Trimestrale internazionale di attualitĂ , storia e cultura esoterica Anno XXII e XXIII - Dicembre 2010 e Marzo 2011 - n.4 e n.1
Trimestrale internazionale di attualità, storia e cultura esoterica Anno XXII e XXIII - n.4 e n.1 Dicembre 2010 e Marzo 2011 Direttore Editoriale e Responsabile LUIGI PRUNETI Direttore ANNA GIACOMINI Comitato di Redazione ALDO A.MOLA FABRIZIO DEL RE , LINA ROTONDI, coordinatrice per l estero LUISA CERAVOLO, coord. per il nord RENATA SALERNO, coord. per il sud SILVIA BRASCHI, Eventi e Segreteria Comitato Scientifico MAURIZIO COHEN GIUSEPPE LATERZA PAOLO MAGGI ALDO MARIOTTINI RAFFAELE MAZZEI MICHELA TORCELLAN SANDRA ZAGATTI GIOVANNA LA BELLA, consulenze legali hanno collaborato a questo numero DAVIDE ARECCO ANTONIO BINNI SERGIO CIANNELLA SABRINA CONTI giovan battista curami FABRIZIO DE PAOLI MARCO GALEAZZI GIUSEPPE IVAN LANTOS IDA LI VIGNI MARCO MATERASSI RAFFAELE MAZZEI EMANUELA MICONI PAOLO MAGGI PIERPAOLA MELEDANDRI ALDO ALESSANDRO MOLA PAOLO MUSTO BARBARA NARDACCI FERNANDO PITERæ LUIGI PRUNETI PAOLO ALDO ROSSI LEO TOSCANELLI FABRIZIO TURRINI progetto e realizzazione PAOLO DEL FREO
L.Pruneti - Dal Capricorno all’Ariete — 2 L.Pruneti - Solstizio d’inverno dell’anno 2010 E.V. — 4 S.Ciannella - L’iniziazione — 6 P.Maggi - Una rivoluzione silenziosa — 8 La Gran Maestranza per il triennio 2011-2013 — 10 Manifesto massonico 2007-2010 e Linee d’indirizzo 2011-2013 — 14 A.A.Mola - La nascita del Tricolore — 24 L.Pruneti - Note sul registro di classe — 26 D.Arecco - Scienza, massoneria e letture proibite... — 38 P.A.Rossi - Perché di notte il cielo è così buio — 50 I.Li Vigni - I labirinti della ragione, per una storia dell’esclusione — 62 E.Miconi - Alterità e persecuzione — 68 G.I.Lantos - Il mito: Artemide e Atteone — 76 L.Toscanelli - Dal marmo... — 80 L.Toscanelli - Meriggio e sera a Delfi — 82 F.Piterà - L’antidoto della follia — 84 F.Turrini - Cervello, Mente e Anima — 100 B.Nardacci - Il sonno REM, la nostra nigredo quotidiana — 106 F.De Paoli - La Consulta Giovani Massoni — 114 a.a.Mola - Massoneria italiana — 118 P.A.Rossi - L’immaginario — 130 P.Meledandri - Massoneria e Giustizia — 134 In Biblioteca — 138 Fregi di Loggia — 159
Dal Capricorno all’Ariete Luigi Pruneti
I
giorni passano veloci come l’acqua che fugge dalla sorgente per conoscere la foce, i mesi danzano col sole e le stagioni sbocciano e sfioriscono nell’ampolla del tempo dove il domani diventa oggi e l’oggi ieri. Verdi rami ed alberi spogli, messi mature e campi di brina si susseguono nel grembo di Kronos, signore della clessidra. In questo momento di mimose fiorite e di rogge che cantano per la pioggia di Marzo, il Solstizio d’Inverno appare lontano, sono invece scorsi meno di tre mesi da quando celebrammo il rinnovarsi della luce, la nascita del sole bambino ed algiz, la runa della vita, alter ego dell’abete che trionfa sull’algore dell’inverno. Solennizzammo ritualmente questo momento pochi giorni dopo la tornata elettorale del 4 dicembre 2010 E.V. alla quale abbiamo dedicato numerose pagine di questo corposo fascicolo di Officinae. Seguendo una via già percorsa nel passato, in occasione del rinnovo delle cariche istituzionali, il periodico della Gran Loggia d’Italia ha preferito pubblicare nel mese di Marzo un numero doppio che facesse da ponte fra il vecchio e il nuovo. Abbiamo avuto così a disposizione oltre 150 pagine che hanno ospitato articoli su vari argomenti: arte e antropologia, storia e simbolismo, filosofia e scienza, psicologia e diritto, sociologia e musica. Tanti argomenti, numerose discipline ed un unico sottile filo rosso che trasforma tessere di diversa forma e colore in un grande mosaico, iconico della Libera Muratoria. Massoneria significa Loggia e la Loggia è un cantiere, un’officina, dove si vaglia e si affina, si trasforma e si crea. In questo particolare opificio produttore e prodotto, materia prima e valore aggiunto s’identificano; l’uomo, il libero muratore è soggetto ed oggetto, è pietra e strumento, fine e mezzo. Non è difficile individuare i
processi di trasformazione che avvengano all’interno del Tempio, è quasi impossibile, invece, quantificarne i tempi, descriverne la realizzazione, verificarne gli effetti. Officinae vuole offrire un contributo, essere un reagente, agire da catalizzatore in questa alchimia dello spirito. Suggerisce perciò spunti di riflessione, propone approfondimenti, prospetta chiavi di lettura diverse. La rivista avrebbe, inoltre, un’aspirazione nascosta, un sogno segreto... L’uomo è spesso un nomade che si muove col suo carrozzone di ricordi; vaga da piano a piano, da dimensione a dimensione, alla ricerca di un qualcosa che gli sfugge. Quando, però, varca la soglia del Tempio, da vagante diventa viandante, da quel momento segue un itinerario, mira alle dimore del Sole verso le quali lo conduce un indefinibile impulso iniziatico. Officinae vorrebbe contribuire a questo viaggio, offrendo suggerimenti, consigli, conforto e notizie al pellegrino della conoscenza, all’argonauta del profondo. Con questo desiderio, il periodico della Gran Loggia d’Italia saluta il 2010 e affronta il 2011; si è lasciato alle spalle la costellazione del Capricorno ed ora si trova sotto quella della creazione e della rinascita. L’Ariete celeste, sacro ad Amon-Ra, svetta nel cielo, con le tre stelle più luminose che gli disegnano la fronte. Una di queste è Sheratan, ‘il segno’, indice della rinascita, di una forza nuova che sale dal ventre oscuro della terra verso l’alto, verso l’azzurro del cielo, dove esplode in un caleidoscopio di colori, di luci, di emozioni e di attese. L’Ariete segna il tempo delle speranze non vane, dei progetti migliori, dei sogni più arditi ed Officinae auspica di essere sempre più una voce di quel luminoso disegno primaverile che si chiama Libera Muratoria.
Tempora labuntur more fluentis aquae
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P.2-3: Equinozio di primavera, fiori di pesco.
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Gran Maestro
Solstizio d’inverno dell’anno 2010 E.V. Gli auguri del Gran Maestro Luigi Pruneti
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Gran Maestro
C
arissimi, è ormai buio mentre il treno si addentra nella città, sferragliando fra l’anonimo grigiore della periferia. Al finestrino dello scompartimento si susseguono muri di cemento, intonaci morsi dal tempo e qualche finestra illuminata che malinconicamente rompe per un attimo l’oscurità di questa brumosa notte d’inverno. All’improvviso, però, scorgo qualcosa in alto, al di sopra dei tetti delle case, è una scritta ancorata al braccio di una gru, si accende e si spegne, augurando a tutti coloro che la leggano ‘buone feste’. Il convoglio si ferma, sono finalmente arrivato, la stazione è un brulicare di gente, tutti hanno fretta. Anche qui vi è un abete addobbato come si conviene; un bimbo, guardandolo, grida all’improvviso “che bello il Natale!” Natale... mentre attraverso la città, questo giorno così atteso si presenta con il suo volto festoso di luminarie, doni, acquisti, tavole imbandite. Un tempo, quando il fardello degli anni era più leggero e il giudizio più facile e severo, avrei scosso la testa, rimuginando sull’uomo ridotto a consumatore e al dio mercato che tutto fagocita, trasforma, riduce a mero rapporto economico. Ora non più e queste ricorrenze mi sembrano pur sempre un’eco di antichi valori col loro desiderio di felicità, la voglia di donare, i proposi-
ti di essere migliori, la liturgia del pranzo che unisce, recuperando dallo stagno dell’indifferenza persone che tornano ad essere, intorno al desco, amici, parenti, fratelli. Tutto questo è l’onda lunga, la radiazione di fondo, la traccia di un rito lustrale, di un bisogno di rigenerazione. Nel momento nuziale del giorno più breve con la notte più lunga, il Sole calante muore per dar vita all’Astro nascente. Il re oscuro se ne va, s’immola sul fuoco alchemico dell’atanor cosmico e con lui bruciano dolori e sconfitte, rancori ed errori: niente sarà dimenticato ma si trasformerà in ricordo e il ricordo in sapienza e la sapienza in saggezza. Nelle tenebre della notte solstiziale, al limitare delle foreste ammantate dell’algore dell’inverno, i villaggi assediati da neve e fame, attendevano trepidanti la dea bianca dai capelli d’oro come le messi mature e dagli occhi azzurri al pari del cielo, quando non conosce l’affronto dei nembi. Ella incedeva leggera e maestosa recando un ramo di vischio e un vaso d’argento. In quel recipiente avrebbe raccolto angosce e dubbi, timori e incertezze e da lì sarebbe uscito un raggio di luce, un canto soave, capace di generare nella fragilità dell’anima la rosa rossa della speranza. In altri profondi ricettacoli, in grotte sacrali, in segrete spelonche, ulteriori dadofori di un verbo nuovo sorgevano in questi giorni oscuri: Horus,
l’invitto figlio di Osiride, Mitra il giovane Dio, progenie della pietra e degli spazi infiniti e un Bambinello, il cui sorriso cambiò l’ineluttabilità dell’umano destino in orizzonti di vita ed un fiore di passione mutò nel “sole di Giustizia” di Malachia. Queste ore d’incanto scoccano mentre il Sole entra in Capricorno, simbolo di fine e di principio, icona di Saturno, il grande costruttore, dell’iniziato raffigurato nella IX lama dei Tarocchi. L’eremita procede nella notte senza stelle dell’ignoranza, illuminando la via con la lucerna della ragione e rendendo certo il passo, col lituus, il bastone dei sette nodi mistici, emblema dell’amore universale che trasforma il ghiaccio in fuoco e cangia i desolati deserti dell’egoismo negli ubertosi giardini della fratellanza. Seguiamo le sue orme, apriamo le nostre menti e rinnoviamo i nostri cuori e da Liberi Muratori proseguiamo insieme il viaggio verso Oriente, verso la dimora empirea dell’Astro che splende in qualche parte del nostro animo. Insieme a siffatto auspicio Vi giunga, miei cari Fratelli e Sorelle, l’augurio di un Solstizio radioso, preludio di un nuovo anno felice, prodigo di serenità, salute e gioia, capace di mutare ogni vostro sogno in vissuto, ogni vostra trepidante attesa in stupenda realtà. P.4: Alba gelata (foto P.Del Freo), p.5: Geroglifico rappresentante l’occhio di Horus.
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Iniziazione
L’iniziazione Sergio Ciannella
L’
essere umano più conosce, più è consapevole dei suoi limiti e delle sue debolezze. La percezione della macchina corporea attraverso l’attivazione dei suoi ricettori, che sono i sensi, apre le porte delle meraviglie del Creato, ma allo stesso tempo segna precisi confini oltre i quali non é consentito andare. Spazio e tempo rappresentano il principale presidio di questi limiti, come si rende conto il bimbo non appena raggiunge un minimo di autonomia, ma anche altri fattori, dei quali si apprende solo attraverso un’analisi scientifica, indicano che l’accesso umano alla conoscenza della Natura è limitato: la gamma dei colori e dei suoni è ben più ampia di quella percepibile con i nostri sensi, il mondo visibile è solo una parte della realtà, è quello che il nostro “Costruttore” ci ha voluto concedere. In altri termini è come se il visitatore di un magnifico palazzo potesse accedere solo ad alcune stanze, mentre altre gli sono vietate. E il divieto che più pesa è l’impossibilità di sapere cosa
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c’è oltre la vita. L’ansia struggente di tutti coloro che non si accontentano di prendere atto di questa condizione, si è ben presto tradotta, fin dalle origini, ovvero da quando la razza umana ha superato l’età dell’infanzia, in uno sforzo di ricerca di ciò che si trova oltre i fenomeni naturali, la φύσις dei Greci. Nasce così dalla inappagata curiosità umana la metafisica, che indica il desiderio di superare i confini assegnati dalla Natura, di vincere la barriera sensoriale per accedere ad altre dimensioni. Si accende in questi spiriti liberi un’ansia di ricerca della verità e, metaforicamente, di luce che illumini gli aspetti ignoti della vita, delle sue origini, dei suoi fini. L’essere raziocinante, consapevole della relatività di ciò che appare, si tormenta nel dubbio e si perde nel mare delle supposizioni, ma è anche capace di reagire e di tentare di addentrarsi in questo mondo “altro” e sconosciuto. In questo caso gli si offrono tre possibilità: la fede, la ragione, l’intuito. Quello di fede è il percorso più semplice e, almeno in teoria, il
più appagante. È la via della religione che congiunge direttamente o, come normalmente accade, attraverso un intermediario in veste sacerdotale, l’umano al divino, la terra al cielo, il basso all’alto. In quanto esperienza personalissima non è suscettibile di giudizio obiettivo né di commenti. Nessuno può escludere casi di “illuminazione” corrispondenti a “stati di grazia” che mettono alcuni individui eletti in condizione di percepire la divinità e addirittura di comunicare con Essa. Nello stesso tempo non si può fare a meno di considerare che molti credono di credere, o si sforzano di credere, ma non hanno la consapevolezza degli illuminati. Taluni scelgono questa strada perché preferiscono rinunciare alla sofferenza del dubbio, altri perché si conformano acriticamente a un’abitudine confortata dalla imitazione, altri ancora perché si affidano all’autorità morale e alle promesse di una guida. Si tenga infine presente la scelta di convenienza, per nulla scandalosa nei secoli passati, ma irrilevante perché del tutto estranea
alla casistica dei cercatori di verità. Se alla base della opzione religiosa vi è il cuore, la ragione presiede tutt’altro percorso. Spinge allo studio scientifico della Natura per carpirne i segreti e alla elaborazione di sistemi filosofici per scoprire le cause prime e i principi universali che governano la condizione umana. La scienza fornisce soltanto risposte provvisorie che avvicinano alla verità ma non sono la verità. La filosofia, per quanto utilizzata da intelligenze eccelse, non riesce e non riuscirà mai a raggiungere il suo obiettivo, che è il sapere assoluto. Pertanto, come una fede non illuminata può condurre a degenerazioni, nelle due derive opposte del cieco dogmatismo e della mercificazione religiosa, così una razionalità portata alle estreme conseguenze, che rifiuti tutto ciò che non è percepito dai sensi e non sia sperimentabile, alimenta una perenne insoddisfazione che rischia di sfociare in un cinico nichilismo. La terza via di ricerca è un percorso conoscitivo intermedio, che si fonda sulla intelligenza umana, e quindi sulla ragione, ma non rifiuta aprioristicamente la realtà non visibile, anzi spinge proprio verso una dimensione metafisica. Fede e ragione in questo caso si mescolano ponendo cuore e mente al servizio del desiderio di conoscenza. Fede non dipendente da autorità esterne, ma avvertita come intima convinzione, sia pure soggetta a verifica e revisione, ragione intesa come metodo di analisi scientifica, aperto però a qualunque esperienza ultrasensoriale. Questa capacità di mediare tra due poli opposti è data da una qualità non comune a tutti, che si può definire intuito o intelletto, nell’accezione dantesca del termine. Si tratta in altri termini di una disposizione d’ani-
Il patrimonio sapienziale ereditato da queste Scuole è pervenuto fino ai nostri giorni e nella civiltà occidentale viene custodito dalla Massoneria, il più moder-
Iniziazione
mo pronta ad incontrare la verità a metà strada tra riflessione e illuminazione. I soggetti così predisposti sono alla ricerca di un metodo che, pur lasciandoli liberi di esprimere la loro razionalità e immuni da dogmatismi, apra spiragli di luce che la mera logica non potrà mai offrire. Questo metodo si ritrova nelle tracce di Scuole iniziatiche, depositarie di verità nascoste ai profani, che in ogni epoca si sono assunte il compito di soddisfare l’esigenza di una ricerca spinta oltre i confini della condizione umana, attraverso un sistema originalissimo fondato su alcuni elementi comuni ad ogni indirizzo: - la creazione di un ambito ‘sacro’ nel quale si coltivano saperi non accessibili a tutti; - l’uso di strumenti simbolici e forme rituali; - la selezione dei neofiti secondo qualità morali; - il crisma di una iniziazione che prevede prove rituali;
no sistema di ricerca, a metà strada tra scienza e religione, che continua a proporre una conoscenza da acquisire per intuizione, fondata sul presupposto che l’essere umano sia dotato di potenzialità inespresse a causa di innumerevoli fattori limitativi, di natura contingente. Il progresso individuale è invece possibile e non ha limiti, se non quelli imposti da sé stessi e da regole estranee alla propria volontà. Iniziazione è quindi anzitutto una scelta di libertà, o meglio di liberazione dai vincoli, per vincere l’Io, l’individualità debole, e realizzare il Sé, vale a dire la natura vera e nobile del nostro essere, la più vicina alla dimensione divina. In questo l’iniziazione si differenzia completamente dal percorso di fede: chi accetta un dogma religioso matura un’aspettativa salvifica, crede in altri termini che la semplice osservanza di determinati precetti e di pratiche liturgiche sia di per sé condizione sufficiente per elevarsi e congiungersi al piano divino. L’iniziato, pur se mosso da analogo sentimento religioso, inteso come desiderio di ricerca dell’Uno, l’Universale, l’Assoluto, si pone invece in maniera attiva nei confronti della sfera metafisica, fa leva sulla sua forza interiore e ad essa soltanto affida il compito di conquistare livelli superiori dell’essere, attraverso la gradualità di progressive illuminazioni. (continua) P.6: Stampa secentesca del Tempio di Salomone, p.7: Giza, piramide di Cheope.
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Gran Maestro
Una rivoluzione silenziosa Paolo Maggi
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L’
immaginario collettivo, si sa, vede la Massoneria come un corpo unico, immenso e tentacolare, che avviluppa l’intero pianeta, per lo più intento a ordire trame eversive in combutta con qualche altra oscura potenza. Questa idea è talmente radicata che, ogni qualvolta si dà notizia dell’ennesima inchiesta giudiziaria su veri o presunti scandali che coinvolgono la Massoneria (cosa che accade a scadenze fisse che hanno la puntualità degli attacchi di febbre quartana) l’uomo della strada fa gran fatica a distinguere tra conventicole spurie, che spuntano come funghi per ogni dove, e grandi Obbedienze regolari che hanno contribuito a fare la storia della cultura dell’Occidente. In realtà chiunque, armato di buona volontà, volesse farsi un’idea di come stanno realmente le cose, sfogliando le pagine di qualche autorevole testo di storia della Massoneria, sarebbe immediatamente colpito dalla miriade di scismi, corredati di relative e reciproche scomuniche, fuoriuscite di massa, divisioni in partiti, correnti e sottocorrenti, che costellano la storia dell’Arte Reale dalle sue origini. Trattasi solo di un italico male? Certamente no. A guardare più da vicino le Obbedienze del mondo anglosassone, per esempio quelle statunitensi, pur granitiche in apparenza, ci si accorge che tanto granitiche poi non sono e, spesso, si affrontano l’un contro l’altra armate. Persino il Regno Unito, che qualcuno considera (a ragione o a torto) la culla della Libera Muratoria moderna, periodicamente è percorsa da venti di secessione. E, d’altro canto, il primo grande scisma che la storia della Massoneria moderna registra, quello tra Antichi e Moderni, avvenuta solo 34 anni dopo la fatale data del 24 giugno 1717, non è stata forse una vicenda tutta anglosassone? Proprio per questo qualcuno ha battezzato sindrome di Dermott (dal nome del massone irlandese che promosse questo primo grande scisma) quell’attrazione fatale che spinge i Fratelli di ogni epoca e latitudine a tanta litigiosità. Le più importanti scadenze elettorali sono state poi, nella storia di molte Obbedienze, le date in cui si sono registrati i più rovinosi scismi e le più massive fuoriuscite. Potremmo stupirci nel nota-
re che le date di nascita di tante Obbedienze, piccole e grandi, coincidono curiosamente con quelle dei rinnovi delle cariche ai vertici di altre, più antiche istituzioni libero muratorie. E nemmeno la Gran Loggia d’Italia è stata nel passato immune da questa patologia. Per tutte queste considerazioni, dietro l’apparente normalità delle elezioni del 4 dicembre, forse è stata scritta una pagina storica della Massoneria italiana. Il periodo preelettorale era stato carat-
lide radici nel passato. Già nelle elezioni del 2007 si erano confrontati i due massimi rappresentanti della cultura massonica all’interno della Gran Loggia d’Italia, due intellettuali di grande rilievo nel mondo esterno. La domanda dei Fratelli alla loro futura Gran Maestranza era
terizzato da un clima di grande serenità. Al confronto elettorale si presentavano solo due candidature: quella del Gran Maestro uscente e quella del suo Vicario. Nessuna disfida epocale sembrava in vista. Nessun patologo della Massoneria era stato in grado di diagnosticare sintomi precoci di un attacco di sindrome di Dermott. È sembrata dunque a tutti naturale la proposta del Grande Oratore: la conferma per acclamazione del Gran Maestro uscente e del suo Vicario per il prossimo triennio. L’assemblea accoglie la proposta con un applauso lungo e caloroso. Tuttavia il Gran Maestro chiede che la proposta sia sottoposta ad una regolare votazione per alzata di mano: un applauso, per sentito che sia non può sostituire il voto, Alla verifica del voto il risultato comunque non cambia. Il consenso è pressoché unanime: l’elettorato attivo della Gran Loggia d’Italia rinnova il mandato al suo Gran Maestro e al suo Vicario. Si affida poi alle urne il voto per i Gran Maestri Aggiunti. E anche in questo caso i tre Gran Maestri Aggiunti uscenti vengono riconfermati. Squadra che vince non si cambia. Gli eventi che osserviamo nel presente affondano so-
turale, densa di contenuti e con un’immagine prestigiosa, ben percepibile anche nel mondo esterno. Durante l’ultimo triennio il vertice della Piramide si è mosso in coerenza con quanto chiedeva la sua base. Il voto del 4 dicembre, che ha rinnovato il mandato alla Gran Maestranza, è una precisa richiesta che si prosegua sulla stessa strada per il prossimo triennio. Forse qualche osservatore esterno sarà rimasto deluso dal fatto che queste votazioni non hanno fornito materia di speculazione giornalistica. E d’altro canto molti ricorderanno che, solo pochi anni fa, le elezioni di un’altra grande Obbedienza italiana hanno generosamente alimentato il gossip della stampa profana per molti mesi successivi. Ma probabilmente in questo caso si è consumata una rivoluzione silenziosa: in rare occasioni un’intera Obbedienza, rappresentati e rappresentanti, si è mossa come un corpo unico come in questo caso, in piena armonia di intenti. Una rivoluzione silenziosa che solo pochi attenti osservatori hanno potuto notare, ma che non tarderà a dare i suoi frutti.
Gran Maestro chiara: un’Obbedienza senza cesaropapismi, ma trasparente, di alto profilo cul-
P.8: Tempio Nazionale, Roma (foto P.Del Freo), p.9: Roma, 4 dicembre, le elezioni (foto G.Laterza).
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Elezioni
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oma, 4 dicembre 2010. Nel grande Auditorium “Michelangelo” del Park Hotel Torre Rossa di Roma si è svolta la Tornata Ordinaria Elettorale del Grande Corpo Elettorale Misto per il Rito e per l’Ordine della Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. per procedere al rinnovo delle
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cariche elettive per il triennio 2011-2013. I votanti — tutti Maestri Venerabili o Presidenti di Camere del R.S.A.A. — erano circa 400, assommando, di persona o per delega, i circa 600 voti rappresentativi di tutte le Logge e Camere all’Obbedienza della Gran Loggia d’Italia. L’Assemblea ha riconfermato, per accla-
mazione, per il triennio 2011-2013 Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro il Fr. LUIGI PRUNETI. Successivamente, sempre per acclamazione, l’Assemblea ha riconfermato per il triennio 2011-2013 Luogotenente Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro Aggiunto Vicario il Fr. SERGIO CIANNELLA.
Elezioni
Luigi Pruneti, Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro
Sergio Ciannella, Luogotenente Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro Aggiunto Vicario
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Dopo la trionfale acclamazione del Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro e del Luogotenente Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro Aggiunto Vicario e i giuramenti di rito, l’Assemblea ha proceduto alla votazione per
Elezioni eleggere i tre Gran Maestri Aggiunti. Le operazioni di voto si sono svolte in un clima di grande serenità, ugualmente lo spoglio delle schede, eseguito con precisione e celerità dalla Commissione Elettorale, magistralmente presieduta dal Fr. Piergiovanni Celetto. Sono risultati eletti Gran Maestri Aggiunti per il triennio 2011-2013 i FFrr. GIOVAN BATTISTA CURAMI MARCO GALEAZZI PAOLO MUSTO Dopo i giuramenti di rito, si è proceduto alle nomine di I e II Gran Sorvegliante, del Grande Oratore, del Tesoriere e del Segretario della Gran Loggia d’Italia. Sono state riconfermate per il triennio 2011-2013 la Sr. LAURA MADONIA I Gran Sorvegliante della G.L.D.I. la Sr. RENATA SALERNO II Gran Sorvegliante della G.L.D.I. È stato riconfermato per il triennio 2011-2013 il Fr. PAOLO CIANNELLA Grande Oratore della G.L.D.I. Infine, sono stati nominati il Fr. MAURIZIO GALAFATE ORLANDI Gran Segretario Generale della G.L.D.I. ed il Fr. LUCIANO ROMOLI Gran Tesoriere Generale della G.L.D.I.
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I Gran Maestri Aggiunti della G.L.D.I. (dall’alto): Giovan Battista Curami Marco Galeazzi Paolo Musto
Elezioni
Paolo Ciannella, Grande Oratore della G.L.D.I.
Laura Madonia , I Gran Sorvegliante della G.L.D.I.
Maurizio Galafate Orlandi, Gran Segretario Generale della G.L.D.I.
Renata Salerno, II Gran Sorvegliante della G.L.D.I.
Luciano Romoli, Gran Tesoriere Generale della G.L.D.I
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Manifesto
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remessa
Già tre anni sono passati dalla Tornata Elettorale del 1° dicembre 2007 E.V. Da allora l’azione del Gran Magistero si è rivolta anzitutto all’interno dell’Istituzione per dare stabilità e fiducia nel futuro, garantendo il rispetto delle regole, rivalutando il sistema della collegialità, coinvolgendo quanti più Fratelli e Sorelle in una partecipazione attiva allav vita dell’Obbedienza. L’uniformità dei comportamenti, perseguita in campo rituale, am-
ministrativo, associativo, ha costituito un punto di forza ed uno degli aspetti più qualificanti del progetto. La valorizzazione della ritualità, con l’applicazione uniforme su tutto il territorio nazionale degli Statuti, ed il rigido conformarsi agli stessi, ha condotto al risultato auspicato di un potenziamento della struttura piramidale la cui solidità, compattezza ed omogeneità nei comportamenti ed intenti non può che contribuire alla crescita ed alla capacità di confrontarsi con interlocutori profani, presentandosi alla società, finalmente, come attore e non semplice spettatore. L’impegno profuso sul versante della cultura, con pubblicazioni, convegni, mostre, conferenze, sostenuto attivamente dalla entusiastica collaborazione di tutte le Regioni d’Italia, ha caratterizzato il percorso del passato Triennio, accrescendo il prestigio della Gran Loggia d’Italia in ambiente profano e facendo maturare, nel contempo, preziose esperienze all’interno dell’Obbedienza. Il Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro ha introdotto nella vita dell’Obbedienza un elemento di assoluta novità: la valorizzazione della componente artistica presente nelle varie Logge. Un’immagine positiva e rassicurante della Gran Loggia d’Italia, riconosciuta come un riferimento massonico nazionale immune da critiche e sospetti, è stata trasmessa alla opinione pubblica grazie ai numerosi interventi pubblici del Sovrano Gran Commendatore Gran
Maestro e dei responsabili locali dell’Obbedienza, a mezzo stampa, televisione, conferenze, relazioni con personalità delle Istituzioni e della Politica. L’impegno del Governo del Rito e dell’Ordine non ha infine trascurato i contatti con la Massoneria Estera. I numerosi Trattati di amicizia e collaborazione con Potenze straniere, le sinergie in atto con la Massoneria francese - in particolare con il Grande Oriente di Francia - l’apertura e sostegno ad Obbedienze emergenti dei Paesi dell’Europa Orientale, l’ammissio-
Proselitismo Con una Balaustra il Gran Maestro detta alla Comunione precisi indirizzi in materia di proselitismo, in applicazione dei principi della tradizione libero-muratoria e delle regole statutarie. La costante attenzione alla crescita qualitativa oltre che
ne del Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro in seno a prestigiosi organismi europei, il ruolo trainante acquisito nei più importanti Organismi internazionali del Rito e dell’Ordine, hanno reso la nostra Istituzione uno dei più importanti punti di riferimento della Massoneria liberale. \
mento degli iscritti, malgrado la crisi economica che da oltre un anno attanaglia il Paese e la perdita di un numero elevato di FFrr. e SSrr. passati all’Oriente Eterno. La presenza femminile Un forte e deciso segnale di concreta valorizzazione del ruolo femminile in seno alla Comunione è partito fin dalla Tornata Elettorale Nazionale, dalla proposta del Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro, condivisa da tutta l’Assemblea, di designare due Sorelle all’alta Carica di Gran Sorveglianti della Gran Loggia d’Italia. Convinto sostenitore delle qualità massoniche femminili e della centralità del loro ruolo, Luigi Pruneti non ha esitato ad affidare in tre importanti Regioni la Delega magistrale a Sorelle. In quasi tutti i suoi interventi ufficiali, interni ed esterni, ha esaltato il valore della donna in Massoneria esprimendo soddisfazione ed orgoglio per questa peculiarità che da oltre mezzo secolo è uno dei principali segni distintivi della Gran Loggia d’Italia. Perfettamente in linea con questo indirizzo, il Vicario e i Gran Maestri Aggiunti non hanno perso occasione per sostenere queste linee di pensiero in Italia e all’Estero. L’esempio e l’influenza della Gran Loggia d’Italia in tal senso ha sicuramente favorito l’apertura di un dibattito i cui esiti potrebbero riservare non poche sorprese. Significativo che il S.G.C.G.M. abbia vo-
L’Attuazione del programma del “Manifesto” 2008 - 2010 Capo I Recupero della Tradizione iniziatica Coerentemente con l’impegno primario assunto dal Gran Magistero, gli indirizzi trasmessi dal Vertice a tutte le articolazioni periferiche della Obbedienza, sono stati costantemente ispirati al rispetto della tradizione iniziatica, nella consapevolezza che il lavoro massonico, se correttamente interpretato, sia in grado di plasmare la personalità del libero muratore facendo affiorare le migliori qualità umane e le più apprezzate virtù. I costanti richiami del Sovrano Gran Commendatore al primato del lavoro rituale di Loggia, instancabilmente pronunziati in ogni occasione d’incontro con i Fratelli e le Sorelle della Comunione, hanno confermato il livello di elevata attenzione all’aspetto iniziatico del percorso massonico. A sostegno di questo orientamento si possono annoverare numerose concrete iniziative, annunciate nel Manifesto.
Indirizzo numerica dell’Obbedienza, e la ritrovata fiducia nei Vertici, ha portato da gennaio 2008 a giugno 2010 un notevole incre-
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luto concludere i Lavori del 2010 E.V. con un Convegno proprio su “L’iniziazione, la donna e la Massoneria” a Selinunte, dove il Gran Maestro del Grande Oriente di Francia, Pierre Lambicchi, tra i relatori, ha annunciato la possibilità reale e a breve termine che il Grande Oriente
Manifesto di Francia sia aperto all’iniziazione femminile.
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Crescita iniziatica e riconoscimento del merito Come precisato nel Manifesto, è stato istituito un Ordine premiale per gratificare Fratelli e Sorelle che si distinguono per attaccamento alla Istituzione e per azioni concrete degne di considerazione. È stata così istituita una importante benemerenza massonica, l’Ordine della Croce Greca, con la quale vengono insigniti personaggi, massoni e profani, particolarmente apprezzati dalla Gran Loggia d’Italia. \ La ritualità La rilevanza di questo strumento, di primaria importanza nel lavoro massonico, postula “conoscenza e coinvolgimento”. Il rito, come indicato nel Manifesto “è partecipazione emotiva, intellettuale e spirituale ad un atto collettivo finalizzato al raggiungimento di stati superiori dell’essere”. Per questo motivo, uno dei punti più qualificanti, e nello stesso tempo più impegnativi del programma, si trova nella rivisitazione dei Rituali attualmente in uso, che non è stata intesa come modifica della letteratura iniziatica stratificata nei secoli, esposta ai rischi di stravolgimento dei testi, ma semplice opera di emendamento linguistico e recupero di alcuni aspetti della ritualità perduta, come, ad esempio, l’accensione delle Luci nel Rituale di apertura dei Lavori. Nel corso del passato Triennio la Commissione presie-
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duta dal Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro è riuscita a completare il lavoro sul Rituale del 1° Grado. Il nuovo testo, arricchito da note e illustrazioni, è stato approvato dalla Grande Assemblea ed è già in uso presso le Officine della Comunione. Vi è in progetto la stampa di un’edizione “pregiata” di tale Rituale, che dovrebbe contenere opere di Artisti massoni a commento delle varie dinamiche rituali. Analogo lavoro è stato completato dalla Commissione per il Cerimonia-
le, nel quale il Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro ha dimostrato di credere fermamente dandovi piena applicazione, a partire dall’attività del Gran Magistero, costantemente sentito sulle principali questioni e chiamato a deliberare sulle scelte che, direttamente o indirettamente, potevano interessare l’intera Comunione. Analoga rilevanza è stata data alla funzione della Grande Assemblea, del Gran Consiglio e della Giunta Esecutiva. Contrario ad ogni forma di
le, che ha messo a punto un “manuale” descrittivo delle modalità di preparazione ed esecuzione dei Lavori, manuale che assicura una perfetta ritualità. È stata rispettata inoltre la promessa di celebrare ogni anno una tornata funebre nazionale. Gli eventi, svolti ogni novembre nel Tempio Grande (Nazionale) di Palazzo Vitelleschi, oltre ad onorare la memoria dei Fratelli e Sorelle passati all’Oriente Eterno, sono serviti a vivere insieme dei forti e commoventi momenti di ritualità e a ripristinare l’armonia turbata dall’infrangersi di un anello. La sezione dedicata al recupero della tradizione iniziatica contemplava infine la necessità di restituire pieno valore simbolico alla fondazione di una Loggia. Vi ha provveduto il Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro con un’apposita Balaustra, che detta precise regole di comportamento ispirate alla esigenza che la nascita di una nuova Officina sia un atto desiderato, condiviso e spontaneo, gemmazione auspicata dalla Loggia di appartenenza e non doloroso distacco. \ Capo II Struttura ed organizzazione della Gran Loggia D’Italia
autoreferenzialità della Gran Loggia d’Italia, il S.G.C.G.M. ha convocato i massimi Organi della Obbedienza per esaminare e discutere problemi concreti, nella convinzione che solo la partecipazione attiva di tutte le componenti territoriali, imprescindibili protagoniste della vita associativa, può garantire vera condivisione e autentico progresso. \ Il riordino normativo Nella prospettiva di un generale rispetto delle regole, che garantisca comportamenti uniformi da parte di tutti i Membri della Comunione, il S.G.C.G.M. ha dedicato gran parte del suo impegno a chiarire o disciplinare quegli aspetti dell’attività massonica che avevano ingenerato dubbi interpretativi e applicazioni diversificate. Per una migliore fruibilità degli indirizzi provenienti dal Governo centrale, è stato infine messo a punto un “Compendio normativo” che in termini chiari e riassuntivi descrive le procedure ed i comportamenti ai quali si devono attenere tutti i membri della Gran Loggia d’Italia ed in particolare i responsabili dell’Obbedienza nello svolgimento dei loro compiti istituzionali. Il Compendio pubblica infine, per facilitarne l’applicazione, i fac-simile di tutti i modelli in uso nella prassi amministrativa. \ Informatizzazione Notevoli progressi sono stati fatti in questo campo, nella prospettiva di perveni-
La collegialità Vero punto di forza del Governo dell’Ordine, che ha contribuito nel passato Triennio alla realizzazione di innumerevoli iniziative, è stato il metodo collegia-
re ad una completa informatizzazione delle procedure burocratiche, allo stato appesantite dai tempi tecnici per l’espletamento delle pratiche e dalla enorme mole di materiale cartaceo in circolazione. Si è, infatti, in attesa di collaudare un sistema di collegamento telematico tra centro e periferia, funzionale a tutti gli adempimenti compatibili, che dovrebbe snellire enormemente l’attività di tipo burocratico-amministrativo, riducendone altresì, notevolmente i costi.
bile sisma che ha colpito L’Aquila, sono stati visitati i luoghi terremotati per verificare la situazione e cogliere le necessità dei Fratelli e delle Sorelle coinvolti. Il S.G.C.G.M. ha prontamente riunito all’Oriente di Teramo due riunioni straordinarie dei MM.VV. e Presidenti di Camere Superiori della Regione Massonica Abruzzo, per stabilire le linee operative di un recupero di normalità e coordinare l’utilizzo degli aiuti messi a disposizione dalla Comunione. Nella di-
- 14.12.2007 R.L. Deneb all’Or. di Roma - 18.12.2007 R.L. Quasimodo all’Or. di Ragusa - 07.02.2008 R.L. Humanitas all’Or. di Treviso - 13.02.2008 R.L. Themis all’Or. di Verona
\ Centro Sociologico Italiano Dopo ripetuti tentativi è stato conferito un nuovo assetto normativo al CSI. La Commissione preposta è giunta all’elaborazione di una soluzione che prevede tre livelli associativi: il CSI nazionale, quelli periferici ed un “livello” intermedio, denominato “Conferenza regionale”, avente il compito di raccordare tra loro le istanze provinciali collegandole con il centro. Tutti gli Orienti e le Logge della Comunione sono stati coinvolti nell’esame e nella valutazione della proposta; durante la Grande Assemblea del 3 ottobre 2010 sono stati approvati i testi, che sono entrati immediatamente in vigore. Da questa data, che dal punto di vista associativo assume un’importanza storica, vengono eliminate le numerose difformità statutarie e si delinea una struttura uniforme in tutte le articolazioni della Comunione. Il Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro, pur soddisfatto del risultato, non ha mancato di segnalare che il testo approvato è perfettibile e che l’Obbedienza dovrà continuare nella ricerca delle soluzioni migliori. \ Fratellanza e solidarietà Sul piano della solidarietà in stato di emergenza, la Gran Loggia d’Italia ha dimostrato elevata sensibilità e nello stesso tempo capacità di rapido ed efficace intervento. All’indomani del terri-
sgrazia, la perdita - sia pure temporanea della prestigiosa sede storica dell’Oriente dell’Aquila, ha rappresentato un vulnus particolarmente sofferto dai FFrr. e SSrr. rimasti privi di Tempio e di sede e da tutti i Fratelli della Comunione, che hanno riguardato, in quel luogo-simbolo, un raro esempio di architettura massonica. Anche a questo si è posto rapido rimedio. Con la collaborazione attiva dei responsabili della Regione massonica Abruzzo e la disponibilità degli Organi deliberanti della Comunione, la Gran Loggia d’Italia ha finanziato l’acquisto, a costi decisamente inferiori a quelli di mercato, di una villa a pochi chilometri da L’Aquila, dove, in tempi brevi, è stato costruito un magnifico Tempio massonico, solennemente consacrato il 7 maggio 2010. Molti interventi a carattere filantropico sono stati effettuati dalla Gran Loggia d’Italia, sia all’interno dell’Obbedienza, sia a favore di Profani. \ Espansione delle strutture territoriali Largamente favorita la presenza massonica sul territorio, in un solco peraltro già tracciato, il passato Triennio ha visto una vera proliferazione di nuovi Orienti, Sedi, Templi, Logge, segno evidente dell’entusiasmo dei FFrr. e SSrr. della Comunione e della fiducia nella Gran Loggia d’Italia e nei suoi responsabili. Queste le fondazioni e acquisizioni in ordine cronologico: - 13.12.2007 R.L. Polaris all’Or. di Livorno
- 16.02.2008 R.L. Phoenix all’Or. di Udine - 21.03.2008 R.L. Libertà all’Or. di Bari - 06.06.2008 R.L. Verum Quaerere all’Or. di Prato - 07.08.2008 R.L. Augusto Murri all’Or. di Fermo - 13.10.2008 R.L. Dionisio all’Or. di Avola - 22.10.2008 Tempio e casa massonica all’Or. di Pisa - 18.11.2008 R.L. Chemin des Alpes all’Or. di Torino - 24.11.2008 R.L. Pitagora all’Or. di Crotone - 27.11.2008 R.L. Nives Anselmi all’Or. di Albenga - 09.01.2009 R.L. Francesco Crispi all’Or. di Ribera - 09.01.2009 R.L. Espero all’Or. di Palermo - 16.01.2009 R.L. Athena all’Or. di Cosenza - 23.01.2009 R.L. Logos all’Or. di Reggio Calabria - 20.02.2009 Tempio e casa massonica all’Or. di Pesaro - 06.03.2009 R.L. Pitagora 2008 all’Or. di Crotone - 18.03.2009 R.L. Triskeles all’Or. di Palermo - 29.05.2009 Tempio e casa massonica degli Orienti di Castrovillari e Tebisacce - 22.07.2002 Tempio e casa massonica all’Or. di Lucca - 17.10.2009 Tempio e casa massonica all’Or. di Catania - 30.10.2009 Tempio e casa massonica all’Or. di Fiume - 31.10.2009 R.L. Silenzio e Obbedienza all’Or. di Scalea
Indirizzo - 15.02.2008 Tempio e casa massonica all’Or. di Avellino
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all’Or. di Roma - 25.01.2010 R.L. Luigi Rizzo all’Or. di Milazzo
- 26.06.2010 Tempio e casa massonica all’Or. di Caserta \ Capo III Strumenti di studio e di approfondimento Il progresso della Gran Loggia d’Italia, che si realizza nella corretta interpretazione ed applicazione della tradizione muratoria, è affidato in gran parte alla capacità di accrescimento delle conoscenze in materia di Massoneria. Guidati da questo convincimento, il Sovrano
le massonico, accompagnata dal catalogo dell’esposizione “inimica vis”. La Gran Loggia d’Italia, con i suoi reperti museali, viene inserita in un prestigioso circuito internazionale massonico denominato A.M.M.L.A., che accoglie in seno al suo Consiglio di amministrazione il Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro. Nel mese di Agosto 2010 viene acquisito ad opera del S.G.C.G.M. l’archivio privato del Fr. Domenico Sanna, senese, per lungo tempo Presidente dell’Acca-
- 01.02.2010 R.L. Nazionale Aletheia all’Or. di Roma - 01.02.2010 R.L. Nazionale Ferdinando Palasciano all’Or. di Roma - 06.02.2010 Secondo Tempio all’Or. di Piombino - 13.02.2010 R.L. La Fenice all’Or. di Viterbo - 13.02.2010 R.L. Voltaire all’Or. di Valdarno - 13.02.2010 R.L. Sicilia all’Or. di Marsala - 13.02.2010 Oriente di Valdarno - 12.03.2010 Tempio e casa massonica di Vibo Valentia - 13.03.2010 Tempio e casa massonica di Cirò Marina - 21.03.2010 R.L. Luigi Morselli Or. di Pesaro - 01.04.2010 R.L. San Giovanni all’Or. di Bassano del Grappa - 02.04.2010 R.L. Sentieri Luminosi all’Or. di Roma - 07.05.2010 Tempio e casa massonica all’Or. de L’Aquila - 20.05.2010 R.L. Giordano Bruno all’Or. di Cagliari - 21.05.2010 R.L. Raffaele Bellantone all’Or. di Messina - 21.05.2010 R.L. Eraclito all’Or. di Locri - 21.05.2010 R.L. Saverio Fera all’Or. di Catanzaro - 29.05.2010 R.L. Fenix all’Or. di Prato - 29.05.2010 Tempio e casa massonica all’Or. di Mantova - 04.06.2010 R.L. Fenice all’Or. di Catania - 07.06.2010 R.L. Giordano Bruno all’Or. di Catanzaro - 07.06.2010 R.L. Di Tullio all’Or. di Satriano
Gran Commendatore Gran Maestro ed i suoi collaboratori hanno operato in due direzioni: valorizzare ciò di cui già dispone la Comunione ed acquisire nuovi documenti e informazioni. Il primo obiettivo è stato raggiunto con l’arricchimento della Biblioteca centrale con testi anche rari e pregiati, con la trasformazione della “Rassegna massonica” in una vera e propria rivista ad uso interno e con il potenziamento di “Offcinae” attraverso contenuti mirati, più espressivi di una “cultura massonica”, il miglioramento della grafica, da tutti molto apprezzata, e la distribuzione nelle Librerie specializzate di tutta Italia. Anche il secondo obiettivo può dirsi colto da risultati più che soddisfacenti: Nel gennaio 2009, con modica spesa, il S.G.C.G.M. riesce a recuperare un importante fondo di archivio. Si tratta dei registri generali di Matricole delle Officine e degli iscritti appartenenti alla Serenissima Gran Loggia d’Italia. I volumi, rilegati in mezza tela, sono manoscritti e risalgono ad un periodo compreso fra la fine del primo e l’inizio del secondo decennio del XX Secolo. L’attento lavoro di catalogazione e raccolta dei dati sta fornendo interessanti scoperte, utili alla ricostruzione della storia della Gran Loggia d’Italia. Il 10 Aprile 2010 viene inaugurata la mostra “Antimassoneria, 300 anni di storia”, rara selezione di documenti, libri, manifesti, periodici, giornali ed altro materia-
demia Chigiana, Membro Effettivo del Supremo Consiglio d’Italia nonché della Giunta Esecutiva della Gran Loggia d’Italia fin dall’epoca di Giovanni Ghinazzi. Il fondo contiene documenti e testimonianze di un periodo storico della Gran Loggia d’Italia che va dagli anni ’70 a metà anni ’80. Nello stesso periodo il G.M. della Serenissima Gran Loggia Nazionale d’Italia di R.S.A.A. consegna al Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro un Decreto con il quale dispone la confluenza dell’intera Obbedienza nella Gran Loggia affidando alla Gran Loggia d’Italia importanti reperti storici appartenuti a Saverio Fera, Sovrano Gran Commendatore del Supremo Consiglio d’Italia alle origini del 1908 e Vittorio Raoul Palermi suo successore nella Carica, prima e dopo l’avvento del Fascismo. \ Capo IV Cultura e comunicazione Compito fondamentale del massone è quello di diffondere nel mondo profano principi e valori della Libera Muratoria. Pienamente consapevole di questo dovere, fortemente condiviso da tutti i membri della Comunione, il S.G.C.G.M., validamente coadiuvato dagli Aggiunti e dai Delegati, ha attivato tutte le risorse disponibili per dare visibilità alla Gran Loggia d’Italia, facendo conoscere ed apprezzare gli elevati contenuti ai quali si dedica l’impegno massonico. A tale
- 05.11.2009 Tempio e sede all’Or. della Val di Nievole - 27.11.2009 R.L. Armonia all’Or. di Roma - 27.11.2009 R.L. Degli Antichi Doveri all’Or. di Roma - 27.11.2009 R.L. George Washington
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scopo è stata istituita una “Commissione eventi” per coordinare l’organizzazione delle più rilevanti ed impegnative manifestazioni. \ Convegni Lo strumento principale scelto per realizzare questo ambizioso progetto è stato quello dei convegni su tematiche di elevato interesse culturale, organizzati su tutto il territorio italiano, aperti ai profani e pubblicizzati a mezzo stampa. Tutte le iniziative, di alto livello, hanno
- 06.12.2008 Macerata – Stato e Massoneria - 31.01.2009 Paola (Cosenza) – Saverio Fera: per la restituzione del Rito Scozzese - 14.02.2009 Viterbo – Presenze templari a Viterbo - 21.02.2009 Ancona – Arte segreta segreti dell’Arte - 28.03.2009 Cremona – Spartiti segreti, itinerari esoterici e presenze massoniche nella musica - 09.05.2009 Torino – Testamento biolo-
- 02.07.2010 Selinunte (Trapani) – L’iniziazione, la donna e la Massoneria \ I giovani Per dialogare con la società ed accreditare i propri valori, la Massoneria non può trascurare il mondo giovanile, che soffre
riscosso grande successo ed hanno favorito la conoscenza della Obbedienza, accrescendone enormemente il prestigio. Questi gli eventi organizzati nel Triennio: - 10.0.2008 Sanremo – Il Graal ed il meraviglioso nell’immaginario collettivo - 16.05.2008 Corigliano Calabro – Massoneria e legalità - 06.06.2008 Villa Muscas – La Massoneria fra realtà e immaginario - 24.06.2008 Roma - Fibonacci, serialità numerica, la musica - 05.07.2008 Calascio (L’Aquila) - Calascio crocevia di storia, di immaginario, di simboli - 26.08.2008 San Leo (Rimini) – Il re del mondo e i misteri di Agartha - 10.10.2008 Bellaria Igea Marina (Rimini) - La ricerca del Graal all’alba del terzo Millennio. Aspirazione alla spiritualità e via iniziatica nell’età della globalizzazione - 11.10.2008 Bellaria Igea Marina (Rimini) – 1908-2008 Un secolo d’impegno per al difesa della libertà - 06.11.2008 Parigi – Antimassoneria in Europa - 08.11.2008 Parigi – L’eredità templare in Massoneria - 14.11.2008 Roma – Le piramidi dell’Antico Egitto - 26.11.2008 Sanremo – La nave, l’uomo, l’avventura: significati simbolici ed iniziatici del viaggio sul mare, dall’Odissea alla letteratura contemporanea
gico ed eutanasia - 23.05.2009 Cagliari – Massoneria, esercito e monarchia nel Regno d’Italia - 04.07.2009 Napoli – La rivoluzione e l’albero della libertà a 210 anni dalla Rivoluzione napoletana - 11.07.2009 Triora (Imperia) – E farai in modo che niuna strega viva. Lo spettro del nemico occulto nell’immaginario collettivo e la persecuzione di minoranze, diversi e culture non allineate - 25.08.2009 San Leo (Rimini) – Frammenti, storie e testimonianze sul mistero dei Catari - 10.10.2009 Siena – Come da tersa acqua fiamma splende. La donna e l’iniziazione nel mito e nella storia - 24.10.2009 Roma – Roma: 3000 anni di storia, 3000 anni di misteri - 22.11.2009 San Marino – Alla ricerca di una dimensione dello spirito fra Massoneria, tradizione iniziatica e nuove e antiche tendenze - 23.01.2010 Senigallia – Dalla tradizione al futuro. Attualità del pensiero massonico - 27.02.2010 Sanremo – Le stagioni dell’intolleranza - 17.04.2010 Ancona – La dimensione iniziatica del labirinto. La danza delle gru - 09.05.2010 Torino – ‘Tà eskata’, testamento biologico o eutanasia? - 15.05.2010 Cagliari – Problematiche del fine vita - 22.05.2010 – Cosenza – Squadra compasso tricolore: i massoni per fare l’Italia
esistenziali che alimentano il progresso umano. Queste le ragioni per le quali il Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro ha chiamato a raccolta le forze giovanili dell’Obbedienza per avviare un confronto interno permanente, amalgamando idee ed esperienze, con l’obiettivo di creare validi interlocutori e proposte moderne da “esportare” nell’ambiente profano. Sperimentata la positività dell’iniziativa nei tre meeting organizzati a Roma e a Bellaria, che hanno registrato l’entusiastica partecipazione di Fratelli e Sorelle al di sotto dei 40 anni e la feconda produzione di idee e proposte, si è costituita la Consulta dei Giovani Massoni, subito attivatasi per soddisfare le esigenze emergenti dell’Obbedienza. \ Musica e Arte figurativa Il rilievo attribuito dal S.G.C.G.M. a tutte le espressioni d’arte risponde al convincimento che l’artista sia dotato di “intuito di verità” e si collochi per questo in una posizione privilegiata - come riconoscono gli stessi Statuti - nella Comunione massonica, che fa della ricerca del vero, un obiettivo fondamentale. Nello stesso tempo, l’Arte è linguaggio universale e, superando ogni forma di pregiudizio, permette ai massoni di comunicare più agevolmente con il mondo profano e di proporre con immediatezza contenuti che difficilmente possono essere tra-
Indirizzo di una profonda crisi morale ed esistenziale all’origine di un diffuso nichilismo favorito dalla perdita delle motivazioni
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ha permesso di conoscere le qualità e potenzialità artistiche di numerosi Fratel-
ne del Concorso, che si svolgerà nel 2011. \ Comunicazione Nel corso di questo attivo Triennio, la visibilità della Gran Loggia è cresciuta enormemente, guadagnando in ambiente massonico e profano stima ed apprezzamento tali da farle assumere il ruolo di erede della tradizione massonica italiana, adeguata tuttavia alle esigenze dei tempi moderni per l’apertura laica e tollerante dimostrata. Il primo importante ricono-
tativa della Massoneria italiana, ma una “voce” qualificata e affidabile per impegno e livello culturale. In tutte le Regioni il S.G.C.G.M., spesso accompagnato dal Vicario, dagli Aggiunti e dai responsabili locali, ha tenuto conferenze stampa a ridosso di visite e convegni, che hanno stimolato l’interesse nazionale e locale, accreditando una immagine altamente positiva dell’Obbedienza. La TV di Stato e quella privata hanno trasmesso interviste e dibattiti nei quali è stato impegnato
li e Sorelle. A Cremona, con la collaborazione della Delegazione della Regione Massonica Lombardia e della Consulta, è stato organizzato il Convegno Spartiti segreti. Itinerari esoterici e presenze massoniche nella musica, il cui straordinario successo, anche in ambienti estranei alla Massoneria, ha confermato l’efficacia e l’apprezzamento del messaggio musicale. L’originale manifestazione è stata arricchita da esecuzioni “dimostrative” di alcuni dei relatori/musicisti e resta nella memoria attraverso la pubblicazione degli Atti del Convegno e di un CD delle musiche eseguite. Il S.G.C.G.M. ha dato vita anche alla Consulta delle Arti figurative, alla quale hanno aderito pittori, scultori, artisti dell’immagine che, da massoni, hanno messo a confronto le loro diverse esperienze ed emozioni. Per sperimentare la creatività della compagine degli artisti massoni e l’influenza che la Libera Muratoria ha potuto esercitare sul loro vissuto, l’Obbedienza ha indetto nel gennaio 2009 il 1° Concorso di Arti figurative proponendo la tematica della “Iniziazione”. Un successo di partecipazione e produzione artistica grazie alle 60 mirabili opere presentate, che sono state esposte a Bari, Padova, Reggio Calabria e infine a Roma, nella sede di Palazzo Vitelleschi, dove i partecipanti sono stati premiati, ex aequo, dal S.G.C.G.M. con Croce Greca di merito. In considerazione di questo successo il S.G.C.G.M. ha indetto la Seconda edizio-
scimento è venuto all’esordio del nuovo Gran Magistero, grazie alla pubblicazione, nel Rapporto Italia 2008 a cura di EURISPES, di una scheda di 15 pagine relativa alla Gran Loggia d’Italia. La prestigiosa Agenzia ha utilizzato i dati messi da noi a disposizione, per descrivere, in un preambolo obiettivo, la Massoneria e di seguito gli aspetti principali della nostra Obbedienza, che figura quindi espressione qualificata e qualificante della Libera Muratoria in Italia. L’ammodernamento del sito della Gran Loggia d’Italia ha permesso di trasmettere in tempo reale, via internet, le principali notizie ed eventi relativi alla Obbedienza. La stampa nazionale ed estera si è occupata frequentemente della Gran Loggia d’Italia e della figura del Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro, il quale ha rilasciato numerose interviste che gli hanno permesso di esprimere il suo punto di vista su argomenti di varia natura e di correggere le distorsioni sulla Massoneria in generale e la Gran Loggia in particolare. È stato dato inizio alla riorganizzazione dell’Agenzia di stampa della Gran Loggia d’Italia, con l’affidamento dell’incarico ad una giornalista professionista, coadiuvata da FFrr. e SSrr, oltre che da eminenti studiosi, che ha curato la promozione dell’immagine della Istituzione con risultati che attestano un deciso miglioramento dell’informazione. Le istituzioni e l’opinione pubblica riconoscono ormai nella nostra Obbedienza non solo una espressione rappresen-
il S.G.C.G.M. ed altri Gran Dignitari. Si ricorda, per tutte, la trasmissione Voyager su Canale 5 e Rai 3 sulla Storia. Nell’aprile 2009 è stato prodotto un documentario sull’antimassoneria dal titolo Tre secoli di diffidenza condotto dal S.G.C.G.M. e arricchito da filmati e interviste ai Gran Dignitari della Gran Loggia d’Italia. Il documentario è stato trasmesso in prima serata su un canale televisivo satellitare e riprodotto in DVD ad uso interno e per la eventuale diffusione. A novembre 2009 i lavori della IX Conferenza della Unione Massonica del Mediterraneo tenutisi a Venezia sono stati ripresi a trasmessi da una delle più importanti emittenti televisive francesi e riprodotto in un video. La maggiore conoscenza della Gran Loggia d’Italia è riuscita a vincere in molti settori la diffidenza ed il pregiudizio verso la Massoneria in generale. L’opinione pubblica, le Istituzioni civili, e anche quelle religiose, non condizionate da preconcetti, hanno così riconosciuto ed accettato la nostra Obbedienza. Lo confermano alcuni esempi: la presenza e l’intervento del Prefetto di Cosenza in occasione del Convegno del 22 maggio 2010 in occasione del 150° anniversario della Unità d’Italia; l’autorizzazione ad usare il logo ufficiale della Presidenza del Consiglio in tali manifestazioni, che avranno seguito nel 2011; l’accesso del S.G.C.G.M. alla TV di Stato (RAI 3), alle reti televisive private e ai principali organi di stampa nazionale ed estera.
smessi con la parola. Il maggior impegno è stato riversato nella Musica, con la costituzione della Consulta dei musicisti e musicofili, che raccoglie artisti massoni di tutte le Regioni. Il S.G.C.G.M. ha avuto cura di promuovere, in diverse occasioni di rilievo, uno spazio musicale che
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Consulta legale Cultura è anche la conoscenza del diritto e delle leggi, per garantire il corretto operare e, quando occorre, la efficace difesa della Massoneria e dei massoni. Per valorizzare questo settore, spesso trascurato dalla Obbedienza, il Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro ha istituito una Consulta legale permanente, formata da giuristi e operatori del diritto appartenenti alla Comunione. I compiti della Consulta, descritti in un apposito
ganismi associativi d’impronta laica. Tra i più prestigiosi ricordiamo il “COMALACE”, commissione che ha compiti di consulenza riguardo agli indirizzi politici della UE. Il Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro, in qualità di membro e unico rappresentante della Massoneria italiana, ha incontrato il Presidente della Commissione Europea Barroso, per rappresentare la situazione legislativa italiana in materia di associazioni e sollecitare soluzioni alternative a livello europeo.
Regolamento, riguardano la consulenza interna su tutte le questioni di carattere legale e la tutela della Gran Loggia d’Italia, nonché dei suoi membri che, per questa loro “appartenenza”, abbiano subito danni o pregiudizi. L’attività della Consulta è stata intensa e continua. Gli interventi più significativi sul piano generale sono stati la difesa della Obbedienza contro gli attacchi a mezzo stampa e la rivendicazione - tuttora in corso - dei diritti sull’immobile al piano ammezzato di Palazzo Vitelleschi, incautamente acquistato nel 2007. \ La Giustizia massonica Pure se doloroso da ammettere, bisogna prendere atto che, talvolta, i massoni violano le regole statutarie, venendo meno ai solenni Giuramenti prestati. L’Obbedienza in questi casi non può rimanere inerte, ma deve intervenire per riequilibrare l’ordine turbato. In questa ottica, si è ritenuto necessario riattivare il Tribunale Nazionale dell’ordine, previsto dall’art. 85 dello Statuto della Gran Loggia d’Italia, che nel corso del triennio ha celebrato sette processi. \ La Gran Loggia d’Italia in Europa Grazie all’impegno del Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro e alle eccellenti relazioni da lui tessute con il Grande Oriente di Francia, la nostra Obbedienza ha avuto ingresso nei più importanti consessi comunitari aperti ad or-
Le relazioni internazionali Per quanto riguarda l’Estero, il mandato ricevuto è stato speso per intensificare i rapporti con le Potenze massoniche amiche ed allargare le relazioni, specie a livello di Ordine, privilegiando il dialogo con le Obbedienze ad impronta più marcatamente liberale, in primis il Grande Oriente di Francia, che rappresenta la Comunione di maggior prestigio nell’area della Massoneria adogmatica. Le visite e conferenze a Parigi del S.G.C.G.M. e la stretta amicizia con il nuovo Gran Maestro del G.O.D.F., Pierre Lambicchi, ha fatto guadagnare alla Gran Loggia d’Italia grande prestigio e considerazione. Riconoscimenti e onorificenze sono stati attribuiti al S.G.C.G.M., stima e apprezzamento a tutti i suoi collaboratori. Risultato tangibile della cura nelle relazioni internazionali la serie di Trattati di Amicizia e cooperazione stipulati nel corso del Triennio: - 28.03.2008 Grande Oriente di Francia - 12.10.2008 Gran Loggia Massonica Femminile d’Italia - 12.10.2008 G.O.M.F.U. dell’Uruguay - 12.10.2008 Grande Oriente di Svizzera - 08.11.2008 Supremo Consiglio Femminile di Francia - 20.12.2008 Gran Loggia Mista di Francia - 07.11.2009 Gran Loggia Femminile di Francia - 18.12.2009 Grande Oriente di Polonia - 30.01.2010 Gran Loggia di Francia
- 20.02.2010 Gran Loggia Regolare del Montenegro - 20.02.2010 Grande Oriente del Lussemburgo - 06.03.2010 Grande Oriente del Belgio - 05.06.2010 Supremo Consiglio Femminile della Confederazione Elvetica
Indirizzo - 05.06.2010 Gran Loggia Femminile della Confederazione Elvetica
- 13.06.2010 Gran Loggia Unita del Libano. \ Analogo impegno è stato profuso nella partecipazione ai più importanti Organismi internazionali: - CLIPSAS: Il Ven.mo e Pot.mo Fr. Giovan Battista Curami viene eletto Vice Presidente Tesoriere. - Unione Massonica del Mediterraneo (UMM): Il 7 e 8 novembre 2009 la Gran Loggia d’Italia organizza a Venezia la IX Conferenza della UMM. - 12 e 14 giugno 2010 il Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro Luigi Pruneti, accompagnato in Delegazione dal Vicario Sergio Ciannella e dal Gran Maestro Aggiunto Marco Galeazzi, partecipa, a Beirut, alla X Conferenza della UMM. \ Il programma per il triennio Dicembre 2010 – Dicembre 2013
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positivi risultati dell’azione intrapresa dal Gran Magistero nel passato Triennio non lasciano dubbi sulla utilità degli indirizzi scelti e consigliano di proseguire su questa strada. La semplice continuità, con la messa in opera di tutte le iniziative ancora non portate a compimento, potrebbe esaurire la gamma delle possibili proposte programmatiche per gli anni
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futuri. Tuttavia, l’esigenza unanimemente condivisa di una maggiore penetrazione nel sociale, che permetta di trasferire in ambiente profano le acquisizioni della Libera Muratoria e la sensibilità che suscitano situazioni e problemi individuati nel corso del passato impegno istituzionale,
Manifesto suggeriscono di inserire nel programma che si sottopone alla Comunione alcuni
obiettivi di tipo metodologico, piuttosto che pratico. Senza immaginare progetti ambiziosi, ma allo stato irraggiungibili, il Gran Magistero ritiene che il potenziale di cui dispone l’Obbedienza possa essere meglio speso se si riuscirà a indirizzare le iniziative da avviare nel prossimo Triennio verso obiettivi prestabiliti, che si iscrivono in un più ampio progetto di irraggiamento dei principi massonici nel sociale. Un primo ambito d’intervento, conforme all’aspirazione dei liberi muratori di cooperare in maniera diretta e concreta al bene ed al progresso della collettività, è quello dell’arte e della cultura, dove solo in apparenza vi è libero accesso per tutti, ma in realtà il dominio è riservato a poteri politici ed economici, che accettano solo chi si piega a logiche di regime ed è disposto ad alienare la propria libertà creativa in cambio del successo. Lo slogan è “liberare l’arte, difendere la cultura”. Come si è detto, l’arte in tutte le sue espressioni, è divenuta una componente essenziale della realtà istituzionale e, come tale, va protetta e valorizzata. L’ostacolo da combattere è individuato in ogni forma di asservimento dell’artista, che comprime l’affermazione dei talenti e determina il deterioramento di quella eccellenza che ha sempre caratterizzato l’arte italiana. Le molteplici iniziative in campo artistico che prenderanno forma nel Triennio 2011-2013 dovranno avere le seguenti precise finalizzazioni:
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incoraggiare le giovani leve di artisti organizzando mostre, concerti, concorsi; favorire ogni forma di creatività libera offrendo opportunità di formazione artistica, di confronto di esperienze, di contatto con il pubblico; rivalutare artisti del passato e contemporanei, in particolare massoni, penalizzati dal mancato allineamento a forme di regime politico e ideologico, attraverso convegni, dibattiti, pubblicazioni, eventi artistici; diffondere il gusto estetico ereditato dalla
prossimo Gran Magistero, e sensibili al fenomeno di progressiva disaffezione degli italiani all’idea di una casa comune, i massoni della Gran Loggia d’Italia, in coerenza con i loro principi e tradizioni, hanno la possibilità, o meglio, il dovere di propagare, al di fuori di qualsiasi implicazione politica, il senso di attaccamento alla “Casa dei Padri” indicando particolarmente ai giovani quali sono le premesse storiche e culturali che hanno portato all’Unità d’Italia, quali le radici che accomunano gli italiani e, al di
ricchissima tradizione italiana attraverso studi, pubblicazioni, mostre; promuovere la scoperta di bellezze naturali e artistiche mediante ricerche, itinerari turistici, raccolta di dati. Sul versante culturale: - correggere, in controtendenza rispetto ai luoghi comuni e alle falsificazioni, ogni forma di alterazione della verità, attraverso studi, conferenze, pubblicazioni, interventi; - rivalutare l’interesse per la storia attraverso interventi rivolti a docenti e studenti, premi, borse di studio, pubblicazioni, testi scolastici; - promuovere contatti con gli ambienti universitari per organizzare corsi di approfondimento su materie, come la Massoneria, il simbolismo, le scuole iniziatiche; - diffondere la conoscenza della Massoneria attraverso convegni, incontri, seminari, dibattiti; - progettare la fondazione di una Libera Università della Gran Loggia d’Italia, riconosciuta dallo Stato, per lo studio di discipline umanistiche (storia, filosofia, sociologia, antropologia, etc.); - partecipare ufficialmente a Mostre e Fiere a carattere culturale (es.: Salone del Libro di Torino). Il secondo ambito d’intervento potrebbe riguardare il recupero della “italianità”. Prendendo spunto dalle Celebrazioni dei 150 Anni dall’Unità d’Italia, che cadono proprio il primo anno di attività del
là di ogni retorica, quali i vantaggi del vivere insieme una stessa storia, in un clima di reciproca conoscenza e tolleranza. Gli strumenti da utilizzare in questa opera di “propaganda italiana”, resa ancora più indispensabile dalla insensibilità al problema da parte delle Istituzioni e dalla contestazione sempre più diffusa della Unità d’Italia, considerata da taluni un disvalore, sono i convegni, gli studi, le pubblicazioni, le proposte, la riscoperta delle eccellenze che ha prodotto e tuttora produce il nostro Paese. Nell’ottica di recupero dei valori di una identità italiana, la Gran Loggia d’Italia, espressione della Massoneria Liberale, nella ricerca di una migliore armonia fra i popoli e fra le generazioni, non può dimenticare che nel mondo attuale, globalizzato e disarmonico, è assente la voce dell’Europa Unita. Per raggiungere questo obiettivo, al quale si dovrà dedicare la massima attenzione, la Gran Loggia d’Italia sarà impegnata sempre più a favorire le relazioni con le Potenze massoniche europee che si prefiggono gli stessi obiettivi. \ Alcune priorità Tra le iniziative da porre in essere nel prossimo Triennio, che completano il programma contenuto nel “Manifesto” e lo integrano nel rispetto delle medesime linee d’indirizzo, il Gran Magistero, che si ripropone al giudizio della Comunione, ritiene necessario dare la precedenza
ad alcune attività - di seguito indicate alle quali attribuisce particolare rilievo. \ Lavoro massonico Difendere lo specifico iniziatico, carattere essenziale della Gran Loggia d’Italia, attraverso indicazioni e suggerimenti che, nel rispetto dell’autonomia e creatività delle Logge, favoriscano la pratica ritualistica e simbolica indispensabile alla formazione del massone. Completare la revisione dei Rituali (2° e 3° Grado).
reagendo con immediatezza ed efficacia, propagandando la vera essenza della Istituzione e distinguendo la Gran Loggia d’Italia da ogni forma di deviazione. Oltre ad operare attraverso azioni legali, stampa e televisione, sarà attivato ogni utile mezzo di comunicazione (mostre, interventi, convegni, seminari) sia in Italia che all’Estero. Si prevede inoltre il potenziamento del sito sull’antimassoneria, con l’eventuale apertura di uno sportello presso la Gran Segreteria Generale, che fornisca risposte ufficiali, articolate e do-
gia d’Italia con l’acqui-sizione di testi, documenti, oggetti d’interesse massonico. Istituire la figura di un Bibliotecario e di un Direttore del Museo. Studiare la possibilità di aprire al pubblico sia il Museo che la Biblioteca.
Stesura di Rituali ufficiali da adottare in occasione di: Solstizi, Matrimonio massonico, Funerale massonico, Adozione dell’Ulivello, Inaugurazione e Consacrazione di un Tempio. Fornire alle Logge un supporto musicale da usare come “colonna d’armonia” durante i lavori rituali. Attivare una Conferenza permanente dei Delegati Magistrali per assicurare, attraverso incontri periodici di studio e approfondimento, la formazione di massoni esperti, preparati a svolgere il ruolo di elevata responsabilità che ad essi viene affidato. \ Comunicazione Riorganizzare l’Ufficio Stampa, creando una rete nazionale di corrispondenti e finalizzando le iniziative. Per migliorarne la visibilità, ampliare la presenza della G.L.D.I. sulla rete Internet, avvalendosi di collaborazioni professionali. \ Proselitismo Fornire strumenti idonei ad incrementare un proselitismo di qualità e a coinvolgere in questa attività, pericolosa ma fondamentale, tutti i Fratelli e Sorelle della Comunione, indipendentemente dal loro Grado, quali attori e non spettatori della “vicenda” massonica. \ Difesa della Massoneria Combattere gli attacchi antimassonici
cumentate, sulle ricorrenti accuse, sia a profani che a fratelli. \ Giustizia Attuare una riforma della Giustizia massonica improntata alla semplificazione, mediante la istituzione di un giudice unico per Ordine e Rito, e la unificazione delle regole processuali, nel rispetto dei diritti fondamentali degli accusati. \ Assetto normativo Portare a termine la riforma dello Statuto della Gran Loggia d’Italia che permetta l’elezione effettiva dei Gran Dignitari, Grandi Ufficiali e Gran Consiglieri, previa sostituzione dell’attuale criterio di modifica statutaria. Definire con norma integrativa dello Statuto della Gran Loggia d’Italia il ruolo ed i compiti del Gran Magistero e dei suoi singoli Membri. \ Solidarietà Incrementare e strutturare l’attività filantropica e di solidarietà della Obbedienza, specie in ambito sanitario, nelle forme più corrette e ordinate, rispettose delle regole massoniche, con il sostegno della Loggia nazionale di solidarietà “Ferdinando Palasciano” cui è affidato il compito di coordinamento e iniziativa. \ Biblioteca e Museo Arricchire il patrimonio della Gran Log-
nazionale, semplificando le procedure e collegando il movimento finanziario al sistema burocratico amministrativo. \ Segreteria Migliorare l’informatizzazione delle procedure amministrative per rendere più semplice e funzionale il collegamento telematico tra Centro e Periferia. Trasferire su supporti informatici quella documentazione cartacea che non ha valore storico e non richiede pertanto la conservazione in originale.
Indirizzo \ Economia Ottimizzare la gestione della Tesoreria
\ Estero Coltivare i rapporti con le Obbedienze amiche attraverso la funzione attiva dei “Garanti di Amicizia”. Allargare le relazioni internazionali alle Potenze massoniche dell’Africa e dell’America Latina. Continuare a partecipare attivamente alla vita associativa dei principali organismi internazionali (CLIPSAS, Unione Massonica del Mediterraneo) facendo valere le proprie specificità, in particolare l’ammissione dell’elemento femminile. La Gran Loggia d’Italia, grazie alla sua lunga e collaudata esperienza in materia, è in grado di testimoniare della insostituibilità in Loggia delle Sorelle e di affermare con l’esempio la indifferibilità di una revisione storica di una ingiusta ed anacronistica discriminazione.
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, UnitĂ d Italia
La nascita del Tricolore Aldo A. Mola
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, Unità d Italia
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l tricolore non nacque a Reggio Emilia il 7 gennaio 1797. Fu ideato a Bologna nel 1794 da Giambattista De Rolandis, nativo di Castell’Alfero (Asti), e da Luigi Zamboni, studenti universitari a Bologna. La vera genesi del tricolore è stata lasciata nell’oblio nei discorsi pronunciati a Reggio Emilia il 7 gennaio 2011, proprio quale viatico della rievocazione del 150° dell’unità d’Italia, o, più correttamente, della legge in forza della quale il 14 marzo 1861 Vittorio Emanuele II assunse il titolo di re d’Italia per sé e i successori. Come il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha detto, bisogna studiare la storia. Infatti. Ricordiamo allora che a proporre il tricolore a Reggio Emilia, a bande orizzontali anziché verticali, fu il segretario della Repubblica Cisalpina, Giuseppe Compagnoni (Lugo di Romagna, 1754-Milano, 1833): un prete spretato. Ordinato sacerdote nel 1778, dedito alle lettere più che ai Vangeli, Compagnoni svestì l’abito e diresse riviste. Mutando poche parole, voltò in repubblicani i sermoni devozionali. Esule a Parigi spacciò per autentiche Le veglie di Tasso, tradotte in varie lingue. Sulla fine si prese beffa anche dei patrioti italioti e come il celebre Ausonio Franchi (don Giuseppe Bonavino) si riconciliò con la chiesa, “ che ha sì gran braccia/ e volentier perdona”. Va però aggiunto che Giuseppe Compagnoni non inventò il tricolore di suo. Lo scopiazzò. Si era occupato del processo a carico di Giuseppe Balsamo, Cagliostro, morto per disperazione o ammazzato a bastonate nel pozzetto del
1794, De Rolandis e Zamboni: la vera storia della nascita del tricolore a Bologna carcere di San Leo. Dalle dichiarazioni di Cagliostro don Compagnoni apprese che nel rito egizio il celebre Mago usava nastri verdi bianchi e rossi. Di quei tre colori furono anche i nastri con i quali la madre e la zia di Luigi Zamboni approntarono le “rosette” o “coccarde” distintive della rivoluzione che i due studenti sognarono di organizzare per liberare Bologna dal malgoverno papale. Furono arrestati il 16 novembre 1794. Anche la domestica di Casa Savioli, Gertrude Nazzari vedova Pirrotti, incalzata dagl’inquirenti dichiarò che le fettuccine delle rosette erano verdi, bianche e rosse e che quella verde era “di cavallino” (Atti processuali, vol. I, p.577). Zamboni venne trovato impiccato nella misera cella (18 agosto 1795). De Rolandis, atrocemente torturato, disse che il verde era stato scelto proprio per non scimmiottare il tricolore francese. Gl’italiani volevano e sapevano fare da sé. Condannato all’impiccagione senza che avesse fatto nulla di grave, De Rolandis fu prima evirato e poi condotto al supplizio. Poiché il nodo non si strinse “a dovere” e rimaneva penzoloni agonizzante, il boia gli saltò sulle spalle. Così il 23 aprile 1796 venne strozzato alla Montagnola
di Bologna il vero ideatore del Tricolore. Il 9 ottobre 1796 Napoleone consegnò alla Legione Lombarda la prima bandiera con i colori della coccarda di Zamboni e De Rolandis. Poco dopo, il 18 ottobre, la congregazione dei magistrati e deputati della Confederazione cispadana richiesti di decidere i “colori nazionali per formare una bandiera” risposero: verde, bianco e rosso. Lo stesso giorno a Modena vennero assegnati alle coorti bandiere tricolori, come ha documentato il gen. Oreste Bovio. Quello di Reggio Emilia è dunque il quarto o quinto tricolore in ordine di tempo... Nel Messaggere Torinese del 23 febbraio 1848 Angelo Brofferio, cospiratore, scrittore e patriota, ricordò che sul punto di morire il clinico Giuseppe De Rolandis, nipote di Giambattista, egittologo insigne a fianco di Champollion e medico personale di Carlo Alberto di Savoia, “contemplò un’ultima volta la coccarda tricolore” e la raccomandò al re. Iniziata la guerra d’indipendenza dall’Austria, il 23 marzo il re di Sardegna la adottò quale “bandiera tricolore italiana”. Suo figlio, Vittorio Emanuele duca di Savoia, distribuì personalmente i tricolori ai reggimenti in partenza per la guerra. Il tricolore divenne bandiera del Regno d’Italia il 25 marzo 1861: dieci giorni dopo le legge approvata il 14 marzo e tre giorni dopo pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia. La coccarda di De Rolandis è un cimelio prezioso, sempre in attesa di piena valorizzazione. P.8: La Sala del Tricolore a Reggio Emilia; p.25: Copia della prima bandiera italiana.
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Storia
Luigi Pruneti
Note sul registro di classe La scuola primaria, la condizione dei maestri , e la massoneria nell Italia del secondo Ottocento 26
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ll’indomani dell’unificazione il Regno d’Italia era costretto ad affrontare la battaglia più difficile, quella contro l’ignoranza e l’analfabetismo. La situazione appariva sconvolgente, tanto che la celebre definizione di Metternich sembrava più che fondata, l’Italia, nel 1861, era una babele di idiomi e di dialetti, di usi e di costumi; l’unico comun denominatore di questo puzzle peninsulare era l’analfabetismo che in quell’anno comprendeva il 74,7 % della popolazione1. Su un numero di abitanti stimato attorno ai 22.000.0002, di cui il 69,7% era costituito da contadini e pastori3, oltre 16.000.000 non sapevano né leggere, né scrivere, gli insegnanti erano pochi e le scuole ancora meno4. Lo strumento legislativo a disposizione del Paese per affrontare un simile problema era la Legge Casati, entrata in vigore nel Regno di Sardegna il 13 Novembre del 1859. Era una normativa che a molti sembrava inadeguata, Cattaneo la definì “indegna del tempo e dell’Italia”, così mal fatta “che non [conveniva] porvi mano per rappezzarne solamente la decima parte”5. Non piaceva nemmeno a Cavour che, uso a guardare all’Europa, lamentava la lacunosità della legge per quanto concerneva l’insegnamento tecnico e professionale, fanalino di coda dell’istruzione superiore6. Considerata da Luigi Einaudi “na1 Dieci anni più tardi il tasso di analfabetismo era sceso al 78,7%, nel 1881 era calato al 62%, ma pochi anni di scuola scadente lasciavano dietro di se un numero incredibile di semianalfabeti e fortissimo era l’analfabetismo di ritorno. T. TOMASI, L’istruzione di base nella politica scolastica dall’Unità ai nostri giorni, in AA. VV. L’istruzione di base in Italia (1859 – 1977), Firenze 1978, p. 13. 2 Istituto Centrale di Statistica, Sommario di statistiche storiche dell’Italia 1861 – 1975, Roma 1976, tav. 3, p. 11. 3 Ibidem, tav. 8, p. 14. 4 Il numero delle unità scolastiche riportato dal Sommario di Statistiche storiche per il decennio 1861 – 1871 è di 2066, mentre i docenti sono calcolati in 36.323. Ibidem, tav. 33, p. 44. 5 T. TOMASI, L’istruzione di base nella politica scolastica dall’Unità ai nostri giorni … cit, p. 3. 6 Mentre il liceo era considerato una scuola ponte fra l’insegnamento universitario e l’istruzione elementare, la scuola tecnica era giudicata il prolungamento di questa ultima.
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poleonica”, la “Casati” rispondeva alla mentalità conservatrice delle classi dominanti sabaude secondo la quale una società solida e stabile, doveva contemplare una rigida suddivisione dei ruoli e delle funzioni sociali. L’istruzione, la conoscenza, la cultura erano opzioni riservate agli strati alti della popolazione, a coloro che avrebbero costituito l’apparato dirigenziale e burocratico La scarsa importanza attribuita dalla legge Casati all’istruzione tecnica e professionale è dimostrata anche dal numero degli articoli che le sono dedicati: solo 43, contro gli 84 che si occupano del liceo. T. TOMASI, La scuola secondaria nella politica scolastica dall’Unità ai nostri giorni, in AA.VV. La scuola secondaria in Italia (1859 – 1977), Firenze 1978, p. 3.
dello stato, per gli altri occorreva, soprattutto, una buona educazione religiosa che li rendesse cristiani timorati di Dio e sudditi fedeli del re. Per avere un’idea della scarsa importanza attribuita all’educazione primaria, si pensi che la Legge Casati comprendeva 379 articoli di cui solo 58 normavano quest’ultima7. La scuola di base era suddivisa in maschile e femminile, rurale e urbana che a loro volta si articolavano in due distinti bienni: l’inferiore e il superiore8; il 7 T. TOMASI, L’istruzione di base nella politica scolastica dall’Unità ai nostri giorni … cit, p. 3 8 Solo con la Legge Coppino del 15 Luglio 1877 la scuola elementare fu portata a cinque anni, pur lasciando la suddivisione fra scuo-
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primo era teoricamente obbligatorio, in realtà l’obbligatorietà era vanificata dal fatto che i genitori inadempienti non subivano alcuna conseguenza, inoltre i comuni, che erano responsabili dell’istruzione primaria, avrebbero provveduto “in proporzione alle loro facoltà e secon-
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do i bisogni dei propri abitanti”9, ciò significava che in diversi casi, invocando i magri bilanci, i municipi non aprivano scuole e gli alunni erano costretti a compiere distanze proibitive per partecipare alle lezioni10. L’anno scolastico era abbastanza lungo, giacché iniziava il 15 Ottobre e terminava il 15 Agosto ma le assenze erano numerosissime. Un’inchiesta promossa nel 1864 dal ministro Natoli, le imputava all’indolenza e al sospetto nutrito dai genitori nei confronti della scuola, sospetto che spesso era alimentato dai parroci. In realtà lo stesso rapporto metteva in luce come all’origine dell’abbandono scolastico vi fosse il lavoro minorile nell’agricoltura e le migrazioni stagionali dei pastori verso gli alpeggi: “Le famiglie dei montanari emigrano in gran numero dai loro quartieri d’inverno, e si recano sula inferiore (I, II e III) e superiore (IV e V). La legge, inoltre, fissava l’obbligo scolastico dai sei ai dieci anni e con l’articolo 4, stabiliva l’entità delle ammende per sanzionare i genitori inadempienti. A. GIAMPIETRO, Il libro di testo in Italia. Un secolo di scuola (1850 - 1950), Bari 2002, p. 13, n. 14. 9 Ibidem, p. 5. 10 L. MAZZOCCHI D. RUBINACCI, L’istruzione popolare in Italia dal Secolo XVIII ai nostri giorni, Milano 1975, p. 24.
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gli alti monti a pascolare greggi e quindi i fanciulli sono nell’assoluta impossibilità di frequentare le scuole. Gli agricoltori poi mettono a profitto l’opera dei loro figli e delle loro figlie anche di tenera età per i lavori campestri e per la custodia degli armenti”11. I programmi comprendevano per il biennio inferiore l’insegnamento religioso, la lettura, la scrittura, l’aritmetica
ne erano circa 35.00014. Ma chi erano i maestri della nuova Italia e, soprattutto, come venivano reclutati? Per esercitare la professione d’insegnante bisognava acquisire, attraverso esame, la patente d’idoneità. Il percorso di formazione più comune era rappresentato dalla “scuola normale”, alla quale si potevano iscrivere i maschi che avessero compiuto 16 anni e le femmine con un’e-
elementare e nozioni sul sistema metrico; nel superiore erano aggiunte regole della composizione, la calligrafia, la tenuta dei libri, la geografia elementare, l’esposizione dei fatti più notevoli della storia nazionale, cognizioni di scienze fisiche e naturali “applicabili principalmente agli usi ordinari della vita”. Inoltre, nelle scuole maschili erano insegnati “i primi elementi della geometria ed il disegno lineare” e in quelle femminili “i lavori donneschi”12. La didattica era rudimentale ed improntata essenzialmente sulla ripetizione mnemonica, tanto è vero che nel 1888 con i programmi ispirati da Gabelli, si cercò di “liberare la scuola dai caratteri mortificanti di verbalismo, astrattezza, mnemonismo e di frustrante abitudine alla ripetizione regolistica”13. I protagonisti di questa didattica e della lotta all’analfabetismo furono gli insegnanti che all’indomani dell’Unificazio-
tà non inferiore ai 15 anni. Occorreva, inoltre, possedere idoneità fisica e sicura moralità. La “scuola normale” durava sei mesi più quattro, in tal modo, dopo aver superato la prova finale si conseguiva l’abilitazione per insegnare nella scuola inferiore, con un altro semestre di frequenza si poteva accedere all’insegnamento nel biennio superiore. La scuola materna non era considerata e dunque per operarvi era inutile un titolo di studio15. Solo nel 1880 diventerà obbligatoria, per gli insegnanti dei giardini froebeliani, una “patente d’idoneità di grado inferiore”, requisito esteso, nove anni dopo, a tutti gli insegnanti delle scuole materne sovvenzionate dallo Stato16. Gli aspiranti maestri erano giovani che provenivano di solito dai ceti meno abbienti o idealisti desiderosi di contri-
11 G. TALAMO, La scuola dalla Legge Casati alla inchiesta del 1864, Milano 1960, pp. 205 – 274. 12 B. INCATASCIATO, Leggere, scrivere, far di conto, per una storia della didattica nella scuola elementare, in AA. VV. L’istruzione di base in Italia (1859 – 1977), Firenze 1978, p.130. 13 Ibidem, p. 139.
14 Istituto Centrale di Statistica, Sommario di statistiche storiche dell’Italia 1861 – 1975 … cit, tav. 33, p. 47. 15 La situazione della scuola materna con l’Unificazione invece di migliorare peggiorò. Gli asili di stampo aportiano, infatti, diminuirono di numero e decaddero da un punto di vista didattico. Nel 1862 erano solo 2887, con circa 70.000 iscritti. T. TOMASI, L’educazione infantile tra Chiesa e Stato, Firenze 1978, p. 67. 16 G. GENOVESI, L’educazione prescolastica, in AA. VV. L’istruzione di base in Italia (1859 – 1977), Firenze 1978, p. 39.
buire alla redenzione delle plebi. Scrisse, a tal proposito, Giovanni Maria Bertini17, relatore nel ’65 al Consiglio Superiore della P.I. di un progetto di riforma18: “in generale, coloro che entrano in questa carriera o sono ecclesiastici o sono giovani appartenenti ad una classe intermedia fra l’assoluta indigenza e l’agiatezza”19. Insieme a loro vi erano molti docenti improvvisati, uomini e donne matu-
un regio ispettore. Pertanto in provincia di Bologna diversi maestri erano “pestaroli di farmacia, barbieri, calzolai, falegnami, negozianti falliti, poliziotti giubilati” 21 e le maestre “ex suore, zitelle, vecchie”22. Nel Sud molte maestre erano, addirittura, analfabete23 e nei territori dello Stato della Chiesa le uniche materie che le aspiranti insegnanti dovevano conoscere erano “la dottrina cattolica
neò come il problema fosse comune a tutta la scuola: anche il corpo docenti della secondaria versava in condizioni critiche. “L’insufficienza degli insegnanti nelle classi secondarie […] – egli scriveva – è uno dei mali più gravi di cui è travagliata l’istruzione pubblica [consi-
re che pensavano di arrotondare i magri proventi insegnando a leggere e scrivere. Alcuni di loro non avevano alcuna idoneità giacché, per fare lezione nelle scuole estive20, era sufficiente il benestare di
e la conoscenza dei lavori femminili”24. D’altra parte lo stesso Bertini25 sottoli-
derando anche] che abbiamo nelle nostre scuole un picciol numero di insegnanti buoni, un numero grandissimo di mediocri, ed un numero grande di inetti”26. Se la qualità degli insegnanti non era entusiasmante, le loro condizioni erano di gran lunga peggiori ad iniziare dalle retribuzioni che, in taluni casi, erano inferiori alla metà di quelle di un uscere o di un bidello. L’articolo 341 della legge Casati, infatti, stabiliva i minimi salariali attraverso una tabella che individua-
17 Cfr. G. M. BERTINI, Dell’istruzione pubblica in Piemonte, in Per la riforma della scuola media, Torino 1889. 18 T. TOMASI, La scuola secondaria nella politica scolastica dall’Unità ai nostri giorni … cit, p. 5. 19 G. VIGO, Il maestro elementare italiano nell’Ottocento, in “Nuova Rivista Storica”, gennaio – aprile 1977, p. 2, nota 75. 20 M. P. TANCREDI TORELLI, Gli esclusi dall’alfabeto iniziative di scuole per adulti, in AA. VV. L’istruzione di base in Italia (1859 –
1977), Firenze 1978, pp. 93 - 94. 21 S. ULIVIERI, I maestri, in AA. VV. L’istruzione di base in Italia (1859 – 1977), Firenze 1978, p. 173. 22 Cfr. T. TOMASI, Dalla scuola normale al liceo magistrale, in “Scuola e città”, 1965, nn. 6-7, p. 425. 23 A. ARCOMANNO, La formazione del maestro in Italia, in “Riforma della scuola”, 1977, n. 3, p. 29, nota 9. 24 S. ULIVIERI, I maestri, in AA. VV. L’istruzione di base in Italia (1859 – 1977) … cit, p. 173. 25 Ci si riferisce alla relazione presentata nel 1865 al Consiglio Superiore della Pubbli-
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ca Istruzione. 26 G. GENOVESI, I professori, in AA.VV. La scuola secondaria in Italia (1859 – 1977), Firenze 1978, p. 37.
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va 24 livelli diversi, dettati dalla tipologia di scuola (urbana o rurale), dal grado d’istruzione elementare (superiore o inferiore), dal sesso dell’insegnante (maestro o maestra)27. Ciò comportava che ad un maestro di una scuola urbana superiore era garantito uno stipendio minimo di 1.200 lire, mentre dalla parte opposta della scala retributiva una maestra di una scuola rurale inferiore percepiva 333 lire; si consideri che lo stipendio medio di un bidello era di 700 lire e di un inserviente di 600 più l’alloggio. Ai salari da fame si aggiunga lo spettro della disoccupazione. L’incarico di maestro durava di norma tre anni e poteva essere sempre rinnovato o cessare; rari erano i casi in cui il comune assumeva il maestro o la maestra a vita28. Gli insegnanti, inoltre, potevano essere licenziati in tronco in virtù l’articolo 337 della Casati che dava facoltà al sindaco di sospendere dall’insegnamento coloro che avessero dato “occasione di scandalo o di disordini gravi nel comune”29. Per que27 S. ULIVIERI, I maestri, in AA. VV. L’istruzione di base in Italia (1859 – 1977) … cit, p. 171. 28 Ibidem. 29 Ibidem, p. 169.
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sti motivi i maestri si trovavano sempre sotto scacco e, in molti casi, erano costretti a sottostare a condizioni umilianti: accettare stipendi ancor più bassi dei minimi previsti dalla legge, prestare la loro opera gratuita per lavori di manovalanza, diventando nel tempo libero scrivani, segretari, sacrestani, necrofori, personale adibito a custodia, pulizia, manutenzione. Erano di fatto “privi di tutela giuridica, senza garanzia di lavoro, di libertà culturale, di associazione, costretti […] a spostarsi da un capo all’altro della Penisola […] ed alla mercé di presidi, direttori, ispettori, provveditori, ministri, enti locali, quando non della mafia, del sottogoverno, delle trame politiche locali”30. La loro considerazione da parte dell’opinione pubblica è evidenziata da un episodio che ebbe protagonista Giosuè Carducci. Il Poeta, nel 1869, in qualità di Consigliere comunale a Bologna, si adoperò per ottenere la gratuità assoluta della scuola elementare. La sua proposta passò con 32 voti a favore e tre contrari. Alcuni suoi colleghi però, per soppe30 R. FORNACA, Scuola e politica nell’Italia liberale, in AA. VV. Scuola e politica dall’Unità ad oggi, Torino 1977, pp. 40 – 41.
rire ai mancati introiti delle tasse scolastiche, proposero di ripianare la perdita diminuendo lo stipendio agli insegnanti. Carducci indignato replicò che per il bene dell’Italia il maestro di villaggio doveva cessare di essere “un buffone” ma diventare, come in Prussia, il primo cittadino del paese31. Cocci di terraglia fra vasi di ferro, sottoposti ad ogni sorta di ricatto, minacciati, sbeffeggiati, timorosi di perdere quel tozzo di pane che garantiva loro la sopravvivenza, quando tutto andava bene i maestri rischiavano, se avevano lunga vita, di finire i loro giorni nell’indigenza giacché non era prevista per loro nessuna forma pensionistica. Solo con la legge del 16 Dicembre 1878 fu istituito un monte pensione “il quale benché sussidiato anche con i contributi degli insegnanti, liquida pensioni da fame mentre col cospicuo patrimonio che presto si costituisce concede mutui favorevoli a vari enti”32. Ciò spiega perché fino alla fine del secolo vi siano vecchi insegnanti co31 U CIPOLLONE, Giosué Carducci massone, Napoli 1957, p. 8. 32 T. TOMASI, L’istruzione di base nella politica scolastica dall’Unità ai nostri giorni … cit, pp. 12 – 13.
stretti all’accattonaggio, come avvenne a Milano ove un anziano maestro fu arrestato, processato e condannato per siffatto reato33. Tale era dunque la situazione dei maestri ma quella delle maestre era peggiore, costrette, come erano, a subire angherie
Storia ancor più pesanti a causa della loro condizione di donne. Sole, estranee al paese dove venivano chiamate ad esercitare, erano viste con sospetto, condannate a subire avances, bersagliate dalla maldicenza e dalla calunnia, esaminate ogni giorno con gli occhi del pregiudizio: la loro vita era, in diversi casi, un calvario. Affermava a tal proposito Labriola “Laggiù nei paesi del mezzogiorno, dove una signora per bene non si mostra in pubblico senza compagnia e dove una giovinetta di buona condizione vista sola per le strade è causa di scandalo, le giovani maestre sono oggetto continuo d’insidia, apparendo caccia lecita e buona preda”. Qualche anno più tardi ripeteva Marcati: “Le maestre... Non parliamo di loro! Alle disgrazie che accompagnano i maestri debbono aggiungere, se giovani, le melensaggini dei loro adoratori e padroni, e il delizioso piacere di starsene di continuo sole e tappate in casa per non dar esca alle numerose lingue di fuoco […]; se vecchie, devono difendere il pane quotidiano dalle continue insidie […] sgobbando da mane a sera […] e distribuendo sorrisi ed inchini a destra e a manca per propiziarsi i numi tutelari del palazzo Comunale o della Canonica”34. Numerose sono le storie infami di vessazioni che hanno avuto per protagoniste le maestre ed è emblematico, a tal proposito, il caso di Italia Donati che si concluse in modo tragico, come ha narrato in uno splendido libro Elena Gianini Belotti35. Italia Donati apparteneva ad una poverissima famiglia di Cintolese in Val di 33 S. ULIVIERI, I maestri, in AA. VV. L’istruzione di base in Italia (1859 – 1977) … cit, p. 177. 34 G. A. MARCATI, Il problema dei problemi, in “Diritti della scuola”, 1900, n. I p. 2. 35 E. GIANINI BELOTTI, Prima della quiete. Storia di Italia Donati, Milano 2003.
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le voci che la dipingono come una scostumata, nuova amante e concubina del sindaco. Innumerevoli sono le angherie, le umiliazioni alle quali è sottoposta, ma Italia resiste, deve mandare i soldi a casa, a quei disgraziati dei suoi congiunti che vivono nella miseria più nera. Intanto i discorsi sul suo conto si spargono, raggiungono Lamporecchio, Cintolese e altri borghi della Val di Nievole. Infine, il linciaggio morale giunge al culmine quando una mano anonima scrive al prefetto, accusandola di aver abortito per nascondere il frutto della propria colpa. Italia cerca di discolparsi, di rivendicare la propria innocenza, si rivolge all’ispettore scolastico, il celebre professor Renato Fucini, al consiglio comunale, al Procuratore del Re, chiede, addirittura, di essere sottoposta a visita medica, per di-
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Nievole, zona allora malsana per la presenza di acquitrini e paludi. Suo padre Gaspero, ammalato di febbri, oltre a coltivare un po’ di terra faceva lo “scopaio”, produceva cioè granate, lavorando le piante palustri. Italia era una ragazza intelligente, desiderosa di riscatto e con un sogno nel cassetto: aiutare con lo stipendio la famiglia. Grazie all’interessamento del Maestro Baronti, riuscì ad ottenere la licenza all’insegnamento e già questo provocò da parte dei compaesani commenti malevoli, roridi d’invidia e di ostilità: non era accettabile per la ristretta mentalità contadina, che uno di loro ambisse a mutare, sebben di poco, la condizione sociale. Per Italia, comunque, il sogno si avvera: è assunta finalmente nella scuola mista di Porciano, una frazione di Lamporecchio, in provincia di Pistoia. È
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accompagnata nella sede di destinazione dal fratello Italiano, che per l’occasione si procura un barroccio. Giungono a Porciano e qui sono accolti dal sindaco Raffaello Torrigiani, un signorotto locale, celebre per la sua immoralità, tanto da convivere con due donne dalle quali ha avuto figli. Il sindaco impone alla maestrina che ha appena vent’anni ed è una bella ragazza di vivere in casa sua, nella villa di Papiano. Italia cerca di opporsi, di schernirsi, ma non c’è niente da fare, lui è il padrone, è colui che le assicura il posto di lavoro, è colui che potrà rinnovarle l’incarico. Inizia così il suo calvario. E’ immediatamente oggetto di velenosi apprezzamenti, di calunnie di ogni genere. Torrigiani fra l’altro si vanta con gli amici di aver scambiato già qualche bacio con la ragazza e ciò alimenta
mostrare l’infondatezza dell’accusa. Tutto, però, sembra inutile, non vi sono amici per lei, fuorché pochissime eccezioni come il brigadiere Frediano Giannini che cerca in qualche modo di aiutarla o il medico e il farmacista che elogiano la
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sua serietà e ricordano come si sia prodigata durante un’epidemia di colera; sono voci isolate che a niente servono contro la diffamazione montante. Infine, il 30 Aprile del 1886, il Consiglio comunale di Lamporecchio che, nel frattempo aveva costretto il sindaco Raffaele Torrigiani alle dimissioni, per chiudere la vicenda, decide di trasferire la maestra Italia Donati nella frazione di Cecina, mentre l’insegnante in servizio colà si sarebbe spostata, volente o nolente, a Porciano. La faccenda è risolta?! Nemmeno per sogno, gli abitanti di Cecina si ribellano alle decisioni del consiglio comunale e qualcuno pensa bene di mandare diverse letterine anonime ad Italia. “Nella prima […] si diceva che a Cecina non si volevano gli avanzi dei porcianesi, che si tenessero lassù le loro puttane. Nelle altre si rifiutavano i tegamacci già ripassati, si pretendevano ragazze oneste, e perché mai avrebbero dovuto prendersi una svergognata famosa in tutta la contrada, e guai a lei se avesse osato venire a insudiciare anche il loro paese, perché glielo avrebbero impedito con ogni mezzo, e caso mai le avrebbero reso la vita
molto amara”36. È troppo, Italia decide di farla finita, si suicida il 1 Giugno del 1886, gettandosi nella ricolta del mulino di Rimaggio. La trovano la mattina seguente con il suo grembiule rosso da insegnante. Prima di morire ha scritto un testamento ove rivendica la propria illibatezza, cosa che i medici accertano durante l’autopsia. A quel punto da sgualdrina diventa martire, al suo funerale partecipa una gran folla e il caso diventa di rilevanza nazionale. Il Corriere della Sera invia sul luogo della tragedia il “redattore viaggiante” Carlo Paladini e dona la lapide, in pietra nera di Viggiù, per la sepoltura dell’infelice e il Ministero della Pubblica Istruzione stabilisce di versare un sussidio alla famiglia d’Italia. Pochi giorni più tardi, il 25 Giugno, Matilde Serao pubblica sul “Corriere di Roma” un articolo col quale denuncia altri casi di maestre vittime della protervia, del pregiudizio, della cattiveria. Diventa nota così la storia di Giovanna Errico, morta di stenti durante un viaggio di trasferimento a piedi e quella dell’insegnante che si è uccisa gettandosi dal campanile della chiesa parrocchiale, 36 E. GIANINI BELOTTI, Prima della quiete … cit, p. 205.
mentre un’altra ha cercato la fine ingerendo dei vescicanti. Maestre ghettizzate, umiliate, sfruttate, sottoposte ad ogni sorta di brutalità, vi è la vicenda di quella uccisa dal tifo, fra l’indifferenza generale, il cui corpo è ritrovato in avanzato stato di putrefazione, a una settimana dal decesso o la via crucis di un’altra insegnante contro la quale si accanì un intero paese, ripagando il suo desiderio d’insegnare con ogni sorta di sopruso, morì di tisi, senza che nessuno le recasse almeno un bicchiere d’acqua. Il martirio di Italia Donati non fu, comunque, inutile, quel dramma consumatosi nel pistoiese commosse la Penisola ed operò una notevole sensibilizzazione nei confronti della condizione degli insegnati elementari, la strada da compiere era ancora lunga ma il processo per dare dignità a questa categoria di docenti era ormai in corso. Molti di loro, specie nelle città del Nord, avevano ormai percezione della loro importanza culturale e sociale, erano preparati didatticamente e intellettualmente37, par37 F. PRUNERI, Oltre l’alfabeto. L’istruzione popolare dall’Unità d’Italia all’età giolittiana: il caso di Brescia, Milano 2006, p. 82.
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tecipavano al dibattito sull’educazione e alimentavano le prime forme di associazionismo fra docenti. In questo processo di redenzione della classe magistrale italiana la libera muratoria giocò un ruolo fondamentale38. Nel corso del secondo Ottocento si batté con ogni mezzo per incentivare l’impegno dello Stato nell’istruzione di base; alcuni suoi esponenti di spicco come Carducci, Crispi, Coppino, Amari, “erano fra i pochissimi in Italia ad aver capito che per radicarsi e per durare il regno aveva bisogno di una strategia culturale”39. Fin dal 1867, ad esempio, Luigi Frapolli aveva scritto che “l’istruzione popolare è la massima delle beneficenze ed è nello stesso tempo opera efficace di progresso”40. Sempre nel 1867 uscì il libretto Frammassoneria in dieci domande e risposte 38 D’altra parte la massoneria aveva mostrato da sempre un forte interesse per le scienze dell’educazione, come attesta il numero elevato dei pedagogisti libero muratori, fra i quali, Johann Heinrich Pestalozzi. Cfr. T. TOMASI, Massoneria e scuola dall’Unità ai nostri giorni , Firenze 1980, p. 13; M. MORAMARCO, Nuova Enciclopedia Massonica, Vol. II, Reggio Emilia 1989, p. 275. 39 A. A. MOLA, Giosue Carducci scrittore, politico e massone, Milano 2006, p. 340. 40 U. BACCI, Libro del Massone italiano, Roma 1922, p. 179.
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ad istruzione del popolo dove si affermava che era di fondamentale importanza per il Paese incrementare gli studi scientifici, favorire la nascita di una lingua universale, fondare scuole per lavoratori d’ambo i sessi, difendere la laicità della scuola pubblica, incrementare le scuole femminili41. L’interesse della massoneria sulle questioni scolastiche è dimostrata anche dall’impegno costante dei deputati massoni nel difendere l’istruzione pubblica e nel potenziarla, fra questi durante il governo Rattazzi si misero in luce il ministro della Pubblica Istruzione Michele Coppino, “fratello molto apprezzato da Carducci”42, e Michele Amari che il 10 Giugno del 1867 chiude il suo intervento alla Camera con una formula tipica della massoneria scozzese, è un chiaro appello ai Fratelli presenti a far gruppo per difendere una linea di condotta e un ideale comune: “Signori, noi non vi domandiamo nessun privilegio: la libertà che intendiamo è questa, non ci mettiamo che due condizioni: la responsabilità della probità ed il vicendevole affetto fraterno. Questa è la libertà che fin da principio io invocava, la libertà che ha per inse41 A.A. MOLA, Storia della massoneria in Italia dall’Unità alla Repubblica, Milano 1976, pp. 117 - 118 42 A. A. MOLA, Giosue Carducci scrittore, politico e massone … cit, p. 214.
gna il mio Dio e il mio diritto”43. A partire dal 1870, il coinvolgimento non diminuisce, anzi l’attenzione per la scuola pubblica cresce tanto da essere posta fra i punti prioritari del programma libero muratorio. La “Rivista della massoneria italiana”, da poco nata, ospita numerosi articoli sull’argomento e il 31 Luglio del 1870 Federico Campanella, rivolgendo un messaggio alle logge, invitava a promuovere scuole popolari, asili infantili, società cooperative di mutuo soccorso, librerie circolanti, giornali e “tutto quanto può servire all’educazione e al benessere delle classi disagiate”44. D’altro canto l’impegno nel campo educativo era statutario, come veniva esplicitato dalle Costituzioni del 187445, tanto è vero che il Gran Maestro Mazzoni diramò una balaustra in cui esortava le officine ad aiutare le scuole pubbliche. Egli suggeriva una serie di interventi diversi, calibrati sulle possibilità economiche delle logge: adottare scuole modello, elargire borse 43 Cfr. A. A. MOLA, Michele Coppino e la fondazione dello stato laico, in “Rivista massonica”, Dicembre 1978, n. 9. 44 C. BEZZI, Orientamenti della massoneria intorno al 1870, in AA. VV. Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861- 1878), Milano 1973, p. 308 e segg. 45 T. TOMASI, Massoneria e scuola dall’Unità ai nostri giorni … cit, p. 23.
di studio per gli alunni più poveri, distribuire gratuitamente libri, carta, inchiostro ed altro materiale didattico, attivare bibliotechine rurali, distribuire premi in denaro ai maestri più abili e poveri e doti alle maestre nubili46. Il Grande Oriente d’Italia fornisce un supporto alla scuola anche per via indiretta, agendo cioè sul mondo del lavoro,
ad abbattere trono e altare, per edificare una repubblica mondiale senza Dio, morale e legge49. In Fatti e argomenti intorno alla Massoneria e altre società segrete, un presunto capo massonico indica l’obiettivo principale della setta nella gioventù e nell’infanzia50. L’arma adoperata per adescare le categorie più deboli sono la scuola pubblica, la letteratura
da “Civiltà cattolica”, l’importante periodico dei Gesuiti, sempre in prima linea nel fustigare la scuola pubblica e nel demonizzare la massoneria. Per i redattori della rivista “Il fine dei “ fratelli tre puntini” era palese: comunismo e socialismo. Per far questo essi usavano infiniti mez-
con la creazione delle fratellanze artigiane volte non solo a migliorare le condizioni di vita ma anche ad incidere sul livello d’istruzione47, ciò avvenne pure in luoghi decentrati, al pari dell’Isola d’Elba, dove la Fratellanza artigiana si adoperò nel campo dell’educazione scolastica48. La Chiesa che da sempre aveva avuto il monopolio dell’educazione considerava la scuola pubblica uno dei peggiori mali del periodo e i polemisti antimassonici, la reputavano un’invenzione dei turpi figli della vedova, uno strumento bieco e devastante, volto a corrompere i fanciulli, a scristianizzare la società,
depravata, di autori come Dumas, Hugo, Balzac e addirittura la musica piegata anch’essa a corrompere le coscienze: “discesa dal cielo a conforto dei miseri mortali serve ad accompagnare parole e fatti schifosi, come avviene nella Violetta, nel Trovatore e in altre opere”51. In un’opera uscita sempre nel 1862 Storia dottrina e scopo della Frammassoneria, si ritorna sugli stessi temi52. Più tardi gli argomenti non cambiarono se non nell’associare al massone l’ebreo suo compagno di nequizia53. Identici assunti erano affrontati
zi che andavano dal diluvio “di pubblicazioni, all’educazione, usata come un grimaldello per scardinare le coscienze. Ecco perciò i licei, ecco la promiscuità dei sessi; ecco gli esercizi “ginnastici” “tutti sconci a sfrontare le fanciulle”54. Già le donne! Per la Chiesa, la massoneria mirava proprio a loro, al fragile gentil sesso che facilmente poteva cadere nella rete settaria. La condizione della donna era, in effetti, uno degli argomenti che preoccupava di più il governo del Grande Oriente d’Italia. Se era vero, come scriveva la “Rivista della massoneria italiana”55, che “le condizioni sociali della donna costituiscono il vero barometro della civiltà di
46 C. BEZZI, Orientamenti della massoneria intorno al 1870 … cit, pp. 332 -333. 47 L. PRUNETI, La tradizione massonica scozzese in Italia, Roma 1994, p. 30; cfr. L. MINUTI, Il Comune artigiano di Firenze della Fratellanza artigiana d’Italia (1861 – 1911), Firenze 1911. 48 L. PRUNETI, La tradizione massonica scozzese in Italia … cit, p. 34.
49 L. PRUNETI, La sinagoga di satana. Storia dell’antimassoneria 1725 – 2002, Bari 2002, p. 56 e segg. 50 Fatti e argomenti intorno alla massoneria e altre società segrete, Genova 1862, p. 113. 51 Ibidem, pp. 100 – 101. 52 Storia dottrina e opere della Frammassoneria per un Frammassone che non lo è più, Bologna 1862, p. 195. 53 Massoneria, socialismo, ebraismo note storiche contemporanee di un Italiano, Chias-
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so 1888, p. 229 e segg. 54 L. PRUNETI, La sinagoga di satana. Storia dell’antimassoneria 1725 – 2002 … cit, p. 60. Sull’argomento cfr. V. GNOCCHINI, Almanacco massonico. Fatti di cronaca italiana 1725 – 1994, Firenze 1994, 20 Dicembre 1884. 55 Ci si riferisce ad un articolo uscito nel 1882.
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un paese”, nella Penisola di civiltà ve ne era ben poca, la donna era emarginata, considerata un essere inferiore e pertanto inadatta a svolgere talune professioni, come dimostrò il caso di Lidia Poet esclusa dall’albo degli avvocati perché donna56. Questo caso di ordinaria emarginazione provocò Il 2 Giugno del 1884 un’interrogazione parlamentare da parte di Bertani che un anno dopo ritornò sull’argomento denunciando gli ostacoli che le ragazze affrontavano nell’iscriversi al ginnasio e le difficoltà nelle quali versavano le scuole femminili. Sulla stessa linea era un altro illustre parlamentare massone Bovio che nel dicembre del 1886 affermò: “Io credo che pochi paesi quanto l’Italia abbiano trascurato l’educazione della donna. Noi ufficialmente non abbiamo fatto nulla per essa, salvo le classi elementari, cioè l’istruzione inferiore che abbiamo reso obbligatoria, ma non abbiamo istituito niente di proprio per l’educazione ulteriore della donna”57. La battaglia della massoneria a favore dell’istruzione, ad iniziare da quella femminile, sortì effetti notevoli: all’inizio del 56 T. TOMASI, Massoneria e scuola dall’Unità ai nostri giorni … cit, p. 70. 57 Ibidem.
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Novecento il tasso di analfabetismo era sceso al 48,5%58, la condizione degli insegnanti era complessivamente migliorata ed era aumentato notevolmente il numero delle maestre, la cui figura s’identificava con l’immagine del riscatto e dell’indipendenza femminile. Nel 1901 sorse inoltre U.M.N. (Unione Magistrale Nazionale) la prima grande associazione sindacale di categoria, nata e sviluppatasi grazie all’apporto massonico e che, di conseguenza, aveva un programma che s’identificava con quello del Grande Oriente: scuola popolare, obbligatoria, statale e soprattutto laica e quindi “neutrale, rispettosa della libertà di coscienza così del maestro come degli alunni, ugualmente lontana dalla concezione ateistica della vita come di quella confessionale; scuola per il sapere e non per il dogma, lasciato esclusivamente all’insegnamento domestico e chiesastico”59. Alla cerimonia inaugurale dell’U.N.M. partecipò il Fratello Nunzio Nasi, ministro della Pubblica Istruzione, duran58 Istituto Centrale di Statistica, Sommario di statistiche storiche dell’Italia 1861 – 1975 … cit, tav. 7 b, p. 14. 59 T. TOMASI, Massoneria e scuola dall’Unità ai nostri giorni … cit, p. 152.
te il cui dicastero, nel 1903, fu approvata la prima legge sullo stato giuridico dei maestri. Un altro ministro, Leonardo Bianchi, scozzesista e fondatore della Comunione di Piazza del Gesù60, appoggiò la richiesta dell’Unione dell’avocazione allo Stato dell’istruzione elementare, un sogno per tanti maestri, un sogno che divenne realtà il 4 Giugno del 1911 con l’approvazione della legge 486, dovuta ai massoni Daneo e Credaro61. Con questo atto il momento pioneristico e drammatico del ricatto, degli insegnanti minacciati, sbeffeggiati, timorosi di essere licenziati per le intemperanze di un sindaco o per maldicenze senza volto era chiuso, non vi sarebbero più state storie tragiche come quella di Italia Donati e di Giovanna Errico, il maestro diventava un dipendente dello Stato e come tale era protetto e rispettato. La massoneria, dunque, aveva assolto una funzione importante, lottando per la scuola pubblica, per la dignità dei docenti, per l’indipendenza dell’insegnamento, aveva contribuito a “fare gli Italiani”, a creare una coscienza nazionale, a garantire a tutti la possibilità di affrancarsi dalla piaga dell’analfabetismo. Eravamo ormai nell’anno della guerra di Libia, l’età risorgimentale sembrava lontanissima e la massoneria conosceva nuovi avversari e una profonda crisi. Già nel 1906, la sua creatura, l’U.M.N. si era spaccata, molti insegnanti ne erano usciti e avevano fondato una nuova associazione su basi cattoliche la “Niccolò Tommaseo” che accusava l’Unione di “tradire la coscienza religiosa e politica dei propri iscritti [… e di essere] schiava della massoneria”62. 60 Leonardo Bianchi, membro della R.L. “Napoli”, all’Or. di Napoli, fu uno dei parlamentari massoni che nel 1908 votò contro la “mozione Bissolati”; insignito del 33° Grado del Rito Scozzese antico ed Accettato, seguì in quello stesso anno Saverio Fera e, nel 1910, fu fra i fondatori della Serenissima Gran Loggia d’Italia. Due anni più tardi fece parte della delegazione italiana alla Conferenza dei Supremi Consigli di Washington che sancì la regolarità del Supremo Consiglio di Saverio Fera. L. PRUNETI, Annali Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. 1908 – 2010, a.c. di A.A. MOLA, Bari 2010, p. 35, 44, 55. 61 T. TOMASI, Massoneria e scuola dall’Unità ai nostri giorni … cit, p. 153. 62 Ibidem.
popolare dall’Unità d’Italia all’età giolittiana: il caso di Brescia, Milano 2006. L. PRUNETI, Annali Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. 1908 – 2010, a.c. di A.A. MOLA, Bari 2010. L. PRUNETI, La sinagoga di satana.
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Fu una delle prime condanne dell’Istituzione, di lì a poco si sarebbero aggiunte quelle assai più pesanti dei nazionalisti e dei socialisti, il secolo breve era iniziato con la sua corsa affannata verso orizzonti neri come la pece, la massoneria ne sarebbe stata la prima vittima e di lei si sarebbe cercato di occultarne l’opera ad iniziare da quella che aveva scritto sul registro di classe. ______________ Bibliografia A. ARCOMANNO, La formazione del maestro in Italia, in “Riforma della scuola”, 1977, n. 3. U. BACCI, Libro del Massone italiano, Roma 1922. G. M. BERTINI, Dell’istruzione pubblica in Piemonte, in Per la riforma della scuola media, Torino 1889. C. BEZZI, Orientamenti della massoneria intorno al 1870, in AA. VV. Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (18611878), Milano 1973. U. CIPOLLONE, Giosué Carducci massone, Napoli 1957. Fatti e argomenti intorno alla massoneria e altre società segrete, Genova 1862. R. FORNACA, Scuola e politica nell’Italia liberale, in AA. VV. Scuola e politica dall’Unità ad oggi, Torino 1977. G. GENOVESI, I professori, in AA.VV. La scuola secondaria in Italia (1859 – 1977), Firenze 1978. G. GENOVESI, L’educazione prescolastica, in AA. VV. L’istruzione di base in Italia (1859 – 1977), Firenze 1978.
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Scienza, massoneria e letture proibite tra Piemonte e Liguria Parte I Davide Arecco
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erso un’Inquisizione di Stato: censura e libri scientifici Sul finire del Cinquecento, anche nell’Italia nord-occidentale, la cultura popolare – nutrita di magia cerimoniale e credenze astrologiche – e quella scientifica iniziarono entrambe a reagire verso gli angusti limiti della scolastica aristotelica e delle istituzioni ecclesiastiche che l’avevano elevata a proprio baluardo dottrinario. I libri censurati dagli indici cinquecenteschi, sia romani sia spagnoli, in breve tempo divennero letture interessanti (e cautamente raccomandabili), in particolare per coloro i quali si seppero aprire alle suggestioni, di matrice europea, del libertinage érudit. Nuclei ereticali si segnalano in Alessandria già all’inizio del Seicento, influenzati tanto dal protestantesimo ginevrino quanto dalla tradizione sociniana e dalla pubblicistica veneta di allora. Polemiche anti-curiali vanno a braccetto con il rifiuto della vuota filosofia peripatetica, nemica mortale tanto della vecchia magia quanto della nuova scienza. Non è un caso, in proposito, che il vigore inquisitoriale della Chiesa le contrasti entrambe, avvertendo in esse una minaccia per
il mondo cattolico e per le prerogative delle gerarchie temporali di Roma. Tra il XVI ed il XVII secolo – nel Ducato sabaudo e nella Repubblica di Genova, specie nei territori confinanti tra i due Stati – un mondo in precedenza prevalentemente oralizzato tende ad aprirsi ai misteri della Galassia Gutemberg. Naturale che la cosa facesse paura a cardinali, vescovi e semplici preti, gelosi custodi della controriforma post-tridentina.1 Verso la metà circa del Seicento, inoltre, prela-
ti e porporati non sempre incontrarono nel potere politico l’aiuto che speravano. Nel 1648, in Piemonte, la reggente Maria Cristina di Savoia auspicò in materia di misure censorie una revisione, da parte statale, delle ingerenze religiose, vincoli meno severi e criteri meno repressivi. La proposta non rimase lettera morta per molto e la sua attuazione fu tra le prime cause del nuovo corso, a tutti i livelli, che il Piemonte si apprestò a vivere a partire dalla metà del secolo XVII, in campo librario e non solo.2 A partire dal 1675, una volta salito sul trono Vittorio Amedeo II, inizia a perdere terreno nel Ducato di Savoia l’azione della censura ecclesiastica (a favore di quella statale, in linea pertanto con le politiche dell’assolutismo seicentesco). Sotto la spinta delle iniziative diplomatiche anti-papali, si rimodellano in profondità i decreti emanati da Carlo Emanuele II nel 1649 e con Vittorio Amedeo II il Piemonte sceglie, consapevolmente, di muoversi in direzione di un irrigidimento nei confronti del Sant’Uffizio e delle sue pretese di azione giurisdizionale. Da parte di dotti e scienziati, si ricuperano gli autori della letteratura regalista ed anti-aristotelica, come Sarpi, Galileo, Grozio, Bodin, Gerson, Pufen-
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dorf, Descartes, Gassendi e Leibniz.3 Se i libri di Hobbes e Spinoza rimangono ancora proibiti in ragione del loro materialismo,4 in epoca tardo-barocca la scienza sperimentale comincia pertanto comunque a farsi strada anche nella roccaforte sabauda, preparandovi le più radicali trasformazioni settecentesche. Qualche volta i risultati raggiunti dagli scienziati subalpini varcano i confini patrii e trovano la considerazione di colleghi illustri nella Repubblica delle Lettere. È il caso ad esempio di Giovanni Caccia, medico torinese, di cui Antonio Vallisneri (massimo biologo post-galileiano della Repubblica di Venezia, in odore pure lui di libertinismo) apprezzò menzionandola la Descrizione di un vero mostro di un fanciullo nato in Florano, villa della diocesi d’Ivrea in Piemonte, il 16 giugno 1719, con tavole di rame.5 Vallisneri sti-
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mava a tale punto Caccia da considerarlo un allievo diretto e da affidargli la compilazione del catalogo della propria collezione naturalistica, come attestato dalla missiva vallisneriana a Gastone Giorgi del 6 marzo 1720.6 Il professore padovano fornì a Caccia un adeguato ausilio teorico, da impiegarsi in sede museografica, assegnandogli da leggere diversi libri, contenenti descrizioni e criteri di storia naturale, affinché il clinico piemontese potesse comprendere appieno connotazioni e significato collezionistico delle serie e dei pezzi che andavano catalogati nel Museo. Caccia aiutò anche Vallisneri a raccogliere tavole di mostri, rarità e mirabilia.7 Il patavino, nella sua Istoria della generazione (stampata dal veneziano Gabriello Hertz, nel 1721) definì Caccia «un giudiciosissimo, e dottissimo medico di Torino».8 Nella stessa opera, egli
accluse (nel capitolo V della parte terza) la Descrizione del piemontese.9 Quest’ultimo, anche grazie al prestigio recatogli dalla collaborazione con Vallisneri e dalle entrature presso i ministri di casa Savoia – suo padre era stato medico dei Reali piemontesi – fu promosso a lettore di botanica presso lo Studio di Torino. La scienza, tra Sei e Settecento, si candida quindi, pure in Piemonte, al ruolo di chiave di volta, in vista di un deciso quanto necessario ammodernamento della società. Rivendica una funzione esplicita per sé, dialoga con i sovrani, ottiene una agognata e progressiva legittimazione. Non vuole cambiare il mondo, solo migliorarlo, ed in tale ottica guarda ad essa il potere politico, coscio dell’importanza di un nuovo e ulteriore instrumentum regni. Religione dei moderni: la scienza seicentesca venne riletta – e, volendo, la si può tutt’ora interpretare – anche sotto questa veste. Il XVIII secolo, forte anche in Piemonte dello spirito illuministico, porta a maturazione queste esperienze e ne accresce la portata culturale rivoluzionaria. Si ripensi solo alle oscure vicende, mai veramente approfondite in sede storiografica, dell’abate di Casale Monferrato Ignazio de Giovanni, il quale, nel cuore del regno sardo, elude i non inflessibili controlli doganali e tra il 1760 e il 1761 si riesce a procurare dalla Svizzera, attraverso i canali delle normali poste, oltre cento libri in massima parte all’Indice. Tra quelle letture proibite erano presenti romanzi d’amore, trattatistica scientifica e persino pornografia. La circolazione di quei testi era senz’altro facilitata dalle false date apposte sui frontespizi (tipografi e librai erano abilissimi nel camuffare i reali contenuti di un’opera, allo scopo di assicurarle così diffusione) e dai taciti permessi della stessa corte sabauda. Né è da escludere, in termini aprioristici, che de Giovanni fosse in contatto con i Liberi Muratori attivi nel casalese, in ciò sfidando i divieti pontifici dell’epoca.10 Nuova scienza, reti massoniche e Illuminismo Un sussidio istituzionale assai forte alla penetrazione, nel nord-ovest italiano, dei nuovi libri di argomento scientifico e politico venne dalla presenza, crescente, delle logge massoniche, convertite nel Settecento al sapere newtoniano e soven-
te in contatto con gli agenti del mercato clandestino dei testi proibiti: stampatori spregiudicati, deisti che guardavano all’Olanda, liberi pensatori, menti anticlericali, intellettuali non conformisti. Il principe e gran condottiero d’eserciti Eugenio di Savoia – muovendosi fra Torino e Vienna, Sacro Romano Impero ed Inghilterra – promosse la traduzione di manoscritti bruniani e d’altro materiale di carattere panteistico e esoterico-occulto.11 Fu lui, insieme ai fedeli John Toland e Pietro Giannone, a rimettere in circolo la Clavicula Salomonis, forse la più maledetta di tutte le raccolte magiche del Medioevo latino,12 nonché diverse altre opere di indirizzo ermetico. Lo scenario ed il respiro, come si vede, sono europei ed universali, mai locali. Anche la storiografia deve tenerne conto, pena altrimenti lo svilire l’importanza di contesti e idee.13 Per una ricognizione come quella che ci accingiamo a intraprendere è altresì necessario – quasi obbligatorio – saper unire o fare interagire in maniera euristica più piani di analisi, combinando nello specifico la storia della scienza, della stampa, della cultura e dell’esoterismo. Solo una lettura intertestuale e dei protagonisti e delle loro iniziative, del resto, può restituirci tutta la pienezza di intersezioni storiche ora manifeste (ma poco studiate) ora più sotterranee (nascoste, cioè, come gli arcani esoterici della stessa Libera Muratoria e della sapienza magico-ermetica, rinata a nuova vita durante la «crisi della coscienza europea» per mano di deisti e libertini come Lenglet du Fresnoy). La Massoneria settecentesca veicolava messaggi di libri scientifici e illuministici, che sovente vennero colpiti dalla condanna della censura ecclesiastica. Nel 1734 toccò all’Essay lockiano, a dire
il diplomatico e intellettuale genovese, un convinto seguace dei philosophes di Francia, stimatissimo dai contemporanei della Repubblica delle Scienze, ma altresì homo nullius ope-
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di Voltaire la migliore giustificazione filosofica, alla luce dall’empirismo inglese, della scienza di Newton,14 ancora a fine Settecento tra le letture di Vittorio Amedeo III, il monarca che riconobbe in via ufficiale la nascita della Reale Accademia delle Scienze di Torino. Nel 1759, poi, fu la volta del trattato De l’esprit di Hélvétius, riportabile all’obbedienza massonica di quelli che sarebbero stati, negli anni di Napoleone, gli Idéologues. In quello stesso anno venne posta all’Indice l’Encyclopédie parigina. Fu un duro colpo anche per il patrizio ligure e finissimo geometra Agostino Lomellini, dal 1748 amico di d’Alembert e poco dopo traduttore entusiasta del Discours préliminaire. Forse anche questo episodio contribuì a ridurre al silenzio tipografico
ris.15 L’abbinamento scienza-massoneria faceva frequentemente scattare, nel XVIII secolo, diversi provvedimenti di natura censoria. L’apparizione a stampa di un’opera scientifica proveniente da un ambiente massonico o comunque vicino alla Libera Muratoria poteva presto trasformarla, in virtù di ciò, in lettura proibita. La proibizione degli Inquisitori mirava a colpire la libertas philosophandi di scienziati e filosofi italiani, a limitarla il più possibile oppure ad annullarne i margini d’azione. Se a ciò si aggiungeva la militanza tra le colonne del Tempio, il libro era doppiamente ‘pericoloso’. Se a volte la Massoneria era solo un canale di transito, un luogo di smercio per letture scientifiche su cui era stato posto il veto, altre volte l’autore stesso poteva essere un libero muratore. In tale caso egli si esponeva al rischio in misura notevole e la Chiesa, nel colpirlo, colpiva anche l’Istituzione latomica, prendendo si può dire due piccioni con una fava. Condannare un libro scientifico come lettura la cui frequentazione era proibita poteva peraltro anche rendere interessante quel medesimo testo, almeno agli occhi di chi si arrischiava a procurarselo, per portarlo sous le manteau. Spesso, come si è detto, il binomio scienza-massoneria poteva trasformarsi in una triade, con l’Illuminismo a completare la terna. In sintesi e non senza tenui forzature, la cultura tecnico-scientifica procurava nuove certezze, laiche e moderne, a un credo che non esitava a confrontarsi
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con il saeculum, talora coraggiosamente e pagando in prima persona. Quel credo, più o meno profano, filtrava nello spazio sacro delle logge, per alimentare viaggi iniziatici all’insegna di un rinnovato sapere, oppure ancora per prendere piede nella controversa società d’ancien
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régime. Un tempo si poteva ritenere che la scienza corrompesse in tale maniera il mondo dell’iniziatismo muratorio o che quest’ultimo confermasse, con ciò, la sua vocazione ‘mondana’ e sempre più lontana dalle trascorse esperienze esoteriche. Oggi – da quando, cioè, gli storici hanno scoperto o riconosciuto che molta magia naturale, molto ermetismo e molta teologia stanno dietro alla così detta ‘scienza moderna’ (si pensi qui soltanto al caso della metafisica scientifica di Newton: alchimista, studioso della Bib-
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bia e di cronologia) – quel discorso non regge più ed invita a sfumare differenze e contrapposizioni troppo nette. Nel mondo massonico, del resto, convivono in molteplici forme, tra XVII e XVIII secolo, razionalismo scientifico, misticismo, forti echi della tradizione cabalistica e rosa-crociana, aperture ai Lumi
e reverenza elitaria per segretezza e vincoli esoterici. Una convivenza senz’altro contraddittoria, in ogni caso spia dell’anelito verso la conoscenza. Quest’ultima, come in un cerchio che si chiude, poteva anche passare (talvolta doveva) per la lettura di opere proibite (o destinate a diventare tali), a Parigi come ad Amsterdam, a Vienna come a Venezia, a Torino come a Genova. In ognuna di queste e di altre città, un sapere pubblico – ché tale era quello di scienziati ed illuministi – incrociava potentemente e dall’in-
terno la dimensione privata delle logge. Poteva sorgerne o il perfezionamento interiore dell’individuo o il tentativo volto a modificare l’esistente – con riforme gli illuministi, attraverso rivoluzioni gli Illuminati di Baviera – o tutte queste cose insieme. La proibizione alla lettura, per molti adepti, doveva suonare come una sorta di benedizione e contrario, come un incentivo a continuare nella battaglia in vista della Luce e contro la superstizione. Una cosa è certa e vale primariamente sul piano metodologico e d’indagine: fissare confini schematici tra pubblico e privato, tra sacro e profano quando si parla di Massoneria, di scienza illuminista e di libri proibiti è nella migliore delle ipotesi riduttivo, nella peggiore rischia di compromettere una serena ricostruzione di fatti e interconnessioni storiche. Proviamo a coglierne i riflessi relativamente alla storia spirituale settecentesca nel nord-ovest italiano. La Libera Muratoria dalle Alpi a Genova tra mobilità e iniziatismo La Massoneria è attestata in Piemonte dal 1749, a Chambery negli Stati sardi: è storia nota. In Liguria la società segreta aveva, invece, celebrato i propri inizi ancora prima, già nel 1736. In quel momento la maggior parte dei testi massonici circolava ampiamente in Europa. In Scozia, il pastore presbiteriano e seguace di Newton James Anderson stava lavorando alla seconda edizione ampliata, comprendente l’introduzione del grado di Maestro nella simbologia azzurra, delle Constitutions che avevano visto la luce tredici anni prima (sempre con il sostegno di un altro newtoniano, l’ugonotto Jean-Théophile Désaguliers). Il Ms. Graham, entrato in possesso (al momento dell’iniziazione) del Reverendo di York (e rettore di Londesborough) H. I. Robinson, proprio nel 1736, risaliva al 24 di ottobre 1726. Il discorso di Ramsay, allievo di Fénélon e amico di Hume, era stato pubblicato varie volte a Londra e a Parigi tra il marzo 1729 ed il 20 marzo 1737, dedicato al primo ministro di Luigi XV, il cardinale di Fleury. La Masonry Dissected di Samuel Pritchard era stata pubblicata nel 1730, seguita dalla difesa della Massoneria apparsa l’anno seguente anonima (opera forse di Anderson o, più probabilmente, di Warburton o di Clare).16 E di rito inglese, pertanto newtoniana ed ispira-
ta alla cosmologia eliocentrica e gravitazionale dei Principia mathematica, fu la primissima Massoneria di Genova. Una Massoneria con gli occhi rivolti a Londra e a L’Aja, una massoneria latitudinaria, dal taglio clerico-moderato, improntata quindi al razionalismo teologico, tollerante e devota alle vedute del newtonianesimo nord-europeo, fiduciosa negli apporti di scienze e tecniche alla realizzazione in terra della «pubblica felicità» a immagine e somiglianza della città celeste sognata dai Lumi.17 Così ne ragionava e parlava un anonimo cronista genovese di scuola annalistico-muratoriana: 1736. Era, negli anni addietro, nata, in Inghilterra, una setta, appellata dei Liberi Muratori, consistente nella unione di varie persone, e queste ordinariamente nobili, ricche e di qualche merito personale, inclinate a sollazzarsi in maniera diversa dal volgo. Con solennità venivano ammessi i suoi Fratelli a questo Istituto e loro si dava giuramento di non rivelare i segreti della Società. Radunavansi costoro in una casa eletta per il loro congresso, chiamata Loggia, dove passavano il tempo in lieti ragionamenti e in deliziosi conviti, accompagnati, per lo più, da sinfonie musicali. D’Inghilterra fece passaggio in Francia questo rito e in Parigi fu creduto che si contassero sedici logge alle quali erano ascritti personaggi della primaria nobiltà. Si tenne per certo che anche in alcune città d’Italia penetrasse e prendesse piede la medesima novità. Con tuttoché protestassero costoro, essere prescritto dalle loro leggi di non parlare di religione, né del pubblico governo in quelle combriccole e fosse fuori di dubbio che non vi si ammettesse il sesso femminile, né ragionamenti di cose oscene, né v’era sentore d’altra cosa di libidine, non di meno i sovrani e molto più i sacri pastori stavano in continuo timore che sotto il segreto di tali adu-nanze, rendute impenetrabili, pel preso giuramento, si covasse qualche magagna pericolosa, e fosse pregiudiziale alla pubblica quiete, ed ai buoni costumi. Però il Sommo Pontefice Clemente XII nel presente anno [1738] stimò suo debito di proibire e di sottoporre a censure la setta dei Liberi Muratori. Anche in Francia l’autorità regia si interpose per dissipare queste nuvole, che, infatti, di lì a non molto, si ridussero in nulla, almeno in queste
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parti e in Italia. Fu poi cagione un tal divieto che più non tenendosi tenuti al segreto i membri di essa Repubblica, dopo aver tenuta lungo tempo sospesa la pubblica curiosità, rompessero gli argini e divolgassero anche con pubblici libri tutto il sistema rituale di quella novità. Trovossi terminar essa in un’invenzione di darsi bel tempo con riti ridicolosi, ma sostenuti con gravità, né altra maggiore de-formità vi comparve se non quella del giuramento del segreto preso sul Vangelo [di Giovanni] per occultare così fatte inezie.18 In altre parole: molto rumore per nulla,
o quasi. Infatti, l’anonimo estensore di questa cronaca manoscritta – pur scrivendo da uomo totalmente profano ed estraneo al ritualismo massonico, per il quale non mostra particolare rispetto o simpatia – pare voler gettare acqua sul fuoco, alimentato dal sospetto del potere politico e dall’astio montante di quello religioso. Colpisce il lettore leggere della Libera Muratoria come di una setta – ma sarebbe stato ed è un leitmotiv ricorrente – nonché il voler ridurre molto semplicisticamente la Tradizione esoterico-iniziatica coltivata nelle riunioni di loggia a puro svago sociale. Per il resto siamo prossimi a una ricostruzione e a una fra-
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seologia che sembra, singolarmente, anticipare le pagine sui massoni scritte da Lodovico Antonio Muratori (intorno però al 1750) nei suoi Annali d’Italia. Il cronista, peraltro, s’inganna a credere morta e sepolta la società segreta dei «Frammassoni». Proprio tra il 1736 ed il 1738 – quando queste annotazioni manoscritte, come si evince dal riferimento nel testo alla bolla clementina, furono redatte – la Massoneria aveva iniziato a nascere e a svilupparsi in Genova. Infatti, in quel periodo, la Serenissima si accorse, sulla base di alcuni discorsi, tenuti in Banchi, che i Liberi Muratori avevano le loro logge – denominate Compagnie della felicità, allora «comprendente d’huomini e di donne, le quali si radunavano [...] in due diverse case, situate in luogo remoto, nelle strade di San Giacomo, in Carignano, a tergo del Noviziato dei Gesuiti, e più in là dalla Pietra Sacrata, oltrepassata una immagine della Madonna». A parere del Belgrano, siffatte abitazioni erano segnate dai numeri civici 122 e 123 ed abitate la prima da un pittore «cognominato Parodi», la seconda da un certo Genocchio, «imprestiere» alla Casana; i primi «franco-muratori» genovesi – cinque, per l’esattezza – erano tali Fonticelli, Noli, Minichetti, Arnaldi e la figlia di un Giustiniani (di famiglia ebraica). Logge miste, pertanto, molto in anticipo sui tempi. Furono questi gli inizi dell’associazionismo massonico in Liguria.19
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A Genova la Società segreta dei Framassoni iniziò peraltro a svilupparsi solo successivamente e sotto tutt’altro segno, per la precisione con la venuta dell’esercito francese, durante la Guerra per la successione austriaca. Durante le ultime fasi del conflitto, tra il 1747 e il 1748 – ma ancora dopo la pace di Aquisgrana, nel 1749 – la Libera Muratoria si rafforzò, grazie alla presenza degli ufficiali transalpini ed estese le proprie radici nelle contrade liguri. Si trattava di una Massoneria tipicamente francese, improntata ad una linea spiritualista e sotto molti aspetti già pre-romantica, cavalleresca e templarista,20 a sua volta collegata alla tradizione impiantata in Francia a fine Seicento dai giacobiti e filo-stuartisti, come Ramsay e Hamilton.21 Il primo in particolare, cavaliere di San Lazzaro, fu tra gli iniziatori del sistema degli Alti Gradi, culminato, nel crepuscolo del XVIII secolo, in Willermoz (1782), discepolo del dotto esoterista e cabalista Jacques Martines de Pasqually.22 _______________ Note 1 M. Infelise, I libri proibiti, Roma – Bari 2001, p. 52 e passim. 2 Ibidem, p. 197. 3 Descartes, si sa, aveva rinunziato nel 1633 a pubblicare il Traité du monde, spaventato dal processo cui era stato sottoposto Galileo. Pre-
cauzione inutile: le sue opere furono proibite nella loro interezza nel 1663. Un altro meccanicista francese, il minimo Marin Mersenne, nel 1636 aveva espurgato le Quéstions théologiques nella seconda edizione. Altri scrittori e filosofi transalpini, come il libertino Gabriel Naudé ebbero invece più coraggio e si abbeverarono alla fonte di Galileo, Copernico e Keplero (il quale peraltro non venne mai condannato), per invocare la scienza contro la magia dei Rosa-Croce. Per restare in Francia, all’Index librorum prohibitorum finirono pure nel 1699 le Maximes del pio Fénélon, seguace nondimeno della teologia naturale newtoniana e ispiratore di Linneo a proposito delle questioni scienza-fede, il Dictionnaire di Bayle (nel 1700) e naturalmente l’Encyclopédie (nel 1759). Nelle maglie della censura finirono anche, tra Sei e Settecento, Pascal ed i leibniziani Acta eruditorum di Berlino. Stesso discorso – negli antichi stati italiani – per Erasmo, Machiavelli, per i Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini e per la dissertazione Dell’impiego del denaro di Scipione Maffei, posta all’Indice nel 1744. Quanto a Galileo, non si rammentano (quasi) mai vari aspetti importanti. In primo luogo, il grande pisano fece anche le spese della pubblicazione – in Napoli nel 1615, un anno prima dunque della ammonizione – della Lettera sopra l’opinione de’ pitagorici e del Copernico di Paolo Antonio Foscarini. Messa subito all’Indice, la lettera foscariniana contribuì ad innescare l’offensiva anti-eliocentrica (ed anti-scientifica) della Chiesa. In secondo luogo, Galileo non era legato solo all’entourage sarpiano della Serenissima, ma anche e soprattutto alla figura dello stampatore anti-curiale Roberto Meietti, a sua volta in relazione con il mondo riformato tedesco, in particolare con il conte Filippo Lu-
dovico di Hanau (di confessione calvinista e protettore dell’arte tipografica). In terzo luogo, Galileo, negli anni padovani, era stato collega e amico dell’aristotelico eterodosso Cesare Cremonini, scettico di professione e in particolare seguace della teoria della doppia verità elaborata da Sigieri di Brabante (non si dimentichi che Cremonini si ritrovò pure lui all’Indice). In quarto luogo, non fu casuale, bensì carica di forza ideologica, l’idea da parte di Milton di rendere visita al matematico del Granduca, quando questi si trovava ormai confinato nella villa di Arcetri (1638). Oltre a conoscere l’anziano Galileo, in occasione del suo viaggio italiano Milton frequentò anche gli ambienti libertini tanto di Firenze quanto di Venezia (entrambi protetti dalle alte sfere politiche dei rispettivi Stati). Non poco per un entusiasta d’estrazione puritana (J. Milton, Areopagitica. Discorso per la libertà di stampa, a cura di M. Gatti, Milano 2002; S. Villani, Le lettere di Stato inglesi scritte al granduca di Toscana tra il 1649 ed il 1659 e tradotte in latino da John Milton, in «Archivio storico italiano», CLXVI, 2008, pp. 703-766).
mete, a cura di M.L. Bianca, Roma 2001). Se a mutare, nella storia, è la forma in cui la saggezza religiosa si manifesta, non cambia la sostanza, per rintracciare la quale, secondo i sostenitori di tale punto di vista, l’esoterismo è il principio, come anche la via (F Schuon, Sulle tracce della religione perenne, Roma 1988; Id., Unità trascendente delle religioni, Roma 1997).
scritte ed a stampa (Bibliotheca Hohendorfiana, La Haye 1720), poi confluito nella Palatina di Vienna. Di fede protestante, ufficiale nel corpo delle guardie brandeburghesi, esule in Oriente, per sette lunghi anni, proiettato dalle alleanze della Guerra di Successione spagnola verso il mondo germanico ed anglo-olandese – quando una necessità di inter-confes-
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4 La messa all’Indice del Tractatus theologico-politicus data 1679. Su stampa e attività tipografiche nel Piemonte moderno, rimando a L. Braida, Il commercio delle idee. Editoria e circolazione del libro nella Torino del Settecento, Firenze 1995. 5 Opere fisico-mediche stampate e manoscritte del Kavalier Antonio Vallisneri raccolte da Antonio suo figliuolo, II, Venezia 1733, pp. 297 e segg.; G. Bonino, Biografia medica piemontese, II, Torino 1825, p. 66. 6 D. Generali, Antonio Vallisneri. Gli anni della formazione e le prime ricerche, Firenze 2007, pp. 372-373. 7 A. Vallisneri, Istoria della generazione, I, a cura di M.T. Monti, Firenze 2009, p. XCII. 8 Ibidem, II, p. 480. 9 Ibidem, II, pp. 548 e segg. 10 Vedasi P. Maruzzi, Sulle logge muratorie d’Alessandria durante il periodo napoleonico, in «Rivista di storia, arte ed archeologia per le province di Alessandria e di Asti», XXIXXII, 1922, pp. 71-76, così come V. Ferrone, La Massoneria settecentesca in Piemonte e nel Regno di Napoli, in «Il Viesseux», XI, 1991, pp. 22 e segg. La storia della Massoneria piemontese è troppo conosciuta per riprenderla in dettaglio in questa sede. 11 Tra questi, gli scritti astrologici trecenteschi di Pietro d’Abano (professore all’Università di Padova e bruciato in effige) e quattrocenteschi di Agrippa di Nettesheim (l’occultista maestro di Paracelso). I moderni seguaci e difensori della Tradizione esoterica si rifacevano pressoché tutti all’ideale trascendente e meta-storico della philosophia perennis, così denominata per la prima volta nel XVI secolo da Agostino Steuco e da Friedrich Christoph Oetinger (A. Faivre, I volti di Er-
12 Sulla Clavicula vedasi S. Fusco, La chiave di Salomone, Roma 2005. Su Eugenio e Toland, rimando invece a D. McKay, Eugenio di Savoia, Torino 2007, p. 250. A cercare e acquistare i libri (in maggioranza proibiti) per conto di Eugenio, era l’aiutante di quest’ultimo e funzionario imperiale Giorgio Guglielmo Barone di Hohendorf. Colonnello dei corazzieri, governatore di Courtais, il militare austriaco fu uomo dalla vita avventurosissima e raccolse un ingente fondo di opere mano-
sionalismo aveva percorso i territori imperiali – l’Hohendorf fu un campione della diplomazia irregolare, aristocratica e libertina, irreligiosa e sprezzante verso il cattolicesimo. Letterato e grande viaggiatore, collezionista e di libri e di idee libertine, Hohendorf mise insieme, durante i suoi incontri, tra cui è fondamentale quello con Toland, una straordinaria biblioteca e partecipò all’arricchimento di quella del principe Eugenio. Vi si possono
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trovare, riflesse, due diverse componenti, la cultura libertina francese di Lenglet du Fresnoy e di Boulainvilliers, da un lato, e la letteratura ugonotta del rifugio dall’altro. E’ una vera sorpresa per chi intenda studiare la presenza di certi libri – e con essi la storia della tolleranza e della libertà di coscienza – nella Vienna del primissimo Settecento.
Storia Nel catalogo della biblioteca dello studioso e soldato viennese, troviamo altresì libri giuridici (come quelli del gallicano Pitou), molti volumi di storia della monarchia francese, il Bayle del Dictionnaire (Rotterdam 1702) e delle Pensées sur la comète (Rotterdam 1704), sia il Tractatus sia l’Ethica more geometrico demonstrata di Spinoza, l’Enervatio (Rotterdam 1675) di Johann Bredenburg, la Histoire critique du viuex Testament di Richard Simon (Rotterdam 1685) e quasi tutti gli altri libri del famoso prete oratoriano, Savonarola e il Machiavelli dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, scritti scientifici, sia gassendiani sia cartesiani, le opere erudite di Mencken e dei cronologisti inglesi, la Introductio in notitiam rei literariae dello Struve e del medesimo autore la Dissertatio de doctis impostoribus (uscite entrambe a Jena, nel 1710). Va sottolineata in modo particolare, nella collezione hohendorfiana, la ricchezza di testi degli storici di matrice regalista, di area deistica e post-spinoziana (la Vie e l’Esprit de Spinoza, recensito nel 1719 sulle «Nouvelles littéraires» di Amsterdam), reperiti, grazie anche all’aiuto di Toland, nel mercato dei libri clandestini, spesso su sollecitazione di Eugenio di Savoia. In particolare, l’Esprit de Spinoza è il testo che, meglio di ogni altro, segna il passaggio storico dal libertinismo al deismo, la nuova frontiera del radicalismo europeo, che Giannone attraversò guidato da Toland. Il dovere umano di seguire la ragione, la rinunzia all’antropomorfismo, la totale terrestrità degli orizzonti prospettati all’esistenza, la naturalizzazione dei vari fenomeni religiosi – visti come semplice instrumentum regni al servizio della politica – l’identificazione di Dio con la sostanza infinita ed estesa, la stessa umanizzazione del racconto biblico e della cristologia tradizionale sono gli aspetti salienti del testo. Alla morale cristiana, l’anonimo estensore – dietro il quale si cela, probabilmente, Boulainvilliers – contrappone quella, assai più nobile, di Epitteto. Ritornando sul tema dei fondatori di religioni, si paragonano Mosé e Numa, Gesù e Maometto, impostori lonta-
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ni da ogni vera idea di Dio. Giannone menzionò i volumi della biblioteca di Hohendorf nell’Ape ingegnosa, dove fa, altresì, mostra di ben conoscere tale fondo (Biblioteca reale di Torino, Varia 304) e se ne servì soprattutto per la stesura del Triregno, il capolavoro del giurisdizionalismo settecentesco. A Vienna lo storico napoletano poté consultare anche diversi testi di carattere ermetico ed esoterico, come la Philosophia adamitico-noetica di Antonio Costantino. Su Eugenio di Savoia, si vedano, altresì, G. Ricuperati, In margine alla biografia di Eugenio. Un principe fra libertinismo e Illuminismo radicale, in L’Europa nel XVIII secolo, I, Napoli 1991, pp. 445-460; F. Herre, Eugenio di Savoia. Il condottiero, lo statista, l’uomo, Milano 2001; N. Henderson, Eugenio di Savoia. Un generale fra Italia, Francia ed Austria, Milano 2005; J.
diante le pagine di Spinoza e dei deisti angloaustriaci, iniziati alla Libera Muratoria più libertina e radicalista, attinse anche il Giannone (G. Ricuperati, La figura di Pietro Giannone in alcune recenti interpretazioni, Messina 1964; S. Bertelli – G. Ricuperati, Opere di Pietro Giannone, Milano – Napoli 1971; G. Ricuperati, Non Swedenborg, ma Giannone. Sulla scoperta di un autografo parziale del Triregno nell’archivio dell’Inquisizione, in «Rivista storica italiana», CXII, 2000, pp. 75-136; Id., Nella costellazione del Triregno. Testi e contesti giannoniani, San Marco in Lamis 2004). Sul Giannone in Piemonte, si vedano poi G. Ricuperati, Le carte torinesi di Pietro Giannone, Torino 1962; S. Bertelli, Fondi torinesi, in Id., Giannoniana, Milano – Napoli 1968, pp. 389-493; G.P. Romagnani, Di un soggiorno torinese di Pietro Giordani e di alcuni manoscritti del Giannone, in «Studi piemontesi», I, 1982, pp. 181-187. 13 P.-Y. Beaurepaire, Franc-maçonnerie et cosmopolitisme au siècle des Lumières, Paris 1998. 14 Voltaire, Elemens de la philosophie de Neuton, Amsterdam 1738. 15 S. Rotta, Documenti per la storia dell’Illuminismo a Genova. Lettere di Agostino Lomellini a Paolo Frisi, in Miscellanea di studi ligure, I, Genova 1958, pp. 191-329; P.-Y. Beaurepaire, La plume et le compas au siècle de l’Encyclopédie, Paris 2000; Id., L’Europe des Lumières maçonniques, in L’Europe à la recherche de son identité, Lille 2002, pp. 305-316; Id., L’Europe des francs-maçons, Paris 2002; Id., La France et l’Europe du XVIIIe siècle, Paris 2003; Id., L’espace des francsmaçons. Une sociabilité européenne au XVIIIe siècle, Rennes 2003. Sul cenacolo Libero Muratorio di villa Lomellini, vedasi G.M. Cazzaniga, Giardini settecenteschi e massoneria: il giardino di memoria, in Storia d’Italia, Annali, XXI, La Massoneria, Torino 2006, pp. 133-136.
Evola, Eugenio di Savoia, in Augustea (19411943). La Stampa (1942-1943), a cura di G.F. Lami – A. Lombardo, Pesaro 2006, pp. 156 e segg. Sono ancora da confrontare la Massoneria newtoniana e quella degli aristocratici libertini, ripropositori di dottrine e opere bruniane, quali Eugenio. Su Giordano Bruno e la Libera Muratoria, si può vedere M.L. Ghezzi, Il segno del compasso, Milano 2005, pp. 35 e segg., particolarmente rilevante per l’analisi degli aspetti giuridici e processuali legati alla fine del Nolano. A Bruno, me-
16 Né vanno poi dimenticati il Manoscritto Wilkinson (un catechismo massonico del 1727), l’Edinburgh Register House (risalente al 1696, due anni prima cioè che Locke scoprisse il Cook tra gli scaffali della Bodleian Library), il Ms. Chetwood Crawley (1700), lo scritto intitolato A Mason’s Confession (1727) e, soprattutto, il Ms. Dumfries (1700), uno dei più antichi documenti Libero Muratori in assoluto. In Italia uscirono a stampa L’Istituto della Muratoria nella sua essenzialità (1724), l’Istituto dei Liberi Muratori (1725) ed Allo scoperto tutti gli ammaestramenti dei Liberi Muratori (1725), tutti segnati dalla comprensibile intenzione di offrire una rilettura della presenza massonica senza provocare urti con il
mondo ecclesiastico, dunque in termini rigorosamente cristiani e trinitari. Questo ancora prima, forse fiutando il clima imperante, delle scomuniche papali e nell’immediata vigilia del processo-scandalo a Tommaso Crudeli, fondatore a Firenze della prima loggia massonica italiana nel 1731 (N.M. Di Luca, La Massoneria. Storia, miti e riti, Roma 2000, p. 120; J.A. Ferrer Benimeli, Origini, motivazioni ed effetti della condanna vaticana, in Storia d’Italia, Annali, XXI, cit., p. 154).
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17 P.-Y. Beaurepaire, La République universelle des francs-maçons de Newton à Metternich, Rennes 1999. 18 Biblioteca Universitaria di Genova, Ms. E. IV-II, Storia di Genova, c. 493; L.T. Belgrano, Imbreviature, Genova 1882, pp. 99137. 19 L.M. Levati, I Dogi di Genova dal 1721 al 1746 e vita genovese negli stessi anni. Feste e costumi genovesi nel secolo XVIII, Genova 1913, pp. 147-148. L’Autore sacrifica tuttavia al vecchio e stantio mito di una Massoneria che «doveva, sotto la maschera della galanteria, preparare il rivolgimento del mondo tutto, principalmente colla rivoluzione francese» (ibidem, p. 148). Seguace della teoria circa il sovversivismo massonico è stato – oltre che, tra il secolo XVIII ed il XIX, l’abate Augustin Barruel, con i suoi Mémoires pour servir à l’histoire du jacobinisme (Londres 1797, Lyon 1803) – anche J. Evola, Scritti sulla Massoneria, a cura di R. Del Ponte, Roma 1984. 20 La ripresa Libero Muratoria del mito Templare operata a partire da Ramsay ci riporta alle origini scozzesi della Massoneria, sempre sospese tra le nebbie leggendarie del mito e la storia medievale britannica. Secondo M. Baigent – R. Leigh, Il Tempio e la Loggia. Origini e storia della Massoneria, Roma 1998, templari superstiti trovarono rifugio in Scozia dopo il 1309, in cerca della protezione del ‘re scomunicato’, Robert Bruce. In quella terra, l’eredità dei Templari, sopravvissuta alla morte di Jacques de Molay e alla soppressione dell’Ordine, avrebbe messo le proprie radici e sarebbe stata tramandata da una rete di famiglie nobili. Quell’eredità cavalleresca e la Libera Muratoria che ne scaturì furono da allora inseparabili dalla causa degli Stuart. Una prova a favore di questa argomentazione può venire dalla protezione nel secondo Seicento accordata dagli Stuart alla causa scientifica della Royal Society (riconosciuta da Carlo II nel 1662), la celebre e rinomata accademia londinese che annoverò illustri esponenti della Massoneria operativa (come l’architetto ed astronomo Christopher Wren, il geologo e ingegnere minerario Robert Moray – ermetista e costruttore di vari strumenti scientifici – l’antiquario, collezionista e cultore di storia naturale Hans Sloane, dal cui lascito sorse la British Library). I Liberi Muratori del XVII secolo, protetti da-
gli Stuart ed a questi strettamente legati, costruirono una geometria del sacro le cui origini storiche potrebbero essere fatte risalire, oltre che alle correnti del pensiero europeo rinascimentale, anche alle tradizioni templari, nascostamente sopravvissute in Scozia. Qui, nel 1314, il re Robert Bruce, l’«erede della Scozia celtica», restaurò l’Ordine di Heredom, accogliendovi i Templari dispersi e fuggiti per mare dalle persecuzioni. Guénon, mostrando lo scarso fondamento delle interpretazioni comuni del termine Heredom – le quali, o immaginano che derivi da heirdom (eredità), o lo fanno provenire dal greco hieros domos (dimora sacra), o ancora lo identificano con un monte della Scozia – ha sottolineato come sia più probabile che provenga da Harodim, denominazione di un grado della Libera Muratoria operativa. Tale grado, come quello di Menatzchim, sconosciuto ai fondatori della Massoneria speculativa nel 1717, era conferito nel basso Medioevo scozzese a coloro i quali esercitavano la funzione di sovrintendente nei lavori di costruzione delle cattedrali. Heredom, un nome del sistema alto-graduale – che nel Rito scozzese comincia, dopo i primi tre della Massoneria simbolica (o blu), con il quarto grado dell’Arco Reale – venne attribuito in seguito al grado di Rosa Croce nella Libera Muratoria speculativa (R. Guénon, Heredom, in Studi sulla Massoneria e il Compagnonaggio, II, Carmagnola 1991, p. 13; J.-M. Vivenza, Dizionario guénoniano, Roma 2007, pp. 163-164). Scozzese, vissuto tra XVI e XVII secolo, fu altresì William Schaw, architetto e bruniano che fece delle logge operative presenti in Scozia un luogo di iniziazione e di studio dell’Arte, ermetica e rinascimentale, della Memoria (G. Giarrizzo, Massoneria e Illuminismo nell’Europa del Settecento, Venezia 1994, pp. 14 e segg.). L’operazione attuata da Schaw conferma l’immagine data da Guénon della Massoneria come di un deposito-serbatoio di dottrine esoteriche ed iniziatiche, una sorta
di vero e proprio ‘conservatorio’ di insegnamenti tradizionali, che, nel volgere di anni e secoli, ha ricevuto l’apporto congiunto e vario di numerosissime fonti. Queste si trovano nei diversi gradi superiori, innestatisi più tardi nel corpo della Libera Muratoria – tra Sei e Settecento, cioè al momento del passaggio dalla Massoneria operativa a quella speculativa – realizzando così un insieme rituale ricco e composito. Guénonianamente, tuttavia, si può ritenere che il significato stesso di Massoneria, al di là di differenti riti ed obbedienze – persegua in realtà sempre lo stesso obiettivo: ritrovare la vera parola perduta dei maestri, il Nome Divino posseduto da Salomone, Hiram re di Tiro e Hiram Abi. Tale ricerca – e non altro – caratterizza sin dalle più remote origini scozzesi l’unico lavoro della Libera Muratoria autentica, una ricerca che è, in ultima istanza, una forma di accesso alla conoscenza integrale della Totalità, un ricongiungimento con gli spazi del Sacro in osservanza ai Landmarks o doveri muratori e nel pieno rispetto del Grande Architetto dell’Universo. In Massoneria insostituibile è il legame con la Tradizione esoterica, a cui accedono gli iniziati, così come incomunicabile rimane il segreto massonico (J.-M. Vivenza, Dizionario guénoniano, cit., pp. 233 e segg.). Vista sub specie aeternitatis, la ricerca muratoria risulta assimilabile alla Queste del Graal (R. Guénon, Considerazioni sull’esoterismo cristiano e San Bernardo, Carmagnola 1997; M. Baigent – R. Leigh, Il Tempio e la Loggia, cit., pp. 88 e segg.). Sul Graal e gli Stuart vedi L. Gardner, Mito e magia del Santo Graal, Roma 2005; Id., La linea di sangue del Santo Graal, Roma 2010. 21 Richiamandosi ai Templari e alle corporazioni medievali dei costruttori, probabilmente, Ramsay voleva creare una sorta di nuova nobiltà mistica e universale, tentando di qualificare con gli Alti Gradi – agli occhi di una aristocrazia da rieducare con valori massonici – l’antica Libera Muratoria e la sua
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nome, la cui genealogia è provata a partire da Walter-Fritz-Gilbert, vivente nel 1296. Hamilton apparteneva al ramo collaterale dei conti di Abercorn. Era il nipote di James, divenuto conte di Abercorn nel 1606, ed il tredicesimo figlio di George e Mary Butler, quest’ultima sorella del Duca di Ormond, vicerè d’Irlanda e gran maestro della maison di Carlo II. Anthony nacque in Irlanda, nella contea di Tipperary, nel 1646, ed era di fede cattolica. Venne condotto in Francia dai suoi genitori, che erano emigrati presso Caen nel 1650, dopo l’esecuzione di Carlo I ad opera
Francia, ove tornava sempre volentieri per servire il Re Sole, che lasciò, nel 1667, per l’Irlanda. Nel corso di un nuovo soggiorno francese, Luigi XIV lo scelse per figurare in un balletto di Quinault, intitolato Le triomphe de l’amour, in compagnia del delfino, della delfina, del principe e della principessa di Conti, del Duca di Vermandois e di altri personaggi distinti della corte (1681). Nel 1685, Hamilton ottenne la guida di un reggimento inglese da Giacomo II, il titolo di consigliere privato e il governo di Limerick in Irlanda. Quando il sovrano perse il suo regno nel 1688, nel corso della seconda rivoluzione inglese, Hamilton fece con lui ritorno in Francia e visse in sua compagnia nel castello di Saint-Germain-en-Laye, ove morì il 21 aprile 1720 (B. de Baumont, La Cour des Stuarts à St. Germain-en-Laye, Paris 1912, pp. 182, 190). Nei trent’anni che visse in Francia, si accostò alla filosofia cartesiana e, sempre tramite Fontenelle, al mondo degli accademici parigini. Allo scoppio della querelle tra antichi e moderni, si schierò con i primi per ragioni religiose e storiche (S. Berti, La religion
dei puritani di Cromwell e la trasformazione dell’Inghilterra da monarchia in una repubblica. Allorché Carlo II fu ristabilito sul trono con la Restaurazione del 1660, Antoine – a Caen, quindi, si era fatto francesizzare il nome di battesimo – tornò in Inghilterra (G.N. Clark, The Later Stuarts, London 1967). Il periodo dal 1664 al 1675 rimane tra i più oscuri della sua vita: pochissimo sappiamo di questi anni, vissuti probabilmente alla corte di Carlo II e a contatto con gli ambienti della Royal Society di Londra e della Massoneria operativa (all’epoca, due facce della stessa medaglia, la prima pubblica e la seconda privata, composte da quasi gli stessi membri). Hamilton fece anche numerosi viaggi in
des anciens au début du XVIIIe siècle. Deux exemples: Fontenelle et Ramsay, in Fontenelle. Actes du Colloque, Paris 1989, pp. 668674). Hamilton fu uno dei più brillanti scrittori francesi della sua epoca ed i suoi Mémoires du Conte de Grammont sono rimasti giustamente celebri. Philibert de Grammont, condannato all’esilio in Inghilterra nel 1662 per avere corteggiato Anne-Louise de la Motte-Houdancourt, la fille d’honneur della regina Anna d’Austria (che Luigi XIV voleva riservare per sé), aveva sposato nel 1663 la sorella di Hamilton, Elizabeth (1641-1708), denominata a Corte la belle Hamilton e antica scolara di Porto Reale (C.A. Sainte-Beuve, Port Royal, I, Paris 1971, pp. 585-586). La pri-
Tradizione, operativa e di mestiere, imparentata con gli Stuart e, tramite questi, con la ricerca del Graal (B. Fay, La Massoneria e la rivoluzione intellettuale del secolo XVIII, a cura di J. Evola, Torino 1939, pp. 173e segg.). Quanto ad Anthony Hamilton, la sua è una figura dimenticata e da riscoprire. Proveniva dalla grande casa scozzese ed inglese del
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ma edizione dei Mémoires apparve a Colonia, nel 1713, intitolata Mémoires de la vie du Comte de Grammont, contenant, particulièrement, l’Histoire amoureuse de la Cour d’Angleterre, sous le Règne de Charles Ier. Queste memorie romanzate, che abbracciano il periodo dal 1643 al 1663, sono state oggetto di oltre ottanta riedizioni sino ai giorni nostri: di rilievo, nel XVIII secolo, quelle parigine del 1716 e del 1760, nonché quella londinese del 1776. Importanti, all’inizio della Restaurazione, quella parigina del 1816 e, durante il Romanticismo, quelle (sempre stampate nella capitale francese) del 1829 e, più tardi, del 1850. La prima versione italiana, dal titolo Memorie del conte di Gramont, vide la luce prestissimo, a Milano per Sonzogno nel 1814. Oltre ai Mémoires, Hamilton scrisse Les quatres Facardins (Paris 1730), Le bélier (Paris 1730), l’Histoire de Fleur d’Epine (pubblicata a Napoli senza indicazione né di luogo né tipografica nel 1749, ristampata a Parigi nel 1776), la Zénéyde, l’Enchanteur Faustus (dedicata al mago su cui aveva scritto anche Marlowe), varie Epitres e diverse poesie e canzoni. Tutte queste, e le opere summenzionate figurano già nell’edizione delle Oeuvres in più volumi a seconda della stampa (Utrecht 1731, Paris 1731 e poi ancora 1749, 1777 e 1812, rispettivamente in cinque, quattro, sei, sette e tre tomi). La silloge più completa resta, nondimeno, quella delle Oeuvres (Paris 1825). Nell’Ottocento apparve, inoltre, la Suite des quatres Facardins et de Zénéyde (Paris 1813). Altre raccolte sono quelle dei Contes (editi in Parigi nel 1781, nel 1813, nel 1815 e nel 1826). Altrettanta fu la fortuna in area anglosassone: una serie di Selected Tales uscì a Londra nel 1760, la History of Mayflower. A Fairytale sempre a Londra nel 1793 (ristampata solo tre anni dopo), mentre nel 1783 Horace Walpole voltò in inglese i Mémores, che incontrarono larga eco anche in America (un’edizione a Filadelfia ancora nel 1888). Importante ricordare, altresì, A Fool’s Errand. A novel (London 1910). Al Gramont di Hamilton, proprio nell’anno della scomparsa di questi, s’ispirò Daniel Defoe per le sue Memoirs of a Cavalier (1720). Non è britannica, infine, l’edizione di Oeuvres diverses, apparsa a Parigi nel 1776, con la falsa indicazione topica di «Londres». Nella nostra lingua, la sola opera hamiltoniana tradotta, oltre naturalmente ai Mémoires, è stata Fior di spina ed altre fiabe (Sesto San Giovanni 1933), testimonianza di uno stile quasi bucolico ed arcade. Hamilton ha scritto pure altre opere più impegnative, come le neo-stoiche e vagamente senecane Réflexions sur l’usage de la vie dans la vieillesse e tradotto, in francese, l’Essay on Criticism del poeta newtoniano Alexander Pope. I due condivisero le simpatie politiche per i Tories e una comune sensibilità religiosa (erano entrambi cattolici). Raffinati intellettuali conservatori, si mossero sulla stessa falsariga dei vari Swift, Gay, Fielding, Bolin-
gbroke. Libertino, maestro di giochi a corte, massone, vicinissimo – proprio attraverso il medium libero muratorio, agli ambienti dell’accademismo scientifico londinese, come a quello degli stuartisti dissenzienti – giacobita della prima ora, Hamilton è stato ritratto nei Mémoires complets et authentiques du Duc de Saint-Simon (1675-1755) sur le siècle de Louis XIV et la régence, XIV, Paris 1840, pp. 264, 559, 657 (G. Mongrédien, Luigi XIV, Novara 1963, pp. 153-255) e nei Mémoires et journal (Paris 1830) del marchese Philippe de Dangeau (I, 131-234; II, 223399; III, 118-423). Sulla vita hamiltoniana si vedano i bei profili, puramente letterari, di W. Kissemberth, Antoine de Hamilton, Rostock 1907; R. Clark, Anthony Hamilton, his Life and Works, and his Family, London 1921; T. de Morembert, Antoine Hamilton, in Dictionnaire de biographie française, Paris 1989, coll. 553-554. Sullo sfondo storico e sulle impressioni che ne ebbero gli hommes de lettres d’area francese, si può consultare R. Repetti, La Francia alla vigilia della Guerra di successione spagnola in uno scritto di Belesbat, Genova 1985. Sugli Stuart nel loro esilio, la testimonianza forse più bella e suggestiva rimane quella di C.-M. Dupaty, Lettere sull’Italia nel 1785. Da Genova a Firenze, a cura di D. Arecco, Novi Ligure 2006, pp. 8788: «voi vi ricorderete di Giacomo II, della sfortunata famiglia Stuart, di questo pretendente dapprima sostenuto, poi abbandonato dalla Francia, che Roma aveva accolto e che Roma ha trascurato (destino comune a tutti gli infelici, poiché la pietà, questa passione nondimeno divina, non è più affidabile di tutte le altre), ebbene, questo pretendente, il vecchio oppresso dagli anni, dalle malattie, dalle disgrazie e soprattutto dal nome degli Stuart, che si chiama oggi il conte *** e che conclude a Firenze, tra le afflizioni di una penosa vecchiaia, il destino di un uomo il cui sangue una volta ha regnato e che non ha potuto dimenticarlo. Egli morirà, con lo sguardo attaccato a questa corona, che non ha mai potuto collocare se non sul suo sigillo e nei panneggi della sua carrozza. Questo vecchio era da lungo tempo a Roma: poteva disporre di una corte e di una guardia, ma gli veniva rifiutato il nome di maestà. Un giorno lascia Roma per venire a Firenze, dove non ha guardia, né corte, e dove non gli viene concesso il titolo di maestà, ma, come rivincita, ha chiamato presso di sé tutte le virtù che possono consolare un vecchio infermo, un padre infelice e persino un re detronizzato: ha chiamato sua figlia la duchessa... Se non bastassero che sentimenti per risalire sul trono dei padri, ella vi risalirebbe tra poco. È la bontà personificata, bontà che la ragione non comanda, che scende dal cuore, che ha grazia, fascino, che si fa adorare, che presuppone tante altre virtù e che non ne fa apparire nemmeno una. Possa la duchessa... essere felice! Possa suo padre dimenticare che il nome
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Stuart fu nome di re! Possano, vedendo sua figlia, tutti gli uomini ricordarsene! La duchessa mi ha mostrato i doni di Luigi XIV a Giacomo II, al suo arrivo in Francia, quando la sorte ebbe ridotto questo re a ricevere doni; alla verità di Luigi XIV. Mi ha mostrato la toilette d’oro, che la regina trovò la sera dell’arrivo nel suo appartamento. I tempi sono davvero cambiati, mi ha detto senza aggiungere altro. No, mi sbaglio, ha sorriso. Le sue cure per il padre sono toccanti! Quando questo vecchio si ricorda che il suo nome ha regnato, le sue lacrime non sono sole: la duchessa piange con lui. La duchessa ha vicino a sé una dama d’onore e il conte uno scudiero: è un lord. Ecco tutta la loro corte, con il rispetto che ispirano ai cuori ben nati l’infelicità, la vecchiaia e la virtù. Finirò così la mia lettera: voglio lasciare nella mia anima questa dolce tristezza» (XXXI). Lo Stuart incontrato da Dupaty è Giacomo VIII (1720-1788), conte di Albany e pretendente al trono (membro dell’Ordine di San Michele, che aveva nell’Elettore di Colonia il proprio Gran Maestro), lo stesso visto, in Marsiglia, dal massone G. Casanova, Storia della mia vita, II, Roma 1999, pp. 120-128, 510-511. Sovente, dal Cinque al Seicento, alla dinastia degli Stuart, ed alle loro inclinazioni più o meno assolutistiche e filo-cattoliche, sono state associate come noto operazioni politico-religiose non solo legate o prossime alla Francia, ma anche alla Roma dei papi (S. Villani, Complotti papisti in Inghilterra tra il 1570 ed il 1679, in «Roma moderna e contemporanea», XI, 2003, pp. 119-143). 22 Il ruolo di Ramsay è tutt’ora discusso (L. Sessa, Il mito di Ramsay, Foggia 2005).
Quanto agli Alti Gradi, essi non sono certo fronzoli onorifici e non rappresentano certo una degenerazione, quanto piuttosto un completamento della via iniziatico-muratoria (S. Hutin, Le società segrete, Milano 1960),.aprendo allo scozzesismo la Tradizione esoterico-massonica. I Templari, monaci militari, furono rivalutati in età moderna – oltre che da Ramsay, seppure in modo molto controverso – anche da Jean Bodin nel secondo Cinquecento, dall’alchimista Elias Ashmole nel pieno Seicento inglese e dal naturalista kircheriano Filippo Buonanni nella Roma d’inizio Settecento, sempre riconoscendo il legame esoterico che riconduceva la Cavalleria all’hereditas ed alle credenze degli gnostici (S. Hutin, Lo gnosticismo. Culti, riti, misteri, a cura di G. de Turris, Roma 2007; C. Bonvecchio, Esoterismo e Massoneria, Milano 2007). Il secolo XV – resta, in merito, altamente emblematico ed eloquente il caso di Agrippa – restò invece fedele allo spirito di condanna trecentesco dell’Ordine. Sul templarismo muratorio settecentesco, vedasi R. Le Forestier, La Massoneria templare e occultista, I, Roma 1991. Sulla Massoneria francese nell’età dell’Illuminismo, rimando invece a P.-Y. Beaurepaire, Nobles jeux de l’Arc et loges maçonniques dans la France des Lumières, Montmorency 2002, sintesi tra le più aggiornate. P.38, 39, 47, 49: Libri antichi; p.39: Baruch Spinoza in un ritratto a stampa, XVII sec.; p.40: 1663, B.Spinoza pubblica il Renati des Cartes Principiorum Philosophiae; p.41: 1690, Frontespizio degli Essay di J.Locke; p.42: 1619, una pagina degli Harmonices Mundi di Johannes Kepler; p.44/46: 1733, il libro di A.Vallisneri Opere fisico-mediche; p.43 e 48: Copertine di opere massoniche.
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Perché di notte il cielo è così buio... Paolo Aldo Rossi
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ino a circa una ottantina di anni fa, le cosmologie descrivevano l’universo come un immutabile e statico ammasso di vari corpi celesti che non aveva mai subito alcun mutamento e non avrebbe dovuto modificarsi in maniera, in qualche modo, significativa e concreta. Che fosse ‘concluso’ oppure ‘infinito’, ‘misurabile’ o immensum (smisurato), àpeiron (indefinito), aghénaton (ingenerato), anòlethron (indistruttibile), creato o increato... l’universo restava pur sempre fisso, inalterabile, stabile. Dal chaos primigenio (chàos da chàinein = fenditura o l’abisso sbadigliante)1 e dalla coppia tenebra-luce (in ebraico erev e boker rispettivamente sera e mattina o in disordine e ordinato)2 fino all’universo geometrico platonico3 e al cosmo perfectus aristotelico-tolemaico4, passando attraverso i modelli finiti a quello indefinito o infinito del Cusano o di Bruno, nella visione filosofica come nelle varie teorie scientifiche, astronomiche e cosmologiche, da Copernico, Galileo, Keplero, Newton, Kant, Laplace, Herschel, Eddington ed Einstein, l’universo rimane uniforme, invariabile e statico, 1 Lo stato originario della materia da cui si sono originati i mondi; si veda: I.Kant. Allgemeine Naturgeschichte oder Teorie des Himmels, 1755, Prefazione 2 Onkelos, Traslation of the Torah, Gen, 1, 3.1 (150 d. C.) Moses ben Nahman (Namanide), Commentary on the Torah (1194-1270 d,C.) 3 Platone, Timeo. Il dio greco è ordinatore ma non creatore, pone ordine nel caos, ricom pone le sparse membra dell’universo, traccia limiti e confini, risuggellando l’illimitato indeterminato entro precise strutture ordinate. È in grado di dare forma alla materia vagante priva, per sua natura, di qualsiasi delimitazione, definizione, determinazione, ossia la materia preesistente al Demiurgo che è limitato dalle idee (deve imitarle) e dalla materia (che oppone resistenza). La chora : ‘luogo’, ‘posto’, ‘area’, ‘regione’, ma nel Timeo è ‘madre’, ‘nutrice’, ‘ricettacolo’ (dechòmenon), ‘porta-impronta’ non è né sensibile, ne intelligibile, è ‘amorfa’ 4 Unico, perfetto, eterno, finito “... Anzitutto noi affermiamo che il luogo è ciò che contiene quell’oggetto di cui è luogo, e che non è nulla della cosa medesima che esso contiene; inoltre, che il primo luogo non è né minore né maggiore; inoltre, che esso è privo di ciascuna cosa ed è separabile; e, ancora, che ogni luogo ha l’alto e il basso, e che per natura ciascun corpo è portato e permane nel proprio luogo, e che ciò si verifica sia in alto che in basso”. [Fisica, D, 1 e 4]
per 2500 anni, senza che vi sia una voce discorde a sostenere una qualsivoglia divergenza o dissidio. Nessuno, fino al 1924-29, quando Edwin Hubble osservò che, quanto le nebulose sono più remote tanto esibiscono un movimento che le portano ad una rapida recessione da noi, aveva mai avuto il coraggio di affermare che l’universo sta espandendosi (o, alternativamen-
Ciò che si concatena è il principio e la fine del cerchio Eraclito, 14 A 12 te, che sta contraendosi). O, meglio, fra il 1744 (J.P.L. Cheseux a Losanna) e il 1823 (il filosofo tedesco H. Olbers) si prospettò all’ambiente scientifico un singolare problema: perché di notte il cielo è così buio? La questione è posta sotto forma di paradosso5, la cui unica soluzione era quella di rompere con asserzioni teoriche dalle quali era possibile ricavare conseguenze osservabili in contraddizione con fatti osservati, ossia se le stelle sono distribuite uniformemente e se lo spazio è infinito, se ne ricava che il cielo manda, sia di giorno che di notte, una quantità di luce abbacinante. Cioè, in un universo infinito e statico, in qualsiasi direzione si volga lo sguardo, la linea 5 Paradosso [dal gr. parádoksos, comp. di para- nel sign. di “contro” e dóksa “opinione”. Ciò che è contrario alla opinione dei più oppure è in opposizione ai principi ben stabiliti o alle proposizioni scientifiche. In logica-matematica formulazione apparentemente contraddittoria e circolare che ha come sua soluzione la dissoluzione della enunciazione.
visuale si incontra sempre con la superficie di una stella tanto che l’intero cielo sarà luminoso come la superficie del Sole; ovviamente, anche di notte. Vediamolo in breve, accettando l’assunto di partenza: l’universo non muta col tempo e le stelle, essendo uniformemente distribuite in tutto lo spa-
Scienza zio infinito e in quiete, hanno le loro luminosità assolute che sono, dovunque e in tutti i tempi, sempre le stesse. Quindi, esaminiamo un guscio sferico, contenente un certo numero di stelle, di ampie dimensioni, ma di spessore parziale rispetto al suo raggio. La quantità di stelle, contenute in tale strato, in un universo uniforme, e quindi anche la luce che da esso, cumulativamente e complessivamente ci perviene, sarà proporzionale al volume dello strato. Si tratta di una misura che aumenta col quadrato del raggio mentre l’intensità della luce che percepiamo da ciascuna stella è inversamente proporzionale al quadrato del raggio stesso, ovvero la quantità di luce che percepiamo dai corpi celesti, contenute in questo settore di sfera, è indipendente dal raggio. Si potrà applicare il medesimo risultato a ogni guscio, con centro in O, e di qualunque raggio, e poiché, di questi gusci ve n’è un numero infinito, la luce che raggiungerà O sarà infinita. Ossia, a partire da questa supposizione, noi possiamo addizionare un altro guscio, come il precedente, immediatamente all’esterno di quello considerato, e poi un altro e così via, all’infinito e dato che riceviamo una stessa quantità di luce finita da ognuno de settori circolari, la somma complessiva sarà infinitamente grande. E questo sarebbe un risultato che vìola un dato sensibile noto a tutti gli uomini: la luce che riceviamo dal Sole e dai corpi celesti non è infinitamente grande e, oltre tutto, varia tra il giorno e la notte. Ma fino a questo punto c’è un errore: questo calcolo ignora il fatto che le stelle non si riducono a emettere e diffondere la propria luce, ma intercettano anche quella emessa dalle stelle poste fra l’emittente e l’osservatore. La quantità di luce captata da una stella media, risulta indipendente dal raggio del guscio, perché - come s’è gia visto - sia l’area dello strato che il numero delle stelle sono ambedue proporzionali al quadrato del raggio. In altre parole, ri-
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ceviamo meno luce dagli strati più lontani che da quelli vicini, per cui sommando la quantità di luce che intercettiamo dalle stelle nei vari strati, abbiamo una serie geometrica che converge verso un limite finito. Ciò è strettamente legato al rapporto fra la sua luminosità media e la sua area, limite che ci dà effettivamente una luce di fondo del cielo uguale all’intensità della luce sulla superficie di una stella media. Il Sole è una stella media, e la nostra distanza da esso è uguale a circa duecento raggi solari, l’intensità di questa luminosità di fondo risulta circa quarantamila volte maggiore di quella della luce diurna. L’intero cielo dovrebbe apparire brillante come la superficie del Sole, fornendoci un illuminamento di alcune decine di migliaia di volte superiore alla luce diurna. Anche se il ragionamento tipico del paradosso è attribuito ad Olbers, va comunque chiarito che esso già era presente in età newtoniana. La patente e flagrante contraddizione di questo ragionamento con i fatti osservati (la oscurità della notte e la normale luminosità del giorno) dimostra che l’universo non è dotato di tutte le proprietà implicate nelle ipotesi di Olbers: infinito, statico, uniforme. Le soluzioni del problema data da Olbers fu che la luce proveniente da stelle molto lontane è attenuata dall’assorbimento da parte della materia interposta, ma se le cose stessero così la materia interstellare si sarebbe così riscaldata sino a diventare a sua volta luminosa come le stelle, dato che l’universo è infinito e uniforme. L’altra soluzione, sarebbe stata ovviamente il negare che l’universo è statico, ossia sup-
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porre che le stelle non esistono da sempre, ma che come gli uomini nascono, vivano e muoiano ossia che in un dato tempo alcune se ne accendono ed altre vadano spegnendosi, in modo che la materia assorbente possa non essersi riscaldata o che la loro luce non sia ancor giunta fino a noi. A questo punto sorge la domanda: cosa può aver causato, da un certo punto, l’accensione di alcune stelle e lo spegnimento di alcune altre, ossia dato che le stelle non esistono da sempre, chi le ha accese? Ovviamente ciò implicava uno spazio ed un tempo finiti. Già Newton, nel 1691 in una lettera a R. Bentley, si era reso conto d’altra parte, che con un numero finito di stelle in universo finito, non poteva darsi che le stelle fisse fossero immobili come sembrava, ma avrebbero dovuto attrarsi fra di loro verso un centro di gravità comune. Se, invece, esistesse un numero infinito di stelle, distribuite in maniera uniforme, in uno spazio infinito, ciò non accadrebbe perché non esisterebbe un punto di gravita centrale verso cui cadere. Oggi sappiamo che è impossibile, quindi, proporre un modello statico e infinito dell’universo, con la gravitazione attrattiva, e che al contrario la dinamica newtoniana porta direttamente a un universo in movimento. Oltre tutto, in un universo statico, se la forza di gravità fosse stata sotto a un dato livello (“velocità critica”) lo avrebbe dovuto far espandere oppure, se superiore, lo avrebbe dovuto far contrarre Anche Einstein non prese in considerazione la teoria dell’universo in movimento e optò, avendo forzato le proprie equazioni
di campo con l’introduzione di una fantomatica “costante cosmologica”, per un universo statico. In uno scritto del 1917, Considerazioni sull’universo come un tutto, Einstein proponeva una radicale riforma della concezione del mondo, prospettava cioè di considerare l’universo come finito ma non limitato (si sorpassava il paradosso di Olbers) e di considerava perciò lo spazio dell’universo come uno spazio ellittico, nel quale una linea retta, sufficientemente prolungata, ritornerebbe su se stessa e finirebbe per chiudersi. Le peculiarità geometriche dello spazio sarebbero determinate dalla materia, giacché dalla densità della materia se ne deduce il grado di curvatura dello spazio. Einstein dichiarò che lo spazio-tempo aveva una tendenza intrinseca ad espandersi e che ciò poteva controbilanciare il potere attrattivo della materia, dacché se ne otteneva un universo statico. Willem De Sitter (1872-1934), a distanza di qualche anno, fece vedere che le equazioni di campo di Einstein avevano anche una soluzione che prevedeva un universo in movimento, o per meglio dire, un universo in espansione con una velocità direttamente proporzionale alla distanza. Quando fu accertato che le equazioni di campo originarie erano perfettamente in grado di descrivere un universo in espansione, e il termine cosmologico non era più necessario, allora le si abbandonò e si dedicò a sviluppare le equazioni onde ottenere o un universo in espansione senza fine o uno in ciclo di indefinite espansioni/ contrazioni. Ma dal 1922, un solo uomo portò avanti questa idea e previde sostanzialmente tutto ciò che sarebbe stato trovato, da E. Hubble6, di lì ad una quindicina d’anni: Aleksandr Friedman7 che sosten6 Nel 1929 E.W. Hubble pubblicò un articolo in cui è enunciata la legge che porta il suo nome: nell’universo tutto avrebbe luogo come se le galassie si spostassero le une dalle altre con velocità proporzionali alla distanza. La costante di Hubble afferma che ogni megaparsec in più di distanza la velocità delle galassie aumenta tra i 45 e 90 km/s. 7 A. Fridman nel 1922 trovò la soluzione generale e isotropa delle equazioni di Einstein. La sua ipotesi incoraggiata dai dati provenienti dai red shift (in astrofisica l’effetto Doppler fornisce un metodo efficiente per stabilire la direzione del moto dei corpi celesti, difatti lo spettro di una sorgente luminosa presenta uno spostamento delle sue righe spettrali verso il violetto se sta avvicinandosi a noi e uno
ne che l’universo sarebbe uguale da qualsiasi direzione o punto di vista lo si osservi e che esso si espanderà per sempre oppure smetterà di espandersi e incomincerà a contrarsi. Le tre teorie sull’origine della materia nell’universo sono: a) il Modello standard o teoria del Big Bang; b) teoria dello Stato stazionario; c) teoria dell’Universo in oscillazione. Le ultime due rimandano alle visioni greche di Aristotele (l’universo sia sempre esistito e continuerà ad esistere in uno stato simile a quello attuale) e di Eraclito-Platone (universo è non generato, indistruttibile, eterno ma in continuo cambiamento). L’una viene ripresa da H. Bondi8 e T. Gold negli anni ‘40 del Novecento con una variante: dato che le galassie si allontanano e le stelle consumano il loro combustibile nucleare si dovrà creare nuovo idrogeno dal quale avranno origine nuove stelle (il cosmo va verso l’infinito senza mai raggiungerlo), l’altra lascerà spazio, non essendovi differenze sostanziali, alla teoria che descrive i processi del Big Bang9: da un punto centrale (il graspostamento verso il rosso se sta allontanandosi) prevedeva che l’universo non fosse statico ma in espansione a partire da un punto in cui tutto lo spazio aveva volume nullo e tutta la materia era concentrata in un punto (prima del Big Bang). 8 L’ipotesi secondo la quale l’universo presenta lo stesso aspetto da ogni luogo in ogni tempo (definito come “il più ampio insieme di oggetti fisicamente significativi”). L’enunciato di Bondi e Gold ampliava l’usuale principio cosmologico: che l’universo è omogeneo dal punto di vista spaziale e costringeva a postularne uno omogeneo e stazionario “nella sua costituzione di larga-scala così come nelle sue leggi fisiche”. H. Bondi. Cosmology, (1960); Assumption and Myth in Physical Theory, Cambridge Univ. Press. (1967); Bondi H. - Gold T. 1948: The Steady - State Theory of the Expanding Universe, M. N. 108, p. 252/270. O più semplicemente teoria cosmologica proposta nel 1948 da F. Hoyle, H. Bondi e T. Gold, per cui la densità dell’universo è mantenuta costante anche se l’espansione cresce dato che si ha continua creazione di nuova materia. 9 Nel 1946, G. Gamow enunciava l’ipotesi del big bang caldo: l’Universo ebbe inizio da uno “stato” ad intensissima temperatura ed elevatissima densità, nel quale tutti gli atomi erano scomposti negli elementi costituenti, che esplose espandendosi, Nel 1948 Gamow, con R.A.Alpher e H.A.Bethe (teoria alpha-beta-gamma (αβγ) dalle iniziali dei nomi – detta anche teoria standard), faceva l’ipotesi che i nuclei atomici si formassero nell’Universo caldo primordiale allorché la temperatura
nello di senape biblico) energia e materia si allontanano sempre di più spinte dall’esplosione primigenia che però il freno gravitazionale rallenta sempre più fino a fermarlo, ma la forza centripeta della gravità, su tutta la massa dell’universo, riesce a far rifluire, in senso inverso, la materia verso il
Scienza centro, dove – nel tempo ossia in decine di miliardi di anni - le alte pressioni e le elevate temperature fanno accadere una nuova Grande Esplosione e così ad infinitum (espansione-frenata-contrazione). Le cosmogonie erano non solo la descrizione della struttura e della storia dell’universo, ma anche una definizione teologica del rapporto fra la materia che lo compone e l’anima [l’energia10, la forza o la potenza...] che lo sorregge. Due sono le domande a cui le cosmologie primitive hanno cercato di rispondere: la prima storica e cioè quella che implica la descrizione dell’universo osservabile, la seconda filosofica e cioè quella che richiede la fissazione del principio originario e delle leggi che governano il mondo fisico. Le più antiche cosmologie, compresa quella greca primordiale, si mossero in un contesto prevalentemente mitologico o in altre parole si limitarono a descrivere la struttura dell’universo, conformandolo alla geografia regionale dell’osservatore, e quando ne indagarono l’origine e le leggi di funzionamento ricorsero da una Intelligenza Creatrice o Legislatrice trascendente l’universo medesimo. Se prendiamo da esempio la cosmologia babilonese, sia quella professata intorno al santuario di Eridu (sul Golfo Persico nel 5500 a.C, la moderna Abu Shah Rain a 196 miglia a sud est di Baghdad) che quella di Nippur (nella Babilonia settentrionale nel III millennio a.C. grazie anche all’importanza del tempio del dio Enlil) ci rendiamo conto che l’architettura dell’universo è sostanzialmente la descrizione dell’osservabile: il mondo è un’isola fosse scesa sufficientemente da permettere ai protoni e neutroni di combinarsi in elementi stabili. 10 Dal gr. enérgeia, der. di energos ‘attivo’. Energia di legame necessaria per allontanare una particella legata a un sistema (nucleo atomico, atomo, molecola, ecc.) o gravitazionale cioè l’energia potenziale di un corpo posto in un campo gravitazionale.
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circondata dall’Oceano (l’abisso) sul quale poggiava la vasta solida volta del cielo, il discrimine fra le acque superiori e le acque inferiori, la quale ha due porte una a oriente e l’altra a occidente da cui entra ed esce il carro del Sole, la luna e le stelle, tutte muoventesi in orbite circolari. La terra veniva
Scienza supposta cava al suo interno. La cosmologia ebraica è sostanzialmente identica [per chi non lo sa, andare più a fondo!]: “Ha steso la terra sopra le acque” (Salmi 136/6), “Egli distende il Settentrione sul vuoto, sospende la terra sul nulla” (Giobbe 26/7), “Poiché le colonne della Terra sono dell’Eterno, e sopra di esse egli ha poggiato il mondo” (Samuele 2/8). La Terra, come sappiamo, è rotonda: “Egli tracciò un cerchio sulla faccia dell’abisso” (Proverbi 8/27) oppure “Egli è Colui che sta assiso sul cerchio della Terra” (Isaia 40/22). Sotto la superficie della terra ed intorno ad essa è il grande abisso dal quale scaturiscono i fiumi e sotto di questo è il she’ol “la terra delle tenebre e dell’ombra di morte” (Giobbe 10/21). La volta dei cieli “solida come uno specchio di metallo” (Giobbe 37/18) divide le acque superiori da quelle inferiori: “E Dio disse: ci sia una distesa [waiaas Elohim et harachìa= e fece Dio la rahìa] che separi le acque dalle acque” (Genesi 1/6-7) e su questa distesa che chiamò “firmamento’’ o cielo. Egli “distende il cielo come ierià” (Salmi 104:2). Ierià è una stoffa, che viene legata ai quattro angoli per ripararsi dal Sole, ma anche l’atmosfera. Egli pose il Sole e la Luna, che come sappiamo dal libro di Giobbe hanno porte di ingresso e uscita ai confini della terra. “E vi siano delle perforazioni nella rachìa hashammaim per far luce sulla Terra” (Genesi 1:15). Gli Egizi hanno una cosmografia ancor più regionalistica: l’universo assomiglia in tutto e per tutto alla valle del Nilo, che ne è il modello in piccolo su questa Terra. Esso ha forma rettangolare, il fondo del parallelepipedo è la terra tagliata in due dal fiume Nilo e l’Egitto ne è il centro. I quattro spigoli sono altissime vette di una catena rettangolare e continua di monti sotto i quali scorre il fiume Urnes (di cui il Nilo è l’ansa meridionale di questo fiume) sul quale naviga la barca del Sole che entra nella valle di Dait da oriente e ne esce a occidente (così come le barche
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della Luna o delle stelle, che peraltro sono considerate anche come lampade erranti sulla volta del cielo). Gli Egizi credevano che un tempo non esistevano né il cielo né la terra, ma solo un’acqua primordiale (il Nu) immersa nella tenebra che conteneva i germi poi chiamati in vita dalla parola. Ma questa era un idea che proveniva dal Golfo Persico, dove il mondo era fatto di acque, e dovunque guardavi c’era solo un distesa indefinita di oceano, di mare, di fiumi, di piogge e di flussi d’acqua (tutti sanno che l’idrogeno [hydro, acqua, e genes, generare] è l’elemento più leggero e diffuso, il 75% della materia dell’universo, mentre il 24% è elio e tutto l’1% rimanente di massa sono gli altri elementi). “E le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito (il vento) di Dio aleggiava (o si librava) sulle acque” (Gen 1, 2). E dalle acque si generò il resto, grazie a questo vento (il termine marahefet significa librarsi) o alito divino ossia un ruach elohim (ed è l’unica volta che viene usata nella Genesi). Anche la primigenia cosmografia greca segue sostanzialmente un contesto analogo ossia segue un metodo conoscitivo che è quello storico. Infatti lo stesso termine (historia) viene utilizzato in terra ionica con il significato di indagine e descrizione sull’osservabile. La parola omerica (histor) significa testimone e cioè colui che vede e quindi è informato. (La radice indoeuropea wid, che in greco è id e in latino video indica il tipo di approccio con l’empirico attraverso la vista, l’osservazione di quel che si vede). Ma dato che la vista non ti mette di fronte ad un freddo referto, quanto piuttosto ad un universo polimorfo e dotato di iridescenti metamorfosi, il primigenio atteggiamento conoscitivo non è quello, ovviamente, del piatto racconto cronachistico, bensì quello dell’espressione meravigliata del bambino che vede oltre quel che gli occhi attestano. Il primo resoconto storico sul mondo è un resoconto mitico ossia fatto attraverso la parola che racconta la meraviglia. Questo altro non è che “la potenza del favoleggiare”, l’uso magico della parola, il che è un bisogno dell’uomo ancor più imperioso di quanto lo è quello del ragionare. Accanto quindi ad una cosmologia descrittiva si istalla contemporaneamente una cosmogonia e una cosmologia normativa, solo che le leggi che guidano i fenomeni non sono leggi “fisiche”, ma leggi morali e sociali. L’originario portato semantico
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del termine “causa” è quello che significa “colpa” tanto che è, ormai, generalmente ammesso che prima di riconoscere il concetto di causa come generazione di eventi, l’Occidente ha ammesso tale termine come norma o fine da raggiungere. In questa prospettiva è facile riconoscere nel pensiero mitico l’originaria visione di una Natura magica, prodotta dalla coscienza di una collettività che tale coscienza usava come modello esplicativo. Il Frammento I di Anassimandro (VII-VI secolo a.C.) che, giustamente, Heidegger definisce il più antico testo filosofico del pensiero occidentale, se non altro perché Teofrasto ci ha testimoniato che: “... egli fu il primo a introdurre il termine principio (archè)”11: “Da dove (ex òn), infatti gli esseri hanno origine (génesis), ivi (eìs taùta) hanno anche la loro dissoluzione secondo ciò che deve essere (katà to chreòn): le cose che sono, difatti, pagano reciprocamente l’una all’altra riparazione (dìken) ed espiazione (tìsis) per la loro ingiustizia (adikia) secondo il decreto del tempo”. (Anassimandro, framm. I). L’archè tòn ònton (il principio degli esseri) è aghénaton (ingenerato), anòlethron (indistruttibile) e fondamentalmente àpeiron (indefinito), esso non soggiace alle leggi del divenire e, per quanto sia principium e initium, non è causa. Causa è chréon (la necessità), la quale non è una legge fatalistica, ma una legge di giustizia che interviene a ripristinare l’ordine violato. Dike didonai (rendere giustizia) è una espressione che rimanda al contraccambio tipico del giudizio arbitrale: si tratta di un quid che uno dei due contendenti deve all’altro per ripristinare l’ordine (kosmos) violato. Nella dinamica per cui dal Cha11 Teofrasto, Opinioni dei fisici, fr. 2.
os nasce il Cosmo (grazie al logos, la parola che genera e mantiene l’Armonia) si assiste come ad una immane battaglia fra il principio dell’ordine e quello del disordine, una contesa che dura dall’inizio dei tempi e percorre incessantemente gli spazi della storia dell’universo secondo un ciclo di incessanti alternanze. In questo processo omeostatico inteso al mantenimento dell’equilibrio sociale e naturale, tre sono gli elementi fondamentali: il cosmo (l’ordine), la dike (la giustizia) e l’aitia (la causa). Ognuno di questi elementi è mutuato dalla sfera della polis (il mondo etico, giuridico, politico e sociale) ed è passato in filigrana sull’ordito del mondo fisico-naturalistico, a giustificazione del fatto che è la polis a fungere da modello del macrocosmo. La parola greca aitia (causa) è ad di là di ogni dubbio un termine originatosi e appartenente all’ambito giuridico: il suo significato fondamentale è quello di “colpa”. Aitios (colpevole) e aitiaomai (accuso, incolpo) sono termini già presenti nei poemi omerici, nel pensiero dei presocratici, nelle opere degli storici e nei medici del IV secolo e, quindi, nella duplice radice di “causa” e “colpa” nei poeti e nei filosofi attici. Anche il latino causa ha la stessa matrice semantica. La differenza sta nel fatto che i Greci intendevano l’azione giuridica nel senso dell’accusa, mentre i Romani in quello della difesa (caveo = mi difendo) [Per gli uni il procedimento del “dar ragione” è quello della verifica delle ipotesi, per gli altri quello della falsificazione]. Lo stesso concetto di motivo probante o ragione sta sotto sia al significato “filosofico” di causa che a quello “giuridico” di imputazione e, sotto questa caratteristica di relazione fondante, moltiplicherà, in seguito,
la propria estensione semantica per quanti saranno le sfere di applicabilità. In questo spazio prospettico, la connessione causale è razionale: la causa è ragione (sia in senso logico che ontologico) del suo effetto ed è perciò deducibile da esso. (La critica a questa concezione “classica” della causalità e la conseguente sostituzione della connessione razionale con la connessione empirica verrà molto più tardi; anticipata da Al-Gazali (XI sec.) e da Guglielmo da Occam (XIV sec.) fu portata a compimento solo con David Hume). Nella fase aurorale del pensiero greco, il tempo in cui germinano i concetti che più tardi si dispiegheranno nella possente speculazione attica, la nozione di causalità rimanda ad una connessione razionale intesa come concatenazione di eventi regolati secondo giustizia (correttezza logica e armonia etica) al fine di mantenere l’armonia del cosmo in un incessante processo di equilibrio dinamico. La rottura dell’equilibrio, condizione ineludibile del divenire, è la minaccia estrema, l’accadere è incominciare ad essere o uscire dal niente, è la colpa radicale che esige di necessità la riparazione e l’espiazione tramite la pena. Il farsi altro dall’apeiron è percorrere i sentieri della metamorfosi, le strade dell’apparire e dello scomparire, del nascere e del morire (l’origine da/l’annullarsi in). In definitiva è l’ingresso nella storia e il sottomettersi al destino. L’ avestico aeta (il greco è aisa, da cui aitia) significa “parte dovuta” nel senso di destino (quel che ti tocca). Non cieca fatalità, ma rigida necessità: la colpa è causa della pena o, per meglio dire, dall’effetto (pena) è possibile risalire alla causa (colpa). Diaitao (condurre l’agire in un certo senso) comporta l’aitia (la parte che ti è dovuta). Singolarmente, i due concetti di aitia
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(causa) e dike (giustizia) convergono verso la coppia monosemica di “ciò che a ciascuno spetta (dike) - la parte che da ciascuno si esige (aitia)”. Il trasferimento del concetto di causa-colpa dalla sfera della responsabilità giuridica (cui è sottoposto ogni singolo abitante della polis) alla sfera della causalità fisica (le rotture e le riparazioni dell’armonia dell’universo nel processo del divenire) ha dovuto fare i conti con le nozioni di cosmos e di dike (ordine e giustizia). L’attestazione del “che le cose stanno così” comporta, in questa prospettiva anche la risposta alla domanda del “come stanno le cose”. La descrizione dell’osservazione tradotta nella parola che racconta risponde ad ambedue le esigenze. Il problema sorge quando ci si pone la domanda circa la struttura originaria o se si vuole circa la causa prima. In questo contesto il mondo greco si differenzia profondamente da quello circonvicino. In nessun luogo a nessun patto la cultura ellenica è disposta ad ammettere un Dio creatore. Tutte le altre civiltà, al contrario, non possono concepire altro che la creatio ex nihilo. Ci bastino al riguardo le parole dei due più autorevoli testi sacri dell’antichità: nel secondo brahamana degli Upanishad sta scritto: “All’origine quaggiù nulla vi era. Tutto questo universo era ravvolto in Mrtyu, nella fame e nella morte. Allora questi concepì il pensiero: ‘Possa io essermi’ e mentre pregava si mise in moto” e nei primi versetti del Genesi: 1 -“In prin-
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cipio Iddio creò12 i cieli e la terra. [Bereshit barà Elohim et hashammaim veet haaretz] 2- La terra era una massa informe e vuota e le tenebre erano sulla superficie dell’abisso e lo spirito di Dio aleggiava (e vento di Dio soffiava) sulla superficie delle acque [Vehaaretz haità tohu vavohu vehoshech al pnei tehom ve ruah Elohim merahefet al pnei hamaim] (l’ebraico è translitterato e tradotto parola per parola). 3 - Dio disse: Sia la luce! E la luce fu (Waiomer Elohim iehi or, waiehi or) ed è la prima volta che opera con la Parola, in cui viene pronunciato il comando (prima nulla vi era se non una massa informe e vuota). L’uno è il Fiat lux della grande recita ebraica, l’altro e lo spirito omni-pervadente, l’uno-tutto. degli Indiani, espresso con il Vāc, la parola creatrice. Ma il pensiero greco aborre profondamente da una impostazione di questo genere, il dio greco non crea, ma ordina; egli è lo strumento per cui la legge naturale si compie in termini di perfezione. La proposizione che asserisce l’origine dell’essere dal nulla non si può né pensare né pronunciare: “Difatti quale origine gli vuoi cercare? Come e donde il suo nascere? Dal non essere non ti permetterò né di dirlo né di pensarlo. Infatti non si può né dire né pensare ciò che non è. E quand’anche, quale 12 Il testo biblico del verbo utilizza barà= creare, assà=fare, banà=costruire, ma barà è riferito solo a Dio.
necessità può aver spinto lui, che comincia dal nulla a nascere dopo o prima? Di modo che è necessario o che sia del tutto o che non sia per nulla” (Parmenide fr. 4). L’Essere è unico, unitario, eterno, immutabile. Nella dottrina degli eleati viene irrevocabilmente esclusa la creazione in quanto è irrevocabilmente negato il mondo fenomenico. Anche nel momento in cui la cultura greca, uscita dal dramma parmenideo, era riuscita con Platone a imboccare la strada capace di salvare i fenomeni e, quindi, a riproporre il tema dell’origine dell’universo, questa esclude la creazione. Il dio greco è ordinatore, ma non creatore, egli pone ordine nel caos, ricompone le sparse membra dell’universo, traccia limiti e confini risuggellando l’illimitato indeterminato entro precise strutture ordinate. Nella religione greca il divino non compare eccezionalmente quando si tratta di salvare, ammonire, punire, premiare gli uomini, esso è presente nella Natura come sua forma, essenza ed essere. Nelle altre religioni il dio combatte per il suo popolo e lo fa mettendo in atto i suoi poteri eccezionali, quando il popolo lo trascura se ne mostra adirato e dimostra a questi fin dove può giungere la sua ira; esso, quando si presenta, lo fa con quella stupefacente gravità che toglie il fiato agli astanti, egli comunica quel brivido di eternità che ha l’ineffabile elevatezza e l’inimmaginabile distanza. Il dio greco è sempre presente nella storia, combatte per i pro-
pri amici e quando si adira lo fa al medesimo modo degli uomini, e, il più delle volte, quando si presenta, gli uomini neppure se ne accorgono. Egli non salva e non premia, non ammonisce né punisce, non ha alcun interesse a redimere o attirare a se gli uomini. Fa parte della storia e quindi nella storia vive. Mai egli opera il miracolo. Se egli manca della santità degli dei degli altri popoli, manca anche dei loro poteri eccezionali. Ma a differenza di questi egli non appare come un che di sovrannaturale ed extrastorico. Il dio greco rappresenta la sacralità della natura, la quale pur senza mai perdere i venerabili contorni del divino, si eleva nella sua condizione di realtà sensibile ed intelleggibile. Il pensiero greco non ha nei suoi schemi la nozione di miracolo. Nulla avviene se non per la necessità fissata nelle cose: la Legge, il Nomos è la stessa che regola sia la polis che il periechon (ciò che sta intorno). Come s’è già ricordato la nozione di cau-
rattere etico-politico (la legge che ordina il convivere degli uomini). Più tardi diventa legge universale, capace di fungere da elemento unificatore. Ma affinché la legge potesse fungere da elemento ordinatore sommo bisognava che fosse rigorosamente garantita da qualunque tentativo di violazione. Nell’antica lezione mitologica le Erinni svolgono la funzione di personificare la potenza di difesa delle norme. Eraclito le chiama “le gendarmi di Dike” ossia le garanti della giustizia e aggiunge che per timore verso di queste “neppure il Sole oltrepasserà mai i limiti che gli sono stati imposti” (Eraclito fr. 94). Esse, le tremende divinità cui s’inchina il padre degli dei, sono le supreme custodi dell’ordine naturale e sociale. La difficile conquista dell’ordine fa sì che gli Elleni popolo la cui arcaica mitologia ci indica il terribile disordine antecedente nelle atroci leggende di Cronos e Saturno - divinizzassero le grandi forze naturali dell’ordine: la
passo, l’ineluttabile punizione. L’andare oltre, l’inoltrarsi nella regione del disordine, rappresenta per il mondo greco l’autentico tentativo di sopraffazione della morte nei confronti della vita, significa l’aver sconfinato nelle terre dove non v’è la presenza del
sa ha la duplice connotazione morale e fisica, a significare che causa è tanto l’intenzione da raggiungere che l’agente. La polis, la città dell’uomo, è al centro dell’universo e se l’una è governata dalla legge morale, l’altro è ordinato dalla legge fisica. La legge è ciò che garantisce all’abitante della polis la libertà; l’ordine che non può esistere senza la legge è ciò che permette l’esistenza della Polis e del Cosmos. È proprio nella dialettica fra Chaos e Cosmos (fra ordine e disordine) che s’installa il tema della origine dell’universo nella cultura greca. Ma la primigenia delle nozioni d’ordine è di ca-
Necessità, la Giustizia e le Severe Signore, custodi della sacra costituzione della natura. L’ordine necessario è assolutamente inviolabile, esso è la legge di natura che fa sì che l’universo sia regolato secondo giustizia; nessuna azione può romperlo, nessuna volontà può piegarlo, neppure il dio vi si può opporre. Quando l’uomo diviene superbo e si ingelosisce degli dei, quando l’Ybris lo avvolge, allora per invidia del loro potere concepisce l’intenzione di “andare oltre”, di rompere l’ordine fissato, è in quel momento che scatta la Ftonos, la legge del contrap-
rita ai più antichi filosofi dalle vicende ricorrenti, appurabili e stabilibili: l’alternarsi del giorno e della notte, dei mesi e degli anni, il muoversi in circolo degli astri dello zodiaco in cui s’avvicendano il sole, la luna e i corpi celesti, l’apparire delle stagioni, il mutarsi, rimanendo sempre le stesse, delle generazioni animali e, fondamentalmente la teoria che con Ipparco (128 d.C.) verrà detta la precessione degli equinozi (ma che era già nota, sia pur con notevoli errori di calcolo, ai Babilonesi e agli Egizi). Fu nel V sec. che l’idea del grande anno incominciò ad essere studiata a fondo. “Eudemo
Scienza dio e, di conseguenza, dove non può esservi la sua immagine: l’uomo. In definitiva il mondo greco, sia nella visione circolare di un continuo espandersi e contrarsi dell’universo eterno, sia nella visione aristotelica di un universo sempre esistito e che continuerà ad esistere così com’è, ci presenta il cosmo come increato, eterno, uniforme, invariabile e statico. La concezione secondo cui il mondo ritorna (dopo un certo numero di anni), al disordine primitivo dal quale emergerà di nuovo per riprendere il suo corso ciclico sempre uguale, fu sugge-
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nei suoi libri sull’astronomia testimonia che Enopide per primo scoprì la fascia dello zodiaco e il volgersi del grande anno”13. Eraclito di Efeso (V sec.) dichiarò che nulla è in riposo e che la sola realtà è il divenire, e per esprimere il perpetuo mutamento egli scelse come principio il fuoco, da cui tutte le cose sono scaturite e in cui finiranno per dissolversi; quindi si formerà nuova materia e sorgerà un nuovo mondo. “Il cosmo di fronte a noi, lo stesso per tutti gli esseri non lo fece nessuno degli dèi né degli uomini, ma fu sempre, ed è, e sarà, fuoco sempre vivente, che divampa secondo misure e si spegne secondo misure... Inversioni del fuoco: dapprima il mare, poi metà del mare diventa terra, l’altra metà soffio infuocato [...] La terra si fonde come mare, e la sua misura si determina nella stessa espressione, quale c’era prima che diventasse terra”14. Egli fissò il periodo di questi rinnovamenti del mondo, fissando la durata del grande anno in 10.800 anni15 o in 18.00016. Dopo di lui Platone “Si può 13 Teone di Smirne, Esposizione delle conoscenze matematiche utili per la lettura di Platone, 320, 6 Dupnis = DK 41 A 7. Attivo nella seconda metà del v sec. “Enopide di Chio, astronomo, offrì nei giochi olimpici una tavola di bronzo su cui iscrisse la sua teoria astronomica dei cinquantanove anni, affermando che di questo periodo è il grande anno. Metone, del demo di Leuconce, astronomo, offrì una stele su cui iscrisse il solstizio di inverno e, come disse, scoprì il grande anno, affermando che esso era di diciannove anni”. (Eliano, Storia varia, X, 7 = DK 41 A 9) 14 Eraclito, DK 1 157-158; Colli 14 A 30 e 31 a b - Clemente Alessandrino, Stromata 5, 104, 3 15 Censorino, De die nat. c. 18 16 Aezio II, 32, p. 364 La prima è probabilmente la cifra esatta in quanto è uguale a
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tuttavia comprendere che il numero perfetto del tempo allora compie l’anno perfetto, quando le velocità di tutti gli otto periodi, compiendosi rispettivamente, ritornano al punto di partenza, misurate secondo l’orbita del medesimo che si muove in modo uniforme”17. Vediamo, però, le varie fasi di ordinamento dal chaos al cosmos (all’universo) nel Timeo di Platone: “Diciamo dunque per qual cagione l’artefice fece la generazione e quest’universo [29 e]... prese quanto v’era di visibile e senza quiete, ma si agitava senza regola e disordinatamente e dal disordine le ridusse all’ordine, avendo giudicato l’ordine di gran lunga migliore del disordine” (30 a)... trovò che mai avrebbe potuto scaturire 30x360 o una generazione per ogni giorno dell’anno, 30 anni essendo, secondo Eraclito, la durata di una generazione. Secondo Macrobio quest’anno perfetto comprenderebbe 15.000 anni solari, secondo Cicerone 12.954. 17 Platone, Timeo, 39,40 “E per questa causa furono generati gli astri che non sono erranti, animali divini ed eterni, e roteando uniformemente nello stesso luogo, sempre restano fermi: ma quelli che son volti in giro ed hanno questo corso errabondo, come prima si è detto, furori generati a quel modo. Quanto alla terra, nostra nutrice, costretta intorno all’asse che si distende per l’universo, dio la fece guardiana e operatrice della notte e del giorno, prima e antichissima delle divinità nate dentro del cielo. Ma le danze di questi astri e i loro incontri, e i ritorni e gli avvicinamenti dei circoli, e quali dèi nei congiungimenti siano vicini fra loro e quanti opposti, e dietro a quali, coprendosi a vicenda, e in quali tempi si nascondano a noi, e di nuovo apparendo mandino terrori e segni delle cose future a quanti non sanno questi calcoli, tutte queste cose sarebbe vana fatica spiegarle senza avere avanti agli occhi le loro immagini.”
dalle cose secondo natura visibili in tutto provvisto d’intelligenza, non solo, ma che non era possibile che qualcosa avesse intelligenza se al tempo stesso non possedeva anima. Grazie a questo ragionamento, unendo l’intelligenza con l’anima, e l’anima con il corpo, costruì l’universo, sì che l’opera da lui compiuta fosse, per natura, la più bella e la più buona possibile. Questo mondo è un essere vivente, dotato di un’anima e di un’intelligenza, veramente generato dalla mano del Demiurgo (30 b)... Ecco perché lavorò al tornio l’universo come una sfera, in forma circolare, ugualmente distante, in ogni parte, dal centro alle estremità, che è fra tutte le figure la più perfetta e la più simile a se medesima, ché il Demiurgo giudicò il simile infinitamente più bello del dissimile (33 b)... v’erano tre principi distinti, l’essere (eināi), lo spazio (chõran) e la generazione (gènesim) anche prima che nascesse il cielo (ouranon). Ebbene, la nutrice della generazione, inumidita e infuocata, assumendo le forme della terra e dell’aria, e subendo tutte le altre modificazioni che seguono a quelle, appariva sotto svariatissimi aspetti, ed essendo piena di forze non omogenee né equilibrate, ovunque non erano in equilibrio, ma, ovunque sobbalzando inegualmente, era scossa da queste stesse forze e, a sua volta, muovendosi, dava forza alle forze (52 d)... Tutti questi elementi erano disposti dapprima senza ragione e senza misura; ed anche quando il tutto cominciò ad essere messo in ordine, da principio il fuoco, l’acqua, la terra, l’aria, che pur avevano una qualche traccia della propria forma, erano tuttavia in quello stato in cui è naturale sia ogni cosa quando il Dio non è presente. Fu appunto allora, quando così stavano que-
ste cose, che le adornò in primo luogo di forme e di numeri (53 b)... Innanzi tutto, è chiaro ad ognuno, che fuoco, terra, acqua, aria sono corpi. D’altra parte, ogni specie di ciascun corpo ha anche una sua profondità e lo spessore, a sua volta, necessariamente implica che sia limitato da superfici piane e la superficie piana e rettilinea si compone di triangoli. Tutti i triangoli scaturiscono poi da due triangoli, ciascuno dei quali si compone di un angolo retto e due acuti e di questi triangoli l’uno ha da ciascuna parte una porzione uguale di angolo retto diviso da lati uguali, e l’altro due parti diseguali d’angolo retto diviso da lati diseguali (53 d)... Noi dunque dei molti triangoli, trascurando gli altri, ne poniamo uno come il più bello, quello che ripetuto forma un terzo triangolo, ch’è equilatero (54b)... Dunque i due triangoli scelti, dei quali sono stati fatti i corpi del fuoco e degli altri elementi, siano l’isoscele e quello che ha sempre il quadrato del lato maggiore triplo del quadrato del minore18... Non 18 Il Demiurgo lavora partendo dagli elementi della geometria: quella che ha zero dimensioni è il punto, una dimensione è la linea, due il piano, tre il solido. Per avere un corpo si deve partire dalla più piccola superficie piana, che è il triangolo, di cui il più equilibrato ed armonico è il triangolo equilatero. Lo si ottiene dalla ripetizione di due triangoli rettangoli scaleni che abbiano il cateto minore uguale alla metà dell’ipotenusa (Per il teorema di Pitagora (AC)2 = (AB)2 - (BC)2 ossia: dato che il lato BC = AB/2, allora (AC)2 è il triplo di (BC)2 cioè a = b/2, quindi c2 = 3b2 , o anche con angoli di 30° 60°, e 90°). È chiaro che due di questi formano il triangolo equilatero. Prendiamo ora il triangolo rettangolo scaleno di 30° 60°, e 90° e il triangolo rettangolo isoscele di 45°, 45° e 90°. Con sei dei primi (scaleno) si costruisce il triangolo equilatero (si potrebbe farlo con due, ma per ragioni di armonia numerologica con il cubo Platone ne usa sei), con quattro di questi si costruisce il tetraedro (6x4), altro solido regolare che
possono dunque tutte, dissolvendosi le une nelle altre, da molte piccole diventare poche grandi, e viceversa: ma quelle tre sì. Perché, essendo tutte derivate da un solo triangolo, dissolvendosi le più grandi, se ne formeranno molte piccole, che accolgono le forme ad esse convenienti, e quando invece molte piccole si dividono in triangoli, facendosi un solo numero di una sola massa, possono costituire un’altra specie grande19 (Platone, Timeo, 54 d). Ordinato il tutto, secondo armonia, si deve istituire un rapporto fra la materia che lo compone e l’anima che lo sorregge “E posta l’anima in mezzo a questo corpo, la diffuse per tutte le sue parti, non solo, ma con questa stessa anima avvolse il corpo anche di fuori, e formò cosi un cielo circolare e che circolarmente si volge unico, solitario per sua stessa virtù capace di bastare a se stesso senza avere bisogno di nulla, sufficientemente atto a conoscere ed amare se medesimo” (Platone, Timeo 29-30) E, analogamente, Aristotele: “Dio, dunque, se è ciò che è di più perfetto, pensa sé stesso corrisponde al fuoco. Con otto di queste facce costruisco (6x8) l’ottaedro (l’elemento aria) e con venti facce triangolari (6x20) l’icosaedro (l’acqua). Con quattro triangoli isoscele si costruisce un quadrato, con sei di questi (6x4) un cubo (la terra). Rimarrebbe il solido regolare a 12 facce a pentagonali, ossia il dodecaedro: “la quinta combinazione servì al demiurgo per decorare l’universo” (55 c). 19 Questi sono i quattro elementi o atomi (terra/fuoco/aria/acqua); il cosmo ha forma sferica e le contiene tutte compreso, il dodecaedro o ornamento dell’universo. Queste componenti elementari della materia il Demiurgo unisce fra di loro secondo numeri, quantità, proporzioni. Questo gioco di corpi costituiti dalla materia mescolata insieme dà le materie composte. Ma queste parti sono talmente piccole da non essere visibili, mentre i loro agglomerati, a seconda delle dimensioni, lasciano intravedere le loro masse.
e il suo pensiero, è pensiero del pensiero” (Met, XII, 9, 1074 b, 34) Anche nella visione della Genesi (già riportata) o nel commento da Namanide (XIII secolo): “ ‘In principio Iddio creò i cieli e la terra.’ (Gen 1.1) dal nulla assoluto. ‘In sei giorni Iddio fece i cieli e la ter-
Scienza ra’ (Es. 20.11) da quel ch’era stato creato fin dal principio.”, per quanto differente dalle due versioni greche, in quanto chiama in causa un Principio Creatore, è l’esatta descrizione, come i precedenti, di un universo finito, statico, invariabile, uniforme. Ciò che precede “in principio”, è inaccessibile alla ricerca, perché la forma della beth20 è chiusa su tre lati e aperta solo nella direzione che va in avanti, a significare che solo gli avvenimenti che vengono dopo sono decifrabili, penetrabili ed esplicabili dalla speculazione umana. Anche lo spazio e il tempo (e le loro dimensioni) sono create “in principio” e barah è l’unica parola ebraica che significa la creazione dal nulla. L’inizio dell’universo è in un lembo minuscolo di spazio, grande come un granello di senape, tanto che allora neppure il più potenti dei nostri microscopi l’avrebbe potuto vedere ed, ora, è così grande che neppure i più potenti telescopi ne possono indicare i confini. Dal principio 20 La prima lettera della prima parola della Bibbia è beth (i due lati di un triangolo con il vertice a destra e mancante del terzo lato a sinistra, come una C rovesciata, essendo che l’ebraico si scrive da destra a sinistra) come a significare che si possono accostare solo gli eventi “dopo il principio” oppure una grande bocca spalancata o fenditura – la C o prima lettera del Chaos – che e aperta su tutti gli angoli perché è eterno e infinito, ma è da sempre esistito.
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da oggi lo spazio, sottoposto all’espansione, non fu più come un granello di senape ma subordinato alla dilatazione e alla diffusione, prese le dimensioni sempre più incommensurabili e illimitate. Anche il problema del tempo, comune a tutte versioni creazioniste, diviene una proprietà dell’u-
Scienza niverso (il tempo nasce con l’universo in moto). A differenza di Platone per cui esistono lo spazio, il tempo e la generazione (ciò che fa uscire dalla chora il chaos unificato “anche prima che nascesse il cielo”). Secondo la Bibbia le proprietà fondamentali del creato: le dimensioni, la forma, la luce con i loro contrari, furono create o formate: “E la terra era senza forma e vuota e le tenebre ricoprivano l’abisso, e sulle acque aleggiava lo spirito di Dio. E Dio disse ‘Sia la luce’ e la luce fu. E Dio vide che la luce era buona, e Dio separò la luce dalle tenebre” (Gen 1, 2-4). In principio e dal nulla tutto questo universo nasce e vive in continua espansione ed evoluzione: “E Iddio vide tutto quel che era stato fatto e vide che era molto buono” (En 1, 31). La grandiosa recita della creazione termina con “vide che era molto buono” e, da questo, momento l’universo intero dovrà camminare sulle proprie gambe. Sia sul piano delle cosmologie, che di quello delle cosmogonie l’Occidente ha sempre considerato l’universo come un qualcosa di statico e di immutabile, dovuto al bisogno e al desiderio irrinunciabile di verità eterne; gli uomini possono invecchiare e morire, la loro la storia, per quanto la si percorra, è finita, ma il cosmo è perenne, imperituro, continuo.
P.50, 53 e 56: Cieli stellati (collez. priv.); p.51: Foto astronomica della Luna, Kitt Peak Observatory, USA; p.52: Oriente, il sole nascente...; p.54: Lo Space Shuttle ripreso mentre orbita; p.55: M31, la galassia Andromeda; p.57: Costellazione di Orione, la nebulosa Testa di cavallo (Barnard 33 in IC434); p.58/59: Rappresentazione di Saturno; p.60: Rappresentaz. di uno dei satelliti di Giove; p.61: La galassia M104 Sombrero.
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L’ipotesi “creazionista” e quella di un universo eterno si dividono da tre millenni le possibili spiegazioni sull’origine del mondo: l’eternità del cosmo si lega al pensiero dei greci, mentre la creato ex nihilo, attribuibile alle altre e più diverse culture, venne a qualificarsi come la concezione giudaico-cristiana. Se la visione di un creatore dal nulla, in termini assoluti, non considera l’universo eterno, va da sé che dopo il “in principio” le cose si sistemano negli stessi termini. Mentre l’ipotesi creazionista è legata alla teoria di un inizio dell’universo e quella del cosmo eterno è connessa al fatto che il mondo non ha avuto inizio e non avrà mai fine, esiste una terza teoria di un universo non creato “in principio”, ma sottoposto ad una continua e costante creazione: la teoria dello stato stazionario. Nel 1929, E. Hubble, assistito da M. Humason, produsse due riflessioni destinate a cambiare l’intera visione cosmologica che da 2500 anni resisteva in occidente, la prima è che le galassie sono distribuite nello spazio in maniera uniforme e omogenea, la seconda che galassie più lontane presentano un rapido rallentamento recessivo da noi e nello stesso tempo si allontanano l’una dall’altra con una velocità tanto maggiore quanto più distanti esse sono. In altre parole, la scoperta dello spostamento verso il rosso delle nebulose più lontane, ci ha costretti a prendere in considerazione l’idea che l’universo è in espansione e che più una galassia è lontana tanta più velocemente si sposta, cioè le galassie si allontanano con velocità proporzionale alla distanza. Un universo isotropo, e dotato di moto di espansione cosmologica, dove nessun punto di osservazione, nessuna direzione, nessun punto di propagazione o diffusione, fosse quello esclusivo e privilegiato. I modelli statici dell’universo vennero abbandonati a favore di modelli dinamici fondati sul concetto di espansione dello spazio. Eddington e Lametrie hanno, di conseguenza, saputo coniugare la relatività con la teoria dello spostamento verso il rosso delle nebulose più lontane, sostenendo il modello dinamico del Big Bang (15 miliardi di anni fa). La seconda scoperta, fatta nel 1964 da Penzias e Wilsons, di una radiazione isotropica di fondo, una radiazione di fondo costante e uguale in tutte le direzioni, sempre presente indipendentemente dalla dire-
zione dell’antenna, della lunghezza d’onda di 7,35 cm nella fascia delle microonde. Questa scoperta confermava una predizione essenziale della teoria del Big Bang: se le valutazioni delle condizioni dei tre minuti successivi alla Grande Esplosione sono esatte, dovrebbe esservi in tutto l’universo una radiazione di fondo corrispondente ad una temperatura di un corpo nero di circa 5 K. Un documento storico che attesta il passaggio da 1032 K a 3,5 K. Con queste due scoperte si venne a dare impulso alla teoria del Big Bang, che oggi è considerata il modello standard, cui si oppongono la teoria dell’universo in costante oscillazione (che ne è una variante: da un certo punto l’espansione termina e comincia la contrazione, per poi un nuovo Big Bang e una nuova contrazione che ricomincia tutto di nuovo) e la teoria delle stato stazionario (che pur accettando la recessione delle galassie non accetta l’idea che il tempo abbia avuto un inizio). La teoria del Big Bang (accettata dalla Chiesa nel 1951 e da molti scienziati ebraici) è la più agevole, semplice e possibile delle cosmologie adatta alla visione biblica; essa oltre da essere l’unica che si adatta alla relatività, allo spostamento verso il rosso delle galassie più remote e alla presenza di una radiazione di fondo di 3,5 K, dichiara che non vi è materia sufficiente per poter produrre una forza gravitazionale per dare avvio ad una contrazione. In altre parole, l’espansione del cosmo continuerà in eterno. La teoria dell’universo in costate oscillazione è paragonabile alla visione platonica di un cosmo eterno ma in incessante cambiamento, che ritorna continuamente a riproporsi sempre uguale e sempre diverso. La precessione degli equinozi dove tutto ritorna ad essere quel che era e la teoria dei cicli meteorici collegati ai cicli storici sono a testimoniare che il mondo non ha avuto inizio e non avrà mai fine. Sia il modello standard che l’universo in costante oscillazione sono una variante l’uno dell’altro, con la differenza che uno ha avuto un inizio e l’altro non ha avuto un inizio. La teoria dello stato stazionario considera, invece, il cosmo come un mondo che è sempre esistito, esiste e continuerà ad esistere in uno stato simile a quello attuale e implica che la sembianza di una qualsiasi luogo del cosmo è stata nel passato e sarà sempre nel futuro quella che è al presente.
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Ora il solo modo di conciliare questo postulato col movimento di recessione delle galassie (dimostrato dallo spostamento del loro spettro verso il rosso) sarebbe quello di ipotizzare che mentre le galassie si allontanavano l’una dall’altra, nuove nebulose si formano negli spazi intergalattici; ma se nuove galassie si formano continuamente, ciò vuole dire che continuamente nuova materia si crea nello spazio. Herman Bondi e Thomas Gold, nel 1948, calcolarono che la creazione (non dicendo come!) di nuova materia deve essere di un atomo di idrogeno per anno e per ogni km cubo dello spazio e l’astronomo inglese F.Hoyle modificò le equazioni di Einstein della relatività generale in modo che esse permettano la continua creazione della materia nello spazio. Se il modello standard è vicino a quello biblico e se l’universo in costante oscillazione è simile a quello platonico, la teoria dello stato stazionario è quella - a mio avviso del grande mistico medioevale: “Dio non avrebbe creato il mondo se l’averlo creato escludesse il crearlo: l’ha creato in modo tale che continua a crearlo sempre, senza interruzione” (Meister Eckhart, Il libro della consolazione). Qui non si è parlato di vita o nefesh haia = essere vivente secondo la sua specie. Vorrei lasciare la parola F.Hoyle che ci parla di un autentico mi-
racolo: “Non da una grande galassia con un largo insieme di cellule viventi e neppure con la totalità delle galassie visibili con i nostri telescopi. Per affrontare una probabilità come 1/1040000 l’insieme della vita deve essere di scala enormemente cosmologica e la nostra cosmologia deve estendersi nel passato per un intervallo di tempo assai oltre i 10 miliardi di anni per un fattore enorme [...] Naturalmente il lettore si chiederà se 1/1040000 è effettivamente inevitabile. La risposta è si, se la vita origina dalle cieche forze della natura, cioè senza informazione iniziale [...]. Il numero 1/1040000 è ottenuto da un calcolo in cui si richiede che meno di 20 aminoacidi fossero nella posizione sequenziale specifica per ciascuno dei 200 enzimi. Semmai è un valore per eccesso [...]. Piuttosto che accettare una probabilità più piccola di 1/1040000 per l’affermazione della vita attraverso il gioco delle cieche forze della natura sembra meglio supporre che l’origine della vita era un atto deliberato di natura intellettuale. Per “meglio” intendo “meno probabile di essere sbagliato”21. Se poi ha ragione F. Hoyle con la ipotesi che la vita viene dagli spazi interstellari22 o Ge21 F.Hoyle/C.Wickramasinghe, Evolution from Space, New York 1984, Simon & Schuster 22 F.Hoyle, oltre che un grande astronomo,
rald L. Schroederche “non sono stati eventi casuali a darci la forma23, ma Dio” non lo sappiamo. Certamente George Wald che, da Premio Nobel per la medicina filosofeggiava dalle pagine di Scientific American, non ci ha convinti che la vita è un prodotto inevitabile della chimica. “Basta aspettare! – ci diceva - Il tempo fa miracoli. Il tempo è il vero eroe del dramma”. È piuttosto buffo, ma il caso è il creator ex nihilo dei nostri tempi. Basta dargli tempo (che non ha proprio) e materiale (che non c’è per niente). fu anche un notissimo autore di romanzi fantascientici. 23 Per raggiungere la probabilità che una sola proteina possa essersi sviluppata per caso, sarebbero stati necessari 10 tentativi al secondo fin dall’inizio dei tempi! [1023 secondi o 15 miliardi di anni successivi al Big Bang]. Per compiere questi tentativi, l’energia necessaria alle reazioni avrebbe richiesto 1090 grammi di carbonio; ma l’intera massa della Terra (compresi tutti gli elementi) raggiunge appena i 6 x 1027 grammi! Anzi, 1090 grammi superano di molti miliardi di volte la massa stimata dell’intero universo! Con queste probabilità, diventa chiaro che non può essere stato il caso la forza propulsiva che ha prodotto proteine simili nei batteri e negli esseri umani. Eppure esistono proteine simili nei batteri e negli esseri umani. Gerald L. Schroeder. Genesi e Big Bang, Milano, 1969 pp, 146-47
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D Storia delle idee
I labirinti della ragione: per una storia dell’esclusione Ida Li Vigni
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ire e parlare non sono la stessa cosa. Uno può parlare, parla senza fine, e tutto quel parlare non dice nulla. Un altro invece tace, non parla e può, col suo non parlare, dire molto” (Heidegger, In cammino verso il linguaggio) Come ha chiaramente messo in luce Colli, il mito greco del Labirinto e del Minotauro è la storia della lotta dell’uomo per conquistare e domare il linguaggio della follia, della “diversità”, ma anche la denuncia di un fallimento: il fallimento di chi, come Teseo, con l’inganno e il tradimento (il filo di Arianna, metafora trasparente del logos ordinatore), penetra nel Labirinto e uccide la Bestia senza aver prima riconosciuto che il Labirinto e la Bestia sono dentro di lui, ovvero che coesistono logiche “altre”, egualmente portatrici di significato e di sapere. Costruire una storia sociale e individuale della follia significa appunto questo: rinnegare Teseo per riuscire a penetrare e a uscire dal Labirinto senza uccidere o ridurre al silenzio l’altro da sé; rifiutare l’aiuto di Arianna per giungere a scoprire e salvare la fiammella dell’anima anche là dove sembra essere scomparsa ogni traccia del pensiero umano, accettando di penetrare e far proprie quelle logiche “altre” che comunemente sanciscono la di versità e l’esclusione. Occuparsi della follia significa pertanto occuparsi di quel nucleo oscuro, inafferrabile nelle sue polimorfe manifestazioni (la figura umano-bestiale del Minotauro), utilizzando sì la “parola” come strumento di conoscenza e di spiegazione, ma sempre con la consapevolezza che il comunicare non si esaurisce nel semplice linguaggio connotativo, ma vive in virtù di un’infinita molteplicità di linguaggi, così come la parola non è mera coincidenza di significato e significante, ma pluralità di significanti all’interno di un significato. Compito quanto mai difficile e doloroso, poiché nasconde in sé le insidie dello smarrimento e, dunque, la tentazione della rimozione, della fuga o della razionalizzazione forzata. Basta considerare per un attimo la letteratura sulla follia per rendersi conto di quanto sia arduo parlare dei folli alla luce delle loro intenzioni e non alla luce di fattori esterni. I “medici”, infatti, nella quasi totalità dei casi, quando non si limitano
a registrare le parole e i comportamenti del paziente in chiave di mera anamnesi clinica, tendono a decodificare e interpretare il linguaggio dei folli secondo la logica e la psico-logica dei “sani”, alterando così vistosamente il portato comunicativo del “malato”. In realtà, i messaggi dei folli (scritti, disegni, gesti, vocalizzazioni, silenzi) andrebbero affrontati come sistemi coerenti di comunicazione, ovvero come espressioni di una cultura altra (intendendo con ciò una diversa visione del mondo e della realtà), così come lo storico della cultura popolare legge i documenti a di sposizione (graffiti, gerghi, cosmologie, sogni, etc.) utilizzando una metodologia “aperta” e multidisciplinare . Per penetrare nei labirinti della ragione senza smarrirvisi occorre essere consapevoli del fatto che i folli non solo tentano sempre di spiegare a se stessi e agli altri il proprio comportamento utiliz zando il linguaggio che sentono proprio, ma altresì ci propongono una visione del mondo che è speculare rispetto a quella accettata e condivisa dalla società dei “sani”, utilizzando al contempo le ambiguità e i doppi valori che la contraddistinguono come cifre comunicative. Di fatto, il linguaggio del folle contesta il discorso e le certezze dei “normali”, mette in discussione il principio che esistano canoni definitivi di verità e falsità, di realtà e illusione. Esso non è dunque, come troppo spesso è stato detto, manifestazione irra zionale o balbettio insignificante, né è la romantica, cosciente rivolta contro l’“ordine”. È piuttosto un codice comunicativo in cui il conferimento di senso non è dato dalI’assoluta univocità fra significato e significante, bensì dalla coesistenza di molteplici e apparentemente discordi piani comunicativi fra loro correlati in base ai principi dell’analogia e della similitudine. Sono queste le testimonianze dirette che ci parlano della follia e dei folli; ma, accanto a esse, esiste anche il muto linguaggio degli spazi dell’isolamento, il palcoscenico doloroso dove giorno dopo giorno i corpi sono chiamati a narrare le loro povere storie di solitudine e di straniamento. E proprio a questi due momenti rivolgeremo la nostra attenzione. 1. La follia è comunicazione Vi è, nelle pagine di quanti affrontano,
in prima o terza persona, il mondo oscuro della follia, ricorrente lo smarrimento di chi, preso nelle maglie intricate di un labirinto, scopre con orrore non soltanto l’impossibilità di sfuggire al Nulla che tutto inghiotte e divora, ma altresì l’emergere di irrefrenabili pulsioni e di incoercibili paure. Da qui l’impulso a trasformare il malessere in codice comunicativo, in un linguaggio globale che si faccia portatore del naufragio dell’essere ma che non tradisca l’essenza stessa della parola. Accade al folle, sia pur con coscienza diversa, quanto accade al poeta quando si rivolge all’Altrove: si riconosce l’impotenza della parola comune a significare l’indicibile e si tenta di restituire alla parola il suo portato originario, nello sforzo prometeico di affermare il proprio “esser-ci” al mondo. Certo il poeta, con Holderlin, può dichiarare: “Noi siamo un segno non significante/indolore, quasi abbiamo perduto /nell’esilio il linguaggio...” (Mnemosyne, 1-3). A1 poeta è concesso di denunciare il rischio/consapevolezza della perdita di significato da parte della parola “immagine” e il conseguente smarrimento del l’Io di fronte al silenzio di essa. Egli, infatti, può affidarsi ancora e nonostante
tutto al Libro, a quella scrittura che è a un tempo memoria e perdizione, ritorno all’essenza originaria e abbandono alla potenza consolatoria del Verbum. E se in questo viaggio si perde, come è accaduto a Holderlin o a Campana, rimane comunque di lui quel “linguaggio essen-
Storia delle idee ziale” con cui ha tentato di ridare forma al Mondo e all’Io. Diverso il destino del folle, che non conosce l’arte della parola e che però vive una identica condizione di scacco e, inconsapevol mente, cerca di opporvisi con analoghe strategie comunicative, con una analoga ricostruzione del pensiero. Come ha ben evidenziato Kurt Scheider, “... Chi è nella follia pensa; e pensa, anzi, come nessun altro: benché non con la logica degli altri. Chi è nella follia ha un diverso modo di pensare. Pensare significa originariamente questo: viaggiare, prendere una direzione ... sradicato, e solitario, è chi è nella follia in quanto egli è in cammino verso qualche altro luogo”. Questo cammino verso l’altrove altro non è che un viaggio doloroso non solo
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Storia delle idee
verso gli abissi dell’io ma anche e soprattutto nella crisi del linguaggio. Nel contesto del “mondo della vita” psicotico proprio la crisi del linguaggio costituisce l’esperienza fenomenologica ed esistenziale primaria. Un’esperienza devastante che può spingersi fino al limite della solitudine autistica, della stupefazione catatonica, della dissociazione e del silenzio. Non ci soffermeremo, in questo contesto, sull’analisi tecnica delle diverse forme di destrutturazione-ricomposizione “altra” del linguaggio; ciò che ci preme sottolineare è invece la condizione particolare del rapporto che lo psicotico instaura con il linguaggio. Se è vero, come
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è incontestabile, che la crisi del linguaggio coincide con la crisi della comunicazione con il mondo dell’intersoggettività e della realtà cosale, è altrettanto vero che essa dà luogo a una metamorfosi della comunicazione stessa che investe le fon damenta semantiche del linguaggio comune. In altre parole: nell’esperienza psicotica il linguaggio tende a destituirsi della “normale” funzione comunicativa e si traduce in apparente autonomizzazione semantica, tanto che le parole sembrano essere meri significanti in cerca di un impossibile referente. Questo processo, che molto spesso si configura della for-
ma di una “cascata” di parole (si hanno sequenze spezzate nella loro costituzione formale che tuttavia conservano una finalità, da individuarsi in relazione all’ambiente o alla natura dell’interlocutore), non è manifestazione di una intersoggettività assolutamente isolata, di un’interruzione del confronto con il mondo fuori da sé, bensì è l’espressione radicale di una sfida intenzionale che passa attraverso la contestazione del linguaggio. Il discorso si trasmuta cosi in una continua stratificazione di rimandi che acquistano un significato proprio dai processi congiunti di disarticolazione, di assonanza, di contrapposizione, di dissolvenza, di discontinuità, quando non addirittura di trasformazione della parola-frase in mera ritmica. Non solo. La crisi del linguaggio comune coinvolge anche radicalmente il campo dei significati che, nell’esperienza psicotica (come, per altro, in poesia), finisce con l’essere esteso oltre misura. Ne deriva la dissoluzione di ogni possibile articolazione logica gerarchica dei significati, cui si viene a sostituire un’area semantica in cui tutti i significati coesistono contemporaneamente, relazionandosi in base ai principi dell’analogia e della similitu dine. Ciò significa che le cose esistono e significano al di là e al di fuori delle aree semantiche abituali, sicché acquisteranno il loro corretto potenziale comunicativo solo nel momento in cui l’inter locutore accetta di entrare e di praticare la logica “altra” che gli viene proposta, fosse anche quella del silenzio. Solo accettando questo presupposto - l’assoluta libertà della parola rispetto al referente - è possibile accostarsi al linguaggio psicotico, comprendere il senso (non il significato, che è dato da rigorose correlazioni sistemiche fra parola e referente), comunicare. È questo il compito, indubbiamente difficile e quasi stregonico, che spetta a chi voglia veramente confrontarsi con l’universo della follia, con l’avvertenza che comunicare è un qualcosa che travalica il corrente significato conferito a “curare”, un qualcosa che ha a che fare con il significato antico di “cura”: ovvero, “aver cura” dell’altro, partecipare al pensiero e alla vita dell’altro. 2. Gli spazi dell’esclusione Ciò che traumatizza gli “osservatori” della follia non è tanto l’esplosione del-
la “bestia” che si nasconde nell’uomo, quanto il carico di insubordinazione alla logica comune che essa manifesta. La follia, dunque, nell’immaginario collettivo, è soprattutto questo: una presenza misteriosa e sfuggente che minaccia l’ordine della realtà contingente, aprendo la strada a tutto ciò che è fuori della norma, a ciò che perennemente è da riconquistare e fissare perché sempre muta e sempre di mantiene inafferrabile. Quando cadono le ultime barriere della ragione e la diffidenza verso l’altro da sé assume forme patologiche, è normale convogliare le accuse e i sospetti su quanti vivono ai margini della società, sui “diversi” e i “malati”, ovvero su coloro che minacciano con i loro comportamenti asociali l’integrità della comunità stessa. Mal tollerati in tempi di normalità, i devianti diventano nell’infuriare delle contraddizioni sociali e morali i capri espiatori di un malessere che non ha più nulla di contingente ma che presenta tutti i tratti della negatività metafisica, tanto più che spesso in questi potenziali contaminatori non è difficile scoprire i “sani”, se per “salute” si intende il miracoloso rispetto della propria individualità, al di là delle maschere che il quotidiano impone. Forse è proprio per questo esistere sotto la maschera e indipendentemente da essa che il folle, più di ogni altro diverso, ingenera nell’uomo “sano” un profondo sentimento di disagio e di terrore. Né po trebbe essere altrimenti, che dietro i suoi farneticamenti e la sua gestualità scomposta si manifesta la scoperta, scandalosa e intollerabile, della presenza “naturale” del Male nell’uomo; la rivelazione di quella oscura malattia dell’essere, che può spingere l’uomo alla distruzione ma che può anche far riemergere in una comunità assopita nel rassicurante torpore della quotidianità e della normalità il germe sacro del rimosso, del divino che è nell’uomo. Ecco allora che le stagioni della follia ci si presentano come una sorta di teatro vivente dove si consuma il dramma della solitudine esistenziale dell’uomo. Ne
è palcoscenico il manicomio, quel mi crocosmo infernale in cui si istituzionalizza la de-socializzazione dell’individuo; ne sono attori e autori a un tempo i malati abbandonati a se stessi in un universo irriconoscibile ove i consueti rapporti umani risultano rovesciati o annullati. Qui, in una devastata geografia urbana ed umana, il tempo si raggruma e tende ad assolutizzarsi. Qui, il disordine sociale e morale rispecchia i frantumi di un’identità impaurita che non tollera lo scandalo della “sragione”, mentre gli eventi, le minime storie individuali, diventano gli atti tragici del dramma collettivo dell’umanità. Sotto i colpi ciechi della mania, Eros e Thanatos irrom pono sulla scena e affidano al linguaggio del corpo e dei sensi (non più alla parola, che ormai ha esaurito nella disgregazione di ogni nesso logico la sua capacità di conferire senso alla sofferenza) il dif-
ficile compito di esprimere i sussulti angosciosi della coscienza, il silenzio lancinante della vita. Teatro dell’eccesso e dunque spazio sacro e aleatorio in cui si incontra l’altro da sé, il manicomio impone al “sano” l’esperienza indecente della passiva contemplazione dello smarrimento infer nale altrui. Inerme, l’uomo si trova a vivere l’anonima sofferenza dell’altro da sé,
si riconosce in colui che in silenzio fugge dalla vita, muore con l’altro per morire a se stesso e diventare “colui che resta”, colui che accetta di testimoniare fino in fondo, rinunciando alle facili consolazioni della fede e della scienza, l’assurdità del vivere nella speranza di sottrarre
Storia delle idee l’uomo al nihil che lo circonda. Spettacolo indecente, a cui pochi possono reggere e che fa scattare immediato il bisogno del contenimento, dell’isolamento, per ché la contemplazione dell’uomo-bestia, di quello strano essere in cui la ragione sembra essersi ridotta a una vaga ombra lontana e non più raggiungibile, comporta un rispecchiarsi, un riconoscersi, un viaggio forse senza ritorno. Diceva Pascal: “Io posso immaginare un uomo senza mani, piedi, testa ... Ma non posso concepire l’uomo senza pensiero: sarebbe una pietra o un bruto”. Infelice arroganza di una stagione del pensiero occidentale che concepisce quasi meccanicisticamente il pensiero come pura razionalità e che allontana da sé le sopravvivenze del pensiero simbolico. Così, per secoli, questo tragico equivoco ha gravato sul mondo marginale ed emarginato dei folli, condizionando contemporaneamente intellettuali, artisti e strutture sociali. Persa l’antica identità sacrale dell’invasato, del posseduto dal daimon, il folle ha finito col trasformarsi in una sorta di mostro, di animale dal corpo umano, incapace di “pensare” e dunque di comunicare. Di questa concezione ce ne dà testimonianza immediata l’iconografia che di frequente si è soffermata, talvolta con intenzioni meramente simboliche, più spesso con morboso moralismo, sul topos del folle come uomo nudo e degradato alla mera fisicità, immerso nel torpore crepuscolare del “sonno della ragione”. A tale proposito è sufficiente portare un solo esempio: quello di Francisco Goya. Il grande pittore spagnolo nel notissimo Cortile dei folli rappresenta la follia come
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brutale brulichio di carne che si disperde nel vuoto, scomposto agitarsi osceno di nudità oltraggiate dal peso delle catene e dai colpi della frusta fra mura spoglie. In questo carcere sotterraneo (felice intuizione dell’artista, dal momento che la follia è strettamente imparentata con le
Storia delle idee oscure forze ctonie, con le divinità degli abissi e della Notte), appena illuminato da lame di luce che sottolineano l’animalità muscolare dei corpi e rimandano metaforicamente al sopravvivere di fragili intermittenze del pensiero, il delirio grottesco dei volti (in particolare quello del “re dei folli”) si traduce in una inquietante riduzione al grado zero dei tratti somatici, immersi e annullati nel gioco esasperato dei chiaro-scuri. Tale
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processo di annullamento dell’umano e di sopravanzare del ferino si accentua ed esaspera in altre opere del Goya, dove i volti perdono ogni traccia di identità umana, con una riduzione degli occhi e della bocca e nere macchie aperte sul vuoto. Grazie a questa assoluta negazione dell’umano, in La follia furiosa, Margot la Pazza e il celebre Sonno della ragione, la follia (ovvero la perdita della ratio; e poco importa, in questo contesto, la metafora storica ed esistenziale sottesa) si impone come ritorno a uno stato di natura artefatto e blasfemo, generato dalla colpa morale che degrada l’uomo a ripugnante bestialità. La colpa morale: ecco l’accusa sottesa al processo di contenimento dei folli. Inutile allora parlare della paradossale “libertà nell’internamento”, della discesa nel “non-essere al mondo dei sani” per esse-
re se stessi, del divenire alienati (nel senso antico di “stranieri a se stessi”) per recuperare l’originaria innocenza dell’Essere originario. Sono, queste, interpretazioni che valgono per il mondo dell’arte, per quanti hanno percorso le strade della Sragione alla ricerca consapevole di una conoscenza “altra”, per chi, insomma, aveva comprato anche il biglietto di ritorno. Per l’immaginario collettivo, per l’uomo “normale”, la follia rimane invece sempre lo scandalo pascaliano dell’”uomo senza pensiero”, dell’animalità ferina grottescamente mascherata da uomo. Ancora una volta ci troviamo a insistere su questo terrore per l’uomo ridotto a bestia: terrore che impronta e disegna l’architet tura dell’esclusione. Ne faremo una brevissima storia. A partire dal XVIII secolo, in coincidenza col diffondersi delle teorie illuministiche, l’architettura manicomiale acquista nuovi elementi che l’assimilano sempre più a una tipologia a dir poco singolare: quella del carcere-serraglio. Se l’aurea età dell’Umanesimo aveva ancora lasciato al folle la discutibile dignità del malato, relegandolo nell’inferno degli Ospedali degli Incurabili, mescolato a sifilitici, malati cronici, vagabondi e altra varia umanità sofferente, la “luminosa” età della ragione trasforma il manicomio in un putrido serraglio, aperto alla curiosità morbosa dei filosofi illuminati o, più banalmente, dei borghesi benpensanti. Rin chiusi in stanzoni nudi, gettati su giacigli di paglia resi putridi dai loro stessi escrementi, da dietro le sbarre che demarcano lo spazio teatralizzato di un corridoio-platea, i folli esibiscono impudicamente le loro offese nudità davanti agli sguardi dei curiosi, quando non si trovano costretti a recitare la parte di animali feroci, ora legati con catene ai muri, ora tenuti a bada da erculei cu stodi-domatori, esempi eclatanti di una fisicità meramente animale che consente condizioni di sopravvivenza precluse ai “sani” e ai “savi” (è qui che nasce il mito, assolutamente infondato, dell’immunità alle malattie e della quasi prodigiosa resistenza alle intemperie dei folli). Questi due veloci esempi, il manicomioospedale e il manicomio-serraglio, sono sufficienti a evidenziare come l’architettura manicomiale sia, nei diversi mo-
Storia delle idee
menti storici, la summa emblematica di tutte le strutture fisiche dell’internamento e dell’esclusione con cui una collettività tende a isolare e reprimere il potenziale nemico interno. Al pari del lebbroso e dell’appestato, del criminale e del mendicante, dell’ebreo e della strega, il folle è a un tempo responsabile e capro espiatorio dei drammi e delle catastrofi che vengono a minacciare l’ordine e la sopravvivenza di una comunità. Non è casuale, pertanto, che il manicomio diventi - attraverso le sue varianti tipologiche e le sue differenti collocazioni urbanistiche, la metafora tangibile dell’idea di “follia”. Se inizialmente, infatti, esso coesiste e addirittura convive con gli Ospedali degli Incurabili, ricovero “aperto” per quanti recano i segni del “male di vivere”, ben presto si modella sugli esempi congiunti del lazzaretto e del carcere, proponendosi come strumento di isolamento cautelativo e di repressione, fortezza inespugnabile in cui la collettività seppellisce in vita (ma senza più il rito sacrale che accompagnava la reclusione del lebbroso) i propri membri divenuti pericolosi e fonte di scandalo. In questo recetto di scomodi e di indesiderabili finiscono indistintamente oppositori politici, libertini, mendicanti, parenti incomodi, vagabondi, criminali comuni, in sensati, poveri idioti: tutti bollati come folli, tut-
ti accomunati dallo stesso destino di degradazione bestiale. È il passaggio, di cui sono stati testimoni ormai obliati gli umidi stanzoni e le nude cellette soffocanti che talora recano ancora disegni, frasi, date, cifre, a peritura memoria di quanti hanno tentato si sfuggire al silenzio della sragione, alla follia intesa come peccato-malattia (riscattabile attraverso la purificazione-cura dell’anima), alla follia concepita come “congiura” contro il mondo dei “normali” a cui si può replicare soltanto con la repressione e il silenzio. Né il quadro muta, a partire dalla fine del XIX secolo, con la nascita di scienze “positive” come la psichiatria, la sociologia, la criminologia, la psicanalisi stessa. Infatti, l’affermarsi dell’idea della follia come mera patologia, ovvero come risposta a uno squilibrio organico, a un condizionamento sociale/ambientale o a un trauma affettivo, non abbatte le barriere dell’isolamento. L’apertura degli spazi fisici dell’isolamento ha finito col mascherare subdolamente, dietro le parvenze “democratiche” di asettiche strutture mutualistiche di recupero o di utopici quartierini per “malati di mente” inseriti nel contesto urbano, quelle barriere fisiche che si era proposta di abbattere. Liberato fisicamente da quell’internamento che, almeno, lo sottraeva al rifiuto e all’indiffe renza dei
“normali”, il folle oggi è condannato a una prigionia e a un isolamento ben più dolorosi: le catene invisibili dei farmaci e la solitudine fra gli altri. Da tangibile (e dunque denunciabile) espressione dell’esclusione e della criminalizzazione del diverso e dell’alienato, il manicomio si è trasformato in un carcere metafisico, sicché paradossalmente il folle è oggi completamente libero e assolutamente escluso della libertà. Imbarcato a sua insaputa su una stultifera navis invisibile, egli si trova coinvolto in un viaggio infinito e senza ritorno. Prigioniero di sé stesso, ma “libero” per gli altri, è condannato al nomadismo di chi non sa da quale terra provenga né sa a quale porto approderà, se approderà. Come sempre, il paradosso condanna chi è chiamato a scioglierlo alla sconfitta, senza neppure lasciargli la libertà di rimanere al di fuori del paradosso stesso. Ma forse, a liberare il folle dal paradosso della “non libertà nella libertà” basterebbe restituirlo al diritto di comunicare, dare finalmente dignità al linguaggio che egli si costruisce, caso per caso, momento per momento. Basterebbe poco: ascoltare i suoi gesti, i suoi silenzi, contemplare le sue parole. P.62: Teseo affronta il Minotauro, A.L.Barye, Copenhagen; p.63: Sfinge labirintica, disegno a china; p.64: Labirinto 3D; p.65: Il labirinto della cattedrale di Chartres; p.66 e 67: Due stampe del sec. XVI raffiguranti la Stultifera navis, la ‘Nave dei folli’.
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Antropologia
Alterità e persecuzione Lo sterminio dimenticato, degli zingari ,
Emanuela Miconi
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oi superstiti/vi preghiamo:/ mostrateci lentamente il vostro sole./Guidateci piano di stella in stella./Fateci di nuovo imparare la vita./Altrimenti il canto di un uccello,/il secchio che si colma alla fontana/potrebbero far prorompere il dolore/a stento sigillato/e farci schiumar via1. Lo sterminio dimenticato Kai jas ame, Romale? ( dove ci portano uomini?) La domanda risuonava a mezza voce, saliva a galla dai pensieri taciuti, in mezzo a quegli uomini, che con le loro donne, i loro bambini e i loro vecchi venivano caricati come bestie sui vagoni dei treni destinati ad Auschwitz; “tre o quattro carri di zingari per ogni convoglio di ebrei” secondo i dettami dell’efficientissimo funzionario del Reich Adolf Eichmann. Nei campi di sterminio nazisti moriranno quasi undici milioni di 1 N.Sachs, Coro dei superstiti, in S. J. Agnon, N. Sachs, Opere, Utet, Torino 1972, p. 612-613.
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persone, questa catastrofe passerà alla Storia e alla memoria dell’Occidente con il nome voluto dagli ebrei a ricordo perenne di quei sei milioni periti nelle camere a gas2. Shoah significa distruzione, sciagura improvvisa, rovina, desolazione, luogo senza vita; denota un disastro di dimensioni cosmiche e include, nella sua area semantica, accezioni come buio, desolazione totale, vuoto assoluto, mor2 Nel 1939 fu decisa dai vertici del governo tedesco una prima deportazione di tutti gli zingari nei territori polacchi, Eichmann, allora già responsabile della deportazione di massa degli ebrei, così risponderà al telegramma inviatogli dal colonnello Nebe, in merito all’organizzazione del trasporto: “A proposito della deportazione degli zingari il primo carico (di ebrei) in partenza da Vienna è previsto per venerdì 30 ottobre. Alla tradotta potrebbero agganciarsi tre o quattro carri di zingari (…) mi pare che sia il metodo più semplice.” Traggo la citazione del testo della lettera di Eichmann da D. Kenrick G. Puxon, Il destino degli zingari, tr. it. R. Petrillo, Rusconi , Milano 1975, p. 87.
te; un termine atto, quindi, a buona ragione, a rappresentare quel senso di nonvita e di anti-umano di cui si è connotata la furia nazista. Se il kosmos dei Greci indicava l’armonia, simbolica strategia da opporsi al caos e strumento messo in opera per “controllare” il disordine, l’ebraico berijà rimanda a bereshit, la creazione, l’opera dell’inizio con cui appunto Dio conferirà forma al mondo. Nell’armonia dell’universo creato, Auschwitz viene a delinearsi come irruzione improvvisa del caos originario e messa in atto di un’anti-creazione, deflagrante annullamento del kosmos e inabissamento nelle tenebre di un orrore senza ragione. Non a caso, proprio la tradizione ebraica, ci indica Shoah connesso ai termini di sheol, regno delle tenebre e di shaww, la vacuità e l’inafferrabilità del nulla; anche qui il linguaggio sembra ribadire il suo valore di strumento ordinatore e tuttavia
infrangersi contro ciò che pare sfuggire a qualsiasi attribuzione di senso. Ammontano a mezzo milione i rom morti nei Lager nazisti, le vittime di quello che, da più parti, è stato definito lo “sterminio dimenticato”; nella fredda logica dei numeri e dei conteggi burocratici, appaiono, tanto nell’ambito della Endlösung pianificata dal Reich tedesco, quanto in quello della ricerca storica, una minoranza trascurabile, di fronte alle cifre a sei zeri inerenti la tragedia ebraica, da citarsi quasi solo per dovere di cronaca, come un capitolo di scarsa rilevanza in appendice al più vasto libro della Shoah. Eppure zingari ed ebrei compaiono spesso sul gran teatro della Storia, accomunati da tragiche e millenarie persecuzioni, di volta in volta innescate dall’infamia di accuse artatamente costruite dalle società di “accoglienza”e assunti a simbolo, entrambi, di un’alterità inassimilabile e a funzione di capro espiatorio su cui la civiltà europea avvierà la costruzione delle proprie sorti “magni-
fiche e progressive”.3 I Rom chiameranno la loro tragedia, annegata per decenni nel mare magnum del silenzio colpevole dell’Occidente, Baro Porrajmos, il grande divoramento. Nella cultura rom, dei morti non si parla4 e, a maggior ragione quindi, quei cin3 Per un approfondimento delle tematiche si vedano in particolare: L. Piasere, I Rom d’Europa, Laterza, Bari 2004; F. Vaux De Foletier, Mille anni di storia degli zingari, Jaka Book, Milano 1977; M. Kaprow, L’addomesticamento dei Gitanos spagnoli, in La ricerca folklorica n.22, 1997, pp.17-35; S. Spinelli, Baro Romano Drom, Meltemi, Roma 2003; A. Foa, Gli Ebrei d’Europa, Laterza, Bari 2004; R. Calimani, Storia dell’Ebreo errante, Mondadori, Milano 2007; F. Jesi, Mitologie dell’antisemitismo, Bollati Boringhieri, Torino 2007; G. Mosse, Il razzismo in Europa, dalle origini all’Olocausto, Laterza, Bari 2003. 4 Si può dire dei Rom, pur nell’arbitrarietà di una simile generalizzazione, che non amino molto parlare di se stessi, soprattutto in relazione a quell’universo non zingaro, nei confronti del quale nutrono una diffidenza che appare speculare alla nostra per il loro. Dei loro defunti tacciono il nome, distruggono
quecentomila non possono che apparirci straziati e “divorati” dalla lucida furia omicida con cui è stata pianificata e messa in atto, nei suoi minimi e folli particolari, la “soluzione finale” che, ancora una volta, ha visto zingari ed ebrei, i “popoli
Antropologia senza stato”, annientati in nome di una teorizzata devianza genetica. i beni e abbandonano l’accampamento alle erbacce. I loro silenzi possono interpretarsi come altrettanti modi, “in assenza”, di ricostituire la propria identità in seno alle società occidentali come “pura e circostanziale differenza”; sul tema si veda il breve e intenso testo di P. Williams, Noi non ne parliamo, trad. it. F. Viti, CISU, Roma 2003. Personalmente, da amici gitani della Francia meridionale, ho appreso l’usanza della pomana, rituale di addio simbolico al defunto che prevede un pranzo in sua memoria e la presenza di un vivo che ne “incarna” l’assenza. È consuetudine di origine romena la cui etimologia si richiama al verbo pomeniv, ‘io ricordo’. Per approfondimenti rimando ancora a P.Williams, op.cit.
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La Germania nazista e la Zigeunerfrage Gli zingari fanno la loro comparsa nell’Europa occidentale agli albori del XV secolo, emigrando dai precedenti insediamenti bizantini e balcanici secondo la direttiva iniziale di un asse geografico
Antropologia nord-sud che vedrà la loro presenza dapprima nelle città anseatiche e nell’Italia meridionale e, successivamente, in Francia e in Spagna. L’insediamento sul suolo tedesco risulta quindi essere di lunga data e vede alcuni gruppi rom assimilati alla vita sedentaria e alla struttura sociopolitica dello Stato, al punto che molti di loro parteciperanno alle due guerre mondiali come soldati del Reich a tutti gli effetti. Gli sporadici casi di integrazione nella compagine delle società di accoglienza non devono tuttavia trarre in inganno, in quanto la storia degli zingari appare costellata e segnata da persecuzioni, radicale rifiuto o tentativi di assimilazione forzata e spesso essi sono fatti oggetto se non di una vera e propria eliminazione fisica, quanto meno di una distruzione identitaria e culturale.
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Per quanto mi ricordo e per quel che mi è stato raccontato, noi siamo sempre stati sinti tedeschi. Mio padre era commerciante di cavalli, mia madre casalinga, andava in giro a vendere e a predire il futuro.(…) Molti di noi viaggiavano con i carrozzoni ma a mia nonna non piaceva (…) Vivevamo in maniera semplice e modesta in parcheggi privati che prendevamo in affitto (…) se il posto in cui stavamo non ci piaceva più, ci facevamo prestare dei cavalli da parenti o da amici, li attaccavamo ai carrozzoni e ce ne andavamo.5 Germania, 1930: dalle parole di Otto Rosenberg si deduce un’immagine quasi idilliaca della vita degli zingari nei territori tedeschi ma, di lì a poco, l’avvento di Hitler al potere renderà impossibile, anche per il popolo rom, la sopravvivenza all’interno del Reich. Dai tempi del5 Cfr. O. Rosenberg, La lente focale, trad. it. M. Balì, Marsilio, Venezia 2000, pp.11-13. Sono denominati sinti un gruppo di rom presenti per la maggior parte nei territori di lingua tedesca. All’epoca del regime nazista venivano spesso identificati, nelle classificazioni razziali, come “zingari indigeni”. Il cognome Rosenberg figura tra quelli più antichi delle famiglie di sinti, la cui presenza è attestata in Germania a partire dal XV secolo.
la loro prima comparsa in Occidente, gli zingari appaiono radicalmente “diversi”, stigmatizzati dal loro nomadismo e dal rifiuto di qualsiasi assoggettamento a forme di governo e di controllo sociale; certo una spina nel fianco per la società tedesca se, già nel 1899, viene istituito a Monaco un Servizio Informazioni sugli Zingari. Con l’avvento di Hitler, la “questionezingara” acquisirà radicale importanza agli occhi degli scienziati nazisti impegnati a determinare, nella prospettiva della contemporanea eugenetica, i principi costitutivi della successiva degenerazione di quelle popolazioni che, originariamente, secondo le perverse logiche genetiche del nazionalsocialismo, risultavano assimilate agli ariani. È vero gli zingari hanno conservato taluni elementi della loro patria nordica, ma sono sempre i discendenti delle classi infime della popolazione di quelle regioni. Nel corso della migrazione, avendo assorbito il sangue dei popoli circonvicini, si sono trasformati in un miscuglio di razze (…) la loro esistenza nomade è conseguenza di tale miscuglio. Gli zingari infetteranno in genere l’Europa
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come un corpo estraneo.6 Vedremo in seguito le modalità con cui gli insigni biologi del Reich aggireranno il problema della presunta arianità degli zingari, classificandoli come asociali; prova ne sia che all’interno dei campi di concentramento anche i rom saranno “contrassegnati” dal triangolo nero, e quindi identificati, se necessario, come ariani ma irrimediabilmente degenerati. Essi vengono quindi definiti Mischlinge, sangue misti (halbblut), e laddove il maggior pericolo di contaminazione del sangue ebraico è ravvisato nella maggiore purezza dell’ebreo; in questo caso lo zingaro appare tanto più “contaminante” nei confronti della la razza pura, quanto più egli si distacca dall’originaria arianità; quindi se per i primi annoverare parenti prossimi non ebrei poteva rappresentare una seppur minima possibilità di salvezza, per i secondi, al contrario, l’essere “incrociati” con popoli diversi, veniva inteso come indice di degenerazione razziale e pericolo di contamina6 Cfr. H. Günther, citato in D. Kenrick G. Puxon, Il destino degli zingari, tr. it. R. Petrillo, Rusconi, Milano 1975, p. 67; tutte le citazioni, quando non indicato diversamente, vanno intese tratte da questo testo, d’ora in avanti abbreviato, per facilità di lettura, come KP.
zioni successive a danno del Volk germanico. Adolf Hitler si insedia alla guida della nazione tedesca nel 1933 e solo tre anni dopo una commissione di polizia internazionale fonda a Vienna, a seguito delle pressanti richieste del Führer, un Centro Internazionale per la Lotta alla Piaga Zingara, la cui direzione è affidata al dott. Robert Ritter coadiuvato dalla giovane assistente Eva Justin. L’anno successivo, nel 1937, lo stesso Ritter viene incaricato del coordinamento di un gruppo di ricerca di Igiene Razziale e di Biologia Demografica presso il ministero della sanità a Berlino. L’intento dello scienziato è quello di arrivare a schedare, tramite la redazione di vere e proprie tavole genealogiche, tutti gli zingari presenti nei territori del Reich tedesco. Insieme alla dottoressa Justin, lavora direttamente sul campo, raccogliendo una enorme massa di dati attraverso interviste, rilevazioni antropometriche, osservazioni dirette, test comportamentali. Il suo compito verrà facilitato dall’istituzione, in occasione delle Olimpiadi del 1936, di appositi campi di accoglienza all’interno dei quali tutti gli zingari presenti in città saranno costretti a risiedere; il primo di tali luoghi di soggiorno
coatto sarà il campo di Marzahn, di cui Otto Rosenberg, nella sua autobiografia, ci offre una nitida immagine: Il posto si chiamava ufficialmente: area di sosta Berlino-Marzahn. Proprio così, area di sosta. Era l’anno 1936, poco prima delle Olimpiadi (…) ci depositarono lì in stato di arresto, (…) C’erano fossati dappertutto, e quelli intorno a noi più che prati erano paludi. C’era una puzza terribile (…) Un giorno poi arrivarono al campo due esperti di igiene razziale, il dottor Ritter e la sua assistente Eva Justin. Andarono in ogni baracca a interrogare la gente (…) vollero sapere tutto, da dove venivamo, chi erano i nostri genitori, chi i nostri nonni e così via.7 L’anno successivo viene istituito il campo della Dieselstrasse a Francoforte, inizialmente destinato a nomadi, vagabondi e zingari stanziali denunciati per “cattiva condotta” e in seguito trasformato in campo di concentramento in cui verrà rinchiusa la popolazione rom della città in attesa della successiva deportazione ai campi di sterminio. Il lavoro di Ritter e della Justin approda ad una serie di risultati relativi alla Zigeunerfrage, su cui tutti gli scienziati e 7 O. Rosenberg, La lente focale, op. cit. , pp. 21-27.
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i ricercatori asserviti all’ideologia nazista concordano. Gli zingari, al pari di altri marginali, vengono presentati come razza inferiore degenerata, portatori di malattie, tare genetiche, germi della devianza sociale, mostrano una sessualità disinibita ed eccessiva, scarso rendimento intellettivo, difficile adattabilità alle regole del vivere civile; pertanto anche nei loro confronti si propongono le soluzioni già previste per gli altri gruppi “ a rischio”: ghettizzazione, deportazione, sterilizzazione. Fino alla fine del 1937 tutti i provvedimenti contro le popolazioni rom vengono genericamente archiviati come leggi per la repressione della criminalità, rivolte in particolar modo agli asociali e a tutti coloro che si mostrano riluttanti ad un inserimento sociale, perseguiti anche in assenza di un vero e proprio reato. In seguito, fino al 1943, anno della deportazione ad Auschwitz e dello sterminio di tutti gli zingari detenuti nei campi di residenza coatta, ogni atto di repressione nei loro confronti verrà sempre considerato “misura di sicurezza” e non forma di persecuzione razziale. Nel 1938, scienziati della razza e le forze di polizia, contribuiranno alla promulgazione della prima legge specifica antizingari, con un chiaro carattere razzista.
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Gli zingari vengono perseguiti in nome di un Wandertrieb (istinto al nomadismo) di cui risultano portatori non solo ad un mero livello socio-culturale, bensì a quello, ben più compromettente, di una caratteristica genetica, biologica insita nella razza-zingara e pertanto non passibile di correzione o assimilazione ma, sostanzialmente, ineliminabile e quindi da sopprimere. Ecco uno stralcio dal testo: Lotta contro la minaccia zingara (…) il metodo più opportuno per impostare il problema zingaro consiste nel considerarlo una questione di razza. È indispensabile trattare separatamente gli zingari puri e quelli di sangue misto. A tal fine è necessario stabilire le affinità razziali di ogni zingaro ed anche di ogni girovago che conduca esistenza zingaresca. (…) La decisione definitiva circa la schedatura di una persona (…) sarà presa dalla polizia criminale su parere degli esperti. 8 Con l’entrata in scena nel 1939 di Adolf Eichmann, l’incremento della violenza della persecuzione e delle azioni repressive sembra destinato a non fermarsi fino alla tragedia della “soluzione finale” messa in atto, ad Auschwitz, la notte del 2 Agosto del 1944, ricordata appun8 Cfr. KP, p. 83.
to come Zigeunernacht, durante la quale quasi tremila rom vennero annientati nelle camere a gas del campo. Eichmann decreta la iniziale deportazione di tutti gli zingari in Polonia e istituisce allo scopo un apposito ufficio alla Centrale di sicurezza, il IVD4, per facilitare le operazioni di trasporto. Per chi si oppone sono previste misure punitive particolarmente pesanti; i ribelli rischiano la sterilizzazione e comunque l’internamento in campi di lavoro. Agli zingari viene proibito lo svolgimento delle loro consuete attività di sostentamento, soprattutto i mestieri ambulanti, e spesso vengono costretti, dietro corresponsione di un sussidio minimo, a occupazioni imposte dai funzionari addetti alla gestione di tutte le procedure relative alla Zigeunerfrage. Nel 1941 il dottor Ritter viene invitato a compilare una nuova classificazione razziale in cui si specifica ulteriormente la distinzione misti\puri: Z zingari (Zigeuner) ZM+ zingari per più di metà ZM zingari misti ( Zigeunermischling) ZM 1°grado, metà zingari/metà tedeschi ZM 2°grado, metà ZM1, metà tedeschi ZM- tedeschi per più di metà NZ non zingari (Nicht-Zigeuner)9 La definizione di “sangue misto” appare di gran lunga più severa e specifica rispetto a quella applicata agli ebrei, mentre gli stessi criteri di classificazione vengono basati su di una valutazione, altamente soggettiva, di quelle che si ritengono essere le “caratteristiche gitane”; Ritter dichiara di prendere in considerazione, oltre agli scontati parametri genealogici, anche quanto segue: 1. Impressione generale e aspetto fisico 2. Appartenenza a comunità romanì 3. Collegamenti con legge tribale 4. Modo di vivere zingaresco 5. Genealogia 10 Il 22 gennaio 1942, alla conferenza di Wannsee, verrà decisa dal governo nazista la Endlösung, la soluzione finale della questione ebraica estesa per volere di Himmler anche a tutti gli zingari presenti nei territori del Reich. Il 16 dicembre dello stesso anno, sempre Himmler firmerà per la destinazione ad 9 Cfr. KP, p.96. 10 Ivi, p.97.
Auschwitz e il definitivo annientamento di tutti gli zingari d’Europa. I primi contingenti arriveranno allo Zigeunerlager, appositamente costituito nel settore di Birkenau, nel febbraio del 1943. La fredda burocrazia delle cifre, nei calcoli dello sterminio, ci informa di circa 23.000 rom deportati nel solo campo di Auschwitz; all’ultimo appello, dieci giorni prima della liberazione del lager, nel gennaio 1945, risponderanno in… quattro. La memoria del Porrajmos Gli zingari vengono identificati, per tutta l’età moderna, con la stirpe maledetta di Caino e appaiono quindi destinati a una irrimediabile degenerazione che, nell’ottica biblico-creazionistica, si somma a quella di un peccato originale comune a tutti gli uomini. Successivamente, quando nel Settecento e nell’Ottocento, le innovative teorie sulla razza abbinate all’evoluzionismo darwiniano, consentono lo sviluppo di nuove prospettive scientifiche sullo studio dell’uomo, l’antica maledizione verrà let-
ta in chiave biologica e le razze “selvagge” saranno considerate inferiori e non perfettibili in quanto irrimediabilmente in ritardo rispetto ai parametri evoluzionistici. La susseguente evoluzione delle “scienze della razza”, nel corso di tutto il XIX secolo, porterà al prevalere di un atteggiamento ostile; gli zingari sono “i delinquenti atavici”, la razza degenerata, i pericolosi latori dei germi della contaminazione razziale e, come abbiamo appurato, fu proprio l’assunzione incondizionata di questa prospettiva a costituire il movente e la giustificazione dell’olocausto nazista. Nella sua cronaca di una visita ad Auschwitz, la giornalista Isabel Fonseca ci informa di come la presenza degli zingari nel lager sia legata alle deboli tracce di una memoria altrettanto labile ed effimera. Il sito dello Zigeunerlager è segnato sulla mappa appesa all’ingresso del campo di Birkenau. Era la fila di baracche più lontane dall’ingresso principale (…) A parte qualche camino di matto-
ni, nulla restava delle trentotto baracche (…) Davanti all’esposizione dei beni sequestrati agli ebrei, tipici di una vita borghese nella civilissima Europa dell’anteguerra, mi colpì il pensiero che uno dei motivi per cui gli zingari non costituiscono una presenza ad Auschwitz, o
Antropologia nei nostri archivi mentali dell’Olocausto, è che niente di tutto ciò apparteneva a loro. Sembrano essere scomparsi senza lasciare traccia.11 Un’assenza silenziosa che buon gioco ha fatto a chi, nelle commissioni internazionali, per la condanna dei crimini di guerra e il risarcimento alle vittime, ben si è guardato dal chiamare in causa il popolo rom. Nessuno di loro è stato invitato a deporre al Processo di Norimberga e ben poco sapremmo di quella loro 11 I. Fonseca, Seppellitemi in piedi, Sperling&Kupfer, trad. it. M. Pizzorno, Milano 1999, p. 252-253.
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presenza, quasi da fantasmi agli occhi del mondo, nell’inferno di Auschwitz, se un sopravvissuto polacco, il 13 gennaio 1949, non avesse indicato con sicurezza, il luogo in cui nell’estate del ‘44, intuendo la prossima “ liquidazione” del campo BIIe, quello degli zinga-
ri, egli stesso con l’aiuto di alcuni compagni nascose, in una buca scavata a ridosso delle baracche, il registro dello Zigeunerlager.12 La ricerca storica su quello che sarà per anni uno sterminio dimenticato, avrebbe potuto, stando alla datazione delle testimonianze, prendere il via nell’immediato dopoguerra; eppure bisognerà attendere invece il 1994 per assistere, presso la sede del Museo dell’Olocausto di Washington, alla prima commemorazione delle vittime zingare dello sterminio nazista. A corollario di ciò non sarà superfluo ricordare che nella Germania del do-
poguerra rimasero a lungo in vigore, in qualità di strumento di controllo sociale per “zingari, viandanti e renitenti al lavoro”, le stesse leggi varate dal governo del Reich e che i responsabili della persecuzione dei rom uscirono indenni dal processo di denazificazione della nazione tedesca; alcuni di loro continuarono ad esercitare la propria professione e ottennero anche riconoscimenti ufficiali. A quanto risulta fino ad oggi solo una ex-guardia di Auschwitz è stata condannata all’ergastolo (poi suicidatasi in cella nel 1991) specificatamente per crimini e violenze contro gli zingari.13 L’epoca contemporanea appare ossessionata dalla memoria, istituzionalizzata nei “Giorni della memoria” e trasformata in una sorta di religione civile con culti, rituali e luoghi sacralizzati; una memoria ritualizzata, codificata e svuotata di contenuto come quella che spesso ci viene mostrata nelle commemorazioni “troppo piene di troppo
12 Cfr. L. Bravi, Altre tracce sul sentiero per Auschwitz, CISU, Roma 2002.
13 Per un approfondimento di queste tematiche, ivi, pp.10-19.
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vuoto”14, esperibili nell’effimero tempo reale dell’evento mediatico. Walter Benjamin distingueva tra un’ “esperienza trasmessa” (Erfahrung) e “l’esperienza vissuta” (Erlebnis);15 la prima farebbe parte di quel patrimonio collettivo perpetuato quasi naturalmente da una generazione all’altra e fondante il contesto ideale e valoriale di una società, la seconda sarebbe riconducibile a quel vissuto individuale, portato di ognuno, soggettivo, fragile, effimero e nel caso dell’esperienza del lager, sostanzialmente indicibile. Il popolo rom, privo di una tradizione scritta e di una concezione di storia comune da condividere e ricordare, appare escluso 14 Cfr. E. Traverso (a cura), Insegnare Auschwitz, IRRSAE Piemonte e Bollati Boringhieri, Torino 1995. 15 In particolare sui concetti di Erfahrung ed Erlebnis si veda W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, trad. it. R. Solmi, Einaudi, Torino 1981, rispettivamente le pp. 248-274 e le pp. 96-130, inoltre T.W. Adorno, W. Benjamin, Briefwechsel 1928-1940, Suhrkamp, Frankfurt a.M.1995, p.416 e E. Traverso, Il passato: istruzioni per l’uso, Ombre Corte, Verona 2006.
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da tale processo. Non il silenzio delle vittime è riprovevole ma l’indifferenza e il revisionismo di una cultura che cerca di strumentalizzare il ricordo a una, a sé funzionale, reinterpretazione del presente. “Assumere un atteggiamento responsabile nei confronti del passato”- scriveva Jean Amery – “è il primo passo necessario per moralizzare la Storia”16 e, in questa prospettiva, gli scolastici pellegrinaggi ritualizzati ai campi di sterminio non favoriscono certo, a mio avviso, una reale presa di coscienza e anzi, semmai, contribuiscono a una lenta e progressiva banalizzazione delle tematiche. Se davvero l’intero Occidente vuo16 Cfr. J. Amery, Intellettuale a Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp.133-134.
le far si che la tragica storia del “secolo breve” non sia avvenuta invano, sarà necessario allora adire a un recupero consapevole di una memoria che ci consenta non di consumare il passato nell’atto effimero di una commemorazione ufficiale, ma di rielaborarlo e interiorizzarlo al fine di trasformare gli eventi in una Erfahrung condivisa che ci permetta di capire, alla luce della ragione, ciò che si è teso ad obliare e liquidare come irrazionale e incomprensibile. Le vittime di tutti i totalitarismi, laddove l’uomo ha sopraffatto l’uomo, mai avranno la possibilità di una scelta d’oblio; se una chance potrà venir loro concessa, questa sarà quella del silenzio o della volontà di testimoniare; la nostra colpa rimarrà invariabilmente
quella di non voler ascoltare. Il conferire alla memoria il ruolo di un’azione costruttiva del presente e il non relegarla a mero ricordo del passato, consentirà di inserire Shoah e Porrajmos, insieme agli altri crimini contro l’umanità a cui non si è trovato un nome specifico, tutti frammenti, in quest’ottica, di uno stesso evento, in quella rammemorazione collettiva (Eingedenken), di cui ancora ci parla Benjamin, e che permetterà di collocare gli eventi in uno schema universale di giudizio fornendoci forse, tratto dal passato, lo strumento per meglio costruire il futuro. P.68, 69, 71, 74 e 75: Polonia, Oswiecim (in tedesco AuschwitzBirkenau); p.70: 1942 ca, due giovani rom e tre soldati della Wehrmacht; p72/73: Individui di etnia rom, 1900/1910 ca.
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Il mito: Artemide e Atteone Giuseppe Ivan Lantos
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ircea Eliade nel Trattato di storia delle religioni scrive: “Ogni mito, indipendentemente dalla sua natura, enuncia un avvenimento che avvenne in illo tempore e per questo costituisce un precedente esemplare per tutte le azioni e ‘situazioni’ che, in seguito, ripeteranno l’avvenimento. Ogni rituale, ogni azione che abbia un senso, eseguiti dagli uomini, ripetono un archetipo mitico […] la ripetizione ha per conseguenza l’abolizione del tempo profano e la proiezione dell’uomo in un tempo magico-religioso che non ha nulla a che vedere con la durata propriamente detta, ma costituisce ‘l’eterno presente’ del tempo mitico”. E il teologo e filosofo spagnolo Raimon Panikkar, recentemente scomparso, in Mito, simbolo, culto: “Col termine mito oggi spesso s’intende qualcosa d’irreale o semplicemente una leggenda più o meno fantastica. Con la parola mythos, invece, io intendo quello che tradizionalmente significava, vale a dire un modo diverso che gli uomini hanno di esprimere una convinzione, o piuttosto una verità che non è necessariamente ‘chiara e distinta’
Queste cose non avvennero mai, ma sono sempre. Sallustio alla ragione e che, ciò nonostante, si accetta come ovvia e quindi non ha bisogno di essere dimostrata”. È anche alla luce di queste considerazioni che mi viene di fatto riflettere su quale sia la relazione che intercorre tra il mythos, intendendo che con questo termine mi riferisco a tutti i miti di tutte le tradizioni, e la Massoneria. Se è vero, com’è vero che la Massoneria si rifà a una tradizione iniziatica, trasmessa da uomo a uomo fin da epoche immemorabili, possiamo sostenere che le origini della massoneria siano riferibili ai miti delle civiltà delle quali abbiamo raccolto l’eredità e che trovano riscontro nel suo patrimonio simbolico. Recentemente, per non casuali ricorrenze massoniche, mi sono imbattuto in
uno dei più intriganti miti della cultura greco-romana, il mito di Artemide e Atteone. Chi sono Artemide e Atteone? Artemide, Aρτεμις, una delle dodici divinità principali dell’Olimpo greco, era figlia di Zeus e della ninfa Leto, e sorella gemella di Apollo. Leto, a causa di una maledizione lanciata dalla moglie di Zeus Era, per poter mettere al mondo i due bambini fu costretta a trovare un luogo che non avesse mai visto la luce del sole: per questo motivo Zeus fece emergere dal mare un’isola fino ad allora sommersa che, di conseguenza, il sole non aveva ancora toccato. Era l’isola di Delo e Leto vi partorì aggrappata a una palma sacra. Artemide nacque per prima, dopo soli sei mesi di gestazione e aiutò quindi la madre a dare alla luce Apollo che nacque invece il settimo mese. L’infanzia di Artemide non è riferita da alcun mito giunto fino a noi, ma ce la racconta il poeta Callimaco, nato intorno al 300 prima della nascita di Gesù, nel poema dedicato ad Artemide, che fa parte della raccolta degli Inni. “La dea che si diverte usando l’arco sulle montagne”, quando ebbe compiuto tre anni, seduta sulle ginocchia del padre Zeus lo pregò di realiz-
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zare alcuni suoi desideri: per prima cosa chiese di restare per sempre vergine, poi di non dover mai sposarsi e di avere sempre a disposizione cani da caccia con le orecchie basse, cervi che tirassero il suo carro e ninfe come compagne di caccia “ sessanta fanciulle danzanti, figlie di Oce-
Mitologia ano, tutte di nove anni, tutte piccole ninfe di mare”. Il padre la assecondò e realizzò i suoi desideri. Tutte le sue compagne rimasero così vergini e Artemide vigilò strettamente sulla loro castità. Artemide era adorata e celebrata allo stesso modo in quasi tutte le zone della Grecia, ma i più importanti luoghi di culto a lei dedicati si trovavano a Delo, sua isola natale, Braurone, sulla riva dell’Attica a oriente di Atene, Munichia, su una collina nei pressi del Pireo, a Sparta e a Efeso, nell’attuale Turchia, non lontano da Smirne, considerato una delle sette meraviglie del mondo antico. Era la dea della caccia, della selvaggina e dei boschi e una divinità lunare. Era venerata anche come dea del parto e della fertilità. Atteone è un personaggio della mitologia greca, figlio di Aristeo e di Autonoe,
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allevato dal centauro Chirone, che gli insegnò l’arte della caccia. Secondo uno dei miti, quello più conosciuto e stuzzicante, nel corso di una battuta di caccia, Atteone sorprese Artemide e le sue compagne che, nude, facevano il bagno in un laghetto e si fermò a osservarle. Quando la dea s’accorse della presenza del “guardone” venne travolta dall’ira e per impedire al cacciatore di raccontare che aveva visto trasformò il giovane in un cervo spruzzandogli dell’acqua sul viso. Atteone si accorse della sua trasformazione soltanto quando, fuggendo, giunse a una fonte, nell’acqua della quale poté specchiarsi. Il povero Atteone non fece quasi in tempo a rendersi conto di quanto gli era successo che raggiunto dalla muta dei suoi cinquanta cani, resi furiosi da Artemide, non riconoscendolo, lo sbranarono. Un altro mito racconta che Atteone subì la stessa sorte per essersi gloriato d’essere un cacciatore più abile di Artemide; un altro ancora narra che Atteone si vantò di riuscire a superare la dea nel tiro con l’arco e un altro che egli volesse usarle violenza.
Nella letteratura classica, questo mito, quale che ne sia la versione, rientra nella tipologia di quelli che vedono protagonisti uomini puniti dagli dei per il peccato di υβρις la superbia tracotante, interpretato nella sua variante “voyeuristica” come simbolo del castigo riservato alla curiosità indiscreta. Questa, la sanzione della curiositas è, per esempio, l’interpretazione di Apuleio nel secondo libro de L’asino d’oro, e di Ovidio nel terzo libro delle Metamorfosi. Mi riesce difficile credere che da questo modo d’intendere il mito si possa trarre motivo per ragionare sull’ammonimento: “Se la curiosità ti ha condotto qui, vattene”, che il profano iniziando trova scritto nel Gabinetto di Riflessione, quel monito, infatti, non ha alcun significato punitivo, bensì richiama l’attenzione del profano sul fatto che la curiosità è una scorciatoia ingannevole e rovinosa verso una presunta verità e non può, e non deve essere confusa con l’autentica sete di conoscenza che trova il proprio significato nell’acrostico vitriol, visita interiora terrae, rectificando, invenies occultum lapidem, “Visita l’interno della Terra e, rettificando, troverai la pietra nascosta”. Ben diversa è la decodificazione che del mito di Artemide e Atteone ci offre Giordano Bruno in Eroici furori ed è quella che più s’adatta a una sua lettura “masso-
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nica”. “Bruno, infatti, prende spunto dal racconto mitico ovidiano, riproducendone i particolari con una certa fedeltà, ma ne ‘risemantizza’ gli elementi costitutivi per approdare a una lettura originale e funzionale all’esplicazione delle sue teorie filosofiche”, scrive la studiosa Maria Panetta in Appunti sul mito di Atteone negli Eroici furori di Giordano Bruno. Per meglio comprendere il pensiero del filosofo nolano è opportuno citare quanto scrive Michele Ciliberto, in Introduzione a Giordano Bruno: “Come l’Ulisse dantesco, anche Bruno spicca un ‘folle volo’, ma verso la Sapienza, non verso la follia; anzi, più precisamente, verso la Sapienza attraverso la follia intesa come furor (da ciò il titolo Eroici furori)”. Gli Eroici furori sono uno dei dialoghi italiani scritti da Bruno nel 1585 durante il suo soggiorno in Inghilterra, si tratta di dieci dialoghi tra un non meglio identificato Cicada e il poeta Luigi Tansillo. Il mito di Atteone viene affrontato nel Quarto dialogo della Prima parte dell’opera, imperniato sull’amore eroico, che tende al sommo bene, e sull’eroico intelletto, che tende alla verità assoluta.
Tansillo spiega che Atteone rappresenta “l’intelletto intento alla caccia della divina sapienza, all’apprension della beltà divina”, compito difficile nel quale intelletto e volontà agiscono di comune accordo. Per il critico Giorgio Bàrberi Squarotti, in Selvaggia dilettanza. La caccia nella letteratura italiana dalle origini a Marino, Atteone “diviene l’eroe positivo del furor della filosofia, l’emblema più completo e pregnante dei processi della conoscenza intesa come deificatio, come morte a se stessi per amore, come annullamento dell’io contingente che permette il contatto intellettuale con il divino”. Citando ancora dall’opera di Maria Panetta: “Atteone rappresenta l’amore per la conoscenza, che guida il filosofo a compiere un’esperienza eccezionale, un percorso straordinario verso l’unione con la natura unigenita, verso l’abbraccio ‘impossibile’ con l’infinito”. L’incontro con Artemide e lo smembramento procurato dai cani trasformano in maniera radicale l’esistenza di Atteone, che da “uom volgare e comune, dovien raro et eroico”. Proprio nella perdita della vita si configura la nascita a una nuova vita, in
analogia a quanto avviene al profano che diventa Massone. Artemide, non più la dea della caccia, ma trasformata dal comportamento di Atteone in “dea della contemplazione”, rappresenta la natura infinita tramite la quale si manifesta la “divinità” assoluta, incarnata nella luce della conoscenza, della Gnosi. E soltanto nell’incontro con Artemide, Atteone può scoprire quella “divinita” che anima ogni cosa, che gli appartiene, che è parte di lui e che dal di dentro lo vivifica, come dal di dentro vivifica tutto ciò che esiste. Così Bruno assimila il mondo intelligibile all’universo infinito e, come scrive Nuccio Ordine in La soglia dell’ombra. Letteratura, filosofia e pittura in Giordano Bruno, il sacrificio di Atteone si risolve in una “visione straordinaria, concettuale, che permette a un essere finito, attraverso un percorso eroico, di contemplare per un momento l’infinità dell’universo”. P.76: Copia romana della Artemide di Λεοχaρης, Louvre, Parigi; p.77: Fontana di Diana e Atteone, Reggia di Caserta, 1762, di T. Solari et alii; p.78: 1659, il VITRIOL nell’Azoth di Basilio Valentino; p.78: Artemide, copia romana tardo imperiale; p.79: Diana e Atteone, olio del 1606 di G.Cesari.
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Dal marmo... Leo Toscanelli
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ichele – Come può l’inerzia, l’immobilità estrema, fra quelle di cui abbiamo esperienza, farsi espressione dell’interiorità umana, del mondo più ricco, vivo e meno limitabile? Eppure, quel che ci sorregge, quel che battiamo con piede deciso in quest’ascesa faticosa, guardando alla cima ancora una volta, è quel che da secoli ci ri-guarda e ci ripete nelle forme, o assume forme che la nostra immaginazione inventa. Pensavo ieri, ammirandole dalla pineta di Migliarino, a quando le Apuane m’apparvero la prima volta come un mondo di suprema forza e indescrivibile bellezza, sagomate in un cielo indicibile di luce tirrenica al tramonto, lontane e prossime… poche leggerissime nuvole bordate d’oro, lunghe striature d’arancione frammiste d’insostanziali grigi e insperati verdi, e tutto quell’azzurro che ci avvolgeva… Ah, sì davvero la Maestà del mondo! Ebbene, noi le apriamo, vi penetriamo, c’impadroniamo di quel bianchissimo loro cuore a tutto e a se stesso indifferente e fra noi un artista vi proietta o vi estrae, dilla come ti pare, il tumultuoso mondo dell’anima che così si ferma, si rapprende… lo spento s’accende e la fiamma s’arresta. M’intendi? Una statua mi guarda, si serve dei miei occhi per vedermi e io, tu, tutti vediamo noi stessi per quegli occhi che non perderanno mai luce e guarderanno finché saranno guardati. Insomma, qualsiasi scultura è un’idea là fuori… là fuori, capisci? Non è, però, qualcosa con una funzione precisa e specifica. No! È un’idea là fuori, un’idea che ama e m’interpella e si risponde grazie a me, a te e a chiunque altro continui ad interrogare. Angelo – “...come pietra c’aggiuntovi l’intaglio/è di più pregio che ’l suo primo scoglio...” Michele – Che hai detto? Angelo – Pensavo al sonetto numero 90 del Buonarroti. Lo scoglio, la pietra grezza, quella che or nell’ascesa ci sorregge, pur proiettata al cielo, com’è per queste cime, è sorda e cieca, immota, risucchiata nel suo abisso, senza semente alcuna di risveglio. Solo l’‘intaglio’ l’accende e le dà ‘pregio’. Ed il maestro che più d’altri ebbe la forza, nel sonetto 89, rivolto direttamente a Dio – un vezzo che ebbe anche Dante, forse perché entrambi senza
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pari in terra – diceva (o pregava): “Nel voler vostro è sol la voglia mia,/ i miei pensieri nel vostro cor si fanno,/ nel vostro fiato son le mie parole.” La forma, Michele... Michele – No... scusami, Angelo. Proprio riguardo al Buonarroti tiri fuori la forma! Se c’è uno scultore che è del tutto raccolto nella sua interiorità, nello scuotimento dionisiaco più profondo, è proprio lui. Non ricordi che cosa ne dice il ventenne Giorgio Colli: “il dolore immenso dell’opera è ancora aumentato dalla coscienza di servirsi di qualcosa di rappresentativo proprio nella lotta contro la rappresentazione”1, ed è manifestamente vero che sia così dai Prigioni, e anche prima, fino all’ultima Pietà non c’è mai più l’incanto della forma, profuso invece a piene mani, ma anche una volta per tutte, nella prima e giovanile Pietà. Angelo – Fammi riannodare i fili del nostro colloquio, tanto più che la cima è prossima e ormai l’occhio è per ogni dove libero. Detto per inciso e come stravagante, ma non troppo, rispetto a 1 G. Colli, Ellenismo e oltre. Eileitung (a cura di S. Busellato e introd. di S. Barbera), ETS, Pisa 2004, p. 71.
... come pietra c’aggiuntovi l’intaglio è di più pregio che ’l suo primo scoglio quel che vogliamo stringere in mano, sai che cosa colpì Ungaretti quando venne per la prima volta nella terra dei padri? Proprio le nostre montagne. Lui abituato fino allora al deserto d’Egitto, e a quel mare che del silenzio e dell’incostanza del deserto gli pareva figliazione, fu colpito dalla montagna “che sta ferma contro il tempo”.2 Il fuoco o l’onda devono pur sfiorare anch’essi momentanee forme se vogliono apparirci. La montagna è questa potenza che s’erge contro il tempo e a lei sottraiamo quei frammenti d’eternità morta cui la mano d’uomo sagoma un’anima che non è altra cosa da quella mano e dall’occhio cui quella mano l’opera destina. E quanto più ostile e forte è ciò su cui s’imprime tanto più vita ha l’anima che vi s’attaglia. Michele – Ti seguo, Angelo, e ho capito 2 G. Ungaretti, Vita di un uomo, Mondadori, Milano 1969, p. 509.
perché hai ricordato quei versi del Maestro fra cui per me spicca “i miei pensieri nel vostro cor si fanno”. Comprendo il nesso che proponi tra il guardarci delle opere d’arte con i nostri occhi e l’immenso cuore di Dio come fucina entro cui i pensieri dell’Artista si fanno. Nesso non semplice da seguire fino in fondo e che riassumerei così: chi crea, quando crea viene creato; e, all’inverso, con Meister Eckhart possiamo dire che Dio vede se stesso con i miei occhi. Angelo – Più che giusto, Michele, e con buona ragione porti il nome del condottiero delle schiere celesti... Ma, vedi, siamo giunti sulla cima dell’Altissimo. Guarda il mare e guarda Pietrasanta dove il marmo s’incide e riceve quell’anima con cui possiamo vederci più a fondo e più veracemente. Michele – Anche tu hai il nome che si conviene, Angelo, se fin qui mi hai tratto come s’avessi l’ali... Ma perché ti sei fatto silenzioso? A che pensi? Angelo – A che penso? Penso a chi ebbe entrambi i nomi e a che cosa poté mai scorgere quando fissò lo sguardo sull’Altissimo. P.80: Uno dei Prigioni di Michelangelo; p.81: Alpi Apuane, il Monte Altissimo sovrasta Pietrasanta e la Versilia (foto P.Del Freo).
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Meriggio e sera a Delfi
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lla fonte Castalia mi fermai. La calura di Delfi era implacabile, ma non soffocante (seppi che quel giorno invece ad Atene più persone ne morirono). L’aria paradossalmente vivace e serpentina fra gli ulivi che digradavano al mare, lungo scarpate e forre a tratti addolcite dal lavoro umano. L’acqua della fonte fluiva a pieno getto, fredda e sapida di vita, per l’intero giorno me ne sostenni non toccando altro cibo. Vagai, ma con interiore disegno. Nell’ora in cui più alto è il sole ero solo. Perché si doveva pensare ad un lungo sterile sogno, ad un inganno orchestrato da un astuto sacerdozio? Cercavo indizi probanti il contrario fra le petraie giallastre della fonte e perfino nei cespiti di piante inaspettatamente verdi, cui non potei dare un nome, addossati alle pareti, nutriti da una forza segreta sotto quel tripudio meridiano. Scesi alla Tholos, alle circolari rovine, da cui lo sguardo
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lontana fino all’alto orizzonte incurvato anche verticalmente dalle lunghe sagome montuose, vibrate sullo sfondo dai colori terrosi dell’estate. Fui al tempio d’Apollo protetto da spicchi incombenti di roccia. Chiesi alla fantasia un’immagine che non seppe darmi. Corrisposero solo i sistri delle cicale. Infine entrai anch’io. Dal museo non mi aspettavo svelamenti. Quel che vi trovavo lo avevo già visto riprodotto e illustrato... Istantaneo ed improvviso fu il dio. Uno scudo di bronzo circolare, screziato in più parti dal tempo, ma d’integra figura e in concentriche interne circonferenze sbalzato, era ad una parete (o in una teca? – ben non ricordo). Da uno degli ultimi cerchi si partiva un cuneo triangolare che ne interrompeva il corso e poi un altro, perfettamente in linea, che continuava il primo, in parte in sé contenendolo, e infine un terzo, più grande ancora fessurava l’ultimo cerchio conficcandosi nel centro. Nessun va-
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lore, nessun ardimento resiste, dunque, al dio? Era sera. Tornavo. “Ancora lo vedrai sulle rocce di Delfi/ balzare con torce di pino sul pianoro tra due picchi,/ brandire e scuotere il ramo bacchico,/ lui grande attraverso l’Ellade.” I versi d’Euripide mi rimbalzavano a tratti in mente, costanti come le curve ostinate della strada. L’altro dio di Delfi, lui che accende fiaccole nella notte, Dioniso fremente, cominciava, annidato nel più profondo plesso emozionale, a sovrapporre i suoi lineamenti a quelli d’Apollo, in uno scambio ambiguo ed enigmatico per l’uomo. Al lauro e all’ulivo s’accompagna la vite e la sua fragile luminosità rivela un vincolo fra giorno e notte, sera e mattino, vita e morte che l’alterigia guerriera dimentica. Pensai intensamente ad una coppa modesta e tenace accanto allo scudo… P.82: Tholos di Apollo a Delfi (foto P.Del Freo); p.83: Scudo votivo in bronzo, 700 a.C. ca, museo di Delfi, Grecia.
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Pharmakon
L’antidoto della follia , Storia dell uso di Helleborus nella terapia del mentale Fernando Piterå
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utilizzo di sostanze idonee a modificare stati di coscienza è antica quanto l’uomo, così come il tentativo di trattare i sintomi mentali o di indurre “altri stati di coscienza”. Agire sulla mente per mezzo dei medicamenti è talmente insito nella natura dell’uomo che in ogni tempo e in ogni luogo ne troviamo traccia sino al punto che a volte certi medicamenti hanno assunto (e assumono tuttora) il ruolo di agenti di cultura morale, sociale e intellettuale. In tutti i tempi infatti, e presso tutti i popoli antichi e moderni, sono state utilizzate e si utilizzano sostanze medicamentose capaci di agire sulla mente, anche se spesso in modo empirico e talora incosciente. A tale riguardo è significativa la storia dell’elleboro, un medicamento che ebbe grandissima fama per molti secoli e del quale parlarono poeti e letterati greci e latini, ma che soprattutto rappresenta uno tra i primi tentativi di farmacologia psichiatrica in un’epoca incerta tra il milleseicentesimo e il milleduecentesimo anno della nostra era, quando con esso, Melampo guarì dalla follia le deliranti figlie di Preto, Re di Argo, impazzite, si narra, per essersi opposte al culto dionisiaco, facendo loro bere del latte di capra che si era nutrita di elleboro. La fama delle virtù curative dell’elleboro risale però agli antichi egizi che già usavano le sue radici per provocare il vomito allo scopo di rimuovere gli umori e compiere un’azione purificatrice del corpo. Di alcune piante dagli effetti magici e miracolosi tanto esaltate dai poeti e sperimentate dagli antichi medici poco è rimasto nella fitoterapia terapia moderna; non è facile infatti,
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conciliare e porre in relazione le presunte e straordinarie proprietà di queste piante alla luce delle moderne ricerche farmacologiche che stanno alla base dell’odierna terapia. Ne consegue che alcuni rimedi, con tutto il loro bagaglio di tradizioni e illusioni, alimentate dalle antiche credenze popolari, siano svaniti nel tempo trovando collocazione soltanto nella storia della terapeutica. È il caso della rosa di natale, una delle piante medicinali più celebri della letteratura medica che scomparve dalle farmacopee conservando di eccezionale soltanto la sua straordinaria capacità di fiorire in pieno inverno. I rimedi della mente Già Platone ammetteva come alcuni me-
dicamenti potessero causare il delirio, la mania, la demenza e la perdita della memoria. Lo storico Diodoro di Sicilia racconta di un medicamento che gli Egizi utilizzavano quattromila anni fa e lo definisce “l’antidoto della collera e della tristezza”. Sembra che quel rimedio fosse un miscuglio di stramonio mescolato ad oppio per attenuarne gli effetti tossici. Riguardo “l’antidoto della collera e della tristezza” utilizzato dagli Egizi, a quei tempi non si sapeva ancora che gli effetti nocivi di alcune piante estremamente attive si sarebbero potuti evitare prescrivendo i rimedi a dosi infinitesimali. L’Omeopatia ci insegna infatti che in questo caso lo stramonio sarebbe bastato da solo a sedare sia la collera che la tristezza! Omero, nell’Odissea (IV, 220 x), fa riferimento ad una particolare pozione quando scrive: “E subito, nel vino che Telemaco stava per bere, Elena versò la droga che scaccia la tristezza, che calma la collera e fa dimenticare tutti i mali”. Più tardi Galeno scriverà al riguardo che quella droga era la stessa usata per il medesimo scopo dall’egiziana Polidoemna e menziona anche la cicuta che provoca la follia. Molto tempo prima, Ippocrate prescriveva la mandragora per dissipare la tristezza che induceva al suicidio. Aulo Gellio e Valerio Massimo narrano che gli antichi oratori, se volevano essere sicuri del successo, prima di una disputa oratoria assumevano una
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dose di elleboro per fortificare il cervello, così come noi oggi, nella stessa situazione, ci berremmo una tazzina di caffè. Tra i rimedi utilizzati per modificare gli stati di coscienza venivano utilizzate le più svariate tecniche e le più diverse sostanze tratte dal mondo minerale e vegetale. Persino l’acqua, il solvente universale della vita, non sfuggì a questo impiego. Secondo l’opinione del Florence gli antichi non utilizzavano le acque minerali o le fonti termali solo per le loro proprietà curative così come pensiamo o facciamo noi; ma per le loro proprietà “plastiche” sul corpo umano e per le loro proprietà sulla psiche,
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sul carattere e sull’intelligenza. Secondo i Greci, infatti, presso il tempio di Trofonio vi erano due fontane, una delle quali -Mnemos- aveva le proprietà di rafforzare la memoria, e l’altra - Lete - di farla perdere. Varone cita un ruscello chiamato Nous le cui acque ridavano forza d’animo e, un’altra sorgente situata nell’isola di Ceos le cui acque rendevano stupidi gli uomini. In Tracia, le acque del Linceste procuravano un dolce stato di ebbrezza mentale mentre, secondo Eudosso, l’acqua del Clitorio procurava disgusto per il vino. A sua volta, Teopompo cita molte altre fonti le cui acque erano capaci di ine-
briare la mente. Le acque della Cirica, fontana di Cupido, guarivano dall’amore. A Colofone invece, una fontana possedeva le proprietà di infondere il coraggio e la perspicacia, mentre le sorgenti Ippocrene e Catalia ispiravano i poeti. Impiego criminoso dell’Elleboro Il primo impiego di Elleboro di cui si ha memoria storica risale al 584 avanti Cristo, ai tempi della quarantanovesima olimpiade e non fu un tentativo terapeutico, bensì un atto criminoso compiuto dai sacerdoti di Delfo. L’elleboro viene in questo caso utilizzato come veleno per distruzione di massa, capace di procurare una mortale epidemia simile al colera. Di questa vicenda, oltre ad Eschine, a Stefano Bizantino ed a Plutarco nella Vita di Solone, offre testimonianza Pausania al cap. 37 del libro X della sua Descrizione della Grecia, dove asserisce che gli Anfizioni decisero di guerreggiare contro i Cirrei e scelsero per capitano Clistene tiranno de’ Sicionj, inducendo Solone di Atene a escogitare un’astuzia per annientare i Cirrei. Poiché l’acqua del fiume Plisto scorreva per un canale nella loro città, Solone la deviò altrove costringendo gli assediati a resistere bevendo l’acqua dei pozzi e quella piovana. Successivamente egli gettò grandi quantità di un preparato a base di radici di elleboro nel Plisto, e quando stabilì che l’acqua era sufficientemente pregna del veleno, rivolse di nuovo il corso del canale nel suo sito originale; e siccome i Cirrei si saziarono di questa acqua avvelenata, quelli che stavano sulle mura, per la continua necessità di scaricare il ventre, abbandonarono la guardia. Gli Anfizioni poi, come ebbero preso la città, punirono i Cirrei per le colpe commesse contro il Dio. La storia di Melampo Il primo caso di utilizzazione di Elleborus a scopo terapeutico lo troviamo invece nelle vicende che riguardano Melampo e le figlie di Preto re di Argo e di Tirinto. Il fatto entrò a far parte della tradizione e venne raccontato sia da Erodoto che da Pausania, riportato poi da Apollodoro e da Ferecide, e successivamente venne ripreso da Diodoro Siculo e da Clemente Alessandrino. Al nome di Melampo sono legate molte leggende, la più celebre delle quali è quella citata nell’Odissea (XI, 291 e ss.) dal poeta che senza nominarlo lo chiama l’impeccabile vate. La tra-
dizione afferma come in quei tempi Melampo, figlio di Amitaone e di Rodope (o Dorippe), marito di Amfianassa, padre di Mantio e Manto, ebbe nell’antica Grecia grandissima fama di ottimo medico e infallibile veggente per aver saputo mirabilmente fondere l’arte dell’elegante poeta e musico con la scienza medica e quella delle arti divinatorie sotto le spoglie dell’umile pastore, comparendo in doppia veste di veggente e guaritore. Il suo nome (Melampous = dal piede nero) deriva, a quanto narrano le leggende riferite da Apollodoro e da altri scrittori, dal fatto che la madre lo lasciava camminare e dormire al sole coi piedi nudi e che quindi questi divennero completamente neri. Di certo sappiamo che dopo la sua morte egli fu considerato come un semidio: fu venerato in Megaride e Pausania descrive il tempio che gli fu dedicato in Aigostene, il Melampodeion. Egli aveva importato dall’Egitto e dalla Fenicia i rituali bacchici e le cerimonie falliche, e proprio del culto dionisiaco è considerato l’istitutore. Grazie a due serpenti da lui allevati, che gli avevano leccato le orecchie, Melampo ebbe il dono di comprendere il linguaggio degli animali. Dal canto degli uccelli egli poteva arguire la sorte degli umani e gli avvenimenti futuri; dall’attenta osservazione della natura ritraeva pozioni medicinali e utili purgagioni, tanto da riscuotere l’appellativo di catsartes che in lui denotava nel contempo il curatore, l’esorcista e l’indovino. La fama d’auspice e di grande terapeuta Melampo se l’aveva già conquistata guarendo dall’impotenza sessuale il giovane principe Ifilco che era diventato sterile per un sortilegio. Ificlo era ancora giovanissimo quando Filaco, suo padre, vedendolo fare una cosa sconcia e riprovevole, corse a lui con un coltello che aveva nelle mani; e poiché non riuscì a raggiungerlo, piantò quel coltello in una giovane quercia sacra, la cui scorza crescendo col tempo, venne a coprirlo. Lo spavento che aveva avuto Ificlo in quella situazione fu il motivo che lo rese impotente. Un avvoltoio racconta a Melampo, che ne comprende il linguaggio, il modo di guarire Ificlo: egli avrebbe dovuto estrarre quel coltello dall’albero, raschiare la ruggine di cui la lama era
coperta, e fargliela bere nel vino per dieci giorni continui. Ificlo dopo la terapia recupera meravigliosamente le sue forze, guarisce dall’impotenza e ha un figlio che chiamerà Podarce, mentre Melampo diviene padrone del gregge del giovane principe. A seguito di questa spettacolare guarigione che ricorda la netta analogia con la guarigione di Telefo ottenuta con la ruggine della lancia di Achille, la fama di guaritore che già Melampo aveva, si accresce ulteriormente e a lui ricorsero fiduciosi gli Argivi nella speranza di guarire
Lisippe, Ifinoe ed Ifianasse, figlie legittime di Preto re di Argo, dalla follia che ne sconvolgeva simultaneamente gli animi e che, in maniera epidemica, si stava diffondendo fra tutte le donne di quella sconvolta contrada, spingendole alle più varie stravaganze e indecenti stranezze, sino ad infierire contro i bambini innocenti e ad abbandonare i talami maritali per fuggire nei campi deserti o fra i boschi tenebrosi. Le tre fanciulle, Ifinoe, Lisippe e Ifianassa essendosi opposte alla celebrazione delle feste dionisiache, furono colpite da una grave forma di demenza e mania per punizione del dio offeso. Queste, credendo di essere delle giovenche, correvano nude e forsennate per la foresta emettendo terribili grida, vagando per l’Argolide e la Focide. Preto chiese l’intervento di Melampo, il quale si offrì di guarire le principesse chiedendo in compenso la terza parte del suo regno. La richiesta parve davvero eccessiva il re non volle accettare l’offerta, ma poiché l’insania di quelle donne continuava a peggiorare egli tornò a chieder
l’intervento di Melampo, il quale a questo punto, conscio di poter dettare ulteriori condizioni dichiarò di dover essere aiutato dal fratello Bias e aumentò notevolmente le sue pretese chiedendo un terzo del regno anche per suo fratello e Preto dovette piegarsi alle sue richieste. Saputo
Pharmakon che Melampo si era impegnato a guarirle, le tre donne andarono a rifugiarsi in una caverna delle montagne situata tra l’Arcadia e l’Acaja. Allora Melampo, riunì alcuni gagliardi giovinetti a cui insegnò un forte canto e una specie di danza tumultuosa e si mise alla ricerca delle fanciulle fino a Sicione. Durante quell’inseguimento Ifinoe, che era la maggiore, morì; mentre le altre due con rituali, incanti e sacrifici misteriosi furono forzate a discendere a Lusi, che allora era una città, e successivamente condotte al tempio di Diana per essere sanate con bagni e con purgagioni a base di radici di elleboro nero restituendo loro l’uso della ragione. Melampo guarì anche tutte le altre donne argive affette dalla mania. Non soddisfatto del successo ottenuto, sembrerebbe che Melampo abbia poi versato il farmaco nella fonte Clitoria, di cui a lungo si celebrò la portentosa virtù di distogliere l’animo degli individui dediti all’ebbrezza artificiale dall’impellente desiderio di bevande alcoliche, tanto da consentire in ultima ipotesi la logica congettura che anche questo tipo di intossicazione partecipasse al determinismo della tanto discussa infermità. Ma ecco che questo gesto ci suggerisce un’altra proprietà dell’elleboro: quella di indurre disgusto per il vino. Una volta terminato il suo compito Melampo riscosse il più esoso onorario di cui si ha memoria storica fino a depredare il re di due terzi del suo dominio e anche della figlia Ifianasse, concessagli come moglie in aggiunta alla già esosa parcella. Preto diede in moglie l’altra figlia Lisippe al fratello Biante che successivamente ebbe da lui un figlio chiamato Megapente. Stefano di Bisanzio dice che Melampo guarì le donne a forza di bagni; e proprio dai bagni quella città prese il suo nome. Pausania accenna che Melampo gettò
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nelle acque dell’Anigro le pozioni che aveva utilizzato per purificarle, e che a quel fiume rimase poi un cattivo odore. In un altro scritto egli dice ancora che sulla piazza di Sicione si vedeva un tempio innalzato ad Apollo da Preto, perché in quel luogo le sue figliuole erano state guarite
Pharmakon della loro pazzia. E questa sembra anche la tradizione seguita da Apollodoro. Dioscoride asserisce invece che Melampo utilizzò l’elleboro nero per guarirle; Plinio asserisce la stessa cosa, con la differenza però che Melampo fece bere loro il latte di capre che avevano mangiato di quella pianta per attenuarne gli effetti tossici. Parecchi autori aggiungono che a Clitore in Arcadia vi era una fontana, la cui acqua aveva la virtù di provocare disgusto per il vino; e si diceva che in essa Melampo avesse versato ciò che era servito alla guarigione delle figlie di Preto. Fu dunque Melampo, del quale Erodoto scrive che ebbe fama di uomo dotto e istruito nell’arte della divinazione, colui che introdusse ufficialmente, l’elleboro nera nella terapia delle malattie mentali ed è per questo motivo che la pianta ebbe il nome di melampodio e con questo termine è indicata dagli antichi ed anche in alcune farmacopee. I motivi di quella strana forma di alienazione mentale collettiva furono attribuiti da alcuni autori all’ira di Venere, da altri all’atroce vendetta di Bacco contrariato a causa del deciso rifiuto delle donne Argolidi ad accogliere lietamente le festività dionisiache; altri invece imputarono quella pubblica calamità all’onnipresente Giunone che era stata offesa dalle volgari derisioni inflitte al venerando simulacro della maternale Era, crucciata per la durevole e disdicevole verginità delle pretidi, mantenuta per dar libero sfogo alla più sfrenata masturbazione. Ipotesi sulla follia delle donne argolidi Molte ipotesi sono state fatte da diversi Autori che si sono occupati di questa storia cercando di capire quale forma di de-
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lirio avessero contratto le figlie di Preto. Secondo Eliano le donne furono colte da furore impudico e la stessa opinione manifestarono Esiodo e Eustazio. l’autore del Grande Etimologico, con i seguenti versi dice: «D’una lebbra terribile, e d’orrende pustole sparse la lucente in pria candida pelle; e già cadder le chiome, e ignudo lasciar le belle teste». In quello strano morbo si intravidero quindi i sintomi di una complicanza psichica e neurologica della lebbra che allora imperversava. E così come la forma lebbrosa ricopriva il capo delle inferme di ributtanti e pruriginose croste e cospargeva la cute delle ammalate di chiazze alopeciche, così la malattia si attenuava e sembrava trovare giovamento con l’immersione delle alienate dentro la fonte Anigra, la stessa che se-
condo Strabone, era rinomata nella cura specifica delle manifestazioni lebbrose. A quegli incontri termali ricorrevano anche coloro che erano affetti da una varietà di licantropia o di altre forme di “melanconia zoantropica”, eventi così tramandati dall’egloga Virgiliana: «Di non veri muggiti empiero i campi le Pretidi bensì; temeano il giogo aver sul collo, e su la tersa fronte con man sovente si cercar le corna; ma alcuna mai non desiò di bruti nefandi amplessi». A complicare ulteriormente le cose Ovidio ci narra che: «...d’Amitaone il figlio, com’è credenza dé natii, sanato ch’ebbe con erbe e canti il furioso delirar delle Pretidi, gittasse poi delle menti il farmaco nell’onda, e l’odio al vino rimanesse in quella». Le varie ipotesi mediche sulla follia delle figlie di Preto furono oggetto
di interesse da parte di alcuni studiosi che vale la pena ricordare. Nei suoi Opuscules Posthumes, A. Menjot giudicava le figlie di Preto affette da furore uterino; G. Soury nel suo Système Nerveux descrive le tre sventurate come delle volgari isteriche alle quali la suggestiva immersione nelle acque della fonte Anigra ed i rituali espiatori nel tempio artemideo potevano già da soli giovare istantaneamente. Si deve peraltro ricordare come Melampo, nella sua svariata ed eclettica tecnica terapeutica avesse dapprima sperimentato sulle sue pazienti l’efficacia di canti sonori e di danze tumultuose, così da lasciare il legittimo dubbio che si potesse trattare di una epidemia di tarantismo che a più riprese negli anni infierì in quelle popolazioni e che nella danza, nel suono e nel canto ritrova il più efficace dei sedativi. Tutte queste pratiche taumaturgiche costituivano però, secondo l’opinione di E. Schultz, soltanto una pura preparazione psicologica al vero intervento terapeutico che consisteva nella somministrazione dell’Elleboro che a Melampo era stata suggerita dall’attenta osservazione delle capre purgate dalla brucatura del prezioso arbusto che in seguito fu designato in suo onore col nome di melampodio. Con l’Elleboro mescolato al latte per attutirne la violenza catartica, o meglio, secondo il Vossius, con il latte stesso delle capre che di elleboro si erano nutrite, Melampo giunse a guarire le figlie di Preto e tutte le donne di Argo. Mirabile esempio di terapia Omeopatica! Somministrare un rimedio altamente tossico ma in forma estremamente diluita (nell’organismo della capra) e dinamizzato (dai dotti galattofori delle mammelle) e che corrisponde alla legge della similitudine (Helleborus provoca alterazioni mentali simili a quelle guarisce). L’elleborismo nella civiltà ellenica L’elleborismo era l’argomento più interessante della terapeutica antica e comprendeva non solo la scelta, il modo, la preparazione e la somministrazione dell’elleboro, ma anche l’insieme dei procedimenti da attuare, tutte le precauzioni, le disposizio-
ni, i rimedi preliminari che erano propri ad “assecondare” l’azione del farmaco e a prevenire gli effetti perniciosi che esso poteva causare. Gli antichi credevano infatti che i medicamenti acquisissero particolari virtù a seconda di come se ne facesse la cura, e che il risultato di questa dipendesse dalle modalità con cui il rimedio veniva somministrato. Nell’antichità classica questa cura della pazzia con l’elleboro fu una delle più popolari e più diffuse. Ne parla già Teofrasto, il più antico dei botanici, discorrendo dell’efficacia terapeutica della radice e del succo e distinguendo l’elleboro dell’Oeta da quello del Parnaso. Scrive Teofrasto (IX, 10, 4) che è pericoloso scavare e raccogliere il rizoma dell’elleboro quando l’aquila sorvola il luogo ove ciò avviene e che esso deve essere scavato con grande celerità perché altrimenti si manifestano gravi dolori al capo. La piccola città di Anticira, sita nella Focide nell’estremo seno del golfo di Corinto ed erroneamente ritenuta un’isola da alcuni scrittori latini fra i quali Plinio e Orazio, era celebre perché sulle colline che circondavano la città vi cresceva in abbondanza l’elleboro. Strabone (IX, 418), Plinio (XXV, 52) e altri scrittori greci e romani ci narrano come i malati e particolarmente quelli affetti da malattie mentali si recavano ad Anticira considerato come luogo di cura. Navigare verso Anticira vuol dire diventar pazzi, mandare qualcuno ad Anticira voleva dire significarli in forma chiara che lo si ritenesse demente, o lo si poteva appellare con altro termine allora usatissimo, quello di helleborosus. L’elleboro rimase per molto tempo uno dei medicamenti più popolari e più diffusi nella cura della pazzia, tanto che lo stesso Plauto così dice rivolgendosi ad un maniaco: «Tu sei fatto così che un campo intero di ellebori non ti bastereb-
be». O come si direbbe oggi: «Tu sei così fuori di testa che non ti basterebbe un intero campo di ellebori». Orazio enumerando le varie specie di follia che colpiscono gli uomini (Satira III), dice che agli avari non basterebbe tutta Anticira: «Danda est hellebori multo pars maxima avaris nescio on Anticyram ratio illis destinet omnem...» e in più consiglia ad un ambizioso di andarsene ad Anticira: «…verum ambitiosus et audaz naviget Anticyram...» Persio si sofferma invece sull’imprescindibile necessità di stabilire un esatto dosaggio del pericoloso medicamento: «Mesci elleboro, ed ignori a guai convenga punto fissarne della dose il pondo? Ciò grand’error la medic’arte insegna». Ma la storia medica dell’elleboro trae il suo vero inizio da Ippocrate che nel 400 a.C. ne conosceva già l’uso e lo consigliava come vomitativo nei dolori addominali e come purgante drastico, in quanto sosteneva che la pianta svolgesse nel sangue un’azione generale e riuscisse a cacciare lentamente dal corpo degli infermi quegli umori abnormi, pituitosi od atrabili, che irritando il cervello costituivano la causa principale dell’insorgenza delle alienazioni mentali. Ippocrate però, consapevole della pericolosità di questa pianta, metteva in guardia dall’usarla in forti dosi: «…le convulsioni che essa produce sono letali, non bisogna dare il veratro a coloro che soffrono il flusso di capo, a coloro che sono deboli di ventre o che hanno fatto fatiche eccessive alla caccia, alla corsa o a venere». E del veratro Ippocrate si servì per curare l’insolita follia che aveva colpito l’eletto spirito del filosofo Democrito. Già negli Aforismi egli infatti preludeva alle modalità tecniche di prescrizione del farmaco che, riunite in seguito sotto il nome d’elleborismo, costituirono uno dei capisaldi fondamentali della terapeutica antica: «Se devi somministrare l’elleboro a persone che vomitano difficilmente, umetta dapprima il corpo con cibo più copioso e col riposo». «Allorché si prese l’elleboro, bisogna tenere il corpo in movimento e non darsi né al sonno né al riposo: l’effetto che risenti sul mare dimostra quanto influisca sul vomito l’agitazione del corpo». «L’elleboro riesce dannoso per le persone che trovansi in buono stato producendo loro le convulsioni». Convulsioni giudicate micidiali nelle Prenozioni Coace, dove, come pure nel libro Sulle Fratture od in
quello Sui Sogni, nel trattato Del Regime od in quello Sul Metodo Dietetico, l’elleboro appare consigliato non solo quale antidoto dei morbi psichici in genere e più in particolare della melanconia stuporosa, ma ancora quale rimedio contro i dolori lombari, contro i rigonfiamenti addomi-
Pharmakon nali, contro la stessa pleuritide a risentimento ipocondriaco. Ippocrate inoltre distingueva l’elleboro bianco dall’elleboro nero, ma alla precisa distinzione botanica non seguiva un preciso rapporto con la differenziata azione medicamentosa, e la frequente mancanza di specificazione si deve ritenere allusiva alla varietà bianca che era la specie prediletta dagli ippocratici. L’elleboro nero è raccomandato da Ippocrate come purgante prescritto nei dolori addominali (ed. Littré, II, 263); la radice dell’elleboro bollito è ottimo purgante nella pleurite (II, 475) e nelle flussioni che scendono dal capo; nella follia è considerato il rimedio migliore e più energico (VI, 519), guarisce la pletora dovuta all’eccesso degli alimenti (VI, 615), ed è anche un ottimo emostatico quando venga introdotto nel naso dopo la cauterizzazione di un polipo. Nel vino dolce guarisce le malattie del fegato; viene adoperato come pessario (VIII, 159). L’elleboro bianco è consigliato soprattutto come vomitivo nei dolori addominali, ma anche come evacuante nelle emorroidi (II, 517), nelle fratture complicate (III, 529) è ottimo il prescriverlo come vomitativo; come starnutatorio è efficace per provocare l’espulsione della placenta. Abbiamo citato soltanto pochi fra gli infiniti casi nei quali gli scritti ippocratici raccomandano l’elleboro nero e il bianco, talvolta indicandoli distintamente, altre volte parlando semplicemente di elleboro senza distinguerli e qualche volta infine dicendo espressamente che le due piante devono venire usate insieme. Ippocrate utilizza l’elleboro nero ed il veratro bianco per provocare vomito e diarrea quando lo riteneva necessario, ma curava anche le gravi forme diarroiche proprio con il veratrum album applicando in questo caso non la legge dei contrari ma quella del “simile”. Fra gli ippocratici più insigni va incluso Ctesia di Cnido, il quale, ricordando i luttuosi pericoli dell’elleborismo, celebra
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i rassicuranti progressi compiuti ai suoi giorni nella preparazione del medicamento divenuto così meno rischioso e più efficace. Il che non vieta a Xenocrate, seguace di Platone, di comporre, con i rami scavati del farmaceutico arbusto, dei flauti magici le cui note vibranti dovevano essere idonee a provocare contratture delle anse intestinali o a indurre il vomito liberatore, senza dar luogo a ulteriori complicanze quali i disturbi generalizzati e di conseguenza i facili decessi. Aristotele da parte sua non si astiene dal constatare per primo come «l’elleboro purga anche per di sopra», e per suffragare la sua asserzione bandisce dalle mense conviviali le saporite pernici, in conseguenza appunto dell’avidità dimostrata dalle eleganti bestiole per le velenose semenze dell’elleboro. Ipotesi questa rimarcata successivamente da Lucrezio che, a dimostrazione della variabile recettività degli organismi viventi in rapporto ai tossici vegetali, asserisce: «...e spesso anche le capre e le pernici s’ingrassan con Elleboro, che pure senza dubbio è per noi tosco mortale». Diocle di Caristio, soprannominato dagli ateniesi col nome
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di Secondo Ippocrate, ottiene dall’elleboro gli stessi effetti purgativi applicandolo in empiastro per via anale o come suppositorio. Prassagora invece, adotta il farmaco per provocare il vomito dei paralitici, e il suo discepolo Plistonico ottiene lo stesso effetto introducendolo in forma di supposta entro l’ampolla rettale o infiltrandolo a modo di suffumigio in appropriata mescolanza con fiele bovino. Erofilo, famoso anatomico famoso vissuto nel IV secolo a.C. anch’egli allievo di Prassagora e di Crisippo, paragona l’energico elleboro ad un valoroso e fortissimo capitano che, scossi ed incitati gli umori dei belligeranti, fuoriesce sempre dal corpo davanti gli umori che da lui sono concitati nella carica irrefrenabile ed afferma che tanto più presto e meglio opera quanto più si dà abbondantemente. Sempre fra i seguaci di Prassagora Filotimo associa l’elleboro al rafano per accrescerne la virtù vomitatoria ed attenuarne i susseguenti travagli peristaltici. E mentre Mnesiteo indugia a disputare in modo prolisso di tali travagli così come delle virtù terapeutiche della pianta, Teofrasto, sprezzante d’ogni
rischio terapeutico, cita numerosi esempi di noti personaggi che, per graduale e progressiva assuefazione (mitridatismo) al celebrato rimedio, ne sopportavano impunemente elevatissime dosi, fra gli altri tutti in particolare ricordando Eunoino Chio che in un solo giorno, restando tranquillo nel popolato foro, si ingollò ben ventidue pozioni a base di elleboro senza percepire il minimo turbamento gastrico o intestinale. Agatarchide insieme con Filonide intitolano all’usuale medicamento i loro trattati empiristici. Oltre ad occupare un posto preminente nella gerarchia medicinale della terapeutica delle malattie mentali, nella civiltà ellenica l’elleboro era utilizzato per stimolare l’attività intellettiva. Crisippo lo stoico, infatti, ritrovava le sopite energie alle filosofiche scoperte nelle ripetute dosi dell’infuso purgante a cui si sottoponeva; Carneade lo scettico, traeva la rapida inspirazione alle vittoriose diatribe dialettiche dalle ingestioni del farmaco evacuatorio. Dove poi tutto ciò non bastasse, a rafforzare la sua conquistata popolarità, ecco che l’elleboro si affaccia alla scena comica di Difilo e di Aristofane, eccolo intrufolarsi nei dialoghi letterari di Menandro e di Luciano, per trasferirsi poi dall’idioma greco alla lingua latina sino a pervenire in Roma insieme con quei trecento muli carichi di radici di elleboro che, secondo la narrazione di Roderotto Biado, in quel tempo ogni anno vi importavano le pesanti balle della ricercatissima pianta. E così l’elleboro trova molteplici risonanze nelle commedie di Plauto e nelle liriche d’Orazio, nelle georgiche di Virgilio e nelle satire di Marziale. Archigene, discepolo di Agatino e contemporaneo di Traiano, nel suo De hellebori usu, si dilunga invece ad enumerare i sotterfugi escogitati per far assumere agli inconsapevoli pazzi il ripugnante medicamento senza che se ne accorgano. Areteo di Cappadocia che pur non dubitando che negli organi ipocondriaci risieda la causa prima dei perturbamenti encefalici, ripone piena fiducia nell’efficacia curativa dell’elleboro, diretto non solo a ripulire lo stomaco dei melanconici dall’atrabile che lo infesta, ma ad esercitare ancora un’azione ricostruttiva dell’intero organismo. Da ciò si può dedurre quale scrupolosa attenzione e quanti minuziosi procedimenti si adoperavano per preparare l’ammalato
a prendere l’elleboro. L’importanza attribuita ad un farmaco così universale, giustifica pienamente quell’insieme di preparativi precauzionali che preludevano alla somministrazione del medicamento con lo scopo d’attenuarne o di eluderne la violenta pericolosità e che, in un suo frammento, a noi tramandata da Erodoto, così dice: «Si svuota dapprima dolcemente l’infermo, poi lo si nutre copiosamente allo scopo di provocargli, il vomito sul declino della luna. Si, rinnova il vomito cinque giorni dopo e quindi si ristabiliscono le forze durante un mese. Si rinnova poi la stessa specie di evacuazioni due o tre volte con l’intervallo di tre giorni dall’una all’altra. Infine dopo un riposo di ventiquattro ore, durante le quali si pratica un clistere, un bagno ed una alimentazione leggera, si, friziona tutto il corpo con un unguento oleoso e si somministra l’elleboro. Tosto i pazienti soli posti su di un letto sospeso che loro permette di liberamente vomitare. Ma se vi è inerzia di stomaco, in luogo del vomito possono manifestarsi, soffocazioni, convulsioni, perdita assoluta della coscienza; ai quali inconvenienti si rimedia introducendo nella gola delle lunghe piume d’oca o delle strisce di cuoio bagnate nell’olio di cipresso, oppure dando dell’idromele in abbondanza ed agitando il letto in modo da imitare il rullio d’una nave». Per provocare il vomito occorrevano dunque molte precauzioni, date le qualità drastiche del medicamento che doveva trarre poco alla volta gli umori cattivi del sangue. Occorreva quindi provocare il vomito né troppo presto, per non impedire l’azione generale, né troppo tardi affinché non insorgevano i sintomi di intossicazione. A tale scopo si preparava il malato con blande purghe, clisteri e dieta, poi propinato l’elleboro se ne accelerava e rallentava l’effetto emetico o purgante. In simili circostanze occorreva dunque allestire un vero armamentario farmaceutico e, stando ad Ezio, vi figuravano come ingredienti acqua calda ed acqua fredda con relative spugne, acqua acetata, acqua mellata all’issopo, alla ruta, al timo, all’origano, olio comune, olio di fico, di rosa, di iride, di narciso, vino ed assenzio, lunghe penne d’oca e ventose, polveri per detergere il sudore e polveri per provocare lo starnuto, con l’aggiunta di un pollo giovane e ben cotto a conforto del paziente che, per con-
to suo, non dimenticava di stilare in anticipo il proprio testamento. Più tardi, si ricorse anche a letti orizzontali, inclinati o sospesi, di guanti le cui lunghe dita venivano introdotte nella gola del paziente. Tutto ciò serviva ad accelerare o a rallentare il vomito. Se l’azione emetica non appariva e si manifestavano invece fenomeni tossici si ricorreva agli sternutatori, i vescicatori, le ventose e infine a far saltare l’infermo sopra un lenzuolo teso da braccia robuste. L’elleboro nella civiltà latina In Roma, poeti e dotti decantavano le mirabili proprietà del nuovo farmaco e del resto, le frasi fatte come il navigare Antyciram che equivaleva ad avviarsi verso la follia, ed il tribus Antyciris insanabile caput che alludeva alle tre isole produttrici della droga, la dicono lunga sulle riconosciute proprietà della pianta. Ed è proprio a Roma che l’elleboro viene denominato veratro, da verum atrum per la sua violenza nei movimenti viscerali o da vertendo per la sua possanza nelle modificazioni psichiche. Catone stesso, critico e accanito dispregiatore di ogni produzione greca, ma esaltatore per l’universale panacea del semplice cavolo trito, Catone stesso segnalò all’attenzione dei medici e degli infermi un suo vino purgativo ottenuto seppellendo fra le germoglianti radici della vite, triplici fascetti d’elleboro nero, o infondendoli nelle anfore colme di mosto ribollente. Temisone, il riconosciuto maestro della Setta Metodica, assunse l’elleboro per mitigare il “mal comiziale” curato sino ad allora con mezzi terapeutici cruenti dove all’ustione di parti del cranio si alternava la divaricazione delle suture con la perforazione del bregma. Aulo Cornelio Celso indica l’elleboro nero nel Libro II del Cap. 2 e in parecchi altri punti, come eccellente purgante. Interessante è l’accenno (Libro II, Cap. 20) alla cura di una malattia acuta chiamata col nome greco di letargo, considerata il contrario della frenesia. In questa malattia, a quanto scrive Celso, i medici si preoccupano che il malato venga fatto spesso starnutire e prescrivono a questo scopo l’elleboro. Nell’epilessia egli consiglia di dare l’elleboro nero come purgante e perché esso di rivela altresì utile nell’apoplessia (L. III, C. 26). Per vincere l’epilessia Celso volle associare l’elleboro al salasso ed al digiuno, riservandone però l’uso ai temperamenti
flemmatici e limitandone l’impiego alla stagione autunnale, ricorrendo alla varietà bianca solo quando il veratro nero si era dimostrato insufficiente al compito prefissato. Fra le due specie di elleboro Celso infatti non distinse differenze quantitative, ma fissò addirittura un opposto effetto
Pharmakon terapeutico, specificando come «negli allucinati bisogna prima di tutto osservare se i loro fantasmi sono tristi o allegri: se tristi, deve somministrarsi l’elleboro nero per smuovere il corpo, se allegri l’elleboro bianco per eccitare il vomito: e se il malato ricusa di prenderlo in bevanda, può unirsi al pane, affinché il malato non se ne accorga. Quando sarà ben purgato si troverà sollevato assai. Perciò se l’elleboro somministrato una volta ha agito poco, dopo un certo tempo si deve ripetere. E non bisogna ignorare che la pazzia allegra è meno grave della malinconica». Tra le infinite indicazioni dell’elleboro egli cita anche quella che prescrive l’elleboro bianco come eccellente rimedio contro il gozzo. Un’applicazione ripetuta di radici di
elleboro pesto sul tumore serve, secondo i medici greci, a quanto Celso riferisce, a farlo scomparire o almeno a diminuire la grandezza (L. V, C. 28, 7). Come vediamo da questo rapido riassunto anche Celso prescrive quasi indistintamente l’elleboro nero o l’elleboro bianco. Fra i metodici è da ricordare Moschione che consigliava le preparazioni elleborate in suffocatione
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matricis e nella neurosi isterica; e come non citare Celio AureLIano, l’autorevole rappresentante della psichiatria antica, il quale pur negando ogni specifica virtù del discusso farmaco contro l’alienazione mentale, ritenendo per questa malattia più efficaci i regimi dietetici, le emis-
Pharmakon sioni sanguigne, le applicazioni idriche, e magari la somministrazione massiva della famigerata mandragora, solo quando ognuno di questi mezzi si dimostrava insufficiente a contenere l’inquietudine motoria o ad elevare il tono sent i menta le, solo allora anche Celio Aureliano si affidava all’elleboro ed entro breve termine ne rinnovava le abbondanti somministrazioni. Di questa pianta scrive Plinio nel XXV libro della Storia Naturale (L. 25, C. 5), indicandone gli effetti e cominciando col distinguere le varietà botaniche del vegetale, con l’indicare le località propizie allo sviluppo della pianta, col segnalare le precauzioni a cui devono attenersi quanti si accingono alla raccolta della specie nera, del vero melampodio. La pianta doveva essere sradicata sempre, previa adatta preghiera, con le pupille fisse a levante e quando non svolazzino aquile rapaci, segnali di morte imminente per il disgraziato erborista. Così il melampodio, a dire di Plinio, oltre che nella pazzia torna utile nelle paralisi, nell’idropisia, nella gotta, nell’artrite e, sopratutto, nell’epilessia da cui guarì Druso, tribuno della plebe, che assunse il farmaco direttamente in Anticira. Non mancano all’elleboro le proprietà di giovare in applicazione esterna alle congiuntiviti, alle scrofole, alle verruche e alle fistole, mentre ancora serve alla purgagione degli animali infiggendolo semplicemente nel loro padiglione auricolare. E sempre Plinio non indietreggia neppure dinanzi all’uso dell’elleboro bianco, che somministra disciolto nel latte o spremuto col rafano, in casi di elefantiasi, di lebbra o
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di vertigini, adoperandolo contro i tremori, gli spasmi, le sciatiche, le febbri quartane o le tossi inveterate, fino ad adottarlo per lo sterminio dei topi o per fare strage di pidocchi. Infatti, l’uomo si servì di questa pianta non solo per curare le proprie malattie ma anche quelle degli animali e a questo proposito Lucio Giunio Moderato Calumella nella sua opera dell’Agricoltura citò l’elleboro come rimedio fortemente attivo per combattere la scabbia inveterata del cavallo: bastava cuocere dello zolfo e dell’elleboro nella pece liquida mescolata a sugna e poi curare le parti malate con questa composizione dopo aver lavato la pelle con l’urina. Lo stesso preparato, se mescolato al cumino, serviva anche a scacciare le pulci dei cani. Fra le virtù magiche attribuite dagli antichi all’elleboro vi era quella di guarire i morsi dei serpenti introducendo la radice dell’elleboro in un’incisione fatta sotto l’ascella, poiché si credeva che essa assorbisse a sé tutto il veleno. Era uso nell’antichità il forare gli orecchi degli animali facendo passare attraverso il foro una radice di elleboro, perché si pensava che così facendo si difendesse il gregge contro il morso dei serpenti, e la stessa pratica fu usata a titolo profilattico applicandola anche agli uomini e introducendo le radici della pianta magica fra carne e pelle nelle calcagna per difenderli da ogni pestilenza. E ancora la credenza intorno al VI sec. che l’elleboro guarisse magicamente la pazzia, in virtù delle sue proprietà starnutatorie. Si riteneva infatti che lo starnuto facesse uscire fuori dal corpo il demone che vi albergava. Ai già multiformi impieghi del veratro altri ne aggiunge Dioscoride, utilizzando l’elleboro bianco come abortivo e utilizzando il nero contro il dolore dei denti o la sordità degli orecchi. Il declino di Helleborus Tra il moltiplicarsi infinito delle sostanze medicamentose esumate dall’empirismo dei cosiddetti farmaceuti, l’elleboro dovette abdicare il primato raggiunto nella terapeutica mentale per inquadrarsi successivamente fra i comuni rimedi per la
cura delle malattie generali. Claudio Galeno, che attribuiva ai perturbamenti del corpo la ragione alle malattie dell’anima scorgendo nella malinconia la conseguenza di un eccesso della bile nera e nella frenite l’effetto d’una sovrabbondanza della bile flava, nel trattamento di molteplici infermità ricorse anche lui all’elleboro dalle «virtù calide ed astersive», ma non ne nascose le proprietà venefiche ricordando che i bellicosi Daci lo utilizzavano per rendere micidiali le loro frecce. Dopo Galeno, la fama dell’imperante elleboro comincia a subire un iniziale fase di tracollo fino a ridursi alle modeste condizioni d’un farmaco trapassato. E così Oribasio di Pergamo lo circoscrive alla cura del cancro uterino asserendo di aver guarito il cancro ad una donna mediante una buona somministrazione dell’elleboro. Fu Asclepiodoto, rinomato per le sue conoscenze matematiche e per le sue attitudini musicali, a tentare verso l’anno ‘Cinquecento una riabilitazione dell’ormai negletto veratro, ottenendo con esso guarigioni sorprendenti di morbi ribelli che riusciva a scacciare con lievi dosi di elleboro nero. Anche le scuole arabe riprendono l’usanza del deprezzato medicamento, e Rasis, pur annotando «che l’elleboro soffoca l’uomo ripieno di umori e provoca convulsioni anche nell’uomo puro», forma con esso l’ingrediente principale della faragginosa composizione delle sue pillole utili per ogni sorta di morbo umano. A sua volta, Avicenna giudicando il vecchio farmaco adatto «a trasmutare l’intero corpo per donargli una complessione nuova, robusta e giovanile», lo consigliava nella ritenzione dei mestrui e delle orine come nelle alterazioni della cute e delle giunture, così come nelle infermità degli occhi e del capo, per giudicarlo infine «utile alla melanconia, data la sua proprietà di sciogliere ed eliminare, attraverso la pelle e le estremità del corpo, la collera e la flegma, come pure ogni altra superfluità frammista a sangue». Quello prescritto da Avicenna, e dopo di lui anche da Mesue, fu essenzialmente l’elleboro nero di cui Aven-Zoar correggeva l’amaro sapore con i fiori di ninfa, prescrivendolo in una strana malattia caratterizzata da una dolorosa escrescenza cornea che si sviluppava sulle parti dorsali e che, per l’uso protratto del medicamento si staccava «come a primavera si distaccano le ramose corna
del selvatico cervo». Passando alla Scuola Salernitana troviamo Cofone, che per attenuare la violenza del rimedio, lo impastava al frumento dentro le stie dei gallinacci le cui carni ed i cui brodi dovevano poi servire alla piacevole purgagione degli infermi benestanti. Occorre però giungere al sedicesimo secolo per scorgerne il definitivo tramonto dell’elleboro, anche se a tratti sarà ancora rischiarato da sprazzi luminosi. Ma ecco il fiorentino Benivieni imputare al veratro la rapida morte di un disgraziato affetto da malaria che lo utilizzava contro la febbre quartana. Gabriele Fallopio e Guglielmo Ballonio diffidano seriamente di un farmaco tanto pericoloso, giustificando così il disuso in cui era caduto e di cui Giambattista Fedelissimi da Pistoia ed Andrea Mattioli da Bologna rendevano precisa testimonianza. Questo disuso però, a detta di Prospero Alpino, avveniva «non senza danno degli infermi e con grande vergogna dell’arte medica»; «disuso in cui però non cadeva presso i sacerdoti di quasi tutti i paesi che ne approfittavano per dar rimedio alle infermità croniche, riputandole causate da malefizi e per ciò sanabili soltanto con parole sacre, con sacre unzioni e con altri medicamenti da essi escogitati. E così fanno passare per santi gli olii che somministrano anche per bocca e che contengono invece delle radici d’elleboro bianco come facilmente si poté accertare. E dicono che così si possono mettere in fuga i demoni ed i cattivi spiriti: ed in realtà non mentono poiché tali medicamenti, assunti per bocca, soffocano talvolta anche gli spiriti più buoni, uccidendo senz’altro l’infermo». E la grave accusa è suffragata da Alpino
con un fatto di cronaca riguardante «un certo abitante di Bassano, il quale condusse a Padova la moglie frenetica, ed essendo persuaso che essa fosse invasa dai demoni, la condusse da un religioso, per siffatte imprese, in grande fama: e per consiglio di questi avendole somministrato appunto un olio santo, ne susseguì un intenso vomito di umori vari e specialmente biliosi per un peso di diverse libbre, in seguito al quale le la moglie il giorno appresso spirò». La riprova dell’affermazione si trova ne-
gli antichi Manuali di Pratica Esorcistica, in quello, fra i molti altri, del barnabita Zaccaria che di tale arte era emerito professore in Bologna, dove all’elleboro si accenna apertamente nel trattamento degli indemoniati, nella speciosa considerazione che «i malefizi provocano malattie diverse», e che « la cura di una parte può talvolta guarire tutto l’organismo malefiziato».
l’Elleboro nel Rinascimento Chi voglia farsi un concetto del posto che l’elleboro occupava nella terapeutica fino al Rinascimento deve consultare Dioscoride nella fedele traduzione del medico senese Mattioli (XVI sec.). Egli distingue e descrive nettamente l’elleboro bianco
Pharmakon dall’elleboro nero. Parlando poi delle varie qualità di elleboro bianco dice che il migliore è il cirenaico e intorno alle sue virtù afferma che l’elleboro bianco provocando il vomito purga gli umori, utilizzato come collirio giova a chiarificare le caligini degli occhi, provoca i mestrui e fa starnutire. E dopo aver vantato altre qualità terapeutiche, dice che esso si somministra solo a digiuno oppure con succo di tisana o di lenticchie o con altri sughi e narra che moltissimi autori medici hanno indicato una quantità di modi di somministrarlo. Intorno all’elleboro nero Dioscoride scrive (IV, 153) che esso si chiama melampodio e narra brevemente la storia della guarigione delle figliole di Preto. Secondo Dioscoride il migliore è quello che cresce ad Anticira; ottimo anche quello dell’Elicona e del Parnaso. In quanto alle virtù terapeutiche elenca i vari casi di malattie dei quali si è già parlato e nota come esso giovi soprattutto nel mal caduco, nella melanconia e a guarire coloro che impazziscono. Interessante è la indicazione di carattere nettamente magico, secondo la quale coloro che lo cavano da terra devono stare in piedi, invocare Apollo ed Esculapio ed evitare la presenza dell’aquila poiché essere visto dall’aquila è presagio di morte per colui che cava l’elleboro. Bisogna anche cavarlo velocemente perché il suo odore provoca cefalea e coloro che lo debbono cavare si preparano mangiando prima dell’aglio e bevendo del vino. Confrontando poi le figure del Commento di Dioscoride nell’edizione veneziana del
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Mattioli (Venezia 1554) e le bellissime immagini del libro del Fuchs, nella stupenda edizione di Basilea (1542) si può facilmente vedere come non vi sia dubbio intorno alla chiara distinzione ed alla perfetta identificazione delle due piante: tanto che si può ragionevolmente affermare che il
Pharmakon veratrum album è senza dubbio l’elleboro bianco di Dioscoride e del suo grande commentatore. Questi dice di aver frequentemente guarito con l’elleboro nero la febbre quartana e di aver spesso trattato con successo dei melanconici con infusioni di elleboro bianco, senza aver mai osservato nessun danno. In quanto alle virtù terapeutiche dell’elleboro per curare la pazzia, sembra che, già al tempo del Mattioli, i medici non si decidessero facilmente a prescriverlo non potendolo dare a quanti generalmente si riteneva, senza metterli in pericolo di vita. Infatti già il ricettario della Scuola salernitana, il celebre Regimen Sanitatis accenna alle virtù purgative e vomitive dell’elleboro e alla sua efficacia nel distruggere gli insetti, ma non parla di adoperarlo nei casi di melancolia. Intanto, Corrado Gessner, il fantasioso ricercatore di segreti medicinali, spacciava il suo ossimele elleborato contro l’alienazione e contro l’epilessia, egli stesso usandone «perché ricrea, fortifica, rende più gaio e dà maggiore vivacità alle facoltà intellettuali»; mentre Giovanni Langius infiggeva le contorte radici dell’elleboro nero sotto la spessa cute degli animali domestici per preservarli dalle letali pestilenze o per guarirli dalle affezioni polmonari. Leonardo Fioravanti, il fortunato compositore del celebre balsamo, riteneva che l’abitudine frequente di nutrirsi con mele cotte insieme all’elleboro fosse la ragione precipua per cui gli abitanti della Pantelleria evitavano di sottoporsi alle visite dei medici e potevano fare a meno delle preparazioni degli apotecari. Lullo e Cardano nella quintessenza dell’elleboro scrutavano il metodo infallibile per ripristinare la gioventù perduta,
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ed il celebre Paracelso indicava nel Dauran, così egli chiamava l’elleboro, il rimedio adatto a «vincere le quattro malattie cardinali, la nefrite e l’apoplessia, l’epilessia e l’artrite». E quando ormai l’elleboro non entrava in modo schietto nella composizione dei medicinali, esso continuava a essere presente in maniera occulta per quegli «inganni» che Antonio Lodetti rimproverava ad «alcuni malvagi speziali», colpevoli d’adulterare la manna col veratro, il quale anche in seguito riusciva a trovare impiego in diversi estratti e in numerose preparazioni medicinali quali: il catolico di Sennert, il panchimagogo
di Crollius, il colagogo di Rolfinio, nella tintura di Wendelius, nelle pillole di Starkey, in quelle balsamiche di Stahl, in quelle tartarisate del Quercetano ed in quelle pillole toniche di Bacher che per molto tempo tennero inviolato campo nella medicina militare francese. Ed ancora si deve menzionare il paracelsista Henning Scheunemann che nel diciassettesimo secolo, al capitolo ultimo della sua Medicina Reformata, alla pietra filosofale paragonava precisamente le foglie d’elleboro che,
con procedimento arcano ridotte a balsamo, « preservano gli uomini dalle infezioni interne e da tutte le esterne putrefazioni, conservandoli nello stesso stato in cui furono generati così da poter, senza mali, raggiungere la seconda età». Meno entusiasti di lui, per quanto a lui contemporanei, Zacuto, Riverio, Willis, Ettmuller, Maxaria, Claudino, Holzemio, Codronchi e il Manelfo persistono ad impiegare l’elleboro nelle infermità della mente, mentre Zacchia lo prescrive in modo essenziale nei morbi ipocondriadi. Boneto lo indica invece quale specifico evacuatore della materia peccans nei deliri suscitati dai patema d’animo e, fra i numerosi antiepilettici, il Quercetano colloca pure lo sterco di capre appositamente pasciute di fresco veratro. Altri autori cominciano invece a valutare e a metterne in luce gli effetti collaterali: Guglielmo Fabrizio ricorda un principe ed una dama morti poco dopo l’assunzione di un estratto di elleboro mal confezionato; Malachia Geiger cita diversi casi di maniaci per l’elleboro divenuti convulsionari, mentre Giovanni Muralt riferisce sulle macchie nerastre del ventricolo emerse all’autopsia di una fanciulla che si era servita dell’elleboro per interrompere una gravidanza indesiderata. Il colpo di grazia al già condannato elleboro verrà inferto infine dal rivoluzionario diciottesimo secolo, rivoluzionario nelle idee, sia in medicina che in politica, dispregiatore critico di ogni autorità sopravvivente e smanioso utopista di ogni futura giustizia. E furono appunto due pensatori rivoluzionari nel trattamento della alienazione mentale, due fari diretti sull’orizzonte della scienza nuova a snidare il biasimato farmaco dall’oscurità in cui si nascondeva e dalla modestia sotto cui si ammantava, permanendo come una radicata tradizione fra le consuetudini ospedaliere quando già lo si riteneva un reale pericolo per le constatazioni cliniche. Così il nostro grande Morgagni documentava nel lucido commentario di una necroscopia l’avvelenamento da veratro, ricordando come all’infermo convalescente da un delirio
melanconico l’estratto d’elleboro nero, «quello che davano a tutti in quest’ospedale», fosse risultato letale per la mancata somministrazione di quella bevanda sierosa che, nelle vigenti abitudini, si soleva regolarmente somministrare come complemento dopo l’assunzione della pericolosa pozione. Ed è proprio per questo pericolo di morte che l’elleboro si è reso tristemente celebre nella storia della Materia Medica. Vincenzo Chiarugi riflette «che il gran vantaggio il quale si riportava dai pazzi in Anticira coll’uso dell’elleboro... non può supporsi proveniente da altro se non dalla potenza sedativa che risiede nella sua qualità purgante... Per questo è ragionevole attribuirne gli effetti salutari alla di lui facoltà indubitata, e fin di quei tempi conosciuta efficace, ma insieme assai pericolosa per le nausee dello stomaco, freddo alle estremità, pallore di volto, lipotimie e vertigini quasi mortali, e che realizzano l’immagine della morte al sopravvenire delle convulsioni, che si è sperimentato prodursi dall’amministrazione del sugo non solo, quanto ancora dalla semplice infusione di questa celebre pianta a giorni nostri». Ma il necrologio definitivo dell’ormai condannato elleboro fu pronunciato da Filippo Pinel che ne sottolineò la violenza delle sue azioni, la brutalità delle sue conseguenze e che rappresentava quindi una stonata antitesi alla bontà ed alla dolcezza cui si conformavano le nuove direttive all’insperate guarigioni degli infelici mentecatti. Così ai suoi esordi la psichiatria rinnovata abbatteva il secolare antidoto della follia, come nello stesso anno la grande rivoluzione stroncava il tradizionale impero del trono. l’Helleborus di Hahnemann Nella prima decade dell’Ottocento un importante studio sull’Elleboro si deve a Samuel Hahnemann, il padre dell’Omeopatia. Questi, infatti decise di trasferirsi a Lipsia per insegnare Omeopatia agli studenti della Facoltà di Medicina e chiese che gli fosse accordato il privilegio di tenere delle lezioni. Rosenmuller, il preside della Facoltà di Medicina, gli disse che un
medico extraneus, benché legalmente autorizzato a esercitare la professione medica, non godeva in virtù di ciò del privilegio di tenere lezioni. Egli doveva acquisire quel privilegio discutendo una dissertazione con un controrelatore delle scuole di medicina e pagare alla facoltà una tassa di 50 talleri. Ciò gli avrebbe consentito di diventare membro di quella Facoltà e di segnalare le sue lezioni sia nell’elenco dei docenti che con manifesti pubblici. In conformità a quel regolamento Hahnemann fu dunque obbligato a pagare la tassa prevista e a discutere una tesi presso la Facoltà di Medicina. Secondo il regolamento universitario dell’epoca, il me-
dico che aspirava a diventare docente era obbligato a discutere la tesi davanti a una commissione mista di scienziati e doveva difenderla da eventuali critiche ed attacchi che ognuno dei medici presenti poteva sollevare contro le sue affermazioni. Il 26 Giugno del 1812 Hahnemann presentò una tesi in latino dal titolo Dissertazione medico-storica sull’Elleborismo degli antichi. La tesi riguardava l’Elleboro bianco degli antichi, che Hahnemann dimostrò essere identico al Veratrum album del presente. Quella tesi fu un vero capolavoro di ricerca e di erudizione. I rimandi a molti autori classici erano tali da evidenziare il suo accurato studio di quegli scritti. Per compilare quella tesi egli lesse in lingua originale le opere di Avicenna, Galeno, Plinio, Oribasio, Erodoto, Ippocrate, Ctesia, Teofrasto l’eretico, Haller, Scaligero, Dioscoride, Murray, Pallade, Vicat, Lucrezio, Celsus, Samatius, Grassio, Muralto, Gesner, Bergius, Greding,
Unter, Lorry, Reiman, Scholzius, Benevenius, Rodder, Lentilius, Strabone, Stefano di Bisanzio, Rufo, Ezio di Amide, Rasarius, Archigene, Arateo di Cappadocioa, Plistonico, Diocleziano, Temisto, Celio Aureliano, Alessandro di Tralle, Paolo di Egina, Giovanni, Massario, Pie-
Pharmakon tro Belloni, Pzusanius, Rufo di Efeso e di molti altri. I riferimenti a questi autori e le loro citazioni dovevano aver richiesto ad Hahnemann un’attenta lettura di ogni loro scritto. Nella tesi in latino pubblicata in quell’occasione ci sono note in ogni pagina e i riferimenti sono molto circostanziati sia rispetto all’argomento che all’Autore. A pagina 594 entra nei particolari di Mesne: “Visse nel regno del califfo Al Rashid, intorno all’anno 800, un uomo di tale fama da essere definito l’evangelista dei medici”. Seleziona brani di tutti gli autori e rimanda all’opera e alla pagina degli scritti che trattano dell’Elleborus. Hahnemann corregge spesso errori degli antichi scritti esponendo accuratamente la natura di ogni errore. Così a pagina 603 scrive: “Plinio, tuttavia sbaglia quando afferma che Phocian Anticyra è un’isola perché essa si trova sul continente, a mezzo miglio dal porto. Pausania ne descrive la posizione”. A pagina 613 propone di reintegrare una parola nel testo di Sarrazin di Dioscoride, dicendo che ciò è confermato dalla versione in arabo di Avicenna. A pagina 615 troviamo: “Ezio sbaglia quando dice che Giovanni Actuario fu il primo a sostenere che Helleborus agisce senza difficoltà”. Per quella tesi deve aver esaminato con attenzione ogni pagina di quelle opere e aver quindi letto in ebraico, latino, arabo, italiano, francese, inglese e tedesco, lingue che conosceva alla perfezione. Inutile dire che nessuno degli astanti osò proferire parola o attaccare quella prodigiosa ricerca filologica. Egli stupì tutti gli ascoltatori ed il preside della facoltà si congratulò pubblicamente con lui. Ma oltre alla poderosa opera sull’elleborismo, Hahnemann sperimentò per primo sull’uomo sano gli
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effetti di Helleborus niger in microdosi. I primi risultati di quella sperimentazione lo portavano a scrivere nella sua Materia Medica Pura (1825): “I sintomi che io, e alcuni miei allievi, abbiamo osservato da questa radice, sono molto pochi; tuttavia costituiscono un inizio di indagine sul-
Pharmakon le sue proprietà. Essi servono a dimostrare che l’elleboro deve essere utile in una particolare forma di febbre, in alcune affezioni idropiche e nelle alterazioni mentali”. Successivamente ai pioneristici studi di Hahnemann altre sperimentazioni omeopatiche arricchirono la patogenesia del rimedio confermando le prime ipotesi di Hahnemann; ed ecco i sintomi che il grande J.T. Kent riporta nella Materia Medica: “In tutti i disturbi di questo medicamento si ha la stupefazione di grado più o meno marcato; qualche volta si tratta di uno stupore completo, qualche volta parziale, ma c’è sempre stupore e tardezza mentale e fisica. L’Helleborus è utile nelle affezioni del cervello, del midollo spinale e del sistema nervoso generale, ma specialmente nelle malattie infiammatorie acute del sistema nervoso centrale o nei disturbi che confinano con l’insania. Vi è una peculiare stupefazione che si spinge anche fino all’incoscienza. Dunque la sperimen-
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tazione omeopatica di Helleborus sull’uomo sano confermerebbe e spiegherebbe l’effetto positivo della pianta somministrata da Melampo per guarire l’insania delle donne Argolidi. Le specie di Helleborus L’elleboro più celebre, quello citato da Teofrasto e dai botanici più antichi, è l’elleboro nero che appartiene alla famiglia delle ranuncolacee; Helleborus niger di Linneo, chiamato in italiano rosa di Natale, erba nocca, fava di lupo, piè di diavolo, in tedesco detto Nieswurz (radice sternutatoria), in inglese Christmasrose, in francese rose de Noël. Vi sono circa una ventina di specie di ellebori e i fiori variano nel colore e possono essere rosso purpurei, bianchi o verdi. L’elleboro è una bellissima pianta, alta da 15-30 cm., con lunghe foglie lanceolate, lucide, e bellissimi fiori e cresce soltanto su terreni calcari, come sulle colline delle Prealpi e degli Appennini. Accanto all’Helleborus niger furono considerate sempre come dotate di virtù terapeutiche soprattutto l’Helleborus odorus. Tutte le specie di elleboro hanno un odore acre ed irritante. L’elleboro bianco (Veratrum album) che dagli autori antichi viene spesso confuso con l’elleboro nero, appartiene alla famiglia delle Liliacee, ed è diverso anche nell’aspetto dall’elleboro. È una pianta molto alta, talvolta raggiunge 150 cm., essa si identifica con
veratro bianco, veratrum album e col veratrum nigrum di Linneo e porta in italiano il nome di elleboro dei contadini o elabro nero e elabro bianco nelle due specie più diffuse. Il veratro bianco ha i fiori piccoli, internamente bianchi ed esternamente verdognoli; è una bella pianta molto velenosa, i fiori e le foglie provocano diarree e coliche e gli animali che ne mangiano ne muoiono. Identificate così le due piante che in realtà hanno in comune soltanto una certa analogia negli effetti, dobbiamo subito dire che gli antichi scrittori non erano esattamente informati e concordi sulle differenze essenziali fra di esse, e lo prova ad esempio la raffigurazione dell’Erbario Anglosassone del sec. X nel quale sotto il nome di Elleboro bianco è raffigurata la Scilla. Sappiamo che ancora nel ‘600 vi erano discussioni molto accese intorno a questo problema. Veratrum album Verso la metà dell’800 i chimici francesi Pelletier e Caventou sostennero per primi che il rizoma del veratrum album conteneva una base organica detta veratrina e designata per la prima volta con il termine di alcaloide. Dalla radice dell’elleboro bianco o Veratrum album si prepara una droga officinale cioè il rhizoma veratri o radix hellebori albi delle farmacopee germanica, austriaca ed elvetica: essa ha un sapore acre e amaro e contiene molti alcaloidi fra i quali la veratralbina (C28H34NO5), la veratroidina (C24H37NO7), e la protoveratrina (C32H37NO7), un glicoside amaro, la veratromarina e l’acido chelidonio. I principi attivi contenuti nel rizoma del veratrum sono classificabili come basi alcaloidiche a struttura steroidea con un nucleo principale riferibile alla struttura del ciclo-pentano-peridrofenantrene. A seconda della diversa collocazione dei gruppi funzionali gli alcaloidi del veratro possono essere classificati in tre principali gruppi di sostanze: 1) Alcammine libere: veratramina, rubiiervina, isorubiiervina, iervina, veralcamina; 2) Glucoalcaloidi: pseudoiervina e veratrosina; 3) Esteri: a) esteri della zigadenina: zigacina, angeloilzigadenina, veratroizigadenina; b) esteri della germina: germitetrina, neogermitrina, germerina, neogermbudina; c) esteri della protoverina: protoveratrina, protoveratrina A, protoveratrina B (neoprotoveratrina, veratetrina), desacetilprotoveratrina A, desacetilprotoveratrina B,
sul sistema nervoso centrale è molto più complessa e articolata in quanto già a dosi deboli produce una specie di neuroplegia con inibizione funzionale dei centri vegetativi, rallentamento delle funzioni nervose, ipotermia, ipotensione e inibizione generalizzata e progressiva fino alla narcosi
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escolerina. Esistono poi altri alcaloidi di struttura nota come: delta-Lattone dell’acido zigadelinico, geralbina, sinaina, veratrobasina, verina, rubiverina, alcammina A, alcammina IV, veratralbina, alcammina VI amorfa, veralbidina e numerosi altri componenti non alcaloidici. A riguardo dell’azione farmacologia, quando si menziona l’effetto veratrinico, si intende l’azione farmacologia dovuta alla veratrina che è costituita dalla miscela dei sopramenzionati alcaloidi. Queste sostanze hanno dimostrato di possedere diverse azioni farmacologiche sui vari sistemi ed apparati che qui non è possibile descrivere dettagliatamente. Per sommi capi possiamo dire che sul sistema cardiovascolare gli alcaloidi del veratro possiedono una complessa azione capace di determinare una vasodilatazione riflessa dovuta alla stimolazione di vari recettori situati in zone reflessogene cardioaortiche, coronariche, polmonari, senocarotidee causando una marcata ipotensione arteriosa. I suoi principi attivi agiscono sul tono vagale con un meccanismo di tipo digitalico, diminuiscono la pressione polmonare se questa è elevata, riducono la conducibilità cardiaca aumentandone la capacità al lavoro. Se viene superata anche di poco la dose terapeutica, possono però comparire disturbi della conduzione cardiaca con aumento della conducibilità e la creazione
di focolai ectopici che possono provocare fibrillazione ventricolare e blocco cardiaco. Un erroneo dosaggio del farmaco, anche se minimo, può inoltre causare depressione respiratoria (dovuta dalla stimolazione dei chemiorecettori del glomo carotideo) e nausea con vomito per stimolazione del ganglio nodoso del vago. Azione sui muscoli scheletrici: sulla muscolatura scheletrica i preparati di veratro provocano una atipica contrattura nella quale, mentre la contrazione del muscolo si compie normalmente, la decontrazione avviene invece in un tempo assai superiore a quello fisiologico con la possibilità di determinare sul muscolo sensibilizzato uno stato di contrattura tetanica. Questa manifestazione muscolare è nota come effetto veratrinico e si ritiene che l’azione diretta sul muscolo scheletrico dipenda da un alterato metabolismo cellulare del Ca++ e all’imperfetto trasporto ionico con una esagerata sensibilizzazione della fibra muscolare agli ioni K+. Azione locale cutanea: i preparati totali del veratro bianco, se applicati sulla cute o sulle mucose, prima eccitano i recettori sensoriali e poi li paralizzano, Sulla cute provocano rossore, bruciore e successivamente anestesia, mentre sulle mucose nasali, orali, oculari e respiratorie, causano forte irritazione e rispettivamente starnuti, salivazione, lacrimazione e tosse. L’azione
totale reversibile. Dosi tossiche possono provocare agitazione, inquietudine, disordini motori, tremore che può arrivare fino ad un quadro di convulsioni cloniche che può esitare nella morte. Preparazioni e dosi: ancora poco si sa sull’assorbimento e l’eliminazione dei principi attivi del veratro; per via orale sembra che l’assorbimento sia alquanto irregolare con una conseguente azione farmacologica incostante ed una difficile determinazione della dose terapeutica da somministrare che spesso è molto vicina alla dose tossica. Dopo l’assorbimento, i principi attivi verrebbero metabolizzati per la gran parte dal fegato ed escreti prevalentemente dall’intestino ed in minor quantità del rene. A causa della difficoltà di dosare gli estratti totali del veratro e in considerazione dei pericolosi effetti venefici che può produrre anche un lieve iperdosaggio, di questa pianta si è da tempo abbandonato l’uso in terapia. La polvere ricavata dalle radici provoca facilmente vomito e diarrea. Del resto le varie tinture ed estratti di veratro dei quali si conservano le formule, vengono ormai usati assai raramente; fra le preparazioni cosmetiche la tintura di veratro bianco era considerata efficace nella cura delle efelidi. Helleborus niger Nel rizoma e nelle foglie dell’elleboro nero si trova un composto glucosidico a nucleo ciclo-pentano-peridrofenantrene di nome elleborina (C37H56O8) dotato di intensa attività cardiocinetica e il glucoside elleboreina. I due glucosidi sono facilmente solubili in alcol e difficilmente nell’acqua. L’azione dell’elleborina e dell’elleboreina sul cuore è analoga a quella della digitale. L’elleborina eserciterebbe un’azione tonica sulla muscolatura del cuore e un’azione inibitrice sulla conduzione atrio-ventricolare con un meccanismo molto simile a quello della strofantina: molto rapido e senza accumulo. Nonostante la validità del principio attivo, l’attività complessiva
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dell’elleboro non è ancora del tutto chiara in quanto l’azione cardiocinetica è accompagnata da una marcata azione narcotica e da una intensa azione irritativa delle mucose dell’apparato digerente. Ricordiamo che l’elleborina è pur sempre una saponina appartenente al gruppo steroidico e perciò estremamente pericolosa. Le radici applicate sulla pelle provocano arrossamento e formazione di vesciche, per bocca vomito violento, diarrea e vertigini ed infine conducono a morte con fenomeni di paralisi generale. Una quantità di preparati tratti dall’elleboro nero sono elencati nel testo di Hager (Berlino, 1910): citiamo fra i molti una mixtura solvens di Berndt che contiene un grammo di estratto di elleboro su duecento di acqua di menta ed è consigliata nella cura della malaria, e una mistura antiipocondriaca di Reil (infuso di radice d’elleboro) che rammenta le antiche indicazioni dei greci.
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Più frequentemente usata sembra la droga in veterinaria: pillole contenenti elleboro sono consigliate come digestivo per i cani. Preparazioni e dosi: oltre ad una violenta azione starnutatoria, l’elleboro ha la capacità, se applicato fresco sulla cute, di provocare la comparsa di eritemi sierosi. Questi spiacevoli e indesiderati fenomeni provocati dalla pianta hanno determinato un lento abbandono del suo impiego e la sua scomparsa dalle terapie. Ma la farmacologia moderna e la “scienza del ponderale” sbagliano grandemente nell’attribuire all’elleboro soltanto proprietà emetiche e catartiche, così come sbagliarono tutti i medici del rinascimento che lo utilizzarono in modo scorretto, improprio e solo a dosi tossiche. L’antichissima conoscenza delle sue proprietà curative sui sintomi mentali era stata evidenziata da Hahnemann utilizzando piccolissime dosi infinitesimali e secondo la legge di si-
militudine. In altri termini Melampo già aveva capito che doveva utilizzare l’elleboro in forma estremamente diluita tanto da somministrarne la microdose che restava nel latte di una capra che si era nutrita della stessa pianta. Ma fu la genialità di Hahnemann a sperimentare entrambe le piante sull’uomo sano in dosi estremamente diluite e dinamizzate scoprendo tra le molteplici proprietà delle piante, anche tutti i sintomi mentali che queste piante provocano quando sono liberate dal loro potere tossico e quindi curano secondo la legge di similitudine. Chi volesse saperne di più può leggersi i sintomi mentali in una Materia Medica Omeopatica e troverà con stupore che tutte le antichissime proprietà degli ellebori sono state riconfermate da circa un secolo e mezzo mediante la sperimentazione pura sull’uomo sano. E il lettore resterà stupito di come la cura di certe forme di delirio, di paura, di
mania, di etilismo, di megalomania, di isteria, di ambizione, di egocentrismo, di orgoglio, di simulazione, e decine e decine di altri sintomi mentali possano trovare indicazione proprio in Veratrum album e in Helleborus niger! _______________ Bibliografia AA. VV.: Enciclopedia Medica Italiana, Vol. III parte I, pp. 438-441. Casa Editrice Dottor Francesco Vallardi, Milano 1884. ALBRECHT: Leben und Wirken, p. 30. ALPINO, P.: De Medicina Methodica, lib. II cap. 10, Padova 1611. ARETEO: De Curatione dinturnorum morborum, lib. I, cap. 5, e lib. II, cap. 13. AURELIANO, C.: Tardarum passionum, lib. I, cap. 4. BENEDICENTI: Malati Medici e Farmacisti, vol. I, cap. 4, pag. 209. BENIGNI, G. - CAPRA, C. - CATTORINI, P.E.: Piante Medicinali. Chimica Farmacologica e Terapia. Vol. II, pp. 1679-1756, Inverni & Della Beffa. Milano, 1964. BENIVIENI, A: De abditis nonnullis ac mirandis morborum et sanationum causis, Firenze 1502. BONET, T.: Polyaltes sive Thesaurus medico practicus. tom. I, pag. 680, 706, 826, Ginevra 1690. BRADFORD, T. L.: La nascita dell’Omeopatia. Vita e lettere di Samuel Hahnemann. pp. 116118. Perla Edizioni, Milano. CADRONCHI, B.: De Elleboro commentarius, Francoforte 1610.) CASTIGLIONI, A.: L’orto della Sanità. Librerie Italiane Riunite. Bologna, 1935. CASTELLO, P.: Epistola ad Joan. Manelphum et Actium Cletum, condiscipulos suos, in qua agitur de nomine hellebori simpliciter prolato, tum apud Hippocratem, tum alios auctores intelligendum album, et ab hoc purgatas a Melampode de Protei Regis Argivorum furentes filias, atque ab Anticyro sanatum Herculem insanientem - Roma 1622. CELSO, A. C.: De Medicina, lib. III, cap. 18 e 23. CLAUDINO, G. C.: De ingressu ad infirmos, lib. II, s. 2, Bologna 1612. DE BAILLON, G.: Consiliorum medicinalium liber tertius et postremus, cons. n. 49, Parigi 1649. DE RENZI: Storia della Medicina Italiana, vol. II, pag. 106. FALLOPIO, G.: De simplicibus medicamentis purgantibus, Venezia, 1566. FEDELISSIMI, G.: De medicamentis tam simplicibus, quan compositis catharticis. quae unicuique humori sunt propria, riportato dal De Renzi. FIORAVANTI, L.: De’ capricci medicinali, lib. II. cap. 18, Venezia 1568. FREIND, G.: Historia Medicinae, Venezia 1735.
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Cervello, Mente e Anima
La trasformazione come strumento evolutivo della mente Fabrizio Turrini
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ello studio applicato con metodo scientifico dell’universo e della vita, quello che sconcerta, il vero “Mistero”, è il perché con una serie di passaggi di trasformazione energetica via via sempre più complessi si sia ad un certo punto generata la “consapevolezza del sé” . Dagli studi sulla struttura dell’Universo tutto nascerebbe da una vibrazione energetica di una corda invisibile, chiamata “stringa” (teoria delle superstringhe) e quindi da più stringhe che vibrano diversamente originerebbe l’atomo. In un momento difficilmente definibile perché il tempo non era ancora nato, da un’organizzazione energetica densissima a bassissima entropia è avvenuto un “Big bang” che ha iniziato a disperdere una mole immensa di energia creando contemporaneamente lo spazio ed il tempo. La successiva organizzazione della materia ha formato stelle e pianeti ed isole sempre più complesse di organizzazione energetica. Molto tempo dopo (secondo il nostro modo di misurarlo) nasce la vita biologica: una primitiva separazione causata da uno strato sottilissimo di lipidi che si dispone a guisa di una membrana richiudendo una goccia d’acqua salina divide un ambiente esterno da uno interno. Si forma così la prima cellula. Un’aggregazione di cellule con il tempo si organizza in diverse funzioni utili formando un primitivo organismo pluricellulare. Piano piano la specializzazione porta allo sviluppo di esseri animati dotati di strutture nervose deputate all’organizzazione interna e poi anche ad interagire con l’esterno. Si imparano a programmare movimento, comportamenti e risposte a stimoli. Da una primitiva consapevolezza che non distingue la sensorialità come percezione propria, si giunge alla generazione neuronale di uno stato di coscienza che genera l’alterità del sé rispetto alla realtà percepita che viene avvertita come esterna, una proprietà comune solo ai primati e ad alcuni cetacei. Nell’universo privo della consapevolezza di esistere si è formato l’io, il senso del sé. Nell’uomo questa proprietà raggiunge il massimo vertice organizzativo e la massima autonomia e risulta essere un potenziale neuropsicologico culturalmente invariante comune a tutta la specie uma-
na e solo ad essa (Thomas Metzinger, Il tunnel dell’io, 2010). Questa ineffabile proprietà costituisce l’essenza di quello che di volta in volta è stato definito come “corpo sottile” o “eterico”, anima, spirito definito variamente nelle diverse culture
L’esperienza più bella e profonda che un uomo possa avere è il senso del mistero: è il principio sottostante alla religiosità così come a tutti i tentativi seri nella scienza Albert Einstein
Il corpo dell’uomo vuole cibo, la mente assiomi, l’anima estasi Elèmire Zolla come pneuma (greco), ruh (arabo), ruach (ebraico), prana (indiano). Il sé tra il mondo delle cose e quello degli dei La rappresentazione cerebrale degli stimoli sensoriali provenienti dall’intera-
zione con la realtà è vissuto dall’uomo come “realtà esterna”, mentre il costrutto cerebrale autonomo che riconosce un sé unitario collocato spazialmente e corporalmente viene distinto dalla realtà esterna ed avvertito come “io”. Fino dall’antichità il nascere di questa
Scienza capacità di definire il mondo come cosa diversa da sé ha accompagnato il nascere di un senso religioso che si è evoluto in maniera diversa a seconda delle culture e che ha accompagnato condizionandolo anche lo sviluppo funzionale ed organico del cervello umano. Capire perché questo nasce non è semplice, sono stati chiamati in causa la necessità di trovare spiegazioni a problemi insolubili (il perché di eventi naturali di cui non si conosce la causa), la necessità di superare la solitudine esistenziale, ma anche forse dalla necessità di contestualizzare la percezione di quel corpo sottile che sfugge alla vista comune, di far parte in qualche modo dell’universo. Tutte le religioni elaborano la spiritualità/corporeità in maniera diversa, riunendo le due proprietà nelle religioni animiste che attribuiscono un’anima a qualsiasi aspetto del creato, o distinguendo una dualità tra anima e corpo come ad esempio avviene nel mondo greco. Comune a tutti in ogni caso è la percezione della diversità di un mondo superiore fatto di solo “spirito” nel quale vivono gli dei, gli spiriti superiori, e che può essere accessibile agli uomini solo in casi particolari attraverso un “passaggio” che consenta di superare il confine. In molte religioni a questo stato superiore si accede solo dopo la morte che appare l’obiettivo escatologico dell’intera esistenza terrena. In molte altre il passaggio di trasformazione può avvenire anche durante la vita (esperienze sciamaniche) o anche può essere raggiunto attraverso un particolare percorso iniziatico di conoscenza (ad esempio nello gnosticismo). In alcune tradizioni questo stato superiore può non distaccarsi totalmente dalla realtà palpabile, ma può trattarsi di una forma diversa di percezione dell’universo. Sia nei riti di passaggio all’età adulta delle tradizioni tribali, sia nelle iniziazioni sciamaniche l’espe-
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rienza di morte e rinascita rappresenta un momento fondamentale di passaggio che porta da una condizione precedente ad un’altra dimensione dell’esistenza. Si tratta di sperimentare in forma metaforica un processo che porta alla dissoluzione della vita precedente, vivendo il distacco con lo stato superiore che verrà raggiunto con la trasformazione del sé. Questa trasformazione può essere innescata da un rito, ma anche da una malattia, o caratterizzata dal superamento di particolari prove (l’ascesa di una montagna, una pratica di digiuno, la separazione dalla comunità etc.), ed ha praticamente sempre in comune una “morte metaforica” e l’abbandono definitivo dello stato precedente. Nella morte dell’io l’individuo esperimenta ritualmente la dissoluzione del suo corpo, la frammentazione delle membra e la sua decomposizione, il ridiventare materia nell’universo. Nelle culture sciamaniche la “morte dell’io” rappresenta l’inizio del viaggio negli inferi ed è visualizzato simbolicamente con il sezionamento del corpo, l’estrazione delle viscere, il distaccarsi della carne. Attraverso questo viaggio simbolico il soggetto passa da una forma “egoica”, individualistica di coscienza ad una modalità di coscienza universale unitaria, “olistica”. Una volta avvenuto il “passaggio” nulla è come prima: lo sciamano avrà il potere di parlare con gli dei e non potrà più non ascoltarli; l’iniziato ad un grado
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superiore di conoscenza non potrà più prescinderne. La possibilità di realizzare spiritualmente questo passaggio risiede in una capacità del cervello umano molto particolare che non è solo astrazione di pensiero ma è quella capacità di rapimento dello spirito non razionale che viene comunemente definita come esperienza mistica. Dalla notte dei tempi il trasporto mistico fa parte della natura dell’uomo. La parola “mistica” deriva dal greco mysterion che significa “segreto” dal verbo myein che significa “tacere”. Non sembra un caso che termini come “mistero”, “misticismo”, e “silenzio” (anche nel
senso di impossibilità di parlarne) siano così etimologicamente vicini. L’estasi mistica viene spesso considerata come un processo di annullamento del sé, ed in parte questa interpretazione ha ragione d’essere considerando l’attività inibitrice degli stimoli sensoriali constatabile sperimentalmente tuttavia dalle dichiarazioni dei soggetti che la raggiungono essa sembra apportare un guadagno di sensibilità ed un eccezionale arricchimento spirituale. Assistiamo quindi ad un processo di isolamento sensoriale (annullamento del sé) che paradossalmente prelude ad un nuovo superiore contatto con la realtà che genera una crescita qualitativa del sé. Cervello e formazione del sè Del resto anche dal punto di vista neurobiologico la mistica fa parte dell’uomo. Sono stati riconosciuti particolari siti e strutture cerebrali deputati nell’uomo allo sviluppo delle esperienze mistiche e religiose con moderne tecniche di indagine che si avvalgono della risonanza magnetica e del pet (neuroimaging). Numerosi studi di neurofisiologia hanno chiarito i meccanismi di funzionamento dei particolari circuiti che intervengono nello sviluppo della sensibilità religiosa e nel misticismo. Essi sembrano collegati evolutivamente con la necessità di dare risposte a problemi per cui non è possibile trovare soluzioni immediate. Altri hanno collegato questa particolare sensibilità con il formarsi dei gruppi sociali, delle comunità infatti
sembra che faciliti l’aspetto relazionale poiché accentua il senso di comunanza con la specie e con il mondo. Dal punto di vista dello sviluppo della mente l’emergere della religiosità accompagna da vicino lo sviluppo del concetto del sé. Non è facile definire correttamente l’ipseità (il concetto del sé) che si applica non solo alla specie umana ma anche in misura diversa nelle altre specie animali (Jeffrey Kluger, Inside the minds of animals, Time-aug. 2010). Si tratta della risposta dell’evoluzione al bisogno di spiegare a se stessi le proprie azioni interne e quelle esterne predicendo il comportamento e monitorizzando le proprietà critiche del sistema (Thomas Metzinger, op. cit.). È interessante notare che negli animali lo sviluppo della coscienza è facilitato nelle specie che vivendo ed agendo in gruppo dispongono della possibilità di un maggior numero di stimoli relazionali. Negli umani tale rappresentazione pur essendo nata soltanto per rispondere efficacemente agli stimoli esterni, acquista nel suo sviluppo sempre più autonomia distinguendosi con un imperioso “io sono” dalla realtà . Inizia così la storia dell’uomo che osservandosi pensare afferma la propria esistenza (cogito ergo sum). A noi sembra di cogliere una profonda unitarietà in noi stessi ma in realtà non sembra che scientificamente sia proprio così poiché si tratta del lavoro di diverse abilità e meccanismi neuronali distinti. La costruzione dell’io” inoltre non è sempre accuratissima (ad esempio la consapevolezza di un movimento è in ritardo di quasi un secondo rispetto a quando il cervello lo decide realmente) ma è una novità che assume particolare sviluppo anche perché si fonda in gran parte sul linguaggio e sulla ricerca di cause e relazioni. Con il nascere del linguaggio infatti si amplia nell’uomo la capacità di interagire relazionalmente, ma anche di stabilire concetti idealizzati. Il linguaggio non può essere relegato solamente ad un insieme di segni, un sistema chiuso di parole ed infatti il cervello umano attraverso quel suo prodotto chiamato mente approfitta ampiamente delle sue potenzialità sperimentando modalità diverse di utilizzo. La parola non è quindi solo mera in-
dicazione semantica ma acquista quella valenza simbolica che sappiamo capace di aprire le porte di ciò che si cela al di là dell’apparenza. La metafora diventa il frutto potente del potere evocativo ed esoterico del linguaggio con il quale l’uomo esplora dimensioni trascendenti con la propria mente. “La spiritualità si esprime attraverso immagini metaforiche...” “La sapienza è racchiusa in un guscio di metafore”... (Elemire Zolla, Le potenze dell’anima, 2008) Che cosa rimane dell’anima Dalla coscienza dell’uomo primitivo dove tutto è unitario ed intrecciato, dove ogni oggetto ha un’anima, ogni gesto può nascondere un significato rituale ed il contatto con il divino è costan-
come nasce lo spirito religioso e mistico, ha smontato come un puzzle i vari pezzi di quello che ci sembrava un sé unitario, ma lascia al filosofo ed allo scienziato dello spirito il non facile compito di accompagnare l’uomo nella sua evoluzione futura. Si ferma all’osservazione
te, oggi, con la pretesa della scienza di scandagliare i più intimi meccanismi del cervello umano e osservare la formazione del pensiero scomponendolo in una serie di eventi molecolari ed elettrici, ci muoviamo nella direzione di un riduzionismo totale che lascia ben poco spazio alla metafisica. Il cervello sembra produrre con una delle sue funzioni la mente (mind) e pare che non ci sia più spazio per l’anima (soul) che non trova spiegazioni se non nei testi religiosi o filosofici. La neuroscienza, dopo aver squarciato il velo che nascondeva la mente, lo spirito, il soffio dell’anima, ha scoperto
questo rischia di ridursi a guardare l’homo sapiens soltanto come una macchina biologica che produce un “io” con una incerta natura del sé ed una questionabile capacità di libero arbitrio. Un materialismo così disincantato riduce l’uomo a meccanismo biologico, capace di produrre modelli coscienti del sé solo per meglio replicare i propri geni e ci lascia soli in questo universo sempre più freddo e vuoto (il raffreddamento e il diradarsi della materia sono fatti ormai acclarati nella fisica moderna). Una tale prospettiva non offre certo vie di uscita ad una società incerta ed appiattita che perde idealità e miti su cui riunirsi.
Scienza di quel che è ora, o forse ancora meglio di quel che è già avvenuto: l’osservazione scientifica è infatti sempre posteriore al fatto osservato. La ricerca ci fa conoscere approfonditamente i meccanismi della formazione del pensiero, delle emozioni, degli stati d’animo, delle pulsioni che ci agitano. Ma fermandosi a
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Un pericolo incombente insito in questo materialismo culturale privo di prospettiva evolutiva è che le persone cerchino la risposta ai propri problemi esistenziali nella farmacologia e nella tecnologia medica. Non solo con i farmaci già oggi a di-
Scienza sposizione (droghe più o meno sintetiche e nuovi farmaci della mente), ma anche con gli innesti cerebrali di cibertecnologia medica su cui oggi si lavora intensamente. Lasciando per il momento da parte le teorie sul futuro quali la “Singolarità” evocata da studiosi come Ray Kurzweil o le integrazioni biocibernetiche di I. A. connesse al cervello umano, per ora solo ipotesi, sono però già realtà in medicina i dispositivi dbs, inseriti profondamente nel cervello per la Stimolazione profonda con elettrodi utilizzata nel morbo di Parkinson e nell’ambito militare è ormai in fase di
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sperimentazione il casco darpa con tecnologia tms (stimoli attraverso la cute) per migliorare le capacità di combattimento. Non è fantascienza ipotizzare che nel prossimo futuro ci potrebbe essere la tentazione di andare alla ricerca di nuovi sviluppi della mente in ambito mistico-religioso attraverso le biotecnologie mediche. Da un contesto inizialmente sperimentale il passo è breve per la nascita di un mercato per nulla diverso da quello che oggi è per la chirurgia estetica nel quale potenziamento della mente e attitudini mistiche si possono acquistare nelle cliniche specializzate. I filosofi che seguono le neuroscienze tentano in questa prospettiva arida, dove non esiste più nulla da vedere dietro ai processi della neurofisiologia del cervello, di trovare un progetto per il futuro dell’uomo che sostenga una sorta di etica e di morale. Un compito quanto mai arduo, che pare estremamente fragile perché dopo tutta questa opera di spoliazione da ogni metafisica il futuro
sembra privo di idealità e prospettiva a lungo termine. La chiave di lettura che ci permette di recuperare una visione per il futuro è riuscire a guardare l’evoluzione non come frutto casuale di una improbabile possibilità, ma come un percorso non ancora compiuto nel quale è possibile riconoscere una direzione di sviluppo verso una maggiore complessità e nuove forme di esistenza caratterizzate da proprietà emergenti frutto di organizzazioni superiori e più ordinate dell’essere. Se è vero che il sé nasce come elaborazione puramente cerebrale utile evolutivamente e si manifesta con una aggregazione di funzioni neurologiche non proprio unitaria, possiamo fissare nella sua capacità di “volere” qualcosa di non biologicamente utile il momento dell’affrancamento dal legame con la pura biologia e dell’inizio della sua vera autonomia, del suo predominio sull’istinto. Se è vero com’è vero che abbiamo l’esperienza cosciente della volontà ogni volta che ci dedichiamo ad attività non connesse con la ricerca di cibo o la riproduzione, ma che hanno una rilevanza solo di idee, di pensiero, e che questa attività ha prodotto cultura, certo non sempre in forma pura, ma comunque con elementi alla fine dotati di forte autonomia come la filosofia o la musica, allora perché negare ad essa un primato da coltivare rispetto alla pura biologia, dalla quale non ci possiamo staccare ma che possiamo rispettare nel suo ambito prima di pensare a modellarla? Questo attributo che chiamiamo mente, nato forse soltanto perché utile dal punto di vista evolutivo, pur con difficoltà di crescita ed assemblaggio ha nel tempo acquisito, e probabilmente acquisirà ancora di più nel futuro, una autonomia speciale che lo eleva al di sopra di un semplice assemblaggio di abilità sensoriali e neuronali. Il pensiero, da prodotto di attività neuronale di risposta a stimoli esterni, diventa sempre più centrale ed indipendente da questi, fino ad acquisire nei casi più felici una completa autonomia da essi. La mente genera pensieri non correlati più alle necessità evolutive ma completamente autonomi ed autogenerati (qualcosa di molto vicino a questo si trova ad esempio nella elaborazione e nello
studio dei simboli). Come non convenire con il teologo Vito Mancuso quando dice: [...] “il punto decisivo quando si parla dell’uomo è la libertà, cioè il fatto che i nostri neuroni, in sé privi di libertà, al lavoro nell’insieme dell’organismo producono un fenomeno nuovo, diverso dai neuroni assommati uno per uno, un fenomeno qualitativamente altro, non contenuto nei neuroni in quanto tali: il fenomeno della coscienza e della libertà che ne promana [...] il concetto di sistema consente di comprendere come il tutto sia maggiore dell’insieme delle parti.” (Vito Mancuso, La vita autentica, 2009) Il recupero del valore spirituale della mente, lo sviluppo di una maggiore autonomia dello spirito, custode dei “valori umani”, può nutrire l’Umanità rendendola più forte e capace di rispondere alle sfide dell’evoluzione e della tecnologia. La Massoneria quale punta di diamante nella ricerca di perfezionamento personale e di miglioramento della società sulla base di valori etici condivisi ha un importante compito da svolgere di guida o almeno di contributo alla definizione di quale sarà il destino dell’uomo del futuro. Luigi Pruneti, Gran Maestro della Gran Loggia d’Italia ha avuto modo di dire recentemente che “la massoneria è in primo luogo alchimia dello spirito”. In questa frase si riassume la possibilità di trasformazione dell’uomo nel percorso massonico che, con un graduale e costante lavoro di crescita, può essere considerato una via particolare di conoscenza della mente e una strada per lo sviluppo del sé esercitando un’abilità cerebrale che trova riscontri scientifici e che rappresenta una proprietà emergente, forse non del tutto ancora compiuta, del cervello umano rispetto a quello animale. Nella speranza che l’uomo del futuro possa attraversare stabilmente quel “passaggio tra il mondo delle cose e quello degli dei“ che significa predominio dello spirito nella gerarchia tra mente e cervello ed affermazione dell’anima rispetto alla biologia. “Operai del perfezionamento morale, dobbiamo saper costruire con la nostra intelligenza la nostra anima e la nostra volontà, un edificio morale che sarà il Tempio…” (Oswald Wirth, La massoneria resa comprensibile ai suoi adepti, Atanor)
Scienza
Riferimenti : T. Metzinger, Il tunnel dell’io, 2010. F. Fabbro, Neuropsicologia della religione, 2010. A. Neuberg, E. D’Aquili, Dio nel cervello, 2003. V. Mancuso, La vita autentica, 2009. Dalai Lama, La coscienza dello spirito, 2003. L. Boella, Neuroetica - la morale prima della morale, 2008. R. Lomas, Il segreto dei massoni, 2009. AA.VV, Neuroscienze itinerario tra tecnologia, etica e diritto, Collegio Ghislieri Pavia, 2009. E. Zolla, Le potenze dell’anima, 2008. L. Bignami, Ecco l’elmetto con i sensori, www. repubblica.it/scienze/2010/09/10/news/elmetto-6940278/?ref=HREC2-5. J.Kluger, Inside the minds of animals, Time-aug. 2010. Y. Eudes, Alla conquista dell’eternità, Le Monde. Tradotto su L’Internazionale n.865/2010. Intervista al Sovrano Gran Commendatore
Gran Maestro della G.L.D.I. degli A.L.A.M. L. Pruneti giugno 2010 http://static.issuu.com/ webembed/viewers/style1/v1/IssuuViewer.sw f?mode=embed&layout=http%3A%2F%2Fsk in.issuu.com%2Fv%2Fnightmare%2Flayout. x m l& s h owF l ipB t n = t r u e & d o c u m e nt Id=100627204657-a832bf264bed42a5bb7e8d 3068155f51&docName=notizie_giugno_201 0&username=marketingfred&loadingInfoTe xt=NOTIZIE&et=1277675031097&er=89. O. Wirth, La massoneria resa comprensibile ai suoi adepti. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, 2007. P.100: Sciamano con serpente e tamburo, cultura Diquis, 1400 ca, oro, Costa Rica; p.101: Divinità, cultura Moche, ca. 100 a.C, ceramica; p.102: Kachina di Sciamano Hopi; p.102 in basso: Tamburo sciamanico rituale; p.103: Sciamano siberiano; p.104: Sciamano Hopi, XIX sec; p.105: Sciamano dell’Amazzonia equatoriale.
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Il sonno REM: la nostra nigredo quotidiana
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Barbara Nardacci
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a accanita lettrice di fantascienza, in giovane età subivo il fascino tetro dei “buchi neri”, oggetti celesti misteriosi e dell’incombente minaccia della loro potenza distruttrice nel silenzio dell’universo, oggetti capaci di risucchiare tutta l’energia che incontrano, compresa la luce, con l’incredibile forza gravitazionale della loro incalcolabile massa, fino addirittura a curvare lo spazio-tempo: quei corpi che mi veniva di immaginare come dischi di un nero più nero dell’assoluta assenza di colore, più nero della possibile descrizione del vuoto delle caverne dell’Inferno dantesco, più nero della rappresentazione della più grave depressione … dischi neri, incombenti, divoratori bulimici, che non lasciano speranza a ciò che incontrano e rendono impossibile il ritorno, il ricordo di ciò che era un attimo prima … la distruzione e l’assenza totale, al loro passaggio … Che sensazione strana ebbi molto più tardi quando iniziai a leggere riviste scientifiche nelle quali si affermava la presenza, intorno ai “buchi neri”, di un disco di accrescimento e soprattutto la loro emissione di energia termica ed un’energia diversa da quella “risucchiata”… i “buchi neri” sono caldi …. emettono energia nuova … Incredibile! Per anni avevo pensato a quei tremendi dischi avidi del mio calore, del mio pensiero, del mio “esserci”, come spietate idrovore spaziali capaci di creare il nulla. Fu ancor più grande, quindi, l’emozione nel sentire scienziati della meccanica quantistica asserire che il messaggio molecolare, per così dire, perso nell’enorme numero di particelle in moto caotico, comunque rimane. L’informazione non c’è più o meglio non è osservabile come la stessa di prima ma non è distrutta, nessun “bit” viene cancellato, è trasformato, diverso ma mantiene l’informazione, trasferita in foto-
ni e in particelle nuove.1 Scoprire questa caratteristica di quei personali Bau Bau della fase fantascientifica della mia infanzia mi scosse, mi ripropose, in modo nuovo, scevro di vissuti religiosi o educativi, l’idea esaltante che anche ciò che sembra ineluttabile e nella sua ineluttabilità angosciante, ciò che non lascia spazio a nessun dubbio ma elargisce solo una certezza, quella della paura motivata, quella dell’assenza di speranza , in realtà non ha valore così assoluto, potrebbe essere solo la rappresentazione o l’epifenomeno di ciò che era e non è più ma vorrebbe essere o sarebbe ma potrebbe
non essere … mi venne da “sentire”, più che da pensare, che, dopo tutto, l’eternità potrebbe esistere davvero, in chissà quale forma e mi accorsi di poter rivalutare, con trepidazione, tante esperienze in una visione diversa, nella quale riscoprire il valore esaltante del dubbio e della disgregazione. Fu rapida, allora, l’analogia con un altro Bau Bau, quello della mia infanzia iniziatica, l’ansiogeno sole, visto come cupo “buco nero” oscurato dall’eclissi senza fine, raffigurato nell’immergersi nelle acque statiche come in un sofferto suicidio dell’energia vitale, il sole nero sim1 Leonard Susskind, La guerra dei buchi neri
bolo della malinconia destruente … il sol niger della prima fase dell’Opus Magnum delle antiche pratiche della mutazione alchemica nascondeva, invece, silenzioso, la forza compressa del cambiamento, il calore dell’amore e l’energia prorompente di ogni possibile divenire ed il corag-
Anatomia della mente gio del proiettarsi, la motivazione eccitante di suturare la lesione di continuità fra essere e sapere di essere, fra materia e spirito. Mi risultò vivido il senso trascinante della trasmutazione, dell’ “embrione d’oro” e dell’inconscio umano come artefice del solve et coagula privato del senso di morte come termine dell’essere. Colsi così la concezione del Màrtanda, il sole nero come principio di illuminazione che dimora nell’oscurità nell’attesa di essere svelato … altro che sole a lutto! La nigredo è la fase apparentemente più attonita ma la più sofferta, la fase più nera del nero più nero ma rappresenta la naturale necessità di avere un pabulum dove coltivare il nuovo, dove il concime è ciò che di meglio è insito in noi inconsapevoli, selezionato e separato dall’inutile, dal dannoso, dal “grippante”. Dove trovare questo fertile terreno di coltura se non tra i resti in decomposizione e in putrefazione (quale è nell’accezione più pura del linguaggio alchemico il significato stesso di nigredo) delle emozioni, dei dubbi irrisolti, delle esperienze brutte e di quelle belle, di quelle fatte e di quelle ereditate, dei desideri non soddisfatti, delle paure … La stella nera di Saturno, in un apparente ma non casuale paradosso, dio della fertilità, simboleggia il caos e governa quindi la nigredo lo stato cupo dell’animo in fermento e in stato di abbandono al contempo, dell’umore luttuoso, tanto da definire saturnine le persone malinconiche. Il sole e la luna lo affianca-
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no, però, simboleggiando la sinergia del fuoco e dell’aria, essenziali per la decomposizione e le fasi successive dell’Opera, ed incoraggiano la trasformazione della morte a nuova vita: “la nostra terra nera è terra fertile”. Il Sole nero come simbolo di una fase misteriosa e corroborante dell’esistenza dell’uomo, inquietante certamente ma assolutamente necessaria non solo per il cambiamento ed il miglioramento ma per la sopravvivenza stessa dell’uomo come individuo e come specie. Esiste, infatti, a mio avviso, una nostra personale e quotidiana nigredo degli antichi alchimisti (da non associare a quella degli psicologi moderni che ha ben altro significato), un “processo alchemico” al quale noi tutti ci sottoponiamo per esigenze fisiologiche, pressochè ogni giorno, anzi del quale siamo gli artefici anche nostro malgrado … il momento nel quale per alcuni minuti il nostro sole si oscura, il nostro io si immerge in un mare sconosciuto e disgregante … il sogno, o meglio la fase REM del sonno. L’attuale stato dell’arte delle neuroscienze riguardo alle emozioni, ai vari stadi di coscienza e al sogno, non ribolle meno della cucurbita dei vecchi alchimisti. Certo è che l’esperienza onirica e l’esperienza cognitiva nello stato di veglia sono due vissuti qualitativamente diversi sia sul piano fenomenologico che neurofisiologico e l’aiuto dei sempre più sofisticati strumenti della neurologia, della neurochirurgia e del neuroimaging sti-
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molano la nostra curiosità verso la fisiologicità di quella capacità umana ritenuta da sempre la più misteriosa e la più romantica. Ormai va posto un approccio critico al valore del sogno postulato da Freud come allucinazione, generato da un desiderio non realizzato, attivato a protezione del sonno. Ben più complessa è la funzione organica non meno di quella non organica ad essa correlabile. Tutte le ricerche neurofisiologiche confermano che il sogno avviene durante la fase REM (o sonno desincronizzato) e che quello che viene definito sogno lucido¸ presente nella fase non-REM, ha caratteristiche del tutto diverse dal sogno: le immagini sono assenti, i pensieri sono iterativi e frammentari e si riferiscono quasi esclusivamente ad eventi recenti. Pertanto, anche durante il sonno non-REM, l’uomo continua a pensare, con un’espressività completamente diversa che nella fase REM. La fase REM è comparsa circa 130 milioni di anni fa e da allora si è conservata ed è evoluta nel tempo, come funzione esclusiva dei mammiferi. La conservazione di un processo cerebrale così complesso come la fase REM, nell’evoluzione, indica che tale processo è notevolmente importante per la sopravvivenza, così come l’omeostasi con i suoi complessi meccanismi. I meccanismi omeostatici permettono all’organismo di autoregolarsi ed essere autonomo rispetto all’ambiente esterno. Allora perché si assiste alla caduta di
questi meccanismi durante la fase REM? Sembra un paradosso della natura.2 Nello stato di veglia la coscienza è vigile, vi è autoconsapevolezza , attenzione e recettività agli stimoli esterni ed i meccanismi omeostatici sono perfettamente funzionanti. Nel sonno non-REM vi è la perdita della coscienza e della recettività agli stimoli esterni ma l’omeostasi rimane indenne. L’attività elettrica cerebrale è sincronizzata, il metabolismo dell’encefalo molto ridotto, come in uno stato di riposo. Nella fase REM tutto si anima, nonostante l’assenza di coscienza: il tracciato elettrico cerebrale si desincronizza in modo molto simile che nella veglia così come il metabolismo cerebrale stesso che si riattiva del tutto, anzi aumenta. Tuttavia persiste la paralisi del tono muscolare e si assiste allo “spegnimento” dei meccanismi omeostatici compreso il mantenimento della temperatura corporea! Perché l’uomo che sogna diventa cieco, sordo, paralizzato, privo di difese dalle insidie esterne di qualunque tipo, anche del freddo? Può questo evento fisiologico aiutarci a capire il bisogno dell’ uomo di sognare? Probabilmente lo stato di veglia e di sonno non-REM caratterizzano, nel divenire evoluzionistico, l’uno lo sta2 N. Lalli, A. Fionda, L’altra faccia della luna. Il mistero del sonno, Napoli, 1994 e N. Lalli, Manuale di Psichiatria e Psicoterapia (2a edizione con particolare riferimento ai capitoli 8- 9-37-55), Napoli, 2000
to attivo, dove vi è dispendio energetico e l’altro lo stato ricostituivo, per permettere il ripristino delle scorte energetiche, ovvero due fasi assolutamente necessarie per il mantenimento dei processi vitali… Chiaramente in entrambe gli stati, pur se antitetici, i parametri omeostatici sono rigidamente controllati. La fase REM si discosta drammaticamente da questo: sfugge a qualsiasi controllo o codificazione, si sgancia dall’omeostasi, dai meccanismi atti a mantenere una stabilità contrastando il cambiamento e quindi, pur rischiando di esporsi a pericoli esterni, compie un atto fisiologico eroico per ridare la libertà estrema al Sé psichico dell’uomo, per riacquisire quei dati di esperienze vissute ma ora nascoste nel mondo interiore,
Sé individuale. Pertanto, è da credere che il valore dell’uomo come essere cosciente e creativo, sia talmente grande che la “Natura” stessa, nel suo progetto evoluzionistico, lo voglia preservare e … che meraviglia scoprire come gli scienziati non stiano facendo altro che asserire la necessità dell’uomo di essere un processo alchemico continuo … Si potrebbe infatti paragonare la fase REM ad un momento di negazione apparente di vita, di “decomposizione”dei normali parametri di stabilità vitale, di disgregazione del Sè, che sottende però alla rinascita, alla riscoperta di un nuovo Sé, ad una vera e propria Nigredo neurofisiologica. Inoltre la simbologia del sole nero è ancora una volta calzante, poiché il fenomeno straordinario del sogno e dei suoi eventi corre-
per consentire alla mente di proiettarsi nel nuovo, nella creazione, nel cambiamento evolutivo del suo apparato psichico. Proprio questa situazione rende possibile e favorisce una maggiore recettività agli stimoli interni, cioè ai ricordi. Tutto questo avviene in una situazione di estrema protezione dagli stimoli esterni e con un massiccio dispendio energetico, testimonianza dell’estrema complessità ed importanza della fase REM, che, nella sua forma completa, inizia all’incirca all’età di 5 anni, quando ormai la valenza delle esperienze vissute e della creatività sono in relazione alla percezione del
lati, avviene al buio della consapevolezza del sogno stesso da parte di chi sogna. Le percezioni acquisite vengono processate interessando il nucleo genicolato e quello perigenicolato del talamo, per proiettarsi a livello della corteccia occipitale e delle aree associative della corteccia. Questo spiega due caratteristiche della fase onirica: la prevalenza delle immagini (corteccia occipitale visiva) e la conversione dello spazio interno in spazio esterno (aree associative). Questo è il motivo per cui il sogno viene vissuto come reale, poiché gli eventi del sogno sono localizzati in uno spazio interno che, essendo elimi-
nato quello esterno, viene a questi omologato. Notevole è perciò la particolarità dell’esperienza onirica: quel particolare linguaggio che, basandosi sullo spostamento, la condensazione, l’inibizione della vettorialità temporale, l’interdizione del principio di non contraddizione, ren-
Anatomia della mente dono il sogno metaforico e simbolico, comunque molto diverso dal pensiero della veglia3, oltre alla fondamentale funzione di memorizzazione dei dati importanti e dello scarto di quelli inutili, contribuendo con il coinvolgimento emotivo delle esperienze rivissute in questo modo del tutto peculiare, a spostare i ricordi a breve termine nella memoria a lungo termine: anche per il mantenimento delle
tracce mnesiche utili, la fase REM è fondamentale. Il linguaggio onirico ha una sintassi fatta di immagini, informazioni di rapida acquisizione che può dare adito a varie interpretazioni e significati, senza vincoli temporali, luoghi e persone possono cambiare improvvisamente, oppure essere sostituiti in combinazioni impossibili di frammenti assemblati senza alcuna razionalità. In sogno si può ignorare la forza di gravità oppure rendere la 3 N.Lalli.: L’inconscio nella psicoanalisi. La psicoanalisi dell’inconscio, Psicobiettivo, XV, n. 2, 1995.
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morte reversibile. Per molti antichi alchimisti, la Grande Opera avrebbe avuto successo una volta ottenuto uno stato fisico senza morte … come un uomo quando sogna: in quei momenti egli è eterno, il tempo, per il Sé, non esiste … in assenza di regole come la non con-
Anatomia della mente traddizione e quindi la compatibilità e la plausibilità di contemporaneità antitetiche, proprio come nella coincidentia oppositorum, già risultato augurabile per “l’Opera in nero”, le immagini possono modificarsi o fondersi l’una nell’altra, di palesarsi, così, come simboli senza dover necessariamente essere identificati nella loro natura specifica. Tale fase del sonno è detta “sonno paradosso”... si potrebbe allora definire anche... alchemico? Del resto porre attenzione a immagini
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REM emotivamente positive, ricordate al risveglio, si correla al miglioramento del tono dell’umore capaci di vivificarci al risveglio, anche inconsapevolmente, di darci quel senso di “voler fare” e di “voler essere nuovo e di nuovo”. Anche l’esperienza onirica angosciosa può regalarci, con effetto catartico, un senso di serenità... Come e perché accade questo nell’uomo? Molte sono le ipotesi sulla funzione del sonno. Oltre alle funzioni mnesiche, già menzionate, si contempla la possibilità che nel sonno sia attivato un feed-back metabolico cerebrale atto a compensare modificazioni fisiologiche occorse durante la veglia. Altre ipotesi sottolineano il ruolo del sonno nel favorire i fenomeni di neuro plasticità, svolgendo un’azione di rimodellamento e stabilizzazione delle sinapsi. Il sonno interviene quando l’attività dei neuroni inibitori ha rag-
giunto un livello talmente basso da permettere al Sistema Reticolare Attivante, ovvero il centro responsabile del ritmo sonno-veglia, di sganciarsi dal loro controllo. Se il passaggio di stato è attivato nel tronco cerebrale, è comunque mediato dalla conseguente partecipazione di neuroni praticamente in ogni parte del cervello. Questo spiega l’intensità delle emozioni oniriche come una conseguenza dell’attivazione di centri emotivi ubicati nell’area limbica e dei circuiti del troncoencefalo che sono responsabili delle reazioni di allarme, le così dette reazioni di fuga, che producono accelerazione del ritmo cardiaco e respiratorio presenti nell’attività REM. Come dimostrato dalla recente neuroradiologia funzionale, si verifica un’ intensificazione incredibile delle componenti centrali che mediano l’esperienza emotiva, lo stato di coscienza e l’attenzione, in particolar modo il giro del cingolo, della corteccia occipitale visiva (...REM, ovvero rapid eye movements!) e di quella parietale, indipendentemente dal contenuto di un particolare sogno, quando ricordato al risveglio. Tale processo, studiato neurofisiologicamente sul cervello di soggetti sani, sembra avvenire seguendo uno schema comune a tutti i sogni. Pertanto si assiste fisiologicamente ad un uomo non cosciente, “vigile” solo in un mondo tutto suo, che vive un’esperienza del tutto personale che al risveglio potrà ricordare ma solo allora la riconoscerà come sogno e non come realtà, solo allora ne prenderà coscienza e la valuterà cognitivamente. Nonostante i supporti scientifici, quindi, non possiamo ancora dare conto dell’esperienza soggettiva di un sogno e dell’assenza in esso di processi cognitivi. Il ricordo è l’unica informazione riguardante un sogno dal punto di vista soggettivo e se nessun sogno venisse ricordato, tutto quello che potremmo rilevare sarebbe la grafica strumentale e clinica del processo neurofisiologico del cervello durante il sonno paradosso, che non permetterebbe comunque di risalire al sogno in quanto esperienza personale. L’ambiente può modificare l’organizzazione funzionale e anatomica del cervello e l’osservazione della funzione dei meccanismi omeostatici nel corso del sonno paradosso, mostrerebbe una continuità ontogene-
tica tra i movimenti presenti nello stato onirico dell’adulto e quelli del feto in utero, espressione motoria di sinapsi preformate geneticamente nel corso dello sviluppo del Sistema nervoso centrale. E’ così che all’attività neuronale e l’organizzazione dei dendriti ai quali, da recenti studi, viene dato un ruolo fondamentale, può esser vista, come nota Jouvet, un “apprendimento filogenetico endogeno”4. La strutturazione neuronale del sogno, cioè, preservata come un archetipo endogeno fisiologico. Quanta importanza ha, ancora una volta, il sogno nell’evoluzione! Da ribadire che durante il sonno REM vengono create immagini in assenza di stimoli sensoriali esterni e senza che ci sia la conseguente risposta motoria. Tali immagini si distinguono sia da quelle altrettanto vivide della veglia, formate in seguito a un segnale proveniente dal mondo esterno, sia da quelle che sono frutto di fantasie diurne riconducibili, dal soggetto pensante, a carattere di falsità. Questa esperienza onirica sarebbe la conseguenza dell’attivazione dei circuiti neuronali di alto livello del sistema visivo sottoposti al medesimo tipo di segnale eccitatorio cui sono sottoposti durante lo stato di veglia e trattano il segnale ricevuto come se provenisse dal mondo esterno. Malgrado la strutturazione in schemi ben diversi da quella dell’esperienza di veglia, nel sogno neuronale la nostra corteccia vede come se fosse sveglia, ma non lo è! Se la mente (o meglio dire il cervello-mente come unica struttura complessa agente?) cosciente, non solo può riflettere ma è in grado di supporre di riflettere, in uno stato diverso da quello cosciente, essa perde tale complessità: durante un sogno si suppone implicitamente di assistere alla realtà, è assente sia il dubbio sia la consapevolezza di stare sognando. Il soggetto sa, quel sapere potrebbe essere simile ad un qualsiasi sapere implicito durante la veglia, finché non divenga oggetto della nostra attenzione, oggetto di riflessione. Questo è un punto fondamentale: specifico aspetto dell’esperienza onirica (soggettiva, dunque mentale) è l’impossibilità di riflessione ovvero di pensiero. Qualun4 M.Jouvet : La natura del sogno, Theoria, Roma, 1991.
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que ‘riflessione’ sul sogno appartiene alla veglia, non è contemporaneo bensì successivo all’esperienza del sognare. Si arriva pertanto ad un quesito interessante: perché l’uomo dimentica pressoché tutta l’attività onirica? O meglio perché non ricorda quasi tutta o tutta la produzione, come se il sogno agisse come un “buco nero” della coscienza? L’amnesia non è una caratteristica del sogno, ma è un aspetto della veglia, dello stato cosciente che ricorda solo in parte o per nulla o in maniera frammentaria. Essa è un momento di uno stato cosciente con un contenuto rappresentato da uno stato onirico preesistente. La scotomizzazione non può avvenire nel comparto dell’esperienza che si sta compiendo ma si riferisce a qualcosa che è accaduto o che si è immaginato, sognato, sperato ma solo nelle qualità riscon-
trate al risveglio. Hobson5 propone una risposta alla questione della dimenticanza, questione importante, davvero importante: Nel sogno la mente-cervello (brain-mind) segue le istruzioni: «Integra tutti i segnali ricevuti nella storia più sensata possibile; per quanto ridicolo possa essere il risultato, credici; e poi dimenticalo». L’istruzione «dimentica» si spiega nel modo più semplice come assenza dell’istruzione «ricorda». Si può osservare pertanto che i meccanismi omeostatici, nel sonno REM, crollano anche nelle funzioni superiori legate alla coscienza e alle emozioni e ci confortano nella correlazione attiva tra la neurofisiologia e la coscienza stessa, supportando, con l’emozione provocata dal turbamento della stabilità dello stato viscerale 5 J. Allan Hobson, 1987.
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suscitato a sua volta da un elemento cognitivo al risveglio, la teoria dell’inscindibilità funzionale tra mente e corpo, tra dimensione emotiva e anatomica come nota Damasio6, che nega, nei suoi saggi, la dicotomia tra emozione e ragione. Le emozioni sono elementi essenziali del sogno, quindi, e allora perché dimenticare? Perché desideri, motivazioni, paure, sono per lo più soffocate cognitivamente, lucidamente? Intanto risulta evidente che, a differenza di quanto assunto da Freud, i desideri, le paure, le aspirazioni, trovino espressione e magari diano anche forma alla trama del sogno, ma non sono in alcun modo il fattore causale dell’intero processo.7 Eppure, l’insieme di strategie attivate in questo processo, sembrano davvero poste in atto per salvaguardare proprio le emozioni. L’estinzione di una risposta, a livello delle circonvoluzioni prefrontali, non cancella i ricordi emotivi, ma ne impedisce solo l’espressione. Una risposta estinta (come la paura o il piacere) può essere recuperata anche dal tempo (nei soggetti anziani) o da un 6 A. Damasio, Emozione e coscienza, 1999 7 N Lalli.: L’inconscio nella psicoanalisi. La psicoanalisi dell’inconscio, Psicobiettivo, XV, n. 2, 1995.
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evento molto stressante. I ricordi inconsci di paura, stabiliti attraverso l’amigdala, ci accompagnano tutta la vita impressi indelebilmente. Allora, perchè i sogni non ricordati al risveglio non sono recuperabili? Perché un sistema di blindatura così inattaccabile? Che cosa deve dimenticare l’uomo che sogna, che senso ha essere immerso, come in uno stato di morte della coscienza, in un atanòr dal contenuto indescrivibile, per riaffacciarsi, ogni giorno, a nuova vita senza peraltro averne cognizione? E perché nelle persone creative è molto sviluppata la capacità di alternare tra processi primari inconsci, fatti di immagini concrete e associazioni libere, e processi secondari astratti, cognitivi e logici dai quali attingere per un’elaborazione inconscia, nella scoperta di nuove combinazioni , illuminazioni o ispirazioni, oggettivabili privilegi del genio e dell’artista8..? In queste persone, per di più, le fasi REM durano quasi sempre più a lungo e son ricche di sogni ricordati. Schopenhauer diceva che “un poeta è un uomo che nel corso della veglia è capace di fare ciò che il resto di noi fa 8 J P Weber, The psychology of art, New York, 1969
nel corso del sogno”. Son forse, questi, dei “neuro-alchimisti”, per così dire, in grado di intuire, come per un “ricordo lampadina”9 del contenuto onirico, l’albedo della Grande Opera e restituirla con la loro arte? Sono questi in grado più di altri di “sentire il desiderio” di tentare di riprodurre nella realtà cosciente un inconscio archetipo di perfezione? Per dirla con Oliverio10, “la nostra mente è plasmata dal desiderio... alla ricerca della felicità”. I rinforzi, i premi, le ricompense inizialmente e filogeneticamente sviluppano risposte del comparto motorio e successivamente (e non il contrario) sviluppando piacere, stimolano, nell’uomo cosciente, il desiderio di natura astratta, tanto che gran parte delle gratificazioni umane dipendono da rinforzi non concreti, legati a visioni spesso eccessive e complesse, a significati a volte mistificati, ad attese non definibili. Nel desiderio vi sono infatti aspetti irrazionali che rimandano al mondo inconscio e come sognare prende il posto dell’azione, forse desiderare prende il posto dell’oggetto desiderato e non apprez9 Joseph Le Doux, Il cervello emotivo, 1996 10 Alberto Oliverio, La vita nascosta del cervello, 2009
zabile nel conscio: desideriamo ciò che “sentiamo” desiderato o lo“sentiamo” desiderato perché lo desideriamo? Per Spinoza il desiderio è “l’essenza stessa dell’uomo”e l’amore e la speranza sono un aspetto del desiderio che, nella sua realizzazione, apporta serenità che è alla base della felicità. Il sogno potrebbe quindi avere la funzione di un’ auto stimolazione cerebrale gratificante come un sistema incentivante, come un creatore di motivazione.11 Il desiderio è uno stato esclusivamente umano di tensione che ne caratterizza l’esistenza, non semplicemente un bisogno o una pulsione... ma una tensione verso che cosa? Platone, nel Simposio, affermava che “il desiderio è legato al senso di vuoto” e allora non esisterebbe qualcosa da desiderare? Nel sogno creeremmo un desiderio del desiderio stesso per assenza di un oggetto desiderabile? L’elaborazione interna del sogno seguirebbe una logica motivazione di soddisfare bisogni secondari, di riempire il vuoto... perché allora non di desiderare qualcosa di fortemente desiderabile ma dimenticato nel conscio, poichè in realtà tale vuoto non esisterebbe? Mi chiedo allora: si sogna per desiderare? Qual è la prerogativa del sogno più
accattivante, più motivante? Forse l’assenza del dubbio? Forse la non necessità di effettuare delle scelte? Forse la reversibilità della morte in un senso onnipotente di immortalità, il segreto dell’infinito? L’uomo nel sogno è libero più che in qualsiasi altro momento della sua esistenza terrena, assolutamente e totalmente così come è al tempo stesso vulnerabile. Tale vulnerabilità non sarebbe solo “organica” nei confronti del mondo esterno ma anche “psichica” nei confronti del mondo interno o di quello che si possa cogliere in esso. Il mistero che si cela nel sogno, in questo prodigioso processo alchemico della natura umana, è forse così terribile come quello nascosto dalla” Porta del simbolo del vaso spezzato”12 che portò sul mondo tenebre profonde, spalancandosi all’imprudente pronuncia, da parte dei discepoli, della parola “infinito”... è questo che l’uomo non deve sapere ma solo intuire..? Aver colto inconsciamente l’infinito e dover tornare alla realtà avendone poi cognizione, lo annienterebbe... o forse la dimenticanza si renderebbe necessaria per salvaguardare l’uomo dal conoscere le sue enormi potenzialità e non rimanere paralizzato in un sovradosaggio di informazioni investite di contenu-
11 Lacan , Escrits seuil Paris, 1966
12 J. Boucher, La simbologia massonica 1948
ti emotivi insopportabilmente in eccesso? Fatto è che l’uomo sogna e questa sua peculiare attività viene protetta da milioni di anni, con meccanismi, per così dire, “contro natura”, tanto è necessaria alla sopravvivenza e all’evoluzione della sua specie... peculiare attività dell’uomo,
Anatomia della mente il quale, solo talune volte, grazie alla sua coscienza estesa, può ricordare (o rimpiangere?) ciò che ha visto quando era veramente libero... l’uomo veramente libero ritorna poi nella realtà, portando però nel suo animo un’altra sua peculiarità, che lo rende davvero unico... la capacità di sperare! La speranza come il sentimento prerogativa dell’animale chiamato Uomo, sentimento in grado di fornire alla sua specie la ragione stessa del suo progredire. Non potrebbe essere questo, il tesoro evoluzionistico, risultato di questa sorprendente alchimia della mente, da proteggere a tutti i costi? P.106: Sogno, B.Nardacci (collez. priv.); p.107: Rappresentazione di un ‘buco nero’; p.108: I tre colori e le tre fasi dell’Opera in un testo alchemico del XVII sec; p.109: Neuroni; p.110: Immagine dal Pretiosa Margarita Novella de Thesauro a Pretiosissimo Philosophorum Lapide di lanum Lacinium, 1546, Aldo Manuzio, Venezia; p.111: Rappresentazione del cervello e del corpo umano; p.112: Il sol niger durante una eclissi totale di sole; p.113: Chirurgia cranica.
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volare la comunicazione, la condivisione ed il confronto. Il percorso della Consulta, prima di raggiungere il Meeting successivo, prosegue con quattro riunioni di coordinamento nazionale a Roma, Torino, Senigallia e Firenze e con la realizzazione di contri-
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primi passi Nella primavera inoltrata del 2008, il Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro Luigi Pruneti convoca i giovani Liberi Muratori della Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi ed Accettati Muratori presso la Sede Nazionale per ascoltare la loro voce. Voce che trasmette proposte, domande, entusiasmo e profondo senso di appartenenza all’Istituzione. Da questa illuminata intuizione del Gran Maestro, sempre alla ricerca di nuove prospettive, di nuove opportunità di confronto e di nuovi percorsi per proiettare verso il futuro l’Obbedienza, nasce l’embrione di quella che sarebbe diventata in breve tempo la Consulta Giovani Massoni della Gran Loggia d’Italia. In occasione delle celebrazioni per il Centenario di fondazione della Gran Loggia d’Italia svoltesi ad Igea Marina nell’ottobre del 2008, viene offerta ai Giovani Massoni l’opportunità di proporre e confrontare le proprie idee per mezzo del I Meeting Nazionale sul coinvolgente tema “La ricerca del Graal all’alba del terzo millennio. Aspirazione alla spiritualità e alla via iniziatica nell’età della globalizzazione”. Il frutto di questa proficua condivisione riscuote un considere-
vole ed apprezzato riscontro, che fa germogliare la Consulta Giovani Massoni, veicolo per la circolazione delle idee e la condivisone delle esperienze. La Consulta avvia la propria attività sotto la guida del Gran Maestro, strutturandosi, definendo obiettivi e finalità, realizzando un sigillo distintivo ed iniziando a lavorare al Meeting successivo che avrebbe avuto luogo a Roma nel mese di giugno 2009. Il II Meeting Nazionale amplifica l’aspetto iniziatico del confronto collocandolo nel contesto sociale, proponendo il tema “L’ Ordine dei Liberi Muratori […] ha per fine il perfezionamento degli uomini ed il bene della Patria e dell’Umanità”. La proposta delle idee, derivante dal lavoro di Consulte locali (Regionali e Provinciali), ha permesso un’evoluzione della metodologia di dialogo, avviando il processo di strutturazione della Consulta per mezzo di coordinamenti decentrati volti ad age-
buti per la IX e la X Conferenza dell’Unione Massonica del Mediterraneo sui temi “Quale messaggio può portare la Libera Muratoria ai giovani dei Paesi del Mediterraneo” e “Vivere insieme: utopia o realtà?”. Ogni attività della Consulta è frutto di condivisione, con la profonda volontà di crescere insieme, vivendo i principi della Libera Muratoria ed offrendo il proprio contributo al cammino della Gran Loggia d’Italia. Il III Meeting, svoltosi a Bari nell’ottobre del 2010, ha ulteriormente ampliato le prospettive di ricerca e di introspezione, proponendo il tema del “Libero Muratore alla ricerca della felicità”. Così come il pensiero è in continua evoluzione, così la Consulta ed il suo percorso cambiano, interrogandosi continuamente sullo sconfinato universo umano, partendo dal passato e proiettandosi verso il futuro, transitando dal presente e vivendolo intensamente con l’ascolto, il dialogo ed un’incessante ricerca. La Consulta Giovani Massoni sta muovendo i suoi primi passi per mezzo dell’autorevole guida del Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro Luigi Pruneti e con l’intenso impegno dei giovani Liberi Muratori che lavorano alacremente con trascinante entusiasmo. Il futuro è un progetto straordinario da realizzare insieme, affinchè i principi massonici si diffondano ogni giorno di più all’interno ed all’esterno dell’Obbedienza. Obiettivi e finalità La Consulta dei Giovani Massoni della Gran Loggia d’Italia degli Antichi Li-
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beri Accettati Muratori è uno strumento di aggregazione per i Liberi Muratori dell’Obbedienza che siano giovani per età anagrafica, a prescindere dal grado iniziatico. La partecipazione alla Consulta, sia come membro che come coordinatore, è vincolata al limite di età di
Consulta G.M. quarant’anni, affinché non vengano snaturate le caratteristiche stesse del gruppo e gli scopi per i quali è stato creato. La Consulta ha un proprio sigillo distintivo ed agisce secondo i principi della Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori, che ne guida il cammino e ne ispira le iniziative. Nasce con l’obiettivo di creare un’opportunità di incontro tra giovani Liberi Muratori ed un veicolo per la circolazione delle idee e la condivisone delle esperienze. L’intento è quello di agevolare la nascita e l’evoluzione di relazioni umane, fondamenti essenziali che supportano e valorizzano il Lavoro Iniziatico. La Consulta, in virtù della giovane età dei partecipanti, offre l’opportunità di stimolare la formazione di nuove idee ed iniziative, rinnovare e mantenere vivo il senso di appartenenza, dare vita alla creazione di nuove sinergie capaci di guardare al futuro con entusiasmo e vivacità, aiutare i giovani Liberi Muratori a sviluppare e promuovere le personali capacità di confronto ed offrire una prospettiva in più per arricchire e sostenere quanto la Libera Muratoria ha realizzato fino ad ora. Offre inoltre l’opportunità di creare una continuità fra il percorso dei Fratelli che hanno una lunga appartenenza all’Obbedienza e quello dei giovani Fratelli, per condividere e valoriz-
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zare le esperienze, per non disperdere e dimenticare il valore storico delle radici, per raccogliere un’eredità, arricchirla ed offrirla come testimone a chi seguirà. La Consulta dei Giovani Massoni propone di promuovere la conoscenza e l’interazione prima di tutto tra fratelli dello stesso Oriente, al fine di offrire ulteriori occasioni di incontro, tuttavia auspica che nascano opportunità di incontro tra Fratelli di Orienti e Regioni Massoniche diverse ed anche tra Fratelli di Obbedienze e di Nazionalità diverse. Questo permette ai giovani Fratelli di sperimentare concretamente il significato dell’Universalità del messaggio massonico e dello spirito di fratellanza che accomuna i Liberi Muratori al di là dei confini geografici, sociali, culturali, religiosi e politici. La Libera Muratoria mette a disposizione un metodo che non è fine a se stesso, ma è un mezzo per produrre risultati nella società; con questo intento la Consulta si propone altresì di realizzare interventi solidali a seguito della definizione di un progetto condiviso con il Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro. La Consulta dei Giovani Massoni nasce esclusivamente come occasione d’incontro che si va ad aggiungere, mai a sovrapporre e tanto meno a sostituire, agli essenziali, basilari e irrinunciabili Lavori di Loggia. Offre un’opportunità ed una prospettiva in più. La Consulta è un ulteriore strumento di lavoro per i Liberi Muratori, al fine di arricchirne il percorso iniziatico e stimolarne lo spirito di collaborazione e di cooperazione. Al fine di agevolare l’attività della Consulta, è prevista una struttura organizzativa e gestionale che è a carattere Regionale. Nelle Regioni in cui la distanza o il
numero consistente di giovani lo rendano necessario, l’organizzazione può assumere carattere Provinciale. La struttura organizzativa è semplicemente funzionale alla gestione della Consulta e dal momento che la Consulta dei Giovani Massoni nasce come strumento collaterale di sostegno alla Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori, per evitare di fraintenderne gli obiettivi non necessita di una collocazione istituzionalizzata, così come gli eventuali incarichi che sono affidati ai fratelli per soli scopi organizzativi non prevedono cariche ufficiali e rituali collocate nell’ambito della Piramide Iniziatica. Le figure di coordinamento sono il Coordinatore nazionale ed il Coordinatore nazionale aggiunto, i Coordinatori Regionali ed i Vice Coordinatori Regionali, i Coordinatori Provinciali ed i Vice Coordinatori. La partecipazione agli incontri dei gruppi locali è libera per tutti i Fratelli indipendentemente dal grado, purché vi sia il requisito dell’età e purché sia stato informato il proprio Maestro Venerabile. La proposta I Giovani della Gran Loggia d’Italia suggeriscono un pensiero che è il distillato delle emozioni di giovani Iniziati, è la proposta di un dialogo diretto fra persone ed in modo particolare un dialogo fra giovani, per accrescere la comunicazione, offrendo una prospettiva in più per arricchire e sostenere quanto la Libera Muratoria ha realizzato fino ad ora. Il Libero Muratore, in seno all’Istituzione Iniziatica a cui liberamente ha accettato di far parte, acquisisce, giorno dopo giorno, un metodo basato sull’ascolto, lo studio, l’approfondimento, l’introspezione, la condivisione, il dialogo ed il rispetto. Apprende, riscopre o consolida princìpi che amplificano la consapevolezza della necessità di affermare i valori di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza, generati dall’Amore e dalla Tolleranza. Il cammino senza sosta, in continua evoluzione, apre nuovi orizzonti e propone nuovi punti di vista, ma più di tutto evidenzia la necessità di offrire ad ogni individuo l’opportunità di essere libero nel rispetto della libertà altrui, degno di affrontare il proprio percorso, per essere un fraterno compagno di viaggio con gli esseri umani che incontrerà lungo il
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cammino della propria esistenza. Tutto questo non è realizzabile se non con un incessante lavoro su se stessi, praticando la tolleranza, che è frutto di reciproco rispetto e non di mera sopportazione, amando incondizionatamente con la consapevolezza che i dubbi degli altri sono i nostri dubbi, che i limiti degli altri sono i nostri limiti, che le debolezze degli altri sono le nostre debolezze. L’esperienza personale si trasmuta in un opera di condivisione, la crescita e l’evoluzione si realizzano per mezzo del dialogo e del confronto. L’apprendimento e la Conoscenza si attuano per mezzo dell’apertura della mente e del cuore verso il mondo che ci circonda e di cui facciamo parte, verso gli esseri umani che incrociamo sul nostro cammino o con cui condividiamo una parte della nostra via. È in questo momento che quanto abbiamo conosciuto, appreso e maturato assume un significato: manifestare e condividere le proprie esperienze con quelle altrui, per accrescerle ed offrirle come dono. La scuola istruisce, l’esperienza realizza. All’apprendimento segue l’esperienza, che è essa stessa nuovo apprendimento. Quanto si acquisisce deve essere valorizzato ed offerto, concretizzando una ricchezza comune che aumenta, espandendosi. Alla teoria deve seguire la pratica, alla nozione deve seguire l’azione, alla conoscenza deve seguire la manifestazione. È nell’azione del massone che si attua il messaggio della Libera Muratoria: ri-
spetto, ascolto, dialogo, condivisione, solidarietà. Gli strumenti acquisiti si devono manifestare, trasmettendo valori, princìpi e tradizioni immanenti, sempre attuali ed insiti nella natura umana che vanno oltre il tempo ed i confini. I Giovani Massoni della Gran Loggia d’Italia offrono il contributo per portare un messaggio, proponendo i princìpi massonici vivendoli, attuando con umiltà e determinazione quanto apprendono, quanto hanno ricevuto come insegnamento, quanto ancora ci sarà da apprendere e quanto verrà insegnato. I Giovani Massoni sono consapevoli che l’unica via per costruire è unire le forze e non contrapporle, hanno coscienza che il mezzo che può traghettare verso il futuro è quello di trarre insegnamenti da ciascuna cultura, basandosi sulla reciproca conoscenza e sul mutuo rispetto. Le costruzioni necessitano di pietre di forme differenti per poter essere architettonicamente affascinanti ed al contempo di pietre fortemente legate per essere strutturalmente salde. I Giovani Massoni propongono il metodo massonico basato sul dialogo, la condivisione ed il rispetto come mezzo per costruire insieme un futuro comune che deve appartenere a tutti, perché appartiene a tutti. Offrono all’Umanità ed ai giovani in particolare il desiderio di ascolto per conoscersi e la personale esperienza per avvicinarsi, al fine di realizzare insieme un cammino condiviso basato sull’incontro e non sullo scontro
che contrappone la tolleranza al fanatismo, che contrappone l’amore all’odio. I massoni hanno il dovere di uscire dai Templi per manifestare nella vita pubblica e sociale gli ideali della Libera Muratoria, per dimostrare che solo un cammino di condivisione e di confronto può consentire all’Umanità di progredire verso una nuova alba fondata sul rispetto e sulla solidarietà. Hanno il dovere di riconquistare quel ruolo che compete alla Massoneria stessa e per cui la Massoneria esiste, quel ruolo che talvolta le è stato negato e che talaltra non ha avuto il coraggio di interpretare. I giovani liberi muratori desiderano contribuire “vivendo” nella società e portando il processo osmotico della trasmissione dei valori massonici all’interno della società. Allo stesso tempo, offrono alla Massoneria la freschezza, l’impegno e l’assenza di pregiudizio tipici dei giovani. “L’Ordine dei Liberi Muratori appartiene alla classe degli Ordini Cavallereschi” e nessun cavaliere, degno di questo nome, mai rifiuterà di dare l’ultimo suo mantello al povero che glielo chiede, sempre difenderà ciò in cui crede e con costanza lavorerà senza chiedere nulla in cambio, se non il sorriso dell’altro. Senza mai perdere la speranza, agirà affinché si possa creare un processo di rinnovamento, con la certezza che, per quanto difficile a credere, il crepuscolo ha già in sé l’alba. P.114: Spada con simboli massonici; p.115: Logo della Consulta e... Gufo massonico! p.116 e 117: Attrezzi massonici.
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abent sua fata verba» potremmo dire parafrasando il det to famoso. E li hanno anche nella vicenda massonica, nel cui àm bito taluni termini caratterizzanti (libertà, solidarietà, diritto...) tornano con diversa insistenza e varia valenza nel corso dei secoli e secondo i Paesi e le specificità culturali «locali». Così, se non il concetto, certo il termine di «fratellanza» è stato spesso, anche in Italia, surrogato con quello di «fraternità», e non solo per l’assonanza con la «libertà» del trinomio attribuito all’Ottantanove ma soprattutto quale preambolo alla «uguaglianza» sulla quale molti massoni, specialmente fra Otto e Novecento, concentrarono i loro sforzi, quasi identificandovi l’origine e, ancor piú, i destini dell’Ordine. E’ comunque significativo che tale parola-guida sia divenuta emblematica per la Massoneria di molti Paesi proprio mentre l’Europa andava compiendo un’unificazione politica del globo, poi variamente giudicata (spesso con eccessiva ingenerosità) e dalla quale sarebbe nondimeno scaturita quella unificazione della scienza, delle arti, dei principi civili, onde alle culture della divisione (le religioni arcaiche, dogmaticamente costituite e necessariamente arroccate a difesa, con precetti e condanne) subentrò un umanesimo insofferente di barriere spazio-temporali proprio perché fondato sul postulato e sulla pratica della tolleranza. Dobbiamo interrogarci sulle ragioni che, demolita la Loggia «Fratellanza», sorta nel 1860 all’Oriente di Mondovì: una tra le piú antiche della nuova Italia dunque, condussero a una sorta d’eclissi del termine quale nome distintivo per le Officine della penisola. Manca uno studio sistematico sui nomi di Loggia (né in Italia si dà il caso di nomi simbolici da parte degli iniziati: che si vanno invece rivelando di grande interesse per
si sottrasse con l’autoscioglimento del novembre 1925, troviamo una Fraternitas a Roma e una Libertà e Fratellanza ad Alessandria della Rocca, in provincia di Girgenti: meno dell’1% sulle oltre tre-
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meglio comprendere la cultura massonica d’altri Paesi, come ha documentato Françoise Randouyer a proposito della Spagna). Constatiamo, intanto, che dodici anni dopo la rinascita massonica nell’Italia unita, le Offi cine all’obbedienza del Grande Oriente traevano nome da principi tradizionali (Speranza, Unione, Rigenerazione, Ragione...), da concetti di piú recente affermazione, soprattutto in connessione con le vicende italiane (Unità-Libertà, Era d’Italia, Stella d’I talia, Progresso...) o da massoni celebri, da celebri non massoni e persino da personaggi mitologici (Giambattista Vico, Masaniello, Ettore Fieramosca, Egèria...), oltre, naturalmente, alle Garibaldi, Cavour e simili. L’orientamento non mutò radicalmente nei decenni seguenti se, a fine Ottocento, tra i 172 nomi di Logge censite dal Grande Oriente ritroviamo Indipendenza, Patria e Lavoro, La Pace, Libertas, La Verità, La Costanza, Humanitas, Umanesimo, Amicizia (a Capo di Buona Speranza), ma rinveniamo solo una ottimistica Fratellanza Universale all’Oriente di Pisa e una beneaugurante Fratellanza e Progresso a Cingoli (Macerata): entrambe di non lunga vita, peraltro. Un quarto di secolo dopo, ormai alla vigilia dell’offensiva cui Istituzione
cento a quell’epoca all’obbedienza del Grande Oriente di Italia (*). Tanto piú intensamente — va rilevato — ricorreva invece il lotto della «fratellanza» sotto altri cieli: a cominciare dalla Francia che annoverava la Tolérance et Fraternité di Belfort (1861), una Fraternité des Peuples (1833) e infine la Fraternité Tonkinoise, che affermava ad Hanoi (1886) un postulato di cui quella terra sarebbe poi stata avara. Sarebbe tuttavia avventato dedurre dalla sola frequenza delle insegne la persistenza della sostanza. Dobbiamo anzi ricordare che negli Statuti Generali dell’Ordine massonico per Italia e le sue Colonie, pubblicati a Firenze nel 1867, a cura dell’apposita Commissione animata dal fr. Gran Maestro Aggiunto Ludovico Frapolli, ricorre una non equivoca ispirazione al principio della fratellanza: che, massonicamente, parlando, è tanto piú della Fraternità, essendo non mera enunciazione d’un concetto, ma
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sinonimo della Comunione stessa. «I dolori dell’Umanità — vi si legge — ricadono sull’Universo intero, siccome quelli dell’individuo sono piaga per l’intero corpo sociale. L’individuo deve migliorare se stesso perché l’Umanità intera ne sia perfezionata e si conformi alle leggi della sua esistenza...). La Massoneria non è un’associazione segreta, né parziale (...) immagine dell’Umanità: suddivisa in Logge o famiglie, si riunisce in Gruppi Nazionali, si estende a tutto il Genere Umano (...). La Massoneria è scuola di Famiglia, è legame di Nazione, è patto di Fratellanza umanitaria, è baluardo conservatore della Scienza, del Libero Lavoro, della Fratellanza e della Solidarietà di tutti gli uomini». V’insisteva anche l’Almanacco del Libero Muratore, anno I (pubblicato dalla Loggia La Cisalpina di Milano nel 1872), ov’era tradotto il celeberrimo dialogo fra Ernst e Falk di Lessing. All’indomani della guerra franco-prussiana, prodromo di conflitti tuttora insuperati, e proprio nelle pagine di un autore tedesco i massoni potevano leggere: «Gli Stati riuniscono gli uomini affinché ogni singolo possa godere, per mezzo di questi e nella loro riunione, meglio e piú sicuramente la sua parte di felicità. Il totale delle sin gole felicità di tutti i membri è la felicità dello Stato. All’infuori di questa non ve
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n’ha altra. Ogni altra felicità dello Stato per la quale anche il piú piccolo numero di individui soffra o debba soffrire, è maschera di tirannia e nient’altro»; e intendere il canto da Lessing sciolto in elogio della fratellanza, «senza differenza di patria, di religione e di stato sociale». Va ricordato che siffatti intendimenti non erano vuota retorica per la Massoneria italiana, i cui Templi avevano veduto transitare Fratelli d’Ungheria, Romania, Impero Turco; alla quale s’ascrissero tanti notabili del vicino Oriente e che, nel 1867, prese l’iniziativa d’instaurare il Grande Oriente di Grecia. Si trattava, del resto, d’una sovrannazionalità del tutto ripagata con la moltiplicazione di Logge all’obbedienza del Grande Oriente d’Italia lungo la penisola balcanica, dalla Turchia a Egitto, Libia, Marocco, Africa australe, Americhe... Il principio della fratellanza non era dunque solo (parcamente) proclamato nei nomi distintivi di Officine, né solo reiterato nei discorsi d’iniziazione, inaugurazione di templi o celebrazioni annuali, copiosamente riprodotti nella Rivista della Massoneria Italiana, miniera tuttora quasi inesplorata: volutamente, crediamo, da parte di certa storiografia di tendenza che, eludendo le catene dei monti, è andata in cerca d’altre labili tracce sulle piú piatte dune. Lo rinvenia-
mo, per esempio, nelle parole semestrali di passo dettate dal Grande Oriente e nei convegni di studio promossi da forze massoniche dall’inizio degli anni Ottanta. La peculiarità del «caso italiano» era data dall’ambizione di riconquista della società e, piú oltre, del potere politico e dello Stato eccitante le falangi cattoliche: ecclesiastiche e laicali. Da parte della Massoneria si trattava di mostrare nei fatti la superiorità della solidarietà — ovvero dell’assistenza, in termini d’amministrazione pubblica — rispetto al pietismo caritativo tendente a lasciare immodificati i rapporti sociali e, quindi, a perpetuare ignoranza, miseria, malattie in nome d’una concezione sacrificale della esistenza quale espiazione d’oscure colpe collettive. Per quanto oggi possa parere strano, la dirigenza politico-parlamentare impiegò anni a prendere atto che l’Italia non era affatto il celebrato «giardino d’Europa» bensì una penisola solo per un 20% coltivabile coi mezzi del tempo, afflitta da un 70% d’analfabeti, alle prese con spaventose condizioni d’arretratezza civile, in molte plaghe del Nord non meno che lungo la dorsale appenninica e in vasti strati della popolazione: e non solo di quella meridionale. Negli anni delle battaglie risorgimentali la dirigenza fermamente uni-
taria era stata troppo impegnata sulla trincea della diplomazia internazionale e delle guerre per cogliere sino in fondo i termini della realtà con la quale avreb be poi dovuto misurarsi. E bene si comprende che sia bastato un lustro di presenza a Roma per fare risultare sbiadite le ragioni della contrapposizione fra Destra e Sinistra e sorgere un’intesa prag matica tra i Depretis e i Correnti, i Coppino e i Sella, gli Zanardelli e i Luzzatti, accomunati dall’urgenza di fronteggiare i contraccolpi d’un sottosviluppo che rischiava di addebitare al nuovo ordine e secolari inadempienze dei regimi precedenti. Le invettive contro mugnai ed esattori delle imposte non s’erano forse mescolate a grido «Viva Maria!» nei moti del macinato qui e là sobillati dal clero nel 1869? Se ne avvertì un segno con la canonizzazione (8XII-1983) di Giuseppe Benedetto Labre, il pio mendicante sdegnoso d’ogni cura della persona, riproposto a modello per fedeli sulla fine del secolo delle crinoline. Che la pietas volgesse a promettere scampo, profilando all’orizzonte agghiaccianti terrori, affiora altresì dal modulo attraverso il quale ne fu presentata la Madonna di Pompei, soccorrente l’umanità sull’orlo della catastrofe: per iniziativa del già massone Bartolo Longo. Non sorprende che per lungo tempo il termine fratellanza abbia pertanto assunto un significato preminentemente politico anche all’interno della Massoneria e nei suoi dipressi. Era, del resto, una tra le parole chiave del pensiero e della propaganda di Giuseppe Mazzini. Lo ricordava il Genovese proprio allorché, declinando l’offerta della Gran Maestranza da parte del Supremo Consiglio di Palermo, incoraggiò Federico Cam-
panella ad assumere il prestigioso e oneroso Supremo Maglietto. E fratellanza era altresì parola-guida pel Garibaldi che il 21 settembre 1867 sormontò le estenuanti beghe tra i diversi litigiosi corpi che andavano lacerando la Famiglia Italiana e protestò: «lo dichiaro di appartenere ad una sola Massoneria umanitaria, rappresentata dal Grande Oriente, eletto il giugno prossimo passato in Napoli, residente in Firenze (mentre non abbiamo Roma), che vuole, in vista dello spirito universale della Massoneria, la fratellanza dei popoli e non le autonomie, le quali sono un regresso, massime nelle aspirazioni italiane» e tornò ad insister-
vi sino all’appello a una Unità Mondiale animata dall’Internazionale cui — spiegò nel 1871 a Giorgio Pallavicino Trivulzio — egli aveva dato nome e opere tanti anni prima che sorgesse quella «marxista» del 1864. Dalla sintesi di quegl’intendimenti nacque il Patto di Fratellanza, di cui Bruno Di Porto ha ricostruito fedelmente la storia. I suoi militanti — d’anno in anno volti a creare leghe, associazioni, circoli, società di mutuo soccorso e altrettanti sodalizi sempre impegnati sul pragmatico versante delle iniziative educative e sociali — erano accomunati da un lin-
guaggio, da talune parole chiave, all’interno d’un disegno che riteniamo debba essere sintetizzato quale «pedagogia politica» giacché mirava all’affermazione d’una cultura a misura dei tempi. Ma quali ne erano i tratti distintivi? Essi non vanno cercati nel pulviscolo delle
Massoneria realizzazioni pratiche, nella miriade di enti, istituti, organismi via via creati per accorpare a livelli sempre piú organici le energie individuali, senza peraltro espropriarle delle loro caratteristiche peculiari, bensì nel rispetto delle individualità. Né van reperiti nelle insegne che volta a volta quella classe politica alzò per chiamare a raccolta le sempre discordi anime della demo crazia italiana. Al riguardo soccorre ancora Garibaldi col veemente appello del 26 aprile 1879: non manifesto dottrinario, ma elogio del pluralismo, giacché «ogni scuola serba la individualità propria nello svolgimento e nella propaganda delle rispettive dottrine, e ad ognuna appartiene l’arbitrio delle inerenti iniziative, ma ognuna altresì ne risponde». Tale programma — enunciato dal Gran Maestro onorario ad vitam — a ben vedere suonava anche quale allusiva giustificazione della pluralità dei riti all’interno d’un solo Ordine: vexata quaestio che trovava il Nizzardo particolarmente attento, giacché, avviata la unificazione fra i corpi scozzesisti in un solo Supremo Consiglio, per sua stessa iniziativa riprendeva a lumeggiare quel Rito di Menphis e Misraim, le cui implicanze democratiche internazionali sono state recentemente documentate da André Combes. Se davvero intendeva costituire la alternativa alla reazione clericale
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che, malgrado certa postuma accattivante apologetica, pur costituiva il nerbo della chiesa dinanzi al «mondo moderno», i massoni non potevano certo appagarsi del mutuo scambio di dotte tavole iniziatiche. Altro premeva nei cosiddetti «paesi latini»: dal Portogallo, ove l’Ordine era perseguitato, alla Spagna, poc’anzi uscita da un regime clerico-reazionario rabbiosamente antimassonico, alla Francia, che conosceva gli entusiasmi del Sacré Coeur, alla Germania, che vedeva manipolare il kulturkampf quale instrumentum regni, a tutto vantaggio
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d’una concezione arcaica della società e del potere, come bene si sarebbe veduto dopo il declino del principe di Bismarck. In Italia il problema aveva infine un volto preciso: adeguamento delle istituzioni ai bisogni d’una società sempre sull’orlo del collasso a causa del pauperismo perdurante. Sull’inizio dell’ultimo decennio del secolo la sfida da parte di forze dichiaratamente antirisorgimentali divenne palese. Da un canto Leone XIII incitò le falangi cattoliche alla riconquista della società. La Rerum novarum, del resto,
non fece che offrire un catechismo alla massiccia e collaudata rete delle Opere dei Congressi Cattolici, alla «democrazia cristiana» (già militante sul piano elettorale, sia pur nei circoscritti confini delle amministrazioni locali perdurando, apparentemente, il margottiamo «né eletti né elettori» alle votazioni politiche) e di un giornalismo ispirato al concetto secondo il quale il fine giustifica i mezzi, come bene si vide nella squallida farsa imbastita dal clero in oggettiva combutta con Léo Taxil. Dall’altro, la fondazione del partito dei lavoratori italiani (poi PSI) impose alle diverse tendenze della democrazia di «definirsi o sparire»: e ne presero atto i repubblicani, dal 1895 organizzati in partito; i radicali, rimasti a contarsi su un’altra sponda; gli anarchici, differenziati dai socialisti; e gli stessi «costituzionali», che faticarono a cercarsi un nome, senza però riuscirvi, ché non tutti accettavano l’etichetta di «liberaldemocratici», invano proposta da Giolitti nel quarantennio della sua vita parlamentare. Il Grande Oriente non tardò ad avvertire che non vi sarebbe stata fratellanza vera senza laicizzazione: dai catechismi di partito oltre che da quelli delle chiese. La radicalizzazione ideologica della questione sociale, anziché unire, rischiava di dividere gli italiani in fazioni irriducibilmente contrastanti, con esiti di prevedibile gravità per la coesione d’una nazione ancora in fieri e cui bastava un episodico scacco militare per ritenersi svergognata per un’intera generazione. Né va dimenticato che i turiferari della restaurazione cattolica e, sull’altra sponda, quanti promettevano lo sterminio della borghesia, erano accomunati nella malcelata soddisfazione per gl’infortuni del governo nazionale, salutati quale preludio all’inesorabile frantumazione dello «Stato scomunicato». A far mutare accenti obiettivi non bastavano certo le pacate parole di Giovanni Bovio che piú volte aveva auspicato la proficua convivenza tra fedi ed ideologie diverse in quella Roma che tante civiltà già aveva veduto scorrere e per la quale sembrava esser giunto il secolo del pluralismo tollerante. Particolarmente eloquente fu la pacata replica di Bovio alla Rerum novarum, ripresa dalla Rivista della Massoneria Italiana per diretto interven-
to del Gran Maestro Adriano Lemmi. Il severo giudizio del filosofo e giurista su Leone XIII e, parallelamente, sul «socialismo imperiale» sbandierato nella Ger mania di Guglielmo II conteneva però anche un programma cui la massoneria
na o l’altra teoria. Si ponevano pertanto di per sé stesse al di fuori dell’Ordine le ideologie che avessero per obiettivo l’eversione in quanto tale, la lotta di classe quale metodo volgente a divenire il fine, il ricorso alla forza anziché alla ragione.
nessuna seria riforma sarebbe stata possibile se non liberando piccoli proprietari, contadini, braccianti da quella miseria che li rendeva facile preda del clero piú retrivo, o all’opposto, di un massimalismo ribellistico, fonte di repressione im-
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Italiana non avrebbe piú potuto sottrarsi: «Il socialismo cattolico — scriveva infatti Bovio — ed il socialismo cesareo sono infermo riparo contro il socialismo de’ lavoratori». Ma sarebbe stata la Massoneria a farsi interprete di quest’ultimo? A quale titolo? Fra il 1892 e il 1894, nel corso di una studiata peregrinazione attraverso le Valli della penisola, il Gran Maestro Adriano Lemmi tracciò il programma cui la Famiglia doveva dedicarsi al fine di tradurre il superamento della crisi in corso in un effettivo eroso delle libertà. Lemmi ribadí che nessuna idea o dottrina, per quanto audace, era di per sé estranea alla Massoneria; l’Istituzione non si sarebbe però mai identificata con l’u-
«Noi — spiegò il Gran Maestro — siamo i cattolici della libertà e della ragione», intendendo il termine nel suo significato logico, cioè di organizzazione universale, capace di contenere la ricca molteplicità delle culture prorompenti dall’incontro tra l’Europa e gli altri continenti, tra il razionalismo illuministico e ritualismo risorgente. Sulla scia del Garibaldi che sin dalla redazione delle Memorie aveva posto il problema del rapporto tra «rivoluzione italiana» e classi popolari. Molto al di là della misura consueta alla «democrazia», solitamente ripiegata sulla piccola e media borghesia urbana, nei discorsi del 1892/94 Lemmi batté e ribatté sulle classi contadine: vero banco di prova della dirigenza nazionale, giacché
mediata e del ritorno a misure liberticide. A dargli ragione vennero i moti dei «fasci siciliani», la cui ricostruzione storica non può ignorare quale valutazione ne dessero protagonisti e testimoni. Si constati, intanto, che i moti ebbero inizio un anno dopo che Lemmi aveva incitato: «La Massoneria, che è soprattutto Istituzione di pensiero, forse per questo ha sinora quasi interamente circoscritta la sua azione difensiva e offensiva nelle città: le campagne sono del tutto abbandonate in balia dei partiti reazionari. Grave errore di tattica, questo, o Fratelli (...). Se volgete il pensiero allo stato di servitú e di abiezione in cui giacciono da secoli due terzi dei nostri lavoratori della campagna, vi convincerete che questa che io vi consiglio è opera di carità e di giustizia. Ed è anche opera di previdente e saggia politica. Non dobbiamo dimenticare il nostro paese essere preminentemente agricolo; migliorando le condizioni delli agricoltori, noi riusciremo a ricondurre ai campi migliaia e migliaia di braccia, che, cacciate dal miasma e dalla fame, li disertarono pel miraggio di piú pronti, piú sicuri e meno scarsi guadagni nelle officine; ed avremo stabilito quell’equilibrio delle forze produttrici della nazione, che solo può renderci la prosperità economica; e, dandoci ordine e libertà, avviarci alla soluzione del piú arduo dei problemi sociali». «Ad ottenere l’intento — dettò il Gran Maestro — ci è necessaria la cooperazione di tutti gli ordini dello Stato: dobbiamo conquistarla ed averla». Lì — sappiamo — parlava il patriota uso a rivolgersi senza timidezze ad almeno tre presidenti del Consiglio (Crispi, Giolitti, Zanardelli), l’antico cospiratore, cosciente dei tanto maggiori frutti che il programma dell’Ordine avrebbe conseguito se fosse riuscito a impregnare di sé la macchina dello Stato e la pubblica amministrazione, cosí come da tempo era avvenuto in
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Paesi (Gran Bretagna, Stati Uniti...) che non avevano dovuto superare gli ostacoli intralcianti, in Italia, l’unificazione e la laicizzazione. Nella balaustra pronunziata a Roma per la solenne agape d’inizio 1894 — i
Massoneria cui passi essenziali vennero ripresi alla lettera nella prolusione alla conferenza massonica celebrata in Milano il 20 set tembre dello stesso anno per iniziative delle Officine lombarde, tendenti a rivendicare una sorta di primato sul fronte della militanza sociale — Lemmi ribadí d’altronde il pragmatismo della Massoneria, la sua refrattarietà metodica a identificarsi con un qualsiasi «manifesto» partitico o ideologico, per quanto suggestivo e apparentemente risolutivo. In quella stessa assise — per la prima volta in termini espliciti, anzi tematici — fu posto il confronto tra l’Ordine e il socialismo. La soluzione ancora una volta venne cercata sul piano dei fatti, accompagnandola però con l’implicita dichiara zione di sfiducia nell’attuabilità dei propositi d’uguaglianza sociale dichiarati dal partito. Dialogo fra sordi, dunque? Dialettica tra dimensioni irriducibilmente inconfrontabili e tali da non potersi intendere affatto? I motivi di fondo della refrattarietà massonica nei riguardi della catechesi socialistica, un anno dopo la conferenza di Milano e mentre i Fasci erano lungi dall’aver cessato d’inquietare la dirigenza governativa, furono illustrati dal generale Giacomo Sani, di lí a poco chiamato a fare parte della Giunta del Grande Oriente d’Ita lia. In Tutti socialisti — conferenza pronunziata all’Accademia dei Concordi di Rovigo e integralmente ripresa nella «R.M.I.» — Sani spiegava: «piú che una scienza il socialismo si potrebbe dire una fede, fede di operai e contadini, e la sua diffusione ricorda quella del Cristianesimo nelle società pagane». Come ogni fede, anche il socialismo
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peccava però d’ingenuità nell’immaginare agevoli trasformazioni economiche e sociali dall’esito niente affatto preve dibile, data la diffusa riluttanza nei confronti del collettivismo: il volto col quale il nuovo partito si presentava a fine Ottocento. Dalla diffusione del socialismo il generale Sani traeva soprattutto inci tamento a verificare se le classi dirigenti avessero pienamente assolto il loro debito: ed è su quel terreno che le sue analisi convergevano con quelle già avanzate da Lemmi: «In Italia — egli osservava infatti — troppo si studia o si dice di studiare, ma poco o nulla si conclude, e quel poco sempre per i lavoratori delle officine; mentre tutto ci consiglierebbe e pensare anche a quelli della terra».
Se il Gran Maestro aveva portato attenzione alla migrazione campagna-città, Sani rivolse la sua a quella dall’Italia verso altri Paesi, giudicandola positiva, se «saviamente regolata», e comunque (ciò che, detto da un generale, aveva un preciso significato) di gran lunga preferibile alla dissipazione di miliardi «in ferrovie inutili, in false speculazioni, in tentativi abortiti di espansione coloniale». Ma sarebbe bastato l’impegno della sola dirigenza laica per fronteggiare le molte difficoltà di quel programma? Al riguardo, anticipando un motivo ricorren-
te nell’insegnamento del Gran Maestro Nathan, Sani affermò: «Non vedete che anche nei congressi cattolici la questione sociale s’impone? (...) Ben venga, quando si tratta del trionfo d’una causa cosí santa, anche l’aiuto dei clericali»: v’è da credere che l’indicazione dell’autorevole membro della Giunta del Grande Oriente fosse condivisa in alto se la «R.M.I.» pubblicò anche quel passo della sua conferenza. Quello era però un incontro — anche allora — al quale solo i massoni (almeno in parte) erano pronti: non, invece, i cattolici. Ben inteso, Sani non fu l’unico a rovellarsi sulle migliori soluzioni per uscire dalla crisi. Vi si distinsero, anzi, proprio le Logge di Sicilia, che si sentivano piú direttamente chiamate in causa. La «R.M.I.» pubblicò i documenti conclusivi di alcune Officine, a cominciare dal discorso tenuto in una Loggia palermitana da «un Fratello coltissimo e molto versato nelle scienze sociali». Ripercorse le premesse dottrinarie del socialismo, distinguendovi il riformista dal rivoluzionario, e postolo a confronto col pensiero mazziniano, l’Oratore propugnava il metodo evoluzionistico: terreno sul quale la Massoneria riaffermava la sua funzione sociale, quale scuola di tolleranza e di educazione alla convivenza civile. Anche piú elaborate erano poi le relazioni della Loggia La Centrale di Palermo e della Dante e l’Italia di Catania. La prima, datata il fatidico 17 febbraio 1894, respinta la «pazza anarchia» riprendeva temi e formule largamente presenti nel magistero lem miano e ribadiva la difesa della piccola proprietà quale cemento sociale, la diffusione della mezzadria e di cooperative di consumo e di lavoro, come negli stessi mesi proponevano anche alcuni prefetti a diretto contatto con la realtà dell’isola. Anche a giudizio di Leonardo Pollaci 18° -., estensore della Relazione, occorreva introdurre qualche limitazione nella trasmissione ereditaria, almeno nelle successioni ab intestato. Il documento della Dante e l’Italia — che
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per la sua importanza pubblichiamo integralmente in appendice — intuiva la necessità dell’intervento pubblico a sostegno delle iniziative filantropiche, diversamente destinate a declinare per carenza di mezzi. «Potrebbesi far sorgere un Istituto speciale — essa proponeva — col concorso dello Stato, delle Provincie e dei Comuni interessati, da servire solamente ai miglioramenti agrari dipendenti dai contratti enfiteutici». Non è azzardato intravedervi l’alba di quel riformismo a partecipazione pubblica che, auspici Francesco Saverio Nitti e, piú oltre, Alberto Beneduce, sarebbe divenuto uno dei tratti fondamentali della democrazia sociale meridionale, resistente anche durante il periodo fascista e rifiorita nel secondo dopoguerra. Gradualismo era, dunque, la parola d’ordine ricorrente nella sociologia circolante tra le Colonne dei Templi. Equa retribuzione, trasformazioni prudenti ma generali, riforma dei contratti agrari e, soprattutto, rifiuto delle sovrastrutture burocratiche erano altri criteri ispiratori (la palermitana La Centrale metteva in guardia dallo «sciame d’impiegati e d’ingegneri che, a furia di accertamenti e di revisioni, finirebbero
col sostituire l’opera loro a quella dei calabroni e delle cavallette!») Occorreva invece fare leva sul mutualismo, sulla fratellanza. La crisi in atto diveniva, insomma, occasione per far compiere un salto di qualità alla società intera dalla lotta di classe alla cooperazione transclassista. Non seguiremo nei dettagli l’immenso lavorio a tale scopo promosso dal Grande Oriente e dalle singole Officine, che si sentivano sfidate dalla secessione di alcune Logge lombarde e toscane, costituitesi in Federazione e poi in Grande Oriente Italiano, collegato a quello di Francia, e fortemente impegnate sul terreno sociologico. Del cammino percorso dall’Ordine sono documento gli Atti del I Congresso Regionale Massonico tenuto in Roma il 20-22 aprile 1901, le cui conclusioni furono riprese nella «R.M.I.» Accanto alla vasta «tesi» di Paolo Orano sulla riorganizzazione delle forze liberali e sui mezzi per frenare il rifiorire degli ordini religiosi, assume particolare rilievo la sintesi di Ferdinando Zanazzo sul la promozione di Istituti di beneficenza, ricreatori, orfanotrofi. Vi si affermava che fra i compiti della Massoneria figuravano l’istituzione delle Camere del Lavoro (non era in quegli anni che dalle
Logge giungevano sottoscrizioni a favore di scioperi economici?), dei segretariati del popolo e l’assistenza e l’istruzione dell’infanzia abbandonata. Erano tempi nei quali in molte città italiane i massoni promuovevano asili notturni, scuole professionali, cattedre ambulanti, recupero dei giovani passati attraverso i riformatori. La Massoneria si sentiva, insomma, chiamata a sopperire alle carenze attuative della laicizzazione delle Opere Pie, che incontrava ostacoli nel passare dall’enunciato di legge a realtà. Ripugnava soprattutto che «gli istituti di beneficenza servano di sgabello agli interessi di questo o quel partito». Allo scopo Nathan, sin dal marzo 1900, diffuse un Progetto in sette punti per la costituzione di un Fondo generale di beneficenza massonica, cui doveva essere devoluto un quinto dei proventi del Tronco della Vedova: cespite da utilizzare in forma pubblica a sollievo delle calamità che avessero colpito l’Italia. All’inizio del 1901 Nathan illustrò, inoltre, in Gran Loggia il programma della Commissione per la beneficenza, «non intesa nel senso medievale e pietista della parola, ma in quello moderno, che tende a prevenire con le proprie istituzioni, anziché soccorrere la miseria». Di lì la cam-
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pagna contro la malaria, la tubercolosi, il tifo e «il promuovere, l’incoraggiare la cooperazione nelle sue svariate manifestazioni ed applicazioni alla produzione, al credito, al consumo»: un’opera cui l’Ordine non poteva sottrarsi mentre « il Pontefice con la enciclica La de-
Massoneria mocrazia cristiana rivendica la privativa per la soluzione della questione sociale», e che il Gran Maestro escludeva dovesse incorrere in censure o condanne da parte dei «partiti popolari», bensí, semmai, sarebbe incappata nell’ostilità di quelli estremi «che in commovente accordo, pur partendo da opposti poli, ci attaccarono, ci aggredirono, ci calunniarono». Ma quel fervore era appropriato o esulava dai fini piú autentici della Massoneria? Al quesito è stato spesso risposto, polemicamente, che tra Ottocento e Novecento l’Ordine compi grandi progressi sed extra viam (come Osservò Rosario F. Esposito), scivolando sul terreno infido della politicizzazione, anzi della lotta fra i partiti, fatalmente riuscendone contaminato sino alla catastrofe del 1925.
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Invero, ove si torni a studiare sine ira et studio il quadro storico entro il quale la Massoneria Italiana si trovò ad operare, si constata ch’esso era lacerato tra autoritarismo, volgente alla reazione, e ribellismo a sfondo anarchico: situazione, dunque, dinanzi alla quale non poteva rimanere inerte o indifferente una forza che si fosse prefissi l’insegnamento e l’applicazione del metodo della ragione in ogni settore della vita individuale e sociale. Malgrado i generosi sforzi della generazione risorgimentale, sulla fine dell’Ottocento permanevano in Italia condizionamenti che minacciavano di bloccare il cammino verso una piú matura democrazia e, anzi, spingevano le istituzioni ad indurirsi in se stesse, sottratte all’uso sociale cui erano destinate. Di lì la priorità, per la Massoneria, d’una battaglia di libertà, dalle cui sorti sarebbero dipese la pace interna e la collocazione dell’Italia in un contesto internazionale già caratterizzato dalla corsa agli armamenti e dalla gara imperialistica di lì a poco precipitata nella I Guerra Mondiale. Anche all’interno dell’Ordine s’impose, pertanto, la riflessione sulla natura e sull’impiego del potere: contra-
riamente alla risposta che a quel riguardo venne data dai partiti, la Massoneria riaffermò la laicità super partes dello Stato e delle pubbliche istituzioni, al cui servizio era quindi necessario chiamare uomini appositamente educati: una nuova dirigenza usa a ragionare in termini di Stato, non di partito; universali, non di fazione, né di chiese o chiesuole. Al riguardo il pensiero di Nathan non si differenziava da quello di Lemmi, né dalla concezione che dello Stato e del suo personale era coltivata da un Crispi o da un Giolitti, se non nel fatto che questi ultimi volevano credere che l’amministrazione pubblica dovesse e potesse sopperire ai propri compiti senza concorso dall’esterno, mentre i Gran Maestri, consci dell’isolamento dello Stato e constatando ch’esso era l’estremo baluardo per la laicità, volentieri ponevano le schiere dei «templari della democrazia» a disposizione del governo, in vista di una opera dai comuni convergenti obiettivi. Proprio Nathan non mancò d’esprimere a Giolitti la sua convinzione a tale riguardo. E lo statista subalpino se ne ricordò al momento di scegliere quale atteggiamento tenere nei confronti dei «blocchi popolari», il cui avvento nella Capitale non sarebbe stato possibile senza l’effettivo consenso di chi aveva i mezzi per orientare i pubblici impiegati, parte cospicua dell’elettorato politico e amministrativo.
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L’ingresso del Grande Oriente nell’agone delle elezioni profane non fu dunque una cieca deviazione dai fini originari, bensì la scelta necessitata dalla storia d’Italia: cui neppure l’Ordine si poteva sottrarre e che anzi la Massoneria accettava quale terreno di confronto e verifica dei propri postulati. Non si trattò, comun que, di un’operazione inconsapevole. Ne sono documento le tavole del Gran Maestro alle Logge in vista delle elezioni politiche del 1897 e del 1900. Nella circolare 36 (13/11/1897) Nathan spiegò: «L’Istituzione nostra, operante nella nazione per l’Umanità, se non può disinteressarsi di un fatto [le elezioni, appunto] che gran demente influirà sull’indirizzo pubblico e sui destini del Paese, non può interessarsene in guisa da essere travolta nelle lotte personali e partigiane, che spesso assumono proporzioni preponderanti sugli obiettivi fondamentali». Compito dei Massoni era dunque risvegliare negli elettori, per metà soliti a disertare le urne, «la coscienza del loro dovere di cittadini, e spiegare come l’interesse personale non possa divorziare dall’interesse generale; come, per fatto e volontà degli elettori votanti od astenuti, il
Paese ha il Governo che si merita, le leggi che si merita, la previdenza e la pro sperità che si merita». I Fratelli dovevano poi guardarsi da due pericoli: dal «partito che riconosce il Capo della Chiesa come legittimo capo dello Stato» e dal «materialismo abietto». «Militi in diversi campi politici — concludeva Nathan —, non pochi di voi potranno trovarsi schierati gli uni contro gli altri a sostenere il rappresentante che meglio risponde alle loro personali opinioni: ed è bene. È la prova del fuoco che testifica, nella elevatezza degli ideali, della solidità della compagine, la quale resiste intatta agli attriti disgregatori dei politici contrasti. Sarebbe male, se, pur spiegando tutta la vivacità e la energia che impone la salda e franca coscienza, si snaturasse la lotta, da politica si trasformasse in personale, sacrificando al fine l’onestà dei mezzi, la correttezza dei modi, il vincolo della fratellanza». Nel mezzo della lotta la Mas soneria «è - e deve rimanere - indipendente da uomini, da fazioni, da governi». Tre anni dopo — mentre il Paese, ancora nel ricordo dei luttuosi fatti del maggio 1898, stentava ad uscire da un contra sto politico-parlamentare che sembrava
anzi sfociare nella limitazione dei diritti statuari persino alla Camera — Nathan tornò a dettare direttive alle Logge, per far sì che in Italia l’ordine non fosse disgiunto dal progresso delle libertà. Solo a questo modo — motivava il Gran Maestro — la Comunione avrebbe potuto recare un fattivo contributo alla Lega per la Pace cui dedicava speciali energie l’On. Beniamino Pandolfi, membro della Giunta del Grande Oriente d’Italia: «Lega — spiegava Nathan — che oltre a portare la parola dell’arbitrato e della fratellanza fra i popoli, si propone anche scopi di tutela per la nostra emigrazione». La Massoneria Italiana procedeva dunque sulla via già tracciata sin da quando il Gran Maestro Aggiunto del Grande Oriente Italiano, Michele Buscalioni, all’ancor gracile risorgente Famiglia aveva fissato l’obiettivo dello scambio dei garanti d’amicizia con le altre piú antiche e solide Comunioni, cercandovi la sponda per la promozione di associazioni dedite a promuovere quella reciproca amicizia tra i popoli, senza cui non v’è prospettiva di successo per le arti diplomatiche. Erano stati gli anni della Asso-
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ciazione italo-ellenica, poi della Lega latina e, ancora, della Unione elleno-latina: rete sempre piú ampia, che andava dalla Grecia alla Spagna e mirava a un’«internazionale democratica», con la quale contenere l’irruenza di un’altra internazionale, pronta ad elevare la rivoluzione
Massoneria armata a proprio metodo ed a scatenare, pertanto, ondate di repressione che rischiavano di fare regredire di molti decenni i progressi liberali. Su quella traccia s’era poi mosso anche Giuseppe Garibaldi quando l’imposizione del protettorato francese su Tunisi aveva suscitato un moto di protesta misogallica anche nelle file dei piú filofrancesi tra i demo-
cratici italiani, Cavalloni compreso: linea poi seguita da Lemmi nel corso della sua decennale Gran Maestranza e cui s’era coerentemente rifatto anche nel 1887, nel vivo della tensione italo-francese, rischiando di attirarsi le convergenti inimicizie di quanti (clericali e «democratici») avevano in Francia le ben fornite retrovie per la loro azione antigovernativa in Italia. In qual modo da mera affermazione di principio la fratellanza potesse tradursi in iniziativa internazionale, volta alla comprensione e alla collaborazione tra i popoli, venne detto nel 1897 dal direttore della «R.M.I.», Ulisse Bacci, in La Massoneria ed il principio di nazionalità: monito emblematico in quel crepuscolo d’Ot tocento nuovamente corrusco di armi. L’incontro di Fascioda fra inglesi e francesi in lizza per la spartizione dell’Africa è dell’anno seguente e già si avvertivano i prodromi della sanguinosa guerra anglo-boera per il dominio sul Transwaal, mentre Gran Bretagna e Russia salivano a scontrarsi sul passo di Kabul: tutti motivi di lotta poi riverberantesi sullo scacchiere europeo, ove alla guerra si sarebbe venuti a piccoli passi, crisi dopo crisi, sino all’acme incontenibile. Era dunque per estremo auspicio di pace che il consigliere di Corte d’Appello e docente all’Università di Bruxelles, Ernst Nys, indicasse i punti di contatto tra il diritto internazionale e la Massoneria, né privo di significato che proprio nel 1914 quell’opera fosse tradotta per la Biblioteca del Rito Simbolico Italiano. Non sorprende, per altro verso, che ormai anche in Italia la Massoneria fosse divenuta il bersaglio precipuo di un partito giovane e pur tracotante, intento a farsi largo con l’arma lucida e tagliente del totalitarismo culturale: i nazionalisti. Ragionevoli motivi di spazio c’impediscono di entrare nei dettagli di un conflitto che la Giunta del Grande Oriente per parte sua risolse sin dal 1913 interdicendo l’appartenenza dei Fratelli a un partito che aveva per fine la sopraffazione dei popoli e per metodo la guerra armata, in spregio della tradizione umanitaria e degli ideali di fratellanza universale per secoli affermati dalla Massoneria. È una vicenda alla quale già dedicammo altre nostre pagine e sulla quale ritorneremo. Né ci è qui possibile
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soffermarci oltre sugli istituti attraverso i quali i massoni, non solo italiani, cercarono di attuare il postulato kantiano della pace universale perpetua, fulcro della fichtiana Filosofia della Massoneria: l’arbitrato obbligatorio per la soluzione pattizia dei conflitti interstatuali (fermamente invocato da Garibaldi, che pure non era certo un pavido); la Corte internazionale dell’Aja e, scaturita dalla fornace della grande guerra, la Società delle Nazioni”. Né vorremmo qui insistere sul massonismo insito nei principi affermati dal Preambolo costitutivo delle Nazioni Unite e nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, i cui successivi arricchimenti stanno a confermare di quali continui ampliamenti d’orizzonte sia foriero il
metodo del gradualismo, quell’evoluzionismo guardato con sarcasmo dai sognatori di rivoluzioni massimalistiche. V’è, invece, da domandarsi se il particolarismo separatistico, la faziosità ideologica, l’abuso del potere non siano nuove forme in cui oggi si perpetua, in forme diverse, il nazionalismo anche nei Paesi ove esso pare del tutto estirpato o nei quali non trovi, comunque, un partito che se ne faccia ufficialmente interprete. A siffatte recrudescenze di quello spirito opporremo infine il motto del poeta che, pur privo del suggello dell’iniziazione formale, bene seppe interpretare il pensiero massonico: «Solo l’egoismo e l’odio si dànno una Patria. La fratellanza, invece, non ha confini». Cosí il poeta Alphonse de La-
martine salutava la primavera dei popoli in quel 1848 che consacrò definitivamente il trinomio famoso poi ritenuto originario della massoneria. _______________ (*) V. per raffronto il Repertorio dei nomi distintivi di loggia in Luigi Pruneti, Annali della Gran loggia d’Italia , 1908-2010, Bari, Giuseppe Laterza, 2010, pp. P.118: Maglietto e scalpello sulla pietra grezza; p.119: L’aquila bicipite del R.S.A.A; p.119 e 126: Fotografie di Giuseppe Garibaldi; p.120: Pompei, lapide di una bottega di muratori; p.121: Mascherone con decoro massonico; p.122 e 128: Gioiello massonico; p.122: Delta con occhio; p.123: Pavimento a scacchi e stelle; p.124: Elsa di pugnale massonico; p.125: Cerimonia di iniziazione nel XVIII sec; p.126: Maglietto; p.127: Vassoio in porcellana con decori massonici; p.128: Tavola con simboli massonici; p.129: Insegne del S.G.C.G.M. della G.L.D.I. (foto P.Del Freo)
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L’immaginario Paolo Aldo Rossi
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oi rappresentiamo, ossia configuriamo (evocare o produrre), “immagini” nella nostra mente indipendentemente dalla presenza dell’oggetto a cui si riferiscono (senza la partecipazione effettiva della sensazione): questa è l’azione la cui definizione ha diviso i filosofi fino dall’età di Platone e di Aristotele (oppure ha diviso le nostre interpretazioni delle loro parole). Il primo pensa l’immaginare come un’imitazione della copia della realtà soprasensibile (il verbo è mimèomai e il sostantivo mimòs o l’imitatore) o, per meglio dire, noi sappiamo che le cose sensibili sono una “immagine” dell’eterno paradigma dell’Idea ed immaginare qualcosa che non c’è più, ma che c’è stata tra le sensazioni, è una riproduzione di un’imitazione, cioè un qualcosa “tre volte lontana dalla verità”. Il secondo (De Anima III, 3), che la sottopose ad indagine precisa, trova che non sono prodotto dei sensi, perché esistono quando manca la sensazione (sogno, ricordo, visione...), e neppure delle opinioni (che implica una credenza in qualcosa); quindi è un movimento (kìnesis) generato dalla sensazione, ma dissimile da questa in quanto avviene in tempi diversi; dunque, l’immaginazione è una fantasia, o segno delle cose, che può conservarsi indipendentemente dalle medesime cose, perché le immagini non hanno materia (De Anima III, 8, 432 a9). “Le immagini - dice S. Agostino - sono originate dalle cose corporee e per mezzo delle sensazioni: le quali, una volta ricevute, si possono con grande facilità ricordare, distinguere, moltiplicare, ridurre, estendere, ordinare, sconvolgere, ricomporre in qualunque modo piaccia al pensiero” (De vera religione, X, 18). L’eikòn o icona, immagine che percepisco, e l’eìdos o forma ideale sono concetti molto differenti e la differenza fra le parole salta agli occhi a tutti appena si vedono i verbi da cui le espressioni hanno origine: l’icona deriva da eoika o “sono simile”, mentre l’idea proviene da orào che significa “vedere con la mente”. Nella stessa lingua greca eîdos (id che rimanda al sanscrito vedah e al latino video) inizialmente vuol dire “aspetto esteriore”, ma ben presto (con i filosofi) diventa anche “idea o forma ideale”.
Il termine immagine, che in latino fa imago e in greco fa eikòn (da cui icona e icastico), sembrerebbe voler indicare la forma con la quale una cosa appare a chi la guarda (come copia del vero o come modo di presentarsi della realtà). Ma qualunque dizionario riporta
Matematica
D
ove il mondo cessa di essere il palcoscenico delle nostre speranze e dei nostri desideri per divenire l’oggetto della libera curiosità e della contemplazione, lì iniziano l’arte e la scienza. Se cerchiamo di descrivere la nostra esperienza all’interno degli schemi della logica, entriamo nel mondo della scienza; se, invece, le relazioni che intercorrono tra le forme della nostra rappresentazione sfuggono alla comprensione razionale e pur tuttavia manifestano intuitivamente il loro significato, entriamo nel mondo della creazione artistica. Ciò che accomuna i due mondi è l’aspirazione a qualcosa di non arbitrario, di universale.” Albert Einstein
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a matematica è una meravigliosa apparecchiatura spirituale fatta per pensare in anticipo tutti i casi possibili. Robert Musil
anche “forma che assumono nella mente le cose pensate, ricordate o sognate” e cioè le idee o le visioni (ma anche le orgìa o ergòn, i misteri, gli arcana sacra, i teletè che vengono eseguiti, ossia ergon in modo da essere chiusi o serrati, essendo il mistero l’indicibile). Dunque il termine deriva da orào/eìdos, sia per le idee, che per le visioni e per i sogni1, ma deriva anche da eikòn per una cosa che assomiglia a ciò che ci appare un’icona. È chiaro che mi posso immaginare la chimera, l’ippogrifo o l’unicorno2 (il cavallo alato o cornuto e il leone-capra con coda serpentina che non ho mai visto e lo so perfettamente!); la fantasia mi mette di fronte migliaia di immagini che la sensazione non riconosce come ricevute globalmente, ma singolarmente (ali, corno, cavallo, leone, serpe, capra con la barba... ) e quindi le ricompone, le ri1 Nella letteratura arcaica il sogno è solitamente considerato come una visita che un’immagine, indipendente dal sognatore, fa ad un dormiente per scopi diversi. Per la spiegazione razionale del come si produca l’attività onirica valga per tutti Pindaro, fr. 16 B: “Viva rimane ancora un’immagine di vita che viene dagli dei. Dorme mentre le membra agiscono, ma quando l’uomo dorme, spesso mostra nei sogni una decisione di gioia o di avversità futura”; e Senofonte: “Nel sonno l’anima mostra meglio la sua natura divina, nel sonno gode di una certa intuizione circa l’avvenire, perché nel sonno essa gode della massima libertà” (Ciropedia, 8,7,21). 2 “E’ questo l’animale che non c’è. / Non lo sapevano, eppure l’hanno amato / l’andatura, la forma, la criniera, / fino alla mite luce dello sguardo. Certo, non era. Ma amandolo, divenne /un animale puro. Gli fu lasciato spazio. / E in quello spazio chiaro conquistato / senza bisogno d’essere, levò leggero il capo. Non lo nutrivano di biada, / ma sempre e solo dell’esser possibile, / forza tale gli diede il possibile / che crebbe un corno sulla nuda fronte, e fu unicorno. / Si avvicinò, bianco, a una vergine /e, fu nello specchio d’argento, ed in lei” (R.M. Rilke, Die Sonette an Orpheus, parte II sonetto IV).
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costituisce e le riunisce in innumerevoli immagini. Ora l’immagine da un lato è il prodotto dell’immaginazione, dall’altro è la sensazione o percezione stessa vista dalla parte di chi la riceve, ossia la fantasia, impronta della cosa sull’anima (o sulla mente per i moderni), mentre il fantasma è il pensiero immaginativo. Gli Stoici la definivano come “ciò che viene impresso, formato e contraddistinto dall’oggetto esistente in conformità della sua esistenza e che perciò è tale che non sarebbe se l’oggetto stesso non esistesse”3. Tra imitazione e immaginazione c’è una grande differenza: l’immaginazione produce immagini proprie ed è, quindi, una facoltà creativa presente negli uomini, mentre l’imitazione riproduce immagini già prodotte da qualcun altro e preesistenti a me. ‘‘L’arte è una magia - diceva Theodor W. Adorno - liberata dalla menzogna dell’essere verità’’, il che è molto meglio dell’insulsa frase “fra le varie cose che avrebbero inventato i moderni è l’immaginazione”. La mimesis secondo i moderni è tipicamente non immaginativa, perché ci si limita a 3 Diogene Laertio, Vitae et placita philosophorum, VII, 50.
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copiare le cose; e qui vi è un doppio gravissimo errore di interpretazione: a) Platone pensa che il poeta usi un irrazionale intuito da invasato, una specie di sorte divina che gli ri-vela la verità (a-letheia, ossia non nascondo, svelo) a cui si è svelata come ad un esaltato fuori di sè (la follia dell’estasi o l’avere dentro di sè un dio) e per poter parlarne la deve velare4 (è chiaro che la conoscenza mistica, il cammino sapienziale basato sull’intuizione estatica, che tende alla comunicazione diretta con il divino come alternativa escludente la via della ricerca razionale, c’è sempre stata e principalmente in Platone); b) per Aristotele, quando i sensi non lavorano, la percezione non scompare, ma permane l’immaginazione sotto forma di fantasia creatrice. Kant diceva che la matematica è una scienza sovrana perché fa quello che de4 La complessa articolazione semantica della verità come disvelamento e rivelazione si istalla nella presa di coscienza che il mettere a nudo tutta la verità offusca la mente, così come quando gli occhi sono colpiti da una luce abbacinante, per cui è necessario schermare la verità, ri-velandola, ossia nascondendola di nuovo onde proteggerla.
sidera, la filosofia invece è assegnata al dato, ossia la presenza dell’oggetto sensibile; dunque la matematica è da considerarsi un’attività squisitamente immaginativa. Ed, infatti, ci sembra aver ragione! Per il pitagorismo il numero (arithmòs) è l’archè o il principio, ossia la natura ultima della realtà è aritmetica, quindi “il mondo intero è armonia e numero”. Il numero è qualche cosa di partecipe e presente in ogni luogo; a questo dobbiamo, infatti, fare ricorso se vogliamo descrivere in maniera oggettiva una qualsiasi realtà. Un numero razionale è un numero ottenibile come rapporto tra due numeri interi, il secondo dei qua-
li diverso da 0, e ogni numero razionale quindi può essere espresso mediante una frazione. Quasi subito, però, il pitagorico Ippaso di Metaponto scoprì i numeri “irrazionali” mentre tentava di rappresentare la radice quadrata di 2 come frazione (irrazionale in greco è alogos, che significa “senza rapporto” o “incommensurabile”, ma potrebbe significare anche “ineffabile” o “indicibile” ... ). Ma come, la matematica “appena nata” ha a che fare con dei numeri “senza ragione”? Non c’è problema, basta dire che i numeri irrazionali sono quei numeri reali che non sono razionali! No, non vi vogliamo prendere in giro! Chiediamoci se esiste un numero reale, il cui quadrato è 2. Sì, è la radice quadrata di 2 (la lunghezza della diagonale di un quadrato di lato 1) e si trova fra 1 e 1.5 su una retta divisa in due semirette partenti dallo “zero”. I numeri razionali sono rapporti (divisioni) fra numeri interi m/n dove m ed n sono due numeri interi qualunque eccetto che per il denominatore n che deve essere “sempre diverso da 0”.
I numeri decimali che si ottengono possono avere un numero finito di decimali (dopo la virgola ad es., ossia 0,5), oppure un numero infinito di decimali ma periodici (1/3, ossia 0,333333333...). Ma esiste la possibilità di avere numeri decimali con infiniti decimali non periodici? Sì, si chiamano “numeri irrazionali” (ad esempio π, ossia il pi greco = 3,14159265...). La «rivoluzione degli irrazionali», iniziata nel V secolo a.C., trovò la sua codificazione definitiva nel libro X degli Elementi di Euclide e quindi gli irrazionali entrarono di diritto nella matematica. Ma è possibile estrarre la radice quadra-
ta di un numero negativo? Certamente, purché si sia disposti ad estendere ancora il concetto di numero, introducendo quelli che sono chiamati numeri immaginari (in verità, non meno reali dei «numeri reali» - e difatti sono usati in fisica, elettronica e telecomunicazioni, che sarebbero poi la parte “più reale” e “razionale” del mondo in cui viviamo). Prendiamo ora il numero √-25. Non posso fare la radice perché non esiste nessun numero reale che, elevato al quadrato, mi dia -25. Ora distacco il segno meno √-1 · √25) (prodotto fra i radicali) e la parte √-1 mi limito a chiamarla i (iniziale di immaginario), quindi √25 la risolvo normalmente e vale +5 o -5 (come sappiamo √-1 è la i). Quindi posso scrivere √ (-25) = 5i (un numero seguito dalla i si dice numero immaginario). Il numero complesso è quello formato da una parte reale e una immaginaria. Alla retta dell’asse dei reali aggiungiamo l’asse degli immaginari in modo che si taglino perpendicolarmente; quindi n numero complesso può essere visto come un punto del piano cartesiano Per definizione, l’unità immaginaria i è una soluzione dell’equazione x2 + 1 = 0 ossia x2 = -1. Sono i numeri che non dovrebbero esistere, ma esistono! Come il sogno! Per cui li si chiama immaginari per separarli dai reali. Georg Cantor, il padre della moderna teoria degli insiemi, diceva nell’ultimo ventennio del XIX secolo: “L’essenza della matematica è nella sua libertà”. Il viaggio iniziatico che conduce l’uomo alla presenza dell’ineffabile mistero divino ha come proprie condizioni essenziali l’essere puri e liberi dai vincoli corporei: “... senza essere sigillati nella tomba che appunto portiamo in giro e chiamiamo corpo, avvinti strettamente a lui come l’ostrica al suo guscio”5 e l’essere genuinamente folli: “Onde appunto la follia, rivolgendosi alle purificazioni ed alle iniziazioni, liberò dal pericolo per il tempo presente e per quello futuro chi di essa partecipava, e procurò a chi era folle in modo autentico, ed era posseduto dal dio, la liberazione dai mali presenti”6. 5 Platone, Fedro, 250 c 6 Platone, Fedro, 244-e e 245 b. Si noti che Platone mette in chiaro il legame fra l’essere folli in modo autentico e l’essere posseduti dal dio.
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P.130: Praga, cattedrale di san Vito, doccione; p.132 in basso: Strasbourg, testa fantastica; p.132 e 133: Parigi, i gargoyles sovrastano la città; p.133 in basso: Trondhaim (Norvegia), doccione.
L’estasi - nel senso letterale del termine è “l’uscir fuori da sé”, uno stato di autentica alienazione dove il posseduto dal dio ha la visione di quello che gli altri non vedono; l’estasi è, in ultima analisi, il modo per “liberare il sovrappiù di conoscenza” dall’azione inibitrice dei sensi. E’ qui che la coscienza immaginaria fa parte integrante del matematico come del poeta, dell’uomo religioso come dell’artista, del musicista come del fisico. E’ allora si sente che “Morte è quanto vediamo da svegli; sogno (visionario), quanto vediamo dormendo (Eraclito, 22B21 DK).7 7 G. Colli, La sapienza greca, I, Adelphi, Milano, 1977
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tare, che la Corte Europea riconosce agli Stati membri la facoltà di godere di un certo apprezzamento e potere discrezionale nel determinare, per le differenti situazioni, un diverso trattamento giuridico, avocando a sé la competenza finale di valutarne la correttezza. L’articolo 14
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n una società aperta è necessario tener conto, oltre che della forma democratica di governo, della libertà di associazione, proteggendo ed incoraggiando la formazione di società libere, che possano sostenere le differenze di opinioni e di credenze.1 La volontà di una pluralità di persone di predisporsi in gruppo è pienamente contemplata dal nostro Ordinamento, l’associazione è, di riflesso, l’unione organizzata di più persone con finalità comuni. La possibilità degli individui di giungere a ciò, viene ad essere legittimata, in primo luogo, proprio dalla nostra Costituzione, che prevede all’art. 18: “I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale. Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare”. Conformemente alla Carta Costituzionale, fonte normativa primaria, la Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo (C.E.D.U.) e delle libertà fondamentali, regola all’art. 11 il diritto alla riunione 1 Karl Popper
pacifica e la facoltà di associarsi. Per l’effetto, il moto associativo non può essere sottoposto a restrizioni diverse da quelle stabilite dalla legge, che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la sicurezza nazionale e pubblica, per la difesa dell’ordine e la prevenzione dei reati, per la protezione della salute, della morale e delle libertà altrui. L’unica deroga, quasi ad introdurre una sorta di “legittima restrizione”, riguarda i membri delle forze armate, della polizia o dell’amministrazione dello Stato. Il Legislatore nazionale può, quindi, imporre misure limitative dei diritti che determinano un trattamento differenziato tra i soggetti destinatari soltanto a condizione che, questa diversificazione sia giustificata in modo «obiettivo e ragionevole», come prevede la Corte di Strasburgo, ovvero, come direbbe la nostra Corte Costituzionale, conformemente al principio di eguaglianza e al criterio di ragionevolezza. Una disomogeneità di trattamento normativo tra i destinatari è accettabile sulla base di un apprezzamento logico delle diverse circostanze di fatto, se comporta un giusto equilibrio, con una corretta ponderazione degli interessi in gioco. È interessante no-
della C.E.D.U, sancisce che il godimento dei diritti e delle libertà riconosciute nella Convenzione, comprese quelle associative, debba essere assicurato a tutti gli individui, senza discriminazione alcuna. Una sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani, la n° 26740/02, della I Sezione, è assolutamente illuminante, conducendoci al punto nevralgico della nostra disamina, quali conseguenze e restrizioni sussistono per gli aderenti a logge massoniche, nonchè associazioni a carattere segreto? Sul tema viene stabilito che: ”Viola gli artt. 14 e 11 della Costituzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali la disciplina della Regione Friuli Venezia Giulia che, in materia di nomine presso Enti regionali, prevede in capo agli aspiranti l’obbligo di dichiarare la loro appartenenza a logge massoniche o a carattere segreto2. Tale disciplina, in assenza di una giustificazione obiettiva e ragionevole, determina una differenza di trattamento tra le società massoniche e le altre società non segrete, in quanto, anche l’appartenenza a queste ultime, potrebbe configurare, un problema di sicurezza nazionale e di difesa dell’ordine pubblico, nel caso in cui i membri siano chiamati ad assolvere pubbliche funzioni”. Sul tema, ecco di seguito quanto enunciato da una recentissima sentenza della Corte di Cassazione: “Perché una loggia possa considerarsi segreta, vietata dall’art. 18 della Costituzione, con conseguente illiceità penale delle attività di promozione, direzione e partecipazione, in forza del combinato disposto degli artt. 1-2 della L. 25.02.1982, n° 17, occorre la dimostrazione sia del carattere di segretezza, sia dello svolgimento di un’attività diretta ad interferire con funzioni di organi costituzionali”. 2 Art. 7 bis ante L.R. n. 75 del 1978, introdotto con L. n. 1 del 2000
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In particolare, deve ritenersi segreta l’associazione che occulti la propria esistenza, ovvero non manifesti le finalità e attività sociali, che renda sconosciuti, in tutto o in parte i soci, che persegua un’attività diretta a interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituziona-
Giustizia li di amministrazioni pubbliche, di enti pubblici anche economici e di servizi pubblici essenziali di interesse nazionale. La sentenza3 interpreta correttamente il combinato disposto dell’articolo 18 della Costituzione (sopra riportato) e dell’art. 1 L. 25/01/1982, n° 17. Quest’ ultima, approvata all’indomani dalla scoperta della loggia massonica «Propaganda 2» (detta anche «P2»), ha fissato, agli articoli 1-2, i criteri identificativi delle associazioni segrete. La norma, pur non definendo ogni possibile tipologia associativa, riconducibile alle fattispecie vietata dalla Costituzione, in quanto segreta, circoscrive, in modo assai preciso, l’area spettante alle associazioni segrete. Ciò, allo stato, preclude che una qualsiasi associazione che non presenti i predetti caratteri (segretezza), collegati alle finalità anche indirettamente sovversive, possa considerarsi proibita e sia assoggettabile alle procedure di scioglimento. Parimenti, è evidente che gli appartenenti ad associazioni diverse da quelle espressamente vietate dalla L. 25/01/1982, n° 17, non possono essere sottoposti alle misure sanzionatorie ivi indicate. In conclusione, la segretezza e non la 3 Corte di Cass. Sez. 6 Penale Sent. del 8 febbraio 2010, n. 4999
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sussistenza di riservatezza circa regole e modalità operative per gli iscritti, appare un modo di essere dell’associazione, indipendente dai fini che la stessa si propone. I criteri menzionati, in quanto criteri generali, sono valevoli nei confronti di tutti i cittadini italiani, senza eccezioni di sorta anche per quanti si trovano ad operare in campo giuridico. Conformemente a quanto sopra esposto, nessun onere viene posto in capo agli aspiranti ausiliari del Giudice, tra cui il Consulente Tecnico d’Ufficio, circa l’obbligo di dichiarare la propria appartenenza ad associazioni, logge massoniche o di carattere segreto. In base alla normativa attuale, il Consulente Tecnico d’Ufficio è il soggetto che svolge la propria funzione collaborando, in rapporto fiduciario, nell’ambito delle precise competenze definite dai Codici di procedura civile e penale. Scopo del Consulente è quello di rispondere in maniera puntuale ai quesiti che il Giudice formula nell’udienza di conferimento dell’incarico; di relazionare le sue risultanze nell’elaborato peritale che prende il nome di: Consulenza Tecnica d’Ufficio. Nella disciplina contenuta nei codici di procedura vigenti, il C.T.U. (Consulente Tecnico d’Ufficio) è inserito tra gli Ausiliari del Giudice, ovvero tra coloro che, pur non facendo parte degli uffici giudiziari, coadiuvano il Magistrato svolgendo attività funzionalmente giurisdizionale. La stessa denominazione di “C.T.U.” mette in risalto le due caratteristiche fondamentali di questo Ausiliare, professionista deputato a fornire chiarimenti al Giudicante, con relazione
non vincolante4, esperto in materie che il Giudice non è tenuto a conoscere. Secondo costante giurisprudenza, l’elaborato peritale costituisce uno strumento istruttorio (e non, invece, un mezzo di prova), sottratto alla disponibilità delle parti, affidato al prudente e discrezionale apprezzamento del Magistrato, limitato alla valutazione e risoluzione di questioni esclusivamente tecniche.5 Nelle sue funzioni, il C.T.U. è un pubblico ufficiale, con dovere precipuo di informare dettagliatamente il Giudice su elementi che rientrano nella sua competenza, facendo riferimento a dati e documentazione certa, senza ulteriori vincoli di qualsivoglia natura. Gli Albi dei Consulenti d’Ufficio previsti dall’attuale ordinamento sono due, uno per il settore civile e l’altro per quello penale, suddivisi per branca professionale di riferimento: la medico-chirurgica, l’industriale, la commerciale, l’agricola, la bancaria e l’assicurativa. La disciplina relativa ai requisiti, all’attività, agli obblighi, alle responsabilità e alle cause di ricusazione per gli iscritti agli Albi, è regolata negli articoli 51 a 54 e da 61 a 64 del codice di procedura civile; negli articoli da 220 a 223 e art. 36 del codice di procedura penale e nelle disposizione di attuazione(articoli. da 13 - 22 c.p.c. e da 67 - 72 c.p.p.) Le predette disposizioni contengono la normativa nazionale di riferimento cui devono attenersi, senza deroghe, tutti i Tribunali che intendono avvalersi dell’ausilio di Periti, inseriti nei relativi Albi. Il potere di controllo sulla forma4 Cass. Civ. 9922/2001 5 Cass. Civ. 1115/93; Cass. Civ. 4256/1982.
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zione e tenuta degli stessi è deputata al Presidente di ciascun Tribunale, che vigila sulla scelta del Consulente secondo la formazione e le caratteristiche, sulla distribuzione degli incarichi, sulle sanzioni applicabili. Gli appositi moduli di iscrizione dei C.T.U negli Albi, individuano i casi in cui non può essere prestato l’ufficio di perito ed i requisiti richiesti per accedervi. Ebbene, non è ravvisabile, quale causa di esclusione all’accesso, di astensione o di ricusazione l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di qualsivoglia forma e tipologia riconosciute o non, tra cui le associazioni di tipo massonico. Infatti, entrambi i codici e la modulistica citata, contemplano, per l’iscrizione negli Albi, il conseguimento di un percorso di studi idoneo a svolgere le funzioni richieste (laurea, specializzazione, iscrizione all’Ordine professionale, documenti e pubblicazioni attestanti specifiche capacità tecniche), l’assenza di condanne, pene accessorie, misure di prevenzione o comunque la mancata conoscenza di eventuali “carichi pendenti”. In ultima analisi, l’appartenenza ad associazione massonica non può rientrare nell’ambito della così detta “specchiata moralità”,
requisito previsto nella modulistica d’iscrizione, ai sensi dell’articolo 15 di attuazione c.p.c. Occorre precisare che l’assenza di “specchiata moralità” si presume, fino a prova contraria, per colui che non abbia riportato condanne (anche in esito a riti alternativi o sentenze non passate in giudicato) a pene detentive, di regola superiori a tre mesi. Ne consegue, che la clausola della “specchiata moralità”, non si identifica neppure con la incensuratezza, ma consiste nello svolgimento di una condotta professionale e di vita corretta, onesta e proba. Inoltre, non può neanche rientrare nelle ragioni “di convenienza” menzionate negli articoli 36 c.p.p. e 51 c.p.c. l’essere il C.T.U. iscritto alla massoneria. In merito, un’interessante Decisione della Commissione Centrale per gli Esercenti le Professioni Sanitarie, la n° 29 del 9 marzo del 2007, in relazione ad un perito Medico, dispone che l’appartenenza massonica non appare, sotto alcun profilo, idonea ad inficiarne, sia pure potenzialmente, l’imparzialità e la correttezza del giudizio. Pertanto, qualsiasi ricusazione o divieto per un C.T.U. di svolgere il proprio compito, perchè iscritto ad una loggia mas-
sonica è illegittimo, discriminatorio, produttivo di danno risarcibile, sotto il profilo di perdita, di chance lavorativa e nella lesione d’immagine, con un conseguente ulteriore danno patrimonialmente valutabile, per la mancata possibilità futura di poter svolgere incarichi. Il risarcimento per le sofferenze patite, rientra nell’ambito dell’articolo 2043 c.c. (da fatto illecito) e sanziona il danno subito dal Consulente per la condotta tenuta dalla Pubblica Amministrazione. Si ritiene, pertanto, che verificandosi condotte vessatorie o discriminatorie nei confronti di Consulenti aderenti alla massoneria, sussistono tutti gli estremi per la proposizione di azioni legali miranti alla cessazione di tali comportamenti, con reintegra del professionista nelle mansioni spettanti. Per queste ipotesi, si potrebbero riscontrare considerevoli aspetti di violazione di legge e di eccesso di potere da parte della Pubblica Amministrazione, che ben avrebbe dovuto quantomeno giustificare il motivo, apparentemente illogico e diseconomico, delle scelte operate.
P.134: Aula di tribunale; p.135: Bilancia; p.136 e 137: Maglietti.
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Quello che le parole non dicono, ma le persone capiscono Sabrina Conti
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ome amava ripetere Barthes, “Non so se filosofia del linguaggio sia un’espressione corretta per parlare di questa disciplina, ma certamente la semiotica ha a che fare sia con la filosofia che con il linguaggio. L’analisi del testo assume un significato veramente ampio, il concetto stesso di testo si espande, coinvolgendo non soltanto i prodotti della scrittura ma anche altri che presentino una struttura mirata alla comunicazione, dipinti, fotografie, sculture, filmati.” E mai affermazione fu più profetica. Nel tem-
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po eminenti filosofi, semiotici, fotografi e studiosi si schierarono a difesa di uno o dell’altro aspetto, ma Barthes, uno dei fondatori di questa materia, aveva indiscutibilmente, colto nel segno. Già, nel 1964, in Apocalittici integrati Umberto Eco, apre il dibattito, sui mezzi di comunicazione. In risposta, Montale sul Corriere della Sera (1964) asserisce che “I mezzi di massa esistono ma occorre dominarli e piegarli a fini umani, ma quali sono i fini dell’uomo? Qui si naviga nel buio!” A.G. Solari, definirà Eco un “illuminista” mentre, qualcun’altro
ripensando ai tentativi che Elémire Zolla approntava per arginare i rischi insiti nell’argomento, lo investirà a “paladino delle Avanguardie”. Pietro Citati inorridiva all’idea che di li a pochi anni, letterati italiani producessero film o fumetti e che “Elvis Presley e Platone potessero appartenere allo stesso modo alla storia!”. Ma tantè che Eco non aveva fatto altro che riprendere concetti che, Ferdinand Saussure, fondatore dello strutturalismo, aveva esposto già nel 1881 nel “De l’emploi du génitif absolu en sanscrit, Ginevra, Fick”. Nel 2008, il testo prima menzionato, sarà riproposto integralmente risultando ancora, assolutamente “moderno”. Nel 1992 né “Interpretazione e sovra interpretazione”, partendo dal concetto primordiale di ermeneutica, Eco affonda la spada: tingendo la comunicazione di mistero e di sospetto per i
ancora più lontane, negli scritti del buon Dante (Alighieri), la cui opera primaria, La Divina Commedia, verrà definita da Barthes l’esempio lampante di un meccanismo di “falsificazione” avendo in se, spudoratamente visibili due interpretazioni: quella Cabalistica (in riferimento alle lettere della Torah che a seconda di come vengono associate possono fare scaturire diverse interpretazioni e letture) e quella Agostiniana (infinita sensum sylva - senso che può essere, appunto fal-
Semiotica del giornalismo: una devastante realtà che la Massoneria vive quotidianamente
delinea Jean Marie Floch nei suoi saggi sulla fotografia. Se la semiotica è disciplina che studia i segni, considerato che il segno è in generale “qualcosa che rinvia a qualcos’altro” (per i filosofi medievali aliquid stat pro aliquo), possiamo affermare che la semiotica sia la disciplina che studia i fenomeni di significazione e di comunicazione. Per significazione infatti si intende ogni relazione che lega qualcosa di materialmente presente a
suoi significati più o meno reconditi. Un nuovo dibattito coinvolge, questa volta, anche il pubblico, tirato dentro a fare da ago della bilancia tra testo, autore, editore. Nasce così, il conflitto tra semiotica, pragmatismo e decostruzione, conflitto tuttora non solo non superato, ma sfruttato bellamente per scopi puramente economici o di “indirizzamento” della massa. I significati intrinsechi ed indotti, immagini e riferimenti si mischiano quotidianamente in quella che, genericamente, chiamiamo “comunicazione”. Ma il “sospetto” è fondato ed ha origini
sificato escludendo contenuti non appropriati al contesto). Nel 1991, Jacques Fontanille, docente di linguistica, pubblica Semiotica delle passioni in cui viene messa a “fuoco” l’esperienza del reporter che, con la sua testimonianza diretta, comunica in prima persona i fatti rendendoli parte della esperienza di chi ascolta: ne consegue che, lo scoop non è la notizia in se ma l’emozione che viene trasmessa. Le foto hanno quindi un grande potere “manipolativo”: il colore o il bianco e nero, la posizione, la grandezza non sono mai lasciate al caso e, come sottolineava
qualcos’altro di assente (la luce rossa del semaforo significa stop). Ogni volta che si mette in pratica o si usa una relazione di significazione si attiva un processo di comunicazione (il semaforo è rosso e quindi arresto l’auto). “Le relazioni di significazione definiscono il sistema che viene ad essere presupposto dai concreti processi di comunicazione” (Enciclopedia). Nel giornalismo esistono due funzioni ben precise: quella dell’emittente e quella del destinatario. Non sempre il significato espresso da chi esprime, in questo caso scrive, viene percepito nel suo vero
anche Barthes, sono tutt’altro che “trasparenti”. Anche in questo caso come nella narrazione l’effetto è riconducibile a precisi dettami semiotici. La fotografia è quindi illusione di realtà, modificata dalla didascalia e dai fattori in precedenza ricordati come ben
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l’attenzione può essere spostata anche da argomentazioni impossibili da ignorare, ma che si vogliono fare passare inosservate ad altre, più gossippiane ma meno pericolose. Ma che significato ha quindi oggi la deontologia del giornalismo? Nessuno si direbbe… la semiotica del giornalismo evidenzia molto bene l’utilizzo dei giornali, delle notizie pilotate, di conclusioni indotte. Tutto questo è aggravato da una non controllata “fonte”, da cui le notizie stesse vengono reperite. Ecco quindi sorgere scuole, corsi e millantati scrittori. Il web in tutto questo si è già ben organizzato importando la semantica dell’etere creando dei motori di ricerca per l’appunto, semantici. Pare quindi un circolo
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significato da chi legge. Per evitare, diciamo così, il rischio che il messaggio arrivi al fruitore modificato esistono, nel giornalismo, tecniche che coinvolgono, oltre all’immagine, tutti i diversi campi di una pagina stampata: dal titolo alla disposizione delle colonne, alla quantità delle stesse, iniziando dai titoli a dal carattere utilizzato. Un fattore determinante, in questi ultimi cinquant’anni è dato dall’avvento della televisione. A seguito della presenza di questo efficace comunicatore di massa”, i giornali sono stati obbligati ad un cambiamento. “La Grande scatola” ha introdotto una immediatezza nel dare la notizia, precedentemente impensabile. La carta stampata si è quindi ritrovata a gestire news ormai old. Ecco quindi l’introduzione dei reportage, dei racconti dei protagonisti, dei riassunti a puntate. I quotidiani si sono trasformati in narratori. Ognuno di essi ha imposto una sua immagine, affine al pubblico che voleva attrarre e si è arrivati alla fidelizzazione del lettore: gli accadimenti “a lungo termine” danno per scontato, nel susseguirsi dei giorni, che il lettore abbia letto, il giorno prima lo stesso giornale, introducendo ad esempio riferimenti ad articoli di altri giornalisti operanti all’interno dello stesso tabloid. La programmazione dei quotidiani è diventata settimanale, come quella televisiva ed anche il linguaggio è mutato: ora veramente Platone potrebbe parlare come Elvis Presley... ed aimè lo fa! Il messaggio è comprensibile al pubbli-
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co e spesso viene preso a prestito da pubblicità televisive famose, titoli di trasmissioni… tutto per ottenere, dal lettore dei collegamenti immediati, intuitivi. Gli argomenti scelti, ed inseriti in ogni singola pagina, mai sono casuali. Spesso si inseguono creando un nascosto filo conduttore tra gli stessi, portando così a conclusioni guidate da giochi di parole o associazioni di idee: in tal modo il giornale non esprime direttamente pareri. Se si esprime un concetto negativo nei confronti di una persona e si inserisce il personaggio in una categoria, tutta questa categoria assumerà la stessa valenza negativa, senza dirlo esplicitamente. Tale “macchia” ritornerà, automaticamente alla mente del lettore ogni qual volta quella categoria verrà citata... Così
vizioso, sempre più ampio e sempre più pericoloso, soprattutto per talune categorie sociali, da sempre, additate, incriminate e coinvolte nei più variegati disfatti della storia. Le parole inducono, le immagini uniscono: ci si è inventata la P3, perché non darle un altro nome? Semplice la P3 richiama la P2, che rimanda a Licio Gelli che era un massone… il gioco è fatto! Allo stesso modo basta paragonare un personaggio ad un riconosciuto massone, per dare al primo le stesse caratteristiche del secondo. Frequentazioni, simpatie artistiche, musicali, creano in un batter d’occhio, collegamenti a riferimenti assolutamente intuitivi. Se poi ci addentriamo nel mondo dei simboli, non servono le parole! Dalì, Salvador Dalì, volendo inventare un esempio, di-
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segnò un celebre mazzo di tarocchi pregno di simbolismo ermetico, guidato dal suo caro amico Eliphas Levi, negli Arcani Maggiori corrispondenze astrologiche si mischiano alle lettere ebraiche. Gli arcani minori, al contrario, prendevano spunto dal mazzo Waite-Smith di Arthur Eduard Waite... esponente della massoneria londinese... Tra i regali particolari custoditi da Licio Gelli, è stata rinvenuta una copia della Bibbia, illustrata da litografie firmate da Dalì... In realtà nulla è stato detto, ma si arriva ad una conclusione... probabilmente errata: ma Dalì era massone?! Trovando notizie molto spesso dissacranti in merito alle Obbedienze di stampo Massonico, il ragionamento di un comune fruitore di “comunicazione” elabora sempre nel medesimo modo.
Leggete quanto segue e... provate ad immaginare: «Il modo di dire: massoneria è assai comune nella lingua italiana, è descritta di seguito la sua origine e significato. Nel linguaggio comune, il termine si impiega a volte per designare un gruppo di persone che, unite da vincoli di interesse, si favoriscono a vicenda attraverso l’esercizio di occulte influenze. Quasi si dicesse: ‘una mafia’, ma senza i connotati più bassamente delinquenziali di quest’ultimo termine. L’associazione massonica, assai potente in passato, aveva carattere (e osservava un rituale) segreto. Nata ufficialmente nel 1772 e diffusasi in molti Paesi, assunse in genere posizioni razionalistiche e anticlericali. Trasse nome e origini dalle corporazioni medievali di liberi muratori (francs-maçons in francese, donde ‘ frammassoni’), i cui
membri si impegnavano a non divulgare i gelosi segreti del mestiere e i riti celebrati durante le riunioni. Si ha notizia anche di logge segrete, non autorizzate (piduista). (http://www.0net.net/frasi_fatte/definizione.asp?termine=369)». Internet ha fatto dei simboli il suo pane quotidiano, spunto per blog dissacranti e dissacratori. Ancora increduli?! Provate a digitare su Google: una stella a cinque punte... e divertitevi! ______________ Bibliografia: M. Dardano, Il linguaggio dei giornali italiani, Roma-Bari, 1986 A.M. Lorusso - P. Violi, Semiotica del testo giornalistico, Giuseppe Laterza U. Eco, Interpretazione e sovra interpretazione U. Eco, Apocalittici e integrati R. Barthes, Miti d’oggi
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Tristano a Venezia: i suoni di un sogno Marco Materassi
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inalmente l’Erard arrivò: fu collocato in mezzo al salone, e ora il miracolo veneziano attendeva d’essere messo in musica, annota Richard Wagner nella sua autobiografia. È il 6 ottobre 1858. Da più di un mese egli è giunto per la prima volta a Venezia, in cerca di una solitudine che lì soltanto gli è resa «così deliziosamente possibile» dopo i «vorticosi travagli» e il sofferto abbandono del «disavventurato Asilo» di Zurigo. L’«Asilo» era la casetta messa a disposizione del musicista dal ricco commerciante Otto Wesendonck sul «Verde Colle» presso la sua villa. Wagner vi aveva passato l’ultimo periodo del suo soggiorno in Svizzera, dove era giunto fuggiasco da Dresda subito dopo i moti rivoluzionari del 1849, cui aveva attivamente partecipato. Condannato per questo all’esilio e ricercato dalla polizia tedesca, aveva trovato rifugio in Svizzera; lontano abbastanza dalla Germania, ma non tanto da perdere i contatti con i sostenitori e gli amici fidati di Weimar, primo fra tutti Franz Liszt che lì riesce a far rappresentare con successo Lohengrin nel 1850. Il periodo zurighese è quello degli scritti teorici wagneriani (fra questi, Arte e Rivoluzione, L’opera d’arte dell’avvenire, Opera e Dramma), della stesura letteraria del Ring des Nibelungen (la Tetralogia), delle avide letture di Schopenhauer e di testi del buddhismo (Wagner abbozza anche il “dramma buddistico” Die Sieger, I vincitori, sul quale tornerà a più riprese fino ai suoi ultimi giorni senza portarlo a compimento); ma sono questi anche gli anni della grande passione,
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sbocciata nel 1854 assieme all’idea di Tristano e Isotta, per la giovane e bella moglie dell’amico Wesendonck, Mathilde. Era stata lei a insistere perché il marito concedesse all’esule il «rifugio di pace e d’amicizia”, perciò da Wagner ribattezzato Asyl, accanto alla loro nuova sontuosa residenza con vista sul lago di Zurigo. La personalità del musicista e il suo mondo poetico esercitavano un fascino magnetico sull’animo della donna, così incline ad accendersi di romantici vagheggiamenti che lui non perdeva occasione di alimentare declamandole a lungo i suoi testi drammatici. Wagner aveva corrisposto all’infatuazione di Mathilde con una passione fatta di emozioni profonde, di pulsioni sensuali e risonanze intellettuali, vissuta in una dimensione sospesa fra reale e visionario dove la figura della donna si sovrappone e confonde con i suoi eroi del momento, Tristano e Isotta: «…i lamenti e le rinunzie/ di Tristan e Isolde/ le loro lacrime e i loro baci/ ai tuoi piedi depongo/ perché esaltino l’angelo che mi portò così in alto», si legge tra i tanti versi appassionati che Richard a lei indirizza. Ma l’idillio non può durare. A richiamare Wagner alla realtà ci pensa la moglie Minna, che con lui condivide i disagi dell’esilio e ora non è disposta a tollerare oltre il rapporto del marito con la giovane signora, fattosi sempre più compromettente dopo il trasferimento al «Verde colle». Alla fine Wagner deve decidersi a lasciare l’Asyl. È l’agosto 1858. Nuova mèta è Venezia, dominio austriaco, quindi fuori della confederazione germanica; anche lì, almeno
per il momento, la giustizia di Sassonia non poteva raggiungerlo. Non sono però unicamente ragioni di prudenza a condurlo al nuovo approdo. Il compositore avverte un forte bisogno di isolamento, di quiete dentro e intorno a sé, per farsi prendere anima e corpo dalle creature drammatiche che stanno nascendo in lui. Verso la tranquillità dolce di Venezia lo sospinge e accompagna il febbrile progetto del Tristan, depositario dell’«eletto e profondo amore» per Mathilde: «Qui sarà compiuto il Tristano! Ad onta di tutto il mondo avverso; e con esso, se mi sarà concesso, ritornerò, per vederti, per consolarti, per renderti felice», promette Wagner alla sua musa ispiratrice in una lettera del 3 settembre, scritta appena giunto in laguna. Il musicista si stabilisce a Palazzo Giustiniani, presso Ca’ Foscari e attende con impazienza che da Zurigo giunga il suo Erard, «strumento stupendo dalla voce soave, che io conquistai quando sapevo che avrei perduto la tua vicinanza», scrive all’amata. E finalmente il pianoforte arriva; il «Cigno nero», come egli lo chiama con affetto. La sua presenza rassicurante risveglia entusiasmi e propositi sopiti nella «cerchia di un melanconico cordiale incanto» che attanaglia Wagner dal momento del suo arrivo, riannoda fili dell’esistenza bruscamente spezzati con la «terribile partenza». Il Cigno era apparso per la prima volta nel maggio precedente, venuto «per ricondurre in patria il povero Lohengrin». Rimpatriata soltanto ideale per l’esule che, immerso nei notturni incanti del Tristan,
forse aveva colto un segno del destino nell’arrivo all’“Asilo” del pianoforte nuovo di zecca, omaggio personale di Madame Erard titolare della celebre fabbrica parigina. Di lì a pochi mesi Wagner avrebbe dovuto lasciare il colle zurighese e il suo Cigno nero. Il lavoro sull’opera, interrotta alla fine del primo atto, poteva riprendere soltanto quando il fido Erard lo avesse raggiunto. Così è: «Lo strumento, che ora è qui - scrive Wagner da Venezia - mi sedusse e mi attrasse di nuovo, interamente, verso la musica... Cominciai così a comporre il II atto del Tristano. La vita, avviluppandosi in una atmosfera di sogno, mi sospinse verso l’esistenza». Quello stato d’animo rivive non solo nel ricordo; si fa presenza fisica nei «suoni meraviglio-
non poterne afferrare il contenuto» (lettera a Mathilde del 9 ottobre). Il pianoforte restituisce, nitida, alla memoria la traccia di un percorso musicale e sentimentale tanto caro all’uomo e al musicista. Wagner ritrova nei wesendonklieder quelli che egli stesso definisce «studi preparatori per il Tristano»: Traüme (Sogni) per il II atto e Im Treibhaus (Nella serra) per il III. Il tutto prende forma di un rituale propiziatorio. Evocata l’immagine di Mathilde attraverso i Fünf Gedichte, il Cigno ancora una volta condurrà Wagner a Tristan: «Ritorno ora al Tristano, per lasciar parlare in esso - per me, a te - la profonda arte musicale del silenzio. Per adesso godo della presente solitudine e riservatezza nelle quali io vivo: in esse raduno le mie forze
a procedere nel mio lavoro frettolosamente. Al contrario: io compongo il Tristano come se durante tutto il restante corso della mia vita, non volessi più lavorare ad altra cosa». Soltanto il 7 dicembre, dopo quasi due mesi, Wagner torna a Tristan.
si» del pianoforte. Il pensiero di Tristan e Mathilde, duplice e inscindibile leitmotiv esistenziale, ora riemerge prepotente dal «mondo dei suoni divenuti visibili», dai profondi silenzi evocatori, dal respiro notturno della «sognante Venezia» che imprimono indelebili segni musicali nella memoria del compositore. Il Cigno è tornato, più seducente che mai. Wagner ne prova le ali. Le prime note a risuonare nel salone di Ca’ Giustiniani sono quelle dei Fünf Gedichte für eine Frauenstimme, i cinque lieder su testo dell’amata Mathilde. Wagner li esegue e ne ricopia accuratamente gli «abbozzi sommari, scritti a matita, e così poco decifrabili da temere io stesso di
vitali, dolorosamente frantumate… resto qui - con lui, il mio eroe Tristano - in questo mondo di sogni divenuto, per me, vivente» (lettera a Mathilde del 12 ottobre). È il “miracolo veneziano” che sta per realizzarsi musicalmente nel II atto dell’opera, l’atto della mistica Notte, della totalizzante Sehnsucht (Morendo bramare, bramando non morire) che si consuma nel liebestod, il canto della morte d’amore intonato da Isotta nel finale d’opera. Il lavoro, però, è subito sospeso. Wagner è sconvolto dalla notizia della scomparsa, in tenera età, del figlio di Mathilde. Scrive all’amica: «Noto che già ora una resistenza fatalistica si vuole opporre al compimento del Tristano; ciò non può tuttavia indurmi
se lo sapessi da tempo a memoria». L’atto è completato il 9 marzo 1859. Due settimane dopo il congedo da Venezia. Le autorità austriache, sotto le pressioni del governo di Sassonia, insistono affinché lo scomodo ospite lasci il loro territorio. Il 25 marzo Wagner è a Milano, da dove raggiungerà Lucerna. Lì, il 6 agosto 1859, il Tristan sarà completato, sempre sul fido “Cigno nero” che lo ha seguito nelle sue peregrinazioni. Mentre sta per lasciare l’Italia, Venezia appare a Wagner «già lontana, città intravveduta in una fiabesca fantasia». Egli annuncia a Mathilde: «Ascolterai, un giorno, un sogno che ho convertito laggiù in suoni».
Biblioteca Per tre giorni è alle prese con il travagliato passo Wen du umfangen, wem du gelacht (Chi tu stringi, cui hai sorriso). La soluzione gli appare, improvvisa, negli accordi di Traüme, uno dei Lieder di Mathilde: «In un attimo il passo che mi angosciava mi è parso chiaro. Mi sono seduto al pianoforte e l’ho trascritto rapidamente, come
P.142: Venezia (foto P.Del Freo); p.143: Il Cigno nero (vd. testo)...
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Canzone perduta
Canzoniere di-vino
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ono nato tra una pozzanghera di vino ed il mare”. Ci incantava così Teodoro Bugari al corso di Sommelier del I livello. Non ho più dimenticato quella frase. Un incipit che nella sua semplicità voleva dire tante cose. Che il vino è natura, che il vino è cultura, che il vino è poesia. Che il vino, in giuste dosi, può aiutare a vivere meglio. Non parlo dell’ebbrezza alcolica, o peggio della ciucca, anche se molti di noi ne hanno fatto esperienza almeno una volta nella vita per gioco, per noia o per disperazione. Parlo di uno stato mentale fluido, aperto, che ti predispone a lasciarti andare. Freud diceva “il superio è solubile in alcool”. Che frase! Parlo del piacere della degustazione. Cioè di quell’arte magica, incarnata dal sacerdote-sommelier che ti permette di amplificare le sensazioni olfattive, visive e gustative e non solo. Certo molti riper-
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Raffaele Mazzei corrono dei luoghi comuni senza ascoltare davvero il sapore o si inventano di tutto. E ne sparano di castronerie. “In questo ros-
il vino è natura, il vino è cultura, il vino è poesia so si percepiscono sentori di fragoline di bosco al tramonto con lievi tracce di cacao del Madagascar…” Lasciamo perdere. Quello è fanatismo, pura razionalità. Però, però con un po’ di tecnica e molti allenamenti si può riuscire a cogliere nel vino, quello fatto bene, tante venature olfattive e cromatiche reali. E da qui godere di un’ evocazione, vera, che ti può trascinare in un antico ricordo o proiettare verso una nuova eccitante avventura. Il connubio tra vino, poesie e canto è stret-
tissimo. Basta pensare al Simposio, quella pratica conviviale dell’antica Grecia che faceva seguito al banchetto durante la quale i commensali bevevano secondo le prescrizioni del simposiarca, intonavano canti e si dedicavano ad intrattenimenti di vario genere: recita di carmi, danze, conversazioni, giochi. Vogliate gradire una prima simbolica libagione, con alcuni sorsi di parole musicali e musicate. Ecco il primo frammento, Sonetto al vino di J.L. Borges: “In quale regno o secolo/e sotto quale tacita congiunzione di astri/ in che giorno segreto/non segnato dal marmo/nacque la fortunata/e singolare idea/di inventare l’allegria?/Con autunni dorati/fu inventata/ ed il vino fluisce rosso/lungo mille generazioni/come il fiume del tempo/e nell’arduo cammino/ci fa dono di musica/di fuoco e di leoni”. E come dimenticare questo passo tratto da Vino, patate e mele rosse di Jo-
anne Harris: Il vino parla. Lo sanno tutti. Guardati in giro. Chiedilo all’indovina all’angolo della strada, all’ospite che non è stato invitato alla festa di nozze, allo scemo del villaggio. Parla. È ventriloquo. Ha un milione di voci. Scioglie la lingua, svela segreti che non avresti mai voluto raccontare, segreti che non sapevi nemmeno di conoscere. Grida, declama, sussurra. Racconta grandi cose, progetti meravigliosi, amori tragici e tradimenti terribili. Ride a crepapelle. Soffoca piano una risata fra sé. Piange per i suoi stessi pensieri. Riporta alla mente estati di molto tempo fa e ricordi che è meglio dimenticare. Ogni bottiglia un soffio di altri tempi, di altri luoghi e ciascuno è un piccolo miracolo, dal più comune Liebfraumilch all’imperioso Veuve Clicquot 1945... Decisamente più esoterico l’approccio del poeta persiano Omar Khayyam: Pien di stupore son io pei venditori di vino, ché quelli/che cosa mai posson comprare migliore di quel ch’han venduto?/Dicono: ci saranno, dopo, il Paradiso e le fanciulle/ Dicono: ci saranno, laggiù, e vino e latte e miele/Che male v’è allora se, qui, ci scegliamo vino e amanti/quando, alla fine di tutto,così sarà ancora? Del grande Sufi Al – Maghribi Mathnawi non si può non citare quasi per intero una sua lirica: Se in questa raccolta di poesie vedrai/taverne, osti e ubriachi/idoli e zunnar, croci e rosari/cristiani, zoroastriani, pagani, brocche e conventi/melodie di liuto e canti d’ubriachi/liquori e osterie, e gli sfaccendati delle bettole/compagni, coppieri, tavole da gioco e fervide preghiere/il dolce suono dell’organo e del flauto il lamento/ il sabuh e le assemblee e coppe di vino una dopo l’altra/… Bada a non imbarazzarti per tutto ciò/ma fatti coraggio e scovane il significato/non t’impigliare nell’aspetto delle espressioni/se
sei tra coloro che san capire quel che indicano!/Purifica il tuo sguardo se vuoi veder la purezza/va via dalla buccia se vuoi vedere il nòcciolo/ se non distogli lo sguardo dagli aspetti esteriori/come potrai diventare un conoscitore di misteri?/Poiché ciascuna di queste parole ha un’anima/e sotto ognuna di esse v’è un mondo…/Tu cerca l’anima loro e passa via dal corpo/lascia perdere il nome e ricerca il nominato/non tralasciare alcun dettaglio/finché diverrai compagno a Verità. Di questi ultimi versi, in particolare
nel passaggio “lascia perdere il nome e ricerca il nominato” come si può non notare la consonanza con le teorie su Significato e Significante del grande Ferdinand de Saussure nato a Ginevra nel 1857: significato è ciò che il segno esprime, il significante è il mezzo, l’immagine acustica utilizzata per esprimere il significato. La parola è un’ascia bipenne ambigua ed ambivalente il cui senso va trovato all’interno di un codice, di un contesto e di una cultura. In un’ autorivelazione iniziatica, in un percorso di
“senso”. Per Platone la scoperta del vino da parte dell’’uomo, rappresenta lo spartiacque tra lo stato di Natura e lo stato di Civiltà. Socrate, suo maestro, considerava l’ebbrezza non un delirio, ma una condizione transitoria che consentiva al nostro essere
Canzone perduta un’apertura autentica e profonda verso se stessi e gli altri. E così è anche nelle canzoni dei moderni filosofi-musicanti, i cantautori. Alziamo i calici e dedichiamo l’ultima libagione alla scoperta di alcuni frammenti delle loro balenanti verità. Meraviglioso, a questo proposito il rimare dell’emiliano-toscano Guccini nella Canzone dei dodici mesi: Non so se tutti hanno capito Ottobre/la tua grande bellezza/nei tini grassi come pance piene/prepari mosto e ebbrezza/Lungo i miei monti, come uccelli tristi/fuggono nubi pazze/lungo i miei monti, colorati in rame/fumano nubi basse. E come dimenticare la Casa di Hilde scritta da Edoardo De Angelis ed interpretata da Francesco De Gregori: Il doganiere ci strinse la mano e se ne andò desolato/e allora Hilde aprì la sua cetra e tirò fuori i diamanti/ E insieme bevemmo del vino ma io solo mezzo bicchiere/Quando fu l’alba lasciammo la casa di Hilde. Potremmo continuare a lungo ma lo spazio editoriale non lo consentirebbe. Suggello dunque la chiusura — mi si perdoni — con l’auto citazione della mia Ancona d’Amare: Questa vita è sempre uguale/come l’onda di una nave/che ti sposta e ti risucchia/fuori e dentro/e ti taglia come un faro/e ti fa sentire solo/il nautofono di notte/è ancestrale/riconosco i nostri errori/sbruzolosi semo fori/ma nel sangue scorre sempre/vino rosso e mare.
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Intervista
Intervista a Valerio Meattini Leo Toscanelli
T
oscanelli – Lei è stato discepolo di Giorgio Colli e di Giovanni Pugliese Carratelli due fra gli studiosi più grandi degli antichi Misteri, del mondo iniziatico antico e addirittura arcaico. È forse per questo che guarda con un particolare occhio alla Massoneria? Meattini – Le risponderò innanzi tutto con le parole di Arturo Reghini. “Senza dubbio la massoneria è ancora oggi una istituzione iniziatica nonostante le alterazioni, le deviazioni e le incomprensioni, ed è unicamente per questo motivo che è oggetto di studio da parte nostra.” Analoghe considerazioni, come Lei sa meglio di me, si trovano in Guenon. Però Lei ha ragione, io ho prestato attenzione alla via iniziatica e alle possibilità di piena realizzazione umana a partire dal mondo antico. Alla Massoneria moderna, come campo di ricerca e di riflessione, mi sono avvicinato partendo
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da lontano e non dalla modernità o dalla contemporaneità. T. – Quale vantaggio crede di aver avuto rispetto a chi invece dalla contemporaneità retrocede fino all’Illuminismo e alla formazione della Massoneria moderna? M. – Guardi, il mio vantaggio – se per caso un vantaggio avessi – consiste nell’aver conosciuto e praticato per anni quei maestri. È una questione di formazione personale e di addestramento ad un modo di vedere non conforme ai miti del progresso e dell’eccellenza di noi ultimi uomini, e non d’informazioni di carattere culturale. Ho avuto la possibilità di vedere all’opera dei maestri che non erano specializzati in un campo di studi – come s’usa dire –, ma che hanno aperto orizzonti di comprensione e di penetrazione della dimensione iniziatica. Non hanno semplicemente aggiustato quel che si sa o si viene scoprendo sull’argo-
mento per comporre un quadro o avere una teoria in proposito, hanno anche e soprattutto avuto un atteggiamento mentale capace di ripercorrere dall’interno le testimonianze e i documenti antichi. T. – Questo giungere alla Massoneria moderna e non retrocedere verso di essa che caratteristiche ha dato alla Sua comprensione? M. – Direi che mi ha permesso di vedere e valutare la dimensione iniziatica massonica in una prospettiva completamente diversa da quella che anche molti suoi adepti sembrano condividere. La dimensione iniziatica e anche la Massoneria preesistono al mondo moderno che ha sviluppato i miti del progresso, dell’uguaglianza e della felicità che ad ogni uomo sarebbe dovuta. Ricordo ancora Reghini: “Non soltanto la massoneria è un’istituzione iniziatica, ma è la sola
istituzione occidentale in cui sopravvivono i misteri tramandatici dall’antichità classica”. Molto spesso invece si pensa alla Massoneria nei termini stessi della modernità; non si sa o non si può vedere altro. Che la via della realizzazione individuale sia progressiva dice soltanto che gli strumenti dell’Arte permetteranno, se ben usati, all’iniziato di proseguire stadio dopo stadio nel progetto di farsi recettore della luce della Grande Opera, ma non significa, né può significare, che quel conseguimento sia alla portata della collettività, o peggio ancora che tutti vi siamo destinati. L’uguaglianza iniziatica si riferisce soltanto – così pare che fosse anche nei Misteri Eleusini – alla sospensione della propria condizione di status sociale, di compiti e d’obblighi della vita profana e all’opportunità data a tutti durante i “sacri riti” di vedere con inaudita e radicale capacità di penetrazione la condizione umana; e quando questo grado di comprensione è raggiunto allora davvero si realizza un’uguaglianza che è ben altra cosa da quella politica e giuridica. Però, non c’è nessuna possibilità di valutare a quale grado di realizzazione si sia, al più si hanno degli indizi. T. – La parola perduta… M. – Certamente! La parola perduta, proprio perché perduta, lascia aperta la ricerca e non permette di coltivare l’illusione di un suo pieno ritrovamento per essere impiegata come un criterio di misurazione. Anche qualora la parola si ritrovasse andrebbe ricomposta e anche qualora fosse ricomposta andrebbe intesa e compresa, ma – posto che a tal alto grado di sviluppo morale, mentale e intellettuale si giungesse – ci accorgeremmo, oso suggerire, che la parola cambia colore e dice cose diverse in ragione del suo essere riferita a vari stadi di sviluppo. Questa parola, la cui cerca illumina e sostiene chi si misuri con tutte le proprie forze col compito di non ripetere modelli di comportamento, schemi di giudizio e di valutazione e di fuoriuscire dal conformismo che per forza di cose la condizione sociale impone, è il fulcro della vita iniziatica; ma è un fulcro che mostra una mercurialità impensata man mano che meglio se ne comprende il senso.
T. – Capisce anche Lei che occorre spiegarsi meglio. M. – Intendo dire che il livello di comprensione che via via si raggiunge nella ricerca investe di sé ogni aspetto della vita come fino allora – prima cioè di quel salto di qualità – l’avevamo intesa, ne cambia così il colore, mi lasci usare questa metafora. Quando si raggiunge un certo grado di realizzazione iniziatica ogni aspetto dell’esistenza entra in quel cono di luce e non lo vediamo e intendiamo più come prima lo intendevamo. La parola perduta non finiamo mai di ritrovarla e, dunque, se abbiamo costanza trasvaluteremo la nostra vita continuamente. T. – E il raccordo con gli antichi? M. – Quanto detto sopra ci permette di capire, ad esempio, il significato di esoterismo e di segretezza che nella prospettiva moderna raramente si comprendono e quasi sempre si avversano. Certi riti e dimensioni di esperienza venivano detti esoterici non perché in linea di principio si volesse escludere qualcuno, o perché vi si celebrassero chissà quali implacabili e perverse ritualità, ma perché richiedevano uno sviluppo intellettuale confacente all’azione e alla simbologia rituali. Bisognava capire, non si poteva semplicemente assistere. Il presupposto è che non si possa bussare a certe porte senza una precisa volontà d’intendere e di trasformare profondamente se stessi. Inoltre, ciò che ha questo potere di trasformare, lo sguardo gettato davvero nelle profondità della vita, non vuole astanti incapaci di comprendere e che travisino e magari irridano perché non capiscono e si difendano da ciò che intellettualmente li supera. Vede, non si ammette facilmente che ci siano dimensioni del capire cui si ha accesso soltanto col duro lavoro e con l’attenzione reiterata. Non si vuol essere esclusi dal regno dell’intelligenza, ma raramente si è disposti al sacrificio che richiede per penetrarvi e allora ci si difende screditando, irridendo ciò che non riusciamo a raggiungere, o riducendone l’importanza, facendone qualcosa alla nostra portata. Gli antichi ci hanno spiegato bene que-
sta dinamica e i pericoli che comporta; perciò la ‘segretezza’, altro spauracchio dell’intelligenza moderna che si strappa le vesti appena la fiuta, non nasce da una volontà di nascondere, ma di preservare certe aperture dell’intelligenza dall’incomprensione e di tutelare colo-
Intervista ro che non sarebbero in grado di capirle da quella meschina difesa (interiormente pericolosa) che certamente metterebbero in atto per non concedere a qualcun altro quel cammino che loro si precludono. Ecco, questo modo di accostarsi alla via iniziatica e dunque anche alla Massoneria non è quello moderno che proclama spavaldamente l’uguaglianza di tutti gli uomini (che, ripeto, deve essere in altra sfera difesa) di fronte ai più profondi inoltramenti nel regno dell’intelligenza iniziatica. Questa uguaglianza non c’è, né ci può essere perché sono le condizioni reali della vita che la negano. T. – Allora come interpreta il ripetuto richiamo della Massoneria ‘moderna’ all’uguaglianza di tutti gli uomini? M. – Quando non è una componente semplicemente culturale della cosiddetta età dei Lumi, quel richiamo lo interpreto come già lo si interpretava prima dell’età moderna. Perché, intendiamoci, non è che le vie iniziatiche precedenti o la stessa Massoneria, prima della sua più recente costituzione negli anni venti del Settecento, non fossero sensibili all’uguaglianza, ma occorre intenderne il senso specifico e non quello semplicemente politico-giuridico. Lo interpreto come un richiamo a specchiarsi in modo radicale nella condizione umana – dove davvero ogni differenza si dissolve – per attingervi la forza di portare le proprie potenzialità al loro più alto grado di sviluppo. Un programma e un intento di vita che nulla ha a che fare, come può vedere, con quel che s’intende comunemente per uguaglianza, perché quel che è in gioco qui è la massima tensione verso ciò che ci è dato di essere. P.146: Affresco a Pompei, Villa dei Misteri.
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immagini e di riferimenti documentali, non trascura l’attualità, con fotografie a colori di alcuni Templi della G.L.D.I. e con
Il repertorio iconografico e dei nomi distintivi di loggia proposto dal volume suggerisce riflessioni nuove sul contributo storico e attuale della massoneria italiana per la pace, il progresso civile e la libertà. Quest’opera suggella mirabilmente il primo triennio di Gran Maestranza del prof. Luigi
l’elenco completo delle Logge e della Camere del Rito operanti sul territorio nazionale e all’estero, suddiviso per Regioni e Province, aggiornato al maggio 2010. Questi Annali come ciclo pittorico medievale, fissano i cinque tempi della Gran Loggia d’Italia, dalla sua fondazione ad oggi: il rifiuto di accettare in Loggia i metalli delle lotte politiche e religiose; la partecipazione alla ricostruzione civile e morale dell’Italia dopo la Grande Guerra; la riorganizzazione all’indomani del regime fascista; l’inserimento nella catena d’unione delle associazioni massoniche liberali; e, infine, la piena affermazione nell’Italia contemporanea. “Questo ciclo – dice il prof. Aldo Mola – è però anche una via crucis, scandita da continue persecuzioni dei massoni da parte di clericali fanatici (altra cosa dai cristiani), socialmassimalisti, Terza internazionale leninista, nazionalfascisti e dai loro emuli, i cattocomunisti e i loro affini. Anche la Gran Loggia d’Italia di Palazzo Vitelleschi subì i morsi della tenaglia rovente di indagini giudiziarie (chiuse per insussistenza dei fatti) e delle calunnie del giornalismo scandalistico, che si finge ignorante per disinformare”. In questi Annali il prof. Luigi Pruneti fa parlare i fatti. In un Paese a “libertà limitata” o “diversamente libero”, decine di migliaia di persone, uomini e donne, chiesero l’iniziazione massonica per sentirsi più liberi. Alla ricerca del dialogo, fieri della scelta, compiuta sulla scia di statisti, artisti, scienziati, e di una miriade di cittadini paghi dell’impegno quotidiano di crescere liberi e fratelli.
Pruneti, triennio che già si connota per la sua apertura verso l’Europa e verso le “minoranze” finora mai considerate in Massoneria: la donna, i giovani, gli artisti. Scorrendo le pagine del libro, si incontrano volti di Fratelli e Sorelle ormai passati all’Oriente Eterno, che da quelle pagine tornano alla memoria di quanti li hanno conosciuti e amati. Gli anni sono raccontati da date “fatidiche” per la storia del nostro Paese e per la storia della nostra Obbedienza: le guerre, il primo uomo sulla luna, una scoperta scientifica, una grande assemblea elettorale, convegni, viaggi dei Gran Maestri, incontri memorabili... E oltre ai volti dei Gran Maestri, di precedenti Gran Maestri Aggiunti, di Fratelli e Sorelle, ecco spuntare volti di personaggi famosi, attori, scienziati, statisti, eroi dei giorni nostri. Tutti massoni, a conferma di uno stato dell’essere che coniuga vivacità intellettuale, intelligenza, valori etici e morali con l’azione, il “fare”, lo sfidare i limiti nella perenne ricerca dell’ “oltre”. Luigi Pruneti è riuscito, con un paziente lavoro di ricerca, a realizzare quello che, in un primo momento, era apparso come un progetto assai ambizioso: scrivere un volume che, anno per anno, mese per mese, momento per momento, elencasse il vissuto dell’Obbedienza. Tutta la documentazione conservata nell’Archivio centrale della Gran Loggia d’Italia, e tutti i possibili fondi regionali e provinciali, nonché quelli privati, sono stati esaminati e vagliati. A ciò è aggiunta una estesa indagine bibliografica. Una ricerca vastissima, che ha abbracciato oltre cento anni di vita. Sviscerarla tutta in modo completo non è stato ancora possibile perché sussistono tuttora dei periodi oscuri per mancanza di documentazione, come ad esempio gli anni fra il 1945 e il 1961, dove le fonti sono rare, disomogenee e contrastanti. Nonostante questi limiti, però, gli Annali costituiscono un’opera mai tentata prima e di sicuro costituiscono un’opera di riferimento imprescindibile per chi desideri approfondire la storia della Massoneria. Il volume contiene anche la cronologia della fondazione delle logge di Piazza del Gesù,
Recensioni
Annali, Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. - 1908-2010 Luigi Pruneti, a cura di Aldo A. Mola Edizioni Giuseppe Laterza, Bari, 2010 pp. 640, rilegato, illustrato, euro 40,00
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l volume, che consta di 640 pagine, è elegantemente rilegato in tela blu con sovrimpressioni in oro con una sovracopertina a colori, opera della Sr. Barbara Nardacci, riproducente in maniera originalissima il Sigillo della Gran Loggia d’Italia. Gli Annali, che si avvale della collaborazione e cura dello storico esperto di Massoneria prof. Aldo Alessandro Mola, è un compendio di storia, fatti, eventi e attualità della nostra Obbedienza, nata nel 1908 a seguito della scissione della Massoneria italiana. Si tratta di un volume prestigioso, che non mancherà di diventare elemento di riferimento per tutti coloro che desiderano approfondire la storia e l’attività della Gran Loggia d’Italia. Preceduto da una interessante prefazione del prof. Mola, il libro riporta in modo puntuale tutti gli eventi più salienti che hanno caratterizzato la storia della nostra Comunione, dal 1908 fino ai giorni nostri. Ricco di
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avendo usufruito di fonti che hanno consentito di esaminare la diffusione dell’ordine in un secolo di vita. Tali fonti sono costituite dai registri di matricola della Serenissima Gran Loggia Nazionale, nonché dal registro generale dei Decreti magistrali, da quello delle Bolle di fondazione delle Logge, dalla rac-
za di Piazza del Gesù Palazzo Vitelleschi. L’edizione italiana dell’opera è a cura di Luigi Danesin – dal 2002 al 2007 Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro della Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. di Piazza del Gesù Palazzo Vitelleschi, a sua volta, Membro d’Onore del Supremo
flussi migratori incontrollabili, riscaldamento globale della terra, incertezza del clima, fabbisogno energetico, terrorismo, nel contesto di una globalizzazione inevitabile, ma spesso ingiusta nei suoi numerosi effetti negativi. 3.- La quinta di copertina, dovuta alla
Recensioni colta della “Rassegna Massonica della Gran Loggia d’Italia” e da Bolle d’importanza storica giacenti presso alcune Delegazioni Magistrali. Probabilmente qualche Officina mancherà all’appello e, forse, qualche titolo distintivo sarà ripetuto. Insomma, potrà esserci qualche discrepanza, ripagata, però, dalla mole di notizie finalmente, e per la prima volta, disponibili. Il corredo iconografico dell’opera, come già detto, è davvero imponente e accoglie anche immagini rare. Non solo: vi sono anche diversi disegni, opera della Sr. Barbara Nardacci, che ritraggono illustri esponenti della Comunione. A completamento, nel libro è inserito anche un albero genealogico di Piazza del Gesù: una realizzazione davvero unica, che potrà forse avere qualche incompletezza ma che ha il pregio di essere la prima mai realizzata a illustrare un percorso di vita, con le tante ramificazioni e riunificazioni succedutesi nel tempo. Chiudendo il volume, nessuno potrà più ignorare i cento anni della Gran Loggia d’Italia. Nessuno potrà più dire: “Non sapevo...”. La Gran Loggia d’Italia di Palazzo Vitelleschi vi è documentata, qual è: vita continua.
La Massoneria in Europa, un’analisi geopolitica
Alain De Keghel, Ed. italiana a cura di Luigi Danesin, Atanòr editrice, 2010, pp. 206 euro 16,00
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- Per i tipi della meritoria Casa editrice Atanòr, nell’anno che volge al termine, è stata pubblicata la traduzione italiana dell’opera «L’Europe des Francs-maÇon en marche», sotto il titolo, estremamente appropriato, «La Massoneria in Europa – Un’analisi geopolitica», di Alain de Keghel, che, oltre ad avere, dal 2002 al 2008, retto il governo del Supremo Consiglio del grande Oriente di Francia, è pure membro d’onore del Supremo Consiglio della Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. Obbedien-
Consiglio del Grande Oriente di Francia – che ne ha scritto pure la «presentazione», a cementare una salda, fraterna Amicizia, oltre a rinverdire l’impegno comune nella affermazione degli ideali massonici. 2.- Il Ven.mo e Pot.mo Fratello Luigi Pruneti, Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro della Gran Loggia d’Italia degli A...L...A...M... di Piazza del Gesù Palazzo Vitelleschi, tramite queste note richieste al loro estensore, ha inteso richiamare l’attenzione del lettore sull’opera, oltre a volerne gratificare l’artefice, dando, cosí, un segnale – forte – di una totale ed incondizionata adesione all’auspicio di una ritrovata unità di intenti e d’azione formulato dall’A., confermando, a questa stregua, l’indirizzo fin qui seguito dalla nostra amata Obbedienza, da sempre impegnata a valorizzare il principio della «differenza nell’unità». Esprimersi con una voce sola, pur nella irrinunciabile propria identità, è, infatti, una necessità che non puó non essere avvertita da chi, come ogni Obbedienza massonica, deve avere a cuore il bene della umanità. Specie oggi che, all’Uomo assetato di Bene e di Verità, si pongono grandi sfide, che, per ricordare solo quelle principali, si chiamano fame per una umanità in crescita demografica esponenziale asimmetrica,
penna sempre felice, oltre che suggestivamente evocatrice, di Barbara de Munari, mette in luce, nei suoi aspetti essenziali, il contenuto dell’opera e del suo valore, sicuramente non comune. Pure perché espressione della vasta esperienza personale acquisita dall’A. in ambito massonico. Chi, tuttavia, ha l’onore di presentare il saggio non puó esimersi dal dovere di darne conto nelle sue linee essenziali e portanti, in un compendio che, avuto riguardo all’importanza rivestita dallo scritto, in termini di assoluta evidenza, non puó essere né sintetico, né superficiale. Da qui la non inutilità di soffermarsi anche sulla stessa architettura dell’opera. Pure per far emergere – da subito – la coerenza di una linea di pensiero argomenta-
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ta con rigore cartesiano, oltre che espressa con quella chiarezza e semplicità che erano proprie di Montaigne, mentore esplicito dell’A. che, di questo Grande, oltre alla «straordinaria modernità anticipatrice» (pag. 44), elogia pure il «coraggio raro e temerario» (pag. 45): dote che, oggi, più che
una cultura europea nuova» (pag. 54), alimentata da quella “libertà di coscienza” che scardina antiche credenze religiose. Le condanne della Chiesa si rinnovano e si susseguono senza pausa. Ciononostante, la Massoneria continua, peró, ugualmente ad approfondire il processo di apertura
A questo generalizzato processo di disgregazione, che pare inevitabile, ha resistito, a lungo, la sola Gran Loggia d’Inghilterra: fortezza, all’apparenza, inespugnabile, come è detto Dio nel più celebre inno luterano. Secondo il Nostro, pure questo mito pare, peró, essere tramontato. Anche nel
verso la società, terminando, nell’ottocento, per identificarsi nel liberalismo, a tal segno che, nonostante le sue incontestabili radici giudaico-cristiane, finisce per diventare l’Istituto più combattuto dai pontefici romani. Dopo un’ampia e dettagliata analisi dello sviluppo, condotto sostanzialmente fino ai giorni nostri, che la Massoneria ha avuto nei diversi Stati europei, presi singolarmente in considerazione, con una vastità di indagine impressionante, oltre che con una ricchezza di notizie e di informazioni che arricchiscono oltremodo il lettore, l’A. conclude sostenendo che «Non è lecito tuttavia affermare che la Massoneria abbia svolto un ruolo davvero decisivo nell’evoluzione dell’assetto europeo, sensibilmente ridefinito soprattutto con l’affermarsi del nazionalismo tedesco e del nazionalismo italiano, entrambi precursori della loro futura unità. Ma essa vi ha innegabilmente contribuito» (pag. 67). Giudizio, codesto, sicuramente equilibrato, al pari di ogni altra valutazione storica proposta dall’A. Che, in materia, offre ampia e apprezzata testimonianza della sua formazione di affermato diplomatico. 6.- La sinossi compiuta, per quanto sommaria, non deve, tuttavia, ingenerare l’opinione che ci si trovi in presenza di un’opera storica e, dunque, da questo angolo prospettico, di natura didattica. Il saggio è sicuramente anche questo. Ma altrettanto sicuramente non solo questo. L’ampia ricostruzione storica compiuta dall’A. è, infatti, strumentale rispetto all’assunto principale sostenuto dal Nostro, a ragione che l’excursus storico offerto, lungi dall’essere fine a se stesso, nell’ottica dell’A., è, invece, propriamente finalizzato alla analisi e, soprattutto, alla denuncia di tutte le discordie che hanno attraversato il corpus massonico negli ultimi trecento anni. In tutto questo periodo, le Obbedienze massoniche hanno, infatti, offerto il triste spettacolo di profondi contrasti, culminati nella nascita di una moltitudine di piccole obbedienze, che hanno finito per frammentare l’essenza stessa dell’ideale massonico.
Regno Unito, tradizionalmente fondato sulla «Trinità Trono/Chiesa/Massoneria», l’Ordine è, infatti, divenuto, da ultimo, in pericolo. Cosí come lo è «un po’ ovunque» (pag. 131). Non solo perché le giovani generazioni si allontanano pericolosamente dalle singole Obbedienze. Con conseguente impossibilità del ricambio nelle Logge, destinate cosí a impoverirsi e, spesso, a inaridirsi. Il che, già ex se, dovrebbe «preoccupare le gerarchie dell’Ordine» (pag. 137). Ma anche perché, a questa generalizzata emorragia, che sembra non conoscere stasi, con la sola eccezione della Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M, sul punto, invece, in controtendenza, non puó non ricollegarsi direttamente quella perdita di credibilità che tutte le controversie in atto fra le Famiglie massoniche – spesso autentiche logomachie – ingenerano in quanti pure sono astrattamente attratti dall’Ordine. Infatti, per nessun messaggio esiste la possibilità di essere ascoltato, e compreso, se chi se ne fa portatore non lo incarna con azioni coerenti alle parole. Il che è tanto più vero per la dottrina massonica. Non puó, infatti, suscitare, né fiducia, né stima, chi, per primo, non è testimone di fratellanza, nonostante l’abbia posta al centro del sacro trinomio, da leggersi, notoriamente, all’incontrario. Non puó, infatti, esservi, né uguaglianza, né libertà, se, prima, non sussista il vincolo della fratellanza. Solo chi è fratello dell’altro è, infatti, uguale e libero. 7.- Una causa concorrente del denunziato degrado è individuata dall’A. nelle «grandi e piccole gelosie, troppo umane» che privano chi, «investito di un mandato temporaneo, non ha né l’indispensabile ampiezza di vedute né l’intelligenza del futuro» (pag. 115), occupato, com’è, a coltivare l’«ebbrezza di un potere illusorio» (pag. 140), manifestato in «scenografiche apparenze di grandi cerimoniali» (pag. 141). Uomini «pusillanimi di apparato che inquinano l’Ordine con le loro bassezze» (pag. 168), per non essere neppure alieni da «intrighi da operetta» (pag. 168 cit.).
Recensioni mai, occorre ritrovare all’Ordine massonico, se non vuole tradire la sua essenza e la sua missione. Com’è suo preciso dovere. 4.- Il saggio è suddiviso in due parti. Nella «prima parte», viene sviluppata la tesi dell’A. alla luce di un excursus storico, rigoroso e puntuale, ancorato com’è alle fonti, delle quali l’A. mostra di possedere una compiuta padronanza. Nella «seconda parte», sono, invece, ricompresi alcuni fra i testi più significativi richiamati nel corpo del saggio. Un elenco aggiornato all’anno 2008 degli «Affiliati effettivi della Massoneria in Europa», per un totale di 677.200, suddivisi nei diversi Stati singolarmente indicati, e la vasta «bibliografia» richiamata dall’A. concludono il saggio sicuramente condotto con rigore scientifico. 5.- I primi quattro capitoli dell’opera in commento, per entrare nello specifico, ripercorrono la storia della Massoneria dai primordi al XX Secolo, con una ricostruzione scrupolosa, accurata e obiettiva. Le origini dell’Ordine vengono fatte discendere da una «indiscutibile ispirazione giudeo – cristiana» (pag. 34). Se è permesso il codicillo, ancor più precisamente, debbono farsi risalire alle logge benedettine, organizzate dai monaci cluniacensi sulla scorta delle interpretazioni allegoriche che i Padri della Chiesa avevano dato del Tempio di Salomone: allegorie, in seguito, riprese dallo storico inglese Beda, soprannominato il Venerabile (673-735 d.C.), nell’opera De Templo Salomonis liber, scritto in Inghilterra nell’ottavo secolo, che, sebbene curiosamente ignorato dalla maggioranza dei massoni moderni, è, invece, un testo fondamentale, perché contiene quasi tutta la «base simbolica», sulla quale poggia la dottrina massonica. Gli eventi successivi sono noti. Da figlia naturale del protestantesimo, la Massoneria, nel secolo dei lumi, diventa un faro che brilla nel cuore del malessere e dello sconforto prodotti dai grandi mutamenti sociali. Il «concetto di fratellanza universale» diventa, cosí, «l’elemento creatore di
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Uomini, per certo, che non hanno abbandonato «i metalli» fuori dal Tempio, come non sarà inutile aggiungere. Dove il giudizio è sicuramente duro e severo, ma, difficilmente, non condivisibile. 8.- Anche a causa di queste ingovernate crescite di egoismo e di praticata intol-
bediscono alle norme della “regolarità”, da essa stessa poste, salvo il fatto che le logge femminili «… iniziano le donne, ció che è in evidente contrasto con un Landmark» (pag. 131)! Mentre – osserva l’A. – le Obbedienze «che praticano la mixitè … sembrano (…) decisamente … troppo lontane
zionarie”, ora “conservatrici”, ora “liberali”, ora “progressiste”, ora “d’avanguardia”. Dove ciascuna di quelle valutazioni riflette, all’evidenza, l’incapacità di considerare obiettivamente le proposte altrui, in quanto vissute come mera opposizione, anziché come possibilità di arricchimento offerta
Recensioni leranza in aperto spregio della dottrina massonica, sono poi le singole Istituzioni che finiscono per impoverirsi in una molteplicità di reciproche contrapposizioni che rinvengono la loro ragion d’essere nella falsa credenza che solo il proprio punto di vista sarebbe quello legittimo. In questo contesto di profonda divisione, il quadro risulta poi ulteriormente divaricato dall’atteggiamento della Gran Loggia d’Inghilterra. Che, in forza della sua priorità storica, si arroga il diritto di giudicare le diverse Obbedienze, attribuendo il riconoscimento di «regolarità», o di «irregolarità», secondo «criteri (…) inventati di sana pianta» (pag. 163), a ragione che «nessun testo fondatore ha mai menzionato» (pag. 163 cit.) la “regolarità”. Anche se, strumentalmente, la massoneria anglosassone l’ha poi fatta discendere dai Landmarks. Quando, all’opposto, come acutamente osserva il Nostro, la “regolarità” è stata, invece, soltanto uno strumento «diplomatico terribilmente efficace» per permettere, alla Gran Loggia d’Inghilterra, di «installare e consolidare il dominio assoluto sul proprio impero» (pag. 162). Strumento che la massoneria inglese impiega, non a caso, in termini restrittivi, avendo posto a fondamento della propria politica espansionistica il principio che, in un determinato Paese, puó beneficiare di quello statuto una sola Obbedienza. Il che è, quanto meno, curioso perché una tale condizione non ha alcun rapporto con l’iniziazione massonica, «nozione peraltro inesistente nella Massoneria anglosassone» (pag. 162). In assenza di principi, che si guarda bene anche soltanto sommariamente di indicare, all’ovvio fine di continuare a mantenere fermo e inalterato il proprio potere, la Gran Loggia d’Inghilterra continua, cosí, a baloccarsi distinguendo fra “Obbedienze regolari riconosciute” e “Obbedienze regolari non riconosciute”, dando spazio, «con grandissima sorpresa», non solo dell’A., alle Gran Logge femminili, che ob-
dalla galassia “regolare” per poter sperare in un qualche ravvicinamento» (pag. 132) alla Gran Loggia d’Inghilterra. In ogni caso, a tenere separate anche quelle Obbedienze, che non guardano alla Gran Loggia d’Inghilterra come una sorte di vangelo massonico, rimangono molti punti e tutti, in verità, non di poco conto. Cosí, da taluni si dice che è obbligatorio avere in Loggia una Bibbia, mentre altri, preoccupati dalla esclusione che quella scelta inevitabilmente comporta, sostengono, all’opposto, che, sull’Ara, deve essere posto soltanto il libro sacro del luogo, o, ancor più in generale, un libro bianco, nel quale ciascuno puó leggere il proprio Sacro. Per alcune Obbedienze il richiamo al G.A.D.U. è principio saldo ed inconcusso. Per altre, invece, come avviene nel Grande Oriente di Francia, il riconoscimento di un Essere supremo è categoricamente escluso, al pari della immortalità dell’anima, per non precludere l’ingresso nelle Logge a quanti non hanno quelle credenze. Nell’ottica della «non esclusione» previlegiata da talune Obbedienze, come è per Palazzo Vitelleschi, si riconosce l’iniziazione femminile. Anche perché sembra definitivamente cessata la società androcentrica. Secondo altri (cosí, ad esempio, in Italia, il G.O.I.), alle donne non dovrebbe, invece, essere consentito l’ingresso in Massoneria, perché quella massonica è una iniziazione solare ed eroica. Dove l’elenco, in termini di tutta evidenza, è tutt’altro che esaustivo, ma solo indicativo, dovendosi aggiungere, per onestà intellettuale, che le stesse Obbedienze liberali, che si autodefiniscono a-dogmatiche, finiscono, poi, anch’esse per non essere esenti da critica, perché, come ammaestra l’A., affermare che non si è dogmatici si risolve, a sua volta, pur sempre, in un dogma. In queste «liti tanto arcaiche quanto astruse» (pagg. 167-168), le contrapposizioni sono stigmatizzate da aggettivi che qualificano le Obbedienze, via via, come, ora “rea-
in spirito fraterno. 9.- A fronte di una lacerazione del corpus massonico cosí vista, oltre che cosí risalente nel tempo, l’A. si chiede se non sia ormai già giunto il tempo di impiegare altrimenti, e con più costrutto, tutte le energie fin qui spese per dividersi, per porle, invece, al servizio di «buone e numerose cause» (pag. 168), accettando la sfida dalla Storia posta a quanti sono ancora disposti ad assumersi la responsabilità morale di compiere uno sforzo, duro e concreto, per migliorare la Società, quale quella odierna, connotata da relazioni fragili, conflittuali, oltre che di tipo consumistico. Nel che è poi sempre consistito l’impegno e la finalità propria della Istituzione massonica. All’interrogativo, l’A. offre una argomentata risposta positiva, indicando, nel contempo, gli strumenti realizzativi del progetto divisato. Oltre, allo stato, con apprezzato realismo, pure i suoi limiti, considerato che, a quello proposto, deve essere riconosciuta la natura di work in progress. 10.- L’A., oggettivamente, riconosce che il dialogo interobbedenziale ispirato ad un ideale universalista è in atto da lungo tempo. La “Carta di Losanna” persiste, infatti, ad essere «una mitica pietra miliare cui numerosi massoni e potenze massoniche continuano a fare riferimento» (pag. 119). Né viene taciuta l’importanza dell’appello di Strasburgo da parte del CLIPSAS risalente al 1961 e la successiva dichiarazione sottoscritta dagli Alti gradi scozzesi sedenti a Ginevra il 7 maggio del 2005 E.V, documenti nei quali, com’è noto, viene affermata e ribadita la necessità di «ricostruire fra tutti i Fratelli massoni la Catena d’Unione spezzata da spiacevoli esclusivismi, contrari ai principi delle Costituzioni di Anderson, del 1723» (cosí, alla lettera, l’appello di Strasburgo). Un rilievo particolarmente significativo viene poi riserbato dall’A. alla S.EU.R.E., fondata nel 2007, a Bruxelles. Non solo perché aperta a tutti i massoni, indipendentemente dalle Obbedienze, alle qua-
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li appartengono. Ma anche, e soprattutto, perché codesta Organizzazione puó, «per la prima volta» onorarsi «di essere stata associata a progetti concreti della Commissione Europea» (pag. 148). Il che è certamente di ottimo auspicio per un ingresso nel sociale degli ideali massonici.
Su ciascuno dei quali strumenti conviene ora soffermarsi, avuto riguardo alla straordinaria importanza che rivestono nell’ottica realizzativa del progetto operativo proposto. 11.- Sull’«ascolto», è opportuno approfondire il pensiero dell’A. con alcune conside-
la, quanto, invece, fortissimamente volerla «grazie al consenso», anziché «attraverso l’autorità di una Gran Loggia» (pag. 117). 14.- A ponderato giudizio dell’A., solo attraverso la via tracciata sarà poi possibile la reductio ad unum della «polifonia delle opzioni delle differenti correnti masso-
razioni marginali, ma non inutili. Se non siamo in grado di misurare la lontananza che ci separa, non potremo, con tutta evidenza, neppure cominciare ad avvicinarci. Da qui la necessità di accostare l’altro con la intenzionalità – volontà di ascoltarlo. Il che equivale a manifestare il desiderio di entrare nel suo universo e di ospitarlo nel nostro, senza, peraltro, abdicare al leale dissenso, perché la parola – sembra ammonire l’A. – prima di essere un rischio, è responsabilità. Aprirsi all’altro significa, ancora e soprattutto, non escludere a priori che, nell’altro, possa esistere anche una sapienza spirituale ed umana. Il che implica «rompere il cerchio della eterna intolleranza dogmatica e dottrinale, che non risparmia», ancor oggi, «le Istituzioni» (pag. 138) relegate in angusti, asfittici, cortili. Non possiamo, del resto, essere disponibili all’ascolto solo se ció avviene secondo i nostri schemi. 12.- Nell’«agorà» – qui richiamata perché è l’immagine, per eccellenza, dove si situano i confronti – le relazioni sono, per definizione, orizzontali, discorsive e dialogiche. Dove c’è l’uomo, ivi c’è, infatti, confronto e diversità, perché nessuno puó essere se stesso senza l’altro. In difetto, non potrebbero esserci, né la vita della singola Obbedienza, né la Storia. In questo contesto, assume, perció, valore centrale e decisivo il dia – logo, privato, peró, ci permettiamo di aggiungerlo, della carica di contrasto che, nella bella lingua greca, ha la preposizione. La contrapposizione di idee non puó, infatti, mai essere disgiunta da quella fraternità che spinge all’unione. Per essere proficuo, ricorda, infine, l’A., il dialogo deve essere «paziente», in quanto il confronto «esige tempo» e «psicologia» (pag. 141). 13.- Quanto alla «negoziazione intelligente» (pag. 141 cit.), questa deve essere condotta con ostinata perseveranza e diligente tenacia. Ricomporre fraternamente l’unità, non è, infatti, sognarla, né concepirla, né sperar-
niche», indispensabile presupposto perché la proposta avanzata possa poi realizzarsi in «uno spazio di espressione che le permetta di apportare, al pari di altri correnti di pensiero o di credenze, un contributo costruttivo ad una Società contemporanea in cerca di significato» (pag. 141). Pensare insieme gli stessi problemi, per poi affrontarli ancora insieme; uscire dalle logiche particolaristiche e dagli atteggiamenti di rivincita, di forza e di superiorità, solo allora l’Ordine massonico si sarà riappropriato del proprio ruolo originario e, «allora e solo allora», la «geopolitica massonica potrà ritenere di avere risposto alle speranze che i fondatori dell’Ordine avevano formulato e idealizzato circa trecento anni fa» (pag. 141). Compito arduo, ma affascinante, per chi voglia raccogliere l’invito a farsi carico del senso di responsabilità implicato. Nel contempo, opinione altissima della Massoneria e della sua finalità, dalla stessa inscindibile, in quanto, alla medesima, consustanziale. Concezione sicuramente condivisibile. Non solo per il respiro della profonda fede, che la anima. Ma pure perché una veduta cosí vasta e nobile non puó non essere che l’espressione più eloquente e tangibile di quello che Kant definiva come un «pensiero allargato» (cosí in Critica del giudizio, par. 40). 15.- Lascia intendere l’A. che, per poter addivenire alla conquista dello spazio circoscritto dall’orizzonte universalistico, occorre oltrepassare la cornice dei Landmarks. Si parva licet, osiamo rispettosamente dissentire, perché, a nostro sommesso giudizio, anziché abbandonare il concetto dei confini invalicabili della essenza massonica, è, invece, sicuramente molto più utile e proficuo conservare quei valori, con l’accortezza, peró, di storicizzarli. Quanto dire, altrimenti, che la difficoltà posta da quelle pietre miliari si supera facendo ricorso ad una loro interpretazione evolutiva, esattamente come deve essere per la Tradizione, che, come ho sostenuto altro-
Recensioni Né difettano i riferimenti ad altre importanti iniziative, fra le quali viene riconosciuto particolare valore al «primo incontro euro-mediterraneo delle giurisdizioni scozzesi tenuto a Torino il 31 maggio 2008 sotto la presidenza del Supremo Consiglio della Gran Loggia d’Italia e del suo Gran Commendatore, Luigi Pruneti» (pag. 147), a giudizio dell’A. oltremodo significativo, per avere impresso «un deciso impulso ad una nuova dinamica geopolitica, che comprende nello specifico i rapporti fra Ordine e Islam» (pag. 147 cit.). Ottica nella quale si situa pure l’Unione massonica mediterranea, fortemente voluta, con lungimiranza, dal nostro compianto Gran Maestro, Franco Franchi, tenacemente consolidata dal Sovrano in carica. Nel tentativo di ricostruire la Catena d’Unione vengono dal Nostro ricordati anche i «trattati di amicizia e cooperazione». Pur sempre auspicabili. Nonostante la loro circoscritta valenza, per loro intrinseca natura, ancorati, come sono, alle sole Obbedienze che li sottoscrivono: due o, poco più, di due. Le caute speranze di rinnovamento e di apertura nate da tutte queste iniziative, secondo l’A., si sono, comunque, rivelate largamente insufficienti. Da qui la rimarcata necessità di orientarsi verso una soluzione più esigente, non lasciata, tuttavia, nel vago, perché, sul punto, l’A. fornisce una precisa indicazione. Secondo de Keghel – ed è questo l’assunto principale dell’A. – «Si tratta piuttosto di trovare insieme lo spazio filosofico, spirituale e intellettuale, nel quale i valori fondamentali dell’Ordine possano trovare (o ritrovare) le condizioni più favorevoli alla loro libera espressione, in una società che ha bisogno di chiunque possa donarle anche solo una piccolissima parte di senso e di significato» (pag. 138). Gli strumenti necessari per rendere attuativa codesta proposta vengono, poi, individuati, nell’«ascolto», nel «dialogo» e, infine, nella «negoziazione intelligente».
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ve, non coincide affatto con l’accettazione supina dei valori passati. La Tradizione, in quanto sistema aperto, volto com’è alla totalità, per sua intrinseca natura, è infatti nozione pronta – ed aperta – ad accogliere nel suo seno ogni frammento di verità da qualunque fonte provenga.
to dalla carica ricoperta. 17.- Quando la verità viene concepita come un possesso esclusivo, come una conquista da difendere e come un bene da imporre agli altri, si innesca, fatalmente, l’ostilità. Sulle macerie lasciate dal fallimento di
tro, non già le Obbedienze, ma l’Ordine massonico nel mondo, perché dilatare il respiro fino ad abbracciare il mondo intero – in ció risolvendosi l’universalismo nell’ottica dell’A. – costituisce l’autentica cifra di ció che la vera Massoneria incarna. 18.- Sia consentito dirlo con chiarezza. Ap-
Recensioni Sicchè, come ognuno vive la rivoluzione nella propria Tradizione, cosí ogni era conosce i propri Landmarks che, a ponderato giudizio di chi scrive, non debbono, pertanto, essere, né elencati, né circoscritti, proprio per permettere quella loro interpretazione evolutiva che la Storia, di volta in volta, suggerisce, arricchendoli, cosí, di nuovi contenuti. E’ in quest’ottica, ad esempio, che rimane completamente assorbita la questione della iniziazione femminile, fonte, invece, di una inammissibile discriminazione da parte di chi pure incredibilmente continua a propugnare le virtù dell’uguaglianza, della tolleranza e dell’umanesimo. 16.- Non sfugge, infine, all’A. che la visione proposta dell’Ordine in un orizzonte universalistico «possa apparire ad alcuni come pura utopia» (pag. 147). Nel contempo, avverte, peró, il Nostro che, in assenza dello sforzo ingiunto, finirebbe per essere «messa in discussione» la «finalità e l’esistenza, cosí come la legittimità dell’Ordine» (pag. 147 cit.). Concetto, sul quale l’A. correttamente insiste, facendo presente che, in assenza dell’impegno richiesto, «dovremmo veramente temere che sia scoccata l’ora del declino, come alcuni amano già farci credere, arrendendosi» (pag. 169). Giudizio, difficile, se non addirittura impossibile, da contraddire. Anche perché la pur prefigurata utopia non puó neppure minimamente allarmare. Nel concetto di utopia, oltre al progetto, è, infatti, pure insito l’impegno a realizzarlo. Sicchè, semmai, finisce piuttosto per preoccupare proprio quest’ultimo profilo, a motivo che rendere attuativa la via proposta dall’A. richiede la presenza di Fratelli realmente forgiati da quell’autentico processo di trasmutazione, nel quale si risolve l’«iniziazione». In ogni caso, per dirla con quel grande Iniziato che fu Virgilio, hic opus, hic labor est e nessuno, fra quanti hanno responsabilità apicali, puó sottrarsi al dovere implica-
questo atteggiamento, l’A. risveglia il bisogno – assoluto – di immergersi totalmente in una prospettiva completamente nuova. La proposta coincide con il riconoscimento del primato dell’azione. Non, tuttavia, dell’azione cieca, bensí dell’azione preceduta dal progetto, perché il fare, realmente costruttivo, deve essere sempre preceduto dal pensare. La chiamata – forte ed autorevole – al senso di responsabilità si
profondendo l’analisi di questo saggio, abbiamo avuto l’impressione di immergerci – per chiosare Tennyson – nell’alba di un giorno più vasto. Più che raccomandarne la lettura, è, perció, doveroso intimarla ed ingiungerla. (Antonio Binni)
La saggezza dei miti
Luc Ferry, Garzanti, 2010, pp. 378, euro 1800
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innerva, cosí, nel tempo assegnatoci dalla Storia, con tutte le sue difficoltà: un appuntamento che non puó essere mancato (pag. 169). Anche perché premono altri mondi sconfinati, che si chiamano Africa, Asia, America Latina. Da qui la necessità di fare ricorso pure alla fantasia e alla immaginazione capace di prefigurarsi un «futuro necessariamente diverso da quello che i nostri antenati, e noi stessi, abbiamo appreso, nel piccolo universo ristretto, all’interno di quella fraterna convivialità che abbiamo conosciuto e conosciamo» (pag. 169). In quest’ottica, ogni particolarismo è negletto, risultando previlegiata una visione totalizzante che pone al cen-
- A due anni di distanza dalla sua pubblicazione in Francia, «La sagesse des mythes», per i tipi della Garzanti, ha visto la luce anche in Italia in una pregevole traduzione che ne ha conservato il titolo originale, preceduto e seguito, rispettivamente, dalle espressioni «Imparare a vivere» e «Le radici della nostra cultura, una lezione sempre attuale». Il volume – che nella prima di copertina è illustrato dal quadro del Pollaiolo «Ercole e L’idra», che, nell’originale, puó ammirarsi alla Galleria degli Uffizi di Firenze – è opera di Luc Ferry, docente di filosofia presso l’Università Parigi VI – Jussieu, già Ministro della Gioventù, dell’Educazione nazionale e della Ricerca nel governo Raffarin, autore di numerosi saggi, molti dei quali sono stati pubblicati anche in Italia, sempre a cura della Garzanti. Il libro, suddiviso in sei capitoli, con una conclusione dedicata al rapporto fra mitologia e filosofia, è corredato da un lungo apparato di “note” con richiami pertinenti, oltre che alle fonti della mitologia presa in esame, pure alle numerose opere utilizzate dall’A. per dare corpo e sostanza al testo, tutte particolarmente interessanti ed utili per un completo, severo, percorso di studi. Il volume è conchiuso dall’«Indice dei nomi». Il libro è dedicato «a tutti i genitori intenzionati a fare un vero regalo ai propri figli» (pag. 44), che – ammaestra l’A. – «bisogna» aiutare per permettere loro di «previlegiare la logica dell’essere a quella dell’avere» (ivi). Senza che la dedica, a giudizio dell’A., possa creare il benchè minimo imbarazzo, a ragione che «la mitologia è una lettura per
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tutte le età» (pag. 42), ben potendo appassionare, oltre agli adulti e agli adolescenti, pure i più piccini. Secondo il Nostro, non è, infatti, un caso che il compianto Jean Pierre Vernant abbia scritto per suo nipote il libro: «L’universo, gli dei, gli uomini» (pubblicato in Italia dalla Einaudi nel 2005). L’opera me-
di essi. Non solo perché sono quelli più cari a chi scrive. Ma anche, e soprattutto, perché – ció che maggiormente rileva – sono le figure della mitologia greca che meglio si inquadrano nella contrapposizione ordine/ caos che, come si dirà subito dopo, è l’asse portante della ricostruzione del mito propo-
surdo ridurla a una semplice morale» (pag. 350) – introduce alla «vita buona». Che è, appunto, salvezza senza ricorso «alla fede» o a «un essere supremo», ma pura conquista solitaria, che si ottiene unicamente come frutto del proprio impegno personale, rivolto a quella «armonia» che si raggiunge solo
sta dall’A. 3.- Il motivo conduttore dell’ampio saggio è dato dalla ricerca dell’oggettivo significato dei miti greci. La riflessione dell’A. muove dal loro sistematico travisamento compiuto dai moderni, che, a seconda della forma, con la quale si manifestano, li leggono ora come altrettante storie raccolte nelle collane «racconti e leggende», ora come poesia, ora, invece, come testi di politica o di sociologia, ora rifacendosi agli schemi propri della psicanalisi. Che, secondo il Nostro, sebbene rifletta il tipo di ermeneusi allo stato largamente prevalente, rimane, tuttavia, ancora largamente insufficiente a cogliere il reale fondamento del mito che secondo Ferry – ed è questo l’assunto sostenuto – coincide, invece, con la «saggezza antica». Quella «saggezza antica» che insegna ad affrontare la «finitezza dell’uomo» senza nutrirsi «delle consolazioni» che le religioni pretendono di fornire agli umani facendo ricorso alla fede, fondamento di una «spiritualità laica» – altrimenti definita dall’A. come «saggezza per i mortali» (pag. 24) – in quanto salva dalle paure, prima fra tutte, quella della morte. Tentativo «grandioso» – secondo l’A. – perché questo insegnamento «mira a rispondere» alla «questione della vita buona» (pag. 22), in termini, appunto, assolutamente laici, in quanto non prevede il ricorso, né alle illusioni dell’aldilà, né a un «essere supremo». La «saggezza antica» – sempre secondo il Nostro – fornirà poi alla filosofia la base stessa del suo futuro sviluppo. Infatti, secondo Ferry, la filosofia non farà altro che tradurre in termini concettuali e argomentativi l’inestimabile lezione di saggezza contenuta nei singoli miti, che, ciascuno a modo suo, offrono magistrali lezioni di vita. In questo senso, la mitologia, secondo l’A., è la preistoria della filosofia, che è anch’essa «spiritualità laica» (pag. 350), in quanto mira a far conseguire a chi la pratica quella serenità che è la «sola condizione della salvezza, intesa come ció che ci salva dall’angoscia della morte implicita nella nostra condizione umana» (pag. 351). Come la saggezza antica, infatti, anche la filosofia – che «è as-
quando si è in accordo con il cosmo. 4.- Il mondo, nel mito greco, emerge, faticosamente, dal caos, «gigantesco precipizio», dove tutto «è confuso» e «disordinato», oltre che nella «oscurità più totale» (pag. 47), frutto di una progressiva trasformazione di elementi preesistenti che, molto da vicino, ricorda l’evoluzione quale sostenuta da Darwin. Il parto è travagliato perché le forze del caos riemergono perennemente. Spesso avendo anche la prevalenza. La nascita si prolunga in una lunga storia che vede, perfino, gli dei in lotta fra loro. Quando Zeus – anch’egli nato in una grotta! – prende il comando dell’Olimpo, si industria di mettere ordine laddove esistono ancora potenti forze disgreganti. Quale prima modalità organizzativa, dunque, crea le stagioni che, alla luce del mito di Demetra, segnano un’alternanza di morte/vita «con un ritmo, che corrisponde a ció che avviene sopra e sotto, in superficie e sottoterra». Perché «non c’è vita senza morte, né morte senza vita» (pag. 220). Con le stagioni, nasce il tempo, che scandisce ogni esistenza. Ma l’equilibrio del cosmo è perennemente in bilico, perché le forze del caos riemergono perennemente, quanto inesorabilmente. La missione principale degli eroi è quella di salvaguardare il cosmo contro il ritorno del caos, minacciato dal risorgere, sempre possibile, delle antiche forze del disordine. Per questo la loro missione è divina, in quanto pugnano in nome di Dike (pag. 223 e ss.). Garantire l’ordine è, comunque, il compito principale di Zeus, che lo assolve con rigore, ma sempre con fatica, perché, implacabilmente, si fronteggiano forze fra loro opposte. La lotta è – e rimarrà – grandiosa e incessante. Incessante, perché non c’è stabilità, ma solo provvisorietà negli stadi via via assicurati dalla mano del reggitore delle sorti. Grandiosa, perché la costante contrapposizione fra ordine e disordine mette in campo forze primordiali, decise a sopraffarsi in una lotta senza esclusione di colpi. Ma, alla fine, ammonisce il mito che l’ordine è destinato a prevalere, perché l’ordine coincide con Dike, intesa come giusta spar-
Recensioni rita sicuramente di essere segnalata, perché trattasi di uno studio oltremodo accurato e completo, condotto con assoluta fedeltà alle fonti originali – talora pure ritrascritte – lette nella loro specificità, senza che risultino neppure tralasciate le «varianti» di ciascun singolo mito, ogniqualvolta ció risulti utile e interessante. 2.- I miti, ricostruiti con rigore singulatim, risultano dall’A. ordinati – verbo, come si comprenderà funditus dal prosieguo di questo scritto, scelto dal recensore non accidentalmente – secondo cinque direttrici, che, nell’ottica del Nostro, corrispondono ad altrettante domande fondamentali. Il primo interrogativo attiene alla origine del mondo e degli uomini. Il secondo, al posto assegnato agli umani nel mondo. Il terzo, alla dismisura (hybris) di esistenze scelte e vissute in piena ostilità all’ordine cosmico. Il quarto, alla funzione degli eroi chiamati a lottare contro le forze del caos, che rinascono continuamente, affinchè l’ordine prevalga sul disordine. Il quinto, al dolore innocente. Le risposte date comprovano la saggezza celata dai miti, che coincide con la vita vissuta in armonia con l’ordine cosmico. La vastità dell’opera, in tutti i suoi molteplici sviluppi, rende inopportuno darne conto in termini analitici. Ad altrimenti contenersi, si incorrerebbe, infatti, nel rischio di appesantire questo scritto fino all’eccesso. Per questo motivo ci si limiterà a ricostruire i lineamenti essenziali fondanti e fondativi di una linea di pensiero assolutamente originale, sempre persuasivamente argomentata, pur con la consapevolezza, da parte del recensore, che la sintesi proposta è oltremodo riduttiva della ricchezza del materiale trattato dall’A. Gli spunti ricostruttivi offerti – quod est in votis – sono comunque finalizzati a creare curiosità e incentivo ad una lettura sicuramente proficua. Particolarmente per quanti, laicamente, aspirano alla conquista della saggezza. Ci si vorrà, infine, scusare se, nella innumerevole costellazione dei personaggi, che popolano la mitologia greca, ci limiteremo a concentrare la nostra attenzione unicamente su tre
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tizione delle cose. Nel che – ecco la saggezza del mito – è racchiusa «una bella lezione di vita: solo un ordine giusto puó durare», per essere «l’ingiustizia», per sua intrinseca natura, «sempre e solo provvisoria» (pag. 77 cit.). In questa lotta incessante fra caos e cosmo – che è la denominazione greca dell’or-
costituisce un rischio atto a turbare l’ordine cosmico creato da Zeus a fatica, assegnando, a ciascuno, il giusto posto che gli spetta, dando, come più tardi dirà il diritto romano, «a ciascuno il suo» (uniquique suum). Nel che l’A. ravvisa la saggezza e l’attualità del mito scrivendo: «La mitologia greca
punizione e che, cionondimeno, hanno, tuttavia, ugualmente devastata la vita. L’esempio paradigmatico di sanzione inflitta ad un innocente nella mitologia greca è costituito da Edipo che, secondo la concezione moderna della giustizia, non è sicuramente «colpevole». Edipo, con ogni eviden-
Recensioni dine – si inserisce, ovviamente, anche il tema dell’esistenza degli umani. La «vita», sebbene minata alla sua radice dal disordine, entra, cosí, a pieno titolo, nell’ordine, per diventare «vita buona» e «vita giusta», ogniqualvolta sa armonizzarsi a quell’equilibrio eterno che, per un miracolo imperscrutabile, fa nascere lo stesso giorno le gemme sugli alberi, o, con un richiamo altrettanto misterioso, induce le rondini a lasciare un continente per un altro. 5.- In tutte le cosmogonie esiste il mito della «caduta» da uno stato di innocenza ad uno stato di degrado, imputata ad una «colpa altrui», fonte per tutte le generazioni successive di funeste calamità, che si denominano malattie, vecchiaia, morte. Da qui l’inquietante interrogativo del perché gli umani debbono essere puniti per un crimine che non hanno commesso. La Bibbia spiega questa «caduta» fuori da un «paradiso» ormai perduto come la conseguenza di un atto originario libero della prima coppia umana. Il che, laicamente, costituisce pur sempre una risposta chiarificatrice all’interrogativo (cosí Albert Gőrres, La psicologia, il peccato originale e le sue conseguenze, a pag. 10 del volumetto collettaneo Tutta colpa loro? – Edizioni Studio Domenicano – Bologna, 2008, nel quale, peraltro, viene, con forza, riaffermato il valore della dottrina cattolica del peccato originale con contributi significativi di R. Spaemann, Alcuni problemi riguardanti la dottrina del peccato originale e di C. Schőnborn, Brevi cenni sulla dottrina della Chiesa riguardo al peccato originale). All’interrogativo, nella mitologia greca, risponde, invece, direttamente il mito di Prometeo, punito, innanzitutto, per essersi comportato come un ladro, entrando nel laboratorio di Efesto e Atena. In secondo luogo – e, verrebbe fatto di aggiungere, in principalità – perché, offrendo agli uomini il fuoco di Efesto e le arti tecniche di Atena, ha donato agli umani la capacità creativa propria degli dei. Da qui il perpetuarsi della punizione in tutte le susseguenti generazioni, perché quella capacità
mette qui in scena con una lucidità e una profondità impressionanti la definizione, del tutto moderna, di una specie umana le cui doti di libertà e creatività sono fondamentalmente antinaturali e anticosmiche» (pag. 145). Ammonimento prezioso in un’epoca nella quale la tecnica tutto osa all’insegna della hýbris, capace di sfidare gli dei e sconvolgere, o perfino distruggere, la natura con una ferita che potrebbe essere sanzionata con una pena ancora maggiore di quelle inflitte a Prometeo, costituita dalla stessa distruzione della intera umanità. Come, ancora una volta, ammaestra il castigo costituito dal diluvio universale, perché, quando il disordine prende il sopravvento sull’ordine, occorre ristabilire la regola che tutto governa. Anche se poi il diluvio farà salvi Deucalione e Pirra, esseri semplici e onesti, che vivono secondo giustizia, perché l’umanità possa continuare a vivere. Deucalione e Pirra, in quest’ottica di ritrovato equilibrio fra forze disgreganti e forze ordinanti, possono allora «essere considerati il primo uomo e la prima donna» (pag. 151), la coppia che ripopolerà la terra, buttandosi alle spalle dei sassi. Curiosamente, ma non troppo, visto che la nuova umanità, chiamata a vivere nell’ordine, deve essere «una razza forte, come la pietra da cui è nata», oltre che «solida come la roccia» (pag. 152), perché pur sempre obbligata alla fatica. 6.- Gli uomini debbono guardarsi dall’hýbris, archetipo della dismisura «che sfida gli dei e, tramite loro, dato che è un tutt’uno, l’ordine cosmico» (pag. 190). Chi si macchia di questa colpa è soggetto alla punizione. Come non ignora Ulisse, reo di orgoglio e vanità, quando, sfuggito alla morte, correndo verso la salvezza, si ferma e, giratosi di spalle, grida in direzione di Polifemo: «Ciclope, se un mortale ti chiedesse della sconcia cecità del tuo occhio, digli che ti accecó Odisseo eversore di rocche, il figlio di Laerte» (Canto IX, vv. 502-505). Ma, accanto ai colpevoli, vi sono pure umani che, per non essersi mai macchiati di alcuna nefandezza, non meritano alcuna
za, non ha, infatti, voluto nulla di quanto accaduto. Quando ha ucciso Laio, ignora, infatti, completamente di esserne il figlio. A rigore, si tratta, del resto, di un caso di legittima difesa, perché Edipo si è limitato unicamente a reagire al colpo di canna inflittogli da Laio. Il quale, a sua volta, non comprende minimamente la vera portata di ció che è occorso. Parimenti dicasi per quanto avviene in esecuzione della seconda parte dell’oracolo. Edipo svela l’«enigma» della Sfinge, che è, peraltro, cosa ben diversa dall’«indovinello mortale» che, invece, si legge nell’opera qui recensita a pag. 312 (sulla importanza dell’«enigma» e sulla diffusa predilizione dei Greci per questo concetto, ancor oggi sono fondamentali le acute considerazioni di G. COLLI, in Dopo Nietzsche, Milano, 1974, pagg. 47-49; 167171 e 174, e, sempre dello stesso A., La nascita della filosofia, Milano, 1975, pag. 49-81). La Sfinge si uccide. La città è cosí liberata dal mostro. Creonte, fratello della regina Giocasta, vedova da poco di Laio, come segno di ringraziamento, offre la sorella in sposa a Edipo e, con lei, il trono di Tebe. Edipo sposa cosí la madre. Ma Edipo ignora che Giocasta è la propria madre naturale. Non si è macchiato, perció, di alcuna colpa. Edipo, come attesta lo svelamento dell’enigma, è uomo dalla intelligenza eccezionale. Possiede un coraggio e un senso della giustizia fuori dal comune. Amministra con saggezza la città di Tebe. Alleva premurosamente i quattro figli-fratelli, che gli sono nati dalla madre-sposa. Eppure è colpito dalla più triste delle sorti! Dopo vent’anni di regno, una terribile epidemia devasta Tebe. L’oracolo di Delfi, prontamente consultato, risponde, questa volta con una certa qual chiarezza, che l’epidemia e i fenomeni inspiegabili che affliggono Tebe, cesseranno di infuriare sulla città non appena sarà stato catturato l’assassino di Laio. Edipo avvia l’inchiesta, che ricorda il più incredibile libro giallo, perché, al termine della indagine, si scopre che … l’investigatore è … l’assassino! Giocasta si suicida non appena ha contezza dell’accaduto.
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Edipo, quando la trova impiccata, si devasta gli occhi con la spilla che ferma la veste della madre-sposa. Dove il gesto è altamente simbolico! Nonostante la sua chiaroveggenza, Edipo è, infatti, sempre stato «cieco». È pertanto in questo modo che deve essere punito (pag. 314). Come interpretare
rogarsi sul perché le sventure colpiscono anche quanti non sono meritevoli di punizione. La saggezza del mito insegna che: «Semplicemente è cosí» e che «non c’è nulla da fare perché queste afflizioni appartengono per natura alla nostra condizione: quel-
dell’umanesimo. La «grandezza» della tragedia di Edipo, al pari di quella di Antigone, in conclusione, sta qui: «è senza dubbio la prima a rendere giustizia, nella cosmologia greca, a questa idea di umanità dal potenziale sovversivo virtualmente illimitato» (pag. 331). All’uomo, infatti, tutto è possi-
la di mortali immersi in una vita e in una storia che comportano sempre la possibilità di un male con cui bisogna imparare a convivere …» (pag. 323). Se non esistesse, infatti, un pó di caos e, conseguentemente, l’ingiustizia, sarebbe come annullare la storia, che conosce sventure per gli umani, tanto colpevoli, quanto incolpevoli. Questa è la grande lezione dei greci. I moderni si sentono detentori di tutti i poteri, effettivamente smisurati, che ci offre la scienza. I greci insegnano, invece, che «il destino ci sfugge di mano e sarà cosí sempre ovunque» (pag. 324). Accettare l’assurdità del mondo è la saggezza lasciataci in eredità dal popolo greco. Una saggezza ben diversa da quella cristiana, che ascrive il male alla libertà degli uomini male utilizzata. La saggezza, per il greco antico, è, invece, amare il mondo cosí com’è, «non solo quando è amabile – sarebbe troppo facile – ma anche quando, come nel caso della tragedia di Edipo, è atroce» (pag. 328). La saggezza greca coincide, perció, con quell’«amor fati», di cui dice Nietzsche, che si ritrova prima in Spinoza e, prima ancora, negli stoici dall’A. – alle pagg. 326 e ss. – felicemente richiamati nel loro prezioso insegnamento, cosí caro alla Massoneria, che tanto ha attinto a quella dottrina. Didakè che il Nostro, peró, non stima in concreto «praticabile», posto che non è possibile «dire “sí” con gioia alla morte di un bambino, a una catastrofe naturale o a una guerra» o «ad Auschwitz» (pag. 329). Da qui la proposta dell’A. di «pensare» un’altra via che, agli occhi del Nostro, «la tragedia greca delinea indirettamente, in maniera quasi implicita o surretizia» (pag. 329). Edipo, secondo Ferry, lancia un messaggio diverso dall’«amor fati», perché, in parte accetta il suo destino, come dimostra il fatto che si punisce da solo, ma, in parte, invece, lo rifiuta, mostrando che «bisognerebbe comunque poter cambiare questo mondo, migliorarlo, trasformarlo e non limitarsi solo a interpretarlo» (pag. 331). In questa idea prometeica «che non è riducibile all’ordine», né assimilabile agli dei (pag. 331), l’A. ravvisa in nuce la scintilla che accenderà la fiaccola
bile. Perfino rivoltarsi contro l’ordine del mondo, perché la libertà, della quale è dotato, non lo imprigiona nel ruolo proprio dell’animale che, come insegna Pico, resta sempre aquila o cavallo. La libertà, tuttavia, è pericolosa, perché, se non intesa rettamente, finisce per divenire fonte di errori. Anche gravissimi, in quanto l’umanità è la sola specie in grado di devastare la terra. I grandi miti dell’hybris raccontano proprio la storia di questi errori e l’opera compiuta dagli dei per cercare di preservare l’armonia dell’universo dalla follia degli uomini. Un’opera che si risolve nei castighi – terribili – ai quali «sono condannati i mortali che hanno l’audacia di sfidare i precetti di saggezza che hanno ricevuto dagli dei» (pag. 192-193). Vicende, anche queste ultime, da ricollocarsi «nel quadro cosmologico e filosofico originale che le caratterizza», da espungere, perció, dagli «orpelli della morale cristiana, o semplicemente borghese, o perfino della psicologia contemporanea, che non ne lasciano apprezzare il sapore originale e il significato autentico» (pag. 194). 7.- Il figlio di Laerte è figura inquietante, perché la sua cifra è l’inganno, il raggiro, la frode, l’imbroglio e l’espediente. Anche se la machinatio viene poi nobilitata con il termine astuzia. Della quale si avvale per finalità collettive (come avviene per espugnare Troia), o per fini altruistici (come accade per salvare i compagni da Polifemo), ma pure per fini strettamente personali (come avviene quando, sempre con l’astuzia, riesce ad impossessarsi delle armi di Achille a scapito del più valoroso e, perció, di lui, molto più meritevole, Aiace Telamonio). Né gli è sconosciuto il per certo non commendevole sentimento della vendetta. I fatti sono noti. Con solenne giuramento, ciascuno dei pretendenti si è impegnato a difendere, e ad aiutare, chi Elena avesse prescelto a proprio sposo, se qualcuno avesse mai tentato di sottrargli la moglie. Agamennone e Menelao si recano ad Itaca per ingiungere ad Odisseo – in forza di quella solenne promessa – di aggregarsi alla spedizione contro Troia.
Recensioni allora questa scandalosa sventura umana, che sembra negare la giustizia e contraddire la stessa concezione del cosmo, ordinato e armonioso, voluta e difesa da Zeus? L’A. risponde senza far ricorso agli schemi abituali della filosofia e, meno che mai, alla psicanalisi, che, pur individuando suggestivi profili del mito, in tesi sua, rimane, peró, «infinitamente lontana» (pag. 309) dal fornirci una chiave di lettura autentica, che, secondo il Nostro, richiede, invece, il ritorno «al modo in cui i greci stessi dovevano considerare il mito» (pag. 317). In questa ottica, il mito di Edipo viene inquadrato nella cosmologia, posto che «Non abbiamo alcun motivo di non credere a Eschilo» (pag. 321). Quando il sistema è stato, per un motivo o per un altro, sovvertito, occorre ristabilirlo. Né l’ordine puó essere ristabilito in una volta sola. Per questo, puó accadere che le generazioni successive paghino, sebbene non responsabili. Il rimettere ordine è, infatti, una «operazione lunga e il tempo che richiede è proprio quello delle sventure degli uomini, perfino di quelli innocenti» (pag. 306). E’, dunque, nella stessa «storia di Tebe dalle sue fondamenta ad opera di Cadmo» che occorre risalire «per comprendere fino alle sue radici la maledizione che colpisce Edipo» (pag. 321). Una maledizione antica che pesa su tutta la discendenza dei re di Tebe, i cui effetti non possono cessare prima che venga rimesso ordine nella famiglia e nella città (pag. 318). Proprio come ci testimonia Eschilo: «Io parlo della colpa all’origine della stirpe, rapidamente punita – ma fino alla terza generazione perdura» (Eschilo, I sette contro Tebe, vv. 742-767 in Eschilo, Tragedie e frammenti, trad. di G. e M. Morani, UTET, Torino, 1955). Il mito di Edipo ci insegna, dunque, che ci sono mali che, talvolta, si trasmettono di generazione in generazione, come frutto del mancato rispetto, da parte di un antenato, di regole cosmiche, perché quella inosservanza minaccia un ritorno al caos iniziale che deve, invece, essere sempre annullata (pag. 322). Da qui i «mali più atroci» che «cadono sulla umanità come pioggia» (pag. 323). Inutile è perció l’inter-
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Ma Odisseo, prestando fede all’oracolo, che gli aveva predetto che, in caso di una sua partenza, non avrebbe rivisto la patria e i suoi per vent’anni, intende sottrarsi al giuramento. Simula, perció, la pazzia e, per accreditarla come reale ed effettiva, dopo di essersi messo in testa uno strano coprica-
pre da Il Mulino nel 1998, dove l’A. narra la nascita del suo libro precedente, intrecciandola agli episodi più significativi della propria vita personale alla luce della ossessione di Ulisse divenuta destino e avventura del suo vivere e del suo conoscere). 8.- Nulla, tuttavia, di tutto questo è dato rin-
tornare a casa perché, solo cosí, potrà essere, ancora una volta, «in armonia con il cosmo» (pag. 186 cit.). Ritrovare il proprio posto nel mondo significa, peró, vivere una miriade di esperienze che permettono di «estendere e approfondire la propria visione del mondo e la propria comprensione degli uomini che
Recensioni po, ara la spiaggia all’incontrario, seminando sale. Palamede, il più saggio fra i Greci, tuttavia, lo smaschera, obbligandolo a rivelare la finzione, ponendo il piccolo Telemaco davanti al vomero. Odisseo cova nell’animo la rivalsa e la punizione. Tramite un suo servitore, nasconde cosí sotto il letto di Palamede dell’oro e una lettera apocrifa del re troiano Priamo. Accusato di tradimento, Palamede viene lapidato dai Greci sotto le mura di Troia. Ingiustamente, muore cosí il saggio che, secondo la tradizione, oltre all’unità di misura e ai dadi, aveva inventato, altresí, cinque lettere dell’alfabeto di Cadmo. Odisseo, oltre a tutto questo, è, peró, anche un uomo molto fortunato, perché, da personaggio tutt’altro che prode e valoroso, come lo rappresenta Sofocle nel Filottete, che, sul punto, segue una consolidata tradizione, si trasforma, invece, in eroe insigne nell’Odissea. Né qui la fortuna si arresta! Da figura ambigua, sostanziata di scaltrezza e assenza di scrupoli, il figlio di Laerte finisce, infatti, per divenire l’archetipo dell’uomo votato alla conoscenza insaziabile del mondo e degli esseri che lo popolano. Siano essi soggetti alle leggi, siano essi esseri non mangiatori di grano. In questa sua ultima veste, nella letteratura mondiale, attraverserà i secoli fino ai giorni nostri. L’Odisseo omerico del vaticinio che Tiresia pronuncia nell’Ade adombra, infatti, l’Ulisse dantesco nel suo folle volo, per diventare, all’inizio del Romanticismo, il vecchio marinaio di Coleridge, l’Ulisse di Tennyson, l’Ebreo errante, il Capitano Achab del Moby Dick di Melville e L’ultimo viaggio di Pascoli («Ch’io sappia! Ch’io sappia (…) Dite a me quel solo vero che vale tutta una vita … a ció che io dica: io vissi!»). Per, poi, fra i moderni, reincarnarsi nell’eroe di Ungaretti, di Montale, di Ezra Pound, di T.S. Eliot e di Joyce, per assumere, nella letteratura orientale, la figura di Sindbad (sulla fortuna del personaggio di Ulisse dal medioevo fino ai giorni nostri cfr. il magnifico libro di P. BOITANI, L’ombra di Ulisse. Figure di un mito. Il Mulino, 1992, e pure il successivo Sulle orme di Ulisse, edito sem-
venire nel libro qui in commento. Fedele alla linea di pensiero prescelta, la mitica avventura di Odisseo viene, infatti, situata nell’ambito della cosmologia. Come nella Teogonia di Esiodo, la vicenda del figlio di Laerte ha, infatti, uno sviluppo che principia dal caos per concludersi nel cosmo. Dove il caos è costituito dallo sradicamento dalla propria casa, come si è visto, non voluto; dalla immissione in una guerra, sempre cruenta e brutale, ma, soprattutto, nel sacco di Troia, dove i soldati greci provano «piacere» nel massacrare, torturare, distruggere e violentare: crimine, quest’ultimo, del quale si macchia perfino Aiace, uno degli eroi più valorosi, quando, nel tempio di Atena, stupra Cassandra, sorella di Paride. Ma anche dal disordine che, in sua assenza, regna nella casa di Odisseo. Con l’ingresso dei «pretendenti», che si comportano «come maiali» (pag. 159), dissipando le ricchezze del re lontano, aspirando perfino a sostituirlo nel letto nuziale, salvo, nel frattempo, accoppiarsi con le schiave, quello che era un piccolo mondo armonioso creato dal figlio di Laerte «a immagine di quello che Zeus ha instaurato su scala universale» (pag. 159), è divenuto, infatti, disordine totale e assoluto. Mentre il cosmo è l’ordine ristabilito. Non solo nella propria casa, ma pure nella propria città. Quanto dire il riappropriarsi della propria dimensione umana, perché Itaca – con il suo ordine ricostituito che riflette l’ordine cosmico – è l’unico luogo dove l’eroe puó, finalmente, ritrovare il suo posto nel mondo. Fra il caos e il cosmo si situa – ovviamente – il cammino da percorrere, tortuoso e doloroso, perché non è dato ritrovare il proprio posto nel mondo se non là dove Odisseo, come un piccolo Zeus, ha messo ordine. Sul che l’A. insiste, sottolineando che, al ritorno, Odisseo non è spinto, né dall’affetto per il figlio Telemaco, che ha visto solo bambino, né dall’amore per Penelope, che ha sistematicamente tradito, né da un progetto di restaurazione politica (pag. 186). Ció che muove Odisseo dal «profondo» – scrive il Nostro – è il desiderio di ri-
lo popolano» (pag. 173). Quanto dire – secondo Sapienza 7,21 – conoscere «tutto ció che è segreto e palese». Il che comporta, peró, il superamento di molteplici prove, tutte difficili e penose, che solo i più avveduti sono in grado di superare, se sorretti dal coraggio. Il cammino di Odisseo, nell’ottica del Nostro, finisce, perció, per assumere il significato di un autentico «periplo iniziatico» (pag. 184). Fra tutte le prove che Odisseo è poi chiamato a superare, oltre alla trappola frequente dell’«oblio», anche sottoforma di «sonno», la più ardua si rivela sicuramente quella costituita dalla proposta di immortalità, unita alla eterna giovinezza, fattagli da Calipso (colei che nasconde, il nome derivando dal verbo kaluptein). Offerta che Odisseo rifiuta, perché invecchiare è il destino dell’uomo, la condizione «per accedere alla umanità che da sola puó fare di un uomo un individuo veramente unico ed affascinante» (pag. 188). Cosí come è nell’ordine delle cose il morire. Gli uomini non possono, infatti, sottrarsi al “decreto per ogni vivente” (cosí Ecclesiastico, 41) senza causare un disordine, che sconvolgerebbe il corso dell’intero universo. L’assenza della morte precluderebbe, infatti, l’ingresso nel cosmo delle future generazioni. Per l’A., «il significato di questo rifiuto è di una profondità abissale» (pag. 14), perché lo scopo della esistenza umana non è, né l’eterna giovinezza – come oggi va di moda! – né l’immortalità, bensí l’accettazione della finitezza conforme all’ordine cosmico, perché l’armonia con il cosmo è condizione «più importante e perfino migliore della immortalità» (pag. 186). Come osserva conclusivamente l’A., questa è «un’inestimabile lezione di saggezza per un mondo laico come il nostro, una lezione di vita che rompe con il discorso religioso dei monoteismi passati e futuri» (pag. 15), fondamento di quella «dottrina della salvezza senza Dio» (pag. 15 cit.), che dà un senso alla domanda della vita facendo ricorso unicamente agli sforzi mentali della propria ragione, anziché ad un «essere supremo» (pag. 23).
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9.- Com’è noto, l’Odissea non si conclude, peró, a Itaca. Odisseo, secondo il vaticinio di Tiresia, come egli stesso riferisce a Penelope, dovrà, infatti, affrontare una «prova senza misura, lunga e difficile», imbarcandosi per un ultimo viaggio verso la terra che non conosce il mare, le navi, i remi e
Elogio dell’Induzione... e della Magia
Paolo Maggi, Edizioni Mediterranee, Roma 2010, pp. 152, euro 1490
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he c’entra l’Induzione, termine coniato da Aristotele per indicare la fase
to che è la dimensione soggettiva del conoscere. Per fare questo, l’autore compie un viaggio a ritroso nel tempo, alla riscoperta del pensiero dimenticato di quegli Uomini che, dal nulla, hanno costruito i pilastri su cui poggia la cultura scientifica moderna, in tempi in cui scienza e magia si confond-
Recensioni il cibo condito con sale: luogo che riconoscerà incontrando un altro viandante, che scambierà il suo remo per una pala da spulare il grano. Là lo raggiungerà una misteriosa morte «dal mare», che puó leggersi, tanto come «lontano dalle acque», quanto «dalle onde». Uno dei tanti misteri che connotano la vita di Odisseo. Anche se il più enigmatico resta pur sempre «cosa cantassero le Sirene». Come Tiberio – lo sappiamo da Svetonio – amava chiedere ai suoi grammatici, ripetutamente, quanto invano, perché la domanda è metafisica. E’ poi una autentica singolarità che l’A. non abbia fatto cenno a questo seguito che, anche nella sua ottica, non sarebbe sicuramente stata una inutile appendice, perché riprendere il cammino fa pur sempre parte dello statuto dell’uomo, di quella «spiritualità laica» che coincide con il «processo di divinazione dell’umano», che porta ad essere altro dal sé originario e, nella più felice delle ipotesi, conchiuso approdo alla umanità raggiunta nella sua totale profondità ed estensione. Come insegna quel grado scozzese che obbliga ad abbattere il tempio, dopo di averlo – faticosamente – costruito. Il che, a ben considerare, anche questo è, pur sempre, un nostos. Anche se poi si tratta di un ritorno, non per terminare, quanto, invece, per ricominciare il cammino. Se la natura del cerchio è quella di riprendere a girare, quella del porto è, infatti, quella di essere, ad un tempo, approdo e punto di partenza. 10.- L’epitome dell’ampio saggio puó sintetizzarsi in questo pensiero dell’A. Il mito puó – e deve – influenzare e, perfino, interagire con la vita dell’uomo d’oggi, perché, con la sua saggezza, nascosta solo agli sciocchi e ai presuntuosi, è in grado di indicarci scelte di vita autentica. In un mondo, quale è quello che ci consuma, perché pare uscito dai propri cardini, la lezione impartita dall’A. è preziosa. Per tutti, ma, particolarmente, per chi, come il Massone, coltiva la difficile «arte del vivere». (Antonio Binni)
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in cui il ricercatore, partendo dai dati della sua osservazione costruisce un’ipotesi, con la Magia, nome che fa storcere il naso e girare sdegnosamente la testa dall’altra parte a chiunque si interessi di scienza? In realtà, per la cultura rinascimentale e fino al 1700, per usare una definizione di Giordano Bruno, il mago era “l’uomo sapiente e virtuoso”, colui che coltivava e perfezionava sé stesso per rendersi degno e pronto a indagare i segreti dell’universo. Questa dimensione soggettiva della conoscenza si è via via perduta nei secoli successivi: in un’affannosa caccia all’oggettività della scienza, il soggetto, cioè l’uomo di scienza, è stato completamente perso di vista. Dal 1700 in avanti si è imposto agli scienziati di essere dei freddi ed imparziali osservatori degli eventi della natura. Ma è possibile questo? E soprattutto, è veramente un vantaggio per la scienza? Paolo Maggi, in questo libro, studia le ragioni della crisi in cui oggi vive la scienza (e in particolar modo la medicina). Ma soprattutto esplora l’uomo che si occupa di scienza, quell’universo nega-
evano talmente tra loro che era impossibile distinguere nettamente l’una dall’altra. Quegli uomini puntarono su una grande risorsa che la scienza moderna ha sistematicamente ignorato: le proprie capacità intellettuali e umanistiche, studiandole e perfezionandole con percorsi della mente che questo libro analizza, riscopre e ripropone in chiave moderna. La prima parte del libro è un inedito viaggio all’interno della mente degli scienziati pre galileiani: si esplora l’uso che essi, in funzione delle loro ricerche, facevano dei simboli, dei miti, dei loro sogni, della loro cultura umanistica, persino dell’amore. È un’indagine certamente inconsueta, ma solida sul piano scientifico e ben documentata in termini bibliografici. Da questo viaggio si emerge con la netta sensazione che gli antichi uomini di scienza non erano solo degli osservatori di ciò che studiavano, ma dei partecipatori. E da questa profonda simbiosi, da questa partecipazione tra soggetto ed oggetto, essi traevano immense capacità di osservazione. La seconda parte del libro è una spietata analisi di tutti i danni che l’abbandono della dimensione soggettiva della scienza ha generato: dalla confusione che attualmente regna tra scienza e tecnologia (due entità completamente diverse tra loro, ma che fa comodo a molti confondere l’una con l’altra), all’incapacità della medicina moderna di percepire e trasmettere il reale senso della malattia e della morte, all’analfabetismo comunicativo che oggi regna nei rapporti tra medico e paziente. Il libro, certamente molto denso sul piano concettuale, non è affatto di difficile lettura: scorre assai bene, e a questo contribuiscono una serie di brevi storie vere o semi-vere, serie o semi-serie(e anche una mini piece teatrale) che hanno la funzione di introdurre, qua e la nel testo, i diversi argomenti. L’opera di Maggi si conclude poi con un enigma, la cui origine è assai inconsueta per un libro che tratta di scienza. Ma è al Lettore che ne spetterà la soluzione.
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R.L. La Fenice Oriente di Bari
l sigillo propone una Fenice fiammeggiante, risorta dalle proprie ceneri, che si leva per librarsi verso l’alto. Lingue di fiamma disegnano la sua immaterialità, sottolineando l’abbandono del corpo fisico per rivestire il corpo di luce che la rinascita comporta. Il suo destino si compie fra squadra e compasso, dove la disciplina del lavoro, rappresentata dalla squadra, si coniuga con l’intelligenza dell’Universo, definita dal compasso, congiungendo infinite circonferenze con il centro immutabile. In
questo punto si colloca la G di “generazione”, laddove la Fenice si materializza in tutta la sua gloria, facendosi sintesi suprema dell’attività muratoria che dovrebbe far sorgere l’Uomo Nuovo. L’immagine della Fenice, mitico simulacro di rinascita e generazione, è stata individuata quale sigillo perché è il simbolo che più di ogni altro rappresenta gli scopi del lavoro massonico e le finalità dell’istituzione libero muratoria.
R.L. San Giovanni Oriente di Bassano del Grappa
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l gioiello di loggia è composto da una chiave che consente, a chi la possiede, l’accesso a nuovi spazi, ma al contempo chiude per custodire e proteggere. Il recto della chiave è rappresentato da un cerchio con iscritto un ottagono di colore azzurro, che identifica i tre gradi della Massoneria. Al suo interno un quadrato, simbolo di armonia e, tridimensionalmente, della pietra cubica, di colore bianco. Nel quadrato la squadra e il compasso intrecciati e la misteriosa lettera G. Il filo a piombo
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corre lungo la verticale della chiave, a simboleggiare la ricerca della verità e dell’equilibrio, mentre nella parte più bassa viene simboleggiato il potere sulla materia. Nel verso, oltre alle scritte di nascita e di appartenenza della Loggia, in basso, sul meccanismo della chiave con le fessure aperte, una scritta chiarificatrice: La chiave che apre la comprensione dei misteri universali. Il simbolismo della chiave si riconduce ai due San Giovanni, guardiani delle Porte Solstiziali, e Custodi delle Chiavi.
R.L. SmiDe Oriente di Stra
l recto del gioiello è tripartito in 2 mezzelune, a sinistra e a destra, e in un’ellisse al centro rappresentante un uovo. Le due mezzelune contengono, rispettivamente, la scritta Ordo ab Chao e un pavimento bianco e nero. All’interno dell’uovo è simbolicamente indicato, dal basso verso l’alto, il percorso di “fecondazione” che l’uomo deve seguire per completare la sua ascesa iniziatica. Viene così rappresentato l’ingresso in massoneria con la squadra e compasso intrecciate; la conoscenza con la doppia scala a sette scalini; l’amore verso il prossimo e verso Dio con le scritte Aheb Kerobo e Aheb Eloah. La stella e il Delta lu-
minoso rappresentano infine il punto di arrivo del cammino. Il discorso continua, come in trasparenza, nel verso della medaglia, con i due ramoscelli d’acacia, le due colonne B e J. Anche qui, un uovo centrale delimitato dalla Catena d’Unione, dove viene ricordato che la R.L. SmiDe opera all’Obbedienza della G.L.D.I, nell’Oriente di Stra (Venezia) e il suo titolo distintivo riviene dall’acronimo Spes mea in Deo est, ove si intende significare che gli obiettivi di Loggia si raggiungeranno solo con la forza della Speranza fondata sull’Amore.
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sternamente, in una corona circolare di colore verde, sono riportati i dodici segni zodiacali e le fasi lunari. Nell’anello è iscritto anche il sole. All’interno dell’anello si è costruito il Delta e all’interno di esso è evidenziata la figura esagonale quale pietra cubica a punta ove sono iscritte tre L (Loggia, Luce e Libertà) e tre simboli: il Sole (che rappresenta la Luce), l’Uccello in volo (che rappresenta la Libertà) e la Squadra e
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resti dell’antica Herdonea, insediamento risalente al iv o v secolo a.C, età dei Dauni, si trova a sud-ovest dell’attuale città di Foggia, in pieno tavoliere. I Dauni erano dediti all’agricoltura ed è noto che il Tavoliere è il granaio d’Italia. Il Sigillo di Loggia reca un forte tributo alla spiga del grano che, oltre ad essere un simbolo esoterico per eccellenza, è la vita per la nostra terra. Inscritto nel triangolo azzurro, che proce-
R.L. Luce e Libertà Oriente di Potenza
Compasso (che rappresentano la Loggia). Quattro onde richiamano poi alla localizzazione geografica, in quanto simbolo della Regione Basilicata. La Luce, che evoca simbolicamente il Sole e l’Oriente, è ciò che permette di vedere e conoscere. Il cammino verso la luce rappresenta la via verso la conoscenza. Tale cammino è verso il nuovo, ma rappre-
R\L\ Cartesio Or\di Firenze R\L\ Nino Bixio Or\di Trieste R\L\ Scaligera Or\di Verona R\L\ Minerva Or\di Torino R\L\ Sile Or\di Treviso R\L\ Luigi Spadini Or\di Macerata R\L\ Enrico Fermi Or\di Milano R\L\ Kipling Or\di Firenze R\L\ Pisacane Or\di Udine R\L\ Salomone Or\di Catanzaro R\L\ Teodorico Or\di Bologna R\L\ Fargnoli Or\di Viterbo R\L\ Minerva Or\di Cosenza R\L\ Giovanni Pascoli Or\di Forlì R\L\ Iter Virtutis Or\di Pisa R\L\ Triplice Alleanza Or\di Roma R\L\ Zenith Or\di Cosenza R\L\ Audere Semper Or\di Firenze R\L\ Federico II Or\di Jesi R\L\ Ad Justitiam Or\di Lucca R\L\ Horus Or\di Pinerolo R\L\ Mozart Or\di Roma R\L\ Jakin e Boaz Or\di Milano R\L\ Prometeo Or\di Lecce R\L\ Venetia Or\di Venezia R\L\ Garibaldi Or\di Castiglione R\L\ Petrarca Or\di Abano Terme R\L\ Delta Or\di Bologna R\L\ Eleuteria Or\di Catania R\L\ Anita Garibaldi Or\di Firenze R\L\ Eleuteria Or\di Pietra Ligure R\L\ La Fenice Or\di Forlì R\L\ Astrolabio Or\di Grosseto R\L\ Risorgimento Or\di Milano R\L\ Goldoni Or\di Londra R\L\ Augusta Or\di Torino R\L\ Horus Or\di R.Calabria R\L\ Voltaire Or\di Torino R\L\ Fidelitas Or\di Firenze
R.L. Herdonea Oriente di Foggia
de dall’alto, un candelabro a sette bracci, recante come fiamme le spighe del grano, a simboleggiare come questa Loggia è forte e fiera della sua esistenza. La base del triangolo poggia sul pavimento a scacchi a ricordo della dualità che scandisce l’esistenza affannosa dell’uomo nella ricerca e nella difesa della verità.
Elenco delle Logge già pubblicato... R\L\ Ermete Or\di Bologna R\L\ Athanor Or\di Cosenza R\L\ Monviso Or\di Torino R\L\ Cosmo Or\di Argentario Albinia R\L\ Trilussa Or\di Bordighera R\L\ Logos Or\di Milano R\L\ Concordia Or\di Asti R\L\ Ausonia Or\di Torino R\L\ San Giorgio Or\di Milano R\L\ Valli di Susa Or\di Susa R\L\ Cattaneo Or\di Firenze R\L\ Mozart Or\di Genova R\L\ Carlo Fajani Or\di Ancona R\L\ Aetruria Nova Or\di Versilia R\L\ Magistri Comacini Or\di Como R\L\ Uroboros Or\di Milano R\L\ Libertà e Progresso Or\di Livorno R\L\ Ugo Bassi Or\di Bologna R\L\ Navenna Or\di Ravenna R\L\ Hiram Or\di Sanremo R\L\ Cavour Or\di Vercelli R\L\ Per Aspera ad Astra Or\di Lucca R\L\ Dei Trecento Or\di Treviso R\L\ La Fenice Or\di Livorno R\L\ Aristotele II Or\di Bologna R\L\ La Prealpina Or\di Biella R\L\ Erasmo Or\di Torino R\L\ Fedeli d’Amore Or\di Vicenza R\L\ Ros Tau Or\di Verona R\L\ Giordano Bruno Or\di Firenze R\L\ Hiram Or\di Bologna R\L\ Garibaldi Or\di Toronto R\L\ Sagittario Or\di Prato R\L\ Giustizia e Libertà Or\di Roma R\L\ Le Melagrane Or\di Padova R\L\ Luigi Alberotanza Or\di Bari R\L\ Antares Or\di Firenze R\L\ Cidnea Or\di Brescia R\L\ Fratelli Cairoli Or\di Pavia
senta anche il ritorno verso la memoria inconscia del luogo di origine e della luce universale e assoluta. In considerazione, però, della non unicità della verità, solo la Libertà dai dogmi e dai pregiudizi potrà assicurare che il cammino verso la vera Luce si compia.
Ai lati del candelabro campeggiano due melograni aperti, per offrire i loro doni ai vigneti, dove solitamente vengono piantati e fruttificano nel mese di Settembre, in prossimità dell’Equinozio di Autunno.
R\L\ Nazario Sauro Or\di Piombino R\L\ Antropos Or\di Forlì R\L\ Internazionale Or\di Sanremo R\L\ Giordano Bruno Or\di Catanzaro R\L\ Federico II Or\di Firenze R\L\ Pietro Micca Or\di Torino R\L\ Athanor Or\di Brescia R\L\ Chevaliers d’Orient Or\di Beirut R\L\ Giosuè Carducci Or\di Follonica R\L\ Orione Or\di Torino R\L\ Atlantide Or\di Pinerolo R\L\ Falesia Or\di Piombino R\L\ Alma Mater Or\di Arezzo R\L\ C. B.Conte di Cavour Or\di Arezzo R\L\ G.Biancheri Or\di Ventimiglia R\L\ Sibelius Or\di Vercelli R\L\ C. Rosen Kreutz Or\di Siena R\L\ Virgilio Or\di Mantova R\L\ Ausonia Or\di Siena R\L\ Mozart Or\di Torino R\L\ Vincenzo Sessa Or\di Lecce R\L\ Manfredi Or\di Taranto R\L\ Cavour Or\di Prato R\L\ Liguria Or\di Orspedaletti R\L\ Saverio Friscia Or\di Sciacca R\L\ Atanor Or\di Pinerolo R\L\ Ulisse Or\di Forlì R\L\ 14 Juillet Or\di Savona R\L\ Pitagora Or\di Cosenza R\L\ Alef Or\di Viareggio R\L\ Ibis Or\di Torino R\L\Re Salomone /F.. Nuove Or\di Milano R\L\ Ab Initio Or\di Portoferraio R\L\ Emanuele De Deo Or\di Bari R\L\ Melagrana Or\di Torino R\L\ Aurora Or\di Genova R\L\ Silentium et Opus Or\di Val Bormida R\L\ Polaris Or\di Reggio Calabria R\L\ Athanor Or\di Rovigo R\L\ G. Mazzini Or\di Parma R\L\ Giordano Bruno Or\di R.Calabria R\L\ Lux Or\di Firenze
R\L\ Etruria Or\di Siena R\L\ Athena Or\di Pinerolo R\L\ Palermo Or\di Palermo R\L\ XX Settembre Or\di Torino R\L\ La Silenceuse Or\di Cuneo R\L\ Corona Ferrea Or\di Monza R\L\ Clara Vallis Or\di Como R\L\ Giovanni Bovio Or\di Bari R\L\ EOS Or\di Bari R\L\ G. Ghinazzi Or\di Roma R\L\ D.Di Marco Or\di Piedimonte Matese R\L\ Oltre il Cielo Or\di Lecco R\L\ San Giorgio Or\di Genova R\L\ G.Papini Or\di Roma R\L\ A.Garibaldi/Alpi Giulie Or\di Livorno R\L\ Melagrana Or\di Cosenza R\L\ Il Nuovo Pensiero Or\di Catanzaro R\L\ M’’aat Or\di Barletta R\L\ Costantino Nigra Or\di Torino R\L\ Umanità e Progresso Or\di Sanremo R\L\ Fenice Or\di Spotorno R\L\ Ferd.Rodriguez y Baena Or\di Milano R\L\ G.Bruno - S.La Torre Or\di Roma R\L\ XI Settembre Or\di Pesaro R\L\ Il Cenacolo Or\di Pescara R\L\ Humanitas Or\di Pistoia R\L\ Gaspare Spontini Or\di Jesi R\L\ Vittoria Or\di Savona R\L\ Archita Or\di Taranto R\L\ Zodiaco Or\di Pinerolo R\L\ La Fenice Or\di Chieti R\L\ 4 Giugno 1270 R.G. Or\di Viterbo R\L\ La Fenice Or\di Pieve a Nievole R\L\ Excalibur Or\di Trieste R\L\ Omnium Matrix Or\di Milano R\L\ Themis Or\di Verona R\L\ G.Garibaldi Or\di Cosenza R\L\ Giovanni Risi Or\di Firenze R\L\ Humanitas Or\di Treviso R\L\ Leonardo da Vinci Or\di Taranto R\L\ Horus Or\di Padova
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