulla sapevamo e nulla avremmo continuato a sapere se ci fossimo attenuti alle interpretazioni canoniche. Era talmente alto il codice di pensiero e di linguaggio che s’imponeva e che trasmetteva a noi nelle lezioni che uscivamo dall’aula con l’unico pensiero di riascoltarlo il giorno dopo. Ne fui – e non rida – trasfigurato. Fu l’incontro col Maestro. La sua generosità era pari alla nobiltà della persona, ci portava nei caffé, nei ristoranti, dove, a sue spese, continuavamo la lezione che ormai era divenuta dialogo, perfino colloquio, tale era l’affabilità, ma anche in quei contesti mai, davvero mai, ho sentito scadere il suo linguaggio, indulgere alle perifrasi oziose e alle canoniche idiosincrasie linguistiche dei professori universitari. Mi domando ancora oggi come facesse a mantenere in ogni occasione quella concentrazione e quella precisione ed eleganza di linguaggio.
T. – E la risposta l’ha trovata? M. – Continuo a vederla nell’altezza dei modelli che fin da adolescente si era proposto. Non gli interessavano i punti deboli dei suoi autori, per farsi la fama di critico acuto. Ne faceva brillare i nuclei irradianti, voleva impadronirsi dei loro
Intervista punti di forza, non per essere una loro replica, ma per sprigionare da sé altrettanta luce. E da questi modelli infine veniva scolpito mentre ne sagomava l’interpretazione. Si era liberato insomma dalla meschinità che è sempre cattiva consigliera della lingua. T. – È questo un punto importante. I suoi detrattori lo accusano di aver lui stesso creato i suoi modelli, di non essere un interprete “oggettivo”. M. – Innanzi tutto è un’accusa falsa, perché spesso l’interpretazione di Colli è illuminante anche secondo i criteri della ricerca filologica. E, poi, se anche quelle critiche fossero giustificate dovremmo riflettere sulla questione. Colli ha posto un problema serio per quanto riguarda la ricerca sulle grandi personalità filosofiche. Il problema è questo: si può davvero comprenderle senza cercare di portarsi al livello di realizzazione umana dei loro autori? Quanto noi riusciamo davvero a capire, attraverso gli scritti, di animi e menti che superano in qualità e vastità la gran parte di noi tutti? Chi non compie uno sforzo che coinvolge tutte le potenzialità umane e si affida soltanto alle astrazioni intellettuali ha qualche possibilità di recepire, sempre per fare il solito esempio, uno Spinoza di cui magari conosce vita morte e miracoli dal punto di vista dei testi e della critica? La cosiddetta dottrina di Spinoza può certo essere riformulata concettualmente, ma il cuore profondo di quella personalità e il colore che per lui ebbe quella dottrina, oserei dire il sapore, non sfuggirà irrimediabilmente se rimaniamo a quella formulazione? Come vede non è soltanto un problema di distanza storica e di scarsità di testimonianze che si porrebbe soltanto per gli antichi Greci, è un problema di radicalità ermeneutica. Si pone altrettanto bene per Nietzsche, che è recente come autore rispetto ai Greci, e che è stato frainte-
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so come pochi, senz’altro più di Aristotele o di Tomaso. Se leggiamo le pagine di Colli su Nietzsche ci balzano davanti agli occhi una nobiltà e un’intensità di vita veramente rare, qualcosa di prezioso, di così immensamente prezioso (pur con tutte le cadute e le debolezze che Colli denuncia
Intervista anche meglio dei distruttori – negli intenti – di Nietzsche) da costringerci ad una catarsi, ad una metamorfosi, se non siamo sordi in spirito o già troppo avviliti dalla meschinità dei nostri eventi personali e del nostro contesto sociale. Capisco che ci possa essere il pericolo d’interpretare un filosofo secondo noi stessi, ma se l’interprete è uno come Colli, e i risultati sono quelli che lui ci dà, possiamo infine accettarli come un efficace rimedio per le nostre debolezze e un potente incentivo per sviluppare le nostre potenzialità migliori. Tenga presente che, come sopra accennavo, anche la filologia più oggettiva può mancare il segno rispetto al fondo della vita umana e darci al massimo dei confortati risultati esteriori, ma allora tanto vale, lo ripeto, correre il rischio dello slancio con un interprete come Colli. T. – Come riassumerebbe le conquiste intellettuali di Colli? M. – Innanzi tutto ha gettato una nuova luce sulla cultura greca arcaica e classica, mostrando come la filosofia, in quanto impresa scritta, sia non solo più recente ma forse (lui il forse lo avrebbe tolto) meno significativa dello sfondo misterico da cui emerge. Poi, l’aver ricalibrato le pretese della ragione che, se si esprime soltanto nella distillazione concettuale sempre più astratta e indipendente dalla complessità della costituzione umana, conduce individui e società allo squilibrio e allo sfacelo per quel che vi è di patologico nell’isolarla da altri aspetti dell’umanità, come l’intelligenza della vita e la forza del carattere, per esempio. Inoltre, l’aver
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liberato Nietzsche dalle contumelie di detrattori non all’altezza della sua nobiltà e del suo eroismo intellettuale. Nietzsche ce lo ha restituito come una delle grandi personalità del mondo moderno, come l’esempio clamoroso ed emblematico del destino che attende l’individualità che non vuole appiattirsi in una vita da formica, ma vuol lasciare una traccia, irradiare una luce che fenda almeno un po’ l’opacità della nostra vita collettiva, dei nostri ossessivi e insensati rituali, delle nostre pratiche quotidiane che ci svuotano progressivamente e ci conducono all’annientamento come individui, del
tutto infine consumati e spenti dal nostro tendere, entusiasti autolesionisti, all’imbalsamazione sociale. Da ultimo, lo slancio verso una cultura che non idolatri i prodotti della nostra capacità tecnologica riducendoci a protesi delle nostre protesi. T. – Qual era il suo ideale umano? M. – Colli aspirava alla grandezza d’animo. Grandezza che aveva ritrovato negli uomini di cui ha rivissuto il pathos. Guardi, non è facile per chi non lo ha conosciuto capire che cosa cerchi di dire. So-
pra Le ho ricordato il mio primo incontro con lui e non so se sia riuscito a dare l’idea di quel che ho sentito. Provo a insistervi: ho fatto l’esperienza viva e incancellabile di un anelito costante e magnifico (anche se scevro da ogni posa e controllato in ogni momento) alla grandezza e alla nobiltà. Questa aspirazione era iscritta nelle sue parole e nei suoi gesti di una misura imperiosa e fascinante, nella sua detestazione profonda e immediata per la volgarità e la sciatteria intellettuale e morale. Le racconto due avvenimenti, cui ho assistito. Un giorno irruppero a lezione dei contestatori (forse di Lotta Continua). In tali casi i docenti non schierati dalla parte degli studenti (e su questi cattivi maestri molto ci sarebbe da dire) o abbandonavano l’aula o, se veniva loro impedito, davano segni di smarrimento e confusione. Ebbene, Colli si alzò, pacato e solenne, ripercorse l’aula, si avvicinò a colei che era il capo della spedizione che intendeva interrompere la lezione, cominciò a parlarle affabilmente e con un controllo tale della situazione che in breve tempo poté continuare la lezione. Se non rimasero ad ascoltarlo anche gli studenti venuti per occupare fu soltanto per non perdere del tutto la faccia. In altra occasione, irruppero le femministe a palazzo Quaratesi, dove in quel periodo Colli teneva le lezioni, con gran baccano. La loro portainsegne pose all’ordine del giorno il tema: Nietzsche non avrebbe mai scritto Così parlo Zarathustra, senza Lou von Salomé, cui andavano i reali meriti di quell’opera. Molti di noi s’indignarono e credo che sarebbe potuto accadere qualcosa di spiacevole se Colli non fosse intervenuto. Con risoluta autorevolezza accettò il confronto, smontò pezzo per pezzo la tesi della sua intransigente e pretenziosa interlocutrice che cominciò a ripiegare verso la porta farfugliando ipotesi sempre più fragili. Infine – e questo
fu il colpo di scena che chiuse il confronto – con la sua voce calma e molto nasale le si rivolse dicendo: “ Signorina, perché non si dà al teatro, avrebbe buone possibilità”. Superata in ogni senso e infuriata, la studentessa se ne andò lanciando un’offesa che uno di noi rideclinò tra i denti al femminile. Colli però, come se gli si fosse posata sulla giacca una mosca inoffensiva, riprese la lezione. Ecco, se mi è permesso usare un’immagine che Lei ben conosce, egli aveva bevuto a pieni sorsi fin da liceale a quella coppa delle libagioni che contiene la grandezza d’animo. T. – Ci parli brevemente dello sfondo misterico cui sopra accennava riguardo alla Grecia arcaica. M. – Proverò a farlo usando un simbolo che Lei conosce sicuramente meglio di me. Lei poggia i suoi passi rituali su pavimento egizio e Lei sa bene che l’interpretazione infine più produttiva di quella complessa rete simbolica oppone la luce rappresa e nascosta a quella manifesta. Il bianco, allora, non è che l’aspetto visibile, perché indebolito, della luce iniziatica che in tutta la sua potenza sorgiva è così abbacinante (non dimentichi Platone e il mito della caverna) che non riusciamo a vederla. Deve, come potrei dire.., diluirsi per poter essere luce che guida. Ma nel momento dell’epopteia (dell’esperienza suprema nei Misteri di Eleusi che è visione di ‘cose’ divine) è proprio questa piena luce (quella rappresa, rappresentata dai quadrati neri) che avvolge l’iniziato dissolvendo in sé tutte le categorie dell’esistenza quotidiana e immedesimendalo con la vita profonda e invisibile di cui egli è manifestazione visibile, perché attenuata e transeunte. Lo so che non è semplice da formulare e da comprendere. Occorre cambiare prospettiva. Diciamolo così. Noi pensiamo comunemente alla vita riferendola a noi individui viventi, il metro di riferimento siamo noi, ineluttabilmente noi. L’inizia-
to ai Misteri veniva (è così che io vedo l’epopteia) d’un tratto distolto dalla propria individualità. Vinta l’ineluttabilità dell’autoriferimento, l’iniziato è ‘sciolto’ da quel vincolo, liberato e immerso nel gran fiume della vita, di tutta la vita, rapito da tutta l’invincibile bellezza di essa e stordito al tempo stesso dalla piena di dolore che l’attraversa. Riesce ad immaginare che cosa possa accadere nell’animo di chi si trova a vivere nell’intensità radiosa e atterrente di una tale opposizione? Riesce ad immaginare quale strappo si provochi nel tessuto della quotidianità nell’attimo supremo in cui Dioniso e Apollo, Demetra e
carsi, come incautamente facciamo, della nostra complessa componente animale (ogni volta che questa componente si manifesta, leviamo altissimi lai come se fosse una novità inedita!), della nostra oscura vitalità da cui spesso rimaniamo sbigottiti, dello sfondo ctonio insomma, ma an-
Intervista che andare più avanti rispetto alle nostre potenzialità stellari, esprimendone la luce. “Sono figlio della Greve (terra) e del cielo stellante” dice un iniziato ai guardiani di Ade in una lamina orfica trovata a Ipponio. Profondo e sconcertante lo sfondo misterico: siamo figli della greve terra e del cielo stellante. Ecco la consapevolezza iniziatica e forse il significato più arduo di quel mosaico su cui so che tanto vi affaticate per capirne il senso. T. – È un rimprovero o una lezione? M. – Né l’uno né l’altra. Ci mancherebbe! Semplicemente, stiamo parlando di un Maestro e spero di aver appreso qualcosa da lui in otto anni di assiduità.
Kore ctonia, si giungono in un’unità che sbigottisce? Riesce a pensare la luce nera? Ecco, qualcosa di simile a quanto cerco – purtroppo non bene, temo – di dirLe è lo sfondo misterico da cui Colli ha visto sorgere la grande vita greca. Gli dèi, l’arte (quella che noi chiamiamo arte, ma che per i Greci era altra cosa), la tragedia, la filosofia sono espressioni di quello sfondo così come il furore, spesso autodistruttivo, di vita che ha caratterizzato quella civiltà. Vedere in questa prospettiva la civiltà greca e non solo, vuol dire non dimenti-
T. – Ma qualche difetto lo avrà avuto? M. – Essere puntigliosi sui difetti di una grande personalità lenisce solo superficialmente le nostre infermità; ed è pessima cura perché le rende ancora più croniche. Tenerne sempre presenti i meriti illumina la nostra vita, accresce la nostra potenza, e indica che, se anche ne siamo distanti, la riconoscenza e non l’invidia ci muove, per Asclepio medico! T. – E il tratto che in lui era più evidente? M. – Quello che Cristina Campo, fiorentina, ha definito come “...pietà indifferente alla bassezza altrui”, la sprezzatura. P.132: Testa di Filosofo, arte ellenistica; p.134: Friedrich Wilhelm Nietzsche (Röcken, 15 ottobre 1844 – Weimar, 25 agosto 1900); p.135: Lou von Salomé, anche nota come Lou Andreas-Salomé (San Pietroburgo, 12 febbraio 1861 – Gottinga, 5 febbraio 1937)
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I
l giuramento è un invenzione dell’uomo ed è la promessa, legata ad una specifica formula, di adempiere a determinati obblighi, di mantenere certi comportamenti in nome di un soggetto, di valori o di beni ritenuti sacri. Nell’Antico Testamento, il giuramento era infatti ammesso come atto solenne nel quale l’uomo chiamava Dio quale Testimone della veridicità della sua parola. Il falso giuramento (lo spergiuro) era conseguentemente un peccato gravissimo, ingannando il prossimo si infangava il nome di Colui che era stato chiamato a Testimone. La parola discendente da fonte divina, conterrebbe in sé certezza della propria veridicità, costituendo implicitamente giuramento, mentre tale termine, rivolto all’uomo, dovrebbe garantire la verità delle asserzioni contenute, ma non la loro effettiva realizzabilità. Molte sono le radici storiche della promessa e non poche le attinenze rinvenibili nel passato che possano avvicinare altre forme di promessa al giuramento massonico. Da una breve analisi, si rileva che nel tempo per accedere e per essere riconosciuti come parte integrante di un gruppo, sia stata sovente richiesta agli adepti la prova del giuramento, che trova ragion d’essere proprio nella natura fallace dell’uomo e nell’esigenza di contrapporvi l’aderenza ed il rispetto a regole inviolabili. Di qui la necessità di creare, nelle varie epoche, articolati sistemi di valutazione dei profili di responsabilità dell’appartenente che avesse infranto principi e vincoli liberamente assunti, con la previsione di graduate sanzioni, tendenti come estrema ratio all’espulsione del colpevole. Non a caso, il falso giuramento, nell’apparato normativo dello Stato Italiano, è un reato sanzionato. Nella fattispecie, l’art. 371 del codice penale prevede espressamente che chiunque, come parte in un giudizio civile, giura il falso, sia punibile con la reclusione da sei mesi a tre anni. Nel caso di giuramento deferito di ufficio, il colpevole non é punibile, se ritratta il falso prima che sulla domanda giudiziale sia pronunciata sentenza definitiva, anche se non irrevocabile. La condanna comporta comunque l’interdizione dai pubblici uffici. *** Ripercorrendo le esperienze storiche di differenti etnie, nell’uomo è sempre l’impulso di costituire un vincolo solenne.
Gli Esseni, piccola comunità in seno al popolo ebraico, richiedevano per colui che volesse essere ammesso al suo interno, una serie di prove iniziatiche rituali, con finale pronuncia di giuramenti atti a legare in maniera indissolubile il soggetto al gruppo. Per l’effetto, chi non si sentiva obbligato a fronte delle parole rese, veniva allontanato e costretto a vivere una vita di espiazione. Il giuramento per gli Ebrei assumeva valenza religiosa. La radice etimologica del termine è infatti identica a quella del sette numero sacro “ebr. saba, collegato a seba = sette”. Per l’ebreo il giuramento suppliva o superava la parola data, come “parola d’onore”, in quanto ponendo Dio come garante dei rapporti, dei contratti stipulati, il giuramento consisteva “in una imprecazione mediante la quale ci si impegnava solennemente a tenere fede alla parola data, subendone, in caso contrario, le conseguenze, fosse anche la morte1. Era questa una imprecazione che accompagnava il giuramento “ebr. alah, Così mi faccia Dio se non adempio...”, valevole nei confronti di un patto, di un’alleanza, delle clausole di un contratto.2 Nell’antica Roma, invocando il nome di Giove, ampissimo era l’utilizzo del giuramento nei rapporti internazionali, sia di diritto pubblico, che privato. Il foedus (alleanza con altri Stati) era sancito con un giuramento; il giuramento che doveva essere prestato dai magistrati al momento dell’entrata in carica, pronunciando la formula di agire nel rispetto delle leggi; il liberto prestava giuramento al patrono, obbligandosi a compiere a suo favore un certo numero di servizi (operae); nel processo pubblico dovevano prestare giuramento sia i componenti il collegio giudicante, sia i testimoni chiamati a deporre.3 Anche nell’antica tradizione giapponese, dove la caratteristica saliente impartita nei ryu era l’aspetto esoterico e segreto; l’impegno a conservarlo tale costituiva uno dei requisiti necessari per l’ammissione alla scuola di formazione dei guerrieri e veniva sancito proprio dal giuramento che l’allievo pronunciava al suo ingresso. Questa tradizione viene richiamata, in quasi tutte le arti marziali, con la sussistenza di termini come hiden (tradizioni segrete), hijutsu (arti segrete) e okugi (misteri).4
Nel Medioevo la pratica del giuramento da un lato si diffondeva ulteriormente, acquisendo anche il significato di rafforzamento degli impegni assunti, vista l’influenza del cristianesimo, dall’altro con la codificazione e il riordino delle leggi longobarde introdotte dall’Editto di Ro-
Giustizia tari, lasciava il passo, in alcuni momenti, alla prova testimoniale e documentale. Contemporaneamente, le corporazioni divenivano associazioni e spesso giurate corporazioni “giurate”; erano associazioni giurate gli stessi Comuni, ove gli stessi Consoli, i Podestà ed i Capitani del Popolo all’atto di assumere la carica e le funzioni, si impegnavano con i brevia5, espressione giuridica del popolo stesso e delle classi sociali nell’Assemblea6. Nel diritto civile italiano di derivazione romana e longobarda, il giuramento viene attualmente contemplato negli articoli 233 e seguenti del codice di procedura civile, come strumento processuale probatorio. Rispetto agli altri mezzi istruttori, ha maggiore intensità in quanto, una volta prestato, l’altra parte non può provare il contrario, né può agire in revocazione, anche se il giuramento sia stato dichiarato falso con sentenza. Normalmente si ricorre al giuramento quando, esauriti gli altri rimedi istruttori, le domande e le eccezioni risultano sguarnite di idonea prova. Il giuramento, se “decisorio” (art. 233 c.p.c.) è istanza di parte; se “suppletorio” (art. 240 c.p.c.) viene deferito dal Collegio Giudicante, con criteri di prudente e discrezionale valutazione, in assenza di richiesta dei contraddittori.7 *** Per continuità storica, è indubbio che tutti i documenti reperiti sulla Massoneria operativa contenevano la necessità di giuramenti resi personalmente, resi nella doppia vesta di adepto della confraternita e di titolare di diritti e funzioni nel suo interno. Tutti prevedevano l’impegno di rispettare gli organi dello Stato e le leggi, che avevano sempre una priorità rispetto alle norme dell’associazione e del soggetto chiamato a reggerla – Massaro, Maestro dei Liberi, Maestro Venerabile.8 Nella Società dei Liberi Muratori, il Neofita al momento dell’ammissione è così chiamato a pronunciare una solenne for-
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mula di giuramento, dichiarando di aderire a leggi, regolamenti e disposizioni propri dell’ Ordine massonico. Il giuramento iniziatico è un atto unilaterale libero e spontaneo, che trova espressione nel dovere sociale, nella promessa solenne di adempiere alle obbligazioni assunte, che
Giustizia traggono fondamento nei principi etici (di amore della virtù e di ripugnanza del vizio) propri dell’Istituzione. L’adepto è quindi vincolato all’osservanza di tali precetti verso l’Associazione massonica, nonché nei rapporti con tutti gli appartenenti. Alla luce di ciò, sorgono due interrogativi: quali effetti e conseguenze può sortire la violazione di impegni presi ed accettati honoris gratia, tra individui che si vogliono liberi e di buoni costumi, nel mondo esterno, coincidente con l’Ordinamento giuridico di riferimento? Condotte disdicevoli, contrarie al giuramento possono avere ripercussioni giuridicamente rilevanti anche nel mondo profano? Fonte regolatrice nell’organizzazione massonica è l’accordo degli associati, ai sensi dell’art. 36 e segg. c.c., il Legislatore ha riconosciuto piena autonomia alle regole interne, purché non in contrasto con principi giuridici costituzionalmente garantiti. Qualora sussista una pronuncia di esclusione di un associato per violazione della promessa iniziatica a seguito di procedimento del Tribunale Massonico, il Giudice Ordinario ben potrebbe venire investito per ottenere la dichiarazione di illegittimità del provvedimento. Nel conflitto di giurisdizione tra i due Organi deputati a decidere, la Suprema Corte di Cassazione ha stabilito già nel 1973, il principio generale secondo il quale, il Giudice di merito, adito per la invalidazione di una deliberazione di esclusione di un associato, può valutare qualora si tratti di circostanze imputabili al soggetto a titolo di dolo o di colpa, gravi e non di scarsa importanza (ex artt. 1453 e 1455 c.c.), ma non può sindacare l’opportunità intrinseca della deliberazione di esclusione, dovendo limitare ad accertare se si è verificato uno dei fatti previsti dalla legge o dall’altro costituivo, come causa dell’esclusione. Poiché l’atto costitutivo del rapporto associativo riproduce la situazione caratteristica dei contratti sinallagmatici (a prestazioni
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corrispettive), qualora un associato non adempia agli obblighi assunti, un’associazione, in alternativa alle procedure interne, potrebbe chiedere giudizialmente, in applicazione del combinato disposto degli articoli 24, terzo comma e 1453 c.c., la risoluzione del rapporto associativo nei riguardi dell’inadempiente, sempre che dell’inadempimento sussistano i requisiti di gravità previsti dall’art. 1455 c.c.9 Anche le associazioni massoniche sono riconducibili nell’ambito delle associazioni c.d. “non riconosciute”, essendo la riservatezza caratteristica stridente con il formale regime pubblicitario giuridico verso terzi, che caratterizza le associazioni riconosciute. Nella procedura di verifica di ammissione di un nuovo iscritto all’interno dell’Istituzione, al medesimo viene richiesta la produzione di certificati penali relativi al casellario giudiziario, nonché dei c.d. “carichi pendenti”, documenti dai quali si può evincere l’assenza di condanne e di procedimenti, che ove sussistenti, non consentirebbero alcun ingresso. E ciò in quanto, prima ancora del giuramento di iniziazione, l’Ordine Massonico contempla il rispetto della Normativa vigente. Questo principio è rimasto immutato nella Massoneria moderna, benché fosse già presente nei così detti Old Charges (Antichi Doveri), ove veniva previsto che qualora “un Fratello si ribella allo Stato non dovrà essere sostenuto nella sua ribellione”.10 Di riflesso, effettuando una mera interpretazione testuale, il giuramento non appare neppure in conflitto con le Leggi della Patria, verso le quali l’iniziato promette di mantenersi “ossequiente”, conservandosi sempre onesto e benemerito cittadino. Da questa disamina, possono quindi convivere le norme dello Stato Italiano per le associazioni, con l’insieme di disposizioni e regole che traggono origine da un ordinamento universale, tradizionalmente traslato, caratterizzato dal segreto circa il proprio funzionamento interno, come è quello della Massoneria. Tuttavia, una serie di pronunce giurisprudenziali in senso contrario si sono susseguite negli anni, per avvalorare l’incompatibilità per alcune categorie professionali (nella specie i Magistrati) tra il giuramento massonico ed il principio della soggezione del Giudice soltanto alla Legge, contemplato dall’art. 101, II comma della Costituzione. In partico-
lare è stata sottolineata l’assoluta rilevanza del giuramento iniziatico nei confronti dello Stato, tanto da considerarlo in conflitto con le funzioni giurisdizionali che il Magistrato dovrebbe esercitare11. In breve, l’indissolubilità del vincolo massonico che consegue al giuramento comporterebbe, seguendo tale lettura, un rifiuto della giustizia Ordinaria a favore della giustizia massonica, minando e condizionano l’indipendenza e l’imparzialità delle sue funzioni. Venendo quindi alla possibilità di far valere anche al di fuori dell’Istituzione e quindi nell’Ordinamento Giuridico esterno gli impegni presi ed accettati honoris gratia, appare a tale proposito necessaria qualche riflessione in tema di obbligazioni naturali, ai sensi dell’art. 2034 del codice civile, ovvero di quelle obbligazioni che non si fondano su specifici titoli costitutivi ma che derivano da doveri sociali e morali. In tal caso, l’adempimento nello Stato Italiano non è coercibile, altresì il pagamento effettuato nell’adempimento del dovere sociale non è soggetto a ripetizione se eseguito spontaneamente, da soggetto capace di agire, nei limiti della proporzionalità. In dottrina ed in giurisprudenza, si è posto in rilievo se doveri idonei a generare obbligazioni naturali debbano essere comunque tipizzati e rispondere alla morale sociale, piuttosto che alla morale individuale. In questi casi, fonte dell’obbligazione naturale è il comune sentire, nella morale sociale corrente, avvertita dalla collettività in un determinato momento storico ed in un determinato luogo, circostanze queste che spingono il soggetto ad agire in un dato modo, pur non essendo egli assolutamente vincolato per Legge.12 Si evince, che tali tipologie di obbligazioni costituiscono, in realtà, un punto d’incontro tra il diritto e la morale. Il Legislatore ha riconosciuto, come detto, nell’ambito delle obbligazioni naturali valori ed interessi meritevoli di tutela, doveri non giuridici, comportamenti unanimemente ritenuti giusti e convenienti, in quanto sentiti e doverosi, con specifica rilevanza tra soggetti determinati, anche con carattere di astrattezza ed indeterminatezza.13 Molte appaiono le assonanze tra la fattispecie giuridica descritta ed i doveri etici e morali e gli obblighi verso l’Istituzione ed i Fratelli tutti che discendono dal giuramento massonico. Compito del Giudice Ordinario, investito su una controversia
Giustizia
su obbligazioni nascenti, dal diritto naturale, potrà essere di accertare se la prestazione adempiuta è proporzionata ed adeguata rispetto al dovere morale e sociale sottostante, tenendo presente che l’atto di adempimento di un’obbligazione naturale è, di regola, un atto a titolo gratuito. Infatti, proprio lo spirito liberale a carattere spontaneo ed illimitato informa le obbligazioni naturali che, pur essendo ispirate da animus donandi, si sottraggono comunque agli schemi formali che connotano gli altri atti di liberalità. L’esame di singole fattispecie, dovrà comunque avvenire nei limiti della propria Giurisdizione, sul quale fondante appare il concetto contenuto nella sopra citata sentenza della Suprema Corte,14 ove, in ogni caso, è escluso al Giudice Ordinario il sindacato intrinseco circa l’opportunità di una deliberazione di esclusione di un associato. Nelle ipotesi sinora analizzate, avendo esaminato questioni rientranti nell’area del diritto civile, esulano ovviamente i casi in cui, con la propria condotta, il soggetto incorra in contestuale violazione della promessa massonica e del codice e delle leggi speciali penali. In tali situazioni il riflesso della rilevanza del giuramento nei due Ordinamenti è simmetrico e palese.
Condotte in violazione del giuramento, qualora concretino ipotesi di reato, condurranno il singolo ad essere giudicato e condannato dall’Autorità Giurisdizionale competente perché colpevole. E ciò, a prescindere ovviamente dall’aver prestato qualsivoglia giuramento, per la sola ragione che l’accertamento sulla colpevolezza porta a delineare una responsabilità penale. Concludo questo nostro excursus riportando qualche breve concetto tratto dall’esperienza di altri sistemi normativi, come quello Anglosassone, tecnicamente denominato di Common Law (diritto comune), ove vige la distinzione tra equity, principio di diritto, ed equità. Nel suddetto contesto, viene utilizzato il ricorso “all’equità” per dare tutela giuridica a tutte quelle obbligazioni che non trovano protezione nell’ambito del diritto comune, come ad esempio le obbligazioni naturali o fiduciarie. Storicamente i cittadini, anche quelli privi di cultura giuridica, avevano la possibilità di chiedere l’intervento della Corte (Chancery Court) per tutelare regole e principi insiti nella coscienza dell’uomo. In tale ambito potrebbe farsi rientrare la salvaguardia e la difesa degli obblighi morali, dei comportamenti e delle imposta-
zioni scelte. pronunciando personalmente la solenne formula del giuramento. Non resta che augurarsi la maggiore duttilità del sistema giuridico Anglosassone nei casi esaminati, possa essere di ausilio per l’evoluzione sociale e normativa anche del nostro Paese. _____________ Note: 1 “Ez.17.13 – 1 Re 8.31,32” (Vecchio Testamento) 2 “Nu.5.21 - Ne.10.29”. 3 Le Pandette di Giustiniano, Volume a cura di Antonio Bazzarini,Robert Joseph Pothier. 4 Yoshitaro Yamashita, The influence of Shinto and Buddism in Japan. 5 Grossi: “Giuramento” in enciclopedia del diritto Milano 1970, XIX. 6 Calasso, Medioevo del diritto, vol. I: Le Fonti 7 Scarselli 1998, 91. 8 Eugenio Bonvicini: Massoneria Antica., dalla “Carta di Bologna” del 1248 agli “Antichi doveri” del 1723 9 Cass. Civ. sez. III, numero 579 del 02.03.1973. 10 CHAR 16 e 17, La Carta fondamentale della Massoneria Universale di Rito Scozzese, Roma 1960. 11 Cass. Civ. Sez. Unite, 25/10/1996, n° 9333. 12 Le promesse unilaterali, in Tratt . Rescigno, 1985 13 Bianca Massimo, Diritto Civile “Le obbligazioni”. 14 Cass. Civ. sez. III, 579 del 02.03.1973. P.136: La Giustizia, statua lignea, Berna; p139: Maglietto.
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Note e considerazioni sull’opera di Paolo Maggi, Elogio dell’ induzione e della Magia
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Antonio Binni
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L’uomo, da quando cammina, cammina colmo di oscure domande. Che, come ammaestra Aristotele (in Metafisica 982 b, 12 ss.), nate dalla «meraviglia», ingiungono risposte, che sollecitano altri, e più complessi, interrogativi. Da qui lo spirito di ricerca inappagato. Da qui la sofferta investigazione, intesa come la cifra dell’essere umano. Sua autentica vocazione e maledizione, ad un tempo, alla luce degli avari risultati raggiunti. Nonostante l’impegno irrinunciabile perché la ricerca, contenendo, in sé, un elemento di eternità, si colora di Assoluto. La sete del sapere, oltre a sconfiggere la paura, è il vestigio massimo dell’umana dignità. L’ansia della conoscenza giustifica, dunque, la pena di vivere, nonostante accresca dolore. Come insegna pure Ecclesiaste (1.18). Se il conoscere è l’essenza e il culmine della vita, una vita senza ricerca è una vita sprecata. Come ci ha insegnato Socrate. Estinguere nell’uomo la passione per la verità, equivale, infatti, a creare uno schiavo perfetto. 2.- L’uomo non si appaga, tuttavia, di vaghi pensieri frutto di garrula mente. Pur vivendo dentro una certa vita, pretende di penetrarla nella sua interezza, alla ricerca di quella «archè» – parola introdotta per primo da Anassimandro – che è radice prima e fondamento delle cose, principio astratto sottratto al visibile, oltre l’illusorio del transeunte, trama nascosta oltre l’impermanente manifesto, da rubare, con l’aiuto di Ermete, il Dio dei ladri, alla «natura che ama nascondersi». Come ci ha lasciato scritto Eraclito 14 [A92]. Dunque, non una conoscenza qualsiasi, quanto, invece, una conoscenza stabile, valore assoluto, sottratto alla legge del «prima» e del «dopo», in quanto capace di individuare quella ragione che regge ed incatena gli oggetti mutevoli dell’apparenza, oltre i sensi, in qualcosa di stabile esistente fuori di noi. Acquisire un simile saldo tipo di conoscenza non è, ovviamente, agevole, se,
prima, non vengono individuate le regole alle quali ci dovrà poi uniformare durante l’indagine. Altrimenti, non potrà mai esservi certezza nel risultato stante l’inscindibile rapporto che sussiste tra la validità di una conoscenza e il modo in cui essa viene raggiunta. Il che apre il problema del metodo, parola che, nella sua essenza genetica (meta – odos), indica, appunto, la via corretta da seguire e, più in generale, quel complesso di procedure e di istruzioni da rispettare, se si vogliono acquisire certezze salde, prive, perció, di mende logiche. Il libro, che si segnala, ha ad oggetto, essenzialmente, lo studio del metodo, da un profilo, oggi, colpevolmente, invece, negletto e disatteso. Come l’A., con il suo profondo saggio, intende dimostrare, mettendo in luce pure tutte le implicazioni negative che la soluzione metodologica criticata inevitabilmente, quanto fatalmente, comporta. 3.- L’A., per metodo, intende la «teorizzazione di come un uomo di scienza deve pensare per potersi definire ufficialmente tale» (pag. 11): concetto dal quale, a Suo dire, non è dato prescindere. Nonostante l’opposta opinione, manifestata da Feyerabend (in Contro il metodo, 1970), che, oltre a negare qualsivoglia interesse alla ricerca metodologica, ravvisa, nel metodo, addirittura un ostacolo all’innovazione scientifica. La nozione di metodo viene cosí approfondita dal Nostro attraverso un accurato excursus storico, che muove dai due principi guida, fondamentali, dell’insegnamento aristotelico:
il principio induttivo e il principio deduttivo, sottoposti poi ad un’attenta valutazione alla luce dei contributi di pensiero arrecati al tema da Cartesio, Bacone, Hume, Newton e Galileo, inventore del metodo sperimentale che, come noto, consiste nella formulazione di ipotesi e nella loro verifica mediante l’esperienza. L’accurata analisi approda alla costatazione che il metodo induttivo ha finito, col tempo, per perdere una qualsiasi importanza. La scienza moderna ha, infatti, espulso dai suoi processi conoscitivi la soggettività, ammettendo, come unica forma di conoscenza corretta, quella «oggettiva», perché «Per la scienza l’oggettività è un a priori» (cosí, ad esempio, Monod ne Il caso e la necessità, citazione tratta dall’A.). Scrive l’A., con fondamento, che una tale veduta è pure il frutto del pensiero – oggi dominante – di Popper, che, com’è noto, «per primo», ha teorizzato «l’eliminazione della fase induttiva» (pag. 20) da ogni procedimento conoscitivo di natura scientifica, per avere ridotto l’induzione a mero, inutile «psicologismo» (pag. 21). In quanto tale, perció, assolutamente irrilevante per l’analisi logica della conoscenza scientifica. La quale dovrebbe, quindi, basarsi su dati oggettivi, pur nella (amara) consapevolezza, sempre messa a nudo dallo stesso Popper, della natura del tutto provvisoria di ogni conoscenza umana, in quanto, per definizione, destinata ad essere, nel tempo, superata da ulteriori approfondimenti e conseguenti nuove scoperte. 4.- L’A., dopo di avere riconosciuto che «l’induttivismo» è «un momento soggettivo per eccellenza» (pag. 25), si interroga se sia davvero corretto considerare l’induzione come superflua e, perció, da bandirsi. O se non la si debba, invece, stimare come addirittura necessaria ed imprescindibile nello sviluppo logico della scienza. Per rispondere, poi, al quesito sollevato in termini del tutto positivi. Con convinta sicurezza. L’«elogio dell’induzione», per l’A.,
nasce, innanzitutto, dal fatto che questo metodo d’approccio alla fenomenologia riporta all’uomo e a quella sua «centralità», che, nel tempo, si è, invece, «progressivamente persa» (pag. 26), perché la «tanta agognata “oggettività”» ha portato sulla scena quegli «strumenti tecnologici» che hanno finito per degradare l’uomo fino a renderlo «sempre più simile a una comparsa» (pag. 26 cit.). Ricorda, inoltre, l’A. che la mente non è solo razionalità. Sicchè «la fantasia e le emozioni possono dare nuova energia al pensiero scientifico» (pag. 8) che si
alimenta di libera creatività, di intuizioni, di sogni inquietanti – vds. il capitolo n. 14 – e, perfino, del caso. Se è vero, com’è indubbio, che una muffa imprevista ha permesso al massone Fleming di ricavare, nel 1928, la penicillina. Sicchè, conclude l’A., privarsi di una simile potente possibilità equivarrebbe a mutilare la ricerca scientifica nel profondo, posto che ogni autentica scoperta è il risulta-
to di un universo di componenti. Le più svariate, (cultura; amore e dedizione allo studio della propria materia; sensibilità; idee religiose; etica personale; creatività; insomma, nulla di scientifico), che, come una complessa fioritura, germinano dal massimo grado di libertà del pensare, in
Biblioteca un orizzonte che sconosce confini. 5.- L’A., a conforto della prospettazione sostenuta, invoca l’importanza che la soggettività ha rivestito nella Tradizione di numerose Scuole iniziatiche, nelle quali proprio l’induzione ha «notevolmente favorito il formarsi nel loro interno di grandi scienziati» (pag. 28), che, «proprio attraverso l’universo partecipativo e interattivo che si interpone fra l’osservatore e l’osservato» (pag. 49), hanno prodotto, e relitto, conoscenze preziose. Tutt’altro che episodiche. Puntualmente riferite, con dovizia di particolari, in un intero capitolo (n. 9), significativamente intitolato “Le mille scoperte dell’antichità”. A chi scrive, il richiamo alla Tradizione pare, oltre che estremamente puntuale, soprattutto prezioso. La Tradizione, infatti, non è un concetto statico, regola fissa ed immobile da osservarsi pedissequamente in tutti i suoi dettami. Come esigerebbe il culto del tempo passato. All’opposto, la Tradizione deve essere intesa come una nozione, per sua natura, dinamica, perché i suoi insegnamenti vanno calati nella Storia, che, attualizzandoli, li rende preziosi strumenti di crescita. Della Tradizione – per dirla in estrema sintesi – bisogna essere eredi, perché è soltanto cercandola che la si puó vivere come una autentica proposta di vita. Da qui – anche da parte dell’estensore di queste note – il convinto impiego di quella lezione, nell’oggi, e pure nel domani, perché i problemi che gli uomini
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sono chiamati ad affrontare, e risolvere, a ben considerare, sono, in verità, sempre gli stessi. Cosí come sempre uguale a se stesso è l’Uomo, dato al conoscere come un enigma. In questo senso, il recupero della Tradizione finisce, pertanto, per rivelarsi, ed essere, una proficua occasione
Biblioteca per la nascita di un progresso scientifico più umano. Il che è poi particolarmente vero se, fra le diverse Tradizioni iniziatiche, si fa capo all’Alchimia, alla quale il Nostro si rifà, in specifico, per giusti e legittimi titoli, dopo di averne rivendicato l’importanza, sul piano intellettuale e morale. 6.- La scienza moderna considera «negazione del metodo scientifico» (pag. 61) l’eredità delle scuole iniziatiche del passato e in particolare dell’Alchimia. Osserva l’A. che: «Nessuno perdona a questa tradizione di essere stata profondamente intrisa di religiosità e di magia» (ivi). Tanto che, agli occhi degli scienziati moderni, è considerato «persino eretico parlare di “metodo” riferendosi al Pitagorismo o all’Alchimia» (pag. 62). Codesto atteggiamento, per l’A., è, peró, assolutamente da respingersi e disattendersi, perché l’essersi, dagli alchimisti, riconosciuto che «la mente umana possiede una potenza superiore» (pag. 60) alla mera razionalità, sta proprio a dimostrare che, alla base di ogni scoperta scientifica, c’è proprio quella «soggettività» che costituisce, invece, il cuore e il motore dell’induzione. L’osservatore attento non puó, inoltre, negare «quanto sia stato importante l’influsso dell’alchimia nella nascita della scienza moderna» (pag. 63), per avere «posto le basi della medicina, della farmacia e della chimica moderna» (pag.
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59) e per avere, inoltre, avuto «una profonda influenza sulle origini del metodo sperimentale moderno» (pag. 59, cit.). Diventa, cosí, inevitabile il richiamo a Newton, come «l’ultimo dei maghi e il primo degli scienziati moderni», secondo l’ormai celebre definizione data allo stesso dall’economista Keynes nella nota conferenza tenuta nel 1942 al Royal Society Club. Sulla scorta dell’insegnamento di Jung, l’A. riconosce, infine, che l’Alchimia è stata inesorabilmente condannata all’oblio per il suo linguag-
gio oscuro (Obscurum per obscurius, ignotum per ignotius) e, soprattutto, per la natura segreta del suo insegnamento, siccome circoscritto a pochi eletti. Il che, per definizione, costituisce l’antitesi di ció che, invece, caratterizza la scienza moderna, che, in tanto esiste, in quanto aperta alla libera circolazione delle idee, sia pure nel ristretto ambito degli esperti della materia. Ció che, secondo l’A., è, invece, inaccettabile è la vigente damnatio memoriae, proprio perché una tale condanna, particolarmente alla luce di ció che di vali-
do ha lasciato all’umanità quella grande esperienza spirituale che è stata l’Alchimia, è profondamente immotivata e ingiustificata. Il recupero di quell’insegnamento, per il Nostro, è, dunque, non solo pienamente legittimo, ma perfino doveroso, se si vuole superare la crisi che, oggi, caratterizza la scienza. 7.- Il recupero dell’insegnamento alchemico, secondo l’A., oltre a quanto già sopra (sub 6) messo in luce, si rivela poi particolarmente proficuo da un ulteriore angolo prospettico, oltremodo rilevante ai fini della determinazione del metodo. Il Nostro si dimostra, infatti, particolarmente severo nei confronti degli scienziati moderni, definiti, ora, «nevrotici» (pag. 53), ora «analfabeti» (pag. 91), avendo «perduto una tipica caratteristica propria di altri tempi: l’universalità culturale» (pag. 91 cit.). È noto, infatti, che gli studiosi hanno sistematicamente finito per previlegiare quella «specializzazione» che, mentre coincide con la «consapevole, totale e spesso arrogante ignoranza di ogni altro interesse culturale» - che non sia quello «strettamente inerente al proprio campo di studio» (pag. 91 cit.) - si preclude, invece, altri percorsi e connessioni logiche alternative. Che scaturiscono da «universi intellettuali variegati» (pag. 93), nel novero dei quali, secondo l’A., rientrano, a buon diritto, «altre sensibilità, come quella umanistica e artistica» (pag. 93, cit.). Attingere all’insegnamento alchemico, aperto ad ogni sapere, puó, dunque, secondo l’A., risolversi in un superamento di quella «settorialità del sapere» che si rivela ex se come un elemento ostativo all’autentico progresso scientifico, che, per divenire tale, richiede, invece, il coltivare – come insegna Popper – «una gamma di interessi ampia» e, dunque, il possesso e il dominio di molti saperi. 8.- Se – come scrive il Nostro con una fe-
lice immagine – l’oggetto del suo studio si svela all’Alchimista «quasi in un atto d’amore» (pag. 28), ció avviene, tuttavia, unicamente a beneficio di chi è puro di cuore, per avere espunto dallo stesso «ogni corruzione». Come scrive Afidio (in Aurora consurgens), felicemente citato dall’A. nel frontespizio del capitolo 19, tutto dedicato ad un aspetto essenziale della materia, in quanto lega indissolubilmente l’uomo di scienza alla pratica della virtù, che ignora mani impure, lussuria, mollezze e vorace avidità mercantile, causa di “salatissimi onorari”. Nel che – ammonisce l’A. – v’è, ancora una volta, una grande lezione da recuperare: l’indissolubilità del legame fra “etica” e “fisica”, che gli alchimisti, nel loro profondo rispetto del Sacro, hanno sempre rigorosamente osservato. A differenza di quanto accade oggi, dove l’etica è considerata «uno strumento esterno al metodo scientifico» (pag. 97), mentre, nello scienziato antico, e negli alchimisti in particolare, l’etica, all’opposto, era, invece, una «parte del metodo di ricerca» essenziale, in quanto intrinseca alla stessa. Il che non è poi altro che un fermo richiamo alla nuova responsabilità dello scienziato, che deve, perció, preoccuparsi, innanzitutto, di studiare se stesso e i suoi comportamenti, per essere, poi, capace di orientare le proprie scelte di studio senza le fortissime distorsioni d’orientamento causate dal sistema economico. Il che risulta particolarmente vero per la capacità condizionante che riveste in medicina l’industria farmaceutica, volta a previlegiare talune ricerche (quali quelle dei farmaci curativi o quelli usati solo per cicli brevi di terapia, come gli antibiotici) a scapito di altre (quali le vaccinazioni e gli antidepressivi) meno remunerative. 9.- L’A. sviluppa la sua riflessione sulla linea del pensiero tradizionale per ribadire, quindi, che si possono espandere le capacità conoscitive laddove, fra l’osser-
vatore e l’oggetto osservato, si instaura un rapporto di reciproca influenza cosí stretto da divenire immedesimazione, in quanto le consuete divisioni, fra lo studioso e il fenomeno investigato, si annullano, per fondersi in unità. Come – se è lecito addurre un esempio che ci è sovvenuto leggendo il saggio – avviene per la mano, che modella lo scalmo, e, per lo scalmo, che modella, a sua volta, la mano che, abitualmente, l’impugna. Per esprimere questo complesso fenomeno, il Nostro ricorre al termine di “sinestesia”, per indicare, appunto, il «provare insieme le
medesime sensazioni» (pag. 71). Il che, in particolare, vorrà dire, «per un medico (…) mettersi nei panni del suo paziente», e, per un naturalista, «sentirsi pianta, insetto o stella» (pag. 72). Si realizza, cosí, «quel processo caro agli alchimisti», che « a loro sembrava un evento magico» (pag. 73), proprio perché «la conoscenza», a questa stregua, «perde la sua oggettività», per divenire, invece, «un processo squisitamente soggettivo», nel quale «il fenomeno premia il suo osservatore svelandosi a esso» (pag. 73 cit.). 10.- Nell’ambito del pensiero sovra-razionale viene riconosciuto un «ruolo fondamentale» (pag. 83) al simbolo, al cui approfondito significato l’A. – per l’intero capitolo n. 16 – dedica penetran-
ti analisi, sottolineando, in particolare, che il simbolo – tratto caratterizzante della cultura alchemica – ci è stato da quegli Illuminati tramandato in un’imponente iconografia. Come noto, studiata – funditus – da Carl Gustav Jung, alla
Biblioteca cui opera fondamentale per la conoscenza del fenomeno in termini psicanalitici – Psicologia e Alchimia – il Nostro si rifà integralmente (nel capitolo 17), per rinvenire ulteriore conforto nella prospettazione sostenuta, i.e., – direbbe Freud – che nella «onnipotenza del pensiero» – e non anche, invece, nella sola pura razionalità – va colto l’atto creativo. Quanto dire, altrimenti, ancora, quella visione magica della realtà che ha permesso agli antichi scienziati di conseguire «risultati che ancor oggi ci paiono strabilianti», pur «nella più assoluta carenza di mezzi» (pag. 55). Ammonisce, dunque, l’A., ancora una volta, che, solo «operando un continuo perfezionamento di se stessi» (pag. 90), si possono dagli studiosi conseguire risultati tangibili. Non riscontrabili nel presente, connotato da poche vere grandi scoperte, nonostante le migliaia di lavori sfornati quotidianamente dalle riviste scientifiche. 11.- La lunga e complessa analisi compiuta dal Nostro ha, quale suo approdo, naturale, l’applicazione dei risultati conseguiti alla medicina, ambito nel quale l’A. opera professionalmente. Secondo il Nostro, è, infatti, proprio in questo settore che si avverte «più forte la necessità del ritorno a un diverso approccio alla realtà, che sfrutti appieno la mente come unità razionale – emotiva» (pag. 102). Nella “clinica”, un uomo osserva e interagisce con un altro uomo. Fra queste due nature, deve, perció, scorrere «un flusso sinestesico che va ben al di là del freddo approccio scientifico ra-
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zionale» (pag. 102, cit.). Se l’uomo è «la medicina dell’altro uomo» (pag. 103), occorre, dunque, un «coinvolgimento totale» (ivi), al quale non è neppur estraneo l’elemento artistico. Scrive, infatti, l’A. che «la medicina (…) è un’arte fondata sull’utilizzo di conoscenze scientifiche»
Biblioteca (pag. 103). Un’arte che ha ad oggetto lo studio della malattia, vista come la «zona grigia che si pone fra la vita e la sua fine» (pag. 111). A differenza della religione, che è «progettualità dell’aldilà» (pag. 112), la medicina è, invece, una progettualità dell’aldiqua, risolvendosi nella capacità di immaginare il futuro e di agire di conseguenza. Spesso, con scarso successo, perché la malattia, in talune sue manifestazioni (malattie neoplastiche; immunitarie; infettive), mantiene, purtroppo, ancora una tragica pericolosità. Da qui la riflessione sulla morte, ricondotta al suo senso più autentico quale rivelatoci dalla Tradizione, per la quale la morte è un fatto della vita. Esattamente come la nascita. La morte, invece, «oggi è divenuta un evento estraneo alla nostra visione dell’universo» (pag. 116), accettabile per animali e piante, ma non per l’uomo. Da qui l’accanimento terapeutico, nel quale l’A. ravvisa «una violenza contro un’armonia universale» (pag.
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112). Nella famiglia patriarcale, la morte «aveva in sé un qualcosa di sacro» (pag. 117), consumandosi l’ultimo respiro nella comunanza degli affetti presenti. Nell’era della famiglia “nucleare”, la morte è divenuta, invece, solitudine dietro un paravento, con l’occhio sbarrato contro un muro, spesso scrostato. Un evento, perfino, «assai imbarazzante dal punto di vista amministrativo» (pag. 117) per l’ospedale, dove il transito avviene, «visto che l’ospedale deve tenere basse le percentuali di mortalità» (ivi) e alti, invece, i dati «relativi agli interventi, ai trapianti, alle guarigioni» (pag. 117, cit.). Fatti tutti – codesti – noti. Sui quali, tuttavia, il Nostro pone l’accento per riportare il lettore ad un corretto rapporto con l’evento finale, considerato propriamente come un «elemento necessario» (pag. 117, cit.) nel contesto della grande armonia cosmica, profondamente giusto nella sua essenza. Non solo perché non discrimina. Ma anche perché lascia spazio ad altre vite, permettendo, cosí la sopravvivenza della specie. Per questo, con fondamento, l’A. definisce la morte come «una grande staffetta biologica su cui è basato il meccanismo della vita sulla terra». (pag. 118). 12.- L’A. dedica, infine, pagine penetranti al rapporto fra Scienza e tecnologia: concetti, ovviamente, che non possono essere confusi. La Scienza è, infatti, conoscere (pag. 118). Mentre la tecnologia, all’opposto, è, invece, costruzione di “protesi” (pag. 119), risolvendosi in strumenti e procedure creati dall’uomo, «animale artificiale per natura» (pag. 120), perché, sin dall’inizio della sua esistenza, per difendersi, e non solo, è stato costretto a ricorrere ad artifici, che ha, poi, puntualmente, prodotto. La tecnologia, «progettualità allo stato puro» (pag. 119, cit.), risulta oggi portata ai suoi estremi limiti con il fenomeno della “virtualizzazione”, fonte di equivoci, di errori e pure di pericoli nel campo della medicina. Tanto che è “Meglio avere a disposizione una buona lastra che un buon medico” (pag. 122), con cui «parlare, discutere di sé e dei propri sintomi» (ivi) che, «nonostante tutto», rimane, invece, ancora «l’arma più valida contro la malattia» (ivi). La Scienza puó aspirare a conoscere tutti i segreti dell’universo e della vita. Con il suo sapere provvisorio,
continuamente superabile, non fornisce, tuttavia, certezze. Tanto che si è insinuato il dubbio che «la nostra mente abbia dei limiti oltre i quali è illusorio pensare di potere andare» (pag. 132). Il mito delle “magnifiche sorti e progressive”, cosí caro «alla grande ubriacatura positivista», verificatasi «tra il XIX e il XX secolo» (pag. 132, cit.) è irreversibilmente naufragato. Tanto da legittimare l’assunto che la Scienza «è un Dio fallito» (pag. 135), proprio perché posa le sue fondamenta, non già su un solido strato di roccia, bensí su di una palude. La tecnologia, con le sue «potenzialità di espansione immense» (pagg. 122-123), ha finito, cosí, per assurgere al rango di «ultimo Dio» (pag. 135), con il quale misurarsi. Senza che, all’orizzonte, compaiano possibilità di sconti. 13.- L’«Epilogo» del saggio contiene la pagina – forse – più penetrante dell’intero volume. Sicuramente, la più affascinante. Se il conoscere è frutto di un atto creativo, al suo fondamento v’è un ardimento temerario. Se non addirittura un’empietà, posto che il conoscente aspira ad una equiparazione – sia pure parziale, ma, come ci ha insegnato Galileo, qualitativamente eguale – a Chi tutto conosce. Il conoscere, al postutto, si risolve in una sorta di ribellione, che è il momento nel quale l’Uomo sperimenta, per antonomasia, la sua libertà, che è il «limite» che l’Antico dei giorni, «lento all’ira e grande nell’amore» (Es. 34,6)», si è auto-imposto, perché, per offrire alla sua Creatura «un’occasione di libertà» (pag. 136), il Signore dei Misteri «deve rendersi impotente» (pag. 136 cit.). Non v’è niuno che non veda in questa prospettazione la lezione, preziosa, relitta all’umanità dalla grande Tradizione cabalistica. Sicchè, non a caso, il libro si conclude con quel passo della Genesi, in cui si tramanda la lotta di Giacobbe con un «uomo», rivelatosi poi come Dio. Per dirci che, «senza la ribellione l’uomo non scopre il Dio che è in lui», e che solo «a pochi è dato di attraversare la ribellione senza perdere se stessi e trovare la Conoscenza» (pag. 137 cit.). Non occorre davvero altro, per ricondurre l’A. nel novero degli uomini della Tradizione, ossequiosi del Sacro, madre e padre degli umani. Anche per questo era doveroso segnalare il saggio in questa “Rivista”.
14.- Abbiamo accennato alle linee portanti del saggio segnalato pregevole anche nello stile adottato, sempre fluido e comunicativo. Pure per provocare e stimolare le curiosità di chi avrà l’amabilità di soffermarsi su queste note, purtroppo, necessariamente riduttive. Cosí com’è inevitabile per ogni recensione. L’onestà intellettuale del prefatore obbliga, tuttavia, ad aggiungere che il volume in commento è molto di più di una pur profonda, attentissima investigazione sulle cause che determinano la nascita di una scoperta scientifica. Nel saggio, non mancano, infatti, incursioni, felici e significative, nella filosofia; nella geometria (vds.il capitolo n. 7); nella storia delle scoperte (vds. il capitolo n. 9); nella fisica; nella storia della scienza e, in particolare, della medicina, con una assoluta padronanza delle relative fonti, che vengono pure ragionate, criticamente discusse, oltre che, via via, indicate come altrettante sorgenti di ispirazione e guide del pensiero dell’A. Il quale coltiva, dunque, quella «gamma di interessi ampia» che, secondo Popper, come non è inutile ripetere, è indispensabile per conseguire «grandi progressi» scientifici, che, per certo, l’A. non mancherà di ottenere. Come le Sue trecento pubblicazioni, delle quali fa fede l’ultima di copertina del volume in commento, autorizzano a credere. Come lieve nota ironica, che è dote di chi sa scrivere bene, va, infine, rammemorato che, nel saggio, denso di riflessioni e notizie, non manca neppure una ricchissima anedottica, senza la quale «sembra che non si possa discutere di induttivismo» (pag. 19). Compresa quella di Mr. Pollo, che, dal cibo che gli veniva somministrato tutte le mattine alle 9,00, in qualsiasi giorno della settimana, che vi fosse stato il sole o il cattivo tempo, secondo un metodo rigorosamente induttivo, si è sentito autorizzato a considerare quell’evento come una regola immutabile. Salvo, poi, per il rito natalizio, essere ucciso «e servito a tavola senza il minimo rispetto per il metodo induttivo» (pag. 20). Il che è critica arguta a ció che si è sostenuto. Ma pure indice di quella onestà intellettuale che obbliga a considerare – come ha lasciato scritto Pascal – che «Alla fine di ogni verità bisogna anche aggiungere di ricordarsi della verità opposta».
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15.- Ma è ormai tempo di affidare il libro al Lettore, perché, dalla sua lettura, possa trarre piacere e, soprattutto, profitto. Non solo sul piano intellettuale. Talune riflessioni dell’A. si pongono, infatti, come una guida sicura a chi aspira a divenire e, poi, a definitivamente risultare
un Essere veramente e pienamente umano, anche all’interno di una società planetaria. P.142: René Descartes (La Haye en Touraine, 31 marzo 1596 – Stoccolma, 11 febbraio 1650); p.143: Sir Isaac Newton (Woolsthorpe-by-Colsterworth, 4 gennaio 1643 – Londra, 31 marzo 1727); p.144-145: Galileo Galilei (Pisa, 15 febbraio 1564 – Arcetri, 8 gennaio 1642)
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La commissione parlamentare d’inchiesta mirò scardinare la sovranità popolare? I “diari segreti” di Tina Anselmi mettono a nudo la strategia dell’antimassonismo cattocomunista Aldo A. Mola
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a storia è galantuoma, diceva il generale Luigi Capello, massone, dopo la condanna a trent’anni di carcere (tre di segregazione) per la mai dimostrata partecipazione all’attentato ordito dal socialpasticcione Tito Zaniboni a Benito Mussolini (4 novembre 1925), Zaniboni non sapeva di agire sotto stretto controllo della polizia? Capello morì senza essere riabilitato e oggi nessuno lo ricorda. Bisogna sperare che prima o poi la verità si faccia strada. A volte però le occorrono secoli. Anche il più longevo degli uomini spesso finisce sepolto sotto la lapide di una condanna infondata ma infiorata da diffamazioni e calunnie sparse sia dai nemici sia dai falsi fratelli. Queste pietre di un passato non remotissimo rispecchiano vicende recenti che però ormai valgono due generazioni. Chi ricorda i protagonisti politici degli Anni Settanta-
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Ottanta? Sono larve inconsistenti. Hanno sulle fragili ali il peso del debito pubblico italiano, che da quell’epoca iniziò l’impennata che ora, come Icaro, precipita l’Italia nell’abisso. Sono trascorsi trent’anni da quando, il 17 marzo 1981, alcuni magistrati della Procura della repubblica di Milano ordinarono la perquisizione delle abitazioni e degli uffici di Licio Gelli per trarne elementi nelle indagini in corso a carico di Michele Sindona. Il mandato aveva un obbiettivo limitato. Gelli era tutelato dal passaporto diplomatico. Le cose andarono come sappiamo. Le inchieste politiche scavalcano ogni norma come Romolo contro Remo. Sulla vicenda getta nuova luce la pubblicazione degli appunti vergati da Tina Anselmi fra il 30 ottobre 1981 e il 17 maggio 1984. Essa non aggiunge nulla d’importante a quanto si sapeva sui lavori della Commissione parlamentare d’Inchiesta sulla loggia Propaganda massonica n.2 e sulla sua presidente1. Tuttavia questi “diari segreti”, come i “foglietti” anselmiani vengono enfaticamente intitolati, sono interessanti perché mettono definitivamente a nudo la mentalità e il modus operandi dei protagonisti dell’ “affare”. Perciò va superata la tentazione originaria di ignorarli, in linea con l’indifferenza quasi compatta di studiosi e commentatori (a parte una paginata di anticipazione del “Corriere della Sera”, che sui atteggia ad Arca Santa dell’Italia e sempre tarantolato quando si parla di P2, e quindi eccessivo nel clamore come nel silenzio). Vinciamo la comprensibile ripugnanza ad occuparci del libretto di Anselmi Tina per due fatti successivi alla sua pubblicazione del libretto. Essi non possono essere relegati a episodi, a mera “cronaca”, perché, invece, dànno la misura della pochezza culturale e politica del cattocomunismo e dell’uso strumentale dell’antimassonismo viscerale che continua a essere coltivato da una parte consistente dei partiti rappresentati in Parlamento: in primo luogo l’aggressione verbale del capogruppo dei deputati del Partito della libertà, on. Fabrizio Cicchitto, da parte della vicepresidente della Camera dei deputati, Rosy Bindi, che in Aula gli ha ululato contro la solita formula esorcistica, “Piduista”, e, in seguito, l’articolessa di Vittorio Emiliani sul “Mistero Cicchitto” dalla sinistra del PSI alla corte del premier2. Gli “appunti” di Tina An-
selmi confermano alcune verità, che vanno evidenziate. Anzitutto, quando venne invitata da Nilde Iotti, deputata del partito comunista italiano e presidente della Camera, ad assumere la presidenza della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 Tina Anselmi non aveva alcuna cognizione di storia e identità della massoneria. Tuttavia le bastarono quindici minuti per accettare la designazione: un quarto d’ora durante il quale telefonò al democristiano Leopoldo Elia, presidente della Corte Costituzionale, che la incoraggiò ad assumere l’incarico propostole da Iotti, sia perché entrambe partigiane, sia nel timore che il presidente del senato, Amintore Fanfani, avanzasse un proprio candidato, come era naturale per la priorità della Camera Alta rispetto a quella dei deputati. Oltre due mesi dopo l’insediamento alla presidenza della Commissione, il 5 dicembre lo stesso Elia indicò alla Anselmi la linea da seguire e i nomi degli “esperti” ai quali rivolgersi (Carlo Moro, Fulvio Mastropaolo, Pierpaolo Casadei Monti, Eugenio Selvaggi, Tommaso Morlino), nessuno dei quali (che si sapesse o si sappia) aveva pubblicato un solo rigo sulla massoneria. Ma la commissione non aveva scopi storiografici, bensì politici: l’annientamento delle componenti razionali e “occidentali” del Grande Centro a vantaggio dei cattocomunisti. Elia fece di più: dettò ad Anselmi disse l’itinerario da seguire: scavare sulla presidenza della Repubblica del socialdemocratico Giuseppe Saragat, al quale i comunisti non perdonarono mai la scelta filo-occidentale di Palazzo Barberini; indagare sull’influenza della massoneria contro la candidatura di Aldo Moro alla presidenza della repubblica sin dalla presidenza Saragat e sull’ul-
timo viaggio del leader democristiano negli Stati Uniti d’America. Infine, ed è questa la rivelazione dei “taccuini” di Tino Anselmi, il democristiano Elia dettò alla presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sullaP2 il “compito storico” di cui era investita. Non si trattava tato di fare la caccia ai massoni, più o meno famosi, più o meno convinti di contare davvero, più o meno ammanicati con questo o quel servizio segreto. No. L’obiettivo era istituzionale: “Con la giustizia determinare il cambiamento di una parte della classe dirigente del paese, compresa quella della Democrazia cristiana” (p.18). Anselmi fu dunque eterodiretta? E a quale strategia rispondeva Leopoldo Elia? In tutt’altre faccende affaccendata (i crimini e le varie stragi degli “anni di piombo”), la cosiddetta “opinione pubblica”, vale a dire i giornalisti che si ergono a suoi interpreti, non si pose il quesito, né se lo è posto dopo la pubblicazione di questi Diari segreti. La Commissione precorse quanto poi venne perfezionato da Tangentopoli: l’azzeramento di Psi, Dc. Psdi, Pli e Pri, i cui esponenti di spicco furono emarginati, mentre talune loro frange s’intrupparono nell’ex Partito comunista italiano il cui vertice rimase compatto e indenne. Dagli appunti si constata che Tina Anselmi (come del resto la maggior parte dei componenti della Commissione) brancolò nel buio tra rivelazioni, sussurri e grida che ne accompagnarono i lavori. Sotto la data 17 dicembre 1981 Anselmi annota per esempio che, tramite sua sorella Susanna, l’“avvocato” Gianni Agnelli le rivelò che “il vero capo della P2 era Lelio Lagorio”, deputato socialista, ministro della Difesa, per breve momento presidente del consiglio in pectore, uomo di specchiatissima dirittura. Lagorio aveva tutti i requisiti per far parte di una loggia che doveva fare da “partito dello Stato”. Nel delirio antimassonico (che secondo Anselmi avrebbe dunque contagiato anche i vertici di una famiglia “occidentale”) era invece titolato per esserne al vertice come Belzebù in un’orgia di Templari. L’asserzione è talmente enorme da far dubitare dell’attendibilità degli appunti, non nel senso che essi non siano di mano di Tina Anselmi ma perché inducono a domandarsi se la deputata democristiana abbia sempre capito quanto le veniva detto o riferito di seconda o terza mano e se abbia saputo sceverare le
dicerie dai fatti e se quanto ha scritto sia dunque attendibile o meno. I suoi “appunti” vanno comunque confrontati con gli Atti della Commissione parlamentare: una lettura forzatamente prolissa e indigesta ma necessaria per chi voglia scrivere la storia della putrefazione della prima
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Grigi, incravattati ma scomposti i massoni secondo Tina Anselmi: i luoghi comuni che hanno devastato le due prime repubbliche e tarpano le ali alla Quarta Italia
repubblica. Così, per esempio, l’asserzione da lei attribuita all’ “Avvocato” andrà confrontata con la dichiarazione resa da Gianni Agnelli ai commissari, senza previo giuramento a differenza della miriade di altri testi: una testimonianza nella quale Agnelli dichiarò che la Fiat aveva finanziato il grande Oriente d’Italia in misura generosa ma non quantificata con certezza, né per scopi precisi: “a fondo perduto”. La maggior parte degli appunti si riferisce alle aggrovigliate guerre di bande per il controllo del Corriere della Sera: agognato e sopravvalutato. Scade a capitolo delle zuffe per un posticino nelle terze pagine di giornali e nella litania di nomi un tempo noti ma fatalmente usurati dal tempo e dalla modestia del ruolo effettivamente esercitato nella formazione dell’opinione pubblica e degli orientamenti elettorali quando dilagavano le emittenti radiotelevisive private, in barba a quanti cercarono di oscurarle. Anselmi fa da ricetrasmittente delle dicerie che dall’orecchio passano sulla carta: “I due De Benedetti (Carlo e Franco) hanno fatto domanda d’iscrizione alla P2 a Torino”. Novella Giovanna d’Arco, “sente le voci”: ma a differenza della Pulzella non le arrivano dal cielo bensì dal ministro dell’Interno, da magistrati, da giornalisti, da sicofanti... E lei scrive, annota, disegna. Soffre e s’indigna. Ossessionata dalla massoneria, dalla P2, dai piduisti, dal Male. A rischiararle la via arrivano i “massoni democratici, cioè alcuni signori radiati dal Grande Oriente d’Italia che da anni riempivano le cassette delle lettere di parlamentari, redazioni di quotidiani di sinistra e settimanali scandalistici con chili e chili di “rivelazioni”. Usavano i media per vendicarsi e offrivano ai massonofobi la “prova” di quanto fosse perversa la Libera Muratoria: golpista, stragista, corruttrice. Tra i tanti massoni democratici, uno assicurò che “Andreotti è nei fascicoli di Gelli non trovati. Gelli entrava a Palaz-
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zo Ghigi senza riscontri”. Naturalmente la staffetta partigiana scriveva, ghiotta e aggiungeva: “L’avvocato Agnelli dava i soldi senza essere massone?!”. Benefattore senza secondi scopi? Impossibile. Le era però impossibile metterne in discussione l’operato perchè la senatrice Susanna era
Biblioteca niente meno che ministro egli esteri del governo presieduto da Giovanni Spadolini, mangiamassoni da giovane e ora crivello della salvezza tra massoni democratici (compatibili con il suo programma delle “quattro emergenze”) e quelli da affossare senza clemenza (ma anche senza prove di colpevolezza alcuna). Come detto, gli appunti non aggiungono molto all’arcinoto. Ma qualche pennellata si. Per esempio un colonnello della Guardia di Finanza chiamò il parigrado Vincenzo Bianchi mentre questi stava eseguendo la celebre perquisizione a Castiglion Fibocchi che si sostanziò nel rinvenimento della valigia zeppa di carte su P2 e piduisti, ma - leggiamo – al microfono trovò un sottufficiale che gli disse che “bianchi era a mangiare” (p.105). In effetti, quella era l’Italia. Da un canto scoperchiava il vaso di Pandora delle “liste segrete” che fecero saltare il governo presieduto da Arnaldo Forlani; dall’altro non saltava il pranzo. Il 6 aprile 1982 Anselmi sintetizzò i pareri dei tre saggi ai quali Forlani aveva affidato il parere sulla segretezza della P2. Secondo Crisafulli “non è solo la P2 segreta, ma tutta la massoneria”. A giudizio di Lionello levi Sandri la P2 era politicamente pericolosa. Aldo Sandulli invece affermò che “la loggia non aveva finalità politiche”. La maggior parte dei testi ribadì infatti che sia Gelli sia i piduisti non avevano affatto l’intento di sovvertire un quadro istituzionale e politico nel quale si riconoscevano; semmai volevano consolidarlo. Contro Gelli e la P2 scesero in campo altri massoni, a cominciare da Armandino Corona “venuto appositamente dalla Sardegna (a Roma), con l’aereo privato” (che Corona non possedeva affatto). Il futuro Gran Maestro del Grande Oriente dichiarò che “nel governo della massoneria ci sono tutti i partiti, compreso pci e dc (figurano come indipendenti)”. L’8 giugno Anselmi annotò la soffiata avuta da Corona: allo Sporting Club di Losanna Gelli
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riceveva a fine settimana quattro cinque persone ogni volta. Vero? Non vero? Corona è morto e non può né confermare né smentire. Interessanti sono gli appunti anselmiani sulle deposizioni di ministri e politici, come Gian Aldo Arnaud (“Entrai nella massoneria per avere protezione, sicurezza...”), Massimo De Carolis, Francesco Cosentino, Egidio Carenini, Emo Danesi, Enrico Manca, Publio Fiori (“bugiardo” annota Anselmi, forse un po’ prevenuta), Franco Foschi. Altrettanto quelle di Giorgio Pisanu, a contatto con Flavio Carboni e Ciriaco De Mita, Mario Pedini, Pietro Longo, Pierluigi Romita. La presidente annota quanto puntigliosamente quanto può servire alla guerriglia interna tra correnti e capibastone del suo partito e tra le varie componenti dell’arco centrista (dc, psdi, pri, pli), mentre sin dall’inizio dell’inchiesta dà per scontato che i socialisti fossero impegolati nella massoneria sino al collo, in strana combutta con gruppi della destra conservatrice, monarchica, incline alla restaurazione dei valo-
ri dello Stato. Non la sfiora il sospetto che qualche comunista potesse essere interessato alla Libera Muratoria. Al riguardo si appaga delle sdegnate proteste di quanti smentiscono fermamente che qualche compagno potesse essere stato tentato dagli ideali di libertà, uguaglianza, fratellanza... E venne confortata da Roberto Fabiani “Un bidone le schede che mi hanno dato di massoni (Cervetti, Ferrara)...”: ma forse non era proprio un “bidone” se un Gran Maestro scrisse i nomi di adepti che erano comunisti perché credevano nei diritti dell’uomo. Ne parlò anche Paolo Ungari. Tra le molte “testimonianze” spicca per superiorità quella del democristiano Adolfo Sarti, ministro di Grazia e Giustizia che conobbe Gelli tramite Roberto Gervaso: “Il discorso sulla massoneria era finalizzato a offrire un’area d’incontro e confronto fra le aree culturale e politica della mia parte (la Democrazia Cristiana ndA) e quella di parte laica. Sembravano anche essere venute meno le pregiudiziali religiose sulla massoneria. Decisi di siglare l’adesione alla massoneria, spinto prevalentemente da curiosità culturale. Feci la revoca per telefono, parlando con Gelli (...) Non ho mai fatto rinuncia scritta, nell’anno successivo in cui Gelli mi scrisse annunciandomi l’accettazione”. La scarna deposizione di Sarti è la sintesi dell’intera vicenda. La Loggia Propaganda massonica n.2 non fu affatto la metastasi della massoneria, né stava alla Libera Muratoria come le brigate Rosse al Partito Comunista come qualcuno, per tardiva autodifesa non richiesta
o per altrettanto tardivo calcolo opportunistico o per ignoranza, ha detto e ancora ripete. Il punto è che l’Italia era un Paese in cronico ritardo sull’Occidente. Chiuso nella tenaglia di clericali e stalinisti, con una pesante eredità di fatuo nazionalismo, che è altra cosa dall’identità nazionale, era dominata da una sottocultura minoritaria nella qualità delle idee ma maggioritaria nel controllo del potere (come del resto accade ancor oggi). I suoi idoli erano gli “anti”: Alfredo Oriani e Antonio Gramsci, Piero Gobetti... a tacere di don Milani. In quel serraglio ideologico era davvero ardua l’opzione massonica, tanto più in un quadro internazionale che vedeva la gara fra Terza e Quarta Internazionale, tra urss e Cina, tra i movimenti di liberazione armati dall’Africa all’America centro-meridionale tramite Cuba e il caos nel Vicino e Medio Oriente. In quel groviglio il direttore del cesis affermò che “molti dirigenti dei servizio segreti aderirono alla P2 per controllare Gelli”, che però secondo altri controllava i servizi segreti italiani per conto della
cia o del kgb o di vari altri Paesi o magari di schegge del terzo Reich... Giro-girotondo, come è bello il mondo. In tale scenario Tina Anselmi appuntava che il banchiere Roberto Calvi “era di un ermetismo non comune. Non diceva nemmeno a se stesso le cose”. Chi non parlava, chi non vedeva. Era il caso della Banca d’Italia che, a giudizio di Orazio Bagnasco, “banchiere, socialista” secondo Anselmi, “non presupponeva il crac (di Michele Sindona ) e così nessun altro uomo di finanza”. Non sorprende, del resto. La Banca d’Italia non ha “presupposto” la crisi finanziaria che da anni ha sconvolto la vita economica del Pianeta e non ha fornito alcuna ricetta per uscirne se non i consigli dell’ovvio buon senso. Perciò venne decisa l’affossamento del banco Ambrosiano, come lucidamente previsto da Michele Sindona e annotato da Anselmi: “Nonostante il Banco ambrosiano sia solido, per ragioni ideologiche si liquiderà il Banco, perché non si vuole una presenza privata” (p.285). Benché scontati, questi “appunti” mettono in luce l’enormità delle prevaricazioni compiute dalla presidente della commissione parlamentare d’inchiesta che operava con i poteri di magistrato ma con coperture politiche e quindi al di fuori di ogni norma. Così Anselmi decise perquisizioni e sequestro di documenti e sempre molto tardivamente si accorse della fuga di notizie, del fiume di carte che dalla commissione (che pur era tenuta a operare con il rispetto delle norme procedurali) passava ai giornali, tanto che la sua stessa relazione conclusiva venne pubblicata con largo anticipo da un supplemento come supplemento. Tra gli appunti più esilaranti uno riguarda Flaminio Piccoli, secondo il quale “tutto della P2 porta ad Andreotti. Cossiga aveva buoni rapporti con Gelli ...”. Il taccuino dell’Anselmi va dunque conservato accanto alle ‘memorie’ di Gherardo Colombo e al libretto di Luciano Violante, Il piccone e la quercia, comprendente l’atto d’incriminazione di Francesco Cossiga per attentato alla Costituzione presentato dai parlamentari del Pci. Questo libretto, infatti, ci dice l’animo di chi lo ha costruito. Giovanni Di Ciommo ricorda con trepidazione che l’Anselmi vantò in Commissione di essere stata la prima ad aver “proceduto al sequestro delle liste degli iscritti alla massoneria, non solo nel nostro paese” (p.245), senza essere sfiorato
dal dubbio che quell’azione fosse una clamorosa violazione della libertà di associazione. Ma vi è anche altro nel libretto. Nella premessa in cui lo dedica “Alle ragazze del Novecento” (ormai attempate, dunque), Anna Vinci fornisce il ritratto dei massoni: “persone grigie, in grigio, in
Biblioteca giacca e cravatta, in alta uniforme; si nascondono facendosi scudo di tutto, e non si fatica a vederli nascosti sotto letti e divani e dentro armadi (...) e vanno e vengono, frenetici e composti, girando in tondo, impauriti e pavidi, arroganti e impuniti, protagonisti e comprimari della grande abbuffata di potere, nutrita dalla cultura consolidata in luoghi, storicamente, superbamente maschili: massoneria, chiesa, esercito, mafia, polizia.” Con queste rocciose certezze Anselmi Tina ha detto e ripetuto per decenni che la P2 è viva e lotta contro la democrazia. E una miriade di altri lo ripetono come giaculatoria: a conferma dell’arretratezza culturale di una parte importante della carta stampata e della necessità dimettere fine una volta per tutte all’uso strumentale dei temi di P2 e piduista quali capi d’accusa, tanto più che dal 1994 la Corte di Cassazione ha chiuso la partita assolvendo in via definitiva i cosiddetti piduisti dall’accusa di cospirazione politica3. _________________ Note: 1 La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi a cura di Anna Vinci, Milano, Chiarelettere, 2011, pp. 548, euro 16,60. Il libro ha una prefazione di Dacia Maraini e pagine introduttive di Giovanni Di Ciommo. In appendice le notissime lettere di Gelli a Cossiga, estratti della relazione Anselmi (una delle sei che conclusero i due anni di lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta): nessuna novità. 2 L’Unità, 16 aprile 2011. Francesco Cossiga scrisse di aver tenuto un corso accelerato di aggiornamento sulla massoneria alla direttrice del quotidiano fondato da Gramsci prima che andasse a intervistare Gelli. 3 Come ricorda Paolo Borruto in Licio Gelli. L’uomo e il poeta: un lungo viaggio nella memoria, Reggio Calabria, 2011, che alle pp. 230-58 ripubblica il capitolo Non cospirarono da Aldo A. Mola, Licio Gelli e la P2 tra cronaca e storia, Foggia, 2009, 2a edizione. P.146, 147 e 148: Tina Anselmi; p.148: Nilde Jotti e Licio Gelli; p.149: Michele Sindona e Roberto Calvi.
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Massoneria Femminile. La nascita delle Stelle d’Oriente in Italia.
Con prefazione di Aldo A. Mola, Angelo Pontecorboli Editore, Firenze, Dicembre 2010, pp.109, 13 euro
a questo argomento, ma non è questa la sede nella quale discutere il terzo punto degli “Antichi Doveri” pubblicati nel 1723 dalla Gran Loggia di Londra: “The persons admitted members of a Lodge must be good and true men, free-born, and of mature and discreet age, no bondman, no women, mo immo-
linee di approfondimento molto interessanti per la storia della Massoneria quale si è andata dipanando in Italia. Sono di estremo interesse storico alcuni documenti, prodotti in questo testo, che ritraggono situazioni ad oggi non ancora ben studiate; ad esempio il ruolo che ebbe Giovani Pica, tra l’altro poi Sovra-
ral or scandalous men, but of good report” e neppure quanto scrisse in proposito, nel suo famoso quanto poco conosciuto discorso versione 1737, Andrew Michael Ramsay: “Oui messieurs, les fameuses fêtes de Cérès à Eleusis dont parle Horace aussi bien que celles d’Isis en Egypte, de Minerve à Athènes, d’Uranie chez les Phéniciens, et de Diane en Scythie avaient quelque rapport à nos solennités. On y célébrait des mystères où se trouvaient plusieurs vestiges de l’ancienne religion de Noé et des patriarches; ensuite on finissait par les repas et les libations, mais sans les excès, les débauches, et l’intempérance où les païens tombèrent peu à peu. La source de toutes ces infamies fut l’admission des personnes de l’un et de l’autre sexe aux assemblées nocturnes contre la primitive institution. C’est pour prévenir de semblables abus que les femmes sont exclues de notre Ordre. Ce n’est pas que nous soyons assez injustes pour regarder le sexe comme incapable de secret, mais c’est parce que sa présence pourrait altérer insensiblement la pureté de nos maximes et de nos mœurs: Si le sexe est banni, qu’il n’en ait point d’alarmes ce n’est point un outrage à sa fidélité mais on craint que l’amour entrant avec ses charmes ne produise l’oubli de la fraternité. Noms de frère et d’ami seraient de faibles armes pour garantir les coeurs de la rivalité.” dove, pur ribadendo l’esclusione delle donne, si offre del dettato andersoniano una interpretazione meno strampalata di quelle che sono state evocate nel corso dei tempi successivi. Il testo del dott. Guglielmo Adilardi ha il grande pregio di affrontare questo problema seppure in modo settoriale – perché la materia della sua ricerca riguarda l’Ordine paramassonico della “Stella d’Oriente” – tuttavia anche con estrema attenzione. Egli infatti non ha condotto le sue ricerche su materiale di seconda mano bensì su testi e documenti di prima mano. Il suo lavoro ha l’indubbio pregio di aprire uno squarcio inedito di ricerca che mette in luce quanto il problema (se così lo si volesse definire) dell’iniziazione massonica femminile abbia agitato le acque anche in una Comunione così pedissequamente ligia ai “Principi basici di Londra” come quella del Grande Oriente d’Italia. Esso offre delle
no Gran Commendatore del Rito Scozzese di Palazzo Giustiniani, nella così detta “Massoneria Egiziana di adozione” e le note in coda al libro, in genere considerate delle appendici dotte in genere da sorvolare, sono invece spesso dei gustosi e pregevoli articoli con dignità propria. Ma una cosa particolarissima che fa l’Autore è mettere in parallelo le vicende obbedienziali con quanto nel frattempo avveniva nel mondo, ed in Italia in particolare, dipanando l’emancipazione della donna negli anni del secondo dopoguerra con toni francamente moderni e paritari. Vengono presi in esame fra l’altro i rapporti con la donna da parte della Chiesa cattolica e di diversi partiti politici, la legge che puniva l’adulterio della donna e non quello dell’uomo, l’avvento della contraccezione ormonale (la “pillola”), la fecondazione assistita e la minigonna, sempre con competenza e piacevole ironia. A leggere, col distacco che si addice al massone, le vicende che hanno spesso tormentato la vita storica della Massoneria se ne deduce infine che almeno una – quella dell’iniziazione femminile – non avrebbe avuto motivo d’essere se tutte le Obbedienze avessero preso atto che il cordone ombelicale deve essere reciso per continuare a vivere.
Recensioni
Devo riconoscere che il pregiudizio, nemico dal quale il massone non si guarderà mai abbastanza, mi ha impedito per un certo tempo di leggere Massoneria Femminile. La nascita delle Stelle d’Oriente in Italia del dott. Guglielmo Adilardi, che peraltro stimo ed apprezzo molto, come persona e come scrittore. Per me, cresciuta negli anni della contestazione giovanile, dove l’emancipazione della donna è divenuta reale e sostanziale, medico anestesista abituata a lavorare con gli uomini in parità di obiettivi e di fatiche e, soprattutto, appartenente alla Gran Loggia d’Italia degli ALAM, Obbedienza di Piazza del Gesù Palazzo Vitelleschi, dove le donne dalla metà degli anni ‘50 del secolo scorso lavorano nelle Officine fianco a fianco agli uomini, Fratelli uniti nella ricerca del Tempio interiore in assoluta parità, leggere come cosa attuale la presenza di un Ordine paramassonico, nel quale, senza peraltro essere delle Iniziate, le donne lavorano sopraintese da un uomo, il Most Worthy Gran Patron, mi pareva francamente, più che anticostituzionale, francamente ridicolo. Già nella prefazione di questo libro il prof. Aldo A. Mola scrive: “Sulla presenza femminile nella Massoneria esiste una letteratura sterminata […]”. Ed indubbiamente tantissimi Autori, massoni e non tali, con testi più o meno elaborati, più o meno precisi, si sono interessati
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Divo Sole, la teurgia solare dell’alchimia
A cura di Alessandro Boella e Antonella Galli, edizioni Mediterranee, Pagine: 248 Illustrazioni: 20 disegni
Non è certo un libro facile, il saggio di Ales-
si era capito leggendo il programma del primo mandato, tre anni fa. Oggi, passato un po’ di tempo, tra le molte iniziative lanciate con successo, emerge la seconda edizione di una Mostra Collettiva d’Arte, opera della Consulta Nazionale delle Arti Figurative della Gran Loggia d’Italia. 48 gli artisti impe-
scolano allo spionaggio del pkk, le iniziazioni alle chiavi risolutive che si trovano i fondo al mare o tra i segreti di misteriosi monasteri. La protagonista è Cassandra, nome ampiamente allusivo e profetico di se stesso in quanto consapevole delle linee tracciate per giungere al compimento del proprio desti-
Recensioni sandro Boella e Antonella Galli, Divo Sole, la teurgia solare dell’alchimia. Saltella con indifferenza tra le moltissime referenze, non importa se di alchimia spirituale od operativa e spagirica, senza soluzione di continuità. Ma proprio per questo è un testo a nostro parere indispensabile nella libreria di un vero ricercatore. Gli autori vi hanno raccolto oltre trent’anni di studi ed esperienza, supportati da un ricco corollario di fonti, aspetto fondamentale per stabilire quella continuità senza la quale non ci sarebbe Tradizione. Alessandro Boella e Antonella Galli ripercorrono e analizzano la Tradizione solare, come tradizione primordiale dell’umanità, fornendo una loro interpretazione, interessante ma soggettiva, di queste fonti. Ecco allora il Sole come realtà dai molteplici aspetti ed effetti, nei cui raggi luminosi vi è la fonte di ogni azione fisica e chimica e di tutti i fenomeni cosmici e spirituali. O ancora il Sole come «fuoco intelligente», principio cosmico, idea. Per Platone era l’immagine del Bene, che così si manifesta nella sfera delle cose visibili, per gli Orfici l’intelligenza del mondo. Ed ecco, infine, l’aspetto alchemico. «L’essenza dell’alchimia – scrivono i due autori – consiste nell’attrarre e condensare i raggi solai, tramite un corpo materiale accuratamente preparato, che funge da magnete, un fluido proteiforme, conosciuto dai più come Spirito Universale, e, nel corporificarlo, cioè nel renderlo visibile e afferrabile. Questo, una volta catturato, viene definito Mercurio filosofico. Sottoposto a una cottura graduale, conduce alla Pietra filosofale, la quale apre le porte di un insieme di sconosciute scienze che convergono tutte verso l’Assoluto». Stefano Momentè
Catalogo II Mostra Collettiva di Arti Figurative
A cura della Gran Loggia d’Italia degli ALAM Edizioni Giuseppe Laterza, Bari
Che le iniziative culturali e artistiche fossero tra gli obiettivi di questa Gran Maestranza lo
gnati in questa seconda fatica artistica - che ha già avuto una prima uscita a Roma e forse presto replicherà in altre parti dello Stivale su un tema certamente non facile: L’uomo nel labirinto della vita. Tema affrontato in molti modi diversi e da alcuni anche con risultati notevoli. Edizione, questa, meno lussuosa della precedente, ma maggiormente apprezzabile perché più vicina alle classiche pubblicazioni del settore. Peccato per l’inserimento di qualche immagine di bassa qualità. Stefano Momentè
L’Errore degli Dei
Patrizia Tasselli Giuseppe Laterza Editore, Bari 2009, pp. 472, €. 20.
Un libro non si racconta mai, regola aurea per non privare il lettore del piacere di goderselo dalla prima all’ultima pagina. Regola che diventa imperativa nel caso del lavoro di Patrizia Tasselli L’errore degli Dei. che pur intersecando diagonalmente la storia dell’uomo dalle sue origini fino a lambire una mole impressionante di concetti legati al sapere declinato in molte delle sue accezioni, ha tempi, ritmi e ricercatezze stilistiche tipiche della spy story. Così gli alieni si intrecciano all’epopea di Gilgamesh, re di Uruk, gli etruschi ai turchi, le società segrete si me-
no. Attorno a lei, alter ego ben distinguibile dell’autrice, si muove un mondo centripeto evocato dalla sua stessa fame di conoscenza con tutte le possibili insidie, ma anche ricco degli incanti singolari della sorpresa, disseminato degli inevitabili sussulti del dubbio e pervaso dal terrore dell’ignoto. Eppure sempre sospinto da una fede senza cedimenti che sul piano materiale è rappresentata dalla figura fisica del padre perduto in acque profonde, ma che proprio per questo diventa subito metafora, allegoria e astrazione di una ricerca proiettata verso un altrove trascendente. Ogni pagina del racconto trasuda simboli, impone pause di riflessione, rimanda a costellazioni di insegnamenti antichi quanto il mondo e per questo indifferenti a codici spazio temporali, perché tutto si celebra agli effetti nella cristallizzazione di un presente eterno e inscalfibile. L’impressione che si ha leggendo L’errore degli Dei è quello dell’eterno ritorno temporale in una dimensione sferica che allude alle leggi di Einstein e al contempo all’uroboros degli gnostici, un serpente che morde la propria coda formando un cerchio perfetto. Una sorta di ‘staticità dinamica’ in grado di conferire alla storia dimensioni di autorevolezza vicini al sacro, nella sintesi platonica di idee che suggeriscono l’immanenza di un motore immobile, magistrale architetto di ogni possibile vicen-
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da. Non mi era capitato di vedere convivere tanto materiale esoterico della più disparata estrazione dai tempi del Pendolo di Foucalt di Eco, libro che all’epoca mi aveva imposto un impegno non indifferente dati i miei non indifferenti limiti. Così devo esprimere la mia gratitudine a
ci chiederemo più di cosa sono fatti i così detti dischi volanti e le eventuali creature che li abitano. Finché resteremo afflitti da una visione ottocentesca della fisica, peraltro proprio superata dalle frontiere della iperfisica, la fisica quantistica, urteremo obbligatoriamente con la necessità di dare forme mate-
ma ancora ci interroghiamo del perché manchi la vita sulla luna, che vive da sempre delle sue leggi ed è un corpo che attraverso le maree porta inavvertita ai più la testimonianza del suo respiro cosmico. “ A che servono torce, fiaccole e occhiali a chi chiude gli occhi per non vedere” Così afferma il gran-
rial-convenzionali alle cose e con l’esigenza di raffigurare ‘l’alieno’ sempre sotto spoglie antropomorfe, per quanto storpiate: antenne al posto delle orecchie, dimensioni ridotte o ingigantite, mani palmate come i piedi e via dicendo. L’energia è invece quel che conta e l’energia si crea nel vuoto, nel nulla. Promana da quell’immenso ed eterno buco nero che è sorgente universale di ogni cosa. Cosa accadrebbe, si chiedono i fisici, se gli elettroni di un corpo qualsiasi collassassero verso il nucleo? Tutto di colpo sarebbe invisibile pur esistendo ancora. L’Autrice ci conduce ancora una volta con maestria in questo dedalo di informazioni: non tutto quel che appare è e quasi sempre niente è come sembra. In che modo dividere gli esseri della nostra galassia da quelli di un’altra sol perché non sono fatti nostra immagine e somiglianza? Una impertinenza arrogante che va eradicata, come certi retaggi di natura religiosa che potrebbero arrivare a sostenerla. Quando l’uomo mise piede sulla luna si proclamò che lì non c’era vita. Nel senso che niente che ci rassomigliasse vagava su quel corpo celeste a gloria della nostra vanità e magari in attesa di assoggettarlo alla nostra supremazia di ‘esseri della razza umana’. Questo per fortuna non accadde,
de iniziato Enrico Khunrath nel suo Anfiteatro della Saggezza Eterna. Il libro di Patrizia suscita riflessioni, fa meditare e porta lontano. È un viaggio all’apparenza materico, intriso di colpi di scena, venato d’avventura e trovate ad effetto degni dell’epopea di Indiana Jones. In realtà il messaggio contenuto è coerente con la più squisita dottrina iniziatica sapienziale, il linguaggio è quello dei simboli appresi dalle mani di Gilamesh, dai saggi di Ninive, dai Cavalieri del Tau, dall’architetto Hiram signore della squadra e del compasso. E cammin facendo il viaggiatore scopre perfino il gusto di prendere fiato e riesce a mangiar bene: il prete svenuto, l’Imam Bayildi, piatto a base di melanzane legato alla tradizione ottomana o l’Hungar Begendi (Sua maestà ha molto gradito) superbo stufato d’agnello con cipolle. Un caleidoscopio sensoriale che moltiplica le emozioni pagina dopo pagina, un mondo che si apre di fronte all’innamorato di conoscenza gratificandolo, divertendolo e portandolo per mano al finale con ingegnosa raffinatezza. Una scacchiera all’interno della quale prendono vita personaggi di ogni epoca, fatti, sogni e magia che nell’alternarsi senza scampo di luce e ombra fanno volare sulle ali del tempo, lontano dove ci si smarrisce per ritrovarsi davvero. Per sempre. Guido G. Guerrera
Recensioni Patrizia Tasselli che per quasi una settimana mi ha scosso dal torpore in cui è sempre facile cadere, svolgendo il ruolo gurdjieffiano di ‘aguzzina della coscienza’. Una sorta di ‘alleato castanediano’ in gonnella che mi ha portato in mondi meravigliosi, leggendari, possibili e impossibili al contempo con la leggerezza di una nave, pilotata non da un astuto Ulisse ma dalla lieve e ‘tosta’ Cassandra. Però, mentre Odisseo cerca la sua Itaca per ritrovare il suo mondo materiale e ridiventarne padrone, Cassandra parte alla volta di un viaggio che già dalle prime battute tende a riportarla nella casa spirituale che ogni umano ha per sventura e oltraggio di sé dimenticato. Quel tempio che si trova nel cuore di ognuno, la cui conquista equivale alla vittoria sulle tenebre dell’ignoranza, l’ingresso nel quale offre il diritto iniziatico di dissetarsi di eternità alla coppa del Graal . Personalità ricca, poliedrica, piena di contrasti e conflitti, affascinante Cassandra che regge bene il peso del suo nome antico e impegnativo, così greve di presentimenti. Un fascino androgino contenuto nella stessa etimologia dell’appellativo ‘Cassandra’ che significa ‘uomo splendente’. “Chiariamo una cosa. Non so che tipo di informazioni le abbiano dato sul mio conto…” La signorina Cassandra Fonelli sfodera all’occorrenza il linguaggio asciutto, sbrigativo e senza replica dell’uomo d’affari di fronte a quegli sconosciuti pronti a sostenere l’inquietante tesi che suo padre, comandante di un sottomarino, non era morto in un incidente ma preso in ostaggio assieme al resto dell’equipaggio da un gruppo di alieni. Da qui il salto spazio-temporale e gli incontri con la sapienza del mondo, ma anche con la sua futilità e la sua tensione verso un destino di autodistruzione e morte nel tendere verso una fatale obsolescenza programmata, che non può entrare nella testa di nessun alieno che ha capito la sua appartenenza alla matrice cosmica e si rifiuta di condividere l’alfabeto elementare degli umani. Quando comprenderemo che siamo esseri fatti di energia e apparteniamo a piani energetici aggregati in maniera più o meno densa, non
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Il Segreto di Welma Fox Giancarlo Guerreri Casa Editrice: Tipheret 2011
La trama del romanzo inizia a delinearsi nell’Inghilterra del XIX sec., dove si originano i primi eventi storici che prenderanno forma un secolo più tardi. L’Italia sarà il nuovo palcoscenico sul quale si esibiranno episodi di natura medianica e ardite interpretazioni simboliche, nate dall’osservazione di famosissime opere pittoriche. L’analisi di alcuni celebri quadri offre lo spunto per nuove riflessioni iniziatiche che troveranno nella Matrice Massonica la loro limpida coerenza. Piemonte e Liguria verranno attraversate da eventi di natura metafisica che proporranno nuovi
paradigmi interpretativi di matrice ermetica, pur mantenendo lo sviluppo del racconto nel totale rispetto di fatti storici e di luoghi geografici. I protagonisti del romanzo sono inconsapevoli attori che recitano un copione appartenete a dimensioni altre, pedine dalle caratteristiche ben definite che si muovono
ti di anni di ricerche personali. Il Profumo di Kether esprime il desiderio di crescita individuale e di tensione verso l’Assoluto, che ogni sincero ricercatore di verità è tenuto a manifestare prima a se stesso, quindi a condividere con altri. La vita legata all’esperienza iniziatica presso i “Fedeli d’Amore”, una Confrater-
Fratelli d’Italia - Memoria del rapporto tra Massoneria e Risorgimento nel 150° anniversario dell’unità d’Italia (1861-2011)
sulla scacchiera della narrazione per favorire un ignoto progetto. Un’ interessante esegesi del numero 26 unirà eventi differenti, apparentemente isolati da barriere spazio-temporali, offrendo al lettore un’ insolita proposta di ampio respiro. La costruzione appare seducente e ricca di spunti avvincenti che si riferiscono a fatti reali, interpretati secondo un nuovo paradigma metaforico. Verità storicamente accertate, personaggi riconoscibili che interpretano particolari ruoli di protagonisti, vengono proiettati in un nuovo scenario, caratterizzato da singolarità di natura metafisica che propongono un racconto assolutamente originale.
Il profumo di Kether Giancarlo Guerreri Casa Editrice Ananke
La avvenimenti si sviluppano tra la Liguria ed il Piemonte, dove il protagonista si impegna in una lunga e difficile ricerca di vite passate. Due vite molto singolari, che interessano l’Inghilterra dell‘800 e l’Italia del XIV sec. sono descritte nei particolari e raccontano i risulta-
zione che verrà suggerita al lettore. Giancarlo Guerreri nasce a Torino nel 1954, biologo, si occupa da molti anni di studi ermetici e metafisici. Ha anche pubblicato con Edizioni Giuseppe Laterza nel 2007 L’Ombra della Luna-la Via del Tarocco. Studioso di Biologia, e di Scienze Ermetiche ha recuperato i sottili collegamenti tra queste Discipline, evidenziandone gli aspetti complementari.
Maurizio Del Maschio – Stefano Momentè – Claudio Nobbio Foggia, 2011 Bastogi Editore, € 22,00.
nita di ispirazione templare, risulta arricchita da una considerevole esposizione di endecasillabi, in rima incatenata, che rendono il testo ancora più intrigante. L’Autore non desidera imporre le proprie convinzioni, si limita a descrivere dei fatti, esponendoli in forma di romanzo per concedere loro una forma più accattivante. I risultati della ricerca sono sicuramente interessanti e potranno suscitare molte domande su di un argomento così attuale e, per certi versi, inquietante. Le vicende legate alla figura storica di Charles Darwin mettono in evidenza una nuova prospettiva in grado di “interpretare” alcune tesi contrastanti che riguardano opinioni scientifiche e religiose espresse dallo scienziato inglese. Il metodo d’indagine, definito regressione ipnotica, cerca di infrangere il velo del passato per permettere nuovi approcci verso realtà nuove e altre. Le procedure cliniche, che caratterizzano questa branca dell’Ipnoterapia, sono spesso criticate e giudicate “poco attendibili”. Come antitesi il romanzo propone la presenza di fenomeni “inspiegabili”, quali la xenoglossia o la modifica della mimica facciale, verificatosi durante le sedute d’ipnosi. Tali fenomeni troveranno, nei contenuti del testo, una differente spiega-
I recenti festeggiamenti per l’anniversario dell’unità nazionale hanno indotto molti italiani da una parte a riflettere sul valore di alcuni concetti basilari del viver comune - in primis quelli di patria e nazione, termini fondamentali per capire il pensiero e l’azione del movimento risorgimentale – e sulla loro valenza in una società giustamente canguante e multiculturae, dall’altra, a ricercare nel variegato mosaico dei pensieri e delle azioni di quanti contribuirono a unire la penisola e a liberarla dal giogo straniero, un ideale filo rosso, un elemento comune capace di catalizzare le forze intellettuali e politiche che, pur scaturendo da ambienti differenti quando non completamente antitetici, portarono nonostante tutto all’unità del territorio italiano. Che una nazione si interroghi sul proprio passato cercando di capire criticamente le ragioni vere della propria esistenza non è un fatto certo negativo. Negli Stati Uniti d’America, probabilmente una delle nazioni che più di altre ha saputo costruire un complesso di valori comuni condivisi, le lacerazioni del passato (dalla guerra di liberazione anti-coloniale, passando per la guerra civile tra nord e sud, per arrivare alle lotte per i diritti civili e alle operazioni militari oltre confine) si son tramutate in fattori di analisi critica in cui dialetticamente - perché nel rispetto appunto di alcuni assunti fondamentali e soprattutto delle nuove conquiste civili e politiche – si cerca di cogliere ciò che maggiormente, in base all’esperienza pregressa, può contribuire a far grande la nazione di domani. La lettura dei “fondamentali” di una nazione è cosa ben diversa dall’adorazione delle belle icone o, diremmo pasolinianamente, dello sventolio gaio e giulivo delle belle bandiere. Troppo
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spesso la storiografia nazionale si è limitata alla mera giustapposizione di variopinti “camei” nazional-popolari (primi tra tutti quello di un Garibaldi barbuto, dall’aspetto paterno e, solo apparentemente, soddisfatto) nella volontà, in realtà nemmeno ben celata, di privare il cittadino di strumenti critici per muo-
tico” o partitico (se con ciò si vuole intendere un intervento preordinato e socialmente destabilizzante) quanto in una proposta che fu sia più generalmente di carattere metodologico (l’uguaglianza in Loggia quale paradigma microscopico per una sua proiezione macroscopica nel tessuto della società ester-
Supremo, scevro da specificazioni e campanilismi confessionali. Il volume offre infine due testi che hanno segnato le tappe fondamentali della vita pre e post unitaria, lo Statuto Albertino, primo abbozzo di un pensiero costituzionale e democratico che si sarebbe esplicitato in maniera
na, ad esempio) che in termini di proposizione di valori comuni e condivisi (la dignità dell’individuo, al di là di differenza di censo, formazione e sesso, il riconoscimento del lavoro, dell’educazione universale e pubblica, la laicità dell’organo statale, la separazione tra stato e chiesa, etc…) sui quali si sarebbero dovute intrecciare le trame di un nuovo tessuto sociale. Dopo una panoramica, peraltro molto chiara e ricca di dettagli, sulla situazione politica dell’Italia pre-unitaria e sulla condizione socio-politica degli stati italiani prima e durante i moti risorgimentali di metà ‘800, il volume offre un’analisi dettagliata di due dei principali simboli nazionali, il Tricolore - nato per derivazione dal vessillo rivoluzionario francese – e l’Inno degli Italiani, più noto come Inno di Mameli. Come giustamente sottolineato nel volume, nella vicenda biografica del vessillo italiano è possibile ravvisare chiaramente i segni di una sensibilità massonica, come si può notare ad esempio in uno dei prototipi del tricolore giunto in Italia a seguito delle conquiste napoleoniche, in particolare nella bandiera della Legione Lombarda nel quale, oltre ad apparire un enfatico richiamo al concetto di eguaglianza (“Subordinazione alle leggi militari – Eguaglianza o morte”), compariva una squadra e un pendolo, segni ben noti e di chiara origine latomistica. Più complesso e possibilmente ancor più affascinante è lo studio che gli autori hanno condotto sul testo del nostro inno nazionale, un’opera prodotta da due autori (Mameli e Novaro) assai sensibili alle istanze del pensiero mazziniano e legati al mondo della massoneria italiana. Diversamente dalla Marsigliese, in realtà canto marziale destinato a risollevare gli animi degli enfants (lett. “figli”) che la Francia rivoluzionaria volle assumere agli onori di canto nazionale, l’inno di Mameli è un canto di libertà che si rivolge ai fratelli, un termine che, si legge giustamente nel volume, implica un’unione orizzontale e paritaria (p. 94), una concezione spirituale laica, ma non ateista, del viver sociale che nasce proprio dal presupposto massonico dell’accettazione dell’esistenza di un Essere
diamantina e perfetta nella Costituzione Repubblicana, vero fondamento per la vita di una comunità libera, civile e ordinata (p. 105). Il libro aiuta a rispondere in maniera esaustiva ad una serie di quesiti fondamentali circa la genesi, l’evoluzione e le possibili evoluzioni future della nostra, ancor giovane, nazione, una patria che nacque dalla volontà di libertà, eguaglianza e fratellanza, tre valori fondamentali di cui la massoneria per prima volle e seppe farsi portatrice. Piergabriele Mancuso
Recensioni versi nei percorsi complessi e affascinanti delle vicende nazionali e dar quindi ragione anche delle contraddizioni presenti e rigettare altarini dottrinali poco credibili. I simboli della nazione – si pensi tra tutti alla bandiera – originariamente concepiti quali epifanie di un’avvenuta armonia tra elementi diversi e inglobanti, con il tempo hanno perso la loro natura di semantemi, cioè di veicoli attraverso cui si esprime il sentire di un tessuto sociale sempre diverso (perché tollerante e basato sul concetto di accoglimento dell’elemento allotrio), divenendo così icone anti-dialettiche di un pensiero unico e discriminante, di un provincialismo nazionalista, retrivo e discriminatorio. Per una critica e attenta rilettura del Risorgimento italiano uno strumento particolarmente utile è Fratelli d’Italia - Memoria del rapporto tra massoneria e risorgimento nel 150° anniversario dell’unità d’Italia (18612011), un volume snello, di facile lettura, ricco di informazioni e di un altrettanto generoso apparato documentario e iconografico, recentemente pubblicato per i tipi di Bastogi da Maurizio Del Maschio - giornalista e profondo conoscitore, tra l’altro, delle vicende politiche medio-orientali - Stefano Momentè - scrittore, giornalista, penna feconda, autore di svariati scritti di carattere tradizionale e religioso tra cui vale la pena ricordare Qohelet Parole di Verità, una traduzione commentata del libro dell’Ecclesiaste pubblicata per i tipi di Edizioni Andromeda – e Claudio Nobbio – giornalista, scrittore e autore, rimanendo nell’ambito della studi di tradizione, di L’ombra della luna ovvero Dell’ambiguità femminile (Bastogi, 2001). Il volume ripercorre le fasi principali del Risorgimento italiano, delinea in maniera chiara la situazione geo-politica della penisola italiana pre-unitaria, evidenziando, come il titolo dell’opera stessa afferma, quale sia stato il contributo dell’istituzione massonica, un contributo che, diversamente da quanti anche critici o addirittura avversi alla loggia obtorto collo le riconoscono un ruolo propositivo nella vicenda risorgimentale, non fu né si espresse in senso meramente “poli-
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Sulle ali del sogno
A cura di Paolo Aldo Rossi, Ida Li Vigni e Emanuela Miconi Mimesis, Milano, 2009, pp.344, E. 26.00
La genesi di questo libro a più voci risale ad un anno fa quando a cena con un’amica carissima, Silvana Fasce, parlando di un suo articolo sul sogno apparso su “Anthropos &Iatria” XI, 2 (2007) e del suo attivo interesse per il tema in questione, nacque l’idea di organizzare un Convegno interdisciplinare presso l’Università di Genova tale da coinvolgere diversi ambiti disciplinari e da fornire stimoli, non certo esaustivi vista la complessità del tema, per ulteriori confronti.
Grazie al sostegno di Silvana Fasce e di Paolo Aldo Rossi sono stati coinvolti in un progetto comune non solo docenti delle Facoltà di Lettere e Filosofi a e Lingue straniere, ma anche studiosi interessati al tema proposto che sono intervenuti con apporti legati ai loro ambiti di ricerca. Non solo. Dato che alcuni stu-
latino con gli interventi di Donatella Restani, sul rapporto musica-sogno nel mondo greco, di Margherita Rubino sui sogni nelle opere di Eschilo, e di Valeria Motosso, sul rapporto che i Romani avevano con il sogno, cui hanno fatto seguito gli studi che aprono lo sguardo sull’interpretazione filosofico-religiosa del
niere dell’Università di Genova, che così bene ne interpreta gli intenti e le atmosfere: “È difficile introdurre un convegno sul sogno, perché le introduzioni e i saluti devono essere brevi, mentre, come i titoli degli interventi già fanno intravedere, l’argomento è sconfinato: parlare di sogni significa, infatti,
Recensioni diosi interpellati non potevano intervenire in occasione del Convegno a causa di loro impegni precedenti, ma erano molto interessati a contribuire alla ricerca, è stato deciso con il loro consenso di pubblicare all’interno della presente miscellanea gli articoli originali che hanno fatto pervenire. Questo ha consentito di aprire altre finestre sull’universo onirico e di ampliare il quadro delle possibili suggestioni ad esso legate, tenendo sempre presente che un argomento così magmatico e sfuggente quale è il sogno male si presta ad essere imbrigliato all’interno di un qualsiasi tipo di schema, vuoi meramente cronologico, vuoi per soggetti. Ma dato che pareva necessario, in qualche modo, suggerire un percorso di lettura, si è pensato di individuare dei macro contenitori in grado di raggruppare i contributi secondo un criterio di coerenza. È parso ovvio aprire, dopo il lungo saggio estremamente esauriente di Paolo Aldo Rossi dedicato alla ricostruzione di un percorso ideale che si dipana dall’Antichità al Rinascimento, abbracciando linguaggi simbolici e riflessioni filosofi che e passando dai materiali biblici a quelli greco-latini, da quelli medievali (in particolare Sant’Agostino) a quelli rinascimentali (con il confronto fra Cartesio e Keplero), con le due interpretazioni canoniche, quella neuro-fisiologica a firma di Walter Sannita e quella filosofico-psicanalitica a firma di Oscar Meo, non per contrapporle ma per suggerire le possibili integrazioni in un ambito che non vuole opporre la scienza alla riflessione filosofica. Si è poi pensato di seguire un ideale percorso cronologico, non tanto al fine di sottolineare una reale evoluzione dell’immaginario onirico, ma, piuttosto, per portare alla luce i diversi tipi di approccio in relazione a contesti storici e culturali diversi ed esplorarne gli esiti in ambiti differenziati quali la musica, la letteratura, la filosofia e l’arte figurativa, quest’ultima assunta come pausa di riflessione e cerniera tra i due blocchi ideali della cultura antica e medievale da un lato, moderna e contemporanea dall’altro. Nello specifico si è partiti dal mondo greco e
sogno nella cultura sanscrita, biblica e islamica ad opera di Paolo Magnone, Silvana Fasce e Ida Zilio-Grandi. Il contributo di Marina Montesano su i sogni in Boccaccio apre il contesto medievale-moderno con una riflessione sui sogni nel Decameron di Boccaccio. Seguono i contributi di Ida Livigni sul vivace e suggestivo universo onirico di Cardano, di Paolo Aldo Rossi sul “mistico” sogno di Cartesio e di Davide Arecco sulle fonti neo-platoniche del Somnium di Keplero. Gli interventi di Andrea De Pascalis e di Massimo Marra allargano l’orizzonte ai rapporti fra linguaggio onirico ed alchimia, quasi a costituire un intermezzo esoterico-simbolico, a preludio del lavoro di Lauro Magnani sulle raffigurazione dei corpi dei sognatori e le suggestioni che ispirano all’osservatore; lavoro che, se da un lato viene posto a ideale cesura cronologica tra le diverse epoche indagate, dall’altro introduce ad una nuova sezione relativa alla dimensione storico-letteraria nella quale troviamo gli interventi di Roberto De Pol su von Kleist e di Ida Merello sulle tematiche fantastiche nell’opera del francese Charles Nodier; Mirella Pasini offre una panoramica sull’approccio positivista al sogno e infine i contributi di Emanuela Miconi relativi alle suggestioni bachelardiane e di Serena Spazzarini sullo studio di Ignaz Ježover concludono, in una prospettiva comparatistica, la rassegna. A chiusura del volume si è voluto riportare in Appendice la scelta antologica dal Libro dei sogni di Artemidoro curata da Donatella Restani, la traduzione di Paolo Aldo Rossi del Somnium Kepleri e la sua proposta di lettura del sogno di Cartesio tratto da La vie de M. Des Cartes di Adrien Baillet nella traduzione italiana di Garin, nonché il testo del Fiore de’ Fiori di Giovanni Vasconia proposto da Massimo Marra, dal momento che questi testi rappresentano un’occasione preziosa di riflessione e uno stimolo a procedere nella ricerca. Ma per comprendere meglio la natura di questo volume è giusto riportare la presentazione al Convegno del prof. Sergio Poli, Preside della Facoltà di Lingue e Letterature stra-
parlare di “cosa” essi siano, e di come sorgano; oppure di come e perché vengano rappresentati nei testi e sulla scena; del valore che il sogno può assumere, quando lo si interpreta come premonizione di ciò che accadrà, o come spia di ciò che noi, individui o civiltà, siamo nel profondo. Il dizionario stesso ci rimanda, alla parola “sogno”, a molteplici accezioni che possono giustifi care ogni tipo di analisi o di divagazione. Non è, infine, una sorta di “sogno” la nostra stessa vita, e non sono fondati su “sogni” archetipali o stereotipici – che non sono la realtà, ma gli occhiali con cui inevitabilmente la guardiamo – i nostri comportamenti e i nostri giudizi? Parlare di sogno è quindi parlare di noi, e da tutti i punti di vista, il che apparirebbe qui troppo, e fuori luogo. Mi par più giusto, invece, sottolineare come il convegno rimandi al “noi” di questa sala e di questo Ateneo, al lavoro che è stato fatto per creare un evento culturale dalla portata davvero interdisciplinare, e al quale hanno lavorato colleghi e studiosi di due facoltà; e notare subito come collaborazione e interdisciplinarietà siano qualcosa di non frequente, una sorta di bel sogno realizzato, del quale ringrazio gli organizzatori e al quale sono onorato di partecipare. In quanto studioso non solo di letteratura, ma anche di lingua francese, mi permetto poi di ricordare come la grammatica dei sogni riporti a quella della lingua, che “segmenta” il mondo – e perciò in un certo senso lo “sogna” – in modo diverso da cultura a cultura; e come anche la lingua possa offrire non solo uno strumento per narrare il sogno, o per analizzarlo, ma si possa anche trasformare nell’oggetto stesso del fantasticare. Il “sogno” (mi si permetta un’accezione ampia) di una lingua originaria, quello di una lingua perfetta, e quello di lingue “altre” hanno segnato e segnano il nostro immaginario e la storia della nostra cultura. Che lingua parlava Adamo, nel Paradiso terrestre? Quale la relazione tra sogno e miracolo nella narrazione evangelica della Pentecoste, quando ciascun componente di una folla eterogenea restava “fuor di sé per lo stupore” ascoltando nella propria specifica
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lingua le parole degli apostoli? Che dire poi del celebre tetrastichon utopico di More, o delle lingue inverse, delle parole musicali e dei gesti loquaci che risuonano nei testi di tanta letteratura utopica e che rimbalzano, modificandosi, via via sino a noi nei romanzi di fantascienza e nel mondo di Internet?
della tecnica all’Università di Genova, Facoltà di Lettere e Filosofia - MASSIMO MARRA, Studioso di ermeneutica simbolica, antropologia del sacro e storia dell’esoterismo occidentale (moderno e contemporaneo), Napoli - LAURO MAGNANI, Professore ordinario di Storia dell’Arte moderna all’Università
lustrato. L’autore, già promotore dell’archivio storico generale della massoneria sarda, con sede a Cagliari, ha al suo attivo una ventina di scritti sullo specifico tema della Libera Muratoria nell’Isola, fra i quali ricordiamo Diario di loggia. La massoneria in Sardegna dalla caduta del fascismo alla nascita dell’Autonomia
di Genova, Facoltà di Lettere e Filosofia - ROBERTO DE POL, Professore associato di Letteratura e cultura tedesca all’Università di Genova, Facoltà di Lingue e Letterature Straniere - IDA MERELLO, Professore ordinario di Letteratura francese all’Università di Genova, Facoltà di Lingue e Letterature Straniere - MIRELLA PASINI, Professore associato di Etica della comunicazione e Sociologia all’Università di Genova, Facoltà di Lettere e Filosofia EMANUELA MICONI, Laureata in Lingue e in Filosofia, dottoranda in Lingue e letterature comparate, Genova - SPAZZARINI SERENA, Professore a contratto, settore germanistica, di Grammatica tedesca all’Università di Genova, Facoltà di Lingue e Letterature Straniere.
e l’interessantissimo Il Rito Scozzese Antico ed Accettato. Note per una storia delle Obbedienze ferane fra Valli ed Orienti della Sardegna (1908 – 1995), Cagliari 2005. Nel presente lavoro, fresco di stampa, Murtas, pur muovendo le sue ricerche sempre in ambito locale, sottolinea come la Massoneria sarda percepì e visse l’italianità, cogliendo i forti legami di unione culturali, sociali e storici fra l’Isola e la terra ferma. Sempre dalla Sardegna giunge Eleonora: la loggia di Daniele Serra, Il mio libro Comografica, Roma 2011, pp. 152, illustrato con documenti allegati, € 25,00. Si tratta di un libro istruttivo e di piacevole lettura, che enuclea alcuni momenti della storia della Sardegna. L’Isola fu nei secoli un polo strategico nello scacchiere del Mediterraneo e un crocevia di popoli e di civiltà, ma fu anche una Terra di combattenti, di uomini e di donne disposti a sacrificare la vita pur di difendere la libertà. Simbolo di tale spirito fu Eleonora d’Arborea. Scrive Luigi Pruneti nella presentazione del volume: Eleonora D’Arborea, figlia di Mariano IV Giudice d’Arborea e di sua moglie Timbora, […] nel 1383, alla morte del fratello Ugone III, divenne reggente del Giudicato e l’invitto difensore della Sardegna, chiamata a difendersi dagli Aragonesi. Eleonora non solo riuscì a liberare quasi tutta l’isola dagli invasori, ma promulgò pure, un codice di leggi, esempio di sensibilità e di accortezza giuridica”. Per questo Eleonora incarnò i valori di giustizia e libertà e per lo stesso motivo il suo nome fu assunto da una da una Loggia dell’Oriente di Nuoro e all’Obbedienza della Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. della cui intensa storia ben ci narra Daniele Serra. Infine, ricordiamo Il Ludus Triumphorum Tarot: carte da gioco o alfabeto del destino, a.c. di I. Li Vigni e A. P. Rossi, Nuova Scripta, 2011, pp. 242, illustrato, €. 24,00. Il volume presenta gli atti del fortunato Convegno sui “tarocchi”, tenutosi a Genova dall’11 al 18 settembre 2010 e ne sigilla interventi e riflessioni, consegnando al lettore uno strumento, oltre che puntuale e preciso, di piacevolissima lettura. Chiara ed interessante l’introduzione del Gran Maestro della Gran
Recensioni Certo, non si tratta espressamente di sogni; ma, come nel caso delle parole pronunciate dai veggenti e dalle Pizie in uno stato di semicoscienza governato dal Dio, ne siamo probabilmente vicini. Forse potremmo cominciare a sognare un secondo colloquio sull’argomento…”. (Le curatrici Ida Li Vigni e Emanuela Miconi) Gli Autori: PAOLO ALDO ROSSI, Professore ordinario di Storia del Pensiero Scientifico e di Storia del Pensiero medico e Biologico all’Università di Genova, Facoltà di Lettere e Filosofia - OSCAR MEO, Professore associato di Estetica all’Università di Genova, Facoltà di Lettere e Filosofia - WALTER G. SANNITA, Professore associato - Dipartimento di Scienze Motorie, Università di Genova; Department of Psychiatry, State University of New York, Stony Brook, NY, USA - DONATELLA RESTANI, Professore associato di Storia della Letteratura per musica e di Civiltà musicale antica all’Università di Ravenna, Dipartimento di Storie e metodi per la Conservazione dei Beni Culturali - SILVANA FASCE, Professore ordinario di Letteratura Latina all’Università di Genova, Facoltà di Lettere e Filosofia - MARGHERITA RUBINO, Professore associato di Teatro e drammaturgia dell’antichità e di Tradizioni del teatro greco e latino all’Università di Genova, Facoltà di Lettere e Filosofia - VALERIA MOTOSSO, Studiosa di Letteratura Latina, Genova - PAOLO MAGNONE, Professore a contratto di Lingua e Letteratura Sanscrita all’Università “Cattolica” di Milano - IDA ZILIO-GRANDI,Ricercatrice in Lingua e letteratura araba all’Università di Genova e all’Università di Venezia - ANDREA DE PASCALIS, Saggista, studioso del pensiero magico, simbolico ed esoterico, Roma - MARINA MONTESANO, Ricercatrice di Storia Medievale all’Università di Genova, Facoltà di Lettere e Filosofia - IDA LI VIGNI, Docente di lettere presso il Liceo Artistico “Paul Klee” di Genova, Cultrice della materia presso le Cattedre di Storia del Pensiero scientifico e di Storia del pensiero medico e biologico, dottoranda di ricerca in Filosofi a all’Università di Genova, Facoltà di Lettere e Filosofia - DAVIDE ARECCO, Ricercatore, Cattedra di Storia della scienza e
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‘Nello scaffale’ - Segnalazioni di libri e periodici di Federica Pozzi
Numerose le novità editoriali di questi ultimi mesi, fra i tanti libri pervenuti in libreria, segnalo La massoneria cagliaritana fra i reduci delle patrie battaglie ed il monumento ai caduti per l’Italia di Gianfranco Murtas, Graphical di Loddo & C, Cagliari 2011, pp. 110, il-
Loggia d’Italia che propone una visione dei tarocchi in chiave iniziatica, nella quale non solo ogni nuovo adepto potrà comprendere il valore del cammino che si appresta a percorrere ma anche, chi la strada la sta seguendo da tempo, vi ritroverà momenti fondamentali del tragitto verso la conoscenza. Mol-
corrente del Simbolismo. In questo humus “il gioco delle Carte” o “Tarocchi” incontra il favore di studiosi, soprattutto all’interno della Tradizione iniziatica - massonica, non a caso, Saint-Martin, il philosophe inconnu fondatore dell’ordine martinista, offre un commento alle 22 lame che darà luogo a ulteriori svi-
Tarocchi capaci, a prescindere dall’ambiente e dal periodo in cui vengono interrogati, di donare speranza. Segue l’esame compiuto da Lauro Magnani sul valore iconografico delle carte da gioco nella pittura italiana in un arco temporale posto fra Mantegna e Caravaggio. In seguito Carlo Penco seguendo il sottile file
Recensioni ti i contributi, con saggi di Massimo Angelini, Renato Ariano, Ferruccio Bertini Franco Cardini, Patrizia Castelli, Maurizio Elettrico, Ida Li Vigni, Lauro Magnani, Ida Merello, Stefano A. E. Leoni, Maurizio Elettrico, Valerio Meattini, Marco Pepè, Carlo Penco, Luigi Pruneti, Aldo Rossi. Fra i numerosi saggi ricordiamo, a titolo d’esempio, quello di Stefano Leoni Carmen: le carte il fato e la realtà e quello di Ida Merello, I Tarocchi o lo specchio di una cultura nella Francia di Sette-ottocento. Nel primo, i Tarocchi sono una sorta di linguaggio del destino, una sorta di voce del fato che travalica i limiti del tempo. Carmen riesce a udirla e percepisce così l’oscuro orizzonte di morte che si apre davanti a lei. La lettura delle carte è dunque la scena sulla quale s’incentra l’Opera di Bizet, il melodramma più rappresentato e conosciuto al mondo. Ne I tarocchi, o lo specchio di una cultura nella Francia di Sette-Ottocento Ida Merello sottolinea, con estrema efficacia, come nel contesto storico - culturale della Francia fra Sette e Ottocento si affermi pure in sede letteraria la
luppi dovuti a esoteristi del calibro di Levi e Wirth. Naturalmente tutti gli interventi sono interessanti e andrebbero letti con attenzione e cura. Da quello di Aldo Paolo Rossi che individua la comparsa in Italia dei Tarocchi nel XIV secolo a quello di Patrizia Castelli che ci accompagna attraverso l’arte della pittura, mostrandoci come vizi e virtù sono raffigurati “come archetipi desunti dai tarocchi”. Di archetipo, poi, parla anche Massimo Angelini, concludendo che si tratta di “simboli, icone di valori, di chiavi per decriptare il significato dell’esistenza”. Ed ancora Ferruccio Bertini si è chiesto se dietro le lame si possono nascondere eventi storici, personaggi realmente vissuti o ritenuti tali quali la “Papessa Giovanna”. Su una tematica simile s’interroga di Ida Li Vigni che ipotizza, dietro l’immagine della Sacerdotessa, un personaggio reale, “un’eretica morta in fama di santità e sepolta nell’abazia di Chiaravalle”. Di tempo e di sorte argomenta nel suo contributo Valerio Meattini, ed ancora l’intervento di Franco Cardini che punta l’attenzione sulla trasversalità dei
rouge dei Tarocchi, ci trasporta nella nebbiosa Inghilterra. Questo fantasmagorico viaggio si conclude con l’intervento di Renato Ariano che ci riporta al punto di partenza: l’Iniziato che, interrogando i simboli, cerca di interpretare se stesso nel gioco della vita.
Mystery Tuscany, dvd sulle leggende della Toscana.
Scritto, diretto e prodotto da Pantaleone A. Megna e Andrea Mignòlo, con Carolina Gamini come narratrice, voce di Paolo Lombardi e Victor Palchetti - Beard . Durata filn 85’, €. 19,90. Lingue Italiano – Inglese. Sottotitoli: Inglese, Italiano, tedesco, francese, olandese, spagnolo. www.mysterytuscany.it
La Toscana è conosciuta in tutto il mondo per il suo patrimonio artistico, i vini pregiati, il gusto per la buona tavola e i paesaggi incantevoli. Ora un film uscito a luglio in DVD dal
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titolo Mystery Tuscany mira a fare conoscere al vasto pubblico il suo lato più oscuro fatto di misteri, leggende, rituali magici e soprattutto belle location. Il film è diviso in dodici brevi episodi, tra i cinque e i setti minuti, uniti in un itinerario che attraversa una Toscana diversa da quel-
Ne viene fuori una galleria di personaggi sospesi tra realtà e immaginario. Come Antiglia, la regina etrusca, che sogna di diventare immortale, il Barone Bettino Ricasoli che da uomo in carne ossa diventa spettro nella sua Gaiole in Chianti, Matelda che sacrifica i suoi amanti in nome del piacere carnale o Bianca
to XIII del Purgatorio Dante Alighieri scrive: “e perderagli più di speranza, ch’a trovar la Diana”. La Diana in questione non è la dea delle selve, ma un fiume fantasma che i senesi hanno cercato per secoli nel sottosuolo del centro cittadino nel tentativo di sopperire alla cronica mancanza d’acqua che li affliggeva.
sepolta viva insieme a un cane e un cinghiale a Fosdinovo. Nell’episodio di Chiusdino si va alla scoperta di un cavaliere violento che si converte alla fede cristiana dopo una visione mistica, Galgano. Secondo la tradizione, il giovane marca il luogo della conversione conficcando la sua spada in un masso. Il prodigio scatena una serie di trasformazioni: il mantello diventa un saio, la spada una croce e Galgano un santo. Sono chiari i riferimenti a un altro cavaliere che scriverà la sua leggenda non conficcando, ma estraendo una spada dalla roccia: Artù. La spada si conserva da 800 anni nella Rotonda di Montesiepi, luogo ricco di suggestioni simboliche con la sua struttura circolare e la volta ad anelli concentrici in cotto e travertino. A Siena la fonte d’ispirazione è la Divina Commedia, dove nel can-
Una ricerca vana, senza speranza appunto, che ha ossessionato i senesi per almeno quattro secoli. Nella Volterra falcidiata da epidemie e carestie del 1400 una donna analfabeta, Elena da Travale, è accusata di stregoneria. Attraverso le carte del suo processo affiorano la mentalità dell’epoca e i sentimenti che da sempre riempiono il cuore degli esseri umani: l’amore, l’odio, la speranza e la paura. Sono queste alcune delle suggestioni di Mystery Tuscany. Durante i suoi 80 minuti, il film fa conoscere una Toscana che non è solo un’entità geografica, ma una vera e propria terra fantastica. Un viaggio dell’immaginario certo, ma che fa venire voglia di partire davvero per castelli e borghi alla ricerca del sapore perduto dell’avventura. La Redazione
Recensioni la solitamente conosciuta. Non ci sono turisti con macchinette fotografiche al collo, ma solo una narratrice, Carolina Gamini, che accompagna lo spettatore in un viaggio che fa tappa in luoghi ricchi di fascino. Le rovine delle mura del castello di Crevole a stento si reggono in piedi divorate come sono dal tempo. Il ponte del Diavolo, invece, si erge maestoso sul fiume Serchio a ricordarci le meraviglie che ha prodotto l’ingegneria medievale. Siena è tutta percorsa dai tunnel di un acquedotto sotterraneo scavato nella roccia arenaria. Montecristo è un’isola persa nel tempo che sembra uscita, e in fondo lo è, dalle pagine di un romanzo d’avventura. Sono questi alcuni dei dodici luoghi che prendono vita nel film diretto da Pantaleone A. Megna e Andrea Mignòlo. Ogni luogo è raccontato da una leggenda.
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R.L. G.Mazzini Oriente di Livorno
l sigillo della R.L.G.Mazzini all’Oriente di Livorno presenta il ritratto del patriota risorgimentale Giuseppe Mazzini (1805-1872). Le idee del filosofo contribuirono in maniera decisiva come propulsione del Risorgimento ed alla nascita dello Stato Italiano. Sopratutto con l’Associazione ‘La Giovine Italia’ Mazzini interpretò largamente sentimenti e principi già da tempo in essere in ambito latomistico. Libertà, Uguaglianza e Fratellanza furono – e sono – infatti le colonne portanti sia del pensie-
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R.L. Galahad Oriente di Roma
n cerchio nero e all’interno il disegno ispirato alla pianta ottagonale di Castel del Monte, ad esso concentrico, delimitano quattro spazi, tre superiori contenenti la dicitura R.L. Galahad Or. di Roma ed uno inferiore che conterrà il numero di assegnazione. Nel campo principale un cavaliere su di un cavallo bianco, in armatura splendente e veste vermiglia, impugna e porta in alto, con la mano destra una spada sguainata e mostra un volto
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ro mazziniano che della Carboneria, a cui lui era affiliato, sia della nostra Obbedienza così come di molte altre. Per questo motivo il 25 luglio 1957 i fondatori di questa Officina della Gran Loggia d’Italia ritennero di intitolarla al grande pensatore. Campeggiano – a lato del ritratto – una Squadra e Compasso in grado di Maestro, simboleggianti due delle Luci fondamentali presenti nel Tempio.
scoperto illuminato da un astro radiante presente sullo sfondo in alto a destra. Sempre sullo sfondo, in basso, la sagoma di una montagna impervia. Come quindi abbiamo evidenziato, il sigillo riporta una ricchissima simbologia dall’alto significato esoterico, con simboli che abbracciano diverse culture e discipline, ma tutti afferenti ad una unica e solidissima Tradizione.
R.L. Polaris Oriente di Livorno
olaris è la stella più luminosa della costellazione dell’Orsa Minore e indica, con buona approssimazione, la direzione del Polo Nord geografico. Polaris è apparentemente ferma nel cielo mentre tutte le altre stelle sembrano ruotarle intorno ed è così un ottimo punto di riferimento celeste per la navigazione. Polaris è la stella più luminosa e Polaris, ultima nata dell’Oriente di Livorno, vuole essere anche Lei, insieme alle altre Logge un preciso punto di riferimento. Polaris come stella è ferma nel cielo così come Polaris, intesa come Loggia, è ferma nelle sue convinzioni di crescita. Polaris è un ottimo punto di riferimento non solo come sistema stellare ma anche come Loggia per tutti quei fratelli che vorranno scambiare conoscenze ed esperienze del percorso massonico. Così come la Stella Polaris è facile da trovare così la loggia Polaris sarà una porta aperta a quei Fratelli e a quei profani che vor-
ranno con gioia e dedizione intraprendere un cammino come liberi Muratori. La rappresentazione di Polaris è una stilizzazione stellare con la punta rivolta verso il nord, una colorazione bianco/rosso/verde per il richiamo alla Patria su sfondo celeste per meglio rafforzare l’idea dell’infinito. Sempre per dare il significato di infinito abbiamo pensato di racchiudere il tutto in due cerchi non concentrici fra loro per simboleggiare un “occhio” inteso come elemento principale per conoscere il mondo esterno. Nel lettering la lettera A è stata raffigurata con una squadra ed un compasso dal cui interno nasce l’Orsa Minore. Infine la scritta A.G.A.G. in posizione di pedice alla stilizzazione della Stella rivela che la Loggia Polaris è stata generata dalla Loggia Anita Garibaldi Alpi Giulie.
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l Sigillo di Loggia rappresenta un Sole a 12 raggi fiammeggianti, racchiuso fra Squadra e Compasso. Il Sole a 12 raggi, 12 come i segni zodiacali nel Tempio, elemento fuoco, fuoco divino in noi, fuoco sacro della vita, luce di trasformazione, rappresenta l’essenza del cammino di crescita in quanto simboleggia il percorso del sole interiore ed esteriore attraverso i cicli della vita, indirizzando verso la consapevolezza spirituale. Il Fregio è d’argento, metallo associato alla Luna e all’elemento Acqua. L’energia dell’Argento è considerata ricettiva, essendo considerato il metallo delle emozioni e dell’inconscio, perché si vuole che influenzi la mente stimolando la consapevolezza psichica “addor-
R.L. Salomone III Oriente di Siena mentando” la mente cosciente. Il Compasso e la Squadra, posti a toccarsi per le punte corrispondono in senso traslato al Cielo e alla Terra, dove il Cielo rappresenta la perfezione alla quale tendere e la Terra le passioni da allontanare. Al verso è inciso il motto Sol lucet omnibus, tratto dal Satyricon di Petronio che recita: “Ma non appartiene a tutti ciò che di più bello ha fatto la natura? Il sole risplende per tutti e la luna, insieme a tutte le altre stelle infinite, guida anche le bestie al pascolo. Cosa c’è di più prezioso dell’acqua? Eppure scorre per tutti”. È simbolo di quella uguaglianza che nella nos-
Elenco delle Logge già pubblicato... R\L\ Cartesio Or\di Firenze R\L\ Nino Bixio Or\di Trieste R\L\ Scaligera Or\di Verona R\L\ Minerva Or\di Torino R\L\ Sile Or\di Treviso R\L\ Luigi Spadini Or\di Macerata R\L\ Enrico Fermi Or\di Milano R\L\ Kipling Or\di Firenze R\L\ Pisacane Or\di Udine R\L\ Salomone Or\di Catanzaro R\L\ Teodorico Or\di Bologna R\L\ Fargnoli Or\di Viterbo R\L\ Minerva Or\di Cosenza R\L\ Giovanni Pascoli Or\di Forlì R\L\ Iter Virtutis Or\di Pisa R\L\ Triplice Alleanza Or\di Roma R\L\ Zenith Or\di Cosenza R\L\ Audere Semper Or\di Firenze R\L\ Federico II Or\di Jesi R\L\ Ad Justitiam Or\di Lucca R\L\ Horus Or\di Pinerolo R\L\ Mozart Or\di Roma R\L\ Jakin e Boaz Or\di Milano R\L\ Prometeo Or\di Lecce R\L\ Venetia Or\di Venezia R\L\ Garibaldi Or\di Castiglione R\L\ Petrarca Or\di Abano Terme R\L\ Delta Or\di Bologna R\L\ Eleuteria Or\di Catania R\L\ Anita Garibaldi Or\di Firenze R\L\ Eleuteria Or\di Pietra Ligure R\L\ La Fenice Or\di Forlì R\L\ Astrolabio Or\di Grosseto R\L\ Risorgimento Or\di Milano R\L\ Goldoni Or\di Londra R\L\ Augusta Or\di Torino R\L\ Horus Or\di R.Calabria R\L\ Voltaire Or\di Torino R\L\ Fidelitas Or\di Firenze R\L\ Ermete Or\di Bologna
R\L\ Athanor Or\di Cosenza R\L\ Monviso Or\di Torino R\L\ Cosmo Or\di Argentario Albinia R\L\ Trilussa Or\di Bordighera R\L\ Logos Or\di Milano R\L\ Concordia Or\di Asti R\L\ Ausonia Or\di Torino R\L\ San Giorgio Or\di Milano R\L\ Valli di Susa Or\di Susa R\L\ Cattaneo Or\di Firenze R\L\ Mozart Or\di Genova R\L\ Carlo Fajani Or\di Ancona R\L\ Aetruria Nova Or\di Versilia R\L\ Magistri Comacini Or\di Como R\L\ Uroboros Or\di Milano R\L\ Libertà e Progresso Or\di Livorno R\L\ Ugo Bassi Or\di Bologna R\L\ Navenna Or\di Ravenna R\L\ Hiram Or\di Sanremo R\L\ Cavour Or\di Vercelli R\L\ Per Aspera ad Astra Or\di Lucca R\L\ Dei Trecento Or\di Treviso R\L\ La Fenice Or\di Livorno R\L\ Aristotele II Or\di Bologna R\L\ La Prealpina Or\di Biella R\L\ Erasmo Or\di Torino R\L\ Fedeli d’Amore Or\di Vicenza R\L\ Ros Tau Or\di Verona R\L\ Giordano Bruno Or\di Firenze R\L\ Hiram Or\di Bologna R\L\ Garibaldi Or\di Toronto R\L\ Sagittario Or\di Prato R\L\ Giustizia e Libertà Or\di Roma R\L\ Le Melagrane Or\di Padova R\L\ Luigi Alberotanza Or\di Bari R\L\ Antares Or\di Firenze R\L\ Cidnea Or\di Brescia R\L\ Fratelli Cairoli Or\di Pavia R\L\ Nazario Sauro Or\di Piombino R\L\ Antropos Or\di Forlì
tra fede massonica ci fa sentire tutti uguali tra noi, affinché la nostra unità non si indebolisca o si frantumi in differenze che tra noi non debbono trovar luogo. Al recto è riportato il titolo distintivo della Loggia che ha rialzato le sue Colonne il 22 gennaio 2003 E\V\ e che nel nome di Salomone ricorda che la lotta incessante per la ricostruzione del Tempio simboleggia la lotta interiore dell’uomo contro le passioni, gli egoismi e le superstizioni che travolgono la mente e disuniscono gli animi.
R\L\ Internazionale Or\di Sanremo R\L\ Giordano Bruno Or\di Catanzaro R\L\ Federico II Or\di Firenze R\L\ Pietro Micca Or\di Torino R\L\ Athanor Or\di Brescia R\L\ Chevaliers d’Orient Or\di Beirut R\L\ Giosuè Carducci Or\di Follonica R\L\ Orione Or\di Torino R\L\ Atlantide Or\di Pinerolo R\L\ Falesia Or\di Piombino R\L\ Alma Mater Or\di Arezzo R\L\ C. B.Conte di Cavour Or\di Arezzo R\L\ G.Biancheri Or\di Ventimiglia R\L\ Sibelius Or\di Vercelli R\L\ C. Rosen Kreutz Or\di Siena R\L\ Virgilio Or\di Mantova R\L\ Ausonia Or\di Siena R\L\ Mozart Or\di Torino R\L\ Vincenzo Sessa Or\di Lecce R\L\ Manfredi Or\di Taranto R\L\ Cavour Or\di Prato R\L\ Liguria Or\di Orspedaletti R\L\ Saverio Friscia Or\di Sciacca R\L\ Atanor Or\di Pinerolo R\L\ Ulisse Or\di Forlì R\L\ 14 Juillet Or\di Savona R\L\ Pitagora Or\di Cosenza R\L\ Alef Or\di Viareggio R\L\ Ibis Or\di Torino R\L\Re Salomone /F.. Nuove Or\di Milano R\L\ Ab Initio Or\di Portoferraio R\L\ Emanuele De Deo Or\di Bari R\L\ Melagrana Or\di Torino R\L\ Aurora Or\di Genova R\L\ Silentium et Opus Or\di Val Bormida R\L\ Polaris Or\di Reggio Calabria R\L\ Athanor Or\di Rovigo R\L\ G. Mazzini Or\di Parma R\L\ Giordano Bruno Or\di R.Calabria R\L\ Lux Or\di Firenze R\L\ Etruria Or\di Siena R\L\ Athena Or\di Pinerolo R\L\ Palermo Or\di Palermo
R\L\ XX Settembre Or\di Torino R\L\ La Silenceuse Or\di Cuneo R\L\ Corona Ferrea Or\di Monza R\L\ Clara Vallis Or\di Como R\L\ Giovanni Bovio Or\di Bari R\L\ EOS Or\di Bari R\L\ G. Ghinazzi Or\di Roma R\L\ D.Di Marco Or\di Piedimonte Matese R\L\ Oltre il Cielo Or\di Lecco R\L\ San Giorgio Or\di Genova R\L\ G.Papini Or\di Roma R\L\ A.Garibaldi/Alpi Giulie Or\di Livorno R\L\ Melagrana Or\di Cosenza R\L\ Il Nuovo Pensiero Or\di Catanzaro R\L\ M’’aat Or\di Barletta R\L\ Costantino Nigra Or\di Torino R\L\ Umanità e Progresso Or\di Sanremo R\L\ Fenice Or\di Spotorno R\L\ Ferd.Rodriguez y Baena Or\di Milano R\L\ G.Bruno - S.La Torre Or\di Roma R\L\ XI Settembre Or\di Pesaro R\L\ Il Cenacolo Or\di Pescara R\L\ Humanitas Or\di Pistoia R\L\ Gaspare Spontini Or\di Jesi R\L\ Vittoria Or\di Savona R\L\ Archita Or\di Taranto R\L\ Zodiaco Or\di Pinerolo R\L\ La Fenice Or\di Chieti R\L\ 4 Giugno 1270 R.G. Or\di Viterbo R\L\ La Fenice Or\di Pieve a Nievole R\L\ Excalibur Or\di Trieste R\L\ Omnium Matrix Or\di Milano R\L\ Themis Or\di Verona R\L\ G.Garibaldi Or\di Cosenza R\L\ Giovanni Risi Or\di Firenze R\L\ Humanitas Or\di Treviso R\L\ Leonardo da Vinci Or\di Taranto R\L\ Horus Or\di Padova R\L\ La Fenice Or\di Bari R\L\ S.Giovanni Or\di Bassano d.Grappa R\L\ SmiDe Or\di Stra R\L\ Luce e Libertà Or\di Potenza R\L\ Herdonea Or\di Foggia
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