Officinae Giugno 2012

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Trimestrale internazionale di attualità , storia e cultura esoterica — Anno X XIV - Giugno 2012 - n.2


Trimestrale internazionale di attualità, storia e cultura esoterica Anno XXIV - n.2 - Giugno 2012 Direttore Editoriale e Responsabile

LUIGI PRUNETI Direttore ANNA GIACOMINI Segreteria di Redazione ROBERTO PINOTTI SIMONE TADDEI Comitato di Redazione LINA ROTONDI LUISA CERAVOLO SABRINA CONTI VALERIA DI PACE STEFANO MOMENTÉ FEDERICA POZZI GIANCARLO GUERRERI MATTEO BARTOLETTI RENATA SALERNO Comitato Scientifico VINCENZO CIANCIO ALDO ALESSANDRO MOLA PAOLO ALDO ROSSI IDA LI VIGNI RAFFAELE MARRŸ PAOLO MAGGI Renato ARIANO BARBARA NARDACCI Consulente Legale PIERPAOLA MELEDANDRI hanno collaborato a questo numero GIUSEPPE CIRILLO SABRINA CONTI MAURIZIO GALAFATE ORLANDI IDA LI VIGNI PAOLO MAGGI ALDO ALESSANDRO MOLA LUIGI PRUNETI PAOLO ALDO ROSSI LAURA VIOLA progetto e realizzazione PAOLO DEL FREO


L.Pruneti - Fra mari in tempesta e gelsomini notturni... — 2

Sommario

A.A.Mola - Giovanni Pascoli, Massone — 4

L.Pruneti - La Massoneria e la guerra di Libia — 14 P.A.Rossi - L’isola tiberina e il mito di Esculapio — 20 P.Maggi - I due doni di Prometeo e il Chirone ferito — 26 M.Galafate Orlandi - Presenze alchemiche nella Massoneria — 30 I. Li Vigni - Il vaso di Pandora, ovvero il mito dell’Oriente — 34 G.Cirillo - ‘De reditu’ il ritorno — 40 L.Sello - Rito e Musica — 44 L.Viola - Ricominciare a vivere — 54 P.Tasselli - Enkidu e Gilgamesh — 58 L.Pruneti - La casa sulla soglia di un’altra dimensione — 64 In Biblioteca — 68 Fregi di Loggia — 79


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a Luna si era svegliata da poco e ancora con il sonno addosso aveva guadagnato la parte più alta del cielo. Si stiracchiò, sbadigliò, poi, con fare distratto, guardò in basso, verso la terra. Il pianeta dormiva avvolto nella diafana luce della sua sorella minore, tutto sembrava tranquillo. Vide gli sciami di lucciole delle città, scorse le montagne innevate, individuò le selve coricate nel buio; si soffermò, infine, sui mari,

fine del mondo non vi sarà e fra qualche anno studiosi di ogni genere analizzeranno la grande depressione del 2011 – 2015, troveranno responsabili, errori, cause ed effetti, sentenzieranno, … per poi essere smentiti, prove alla mano, da una successiva generazione di storici. Saranno, comunque, dimenticati, dagli uni e dagli altri, gli infelici che in questi momenti, sopraffatti dalla disperazione, si tolgono la vita, i tanti ridotti alla miseria, gli anziani privati

...dentro l’urna molle e segreta non so che felicità nuova. Giovanni Pascoli

per i quali, vanesia come era, nutriva una spiccata simpatia. Desiderosa di ammirare la sua immagine specchiata nelle acque, Selene osservò meglio e notò che uno di questi era in tempesta: grandi onde s’innalzavano per poi frangersi con rabbia sulla costa, la superficie era talmente mossa che distorceva il suo bel volto in modo inaccettabile, ora comprimendolo, ora stiracchiandolo. L’astro, ormai del tutto sveglio, si rivolse allora allo specchio malfidato, dicendogli con voce stizzita: - Possibile che tu sia sempre arrabbiato, basta un po’ di vento per scatenarti, non passa mese che non ti veda irato, pronto a flagellare le rive con bordate d’acqua e schiaffi di schiuma - Il mare, senza scomporsi, le rispose: - È nella mia natura agitarmi quando il vento mi provoca, è così da sempre. Per alcuni giorni m’arruffo e scateno tutte le mie forze, ma appena mi son sfogato, torno ad essere calmo e silente come un vecchio saggio. Ad ogni tempesta segue sempre tranquillità e armonia … niente cambia, mia cara – Non cambierà per te – replicò la Luna – ma per i disgraziati sorpresi dal tuo furore, non è la stessa cosa. Quanti hanno perso fortune e beni e, in molti casi, pure la vita per il tuo livore! - La Storia è simile a quel pelago loquace. A anni di burrasca ne seguono altri di pacifica tranquillità e alle crisi economiche, politiche e sociali s’accodano momenti di ripresa, di crescita di benessere. Così sarà per questi nostri sventurati giorni. La 2

di una serena vecchiaia, i giovani condannati alla sottoccupazione o alla disoccupazione. L’augurio di Officinae è che, questo numero, sia almeno una lettura gradevole e interessante, buona a distrarre per qualche ora dalla tanta oscurità che riempie le pagine dei quotidiani, che corre sul web come una muta di cani rabbiosi. Nel presente fascicolo troverete pagine di storia, articoli su miti, studi di simbologia, riflessioni sulla massoneria. Fra i tanti pezzi, ve ne è uno di Aldo Alessandro Mola su Giovanni Pascoli, di cui ricorre quest’anno l’anniversario della morte. Pascoli, come a suo tempo accadde per Carducci, è stato scientemente dimenticato, tanto che il nuovo Ministro dei Beni Culturali “si è affrettato a cancellare il comitato nazionale per la sua evocazione”, forse costava troppo a differenza della politica. Tra le poesie del Romagnolo me ne sovviene una tratta dai Canti di Castelvecchio, Gelsomino notturno, termina così: “Per tutta la notte s’esala / l’odore che passa col vento. / Passa il lume su per la scala; / brilla al primo piano: s’è spento … / E’ l’alba: si chiudono i petali / un poco gualciti; si cova / dentro l’urna molle e segreta / non so che felicità nuova”. L’augurio, affezionati lettori, è che la notte del Solstizio d’estate sia un’urna molle e segreta, che prepari e distilli giorni incantati di rinnovata serenità per voi e per chi vi è caro. P.2-3: Tempesta, 2012, Computer-art, collez. priv.


Fra mari in tempesta e gelsomini notturni... Luigi Pruneti

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Giovanni Pascoli, Massone Aldo A.Mola

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l 22 giugno 2007 il “Corriere della Sera” strillò a pagina 55: “Pascoli era massone: il Grande Oriente ora ha la prova”. La richiesta di accettazione in loggia era stata rinvenuta cinque anni prima dal biografo del poe-ta, Gian Luigi Ruggio. Ma non era affatto una scoperta sensazionale. Sin dal remoto 1962 Michelangelo Raitano aveva pubblicato il “giuramento” massonico di Pascoli in una tavola fuori testo di Memoria di Giovanni Pascoli (Città di Castello, Edizioni Erretre). La notizia era però passata sotto silenzio. Lambiti da pochi eruditi, all’epoca massoni e massoneria rimanevano avvolti nelle nebbie del silenzio scontroso. Il documento è poi stato minutamente descritto da Alice Cencetti nel capitolo “Un ‘sonno’ lungo una vita: Pascoli e la Massoneria”, parte conclusiva della bella biografia critica del poeta (Firenze, Le Lettere, pp. 287 ess.): “un foglio con disegnato sopra un triangolo isoscele dagli spessi bordi neri (…); all’interno del triangolo, in corrispondenza dei tre vertici troviamo scritto: “Quali sono i doveri dell’uomo verso se stesso? – di rispettarsi”; che cosa deve l’uomo alla patria? – la

Le dicevano: Bambina! che tu non lasci mai stesa, dalla sera alla mattina, ma porta dove l’hai presa, la tovaglia bianca, appena ch’è terminata la cena... la Tovaglia

vita; quali sono i doveri dell’uomo verso l’umanità? – di amarla”. Al centro del triangolo il giovane insegnante si firmò e annotò: “Bologna 22.9.82”, cioè 22 settembre 1882. A differenza di quanto annunciato dal quotidiano milanese, di per sé il “testamento” massonico non costituisce la “prova provante” dell’iniziazione di Pascoli. Molte richieste di iniziazione si fermarono per via. È il caso di Antonio Labriola, caposcuola del socialismo scientifico in Italia. Sottoscrisse il formulario per essere iniziato alla “Rienzi” di Roma (1888) ma tutto lascia concludere che le informazioni sul suo temperamento lo fermarono sulla soglia del Tempio. Del resto il suo nome non figura nella Matricola degli “iscritti” al Grande Oriente d’Italia. Ma di per sé questo silenzio non costituisce la contro-prova di mancata iniziazione. Infatti, come è stato più volte ricordato, in quel repertorio invano si cercherebbero Andrea Costa (ne ha scritto egregiamente Furio Bacchini) e persino Domizio Torrigiani, la cui iniziazione (al Grande Oriente italiano?) è fuori discussione. Il documento chia5


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ve dell’iniziazione di Pascoli (bene ricorda Cencetti) era però noto da tempo. Lo pubblicò un antico valoroso massone, Carlo Manelli, nel saggio che merita di essere ricordato nel centenario della morte del poeta: tanto più che il neo6

ministro dei Beni Culturali si è affrettato a cancellare il comitato nazionale per la sua evocazione. Già era stata scomoda quella del massone Giosue Carducci, la cui memoria è eclissata anche nella nativa Pietrasanta; se poi il ministro in cotta e stola dovesse scoprire che massoni furono anche Vittorio Alfieri, Ugo Foscolo, Francesco De Sanctis, Salvatore Quasimodo… non gli resterebbe che proibire lo studio della letteratura italiana. Ma torniamo all’iniziazione di Pascoli. Va ricordata l’opera di Carlo Manelli per trarne lezioni di metodo e di merito. Una prima considerazione s’impone. Essa apparve due anni dopo le relazioni (di maggioranza e di minoranza) della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2. Rifacendosi alla miglior tradizione storiografica, cinque anni dopo la

mostra su I massoni nella storia d’Italia (Torino, 1980; Roma, 1981) e mentre imperversava la “caccia alle streghe”, pacatamente Manelli propose lunghi veridici elenchi di veri iniziati alla Massoneria. Valga d’esempio quello degli affiliati alla “VIII Agosto”. Senza indulgere alle interpretazioni sociologiche poi e tuttora imperversanti, l’Autore non dedusse l’identità della Famiglia liberomuratòria italiana da professioni, mestieri e titoli di studio (che pur all’epoca ancora indicavano un merito) dei suoi iniziati, né volle accamparne una lettura ideologica dalle opzioni mostrate dai massoni impegnati nella vita politica. In tal modo sbarrò la via a induzioni tendenti a imbalsamare la peculiarità della Massoneria. Ne riaffermò invece la genuinità: il perenne divenire attraverso la ricerca dialogica, all’insegna della tolleranza e della faustiana ansia di conoscenza. Per comprendere la Libera Muratoria d’Italia e in Italia occorre dunque scriverne la storia, documenti alla mano, senza pretendere di impartire lezioni al passato, sibbene indagandolo quale effettivamente fu. Anche in terre quali l’Emilia e le Romagne (ha ragione Lucio Gambi a preferire il plurale allo sbiadito e troppo generico Romagna, “solatia, dolce campagna” come scrisse il talora troppo languido Giovanni Pascoli) la Massoneria fu varia e pur continua nel corso dei secoli. Se ne coglie la molteplicità dalla qualità dei componenti. Nel Settecento i massoni vi furono prevalentemente di famiglia aristocratica, della grande borghesia e sempre di elevata cultura. Ne ha scritto Furio Bacchini nell’eccellente (e quindi scomodissimo) saggio su La vita rocambolesca del conte Alessandro Savioli Corbelli, 1742-1811 (Bologna, Pendragon, 2011) che fa “punto e a capo” con le chiacchiere sull’identità tra massoneria, illuminismo d’accatto, giacobinismo e quindi è subito finito in un cono d’ombra (dal quale, però, verrà riscattato come sempre accade per le opere di vero valore). Durante l’età napoleonica, nella lunga attesa del riscatto dal greve potere temporale dei papi e poi all’alba dell’unificazione nazionale la massoneria divenne più composita. Dopo il 1860, ebbe innesti di media e piccola borghesia e, in tempi successivi, anche di artigiani e popolani. Interclassismo? No. Codesto è


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concetto recente. Usarlo per quel passato abbastanza remoto è errore imperdonabile: l’anacronismo. I templi massonici non esercitarono preclusioni “di classe”. Si aprirono a quanti bussavano, quale ne fosse la condizione (fu il caso giustamente richiamato da Carlo Manelli di Giovanni Pascoli, iniziato alla “Rizzoli” con dispensa dalle quote perché povero), giacché il vero comune denominatore dei recipiendari era e sarebbe rimasto uno solo: l’anelito alla libertà e la affermazione della libertà di pensiero. Ne sono documento le pagine di Romeo Monari, bibliotecario dell’Università di Bologna, Alma Mater Studiorum, sulla Massoneria d’età napoleonica, riproposte pari pari da Manelli anche se comprendenti qualche svista e asserzioni opinabili, poiché sono documento del livello cognitivo dei tempi in cui fu redatto. Anziché interrogarsi sul notissimo e scontato tasso di adesione dei “fratel-

Ho nel cuore la mesta parola d’un bimbo ch’all’uscio mi viene. Una lagrima sparsi, una sola, per tante sue povere pene... Fanciullo mendico li d’Italia” al disegno napoleonico e di perdersi a contare quanti degli affiliati tra Sette e Ottocento si siano poi schierati con la Restaurazione, anche tramite le pagine di Monari, il sempre lucido ve-

gliardo Manelli individuò con chiarezza la continuità fra quella stagione, che va dalla cospirazione liberale di Luigi Zamboni e Giambattista De Rolandis, ideatori della coccarda tricolore precorrente il vessillo poi divenuto bandiera della Cisalpina e quindi del Regno d’Italia, e il proto-Risorgimento e indicò alcune figure chiave che fecero da pilastro portante fra età napoleonica, quando a Bologna si contarono quattro logge, e guerre d’indipendenza nazionale: il conte Luigi Zambeccari, il marchese Pietro di Pietramellara, Francesco Guerzi ... Certo ogni sua pagina meriterà approfondimento. È il caso, fra altre, della drammatica vicenda di Zamboni e De Rolandis, i cui rapporti con correnti tardogiacobine e Napoleone stesso, tramite Saliceti, cominciano a essere messi meglio indagati da studiosi d’Oltralpe. Valendosi della scarsa documentazione sopravvissuta all’assalto squadristico alla 7


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Casa massonica del settembre 1924 e delle poche annate all’epoca reperibili delle riviste massoniche comparse nel settantennio fra il 1864 (“Bollettino del Grande Oriente della Massoneria in Italia”) e il forzato scioglimento delle logge (1925), Manelli mise poi a fuoco le vicissitudini delle officine bolognesi: la “Concordia”, loggia primigenia, la “Severa” dal 1861, la “Concordia umanitaria” e poi la “Galvani” (1863-1868), la “Felsinea”, la “Rizzoli” dal 1882, la “VIII Agosto” dal 1886 al 1924, la “Ça ira” e la “Giosue Carducci” dal 1908 ... Né tacque le tensioni a loro interne o fra singole officine e i poteri centrali alla cui obbedienza erano sorte. Fu il caso della “Galvani” e della prestigiosa “Felsinea”, quasi una meteora, che passò dal Rito Scozzese Antico e Accettato al Gran Consiglio facente capo in Milano a quell’Ausonio Franchi che, spretatosi e messa a soqquadro la famiglia massonica, tornò qual prima era: don Cristoforo Bonavino, rivestito di abito talare e restituito al sacerdozio cattolico. Alieno da ogni trionfalismo, Manelli non tacque che massoni allora e poi illustri, quali Giosue Carducci, Luigi Cremona e altri componenti della “Felsinea” (la prima “loggia universitaria” di Bologna la Dotta) videro i propri nomi pubblicati a loro perpetuo disdoro nel “Bollettino del Grande Oriente” quando l’officina venne dichiarata sciolta da parte di un “governo dell’Ordine” che intendeva superare la troppo lunga stagione durante la quale la Libera Muratoria era stata “federazione di logge” assai più che Famiglia unitaria. Manelli non v’in8

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero resta un aratro senza buoi che pare dimenticato, tra il vapor leggero. E cadenzato dalla gora viene lo sciabordare delle lavandare con tonfi spessi e lunghe cantilene: Il vento soffia e nevica la frasca, e tu non torni ancora al tuo paese! quando partisti, come son rimasta! come l’aratro in mezzo alla maggese. Lavandare

sisté per comprensibile riserbo. Va però ricordato che la Massoneria bolognese (o dell’Emilia e Romagne) ebbe ruolo nazionale di spicco non solo per le logge del capoluogo e per quelle della intera regione (la “Alberico Gentili” a Parma, la “Girolamo Savonarola”, poi cangiata in “Felice Foresti” a Ferrara, la “Nicola Fabrizi” a Modena, la “Roma Nuova” a Piacenza, la “Torricelli” a Faenza e la gloriosa “Dante Alighieri” di Ravenna negli anni della gran maestranza di Adriano Lemmi), ma anche per la presenza di suoi illustri esponenti nella “Propaganda massonica”. Valgano, al riguardo, i nomi di Giosue Carducci, “risvegliato” dal Gran Maestro Adriano Lemmi nel 1886 e inserito nella “Propaganda Massonica” (nome famoso anche se per alcuni ingenui famigerato), di Aurelio Saffi, Quirico Filopanti, Giuseppe Ceneri e dell’Oreste Regnoli nel cui studio forense si formò il forlivese Alessandro (Sandrino) Fortis, futuro presidente del Consiglio dei ministri in successione a Giovanni Giolitti. Su quelle premesse la massoneria bolognese nel 1888 si mobilitò direttamente e indirettamente per conferire il giusto smalto alle celebrazioni dell’VIII Centenario dell’Università: cui Carducci dedicò una forte rivendicazione della cultura laica e della libertà di pensiero, ripubblicata da Fabio Roversi Monaco quand’era Rettore dell’ Ateneo bolognese. Su quella traccia si mosse Adriano Lemmi nella Tavola pronunciata a Bologna il 30 giugno 1892, nel corso del periplo tra le principali Valli d’Italia, dopo la sua Livorno, Genova, Torino, Milano, e prima di Firenze, Reg-


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gio Calabria, Palermo, Napoli e Roma. In quell’occasione il Gran Maestro rese omaggio a Carducci, “il nostro altissimo Poeta civile”, e invitò a non nascondersi che l’Italia era “sorta in piedi” ma “troppi e infinitamente perfidi nemici la insidia(va)no”. “Non è qual la vogliamo, proseguì; il coltello del papato, che ella portava da secoli confitto nel core, le fu tolto e spezzato dalla rivoluzione (cioè, chiariamo, dall’unificazione nazionale); ma la piaga è ancora aperta e sanguina. Importa che quella ferita si rimargini (...) A questo grande intento patriotico deve convergere, tutta, sempre, l’azione morale dell’Ordine”. Da Bologna Lemmi indicò il cammino: “educare il popolo a forti propositi, a virtù civili (...) sollevare il sentimento della forza e della dignità dello Stato (...)”. “Io vi parlo così - aggiunse - perché so che nella intrepida e leale Romagna questo alto e generoso amore della Patria sovrasta a tutti i partiti; perché so che voi

foste e sarete sempre nelle prime file delli eserciti della libertà (...) La prima libertà da conquistarsi intiera e da conservarsi inviolata è quella del pensiero e della coscienza. Per conquistarla e per mantenerla occorre l’assoluta e completa laicità dello Stato. Se il nostro diritto pubblico non si svolge sulla base laicale, non avremo nessuna influenza decisiva sulla civiltà contemporanea. E pensiamo che laicità non significhi indifferenza stupida o scettica che avvizzisce e mortifica il corpo sociale, ma è coscienza piena di tutto il pensiero, di tutto il progresso morale e scientifico; è ideale ed ha militi; è fede ed ha martiri (...) Conseguenze: questo tipo di stato laico deve svolgersi ed incarnarsi nella scuola, nella famiglia in ogni forma e manifestazione della pubblica vita. Nessuna religione deve insegnarsi nella scuola; ciascuno si faccia il culto a suo modo; lo Stato forma il cittadino, non il devoto (...) Il concetto di Stato laico include quello di Stato educatore

e giusto: quindi continua vigilanza sulla istruzione, perché sia profondamente ed efficacemente educativa (...)”. Dalla terra del massone Andrea Costa, dieci anni addietro riproposto all’attenzione nella sua autenticità liberomuratòria da Furio Bacchini in 200 anni di Massoneria ad Imola, il Gran Maestro lanciò anche un appello agli Italiani a conservare l’impronta “di popolo civile ed autonomo”. “Di sottili disquisizioni socialistiche precisò - poco c’importa; a noi basta il nostro buon senso, il nostro naturale istinto del vero: non vogliamo socialismo pontificio e nemmeno cattedratico o di Stato o imperiale (...) purché l’opera sia buona, ci basta; meglio se anche sia schiettamente e coraggiosamente italiana”. La Massoneria bolognese venne dunque chiamata a far da guida al rinnovamento civile e culturale della Terza Italia: un impegno di lungo periodo e impegnativo per l’Ordine, quando si 9


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pensi che nell’età di Lemmi (considerata la più gloriosa per la Famiglia postunitaria) le iniziazioni oscillavano fra tre e quattrocento l’anno e le logge nei confini del regno, tra demolizioni e innalzamento di colonne, nel 1897 non erano che 113 (poco più di una per provincia, in media; con molte terre un tempo massonicamente fiorenti del tutto deserte di Officine) e salivano a 172 computando anche quelle all’obbedienza del Grande Oriente d’Italia attive in Romania, Serbia, Impero ottomano, Siria, Egitto, Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay, Perù, a Tripoli e a Capo di Buona Speranza ... Quattro anni prima che Lemmi visitasse il suo Oriente, la Loggia “VIII agosto” promosse l’erezione del monumento a Ugo Bassi. Nell’ultima parte del suo saggio Carlo Manelli ne ripropose la drammatica vicenda. Già a fianco di Giuseppe Garibaldi nella difesa della Repubblica romana e poi suo compagno sulla via verso Venezia, catturato il 3 agosto 1849 dalla milizia pontificia con il capitano milanese Giovanni Livraghi e consegnato agli Asburgici, Bassi venne fucilato da10

Lungo la strada vedi su la siepe ridere a mazzi le vermiglie bacche: nei campi arati tornano al presepe tarde le vacche. Vien per la strada un povero che il lento passo tra foglie stridule trascina: nei campi intuona una fanciulla al vento: Fiore di spina! Sera d’ottobre

gli “austriaci” l’8 seguente. Facendo sua una consolidata tradizione orale, Manelli ribadì che Bassi era stato iniziato alla loggia “Concordia” fondata in Bologna da Francesco Guerzi nel 1848 (il sigillo in legno di quell’antica Officina sopravvisse al tempo e fu collocato tra i cimeli della Massoneria italiana. Il nome di Guerzi apre il Libro d’Oro del Supremo Consiglio del Rito scozzese. È pressoché dimenticato, ma solo per la confusione delle lingue dominante tra i profani che invasero i Templi). Sulla scorta di una lettera dell’avvocato socialista Ugo Lenzi, futuro Gran Maestro, al podestà di Bologna (1 giugno 1925), Manelli ribadì l’affiliazione di Ugo Bassi e attribuì la sua condanna a una commissione di dodici ecclesiastici (tre dei quali, ungheresi, avrebbero rifiutato di sottoscriverla, commossi e solidali con la vittima), d’intesa o su impulso del cardinale Opizzoni. Mancano prove documentarie a sostegno di tale addebito, che va ricondotto all’animoso anticlericalismo di chi aveva sperimentato o serbava viva la memoria, tramandata dai padri, delle efferatez-


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ze perpetrate dal cardinal legato Agostino Rivarola, implacabile persecutore di carbonari, in parte già massoni, arrestati e condannati a centinaia (1824-26), e identificava pertanto il governo pontificio e, in generale, “dei preti” con quello dell’Anticristo, come scrisse Carducci in memorabili versi giovanili. Se oggi il giudizio storico sulla tragica fine del barnabita va temperato e riveduto alla luce dei documenti disponibili, quella tradizione orale è di per sé un fatto, giacché mette in evidenza il comune sentire dell’opinione. A consolidare l’attribuzione della esecuzione capitale di Ugo Bassi anche alla Chiesa di Roma concorsero soprattutto i versi famosi di Carducci. Due anni dopo la radiazione dalla Massoneria, nel ventennale dell’esecuzione del barnabita, la bolognese Via dei vetturini venne mu-

tata in Via Ugo Bassi. Come via Rizzoli essa era molto diversa da quale risultò dopo l’ampliamento del 1924-1930 e l’edificazione delle nuove cortine di edifici. Nello stesso torno di anni, del resto, a Roma il famoso quartiere di Borgo, culla (o “covo”) dell’anticlericalismo più intransigente e pugnace, non immaginava di dover un giorno cedere alla devastante apertura di via della Conciliazione. Nel luglio 1869, dunque (appena due anni dopo Mentana), in occasione dell’intitolazione della via bolognese al barnabita Bassi, la Società Tipografica dei Compositori pubblicò il sonetto carducciano su un manifesto che recava in apertura, a mo’ di epigrafe: “Questa via, o bolognesi,/ prende nome da un cittadino/ fucilato/ perché amava la Patria, / dai soldati di un imperatore,/ complici i preti./ Ricordate.”

Il sonetto recita: Quando porge la man Cesare a Piero, da quella stretta sangue umano stilla: quando il bacio si dan Chiesa ed Impero, un astro di martirio in ciel sfavilla. Ma nel cuor delle genti il chiuso vero con un guizzo d’amor risponde e brilla: ne la notte l’amor e nel mistero le folgori de l’ira dissigilla. Di ghirlande votive or questa via nel solenne suo dì Bologna adombra D’un prete sconsacrato a l’alma pia. Ma lascia tu nel gran concilio sgombra, Roma, una sedia: a te Bologna invia tra’ carnefici suoi del Bassi l’ombra. con riferimento all’imminente inizio del Concilio Ecumenico Vaticano (8 dicembre 1869), cui laicisti e anticlericali contrapposero l’Anticoncilio inaugurato a Napoli il 9 seguente (ma subito interrot11


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to e sciolto per intervento di un commissario di pubblica sicurezza). Ma in quale massoneria venne iniziato Giovanni Pascoli? Come documentò Manelli nell’arco di quasi quarant’anni gli affiliati della prestigiosa “VIII Agosto” furono appena 572: in una città che nel 1861 contava 90.000 abitanti, crebbe dai 121.000 del 1881 ai 173.000 del 1921 e salì a 185.000 nel 1921, e al centro di una provincia la cui popolazione sommava a circa 600.000 persone. Alla luce di questo solo dato si percepisce che la storia della Massoneria in Italia richiede ulteriore meditazione: emerge infatti a luce meridiana, la disparità tra le sue forze, numericamente esigue (per quanto valenti e poliedrici fossero i suoi affiliati) e i compiti che essa si assegnò e mirò ad 12

attuare. Motivo in più per apprezzarne il ruolo di minoranza eroica: non per caso da Mario Panizza proprio in età lemmiana i liberi muratori vennero definiti “templari della democrazia”, con riferimento alla loro coerenza e allo spirito di sacrificio che ne animò l’impegno. Fu anche società segreta? Sì. Aveva motivo di esserlo. Doveva “coprire” i suoi Figli e Fratelli. Come, appunto, Giovanni Pascoli, la cui iniziazione è a verbale della “VIII Agosto”: “Il Fratello Venerabile avvisa quindi i Fratelli che il profano Giovanni Pascoli, professore, desiderava farsi iniziare Massone, ma dovendo egli partire subito per il luogo del suo impiego, occorreva eccezionalmente ed in vista della bontà dell’elemento che avrebbe arricchito la

grande Famiglia massonica, che la loggia soprassedesse alle formalità d’uso. Il Fratello Venerabile ed altri Fratelli offrendosi della moralità di detto profano, l’Oratore conclude appoggiando la proposta che viene approvata ad unanimità. Si procede dunque all’ammissione di detto profano Giovanni Pascoli, professore di San Mauro di Romagna di anni 27”. Appresi “le parole, i segni e toccamenti del grado”, Pascoli prese posto “alla colonna del Nord”. E da lì, con la parola e l’esempio, riscaldò milioni di Uomini liberi e di buoni costumi altrimenti intirizziti dallo smarrimento dei valori costitutivi della Libera Muratoria.1 ________________ Note: 1 A sostegno della necessità di una storia do-


cumentata ed esauriente della Massoneria bolognese (come dell’intera regione) notiamo che, senza citare fonte alcuna, Pier Paolo D’Attore in La politica (Aa.Vv., Bologna, a cura di Renato Zangheri, Roma-Bari, 1986, pp. 76-77) scrisse: “Nel 1881 la Loggia Rizzoli contava tra gli adepti tutti i leaders democratici (Ceneri, Filopanti, Carducci, ecc.); nuove leve, come Barbanti, Bodano, Golinelli, Pascoli; liberali come Magni e Tacconi stesso”. Eppure nel 1986 da anni era disponibile il presente saggio di Carlo Manelli, dal quale si evince in modo inoppugnabile che la Rizzoli alzò le colonne il 21 dicembre 1881, ma non affiliò affatto Carducci, mentre Pascoli vi venne iniziato 23 settembre 1882. Anche illustri storici scrivono “a orecchio” e, purtroppo, “fanno testo”. P.4: Giovanni Pascoli, collez. privata; p.5: Iris, E.Harris, 1897, olio su tela; p.6: Busto di bambina di profilo (Gotine rosse), G.Fattori, 1875, olio su tavola; p.6 in basso: Giovanni Pascoli, collez. privata; p.7: Mendicanti, A.X.Karl von Pettenkofen, olio su tela; p.8: Lavandaie a Torre del Lago, A.Tommasi, olio su tavola; p.9: Bovi bianchi al carro, G.Fattori, olio su tavola; p.10: Rosa vista da dietro, O.Ghiglia, olio su tavola; p.11: Ritratto di contadina di profilo, A.Mussini, pastello; p.12: La culla, B.Morisot, olio su tela,1872; p.13: Giovanni Pascoli, anonimo, olio su tela.

E nella notte nera come il nulla, a un tratto, col fragor d’arduo dirupo che frana, il tuono rimbombò di schianto: rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo, e tacque, e poi rimareggiò rinfranto, e poi vanì. Soave allora un canto s’udì di madre, e il moto di una culla. Tuono

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ella scheda dedicatagli in L’Italia dei Liberi Muratori (Roma, Erasmo, 2005, po.27-28) Vittorio Gnocchini scrive che Bassi venne condannato dal tribunale austriaco e fucilato “all’insaputa delle autorità religiose e della stessa autorità pontificia”. Quanto alla sua iniziazione liberomuratoria anch’e-

Storia gli, sulla scia di Manelli, riprende la lettera di Lenzi. V. però Rosario F. Esposito, Garibaldi e il p. Ugo Bassi in Santi e massoni al servizio dell’uomo, Foggia, Bastogi, 1992, pp. 99-118, con ampia bibliografia. Esposito cita l’articolo di Alessandro Luzio, massonofobo ma scrupoloso, il quale, sulla scorta di p. Antonio Bresciani S.J. (Don Giovanni Verità, ossia il benefattore occulto, “La civiltà cattolica”, 1856) scrisse che il comandante asburgico Gorzkowski mirò “con affannosa cura a non lasciar tempo all’autorità ecclesiastica di avocare la sua (di Bassi) causa al foro ecclesiastico: cosicché non hanno ragion d’essere le sanguinose invettive contro il clero, come complice dell’assassinio del Bassi, lanciate poi da molti, Garibaldi per primo”. Alla vigilia del forzato scioglimento, nel 1925, le logge dell’Emilia del Grande Oriente d’Italia erano così distribuite: Bologna, “VIII Agosto” e “Ca ira”; Ferrara, “Fratelli d’Italia” con triangolo a Codigoro; Forlì, “Aurelio Saffi”; Cesena, “Rubicone”; Rimini, “Giovanni Venerucci”; Modena. “Nicola Fabrizi - Secura Fides”, Carpi. “Ciro Menotti”; Sestola, “Luce del Frignano”; Parma, “Alberico Gentili”, con triangoli a Bedonia, Borgotaro, Colorno, San Secondo Parmense; Salsomaggiore, “Emilio Zola”, triangolo a Borgo S. Donnino; Piacenza: “Ernesto Nathan” e “Roma Nuova”; Ravenna: “Dante Alighieri”, Faenza ,“ “Torricelli”, Lugo “Dovere e Diritto”; Reggio Emilia, “G. Carducci - P. Pirondi”, triangolo a Guastalla. Negli Annali della Gran Loggia d’Italia (1908-2012) Luigi Pruneti documenta la forte presenza della Serenissima Gran Loggia in Emilia e Romagne, in specie nel 191825: un mondo del tutto ignorato dal volume collettaneo Bologna massonica. Le radici, il consolidamento, la trasformazione, a cura di Giovanni Greco (Bologna, Clueb, 2007), ove spicca il saggio di Stefano Scioli, Giovanni Pascoli, poeta e massone (pp. 301-318). L’Autore esprime gratitudine alla Signora Angela Melgrati che propiziò lo studio dell’opera di Alice Cencetti. 13


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La Massoneria e la guerra di Libia Luigi Pruneti

parte I 14


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noto che la penetrazione italiana in Libia ebbe inizio nel 1907 con gli investimenti del “Banco di Roma”, un importante istituto di credito controllato dai cattolici. Il “Banco” iniziò con l’aprire a Tripoli un’agenzia: fu la prima pietra di un vasto edificio che dopo tre anni comprendeva appezzamenti agricoli, una linea di navigazione e mulini. Per “creare – inoltre - una clientela favorevole agli italiani”1 s’intraprese una mirata politica di concessione di prestiti. Secondo alcuni storici le iniziative del “Banco di Roma” furono dettate da un sorgente desiderio d’imperialismo economico2; tale linea d’interpretazione è, tuttavia, controversa, giacché, per altri, gli investimenti furono sollecitati da ambienti governativi. In altre parole: sarebbe stata la politica a 1 S. Romano, Storia d’Italia dal Risorgimento ai nostri giorni, Milano 1998, p. 189. 2 Cfr. R. A. Webster, L’imperialismo industriale italiano. Studio sul prefascismo 1908 - 1915, Torino 1974.

muovere l’economia e non viceversa. Siffatta tesi sarebbe avvalorata dalla constatazione che nel 1907 era vice presidente del “Banco di Roma” Romolo Tittoni, fratello di Tommaso, allora Ministro degli Esteri. L’avventura economica sarebbe stata, dunque, pensata e voluta dai dicasteri

per motivi politici e ideali: i nazionalisti la consideravano una via breve per risolvere i problemi sociali del paese3, i cattolici erano affascinati dall’ipotesi che una forte colonizzazione della fertile “quarta sponda” avrebbe offerto lavoro e pane a 3 E. Corradini, L’ora di Tripoli, Milano 1911, p. 21.

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tanti indigenti e, alla lunga, sarebbe stata di supporto a una nuova evangelizzazione delle terre senza Cristo4. Da un punto di vista essenzialmente speculativo il progetto si rivelò avventato: gli affari dopo tre anni languivano tanto che, come annota Sergio Romano, l’istituto di credito fu costretto a svalutare il capitale sociale. La situazione poteva cambiare solo con la conquista italiana della Tripolitania e della Cirenaica; le grandi potenze europee lo avevano ampiamente dimostrato, dove erano riuscite a imporsi avevano spalancato le porte a imponenti e fruttifere speculazioni. Fra sogni di gloria e di facili proventi si discusse fino al Gennaio del 1911 quando il quadro internazionale mutò repentinamente a seguito della seconda crisi marocchina e della conferenza di Agadir5. Fu chiaro a quel punto che le possibilità erano due: o il regno d’Italia sarebbe intervenuto velocemente o avrebbe dovuto rinuncia4 S. Romano, Storia d’Italia dal Risorgimento ai nostri giorni … cit, p. 190. 5 E. Gentile, Le origini dell’Italia contemporanea. L’età giolittiana, Roma – Bari 2011, p. 177.

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re per sempre alle sue mire sulla “quarta sponda”. Il presidente del Consiglio Luigi Luzzatti, tuttavia, sembrava nicchiare. Egli non era un guerrafondaio, diffidava delle avventure militari alla Crispi, temeva eventuali ripercussioni internazionali e, soprattutto, era perplesso sul costo economico di un’avventura di quel genere6. Fu a quel punto che le forze politiche favorevoli all’occupazione della Libia tirarono in ballo la massoneria e un suo presunto complotto. Il giornale che più si distinse in questa campagna fu “Il Momento” di Torino, testata di proprietà della “Società Editrice Romana” di Giovanni Grosoli7. Già il 6 Gennaio8 uscì un articolo per de6 Sui dubbi di Giolitti sulla preparazione dell’esercito, si vedano le confidenze che egli rilasciò ad un giornalista amico poco prima dell’entrata in guerra dell’Italia nel primo conflitto mondiale. O. Malgodi, Conversazioni sulla guerra 1914 – 1919, Napoli 1960, p. 58. 7 F. Malgeri, La stampa cattolica, Brescia 1965, p. 323; G. De Rosa, Il movimento cattolico in Italia, Bari 1970, p. 327. 8 6 Gennaio 1911.

nunciare le manovre settarie nelle quali sarebbe stato coinvolto lo stesso Presidente del Consiglio; lo provava un incontro avvenuto poco tempo prima fra Luigi Luzzatti e una delegazione di “giovani turchi”. Il colloquio si sarebbe svolto in un clima così cordiale da sembrare “fraterno” e, al termine, il capo del Gabinetto avrebbe assicurato gli ospiti sulle intenzioni dell’Italia: non era previsto alcun intervento in Tripolitania. Non vi era da stupirsi: per il quotidiano cattolico massoneria e “giovani turchi” erano la stessa cosa, l’una aveva generato gli altri, fatti e dichiarazioni lo dimostravano. Il 27 Dicembre del 1908, ad esempio, Ettore Ferrari, sempre pronto a sciorinare i fasti latomistici, aveva imputato alla libera muratoria la svolta avvenuta nell’impero Ottomano9. Non solo il Gran Maestro, dando sfoggio di notevole immaginazione, aveva paragonato la marcia su Istanbul al Risorgimento e il movimento turco alla “Giovane Italia” ma, poco dopo aveva inviato una lette9 A. Rainero, Storia della Turchia, Milano 1973, pp. 225-233.


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ra a Emanuele Carasso, Venerabile della loggia “Macedonia Risorta” ed esponente di spicco della nuova classe dirigente, per esprimergli incoraggiamento e solidarietà fraterna. Due anni più tardi, nella primavera del 1910, un gruppo di “giovani turchi” aveva visitato la Penisola per stabilire rapporti economici e culturali con il Regno d’Italia. A latere degli incontri ufficiali vi furono visite agli Orienti giustinianei di Novara, Livorno e Roma, dove fra cene e brindisi si era enfatizzata la catena fraterna che univa, nel nome del progresso, i Liberi Muratori del globo. Ve ne era a sufficienza per varare una complessa campagna stampa che dipingeva un governo asservito alla “setta”, sempre pronta a cospirare e a ordire oscure trame sullo scacchiere mediterraneo. Ben presto “Il Momento” fu affiancato da altri giornali e periodici, ben disposti a inveire contro gli incappucciati seguaci di Hiram. Si segnalarono, fra gli altri, il “Corriere d’Italia” di Roma e “Civiltà Cattolica” che lamentò come la massoneria “ponesse a soqquadro l’ordine interno dei paesi europei”10. Il fronte interventista in breve tempo unificò linguaggio e messaggi e fu una sinfonia assordante che da una parte denunciava gli impedimenti artatamente frapporti all’impresa, dall’altra enfatizzava i be10 1911, I, p. 225

nefici offerti da quella fetta d’Africa: immense ricchezze naturali11, terre fertili a non finire12, occasioni d’impresa e di lavoro per tutti; il paese del bengodi era lì, a portata di mano, non aspettava altro che gli Italiani, bisognava però far presto, perché i Tedeschi, visti i nostri tentennamenti, avevano già volto lo sguardo sul “bel suol d’amore”13. Di fronte alle 11 F. Malgeri, La guerra di Libia, Roma 1970, p. 38. 12 G. Rochat, Guerre italiane in Libia e in Etiopia, Treviso 1991, p. 13. 13 S. Romano, Storia d’Italia dal Risorgimento

ricorrenti accuse il G.O.I. taceva. Solo il 12 Settembre del 1911, Ulisse Bacci replicò da par suo, cantando l’unico, usurato ritornello che conosceva: era solo una montatura, un gran polverone sollevato dalla “malevolenza clericale”14. Si trattò più che di una voce nel deserto, di un gemito, flebile e per di più stonato; ci voleva ben altro per contrapporsi al coro nazional-clericale che ormai sparava bordate ai nostri giorni … cit, p. 191. 14 La massoneria italiana dà macchina indietro?, in “Corriere d’Italia” 13 Settembre 1911.

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to. Altrimenti tutto sarà corrotto, tutto diventerà massonico: la scuola, la caserma, le beneficenze, l’anima stessa dei nostri figliuoli diventeranno tenebrose e settarie. L’epidemia massonica è peggiore dell’epidemia colerica15. Nel corso di questa feroce polemica anche la Serenissima Gran Loggia, fondata un anno primo dal Supremo Consiglio Scozzese di Saverio Fera16, fece sentire la propria opinione. In un articolo pubblicato sul “Corriere d’Italia”, il Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro tenne a precisare che la sua Comunione non aveva niente da spartire con i “giovani turchi” ed era estremamente favorevole all’occupazione della Libia, giacché considerava sacri e irrinunciabili gli interessi della Patria17. Intanto le cose stavano precipitando; Giolitti, subentrato a Luzzatti nella guida del Paese, aveva deciso d’intervenire, non tanto per accontentare le destre18, quanto per coad alzo zero affermando che la massoneria era il male assoluto, la moderna cancrena che contaminava tutto ciò che incontrava: Bisogna tagliare, bisogna dire al popolo la verità e far disprezzare dal popolo il massonismo, quello larvato e quello spudora18

15 “Il Momento”, 23 Settembre 1911. 16 Sulla fondazione della Serenissima Gran Loggia d’Italia cfr. L. Pruneti, La tradizione massonica scozzese in Italia, Roma 1994, p. 85 e segg. 17 Il dissidio della massoneria per la questione di Tripoli, in “Corriere d’Italia”, 12 Settembre 1911. 18 Cfr. G. Carocci, Giolitti e l’età giolittiana, Torino 1961.

agulare società, opinione pubblica e forze politiche in un’operazione che ormai era diventata uno dei principali se non il principale problema di politica internazionale; probabilmente tale considerazione fece mettere da parte al prudente uomo politico piemontese la sua riluttanza alla guerra e i dubbi che forse nutriva sulla preparazione dell’armata19. Il 24 Settembre, Giolitti ottiene dal re il consenso a porre l’ultimatum alla Turchia che fu inoltrato due giorni più tardi; si chiedeva, entro 24 ore, il consenso all’occupazione militare della Tripolitania e della Cirenaica per porre termine all’ostilità verso le iniziative italiane in quelle terre. All’ultimatum seguì il 29 Settembre la dichiarazione di guerra che non fu approvata, né ratificata dalla Camera, i cui lavori rimasero sospesi dal Luglio del 1911 al Febbraio del 1912. La decisione di entrare in guerra colse di sorpresa lo Stato Maggiore dell’esercito che, influenzato dal mondo politico e dalla campagna stampa favorevole al conflitto, confidava in una mancanza di ostilità da parte degli Arabi; l’ottimismo è una malattia contagiosa e ormai nella Penisola tutti erano certi che la partita sarebbe stata giocata solo con poche migliaia di soldati turchi20, per di più male equipaggiati e scarsamente motivati. La prima fase delle operazioni sembrò confermare le più rosee previsioni. Il 5 Ottobre milleottocento marinai sbarcarono a Tripoli, seguiti il giorno 11 dalla prima divisione comandata dal Generale Guglielmo Pecori Girardi: era il primo contingente del corpo di spedizione agli ordini del Tenente Generale Carlo Caneva. Lo sbarco si svolse tranquillamente, i Turchi sembravano essersi volatizzati, le truppe italiane ebbero così agio di occupare la città, senza colpo ferire. Fra il 19 Sui dubbi di Giolitti sull’adeguatezza dell’esercito italiano, si consideri una confidenza che egli fece ad un giornalista amico poco prima dell’entrata in guerra dell’Italia nel primo conflitto mondiale. Fra l’altro il navigato uomo politico affermò: “Gli ufficiali regolari non sono inferiori a nessuno per valore, e sono anche colti e preparati, e specie i più giovani; ma i generali valgano poco; sono usciti dai ranghi quando si mandavano nell’esercito i figli di famiglia più stupidi, dei quali non si sapeva cosa fare”. O. Malagodi, Conversazioni della guerra 1914 – 1919, Napoli 1960, p. 58. 20 O. Bovio, Storia dell’esercito italiano (1861 – 2000), Roma 2010, p. 203.


garrire dei Tricolori e il sorriso degli ufficiali in posa per le foto di rito, i reparti si attestarono nei punti nevralgici e provvidero a proteggere il perimetro urbano con trincee, caposaldi e improvvisati fortini. Tutto andò bene fino al 23 Ottobre, quando le truppe ottomane scatenarono un’improvvisa offensiva; contemporaneamente le nostre posizioni a Sciara-Sciat furono assalite alle spalle dagli Arabi; così, in poche ore, rimasero sul campo 370 soldati e 8 ufficiali. La guerra mostrò a quel punto il vero volto e ciò che era sembrata una facile passeggiata si trasformò in un vero e proprio conflitto21 che alla fine, complice il colera, costò quasi 3500 morti22. Le ostilità terminarono il 18 Ottobre del 1912 con la firma della pace che stabilì la concessione, da parte del Sultano, dell’autonomia di Tripolitania e Cirenaica e il ritiro delle truppe turche dalle due regioni, cui sarebbe seguito quello italiano dalle isole dell’Egeo. La Turchia non rinunciava alla sovranità sulla Libia ma solo all’amministrazione e all’occupazione militare. L’Italia, col pretesto che le truppe turche non si erano ritirate dalla Cirenaica, mantenne l’occupazione del Dodecaneso, annesso ufficialmente al Regno solo nel 1923. L’impresa di Libia ebbe fra le numerose conseguenze quello di avvicinare cattolici e nazionalisti; gli uni e gli altri costituirono un fronte unito nel combattere un comune nemico: la massoneria. I primi consideravano la lotta alla “sinagoga di satana”23 una sorta di missione divina, i secondi la reputavano, fin dalla costituzione del partito, il nemico da battere, la seminatrice di ideali umanitari e cosmopoliti, buoni a infiacchire le coscienze e a nuocere agli interessi della Patria24. Concetti per lo meno adiacenti alla vituperata “mentalità massonica” di Benedetto Croce, condivisa da molti a 21 Cfr. S. Romano, La quarta sponda. La guerra di Libia 1911 – 1912, Milano 1977. 22 O. Bovio, Storia dell’esercito italiano (1861 – 2000) … cit, p. 2010. 23 Il termine “sinagoga di satana”, desunto dall’Apocalisse (2-9 e 3-9), fu spesso adoperato dai cattolici della fine dell’Ottocento per definire la Massoneria. L. Pruneti, La sinagoga di satana. Storia dell’antimassoneria 1725 – 2002, Bari 2002, p. 81. 24 L. Pruneti, La sinagoga di satana. Storia dell’antimassoneria 1725 – 2002 … cit, p. 130.

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cominciare dal giovane Carlo Arturo Jemolo che scriveva: Se rivado al 1912 – 13, mi rivedo anch’io pieno di odio antimassonico; che veramente non andava tanto a torti che vedessi compiere, ad ascensioni di palloni vuoti che vedessi sotto gli occhi, quanto alla “mentalità massonica”, a quel positivismo diffuso, a quell’anticlericalismo settario, e spesso stupidamente settario, con grossolane falsificazioni della realtà; ed anche a quel pacifismo di cui sentivo la falsità sostanziale25. D’altra parte, poco prima che scoppiasse la guerra, nazionalisti e cattolici, pur da pulpiti distinti, si erano già trovati uniti nell’accusarla e già in quella occasione avevano supposto che a lei fosse riconducibile il tarlo che rodeva 25 V. Meattini, Benedetto Croce e la mentalità massonica, Bari 2011, p. 17.

P.14, 15, 16, 17: Fotografie e cartoline relative alla Guerra di Libia del 1911, collez. privata; p.15: Carta geografica dell’Africa Nordorientale, primi del ‘900; p.18: Medaglie e fascette relative alla ‘Guerra Italo-Turca’ del 1911-12; p.19: Emissioni filateliche delle ‘Colonie Italiane’, primi anni ‘20.

l’armata e la flotta. Scheletri mai sepolti tornarono ad agitarsi nei ragionamenti catto-nazionalisti, rapido il pensiero tornava all’onta di Adua e a chi ne veniva considerato il responsabile, quel generale Oreste Baratieri, prima celebrato dalle logge come “fratello illustre” e poi disconosciuto dalla “Rivista della Massoneria Italiana”26. [segue sul prossimo numero]

26 A. A. Mola, Storia della Massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni, Milano 1992, p. 245.

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Paolo Aldo Rossi

L’isola tiberina e il mito di Esculapio

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Roma, nell’Insula Tiberis (divenuta Insula Aesculapii o Epidauri), il culto del “dio-eroemedico”, allievo del Centauro Chirone, fu introdotto pubblicamente dopo la pestilenza del 293 a. C. (quasi certamente una epidemia di vaiolo). Si interpellarono i Libri Sibillini i quali dichiararono che la peste sarebbe cessata solo se si fosse fatto venire Esculapio da Epidauro a Roma: “Inventum in libris Aesculapium ab Epidauro Romam arcessendum”. E “Poiché la città era in grave difficoltà a causa del morbo, furono mandati degli ambasciatori perché trasferissero il simulacro di Esculapio nell’Urbe; essi riportarono un serpente che si era introdotto 20

nella loro nave e nel quale tutti pensavano che fosse presente il dio stesso. Siccome quel serpente sbarcò nell’isola Tiberina, in quel luogo fu eretto un tempio ad Esculapio”1. Il Senato mandò dunque un’ambasceria per avere il serpente del dio della medicina che, imbarcato e giunto al Tevere, saltò dalla trireme che lo trasportava a Roma mostrando alla popolazione il luogo dove voleva che gli fosse edificato il tempio. I medici greci, per contenere l’epidemia, avevano scelto il luogo più sicuro per il posto della “quarantena” e da quel momento – consacrazione del tempio nel 289 a. C. - l’isola tiberina ebbe sempre a che fare con la salute).

L’unico segno sopravvissuto dell’Asclepieion (a parte la forma dell’isola a trireme, con tanto di prua, poppa e persino di albero maestro, rappresentato, in origine, da un obelisco) consiste nella consuetudine secondo cui nella chiesa di San Bartolomeo, situata nello stesso posto, si curarono gli ammalati e i contagiati da epidemie. È stata recuperata dagli scavi nel Tevere una quantità di ex-voto anatomici e di iscrizioni votive a testimoniare come Asclepio desse assistenza agli ammalati e ai sofferenti. Ma chi è Asclepio per gli Elleni o Esculapio per i Romani? Per l’Iliade omerica (IX-VIII sec.) è solo un medico esperto, come dice Agamen-


none: “… chiama Macaone l’eroe figliuolo d’Asclepio, guaritore eccellente” (Iliade 4, 194); o Idomeo che dichiara a Nestore: “Uomo guaritore che vale molti altri uomini a estrarre dardi e a spargere blandi rimedi” (Iliade XI 518). Più tardi diventa negli Inni omerici (VIIVI secolo) il figlio di un dio: “Il risanatore dei morbi, Asclepio, comincio a cantare, figlio di Apollo, che generò la divina Coronide figlia del re Flegias, nella pianura Dotia, grande conforto per gli uomini, dio che scongiura le crudeli sofferenze. Così io ti saluto, signore, e col canto ti rivolgo la mia preghiera”. (Inni omerici XVI. Ad Asclepio) Non è però ancora colui che vince la morte. Come Eracle è dapprima un eroe e con il tempo si trasforma in un dio che cerca di violare la Necessità. Già nei poemi omerici si era assistito all’articolazione “dio = vita”. Allorché Ettore si accorge che il proprio scudiero Deifobo (in realtà Atena che ne aveva assunte le sembianze) scompare dal suo fianco proprio quando inizia il duello con Achille, si rende conto che l’eclisse del divino è il preludio della morte: “Misero io sono, a morte mi chiamarono gli dèi. Credevo d’aver Deifobo al mio fianco, egli è dentro le mura e mi tradì Atena. Al fianco ho già la morte e nessun scampo v’è per me”2. In quanto ordinatore (ma mai creatore!), il dio stesso deve consentire alle leggi di natura e, di conseguenza, non gli è permesso di violarle. Spesso i poeti ci ricordano che al dio tutto è concesso e che egli tutto può, ma questo tutto è iscritto nella sfera dell’accidentale, dell’événementiel. Il più immediato dei limiti che sono imposti al dio greco è quello di non avere nessun potere sulla morte. Nessun dio può ridonare la vita a un morto o può fermare e invertire il destino di morte. Ci basti un esempio per tutti: “Neppur gli dei dice Atena - possono distornare la morte dall’uomo amato, quando la Moira malvagia della Morte lo atterra”3. Secondo Esiodo (VIII-VII secolo), Asclepio fu figlio di Apollo e la madre sarebbe stata Arsinoe, una delle figlie di Leucippo e secondo lui avrebbe cercato di trasgredire alle leggi di Ananke4 (fr. 51 R. Merkelbach- M. L. West), ma il dio è presente laddove c’è vita e s’allontana nel momento in cui la morte riconferma il disordine

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e mai egli opera il miracolo. Dico cercato, non ottenuto, perché la necessità è inalterabile. “Infatti – dichiara Parmenide - la dominatrice Necessità lo tiene nelle strettoie del limite che tutto intorno lo cinge; perché bisogna che l’essere non sia incompiuto e non manchevole. Se lo fosse mancherebbe di tutto”5. Secondo Pindaro (Cinocèfale, 520-518 a.C. ca. - Argo, 438 a.C. ca.), Asclepio era stato concepito da Apollo nel grembo di una mortale, Coronide [la longeva cornacchia], figlia di Flegia, re dei Tessali: “Quanti erano venuti con piaghe congenite, o con le membra ferite da bronzo lucente o da pietre scagliate da lontano, oppure devastati nel corpo per le febbri d’estate o per il gelo, Asclepio liberava ciascuno dal suo male. Alcuni guariva con incantesimi delicati, ad altri faceva bere pozioni salutari o applicava unguenti alle membra, e altri risanava con tagli … Ma dal guadagno anche il sapere è domato. L’oro apparso nelle mani volse anche Asclepio, tanto sontuoso era il compenso, a riportare di qui dalla morte un uomo che già era sua preda. Ma di sua mano Zeus scagliò il fulmine su entram22

bi, e tolse loro il fiato dal petto”. (Pitica 3, 47 ss. e vv. 53-57) Pindaro è il primo dei Greci che parla della sopravvivenza di una “vita” per l’uomo (fr. 16 B): “Viva rimane ancora un’immagine di vita che viene dagli dei. Dorme mentre le membra agiscono, ma quando l’uomo dorme spesso mostra nei sogni una decisione di gioia o di avversità futura”. E nel fr. 137: “Beato chi ha accesso sotto la terra dopo aver compreso quelle cose: conosce il fine della vita, conosce il principio dato dalla divinità”. E qui ricordiamo necessariamente Eraclito - “Chi sa se il vivere non sia il morire e il morire invece vivere”6-, da cui Platone prenderà le mosse per le sue notissime argomentazioni sulla vita dopo la morte nel Gorgia, nel Cratilo, nel Timeo e nella Repubblica. Al riguardo sentiamo l’intera storia dallo “pseudo” Apollodoro di Atene (ca. 180120/110 a.C., ma la Biblioteca è molto più tarda, ca. II sec. d. C.): “Alcuni dicono però che Asclepio non è figlio di Arsinoe figlia di Leucippo, ma di Coronide, figlia di Flegia di Tessaglia. Dicono che, innamorato di Coronide, Apollo si unì a lei, ma lei, contro la volon-

tà del padre, preferì sposare Ischi, fratello di Caneo. Apollo, dicono, si innamorò di lei e subito la fece sua; ma la fanciulla andò ad abitare insieme al mortale Ischi, fratello di Ceneo. Apollo maledisse il corvo che gli aveva raccontato la faccenda, e da bianco che era lo fece diventare nero. Poi uccise Coronide. Mentre la fanciulla veniva cremata sul rogo, Apollo strappò dal fuoco il suo bambino e lo portò al centauro Chirone, che lo allevò e lo istruì nell’arte della medicina. Asclepio divenne medico, e tanto progredì nella sua professione che presto riuscì non solo a salvare molti dalla morte, ma addirittura a far resuscitare gente già morta. Atena infatti gli aveva dato il sangue sgorgato dalle vene della Gorgone: con il sangue sprizzato dalle vene di sinistra poteva provocare la morte della gente, con quello delle vene di destra poteva restituire la salute - e proprio questo usava per risvegliare i morti … [Alcuni dicono ch’era per via di un erba portatagli dal serpente] Ma Zeus, preoccupato che gli uomini se la cavassero ormai da soli - se bastava Asclepio per guarirli -, lo colpì con il suo fulmine”. (Biblioteca III. 10, 3) Nel 438 a. C. l’Alcesti di Euripide inizia


con le parole di Apollo: “Di chi la colpa? Ma di Zeus. Aveva ucciso mio figlio Asclepio, fulminandolo in pieno petto con la folgore e io, sdegnato, sterminai i Ciclopi, i fabbri delle saette di Zeus”. Ma perché il Padre degli dei aveva ucciso nientemeno che una divinità: Asclepio, il dio della medicina? Nel 428 a.C. Euripide vinse l’agone tragico con Ippolito, dove a farla da protagonista è Fedra, figura passionale tutta presa dalla propria bellezza e dalla sua sensualità fuori della norma (o meglio, tipica delle donne sfrenate di una casata da cui essa trae origine e dalle quali discende). Essa, bruciando d’amore non corrisposto per Ippolito, figlio di primo letto del marito Teseo, si vendica dell’adolescente lasciando scritto che l’aveva violentata e per questo lei si era uccisa. Il re-eroe ateniese crede alla moglie e scaglia contro Ippolito una maledizione fatale, dopo averlo bandito. I cavalli dell’innocente giovane in fuga, imbizzarriti da un mostro suscitato contro di lui da Poseidone, lo trascinano e lo travolgono facendolo a brandelli tanto che, ricondotto in scena solo per morire e per perdonare al padre, lascia che sia la vergine Artemide, nell’Epodo, a spiegare come siano andate veramente le cose. La magistrale descrizione del Nunzio degli ultimi minuti di vita di Ippolito, straziato dai cavalli e dal cocchio, non può che terminare con la morte del giovane devoto e custode del culto di Artemide, il quale avrà come compenso dei suoi mali che la sua storia non cadrà mai nell’oscuro abisso del silenzio. Ma dieci anni prima Euripide, che molto parlerà dei misteri ineffabili e interdetti, rappresentando l’Alcesti aveva scritto: “Io che lessi poeti e librai la mia mente, e che infinite teorie toccai, nessun farmaco colsi forte piú di Necessità nelle tavole traci, che tracciò con la voce Orfeo né nei rimedi che ai figli d’Asclepio diede Febo, salvezza di guai per i mortali tristi. E lei l’unica dea cui non giova rivolgere preci né sangue delle vittime”, terminando però con: “Sono molte le sorti che il cielo ci dà e compiono eventi inattesi gli dei, né ciò che credemmo diviene realtà; risolve le cose incredibili un dio”7. Sofocle nel 420 a. C. accolse, infatti, nella sua casa la statua del dio Asceplio ed il serpente (l’animale che risorge dalla

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morte), che in occasione dei Grandi Misteri furono trasportati da Epidauro ad Atene. Virgilio - quattro secoli esatti dopo l’Ippolito di Euripide - scriveva nella Eneide: “Moveva a guerra anche il figlio d’Ippolito Virbio bellissimo, che Aricia, la madre, adorno mandò, cresciuto nei boschi d’Egeria, intorno all’umide rive, dov’è ricca e propizia un’ara sacra a Diana”8, raccontando che gli abitanti dei colli Albani reputavano che il dio Virbius, occultato e sottratto alla vista nel boschetto sacro a Diana, presso Ariccia nelle folti selve intorno al lago di Nemi, non fosse altri che Ippolito, mascherato e reso non identificabile, che Diana-Artemide aveva trasportato colà salvandolo, anzi strappan-

dolo alla morte (anzi “risuscitato dall’erbe peonie e dall’amor di Diana”) con l’aiuto di Asceplio, il quale poi fu fulminato da Zeus perché: “si sdegnò che dall’ombre inferne un mortale tornasse alla luce e alla vita, e lui stesso col fulmine precipitò l’inventore d’una tal medicina, il figlio di Febo, nell’onde di Stige“9. Nessun dio può ridonare la vita a un morto o può fermare ed invertire il destino di morte10, ma a volte un dio ci prova a favore degli eroi che ama (Teti con il figlio Achille o Eracle con Alcesti) o di un bimbo che vorrebbe salvare dalla vita mortale (Demetra con il figlio di Celeo, Demofonte) e una volta (è il caso di Ippolito) ci riesce, mentre l’essere umano è sempre destinato al fallimento (es. Orfeo 23


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ed Euridice o Teti con Peleo). Il fatto che l’allievo del centauro Chirone, che era riuscito a resuscitare un morto, venga colpito dal fulmine letale di Zeus ci fa capire che il dio della medicina, il figlio di Apollo, Asclepio, deve morire perché ha sfidato la morte. La vince, almeno una volta con Ippolito, ma alla scienza è vietata, interdetta e negata questa strada; rimane solo la via dei mysteria: la viva speranza dell’uomo nella resurrezione e nella vita dopo la morte. “Ma Trivia - continua Virgilio - nascose Ippolito in luoghi segreti, pietosa, al bosco e alla ninfa Egeria legandolo, ché là, solo, ignoto, nell’itale selve vivesse, e cambiasse anche il nome, e Virbio fosse”11. Ippolito – consacrato alla grande dea asiatica Artemide – è vivo. Il figlio dell’ Amazzone Ippolita e dell’ eroe Teseo sta nel sacro recinto di Diana e da quel luogo “ … si tengono lontani i cavalli zoccolo solido, che rovesciarono e giovane e carro sul lido, dai mostri marini sgomenti.”12, 24

animali che ricordavano la morte del risorto, ma che rimandano anche al suo nome, a quello della madre e all’animale (il cavallo) delle antianeirai (Iliade, 6,186), le donne “uguali ai maschi”. Anche Ovidio fa raccontare a IppolitoVirbio la “storia” del figlio di Teseo, che la matrigna Fedra tentò di sedurre, con molti più particolari: “La figlia di Pasifae un tempo cercò di indurmi a violare il letto di mio padre, ma non le riuscì: allora, rigettando su di me la colpa, mi accusò di esser stato io a pretendere quello che invece era stata lei a volere (non so se per paura che io la denunciassi o piuttosto per il rancore di esser stata respinta). Il padre cacciò via dalla città me del tutto innocente e, mentre me ne andavo, scagliò sul mio capo una tremenda maledizione. Io mi stavo dirigendo col mio carro di esule verso Trezene, città di Pitteo, e già costeggiavo l’istmo di Corinto, quando il mare si sollevò improvvisamente e si vide un’immensa massa d’acqua alzar-

si e prendere la forma ricurva di un monte da cui, spaccatasi la cima, provenivano muggiti. Dalla spaccatura balzò fuori un toro dalle grandi corna, che emergeva nella tenuità dell’aria fino al petto, mentre dalle narici e dalla bocca spalancata vomitava a fiotti il mare. I miei compagni ne furono atterriti, ma io rimasi lucido e impassibile, già fin troppo provato dall’esilio. Ma ad un tratto i cavalli, imbizzarriti, volsero il collo verso il mare: drizzando le orecchie rabbrividirono, sconvolti dalla paura del mostro, e trascinarono il carro giù a precipizio per l’alta scogliera. Io mi sforzavo vanamente di tirare con le mani i morsi, coperti di schiuma biancastra, e buttandomi indietro tendevo al massimo le flessibili redini. L’impeto rabbioso dei cavalli non sarebbe riuscito a vincere il mio sforzo se una delle ruote che girano vorticosamente intorno all’asse non avesse urtato contro un tronco rompendosi e andando in mille pezzi. Venni sbalzato giù dal carro, e poiché i finimenti tenevano impigliate le mie membra, avresti potuto vedere le mie viscere vive lacerarsi, i muscoli e i nervi restare attaccati al tronco, parte del mio corpo venir trascinata in avanti, parte trattenuta e lasciata indietro; s’udivano le ossa spezzarsi con cupo rumore e si sarebbe potuta vedere l’anima sfinita spirare: non esisteva parte del mio corpo che si riuscisse a individuare perché tutto quanto era una ferita sola. […] vidi anche il regno ove non penetra la luce e ristorai il mio corpo a brandelli nelle acque del Flegetonte; la vita non mi sarebbe stata restituita senza l’intervento del figlio di Apollo col suo potente rimedio. Ma dopo che ne tornai in possesso, grazie alla forza delle erbe e all’arte di Peone, malgrado l’opposizione di Dite, allora Cinzia mi gettò addosso una cortina di dense nubi, perché la mia apparizione non alimentasse l’invidia per il dono che avevo ricevuto; e inoltre, per garantirmi la sicurezza di mostrarmi senza rischio, mi invecchiò e rese irriconoscibile il mio volto. Esitò poi a lungo se assegnarmi Creta o Delo come sede, ma scartò ambedue i luoghi per mandarmi qui, ingiungendomi anche di rinunciare al mio nome che poteva far ricordare i cavalli. Tu che sei stato Ippolito, sii ora Virbio! mi disse. Da quel momento abito questo bosco di cui sono uno degli dei minori: vivo all’ombra della divinità che mi protegge e


da cui dipendo”13. Qui è narrata, con dovizia di particolari crudeli e spietati (ma anche con dettagli verosimili e prevedibili), la morte di Ippolito e la sua resurrezione: “Dite indignante” dichiara il poeta (malgrado il deciso rifiuto di Ade o Plutone)14. A quanto ne sappiamo, è l’unico mortale, custode dei misteri di Diana, che non solo risorge da morte, ma diventa anche immortale, ossia “inde colo de diisque minoribus unus”. Ovidio recita testualmente “Nympha, mone, nemori stagnoque operata Dianae; Nympha, Numae coniunx, ad tua facta veni. Vallis Aricinae silva praecinctus opaca est lacus, antiqua religione sacer”. Ossia: “Istruiscimi, o ninfa racchiusa dal bosco e dal lago di Diana; ninfa, sposa di Numa, sono giunto a celebrare i tuoi atti. Cinto da un folto bosco nella valle di Ariccia, v’è un lago consacrato dal religioso culto degli antichi”15. È chiaro che sta parlando del noto santuario di Diana ad Ariccia, ma è del tutto ipotizzabile che i riti fossero simili a Roma sull’Aventino, a Nemi … nell’arce sacra di Capua o nel Santuario di Baia (ad esempio la presenza di puer integri e di puellae, della divinità trivia protettrice della caccia e delle partorienti, della luce e degli accessi) e al cospetto della dea virgo, anche negli altri luoghi a lei dedicati, erano ricordate le gesta di Artamis-Diviana. “Le fanciulle, in eterno, si cureranno di te nelle musiche e nei canti” (Euripide, Ippolito). L’iniziale luogo di culto di Asclepio era una grotta presso Tricca, una ninfa epònima dell’omonima città della Tessaglia occidentale, dove sotto il simbolo del suo attributo principale, il serpente, dava oracoli; si estese poi ad Epidauro, in Argolide, il centro principale e prese piede a Kos nel Dodecanneso (patria dei medici ascepliadi, il più famoso dei quali era Ippocrate), ad Atene e in tutto il mondo ellenico. Gli furono dedicate le feste Asclepiadee: le Grandi nell’arco di tempo di una settimana venivano festeggiate ogni quattro anni, sette giorni dopo le Istmiche, l’Epidaurie, venivano celebrate ad Atene, il 17 o 18 Boedromione congiuntamente ai Misteri eleusini, l’incontro della vita e della morte I santuari dedicati ad Asclepio, i cosiddetti Asclepiei, erano costituiti da una fonte o un pozzo, circondati da un bosco sacro, e dalla casa di cura, perché i malati

nia, Milano, Rizzoli, 1997. 5 Simplicio (Phisica, 179, 31). 6 Euripide, Polyidos, (fr. 639) o Phrixus (fr.830) Cfr. Platone, Gorgia, 492: “… né mi meraviglierei che Euripide proferisse la verità là dove si domanda: ‘Chi sa se il vivere non sia morire e il morire invece vivere’ e, propriamente, può darsi in verità noi siamo morti”.

Mitologia

passavano una notte nell’adyton (“luogo in cui non è possibile entrare”) e dopo un sogno, ottenuto probabilmente con mezzi artificiali, seguiva la guarigione. All’inizio, Asclepio venne raffigurato giovane e imberbe, ma poi si passò a rappresentarlo come un uomo nel pieno vigore, il viso circondato da una folta barba e soffuso di un’espressione di mitezza e bontà. I suoi attributi sono lo scettro, la verga e il rotolo di libro. Gli erano sacri il serpente che lambisce le ferite, il cane e le oche. Sacro gli era anche il gallo, simbolo del giorno e della vita che rinascono. Con una sublime identificazione della morte con la guarigione dal male della vita, Socrate morente, come ci riferisce Platone nel Fedone, pregò gli amici che si sacrificasse un gallo ad Asclepio: “E già la parte inferiore del ventre veniva ormai raffreddandosi, quando si scoperse il volto che già era stato coperto, e disse ancora queste parole (le ultime da lui pronunciate): - O Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio; dateglielo, e cercate di non dimenticarvene”. ______________ Note 1 Tito Livio, Ab urbe condita, X, 47 e XI. Ovidio, XV, Metamorfosi (vv. 622-745). 2 Omero, Iliade, XXII, 297-98. 3 Omero, Odissea 3, 236 e sgg. 4 Esiodo, Frammenti, ed. R. Merkelbach-M. L. West, Oxford, 1967; Opere, ed. e trad. fr. P. Mazon (1928), Parigi, Les Belles Lettres, 1967; trad. it. Opere e giorni, Milano, Garzanti, 1985; Teogo-

7 Euripide, Alcesti, a cura di Filippo Maria Pontani, Roma, 1977. 8 Virgilio, Eneide, VII, 765-780 “Ibat et Hippolyti proles pulcherrima bello, Virbius, insignem quem mater Aricia misit, eductum Egeriae lucis umentia circum litora, pinguis ubi et placabilis ara Dianae”. “Dicono infatti che Ippolito, poi che morì per le mene della matrigna, col sangue pagò l’ira del padre, squartato dai cavalli impauriti, di nuovo alle stelle eterie tornò, all’aria di sopra ed al cielo, resuscitato dall’erbe peonie e dall’amor di Diana. Ma il padre onnipotente si sdegnò che dall’ombre inferne un mortale tornasse alla luce e alla vita, e lui stesso col fulmine precipitò l’inventore d’una tal medicina, il figlio di Febo, nell’onde di Stige. Ma Trivia nascose Ippolito in luoghi segreti, pietosa, al bosco e alla ninfa Egeria legandolo, ché là, solo, ignoto, nell’itale selve vivesse, e cambiasse anche il nome, e Virbio fosse. Per questo, dal tempio di Trivia, dal bosco a lei sacro, si tengon lontani i cavalli zoccolo solido, che rovesciarono e giovane e carro sul lido, dai mostri marini sgomenti”. 9 Virgilio, Eneide, loc.cit. 10 Omero, Odissea 3,236 e sgg . Ci basti un esempio per tutti: “Neppur gli dei - dice Atena - possono distornare la morte dall’uomo amato, quando la Moira malvagia della Morte lo atterra”. 11 Virgilio, Eneide, VII, loc. cit. 12 Virgilio, Eneide, VII, loc. cit. 13 Ovidio, Le Metamorfosi, XV, 500-545. 14 Ovidio, Fasti, VI, 21,733-762 [Ippolito]”…così perdette la vita con grande sdegno di Diana. ‘Non v’è motivo di addolorarsi - disse il Coronide: - infatti al casto giovane renderò la vita senza ferite, e il triste fato sarà vinto dalla mia arte’. Subito estrasse delle erbe da piccoli vasi d’avorio … Gli toccò tre volte il petto, tre volte pronunziò formule salutari: e il giovane sollevò il capo prima abbandonato sulla terra. Trova rifugio in un bosco sacro … Ma Clìmeno e Cloto se ne dolgono, lei di tessere di nuovo i fili, lui perché perdono così vigore le leggi del suo regno. Giove, temendo l’esempio, scagliò un fulmine su colui che aveva messo in opera l’eccessivo potere della sua arte”. 15 Ovidio, Fasti, III, 261-264. P.26: L’isola Tiberina, foto aerea; p.27: Statua di Asclepio (copia romana), I sec. d.C; p.28-29: Roma, l’isola Tiberina, incisioni di G.B.Piranesi, XVIII secolo; p.30: Tavoletta votiva di Esculapio, Igea e Telesforo, marmo, Kyustendil, Bulgaria; p.31: Statua di Asclepio (copia romana), I sec. d.C.

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I due doni di Prometeo e il Chirone ferito Paolo Maggi

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utti noi conosciamo il mito di Prometeo, il Titano fedele, che non abbandona Zeus durante la rivolta dei suoi simili, il Titano che assiste alla nascita di Atena dalla testa di suo padre. Prometeo, a dirla con un linguaggio moderno, è un grande esperto di scienza e tecnica: conosce l’architettura, l’astronomia, la matematica, la medicina, la metallurgia e la navigazione. È stata Pallade Atena a trasmettergli queste preziose conoscenze. Prometeo è amico dell’Uomo e si è dato una precisa missione: quella di farlo uscire dal suo stato di minorità. È per questo che gli fa dono del fuoco. Grazie al fuoco gli uomini saranno in grado di costruire, di realizzare opere. È il fuoco che permetterà agli uomini di possedere la technè. E la tecnica darà all’uomo gli strumenti per esplorare il mondo, permettendogli di espandere a velocità esponenziale la sua conoscenza. Meno noto è il fatto che il fuoco è solo il secondo dei due regali di Prometeo agli uomini: Eschilo, nel suo Prometeo incatenato, ci parla del suo primo dono: l’oblio dell’ora della morte. “Spensi all’uomo la vista della morte” dice Prometeo e la Corifea gli chiede: “Che farmaco trovasti a questo male?” La sua risposta è: “Seminai la speranza che non vede”. Il rapporto tra questi due doni non è affatto casuale. Proviamo per un istante a immaginare un’umanità costituita da individui consapevoli del momento della loro fine, magari anche consapevoli della fine dell’intera umanità: sarebbe un popolo di larve senza speranza, incapaci di dedicarsi con passione a qualsiasi tipo di attività superiore, paralizzate dal conto alla rovescia che precede la loro scomparsa. Prometeo ha invece donato all’umanità il farmaco della speranza che non vede. L’uomo, per produrre conoscenza, tecnica, arte, ha bisogno di assumere quel farmaco e darsi una prospettiva di immortalità. Può sentirsi immortale semplicemente negando la morte, raccontandosi quelle che Ernest Becker definisce le “preziose bugie” che ci nascondono in ogni momento della nostra vita l’ineluttabile prospettiva della sofferenza e della morte. Oppure può adottare linee difensive più raffinate, provando a scrivere il proprio nome nella storia e renderlo così immortale. L’uomo ha di volta in volta utilizzato diversi surrogati di immortalità: ha sacrificato la sua

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Il chirurgo ferito maneggia l’acciaio Che indaga la parte malata; Sotto le mani insanguinate sentiamo L’arte tagliente e pietosa di chi guarisce E scioglie l’enigma del diagramma della febbre Thomas S. Eliot

vita per conquistare un impero, per edificare costruzioni, per scrivere un libro, per costruire una famiglia, per accumulare una fortuna economica, o per affermare un’ideologia. Ma esiste una categoria di persone che non possono, o non potrebbero, permettersi il lusso di ingerire il farmaco della speranza che non vede, perché il loro mestiere è quello di guardare negli occhi la malattia e la morte. La loro storia è antica e affonda anch’essa in una leggenda, quella di un altro essere mitologico, il centauro Chirone. Come Prometeo, anche Chirone somiglia poco ai suoi simili: a differenza degli altri centauri, ignoranti e dediti alla violenza, Chirone era generoso, saggio e grande conoscitore di scienze, in particolare quella medica. Lo stesso Asclepio, il dio della medicina, fu un suo allievo. E scusate se è poco. Chirone fu chiamato a curare Achille che si trova27


va con una caviglia ustionata a causa dei molti maldestri tentativi, fatti da sua madre Teti, di renderlo immortale. Chirone gliela trapiantò, usando quella di un gigante morto, Damiso (oggi si direbbe che

za la prospettiva della morte sarebbe solo sofferenza in eterno. Il medico, al pari di Chirone, è un uomo ferito, un mortale che cura un altro mortale. Spesso è un malato che cura un altro malato. Gli an-

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fece un trapianto da cadavere). Il gigante era particolarmente dotato nella corsa, così Achille poté ringraziare Chirone, non solo per avergli guarito il tallone ustionato, ma anche per averlo fatto diventare Achille piè veloce. Lo sfortunato medico Chirone un giorno fu involontariamente colpito al ginocchio da una freccia avvelenata scagliata dall’amico Eracle, in guerra con gli altri Centauri (già a quei tempi il cosiddetto fuoco amico faceva le sue vittime). La ferita era gravissima e causava a Chirone indicibili sofferenze. Egli certo non poteva guarire, ma nemmeno morire, perché era nato immortale. Chirone desiderava ardentemente la morte e riuscì a ottenerla scambiando la sua immortalità con Prometeo, che Zeus aveva degradato al rango di mortale. Il padre degli Dei, al quale il centauro era particolarmente caro, lo volle comunque vicino a sé nel cielo, dando origine alla costellazione del Centauro. Dunque se l’oblio, la rimozione della morte, deve sempre accompagnare la technè, la medicina sen28

tichi sciamani dicevano che un medico è veramente degno di guarire una malattia solo quando egli stesso ne ha sofferto. E, in più, le sue conoscenze lo dovrebbero portare a non poter bere il farmaco della speranza che non vede. Come Chirone dovrebbe liberarsi dalle mascherature dell’immortalità: egli in realtà sa di dover morire e può capitare anche che si trovi a sapere quando dovrà morire. Il suo ruolo di guaritore malato ci ricorda il mito di Chirone. Partire dal presupposto della mortalità, rinunciare a bere il farmaco dell’oblio, è un viatico ineludibile per poter esercitare l’arte di ridare la salute perduta. Eppure, a ben guardare, la medicina moderna ha ingerito quantità industriali del farmaco sintetizzato da Prometeo e i danni sono molti e assai visibili. I medici hanno percepito la loro arte come una ennesima branca della tecnologia e questo ha inevitabilmente portato anch’essi a rimuovere la morte. È nel XVIII secolo che si sono creati i presupposti per quella confusione di ruoli tra

medicina e tecnica che oggi impera. È in quell’epoca che, sulla scia della filosofia di Cartesio, che segnava un confine invalicabile tra materia bruta e spirito, tra res extensa e res cogitans, il corpo ha cominciato a essere nettamente distinto e separato dalla mente. Ma cosa resta del corpo, privato dei suoi rapporti con la mente, se non un sistema di spinte e controspinte, leve, pulegge e ingranaggi, cioè una macchina, vale a dire un campo di applicazione della technè? Non a caso, forse il medico più famoso del XVIII secolo (che non brilla per grandi scoperte in campo medico) è Julien Offray de la Mettrie, l’autore della famosa opera scritta nel 1748, L’uomo meccanico. Questo è il modello di medicina iatro-meccanica, che tutt’ora noi utilizziamo. Il modello iatro-meccanico è un modello di grande efficacia perché costituisce la base per la diagnosi e la cura di ogni malattia. È un modello talmente efficace che non viene più percepito neanche come un modello, ma diventa realtà. Addirittura l’idea del corpo come macchina è dilagato dalla medicina all’intera cultura popolare da almeno tre secoli, che l’ha fatto completamente suo. A essere obiettivi, certo non si può dire che questo modello non funzioni. Il suo successo è tuttora enorme. La sua applicazione ha portato grandi avanzamenti delle conoscenze mediche e ha reso la vita più facile agli scienziati, perché ha semplificato di molto l’approccio alla malattia. E poi perché, semplificando il corpo a un gioco di cause ed effetti, conoscendo le cause, ci consente di predire gli effetti, spesso con grande precisione. Grazie a questo modello non si muore più di molte malattie di cui si moriva tanti anni fa. Tuttavia la medicina iatro-meccanica, accanto a tanti pregi, ha un gravissimo limite: ha bandito completamente dal suo mondo il malato e il suo universo mentale. Ma i successi scientifici non sono la sola ragione della popolarità del modello iatromeccanico. Questo è anche un sistema di potere. Perché consente di definire con chiarezza i confini dei due regni, quello della scienza, che si occupa di res extensa, e quello delle religioni, che avranno dominio assoluto sull’anima. Senza incursioni nel territorio altrui. In questo processo che porta a tecnologizzare definitivamente il corpo umano, la malattia finisce per non essere più si-


centigradi. Inutile contestare che, quando lui stava bene, la sua temperatura non superava i 36 gradi e che, quindi, 37 gradi, per lui erano febbre. Fu grazie all’amicizia con un collega del locale Policlinico che riuscii a farlo ricoverare: era nel pieno di una mononucleosi.

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nonimo di uomo ammalato, ma diventa un’entità esterna all’uomo, dotata di una sua autonomia e concretezza, un demone che si impadronisce del corpo dell’uomo. Di questa operazione di scissione tra malato e malattia si fanno protagonisti quegli stessi grandi medici che edificheranno la medicina moderna. Thomas Sydenham, il padre della medicina inglese, aveva già preparato il terreno nel secolo precedente: nei suoi trattati egli impiega la definizione di entità morbosa, un concetto ancora oggi di grande attualità: ogni entità morbosa è originata dalle medesime cause, ha uno stesso quadro clinico, ha una simile evoluzione e una stessa terapia. Dunque, per definire una malattia, un’entità morbosa, bisognava secondo lui eliminare tutti quei sintomi che lui definiva “accidentali”, come il ruolo delle condizioni climatiche, delle abitudini di vita, dei diversi trattamenti medici, persino il temperamento del malato. In altre parole, tutto quello che fa parte dell’individualità umana va cancellato. Se andiamo invece a rileggere i testi medici pregalileiani troviamo molti riferimenti alle condizioni ambientali nelle quali vive il malato. Così, progressivamente, diventa la malattia, e non l’uomo, l’unica problematica di cui il medico si deve occupare. Per Rene Laennec poi, la medicina deve partire dal cadavere. È nel cadavere, l’uomo privo dell’anima, materia bruta non vivente, che bisogna riconoscere gli elementi essenziali della malattia. Il corpo umano, una volta fuggita da esso la res cogitans, cioè l’anima, è un giocattolo rotto, una macchina che si presta a essere fatta a pezzi e studiata

meglio. Per lavare definitivamente le coscienze dei medici basterà poi usare cadaveri di delinquenti giustiziati che l’anima, anche in vita, non l’hanno mai avuta. Dopo aver trasformato il corpo in una macchina la medicina moderna ha proseguito in quest’opera di rimozione. E lo ha fatto usando un altro modello vincente: quello delle specializzazioni. Le specializzazioni, e le superspecializzazioni, in cui ciascun esperto non sa niente di quello che accade nella casa del vicino, hanno ulteriormente parcellizzato il corpo umano in una sorta di smembramento funzionale che ha avvicinato sempre più il corpo all’idea di un insieme di pezzi meccanici. Galilei ha insegnato alla scienza l’uso dei modelli matematici: la matematica è il linguaggio di Dio e se sappiamo interrogare la natura usando questo linguaggio avremo le risposte giuste. Questo è vero anche per il corpo umano, ma qui vi è un’insidia in più: si rischia di scambiare i modelli matematici in cui trasformiamo il nostro corpo nel corpo stesso. Se un numero non rientra nell’intervallo previsto dal modello, siamo dei malati. Se, pur sofferenti, tutti i numeri sono al loro posto, non dobbiamo credere al nostro corpo, ma ai numeri. Nel Politico, Platone ci dice che esiste una misura insita nelle cose stesse e non imposta dall’esterno. Il corpo è sano se adeguato in sé e non è sempre possibile determinare i valori normali dell’adeguatezza. Un giorno un mio parente mi telefonò disperato da una città del nord Italia perché sentiva di avere la febbre. Nessuno lo prendeva sul serio perché la sua temperatura corporea non superava i 37 gradi

Le medicina che trasforma il corpo in numeri, la medicina normativa, come la medicina della frammentazione, sono il risultato di una progressiva tendenza a tecnologizzare l’arte medica. Intendiamoci: nella mia vita ho consultato con estrema utilità migliaia di lastre di radiografie, TAC e risonanze, ho fatto scorrere di fronte ai miei occhi milioni di numeri, che mi hanno aiutato a decifrare i problemi dei miei pazienti. Ho anche assistito a smembramenti durante autopsie e riesumazioni, che spesso hanno contribuito successivamente a salvare vite umane. Quello che cerco di non fare è confondere i mezzi con il fine, il maglietto e lo scalpello con la statua, la squadra e il compasso con il progetto architettonico, la tecnologia con la medicina, che è altra cosa. Invece vedo che la medicina ha separato la malattia dal malato, la vita dalla morte. Chirone ha lasciato il posto a Prometeo. Il medico ha un’opportunità unica: quella di poter riflettere innanzi tutto sul proprio corpo, per poi ricostruire questa unità perduta. Nelle Enneadi Porfirio inizia la biografia del suo maestro Plotino dicendo: “Il filosofo dell’età nostra aveva l’aspetto di uno che si vergogni di essere in un corpo”. Translitterando, si potrebbe dire che anche i medici dell’età nostra si vergognano di essere in un corpo. Un corpo che non è macchina, un corpo soggetto all’ineluttabile ciclicità di salute-malattia e di vita-morte. Ricostruire queste unità contribuirebbe a dare un volto umano alla medicina. _______________ Bibliografia: H.G. Gadamer.Dove si nasconde la salute, Milano. P.26: L’isola Tiberina, foto aerea; p.27: Statua di Asclepio (copia romana), I sec. d.C; p.28-29: Roma, l’isola Tiberina, incisioni di G.B.Piranesi, XVIII secolo; p.32: La scintilla divina, collez. privata; p.33: Athena, Wien (foto P.Del Freo); p.34: La creazione dell’Uomo da parte di Prometeo con Athena che assiste, marmo, Louvre; p.35: Skyphos con centauro ferito, I sec. d.C., Louvre.

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Alchimia

Presenze alchemiche nella Massoneria Maurizio Galafate Orlandi 30


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L’

Uomo si deve porre di fronte alla natura non con l’intenzione di modificarla forzatamente, bensì di trasformarla rimanendo sempre in sintonia con essa. La natura stessa vuole che tale trasformazione avvenga per mezzo della Grande Arte, la sola che permetterà all’uomo di completare l’Opera. Questo compimento si chiama Alchimia. Così sosteneva agli inizi del XVI secolo Philipp Theophrast Von Hohenheim, meglio conosciuto con il nome di Paracelso. Diversi autori hanno cercato di definirne l’origine, c’è chi lo ha fatto utilizzando anche l’analisi etimologica e, come altri prima di loro, hanno fornito soltanto quelle che possiamo considerare ipotesi plausibili delle quali non vi è alcuna certezza. Per alcuni la parola alchimia esprime il concetto di fondere perché deriverebbe dal greco chyma e dall’arabo al-kimiyah, altri la collegano alla terra degli antichi Egizi che essi chiamavano Kemi facendola precedere dall’articolo al, infine, altri ancora ravvisano una singolare somiglianza con il

Nella seconda metà del secolo XVII, il pensiero alchemico entrò a far parte della simbologia, della dottrina e dei rituali della Massoneria, contribuendo così al suo sviluppo come fratellanza a carattere esoterico ...

termine cinese kim-iya il cui significato è “succo per fare l’oro”. Nella seconda metà del secolo XVII, il pensiero alchemico entrò a far parte della simbologia, della dottrina e dei rituali della Massoneria, contribuendo così al suo sviluppo come fratellanza a carattere esoterico. I liberi muratori che praticano l’Arte Reale partecipano al compimento della Grande Opera ed attualizzano in questo modo il pensiero di Paracelso e degli alchimisti in genere. In molti atti e documenti giunti fino a noi risulta anche che il mestiere muratorio, quello esclusivamente operativo che per secoli aveva lavorato per costruire chiese, cattedrali ed edifici in genere, veniva chiamato “Arte Reale”. Questo era dovuto al fatto che coloro che lo esercitavano godevano della protezione dello Stato o della Chiesa. Si tratta di una singolare coincidenza dovuta semplicemente al caso. La stessa considerazione vale anche per il termine “Arte” in quanto identifica il lavoro svolto dai muratori di mestiere per l’edificazione di cattedrali, anche se appare diffi31


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cile che fossero in grado di comprenderne l’armonia artistica, visto che la stragrande maggioranza di loro aveva il solo compito di levigare le pietre e di metterle una sull’altra. L’Arte Reale, quale noi la conosciamo, ci è stata in realtà tramandata dagli alchimisti che la introdussero nelle logge muratorie operative e delle quali erano entrati a far parte come “accettati”. Tra le molte domande alle quali Paracelso rispose, una riveste particolare importanza per i Massoni ed è la seguente: “A cosa serve l’alchimia”? La risposta fu: “L’alchimia serve a separare il vero dal falso”. Gli alchimisti si ritenevano investiti anche del compito di ricercare la verità; ugualmente fanno anche i Massoni 32

nel corso del loro cammino iniziatico dal momento in cui furono messi a loro disposizione gli strumenti necessari. Non solo, come gli apprendisti alchimisti anch’essi acquisiscono gradualmente la conoscenza necessaria per proseguire nella ricerca. L’alchimia considera Fuoco, Acqua, Aria e Terra i quattro elementi fondamentali che costituiscono tutti i corpi viventi e non solo quelli, mentre tutte le sostanze presenti sulla Terra non sono altro che le combinazioni di proprietà elementari che tendono ad evolversi per raggiungere la condizione dell’oro e della sua purezza. Il fuoco è rappresentato con un triangolo rivolto verso l’alto per indicare la sua proprietà di salire verso il cielo, mentre il simbolo dell’acqua, un triangolo rivolto verso il basso e tagliato da un segmento, indica la sua capacità di discendere verso la terra. L’aria e la terra sono invece rappresentate rispettivamente da un triangolo rivolto verso l’alto, anch’esso tagliato da un segmento, e da un triangolo rivolto verso il basso. Terra, aria, acqua e fuoco sono esattamente gli stessi elementi che ritroviamo nel Rito di Iniziazione, quando il profano viene condotto attraverso i quattro viaggi che lo purificheranno. Come l’alchimista scendeva all’interno della terra, così il profano inizia la sua catarsi nel momento in cui entra nel Gabinetto di riflessione, quel mondo sconosciuto che è il suo intimo, un ambiente oscuro che qualcuno ha chiamato subcosciente. Il suo è un viaggio alla ricerca della memoria di se stesso per portarvi la luce e costruire così le fondamenta di quello che sarà il suo Tempio interiore. Entrando nel Gabinetto di riflessione troviamo scritto su una parete: V.I.T.R.I.O.L. Si tratta di un acronimo che sta per “Visita Interiora Terrae, Rectificando Invenies Occultum Lapidem”. Soffermiamoci per un momento sulla parola rectificando, il cui significato, è stato scritto, potrebbe essere quello di “ristabilire la vera natura delle cose” oppure di “indicare la purificazione dell’animo umano ponendolo così sulla giusta via che che aveva smarrito”. I metalli, che gli alchimisti elevavano ad un rango superiore mediante la pu-


Alchimia

rificazione dagli elementi impuri e distruttivi, sono stati traslati nei contenuti esoterici della massoneria a rappresentazione delle pulsioni negative dell’animo umano. Il profano dovrà poi affrontare altri tre viaggi durante i quali verrà purificato prima dall’Aria che, come suggerisce lo stesso simbolo alchemico, rappresenta lo scorrere del divenire, un processo che, se si arrestasse, impedirebbe l’evoluzione dell’Essere umano. È con questa prova che egli procede oltre la profanità. Sarà poi la volta dell’Acqua che, purificatrice per eccellenza, rigenererà l’uomo con la sua energia fecondatrice e, come suggerisce anche la sua rappresentazione grafica, gli permetterà di continuare la trasformazione. Infine il Fuoco, da sempre venerato nel-

le ricorrenze stagionali, che sale con dinamismo verso l’alto e con la sua azione realizza la trasformazione finale permettendo al Maestro Venerabile di purificarlo al termine del suo ultimo viaggio. Come gli alchimisti consideravano impuro il metallo allo stato naturale, così i massoni, quando vengono iniziati ed attraversano la porta che segna il loro ingresso in uno spazio-tempo diverso, lasciano i metalli fuori dalla porta perché sono il simbolo delle impurità che albergano nel loro intimo. La trasmutazione alchemica dei metalli e quella psichica dell’uomo rappresentano la condizione impura in cui entrambi si trovano e sono rivolti a raggiungere la purezza. L’evoluzione dello stato dei metalli, che

dalla condizione “vile” passa a quella “nobile”, assume il significato di maturazione e di rigenerazione, sono le stesse che ritroviamo nella leggenda di Hiram, quando il Maestro risuscita nel nuovo maestro massone che, reso ormai libero dalle scorie che gli impedivano di vedere la luce, passa da una condizione “vile” ad una “nobile. L’Alchimia ricerca la “Verità”, lavora sulla materia e sullo spirito perché ritiene indissolubile l’unità tra il mondo materiale ed il mondo metafisico per realizzare la Grande Opera ricercando lo Spirito Universale e l’Armonia. P.36: Il Rebis o Androgino; p.37: Rappresentazione alchemica dei quattro elementi; p.38: Allegoria alchemica; p.38 in basso: Rappresentazione dell’Alchimya; p.39: Tabella manoscritta di simboli alchemici.

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Antropologia

Il vaso di Pandora, ovvero il mito dell’Oriente Ida Li Vigni

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Antropologia

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el Romanzo di Alessandro troviamo una frase che sembra sintetizzare perfet­tamente quanto l’Oriente ha rappresentato (e continua a rappresentare) di sin­ golare per la cultura occidentale: “Tutte le sto­rie, se sono verosimili, provo­cano stupore in chi le ascolta”. E lo stupore, come ben sapevano gli antichi, è figlio della me­ raviglia e, a sua volta, genera il desiderio di conoscere, di var­care i confini ne­bulosi della realtà posseduta. Il “caso Oriente”, in effetti, sem­bra sfuggire a qualsivoglia tentativo di conoscenza definitiva, quasi che le anti­che designazioni di Terra incognita o Terra deserta con cui, dall’antichità fino al XIII secolo d.C., si indicavano le terre al di là del Gange, dell’Himalaya, del Pamir e degli Urali sulle carte geografiche abbiano impresso un loro incan­cellabile sigillo nell’immaginario occidentale. Caso pressoché unico nella nostra cultura, l’Oriente è rimasto nella sua es­senza, nono­stante le progressive acquisizioni geografiche, le imprese com­merciali, il dominio coloniale, una regione inafferrabile, vagante, impossibile a dise­gnarsi. Come nei mappamondi medievali, la sua forma rimane instabile: ora isola rotonda circonda-

ta da raggi e stelle (il Paradiso terrestre), ora stupe­facente penisola-ser­pente che si dilata, si allunga, si attorciglia, così come al suo interno le terre emigrano perpetuamente da un confine all’altro, i mari si trasformano in deserti e le proporzioni si ingigantiscono a dismisura. L’Oriente, dunque, lungi dall’esaurirsi entro i confini delle carte geografiche, si espande nell’al­ trove, rivelandosi non come realtà geografica ma come luogo a-spaziale e a-temporale dell’im­ maginario, ovvero come infinito serbatoio di desideri, fantasie, illusioni e terrori che mai l’e­splorazione e l’esperienza pra­tica potranno cancellare. Non a caso la sua storia, così duratura tanto da alimentare anche ai giorni nostri fa-

cili esotismi ed evasioni vagamente salgariane, da sognatori in pol­trona, non nasce dalle mitiche spezie, dalle sete cangianti o dalle pietre pre­ziose che con straordinaria regolarità i mercanti facevano pervenire agli empori occidentali. Nasce, invece, dalla parola, dalla finzione letteraria, per farsi subito mito, scrittura del desiderio e dunque, ambiguamente, verità della mente. Nulla è più vero dell’Oriente sognato dalla cultura occidentale, dell’Oriente inviolato e inviola­bile, fan­tasmagoria di colori e di suoni che solo la parola può disvelare e creare. La netta divari­cazione fra i resoconti dei geografi antichi, greco-romani e più tardi arabi, le cronache dei pellegrini, dei mercanti e dei missionari e le 35


fabulae dei visionari in poltrona ne è testimone eloquente: da un lato la fedeltà al contingente, lo sguardo rivolto al con­ creto, al noto; dall’altro la fantasmatica esplosione di presenze irreali e stravaganti che solo una terra incognita può generare. Poco importa che i Guglielmo di Rubruk,

Antropologia i Solimani, i Abu-Zeid, i Marco Polo, i Pian del Carpine, i Frescobaldi e i Rinuccini conce­dano un certo spazio all’inge­ nuo, al meraviglioso: il loro resta, comunque, il tono del mercante, dell’uomo pratico, conoscitore del mestiere, degli uomini, del mondo. Se elencano, il loro è il minuzioso inventario di un fondo; se de­scrivono un popolo, è il racconto oggettivo di usi, costumi, credenze. Sono avventurieri - e in quanto tali abbelliscono e infiorettano le loro rievocazioni -, ma lo spirito che li anima è quello “pratico” del mercante che guarda all’utile o dell’uomo di Dio che deve propagandare la propria verità. Ben di­verso il tono fabuloso di Isidoro di Siviglia, di Brunetto Latini e, più tardi, dell’Ario­ sto, per i quali l’Oriente è la terra dell’oltranza, la sede dell’Eden, il luogo da cui pro­ vengono inquietanti e fascinosi richiami, magari nelle forme perturbanti della bellissima Angelica o in quelle lumi­nose del fiume tappezzato di pietre pre­ziose. Per questi uomini elencare significa creare dal nulla, in un continuum di immagini meravigliose, la terra del sogno, così come fabulare significa perpe­tuare quei miti che nessun lume della ragione può estirpare dal cuore degli uomini. E se i primi tracciano sempre più precisamente i grandi itinerari delle merci e degli scambi culturali, i secondi disegnano le mappe dei sogni e degli incubi umani. Ma quando l’Oriente, questo vaso di Pandora, ha incominciato a popolare i sogni dell’Occi­ 36

dente europeo, fino a diventarne l’immagine speculare ma ca­povolta, di volta in volta fomenta­trice di desideri e paure? Quando la cultura cristiana ha iniziato a cercare una terra “altra” in cui il Paradiso terrestre si rive­lasse raggiungibile o comunque possibile? Se nel IX secolo la fittizia Epistola di Alessandro ad Aristotele aveva aperto le porte ai mirabilia orientali, è nell’ultimo quarto del XII secolo che il mito del­l’Oriente assume quei connotati che continueranno per secoli ad accendere le fantasie degli Europei, incolti e dotti.

L’operazione, se così è concesso de­finirla, è avviata dall’anonimo redattore della Lettera del prete Gianni, uno dei testi più diffusi e straordinari del Medioevo, tanto che già sul finire dello stesso XII sec. tale Roanz d’Arundel dava avvio all’opera di volgarizzazione del te­sto con una traduzione in an­glo-normanno, cui seguirà nel XIII secolo una anonima versione in prosa antico-francese. Ma, al di là della catena

di traduzioni e riscritture della Lettera, ciò che conta sottolineare è la natura particolare del testo, vero e proprio ponte fra due mentalità egualmente attratte dal teratologico e dal diverso, ma profon­damente dissimili nel percepire e nel rapportarsi con questi elementi: quella propria al naturalismo pagano, disposto ad accettare la possibilità e verosimi­glianza del mostruoso, e quella della cultura cristiana, tesa a ricondurre (anzi, a esor­cizzare) il diverso, l’eversivo, all’interno di un ordine supremo garantito dalla volontà divina. Così, i materiali estraibili dalla Historia Naturalis di Plinio o dalla Collectanea rerum mirabilium di Solino (III sec.), mediati dai Padri della Chiesa (Agostino per primo) e dai primi enciclope­disti medievali, vengono a fondersi e sovrap­porsi, fino a disegnare la mappa del misterioso re­gno del Prete Gianni, posto in un Oriente che nei secoli sarà ora l’India, ora l’Asia, ora l’A­frica, ora l’A­ merica dell’Eldorado. Regno utopico quant’altri mai, all’insegna dell’abnorme e dello sconfinato, cristiano ma popo­lato da presenze demoniache, continuamente soggetto a slit­tamenti di senso (proprio come lo strumento che lo crea, la parola), il dominio del leggendario Prete Gianni (il Giovanni dell’A­ pocalisse, un prete etiope, un principe cinese, un omaggio a Giovanni III, duca di Napoli nella prima metà del X sec., presente nel prologo della Historia de Preliis) offre diversi piani di let­tura, sfuggendo a ogni definitiva incasellatura critica: risposta utopica ai di­ sordini politici e alle insicurezze esistenziali dell’Europa medievale, catalizza­tore di alterità culturali, mero serbatoio di meraviglioso letterario, enciclopedia romanzata per i laici e quant’altro è possibile. Proprio come il mito che crea, è vicino, a portata di mano, eppure sfugge a ogni possesso; è lì, a garantire la realtà del Paradiso terrestre, nel momento stesso in cui ne confonde gli accessi, sorta di “isola non trovata” che scivola nel mare


dell’immaginario collettivo. E allora, se proprio si vuole fissarne i confini labili e incerti, salvaguardando l’integrità del mito, tentiamone una decifrazione a partire dagli statuti fonda­mentali dell’immaginario e della parola che lo esprime: l’ambiguità di senso e il logos. Ambiguo e paradossale, l’immaginario nel suo polimorfo riverbe­rarsi sulla realtà contingente vive in una dimensione altra: quella della dismi­sura e del caos, del teratologico e del combinatorio (il mostro altro non è che un puzzle che sfida i principi biologici). Acronico e aspaziale, affianca la­certi del cosmo ordinato per creare un magmatico disordine fecondo di fan­tasie al­ternative. Dall’altra parte, nel momento stesso in cui si lascia raccontare, l’immaginario si affida alla parola ordinatrice, la quale ne travisa o esorcizza le valenze eversive, imbrigliando la dismisura nei confini certi del discorso ra­zionale. L’Oriente del Prete Gianni, il nostro Oriente, è appunto questo: un coacervo di desideri proibiti e di mostruosi parti della mente a cui il logos dà un ordine, fittizio certo, ma comunque neces­sario a conferire un senso alle proiezioni della mente. Non è per caso, dunque, che nel testo della Lettera una precisa collocazione geografica separi, pur nella omogeneità del “regno”, il mostruoso dall’ordinato. Dichiara orgoglioso il Prete Gianni, proprio in apertura alla Lettera (§ 12-14)1: “12. La nostra Sovranità si estende sulle tre Indie e dall’India Maggiore ... i nostri confini si inoltrano nel deserto, si spingono verso i confini d’Oriente e ripiegano poi verso Occidente sino a Babilonia deserta, presso la torre di Babele. 13. Settantadue province sono a noi sot­toposte e di esse poche sono cristiane e ognuna ha un suo re e ognuno di essi ci paga tributi. 14. Nei nostri domini nascono e vivono elefanti, dromedari, cammelli, ippopo­tami, cocco­ drilli, metagallinari, cameteterni,

tinsirete, pantere, onagri, leoni bianchi e rossi, orsi bian­chi, merli bianchi, cicale mute, grifoni, togri, sciacalli, iene, buoi selvatici, sagittari, uo­mini selvatici, uomini cornuti, fauni, satiri e donne della stessa specie, pigmei, cinocefali, giganti alti quaranta cubiti, monocoli, ciclopi, un uc­cello chiamato fenice e pressoché ogni tipo di animale che vive sotto la volta del cielo. ... Di fatto, nelle regioni estreme vivono genti mostruose (pagane) che già Ales­sandro Magno aveva incontrato, affrontato e recluso “tra monti altissimi, verso Setten-

trione”: 15. Abbiamo altre genti che si cibano solo di carne, tanto degli uomini quanto degli animali bruti e dei feti ... 16. Queste genti si chiamano: Gog e Magog, Amic, Agic, Arenar, Defar, Fontineperi, Conei, Samante, Agri­mandi, Salterei, Armei, Anofregei, Annicefelei, Tasbei, Alanei ... (Ibidem, § 15-16)2; ma anche genti “meravigliose”, le Amaz-

zoni e i Bramani, che difendono il cuore del regno o con la loro forza e l’ausilio di “aiutanti magici o con la loro virtù: K. Le amazzoni sono donne che hanno una loro regione; la loro dimora è un’isola che si estende per mille miglia nelle quattro direzioni, circondata da ogni parte da

Antropologia un fiume che non ha inizio né fine ... L. In questo fiume ... Vi si trovano anche altri pesci che hanno la forma di grandi cavalli, con quattro piedi assai ben disposti, un collo convenientemente lungo, una testa piccola, orecchie appuntite e code che si posano qua e là nel modo più ap­ propriato. M. Certamente sono per natura umani come se fossero stati allevati dagli uomini ... e si avvici­ nano spontaneamente a riva per farsi prendere, due a due, un maschio e una femmina. ... Ve ne sono altri che hanno la forma di palafreni bellissimi o di muli e grassi come rombi ... Al­tri hanno la forma di buoi e di asini e con que­sti arano, seminano, trascinano legna ... Ve ne sono anche altri che hanno la forma di cani piccoli e grandi ... Altri sono come sparvieri bel­lissimi o astori, falchi a forma di aironi ... T. I Bramani sono una moltitudine di uomini semplici che conduce una vita virtuosa. Non desiderano possedere più di quanto esige il bisogno naturale. Si accordano su tutto e tutto sopportano. ... Sono santi che vivono col corpo. ... Costoro servono la Maestà nostra solo con le preghiere ... (Ibidem, D., § K-T)3. Né mancano i mirabilia animali, vegetali e minerali: vermi che possono vivere solo nel fuoco e draghi domestici, piante eternamente feconde e sempreverdi, ma soprattutto pietre dai mille po­teri (in grado di guarire ogni malattia, di eli­minare l’odio, di “fabbricare” cibo e bevande mira­ 37


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colose, di procurare la pace, ...) e dalle infinite virtù (la pietra che raffredda e quella che ri­scalda, la pietra che illumina e quella che arde spontaneamente, ...). Al centro del regno, invece, si collocano il palazzo reale, specchio del cosmo ordinato geome­tricamente, e il palazzo che protegge la fonte dell’eterna giovi­nezza; due residenze magiche e simboliche a un tempo, i cui elementi costrut­tivi e decorativi rispondono, punto per punto, a quella idea di “armonia” degli elementi che domina nell’immaginario medievale e che si conser­verà per tutta l’età rinascimentale. Più simile al mago-demiurgo vagheggiato, qualche secolo dopo, dai neo-platonici fiorentini che all’uomo della provvidenza divina, il so­vrano di questo fantastico Oriente assicura il trionfo del Bene e della Giustizia facendo ricorso alla magia delle forme e delle pietre. La sua reggia “... è a immagine e somiglianza del palazzo che l’apostolo Tommaso fece costruire per Gon­doforo, re degli In­diani ... I soffitti, come pure le travi e gli architravi, sono di legno di Ci­pro. Il tetto è di Ebano, così che per nessun motivo può prendere fuoco. ... I portali ... sono di sardonice frammista a corna di ceraste, per evitare che qualcuno possa introdursi di nasco­sto al suo inter38

no con del veleno. ... Benché qua e là, come decorazione, vi sia dell’onice, in­torno a essa ... vi sono quattro corniole, e questo affinché la loro virtù mitighi la forza no­ civa di quella ... il nostro letto è di zaffiro per proteggere la castità ...” (Ibidem, § 56- 63)4. Ma ancora più straordinario è il secondo palazzo, nato da una visione avuta dal padre del Prete Gianni, vero Paradiso in terra, al cui interno non si conosce né fame, né infermità, né timore della morte, poiché chi beve l’acqua della magica fonte che vi è custodita, se avrà rispettato il rituale, vivrà eternamente giovane per “trecento anni e tre mesi e tre settimane e tre giorni e tre ore”: “B) 76. Possediamo un altro palazzo, superiore al primo non in lunghezza ma in altezza e bel­lezza ... costruito solo con pietre preziose e con oro puro liquefatto ... 88. La sua volta ... è di zaffiri luminosissimi, mentre topazi molto splendenti sono inseriti qua e là ... 89. ... il pavimento è fatto con grandi tavole di cristallo ... Nel pa­lazzo non vi sono camere né altre suddivisioni. Cinquanta colonne d’oro purissimo, modellate a forma di guglie, sono disposte al suo interno, lungo le pareti. ...

90. ... sulla cima di ognuna di esse c’è un carbonchio grande come una grande anfora e il palazzo ne è illuminato allo stesso modo in cui il mondo è illuminato dal sole. C) 94. Nel palazzo c’è una porta di cristallo purissimo e lucentissimo, contornata da oro massiccio, collocata sul lato orientale ...” (Ibidem, B., §76-90; C. § 94)5. È il sogno di un mondo utopico, o meglio di una società ideale in cui, sia pur se in posizione periferica, è concesso al mostruoso e al perturbante di conti­nuare a esistere, quasi che l’armo­nia non possa imporsi senza che si conservi parallelamente la presenza di quella insondabile “diversità” che solo la mente divina conosce e indirizza. In altri termini: al travaglio politico, economico e spirituale che lacera l’Occidente cristiano della metà del XII secolo l’estensore della Lettera offre l’alternativa di un regno fanta-politico, nuovo Paradiso ter­restre, in cui i mo­stri contro natura (le creature nefande generate dal Male e potenzialmente destinate a servire l’Anticristo) sopravvivono come in un ser­raglio, dentro luoghi aridi o chiusi, comunque circo­scritti, controllati: le re­ gioni marginali del regno, i deserti, il cuore delle montagne, gli oceani, le isole. Ma, come con ogni vaso di Pandora (l’immaginario appunto) che si rispetti, qualcosa sfugge sempre al controllo e viene a scompigliare l’ordine faticosa­ mente raggiunto. Esorcizzati, i mo­stri teratologici abbandonano le vesti animali per indossare quelle ben più temibili dell’uomo, dell’estraneo, dello “stra­niero”. Ancora una volta l’immaginario si prende gioco del logos, pro­prio nel momento in cui gli concede spazio, in cui gli consente di omologare il fanta­stico al noto. Nasce allora, mentre i confini geografici si ristabiliscono e le culture si confrontano, l’Oriente della paura. Assediata all’interno da nemici fin troppo visibili, l’Europa occidentale scopre che il nemico per eccellenza viene dall’Oriente: ebrei, musulmani, zingari e turchi si sostituiscono alle orde barbariche (anch’esse genericamente prove­nienti da Est) e vanno a rimpolpare quel calderone mefitico dei mostri umani che è il mondo dell’altro da sé. Eretici e idolatri per la Chiesa, questi esseri che sembrano uomini e che uomini non sono (si pensi alla ridondanza di caratte­ ristiche animali negative loro attribuite:


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rapaci e feroci come lupi, vipere vele­nose, sparvieri malefici, uccelli da preda, scorpioni, rospi, ragni) diventano per la gente comune il volto funesto dell’O­riente, convogliando su di sé atavi­che paure e desideri repressi (e si pensi a quel diverso per ec­cellenza che è la donna, la quale - se di origine orientale e dunque schiava - non deve assoluta­mente allattare i figli del padrone, che potrebbe contaminare col suo sangue ferino). Estirparli significa, a livello di inconscio collettivo e individuale, estirpare la parte animale che è nell’uomo, soffocare i sogni di libertà, punire le fantasie della mente. Anche qui nulla di strano, che già dietro i mostri addomesticati del Prete Gianni trapelava la paura dell’altro, di ciò che appartiene a un universo diverso dal proprio. Accettati finché relegati in lussureggianti paradisi terrestri circondati da mari e deserti sab­biosi, gli stranieri divengono sospetti e inquietanti quando var­cano i confini del mito per en­trare nella Storia e portarvi la novità, il cambia­mento. Sono portatori di morte, di malattie ter­ ribili e misteriose, contaminatori spietati in combutta con le forze del Male, cui bisogna opporsi con gli stru­menti della storia e della cultura. Si accendono i roghi, si scatenano i progrom e la parola ordinatrice identifica, incasella e condanna chi ha osato aprire le porte del rimosso per af­ facciarsi sul palcoscenico della realtà co-

nosciuta. Lotta impari: stanati dai loro recessi, mentre il tempo umano si arresta e lo spazio si re­stringe, i mostri abbandonano la “città assediata” e salpano per nuovi lidi. Un altro Oriente li attende, al di là delle nebbie della realtà. _____________ Note: 1. Cfr. La lettera del Prete Gianni (versione latina; trad. a cura di Gioia Zaganelli), Pratiche Editrice, Parma, 1990. Tutte le citazioni sono state prese da questa edizione. L’elencazione risponde perfettamente alla natura dei bestiari medievali, a loro volta calchi dei bestiari antichi; natura duplice, allegorica e moralizzante, che chiarisce anche il carattere in­trinseco di ogni specie umana o animale citata, fatta eccezione per i casi di corruzione della parola originaria (greca o latina), quali la confusione (ancora vigente nella nostra lingua) fra il greco “monocolo”, “con una sola gamba”, e “monoculo”, “con un solo occhio”. 2. Si tratta di popoli identificati, nella cultura biblica e cristiana, come razze dannate, desti­nate a essere annientate nei giorni dell’Apocalisse. Decisamente importante è sottolineare la sottesa chiave di lettura antisemita, propria della cultura propagandistica medievale: Gog e Magog (soprattutto, ma non solo) nella visione medievale corrispondono alle 12 tribù d’Isra­ele e, dunque, confermano la coesistenza del meraviglioso “buono” e dell’alterità “malva­gia”. 3. Il mito delle Amazzoni è indubbiamente uno dei miti più antichi e diffusi, così come co­stituisce una costante dell’immaginario di ogni tempo, pronta a riemergere ogni qualvolta l’uomo senta la necessità di popolare una pro-

pria “terra ignota”. Da qui la sua ubiquità: ora in Asia Minore, ora in Africa, in Oriente e, infine, in America meridionale (ai confini con la leggendaria terra dell’Eldorado). Anche in questo caso ci troviamo di fronte a una duplice na­ tura per la quale l’elemento femminile (oggetto di profondi timori e quindi “deviante” e “maligno”) è ora dichiaratamente al servizio del Male (la donna che si serve dell’uomo - che poi uccide - per generare), ora “addomesticato” (la donna che concede al “marito” di vivere, ma lontano da lei). Quanto ai pesci che si trasformano in animali, è un caso esemplare di espan­sione dell’imma­ginario ex similitudine: gli ippocampi, detti anche equi marini per loro forma superiore che ricorda il cavallo e quella inferiore a coda di pe­sce, autogenerano (sempre per similitudine) una fauna ambigua al servizio dell’uomo. 4. Il nostro anonimo segue alla lettera la tradizione dei lapidari medievali, in particolare quello di Marbodo, che elencavano le proprietà negative e le virtù delle singole pietre. Un esempio significativo ci è offerto, qui, dall’onice, pietra ritenuta nociva, portatrice di malat­tia e miserie, ma soprattutto capace di scatenare risse e atti sanguinari e quindi di attentare al­l’ordine cosmico e sociale. 5. Nel caso della “fonte dell’eterna giovinezza” vale il principio di ubiquità geografica e di continuità temporale segnalato sopra riguardo alle Amazzoni. Degna di nota è anche la fu­sione fra la biblica “acqua del risanamento” (cfr. Ezechiele) e il motivo popolare della fontana dell’eterna giovinezza, di volta in volta collocata geograficamente nelle nuove terre scoperte. P.40: Pandora, collez.privata; p.41: Manoscritto tibetano, VIII sec. d.C.; p.41 in basso, p.42 e p.43: Mostri favolosi da un bestiario del sec. XV; p.44: Creature mitologiche, area gangeticobirmana, XII sec; p.45: Manoscritto tibetano.

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‘De reditu’ il ritorno Giuseppe Cirillo

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gorà è un buon film della stagione cinematografica 2010 che mostra uno spaccato degli avvenimenti che avrebbero portato poi ai secoli bui successivi alla decadenza dell’Impero romano. La tolleranza verso le scienze e le religioni che caratterizzava la società imperiale sarebbe stata spazzata via dall’integralismo religioso e sociale della società primo-cristiana. L’apoteosi simbolica del film sta proprio nella distruzione della biblioteca di Alessandria e nel martirio di Ipazia (filosofa pagana) da parte degli integralisti cristiani guidati dal vescovo Cirillo (che poi sarà santificato). Questo film mi ha riportato alla mente un libretto letto anni fa, Dei e Diavoli del paganesimo morente di C.Pascal, sulla decadenza e la fine del ‘paganesimo’ allorché il Cristianesimo divenne religione di Stato. Decadenza dell’Impero e fine del ‘Paganesimo’, due cose che avvengono simultaneamente e sono ben illustrate in un film di qualche anno fa: De reditu (Il ritorno). Il film è il classico prodotto della cinematografia cosiddetta ‘indipendente’ con scarsi fondi e un passaggio brevissimo in alcune sale per poi cadere nel dimenticatoio. Naturalmente nulla a vedere con i peplo-films (così si chiamano oggi) hollywoodiani nuovamente rispolverati con i loro stupendi effetti speciali e … castronerie storiche. Il film è di una semplicità estrema quasi elementare. Nel 410 Roma è presa e saccheggiata dai Goti di Alarico. Claudio Rutilio Namaziano, un patrizio pagano di origine gallica, decide di lasciare la città per ritornare a Tolosa in Gallia per rendersi conto di persona delle devastazioni create dall’invasione. Barbari e cristiani ormai perfettamente integrati nel tessuto sociale e nel sistema statale, hanno sgretolato l’antica cultura, seppellito gli dèi e corroso le fondamenta dello spirito dello Stato. Rutilio, che considera i culti e valori ebraico-cristiani estranei alla Tradizione di Roma, è addolorato e ferito, ma continua a servire Roma, come suo padre, questa sua integrità e i valori a cui resta fedele lo hanno portato ad essere inviso anche all’Imperatore cristiano Onorio. È giunto per lui il momento del ritorno in quello che sarà un viaggio anche interiore con la realtà contrapposta ai conti-

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nui fantasmi del passato. Così saluta gli amici, libera la servitù e parte, forse anche con l’intenzione di risvegliare, aiutato dai suoi amici, l’antica dignità riportando l’Imperatore a Roma. Già durante l’attraversamento della città verso le sue porte ha la consapevolezza che i nemici di Roma sono esterni, ma soprattutto … interni. All’evidenza di statue di divinità abbattute e di templi saccheggiati gli viene risposto che non è opera dei barbari, ma dei cristiani. Si decide di effettuare il viaggio per mare, anche se in quei tempi in inverno la navigazione era interrotta, in quanto la via Aurelia e le altre vie consolari (vanto della Roma imperiale) non sono più sicure né praticabili. L’itinerario prevede di navigare vicini alle coste in modo da riparare velocemente 42

per evitare di cadere in balia delle tempeste e delle piogge, Lo scenario è deprimente, s’incontrano a riva simulacri e segni dell’antica civiltà in via di decadenza. Ovunque simboli di rovina e distruzione: ovunque rassegnazione e abbattimento. A questo punto il film continua con una serie di incontri fra il triste presente e un patetico rinverdire i fasti del passato. Nei rari sbarchi sulla terraferma si imbatte in una banda di briganti toscani, capitanata da Lupo, che lo libera dei sicari inviati dalla prefettura. Curiosa è la lingua parlata dai banditi una sorta di latino contaminato dall’accento toscano che ricorda lo slang anglo-ispanico-cinese che si parla nella megalopoli di Blade Runner. Questa evidenza può dar adito a molte riflessioni sui nostri tempi.

In una taverna (il nostro) rimane interdetto nel vedere un soldato Goto … servito da Latini (ma non erano loro gli schiavi?). C’è l’incontro col cavaliere vecchio con una barba bianca (più barbara che romana), una logora tunica e corazza muscolata ormai opaca segno della corruzione irreversibile dei tempi. Il cavaliere monta impavido la guardia scrutando l’orizzonte, ma è solo l’ombra di quello che fu il legionario romano che costruì un impero. Il viaggio continua e il successivo incontro è una sparuta processione in onore della dea Iside. La religione politeista è fuorilegge e la si professa di nascosto nelle campagne (pagus). I fedeli seguono il rito guardandosi attorno in modo sospetto e nel contatto con la divinità cer-


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cano di dimenticare per un momento le loro sventure terrene. Nelle campagne persistono usanze come i giochi gladiatorii (anch’essi vietati), ma nulla a che vedere con i fasti del Gladiatore o del più datato Ben Hur. Qui in un anfiteatro improvvisato si battono macilenti gladiatori di fronte a patetici spettatori che si atteggiano ad attori di ben altri palchi e il signore locale si muove sulla scena come fosse l’imperatore. Le città costiere sono distrutte e abbandonate, ma le dimore aristocratiche di campagna mostrano ancora il loro antico splendore. Lo scenario precorre quello che sarà la norma del mondo medievale che si svolgerà di preferenza nei castelli con le città ridotte a borghi indifesi. Qui Rutilio resta deluso dai suoi amici aristocratici un tempo fedeli ai suoi stessi ideali che si sono già moralmente consegnati alle nuove divinità e al nuovo potere. L’aristocrazia ha badato innanzitutto a preservare i propri privilegi. Ha attuato quello che nei secoli futuri sarà un esempio molto seguito: salire sul carro dei vincitori per salvare il

proprio status. Chi invece non ha seguito il conformismo dilagante è un altro amico: Protadio (interpretato da un ottimo R. Herlitzka) che si presenta come l’ultimo sopravvissuto della romanità. Uomo politico di ferrea fede stoica, s’è ritirato, disgustato dalla corruzione e dal degrado di Roma, nei suoi possedimenti. L’incontro con Rutilio è anche il congedo da un mondo e da un tempo che non sono più i suoi con il suicidio rituale. Si ucciderà, tagliandosi le vene in una vasca, dettando le ultime volontà e riflettendo sulla natura degli Dèi e di Dio: senza lamentarsi, e senza affliggersi, nella migliore tradizione di romanità. Rutilio capisce che ogni sforzo per una restaurazione è inutile, lui è l’incarnazione della nostalgia: l’intero suo viaggio è un inno alla Roma di un tempo che è già diventata leggenda ed è la sintesi del dolore per ciò che è irrimediabilmente perduto. Al di là dell’evento storico il viaggio può essere visto come ultima e unica possibilità quando tutto crolla: le aspettative, i sogni, le speranze. L’evidenza che nul-

la è più possibile. L’unica via è quella del ritorno, una ritirata dopo una battaglia persa. Il ritorno a casa o alle proprie origini. È il dramma romantico dell’uomo che rifiuta di conformarsi al nuovo mondo e rivive, in un triste rewind, il mondo che gli apparteneva, che amava e che sta inesorabilmente scomparendo. Ricorda molto il personaggio di un vecchio e decadente Casanova in un film degli anni ‘80: Il mondo nuovo in cui, sempre in un viaggio, che anche questa volta è una fuga, viene ricordato un mondo che sta scomparendo sotto i colpi della Rivoluzione. _______________ Bibliografia: C.Pascal, Dei e Diavoli nel paganesimo morente, Ed. Melita, 1988. De reditu - Il ritorno, film di Claudio Bondì. P.46: Rovine di Cyrene, Libia, collez.privata; p.47: R.Weisz inetrpreta Hypatia di Teone nel film ‘Agorà’ di A.Amenàbar; p.48: Rovine di Cyrene, Libia, collez.privata; p.49: Rovine greche nell’attuale Turchia.

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Massoneria

Rito e Musica Un percorso comune nella conoscenza Luisa Sello

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appaiono, a destra il ritratto di William St. Clair of Roslin, primo Gran Maestro nel 1736, con le statue di Byron e Scott, a sinistra i busti di Burns e Shakespeare con al centro l’organo, datato 1757, ancora perfettamente funzionante.

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Canongate Mason Lodge, St. John’s Close, Edimburgh (Scotland)

I

ntroduzione alla colonna d’armonia Nel 1723 il reverendo presbiteriano James Anderson dettò le Costitutions of the Freemasons e vi introdusse l’uso di quattro Songs, derivati, come afferma Luigi Pruneti, “da inni anglicani, a loro volta trasposizione dei mottetti cattolici”1, e che codificano ufficialmente l’uso della musica nei lavori massonici. In realtà, sin dalle origini della Massoneria moderna, i lavori erano accompagnati dai canti intonati dai fratelli. “Già la Gran Loggia di Londra, fondata il 24 giugno 1717, utilizzava melodie antiche abbinandole a testi di contenuto massonico. Inoltre vi erano piccoli gruppi strumentali di soli fiati che accompagnavano i lavori”2, scrive Marco Ciannella. Durante alcune recenti ricerche sul poeta scozzese Robert Burns, a Edimburgo, ho avuto modo di trovare piena conferma a quanto appena esposto. Mi fa piacere riportare qui alcune riflessioni che completano, con assoluta certezza, un quadro dove Musica e Rito si compenetrano, in una funzione non solo empatica ma anche strutturale. La Loggia Canongate Kilwinning n. 2, in St. John’s Close, detta Canongate Mason Lodge, si identifica nell’ordine della massoneria scozzese del 1677, anno in cui 1 Luigi Pruneti, Spartiti segreti, in ‘Atti del Convegno regionale – Cremona’, Bari, 2009, p. 96. 2 Marco Ciannella, ibid., p. 16.

Che la musica accompagnasse dal vivo tutti i lavori dei fratelli è attestato anche dal fatto che, tra i massoni menzionati in un documento del 18 dicembre 17364 redatto dal Gran Maestro W. St. Clair, appare anche il nome del compositore italiano Francesco Maria Barsanti. Accanto a questa eloquente presenza, una lettera manoscritta di James Boswell, iniziato nel 1759, riporta le impressioni vissute durante una sua visita alla Loggia di Ca-

William St. Clair of Roslin, dipinto da artigiano sconosciuto nel 1833

riceve l’autorizzazione dalla Loggia di Killwinning, nell’Ayrshire, che esercitava allora la funzione di Grande Loggia3. La Loggia di St. John’s Close è a tutti gli effetti riconosciuta come lo stabile più antico ancora esistente, il cui uso è sempre stato destinato e rivolto solo al ritrovo massonico. La Loggia si attiene all’antico rito scozzese e la disposizione al suo interno mantiene la posizione del Maestro Venerabile e dei Wardens ai 3 apici di un triangolo, disposizione che corrisponde al sistema massonico continentale, differente da quello inglese e americano. Sui lati

nongate e mette in evidenza come “the evening was spent in social glee, every brother having sung”5. Queste parole e lo splendido organo tuttora in uso confermano con certezza che la musica era presente durante il rito massonico fin dagli inizi del XVIII secolo. Ma vediamo come essa faceva parte dei lavori e quanta considerazione era riservata alla parte musicale. Vale la pena soffermarsi sulle caratteristiche dello strumento storico della Canongate Lodge, commissionato dagli stessi Office Bearers della loggia scozzese all’organaro londinese Mr. Johan Snetzler, uno tra i più noti costruttori di organi al tempo, il cui laboratorio aveva attratto l’interesse di molti compositori,

3 An Introduction to Lodge Canongate Kilwinning n. 2, a cura di W.B. Harvey Master, Maggio 1951, ed. Kall-Kwik, 2 Dundas Street, Edinburgh, p. 4.

4 Ibidem, p. 6. 5 Ibidem, p. 9: “La serata passò in un’atmosfera lieta, assieme al canto di ogni fratello”.

G.F.Haendel

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tra cui Haendel. Le negoziazioni iniziarono nel 1754, quando Snetzler si trovava a Edimburgo in visita alla loggia stessa, e si conclusero il 2 ottobre dello stesso anno. Il progetto venne completato alcuni anni più tardi e l’organo, trasportato per mare a Leith e per carretto a Edimburgo, vi arrivò il 6 luglio 1757. Venne installato nella Loggia di St. John, dove si trova ancora oggi, il 4 Agosto con un costo totale di 70 sterline. Lo strumento venne poi restaurato nel 1976, per il trecentenario della loggia, e oggi è uno dei rari strumenti “con meccanismi e canne 46

Organo Snetzler del 1757

originali, tanto che viene usato come organo da concerto per onorare la sala più antica della massoneria mondiale, dato l’uso esclusivo che la Cappella ha mantenuto nel tempo”6. Ma vi è di più; accanto al magnifico organo si nota uno spazio destinato alla presenza di altri musicisti, archi o fiati, essendo uno spazio relativamente ristretto, più adatto a esecutori che si esibiscono in piedi. Se si considera poi ciò che scrive Adrian Vasilache, e cioè che “nel-

le antiche logge massoniche si usava eseguire la musica dal vivo con particolare attenzione alla composizione di gruppi di strumenti musicali, e le colonne d’armonia erano composte da strumenti a fiato”7, si ottiene un’ulteriore conferma che questo spazio costruito vicino all’organo era riservato a esecutori con strumento melodico. Tale considerazione diventa ancora più eclatante nel momento in cui viene da me scoperto casualmente, proprio durante un sopraluogo per la verifica del suono dell’organo, l’esistenza di un flauto antico, perfettamente mantenuto nel tempo, probabilmente risalente all’epoca in cui Robert Burns frequentava la Canongate Kilwinning Lodge, tra il 1787 e il 1788. Lo strumento presenta la forma e la struttura di un flauto del primo barocco, essendo fornito di una sola chiave e avendo testata cilindrica e corpo troncoconico. Solo a partire dalla fine del XVIII secolo, infatti, il flauto traversiere, storico strumento usato da Federico II re di Prussia, subisce una prima trasformazione scomponendo il corpo in due pezzi e aggiungendo alcune chiavi alla meccanica. Nel XIX sec. la testata prende forma troncoconica e il corpo quella cilindrica, per pareggiare alcune esigenze dinamiche legate alla poetica musicale del primo romanticismo. Lo strumento ritrovato nella Canongate Lodge era stato conservato come oggetto ‘non ben identificato’, essendo stato ‘mascherato’ dalla forma di walking stick flute (flauto/bastone da passeggio) molto in voga per quei tempi, ma conosciuto solo agli esperti del settore. Nonostante sia rimasto inutilizzato per lungo tempo, esso aveva però mantenuto un perfetto funzionamento, cosa che fa pensare a un suo uso anche in epoche più recenti. La

6 Ibidem, p. 11.

7 Adrian Vasilache, Spartiti segreti, op. cit., p. 32.


Old Canongate Flute

Massoneria sua estensione (dal re grave a quella della terza ottava) combacia perfettamente all’estensione del Song che Robert Burns scrisse per i fratelli massoni, Farewell to the Mason Lodge, Tarbolton, e che ho avuto il grande privilegio di eseguire in qualità di Artista su invito del Master George Mc Docherty il 26 gennaio 2012 al Festival of Burns & Hogg, presso la Loggia Canongate nella Cappella St. John. Come non avere la certezza che il flauto accompagnasse i lavori massonici del tempo? Tornando all’organo e alla consuetudine di accompagnare il rito, tutto sembrava concorre nel dimostrare come la musica fosse presente già nel primo Settecento (l’organo venne commissionato nel 1754), e che i brani della ‘colonna d’armonia’ venissero eseguiti alla tastiera, in via primaria. Il prof. Petrucci, ricercatore e musicista, ha pubblicato un interessante articolo sulla rivista “Falaut” 2009, in cui parla di compositori massoni e scrive che “la musica adatta ad accompagnare alcuni canti rituali di loggia doveva essere scritta per strumenti a fiato”8. L’affermazione sull’uso dei fiati è senz’altro confermata dal recente ritrovamento del Old Canonate Flute, ma bisogna anche aggiungere che l’affermazione di Petrucci possa riferirsi solo alle logge che non possedevano uno strumento a tastiera. In Scozia, invece, sembra essere luogo comune e parte integrante dell’architettura stessa. Risulta infatti che anche la Grande Loggia di Edimburgo sia dotata di un grande organo, Brindley and Foster datato 1914, la qualcosa fa supporre che la tastiera fosse tra gli strumenti preferiti in zona scozzese. Ancora Petrucci afferma che “la colon8 Gianluca Petrucci, Rivista trimestrale Falaut, Redazione Torre Annunziata (Na), 2009, n. 38, p. 20.

Grand Lodge of Scotland, Edinburgh, George Street 96

na d’armonia, ove presente, era costituita principalmente da suonatori con una sorprendente prevalenza di flautisti’9, cosa assolutamente vera se si considera che, accanto al più celebre Friedrich der Große, ci sono stati moltissimi flautisti nella storia della Massoneria e molti ave9 Ibidem, p. 21.

vano composto per flauto. Merita quindi spendere un ulteriore approfondimento sul flauto ‘riscoperto’, legato quasi sicuramente alla presenza di Robert Burns presso i Free Masons della capitale scozzese. Pruneti stesso cita il poeta sottolineando che “in taluni casi i motivi erano di derivazione popolare ed esprimevano felici47


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Poet’s corner

Robert Burns ‘Poet laureate in Canongate Lodge’

tà e serenità, come Auld Lang Syne, una composizione scozzese rivisitata dal celebre poeta Robert Burns, iniziato massone nel 1782”10. Arrivato a Edimburgo il 28 novembre 1786 e intenzionato a fermarsi nella città, a quel tempo considerata centro “of the literary and philosophic universe, the intellectual capital of the world”11, Burns iniziò immediatamente a frequentare la loggia di St. John’s Close. Ricevuta l’iniziazione nella cittadina di Tarbolton, alla cui Loggia è appunto dedicato il Song 10 Luigi Pruneti, Spartiti segreti, op. cit., p. 96. 11 An Introduction to Lodge Canongate Kilwinning n. 2, op. cit., p. 7.

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precedentemente citato, aveva raggiunto il grado di Maestro. A Edinburgo, nel giugno 1787, gli venne conferita l’onorificienza di ‘Poet Laureate in Canongate Lodge’, cerimonia divenuta famosa nel mondo grazie al celebre dipinto di Stewart Watson, che si trova alla Grand Lodge of Scotland. A Burns venne poi intitolato il ‘Poet’s Corner’ all’interno della Cappella Massonica, posto tra lo scranno del Maestro Venerabile e lo spazio riservato ai musicisti. Tutto combacia; la presenza di un flauto barocco, lo spazio vicino all’organo, non lontano dal poeta, i suoi Songs scritti in re maggiore (estensione adatta allo strumento di quel tempo), tra cui

uno dei più famosi inni alla fratellanza, That man to man, the world o’er, shall brithers be for a’ that. Possiamo ipotizzare con una certa sicurezza, che al tempo di Burns, i lavori massonici erano accompagnati da brani eseguiti all’organo e con l’aggiunta di strumenti a fiato, sicuramente il flauto, e che, le ‘colonne d’armonia’, erano considerate parte integrante del Rito. D’altronde, sappiamo che molti musicisti del passato hanno voluto incidere ‘sullo spartito tavole architettoniche di indicibile bellezza’12. Mozart, con Eine Kleine Nacht Musik composta per l’entrata del padre, con la cantata massonica e il quartetto Le dissonanze; e ancora con la metafora del percorso iniziatico, Il flauto magico13. Michel Blavet con La marche pour la Grande Loge da la Maςonnerie, Franz Josef Haydn con le Sei Sinfonie Parigine dedicate ai Fratelli, Georg Friedrich Haendel con il Concerto per organo in fa maggiore. Attraverso queste informazioni possiamo farci un’idea sullo spessore delle ‘colonne d’armonia’ di allora e sulla loro funzione nel Rito, come tessuto armonico legato al sublime e all’ineffabile, come supporto per guardare oltre l’orizzonte per raggiungere sfere impalpabili della conoscenza. Sicuramente anche oggi diventa importante considerare quali composizioni siano le più adatte per una ‘colonna d’armonia’ in linea con le premesse per le quali essa è stata considerata parte del Rito. Come dice Pruneti, infatti, “la musica è capace di comunicare l’inesprimibile, di svelare dimensioni arcane dell’animo, di avvicinare l’immanente al trascendente”14, ed è divenuto un uso comune associarla alla ritualità dei templi, assecondandone la semantica emozionale e la trascendenza del ‘dire’. Ora che è certo quanto essa sia complementare alla parola, sarebbe interessante poter avere un parametro per la scelta corretta dei brani e delle loro proiezioni emozionali. È scritto con precisione dove e in che punto la musica deve essere presente nel rituale, ma sta ad una corretta 12 Luigi Pruneti, Spartiti segreti, op. cit., p. 7. 13 Marco Ciannella, ibid., p. 17. 14 Luigi Pruneti, ibid., p. 7.


visione della scelta inserire la giusta ‘armonia’ nel ‘contrappunto’ dei lavori. Data l’importanza del soggetto, rimando ad un’analisi più approfondita la ricerca di tale prospettiva che, a mio parere, dovrebbe sia seguire un’empatia emozionale dell’ascolto sia considerare la semiologica delle strutture armonico-ritmiche che stanno alla base della musica, come espressione di un linguaggio universale. La Colonna d’armonia Dal Rituale predisposto nel Gran Maestranza, si legge che la Colonna d’Armonia deve essere composta da melodie adatte ai diversi momenti, in modo da ‘disporre gli astanti alla giusta concentrazione e al Rito’ (Cerimoniale ad uso delle Logge in grado di Apprendista, Roma 2010, p. 17). Sappiamo che già le antiche civiltà assegnavano alla musica un potere persuasivo sull’animo umano, tanto da spingere pensatori come Pitagora, Platone e Aristotele a riconoscere nella ‘catarsi’ l’effetto finale delle diverse tipologie emotive in relazione a melodia, ritmo e timbro. Ma c’è un’ulteriore dimensione, a mio avviso, che permette un ‘percorso di conoscenza e di introspezione’ molto simile a quello del cammino massonico: è la fusione tra sensazioni ed emozioni, sorretta ed edificata dal vissuto personale e dalla personale capacità di percezione, affiancata dalla reazione psicologica che interviene in qualsiasi forma uditiva, mettendo ogni individuo in rapporto con le proprie sensazioni, dubbi e desideri. Diventa quindi fondamentale porre nel Rito una Colonna d’Armonia appropriata al rituale seguendo parametri che, oltre a considerare aspetti ritmici o melodici, affondano lo sguardo in livelli di conoscenza ineffabili, quelli che Schelling riconoscerebbe come ‘Assoluto’, Samuel Taylor Coleridge come ‘Imagination’ e Robert Schumann come ‘Spirito’. Un meta-linguaggio, quindi, un metodo e una via verso l’interiore e l’esoterico. Partendo da questo presupposto e dalla considerazione che la musica ha come linguaggio proprio quello delle emozioni, ed è perciò universale, mi preme sottolineare che la scelta dei brani dovrebbe fondarsi sull’aspetto semiologico delle composizioni, più adatto ad affiancare predisposizioni d’animo e sensazioni, vi-

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cinissime alla semantica rituale. Limitatamente alla capacità verbale, non esaustiva nel descrivere armonia e suoni, ho quindi cercato di rendere in forma scritta quello che è stato il mio pensiero semiotico nell’accostare i brani ai diversi momenti del Rito. Prima di addentraci nei dettagli, è doverosa una breve introduzione sul percorso di questo lavoro. Gli studi di semiotica e di semiologia sviluppatisi nel secolo scorso hanno approfondito quanto la musica sia in grado di esprimere contenuti autonomi e quanto la parola nasconda qualità analoghe alle sensazioni sprigionate dai suoni ‘organizzati’. Molti studiosi degli ultimi 50 anni, inoltre, affermano che l’attività dell’immaginazione dipende dalle relazioni tra stati emozionali e intellettuali e che i simboli di questa realtà attendono solo la lettura di colui che sia in grado di leggerne il significato nascosto. L’approccio a un testo avviene quindi non solo nei suoi significati “letterali”, bensì nelle qualità analoghe e nelle “strutture nascoste”15 di cui parla Rudolf Harnheim16. Saper leggere il significato nascosto di una melodia, quindi, o trasformare un suono in idea poetica, usa ancor più la “forza straniante” insita in coloro che riescono a “leggere” oltre l’orizzonte del linguaggio quotidiano. Anche Adrian Vasilache, nel suo saggio Simboli massonici, chiama in causa il lavoro di analisi che compie chi ascolta e ricorda in parallelo, grazie a Jung, il lavoro di uno psicanalista con i suoi pazienti, che riesce a far emergere dal profondo delle loro esperienze nascoste.17 Il problema spesso sollevato nei confronti del “senso” della musica chiama in causa il modo in cui avviene l’incontro tra l’immaginazione e l’universo dei suoni. La connessione non passa solo da 15 Marconi, Luca, Musica Espressione Emozione, Bologna, 2001, cap. V, pp. 140-147, a p. 144. 16 Rudolf Arnheim (Berlino 1904) si è laureato in psicologia sperimentale all’Università di Berlino. I suoi maestri furono i fondatori della scuola della Gestalt: Wertheimer, Kohler e Lewin. Dai suoi esperimenti sulla percezione nacque nel 1932 il libro Film come arte. 17 Adrian Vasilache, Spartiti segreti, in ‘Atti del Convegno regionale – Cremona’, Bari, 2009, p. 38.

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quest’ultima al suono, ma percorre anche la strada inversa, dal suono all’immaginazione. Prendiamo ad esempio due semplici codici della scrittura musicale, il piano (p) ed il forte (f). Al di là della realizzazione fisica dell’intensità, il loro segno assume altri richiami, sconfinamenti, fusioni. Il piano (p) è in grado di raccogliere il significato della lontananza e di richiamare la dimensione temporale del passato, mentre il forte (f) può farsi carico dell’urgenza e dell’immediato. Accanto a questo i due segnisimbolo possono ulteriormente associarsi i significati di segretezza, intimità, solitudine, nostalgia, per l’uno, passione, energia, determinazione, entusiasmo, furore, gioia, per l’altro. Entrare in empatia con la forma musicale, scrive Susanne Langer, “è rappresentazione di emozione, stati d’animo, tensioni mentali e risoluzioni”18. La studiosa americana sostiene che, se il linguaggio è la più tipica espressione della capacità di trasformazione simbolica della mente umana, la musica è l’esempio per eccellenza dell’arte nella sua funzione simbolica. Viene subito alla mente un saggio di Adorno, Musica e linguaggio, in cui egli afferma che “la musica possiede il carattere enigmatico del dire qualcosa che si intende e al tempo stesso che non s’intende. E tuttavia ha in comune con le forme discorsive del conoscere, almeno il fatto di non potersi ridurre né al soggetto né all’oggetto, essendo entrambi in essa reciprocamente motivati”19. Esistono certamente delle strutture metriche e tonali che aiutano e hanno aiutato a definire le ‘funzioni’ musicali, anche se esse hanno modificato il loro significato nel tempo. Molto spesso legate a settori quali quello religioso, metafisico, etico, psicologico e magico, già nell’antichità le formule degli intervalli armonici hanno assunto il significato di tristezza, nel salto di note ristretto, desiderio, nell’intervallo armonico allargato, gioia, nel salto di intervallo di ottava. In essa vi è nascosto anche ‘il modello rotatorio che 18 Langer, Susanne, Philosophy in a New Key, a Study in the Symbolism of Reason, Rite and Art, 1941, New York, tr. It. Filosofia in una nuova chiave. Linguaggio, mito, rito e arte, Roma, 1972, p. 286. 19 Fubini, Enrico, L’estetica musicale dal Settecento ad oggi, Torino, 1964. p. 48.


determina un rapporto di attrazione e respingimento tra i suoni, simile al funzionamento gravitazionale’ scrive ancora Vasilache.20 Tale modello di tensione-rilassamento ha governato i principi della musica di ogni epoca. Nella musica greca le distanze grandi producevano un effetto dignitoso e sublime e la loro attrazione verso quelle piccole esprimeva bassezza e mollezza. In realtà la musica, a meno che non si tratti di un brano descrittivo od onomatopeico, non ha una materia e possiede un contenuto indeterminato che ognuno può interpretare a suo modo. Opinioni importanti sostengono questa affermazione: J. J. Rousseau, E. Kant, F. Hegel. Tutti sono concordi nel riconoscere alla musica un valore spirituale intrinseco, dove contenuto e forme si determinano e si completano a vicenda unificando il binomio di immagine-idea. Come afferma il musicologo americano Edward T. Cone, infatti, “la musica non esprime le emozioni ma se ne appropria”. Egli sostiene che il contenuto di un brano di musica strumentale viene rivelato a ciascun ascoltatore dalla relazione tra tale brano e l’habitat personale, contesto che ci stimola a proiettare metaforicamente schemi di esperienza. Ogni testo musicale è dotato perciò di un contenuto espressivo potenziale, letto attraverso una individuale interpretazione simbolica.21 Sarà tale contenuto espressivo, che l’interprete ha il compito e il dovere di svelare, ma sarà lo stesso che l’ascoltatore percepirà in relazione alla propria lettura e al proprio livello di conoscenza e crescita interiori. Lo stesso Jean Jaques Nattiez, semiologo e stusioso di varie epoche e culture musicali, scrive che i fenomeni musicali “sono accessibili solo in quanto oggetto di un processo di simbolizzazione che li organizza e li rende intelleggibili”.22 Questo per significare che la decodificazione e la conseguente percezione dei brani della Colonna d’Armonia dovrebbero essere legate all’esperienza spiritua20 Adrian Vasilache, Spartiti segreti, in ‘Atti del Convegno regionale – Cremona’, Bari, 2009, p. 32. 21 Cone, E. T., The Composer’s Voice, Berkeley; University of California Press, 1974, in Marconi, L., Musica Espressione Emozione, op. cit. 22 Nattiez, J.J., Il discorso musicale – Per una semiologia della musica, op. cit., p. 53.

le di ognuno, in relazione alla propria sensibilità e crescita interiore, ma anche al momento del Rito e di quanto profondamente questo sia vissuto e compreso. Esempio di Colonna d’armonia Limitatamente alla capacità verbale, non esaustiva nel descrivere armonia e suoni, ho cercato di rendere in forma scritta quello che è stato il mio pensiero semiotico nell’accostare i brani ai diversi momenti del Rito. Ho voluto soffermarmi sulla forza espressiva musicale e sulla forza ‘straniante’ delle parole in quanto esse sono le chiavi di comprensione della seguente analisi che abbina Rito e Musica in un’associazione empatica di forme comuni, archetipe e simboliche, appartenenti al mondo della conoscenza, del sublime e della perfezione. La scelta ha privilegiato Bach: e non è un caso. In accordo con Fabrizio Casu, ritengo che la ricerca del significato recondito ed enigmatico che sembra suggerire la composizione bachiana, richiederà un’attenzione simile a quella richiesta per la decifrazione dei geroglifici egiziani. Il difficile compito riservato all’esecutore consisterà pertanto nel trasmettere l’ineffabile, affidandosi all’attento studio della stratificazione dei significati che emergono appena si prova a scalfire la superficie delle note.23 Ingresso dei Fratelli di Loggia J. S. BACH Dal Concerto Brandeburghese n. 6 (Primo movimento Allegro) Esegue ‘Il Giardino Armonico’ La musica bachiana si pone per eccellenza come una costruzione di perfetta armonia dove le singole voci costituiscono l’unità della composizione. In particolare i concerti Brandeburghesi, scritti come regalo al Principe Leopold presso la cui Reggia Bach lavorava, si configurano come gioielli di architettura ove le singole navate convogliano a formare la cattedrale armonica. Si presentano con temi ben distinti e riconoscibili che riescono a fondersi in una coralità costante e genialmente congegnata negli ingressi dei vari strumenti e frasi. In particolar modo il primo movimento del Concerto n. 6 per archi esprime molto bene l’idea

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23 Fabrizio Casu, Spartiti segreti, in ‘Atti del Convegno regionale – Cremona’, Bari, 2009, p. 52.

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dell’ingresso al tempio, durante il quale, con passo sicuro e gioioso, tutti i fratelli si dispongono a iniziare un nuovo momento di unione. I singoli temi esposti dal violino, dalla viola e dal violoncello, pur con differenti personalità e timbri, riescono a fondersi nel ‘tutti’, scandito da un costante basso continuo che accompagna i passi all’interno del Tempio. Accensione dei Candelabri S. BARBER Dal Concerto Op.14 per violino e orchestra (Secondo movimento Andante) Esegue Hilary Hahn, St Paul Chamber Orchestra, direttore Edgar Meyer. La luce, simbolo della conoscenza e della ricerca personale, accompagna l’apertura dei lavori ed illumina l’inizio di un cammino. Il flebile ma chiaro suono dell’oboe nel concerto di Samuel Barber, compositore americano del secolo scorso, sembra percorrere un filo sottile di certezza, quello della riflessione interiore, che sfocia in un dialogo con un’orchestra in attesa, quella dei fratelli. Costantemente protesa alla chiarezza e alla verità, sia nel suono dei corni che in quello degli archi, la compagine orchestrale crea le premesse e le alleanze per l’apparire di un violino dalla voce chiara, profeta e portatore di bellezza, forza e saggezza. La 52

sua voce si inerpica come l’alone di una fiamma, si agita e si condensa nel suo timbro volitivo e tenace, rivelatore di storie edificate ed edificanti, sulle quali stabilire un quadro comune di intesa e permettere ai fratelli dell’orchestra di unirsi a lui in una positiva affermazione di benessere universale. Scambio della Parola Sacra e Apertura della Bibbia J.S. BACH Dalla Sonata n. 2 in la min BWV 1003 per violino (Andante) Esegue John Holloway Sacralità e segretezza sembrano aver ispirato la struttura di brano in cui Bach nasconde le proprie sicurezze in uno scandire costante e misurato di poche note, ripetute con determinazione ma con la certezza che in esse vi sia racchiuso il mistero dell’armonia. La prima delle due voci, espresse da un unico violino, ne coglie il messaggio e lo trasporta in altre dimensioni, rimanendo fedele al tappeto armonico fatto di sillabe regolari. Il ritmo sincronico e squadrato della base armonica, accompagna i suoi gesti che affondando la voce nella ritualità del tempo. Esso si fermerà solo quando il messaggero avrà incontrato il riposo della prima nota, dalla quale sono partiti in

maniera congiunta ed alla quale ritornano nell’accordo finale. Ingresso dei Visitatori G. PH. HÄNDEL Arrivo della Regina di Saba, elaborazione per ensemble di ottoni Esegue Slowind Brass Ensemble Piena di gioia e di ritmi festosi è l’ouverture di Händel, composta su motivi barocchi e temi dalla natura generosa ed estroversa; resi ancor più imponenti e brillanti in una elaborazione per ottoni dove il colore perlaceo delle trombe illumina il proscenio e porta ventate di allegria. Così l’Aria della Regina di Saba accoglie i visitatori, benvenuti e ospiti graditi. Inno Nazionale Inno di Mameli su musica di Michele Novaro (1818-1885) Ingresso del G\ M\ W.A. Mozart, Freimaurer Kantate (Cantata Massonica) Uscita del G\ M\ J.S. BACH dal Concerto Brandeburghese n. 1 (Primo movimento Allegro) Esegue ‘Il Giardino Armonico’ Trombe solenni e imperiose, assieme


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a oboi e fagotti, coronano il momento dell’uscita del Gran Maestro, mantenendo, pur nella pomposità della proposta, la leggerezza di chi sa dire molto con poco. Bach sceglie i fiati per esprimere un messaggio di forza, di comprensione e per stabilire attorno al ritmo regolare del basso continuo, uno sfavillio di richiami, di proposte e risposte che emergono in tutta la loro lucentezza nella voce dei tromboni barocchi che, come grandi custodi dell’armonia, si ammansiscono al passare del Gran Sovrano. Uscita delle Autorità ospiti J. S. BACH Dal Concerto Brandeburghese n. 4 (Terzo movimento Presto) Esegue ‘Il Giardino Armonico’ La forma fugata è stata prediletta da Bach, soprattutto nel rincorrersi delle voci multiple. Anche in questo movimento del IV Concerto Brandeburghese, pur trattandosi di un’opera di grande leggerezza e gioia, il grande di Eisenach non ha voluto dimenticare un ritmo serrato tra le parti che si cercano, si incontrano e si rincorrono. Ben si presta a rendere la cadenza del ritmo dell’uscita delle autorità ospiti che con la loro presenza hanno contribuito a rendere importante e ricco l’incontro. Tronco della Vedova e sacco delle Preposizioni F. COUPERIN

Dal Concerto Reale n. 1 (Allemande) Esegue Barthold Kuijken Un ritmo di gavotta è forse il più adatto ad accompagnare quello che rappresenta il momento di condivisione di un piccolo dono, consegnato in quel nobile gesto del dare senza ricevere. Fresco, danzante e privo di orpelli è lo stile francese che accompagna il I Concerto Reale di Couperin, musico della corte francese, che con grazia e delicatezza presenta una danza fatta di eleganza e semplicità, nonostante fosse destinata a ornare le feste di palazzi e regine. Scambio della Parola Sacra, Spegnimento dei Candelabri e Chiusura della Bibbia J.S. BACH Dalla Sonata n. 2 in la min BWV 1003 per violino (Andante) Esegue John Holloway Ibidem. Catena d’Unione C. CZERNY Dal Duo concertante Op. 129 per flauto e pianoforte (Primo movimento Allegro) Eseguono Luisa Sello e Johannes Kropfitsch La voce svettante del flauto seguita dalla ripetizione cristallina del pianoforte rappresenta il tocco delle mani dei fratelli che, in una catena d’Armonia, si scambiano il bacio fraterno. Nel duetto di Czerny emerge l’eguaglianza tra

due strumenti differenti, l’uno melodico e l’altro armonico, che si fondono in un unico tema e si concatenano rincorrendosi con scale e arpeggi fissati l’uno dentro l’altro come tanti anelli perfetti. Lo stile è solare, ricco di positività e piacevolmente generoso di giochi ritmici, molto adatto a chiudere una catena di unione dove la prosperità unisce i cuori e l’abbraccio ne definisce l’uguaglianza. Uscita dei Fratelli di Loggia J.S. BACH dal Concerto Brandeburghese n.6 (Terzo movimento Allegro) Esegue ‘Il Giardino Armonico’ Un ritmo ternario e danzante accompagna l’uscita dalla Loggia e da quello che è stato un incontro di armonia e di luce. La ricchezza ricevuta aleggia in questi passaggi, così sapientemente concatenati dal genio bachiano in un insieme di leggerezza e completezza. I violini si incalzano, il violoncello costruisce labirinti dall’uscita sicura e l’orchestra si ingegna a onorare i suoi solisti, con la certezza di aver arricchito ancora il bagaglio della conoscenza.

P.50: Violino ‘yiddish’, collez.privata; p.52: Organo (particolare), collez.privata; p.55: Flauto (particolare), collez.privata; p.55: Violino (particolare), collez.privata; p.56: Violino su spartiti, collez.privata; p.58: Menorah; p.59: Simboli massonici (per tutte le altre illustrazioni, fare riferimento alle didascalie sovraimposte e al testo dell’articolo).

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Psicanalisi

Ricominciare a vivere Laura Viola

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Psicanalisi

H

o lavorato per molti anni come medico specialista sia in psichiatria che in ospedali psichiatrici, i superati ed esecrati ‘manicomi’. In tali ambienti ho fatto esperienza degli aspetti più profondi, reconditi e dolorosi dell’animo umano. Attualmente svolgo la libera professione di medico psicologo-analista junghiano. Alcuni anni fa ho avuto l’opportunità di entrare fra le fila della Gran Loggia d’Italia; come Libero Muratore e grazie alla costante opera che mi sono trovata ad affrontare, ho avuto modo di meditare e rivisitare alcune mie esperienze professionali sotto la nuova prospettiva e con la nuova luce donatami dal metodo massonico; vorrei quindi – con questo breve scritto – condividere con voi alcune riflessioni. Era ormai sera, quel lontano pomeriggio d’inverno ed ero rimasta sola nel mio studio; mettevo ordine negli appunti raccolti durante e dopo l’ascolto dei miei pazienti; non sapevo da dove cominciare tanto era ingombro lo studio. Molti fogli erano distribuiti e sparsi sulla scrivania,

in attesa di finire nei raccoglitori. Una pagina sfuggì per terra e – alla fiamma del camino – vidi che era finita sotto la poltrona su cui mi siedo durante il lavoro. Riconobbi che faceva parte delle note sulla storia di Margot che mi aveva tanto impegnato alcuni anni prima. Margot … La mente ritornava senza fretta all’indietro nel tempo, la vedevo periodicamente distesa sul lettino psicoanalitico. Fu per lei lungo e faticoso il percorso, la difficoltà nei rapporti era presente anche nel transfert analitico. Ricordai il nostro primo incontro: dopo una sua telefonata ci incontrammo; era una donna abbastanza alta, molto magra e macilenta, dimessa, con due silenziosi e ombrosi occhi scuri che, pur avendo già superato la giovinezza, si presentavano ancora come quelli di una fanciulla, esile e indifesa. Ella aveva gravi problemi nel rapporto con il marito, un individuo duro, altero e tracotante, che offendeva e prevaricava la sua evanescente femminilità, umiliandola e incolpandola per non essere stata capace di concepire dei figli. Margot aveva seri disturbi della sfera ali-

mentare e del sonno; quest’uomo violento aveva abusato di Margot moralmente e con percosse a tal punto che la donna ormai da anni era sprofondata in una depressione psichica che le toglieva la voglia di vivere e di ‘volersi bene’. Fondamentale era stata la mancanza della figura materna, assente e distratta sino dalla sua infanzia, e quella di una incostante, sfuggente e idealizzata figura paterna. Non voglio inoltrarmi nel caso clinico che è stato però la scaturigine dei miei pensieri e riflessioni. A questo punto, mentre rivisitavo mentalmente il caso, mi è apparso il nesso fra l’oltraggio da lei subito e la profanazione di ciò che è sacro, come ad esempio il Tempio massonico. La persona, l’individuo, oltre al guscio esteriore che serve a sopportare l’urto della quotidianità profana, reca dentro di sé uno spazio sacro, un hortus conclusus ove possono essere ammesse solo alcune scelte persone, solo alcuni individui affini che il nostro sentire ci porta a chiamare ‘fratelli’ e ‘sorelle’. Esiste peraltro nella mitologia classica l’ipostasi di una figura divina che ben rap55


Psicanalisi

presenta un nucleo considerato sacro per molte culture. La dea greca Estia – Vesta per i latini – era colei che tutelava il focolare; questo fuoco, posto al centro della casa, era una specie di athanor, era il fulcro protetto e virginale che permetteva a un normale insieme di stanze di configurarsi come ‘casa’, luogo sacro della famiglia per eccellenza. Nell’antica Roma le Vestali, sacerdotesse vergini della dea Vesta, avevano il compito di mantenere viva nel Tempio la fiamma sacra del focolare, fiamma che si può a buon titolo considerare un pregnante simbolo universale. Un atto empio o violento nella casa – un delitto, un’aggressione, una rapina o un rapimento – era un affronto a 56

Vesta il cui fuoco, ormai profanato, non garantiva più la sacralità dell’ambiente. A questo punto occorreva riconsacrare lo spazio con una nuova accensione rituale del fuoco, usando una fiaccola proveniente dall’altare del tempio della dea. Questo mi ha permesso di capire più chiaramente perché il Tempio massonico, prima dell’apertura dei lavori, venga tutte le volte squadrato e riconsacrato, permettendo così di lavorare in un ambito più vicino al divino e alla dimensione metafisica che ci si appronta a cercare di raggiungere. La violazione di un Mistero minore, come un focolare, o di un Mistero maggiore, come la profanazione di una ceri-

monia di Eleusi o di un Tempio possono a questo punto essere assimilati al sacrilegio del Cuore umano, dell’intimità più riposta dell’Essere, del nostro personale ed interiore Fuoco sacro. Esistono episodi violenti che rendono intollerabile il vivere, che ci possono gettare nella deriva di una depressione profonda come gli eventi vissuti e patiti da Margot. Questa relazione con la classicità – portato dalle torce del tempio di Vesta – ha anche richiamato alla mia mente il Sigillo della nostra Obbedienza, ove – fra tutti gli altri simboli – i cursores di Lucrezio si tramandano la fiaccola della luce della Vita così come le Sorelle e i Fratelli – al passare del tempo – si affidano l’un l’altro la luce della Sapienza. È evidente, è un lampo, una intuizione istantanea: la ritualità, l’abbigliamento e il muoversi in una determinata maniera, il silenzio e la parola, i simboli e gli arredi, altro non sono che chiavi e strumenti che ci consentono di approdare, dopo un faticoso e lungo impegno sulla nostra personale pietra grezza, alla dimensione spirituale agognata, méta dei nostri lavori. Mi sorgono in mente anche altri exempla, di cui uno dei più attinenti è forse l’episodio dell’ubriachezza di Noè riportato nell’Antico Testamento. Vale la pena rammentare il testo riportato in Gen 9/18-25: «I figli di Noè che uscirono dall’arca furono Sem, Cam e Iafet; Cam è il padre di Canaan. Questi tre sono i figli di Noè e da questi fu popolata tutta la terra. Ora Noè, coltivatore della terra, cominciò a piantare una vigna. Avendo bevuto il vino, si ubriacò e si denudò all’interno della sua tenda. Cam, padre di Canaan, vide la nudità di suo padre e raccontò la cosa ai due fratelli che stavano fuori. Allora Sem e Iafet presero il mantello, se lo misero tutti e due sulle spalle e, camminando a ritroso, coprirono la nudità del loro padre; avendo tenuto la faccia rivolta indietro, non videro la nudità del loro padre. Quando Noè si fu risvegliato dall’ebbrezza, seppe quanto gli aveva fatto il figlio minore; allora disse: — Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli!». Non voglio avventurarmi sul malcerto terreno di una difficile esegesi biblica, ma anche questo passo – al pari della citata Vesta – mi ha imposto di considera-


Psicanalisi

re il Sacro e la sua violazione. Se tentiamo una superficiale lettura allegorica dell’evento, vediamo che Noè, al pari di uno ierofante o di uno sciamano, raggiunta la dimensione metafisica tramite l’assunzione del vino (il soma della tradizione dei Veda) cade in estasi o trance; egli è ‘nudo’ nella ‘tenda’, ovvero privo delle scorie terrene, dei metalli e all’interno di una cortina assimilata allo spazio sacro del sanctum sanctorum, il ‘santo dei santi’, il qodesh ha-qodashim ebraico della Sinagoga, dove solo il Sommo Sacerdote può entrare. È proprio per questo che Cam – spiando – vìola il segreto assistendo ai Misteri, cioè ‘profana’ lo spazio sacro ed è maledetto, ovvero esecrato, scacciato dalla comunità, bruciato fra le colonne e condannato alla damnatio memoriae. Ed è parimenti per questo motivo che i fratelli di Cam recuperano la

dignità e la sacralità dell’officiante/Noè ricoprendolo agli occhi profani col proprio mantello senza peraltro prendere direttamente visione della cosa (… camminando a ritroso…). In ultimo capiamo anche la ragione – fondata – della celebrazione in segreto di qualsiasi Mistero trascendente, al pari dei nostri lavori di Loggia: è difficile riuscire a concentrarsi e a ottenere l’eggregore e l’epistrophè nel Tempio quando si è derisi dalla curiosità sterile o contaminati dalla volgarità dell’ignoranza profana; meglio allora lavorare a porte chiuse, ammettendo solo iniziati, persone selezionate e affini, vagliate e vicine al nostro modus operandi. Margot ha ricominciato a vivere ed io sono riuscita a avvertire cose che sono andate ben oltre il semplice aspetto professionale; tutto ciò grazie alla Massoneria e all’incessante lavoro di Loggia, che

modificano l’animo umano, rendendolo più attento a percepire nelle cose, nei fatti e nelle persone lati nascosti, meno palesi e sottili effettuando quella trasmutazione della persona che il nostro Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro Luigi Pruneti ha così felicemente definito alchimia della persona e dello spirito in alcuni scritti e in certi interventi. Questa breve memoria, questo ridotto excursus di pensieri, non vuole essere un mero esercizio di maniera, ma spero possa indurre le mie Sorelle e i miei Fratelli a riflettere e rileggere con un nuovo taglio antichi accadimenti e rivalutarli con gli occhi finalmente privi della benda che ci ha impedito – profanamente e per lungo tempo – la visione della vera luce. P.60: Copricapo regale, Museo del Cairo; p.61: La Sfinge di elGiza, primi del ‘900, collez.privata; p.62: Le colonne istoriate del Tempio di Karnak, Egitto; p.63: Gioielli regali, Museo del Cairo.

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I Mitologia

Enkidu e Gilgamesh Ovvero il mito dell,eterna rinascita Patrizia Tasselli

parte II 58

n questa stupefacente allegoria alcuni studiosi vedono il tentativo di Gilgamesh di sottrarsi all’autorità del Clero, che limitava il potere dei re. Da un punto di vista iniziatico potrebbe invece essere il rifiuto dell’accettazione incondizionata dei dogmi religiosi, se non addirittura della divinità, intesa come entità prevaricatrice della ragione. E in effetti l’episodio successivo, la vendetta di Ishtar oltraggiata dal rifiuto di Gilgamesh, si offre ad una interpretazione di tipo simbolico rituale, più che politico sapienziale. Offesa e umiliata la grande dea chiede e ottiene dal padre Anu le redini del Toro Celeste, entità distruttrice di non facile identificazione. La bestia calpesta il suolo di Uruk provocando morte e distruzione, finché Gilgamesh e Enkidu, durante una vera e propria corrida, la uccidono. È evidente il richiamo alla pratica della tauromachia, mantenutasi viva in oriente fino ai tempi di Roma, che importò il culto di Mitra, inviato sulla terra per uccidere il Toro Cosmico e spargere il suo sangue fecondante. Inferocita per l’uccisione del toro, Ishtar prepara la sua atroce vendetta, la morte di Enkidu. Ma sarà proprio lei, provocando l’apparente separazione delle due anime, in realtà accelerando la loro unificazione, a introdurre Gilgamesh sulla via della Perfezione. Enkidu si ammala di un morbo misterioso per decisione degli dèi istigati da Ishtar. Prima di morire, il co-protagonista dell’epopea maledice la prostituta sacra che lo aveva trasformato da bestia in uomo, maledice il cacciatore che gli aveva offerto il pane e la birra, inserendo nella sua umanità orgoglio regale e spirito divino. Enkidu maledice anche la grande porta di cedro che aveva costruito per il tempio di Shamash e si rivolge ad essa come se fosse un essere senziente: Ora, o porta, sono stato io che ti ho fatto, sono stato io che ti ho portato a Nippur. Eppure il re che verrà dopo di me, passerà attraverso di te, Gilgamesh passerà attraverso i tuoi stipiti, egli cancellerà il mio nome e vi apporrà il proprio Egli (=Enkidu) abbatté la porta e la ridusse in pezzi. Nell’intera opera, che ci è giunta attraverso migliaia di frammenti di tavolette di argilla sparsi su tutto il territorio me-


diorientale, redatti in varie lingue e per di più in epoche distanti tra loro centinaia di anni, ci sono episodi incomprensibili e apparentemente illogici. Una buona coerenza del racconto si ottiene solo con la comparazione delle sue varie stesure, tutte parziali e lacunose. L’episodio della porta, uno dei più difficili da comprendere, si presta tuttavia a una interpretazione simbolica, in quanto una porta rappresenta pur sempre un passaggio, da un luogo all’altro, da una condizione all’altra. Delirante, prima di morire Enkidu sembra pentirsi di aver varcato la soglia che lo ha condotto sulla via della conoscenza e teme che Gilgamesh quando passerà di nuovo attraverso i suoi stipiti, si dimentichi di lui, rendendo inutile il suo sacrificio. Il poema assume i toni della tragedia e la morte, con le sue incognite, diviene il leitmotiv dell’opera. Shamash stesso, il dio del sole, si rivolge personalmente al giovane morente; inutili sono le maledizioni verso coloro che lo hanno unito a Gilgamesh per farne un uomo nuovo. Lo spirito di Enkidu è ormai parte di Gilgamesh, che non potrà dimenticarlo, questa è la promessa del dio. Enkidu, pervaso da un sentimento che somiglia sorprendentemente al perdono e alla rassegnazione cristiana, ritira le maledizioni contro Shamkhat e il cacciatore, trasformandole in auspici di bene. Ma la paura della morte si manifesta nel sonno, e in pochi versi di toccante poesia Enkidu racconta il sogno che gli rivela il destino del sé materiale. Vi era un giovane, la cui faccia era al buio, mi prese e mi condusse nella sua casa buia, l’abitazione della dea degli Inferi, nella casa dalla quale chi entra non può più uscire. Per un via che non si può percorrere indietro, nella casa i cui abitanti sono privati della luce, dove il cibo è polvere, il pane è argilla. .... Nella casa della polvere, dove io entrai, sollevai il mio sguardo e vidi le corone che vi erano ammucchiate; osservai le corone di coloro che avevano governato la terra da tempi immemorabili; davanti ad Anu ed Enlil essi avevano deposto carne arrostita, avevano deposto pane cotto, e acqua fresca, avevano fatto scorrere dai loro otri. Nella casa della pol-

late dal racconto nel suo insieme. Siamo infatti alla svolta definitiva nella vita di Gilgamesh. Egli ha subito una prima rinascita attraverso l’incontro con Enkidu, il suo doppio che aveva superato la prova dell’ iniziazione. L’esistenza fisica di Enkidu non ha più motivo di essere. La

Mitologia sua morte , facendo egli parte integrante di Gilgamesh, non può che rappresentare la morte iniziatica di Gilgamesh stesso. Il rituale è già predisposto, il dio del sole Shamash lo aveva preannunciato a Enkidu: ...ed egli (Gilgamesh) farà in modo che il popolo di Uruk possa piangerti, possa emettere lamenti per te... ...e per quanto riguarda se stesso egli trascurerà il suo aspetto dopo la tua morte, con indosso soltanto una pelle di leone egli vagherà nella steppa. (Tav.VII)

Di colui che vide ogni cosa, voglio narrare al mondo; di colui che apprese e che fu esperto in tutte le cose. Di Gilgamesh che raggiunse la più profonda conoscenza, che apprese e fu esperto in tutte le cose... vere dove io entrai, abitano i Sommi sacerdoti e i loro accoliti, abitano i Sacerdoti purificatori e gli indovini, abitano gli unti dei grandi dei (Tav.VII) La morte è uguale per tutti, parole di indubbio valore sapienziale, come d’uso nella letteratura egiziana e mesopotamica, che tuttavia non distraggono da una lettura di tipo esoterico trascendentale, a meno che non vengano estrapolate e iso-

Enkidu dunque muore, o meglio scompare come essere fisico e si fonde con il suo doppio. Gilgamesh ha definitivamente varcato la soglia della prima iniziazione, il suo cammino alla ricerca di se stesso è passato attraverso la gioia, ora lo aspetta il dolore, simboleggiato dalla perdita dell’amico. La sofferenza di Gilgamesh è immensa, l’universo piange con lui, il mondo che lo circonda e il mondo del suo io interiore sono a lutto, gridano uniti la loro disperazione. Gilgamesh comincia ad eseguire il rituale predisposto da Shamash: ...con indosso soltanto una pelle di leone vagherò nella steppa. (Tav.VIII) Gilgamesh abbandona la sua condizione di innocenza, di gioventù spensierata e inconsapevole, per avventurarsi in un viaggio che lo porterà alla conoscenza della vera condizione umana. La morte simbolica di Enkidu-se stesso scioglie le catene che lo tenevano attaccato ai valori effimeri della materia e il giovane intraprende un viaggio verso la trasformazione spirituale. Il tema del viaggio è fondamentale in quest’opera. L’eroe mitologico viaggia anche nello spazio reale, le sue avventure e 59


pravvissuto, la montagna nelle cui viscere bisogna penetrare è sbarrata dagli uomini scorpione. ...coloro che giornalmente stanno a guardia dell’uscita e dell’entrata, essi stanno a guardia del sole nel suo sorgere e nel suo tramontare. (Tav.IX)

Mitologia

Guardie o Maestri? Come il mostro Hubaba custode della Foresta dei Cedri, qui gli uomini scorpione rappresentano il dubbio, la difficoltà di comprendere ciò che è bene e ciò che è male, chi è l’amico e chi il nemico. Questi esseri mostruosi non hanno in realtà il compito di difendere l’accesso a un luogo proibito, quanto quello di far desistere l’eroe da un’impresa che potrebbe essere fallimentare se non sostenuta da una forte determinazione. Come una madre iperprotettiva che mina la sicurezza e la saldezza del carattere del figlio, provocando in lui nevrosi e autolimitazioni, gli uomini scorpione mettono alla prova la forza di volontà di Gilgamesh. Gilgamesh è deciso, vuole andare avanti. Gli uomini scorpione gli indicano una porta da attraversare, un altro passaggio simbolico verso l’ignoto. Gilgamesh entra ...nella porta della montagna, dove densa è l’oscurità, non vi è alcuna luce. Non gli è concesso di vedere dietro di sé (Tav.IX)

il suo coraggio sono insegnamento e celebrazione del popolo cui appartiene, ma l’eroe è il protagonista di un mito e il mito “costituisce il passaggio segreto attraverso il quale le inesauribili energie del cosmo penetrano nelle forme della cultura dell’Uomo... Il Viaggio dell’eroe mitologico può avvenire anche materialmente ma quest’aspetto è irrilevante. In realtà il Viaggio è fondamentalmente un evento interiore, un viaggio verso profondità in cui oscure resistenze vengono vinte e resuscitano poteri a lungo dimenticati per essere messi a disposizione della trasfigurazione del mondo...” 1 Il viaggio è dunque un’esperienza iniziatica in cui al neofita si chiede di imparare a vedere e sentire in modo nuovo. Gilgamesh parte alla ricerca del senso della vita. 60

La paura della morte mi sopraffece e ora io vago per per la steppa Di notte ho raggiunto passi montani. Ho visto leoni e ne ho avuto paura. (Tav.IX) Vaga per la steppa il nostro eroe, senza meta. Il grande re è solo e ha paura. La parte razionale di sé incontra l’inconscio, un’energia sconosciuta che lo sconcerta, ma che egli vuole affrontare e capire. Si muove alla ricerca di Utanapishtim, il sopravvissuto al Diluvio, un uomo, un mortale, cui è stata concessa la vita eterna. ...colui che entrò nella schiera degli dèi che trovò la vita, Sulla vita e sulla morte voglio interrogare. (Tav.IX) Ma la strada verso il luogo dove vive il so-

Gilgamesh, dopo avere scalato una montagna, penetra nelle sue viscere, varca la soglia dell’ignoto senza possibilità di tornare indietro, compie una scelta irreversibile. Apparentemente il suo coraggio viene premiato e dopo un lungo percorso al buio il nostro eroe scorge la luce e giunge in un giardino incantato, dove crescono alberi di pietre preziose. Si tratta del giardino di Shamash, un luogo meraviglioso e ingannevole. ...il carrubo egli (Gilgamesh) prende in mano, ed ecco è calcedonio, gemme, ematite... (Tav.IX) In questo Eden artefatto, dove la vita sarebbe impossibile, Gilgamesh incontra il personaggio femminile più misterioso e complesso, poco tratteggiato e forse per questo più affascinante; Siduri, archetipo


di molte figure femminili di cui si arricchirà tutta la letteratura a venire, custodi dell’immortalità, come l’omerica Calipso, ma anche guida medianica come la Sibilla e Beatrice. La taverniera Siduri è la donna che fa il vino secondo alcuni traduttori. Nel suo giardino cresce la pianta della vite, appesa a un albero di corniolo, pietra rossa come il frutto dallo stesso nome, e rossa come il vino, bevanda simbolo di vita per eccellenza in tutte le tradizioni antiche. La tradizione orale ebraica, “... afferma che l’albero della scienza del bene e del male era una vite. Il libro di Enoch (24, 2) localizza questa vite-albero della scienza del bene e del male in mezzo a sette montagne, come fa, del resto, anche l’epopea di Gilgamesh.” 2 Per alcune popolazioni il vino rappresentava l’immortalità e il dinamismo dell’esistenza, per altre era il mezzo per accedere ai mondi extrasensoriali, ma per tutte era l’elemento alchemico indispensabile per la trasformazione dell’individuo, la liberazione dell’anima dalle impurità affinché possa risplendere l’oro della sua vera essenza. “In vino veritas” non significa che l’ubriaco dice la verità, ma che l’ebbrezza del vino libera la mente dalla materia e le permette di salire ai livelli superiori dello spirito. Questo almeno era ciò che si intendeva con l’uso del vino nei riti iniziatici, perché l’ebbrezza consentiva all’adepto di liberarsi della ragione per accedere ad esperienze mistiche. Siduri, la taverniera degli dèi, vive sulle sponde del mare della conoscenza, nel mezzo del quale si trovano le acque della morte, l’abisso dove la ragione si può perdere definitivamente. Come il mostro Hubaba e gli Uomini Scorpione, Siduri ha il compito di saggiare le vere intenzioni di Gilgamesh, valutare la sua determinazione: Se è necessario, attraverserò il mare, se no, vagherò per la steppa. (Tav.X)

Mitologia

ciato a tremare, e ho vagato nella steppa (Tav.X) Per quella paura si era messo alla ricerca dell’immortalità. Ma quello che cercava la vita eterna era un Gilgamesh sconvolto dall’ineluttabilità della morte, sperimentata simbolicamente attraverso il suo amico, ovvero parte di se stesso, Enkidu. Ora Gilgamesh è diverso, con la sofferenza è maturato e aspira alla gnosi, la vera conoscenza e la consapevolezza di sé. Nelle parole di Siduri non c’è spazio per le illusioni, la traversata sarà difficile:

Gilgamesh è deciso, vuole proseguire il suo viaggio ad ogni costo, vuole attraversare il misterioso mare che ha davanti, non ascolta più le raccomandazioni, gli avvertimenti, gli inviti a desistere. Siduri riconosce in lui l’uomo pronto alla metamorfosi, nonostante abbia sofferto l’umano sentimento della paura.

La traversata è difficile, la via piena di insidie; e nel mezzo vi sono acque mortali che impediscono la navigazione. Come puoi quindi tu Gilgamesh attraversare il mare? Ed una volta che hai raggiunto le acque mortali cosa farai? In verità vi è, o Gilgamesh, il traghettatore di Utanapishtim: Urshanabi; Egli, che potrai riconoscere dalle steli di pietra nel bosco taglia tronchi d’alberi. (Tav.X)

io ho avuto paura della morte, ho comin-

Gilgamesh conosce dunque il primo tra-

ghettatore della storia letteraria, Urshanabi, anche lui guardiano, ostacolo, prova da superare. Più che un incontro è uno scontro le cui motivazioni sono di non facile interpretazione; Gilgamesh abbatte le misteriose ...steli di pietra a cui era attraccata la nave, e senza le quali non è possibile attraversare il mare... Pali di attracco, evidentemente, ma perché una volta abbattuti impediscono alla barca di percorrere le acque? Nella traduzione in lingua inglese Urshanabi è riconoscibile non solo dalle “stone things”, ma anche da non meglio identificabili “urnu snakes”, (i tronchi d’albero della versione italiana). È forse per la distruzione degli “urnu snakes”, verosimilmente degli amuleti, che Urshanabi si arrabbia a tal punto che stende Gilgamesh con un colpo in testa, ma poi, ascoltate le motivazioni che l’hanno spinto in quel luogo, si commuove e accetta di trasportarlo al cospetto di Utanapishtim. Da un punto di vista iniziatico se la distruzio61


Mitologia

ne degli ormeggi simboleggia con tutta evidenza una scelta irreversibile, la ferma volontà di effettuare il passaggio da uno stato dell’essere inferiore a uno superiore, la distruzione degli amuleti afferma la supremazie della ragione sulla superstizione. Il “neo-nato” Gilgamesh ha tagliato il cordone ombelicale, ora deve dimostrare di saper camminare con le sue gambe. Si reca nella foresta e taglia i pali che gli consentiranno di attraversare le acque di morte senza esserne contaminato. I pali sono centoventi e Gilgamesh li dovrà usare tutti; alla fine, esausto, si toglie i vestiti e li lega all’albero della nave come fossero una bandiera che identificherà se stesso, nudo, all’arrivo sull’altra sponda. Utanapishtim, il sopravvissuto, osserva da lontano l’avvicinarsi dello sconosciuto. Gilgamesh ripete davanti all’uomo scampato al Diluvio il suo canto funebre per l’amico perduto, ovvero il rifiuto della sorte che inevitabilmente lo attende. La pietà di Utanapishtim non può risparmiare all’eroe l’amarezza della verità: ...tutto assomiglia alle libellule che sorvolano il fiume il loro sguardo si rivolge al sole e subito non c’è più nulla. (Tav.X) Versi di toccante poesia che come una brezza leggera sollevano il velo della speranza e lo spazzano via, gli dèi hanno deciso: ...hanno stabilito morte e vita; i giorni della morte essi non hanno contato a differenza di quelli della vita. (Tav.X) La sorte degli umani, è dunque stabilita e 62

immutabile e sta a loro, agli umani, dare un senso alla propria vita. Gilgamesh, benché pronto alla rassegnazione, vuol sapere qualcosa di più. Nel mito di Atrahasis, archetipo di tutti i superstiti, l’uomo non fu creato per amore, ma per opportunità, per compiere i lavori materiali che stancano gli dèi, mal tolleranti di ogni anelito di libertà dei loro schiavi. “ ... la creazione è un rimedio al male, non una volontà di bene, opportunità liberatoria, non libera adesione all’essere; essa genera immediato pentimento e immediata punizione della colpa medesima di essere stati posti nell’operoso cerchio della vita.” 3 La celeberrima undicesima tavoletta, quella del Diluvio, lascia in sospeso i motivi della punizione divina, che pure traspare tra le righe come causa scatenante. La religiosità mesopotamica prescinde dalla causalità delle azioni divine, il “buon Dio” biblico, giudice implacabile di ogni manchevolezza umana, è lontano da venire. Nel Pantheon babilonese c’è tuttavia spazio per la discussione, o meglio qualche dio conserva uno sprizzo di compassione, come Ea, che decide di salvare la razza umana, contravvenendo agli ordini del capo supremo Enlil. La narrazione, contraddittoria tra dèi buoni e cattivi, fedeli e traditori, orgoglio e pentimento, si apre alla comprensione di una lettura in chiave simbolica. Utanapishtim si presta a un mirabile gioco di alchimia esoterico sapienziale, in cui attraverso la parabola del Diluvio Universale si giustifica l’eterno alternarsi della morte e della rinascita. “L’umanità periodicamente scompare nel diluvio o nell’inondazione, per i suoi ‘peccati’ ...Mai perisce

definitivamente, ma riappare sotto forma nuova, riprendendo il medesimo destino, aspettando il ritorno della medesima catastrofe, che la riassorbirà nelle acque... la vita umana appare cosa fragile che deve essere periodicamente riassorbita, perché è destino di tutte le forme dissolversi allo scopo di poter nuovamente apparire.” 4 Utanapishtim non si salva dal diluvio, e conseguentemente ottiene la vita eterna, perché “uomo giusto”, come Noè, ma perché ha conseguito la sapienza. Lo si deduce dal fatto che sia Ea, il dio della saggezza, a suggerirgli la costruzione dell’arca. L’umanità perirà dopo aver accettato passivamente un ultimo, ingannevole dono; il mattino prima del diluvio scenderanno dal cielo focacce, la sera una pioggia di grano. Dopo che tutto sarà finito, quando gli dèi pentiti per il terribile cataclisma scatenato, accucciati come cani piangeranno lacrime di coccodrillo, sarà il dio della saggezza Ea che convincerà Enlil, il supremo, a concedere al sopravvissuto l’eternità attraverso un vero e proprio rito di iniziazione. Questo è il racconto di Utanapishtim-Atrahasis: Enlil salì allora sulla nave (l’arca), prese la mia mano e mi fece alzare, prese mia moglie e la fece inginocchiare al mio fianco. Toccò la nostra fronte e stando in mezzo a noi ci benedisse: “Prima, Utanapishtim era uomo, ora Utanapishtim e sua moglie siano simili a noi dèi. Risieda Utanapishtim lontano, alla foce dei fiumi.” (Tav.XI) Utanapishtim e sua moglie sono dunque i Saggi, i Maestri, gli Iniziati. Il Mae-


stro Utanapishtim sottopone Gilgamesh a un’altra prova, nella quale fallirà miseramente. Il povero grande re non dovrà dormire per sette giorni e sette notti ma, sopraffatto dalla stanchezza si addormenta, il sonno scende su di lui come un velo di nebbia. È l’inizio di un nuovo ciclo. La moglie di Utanapishtim, l’iniziata, decide che possa egli tornare nel suo paese attraversando la porta da cui è uscito. Gilgamesh viene svegliato. È sporco, è brutto, è perdente, è “morto”, ma le prove fin qui superate lo hanno reso degno di una nuova rinascita, attraverso un suggestivo rito. Utanapishtim lo affida a Urshanabi, il traghettatore.

che quella pianta spinosa è destinata in realtà solo a coloro che già se ne sono cibati, a coloro che liberamente e consapevolmente hanno intrapreso la via iniziatica della conoscenza. Durante il viaggio di ritorno verso Uruk, affaticato, Gilgamesh si concede una distrazione, un bagno in una pozza d’acqua fresca; lascia la pianta incustodita, un serpente la mangia e subito cambia pelle. Il serpente mesopotamico non induce al peccato bensì approfitta della debolezza umana per lanciare un messaggio attraverso l’evidente simbologia di rinascita determinata dal cambio della pelle. Hanno fine qui

trattenuto per inspiegabili motivi, per poi riemergere e raccontare la triste sorte dell’uomo dopo la morte; l’unica possibilità di sopravvivenza è avere una numerosa discendenza. Molto meglio concludere con alcune righe dell’undicesima tavoletta dove Gilgamesh invita Ursha-

le residue illusioni del giovane re, si staccano quelle filiformi radici che lo trattenevano ancora attaccato al mondo profano. Tra le lacrime per la perdita della pianta dell’irrequietezza sembra terminare il viaggio di Gilgamesh, se non che all’arrivo ad Uruk tutto sembra ricominciare daccapo, con il re che loda la grandezza della sua città, esattamente come nei primi versi dell’Epopea. La dodicesima tavola appare priva di significati esoterici, forse perché l’originale sumerico era già perduto in epoca babilonese. Forse la necessità di dare completezza all’opera, che nella tradizione mesopotamica doveva rispettare il numero dodici, come i segni dello zodiaco, ha suggerito agli scribi una conclusione carica di semplici significati morali e sapienziali, in una confusione narrativa di difficile interpretazione. Enkidu, redivivo, si offre volontariamente per andare nel mondo degli inferi, dove viene

“Sali, Urshanabi, sulle mura di Uruk! Percorrile! Ispeziona le fondamenta, scrutane i mattoni: non è forse vero che sono davvero mattoni cotti? Non sono stati i Sette Saggi a porre le sue fondamenta? ______________

Mitologia nabi a salire sulle mura di Uruk, versi che ricalcano testualmente quelli dell’inizio del racconto, coerentemente con la visione ciclica della storia umana che pervade tutta l’opera.

“...prendilo, Urshanabi! Portalo al lavatoio, possa egli lavare con acqua la sua sporcizia, fino a diventare bianco come la neve; possa egli buttare via le pelli, sicché il mare le porti con sé: fa’ che il suo corpo sia strofinato fino a tornare bello; poni sul suo capo un nuovo turbante; fagli indossare un vestito che lo rinobiliti; fino a che egli non giunga alla sua città, fino a che egli non compia il suo viaggio, che il suo vestito non si scolori, che sia nuovo, che sia nuovo”. Tutto a posto dunque, si prospetta un lieto fine? No. Le prove non sono terminate, la Conoscenza non si acquista così a buon mercato. Gilgamesh si immerge nelle acque dell’Apsu, la dimora del dio Ea, personificazione della sapienza e della ritualità sacerdotale, per raccogliere la “pianta dell’irrequietezza”, un arbusto spinoso capace di donare l’eterna giovinezza. L’irrequietezza è lo stato dinamico dello spirito, l’accettazione del continuo cambiamento, la voglia di camminare sulla via della conoscenza, il percorso personale come unico traguardo e Gilgamesh, come a dimostrare che la sua volontà non è fiaccata dalla delusione per aver appreso che non esiste la vita eterna che cercava, si tuffa nell’Apsu, dopo essersi legato delle pietre alle caviglie. Ma Gilgamesh, una volta raccolta la pianta dal fondo delle acque, commette un errore. Da buon sovrano quale ora si sente concepisce l’idea di dividere la pianta con i suoi sudditi, darla a mangiare ai vecchi di Uruk perché ritornino giovani. Ancora non sa il nostro eroe

Note: I versi citati sono tratti da La Saga di Gilgamesh - a cura di Giovanni Pettinato, Milano. Sono state utilizzate la traduzione di G.Pettinato elaborata da Thomas Porzano e la trad. di C.Saporetti. 1 Joseph Campbell - L’eroe dai mille volti. 2 Mircea Eliade. Trattato di storia delle Religioni - note 84-85-86. 3 Salvatore Lo Bue - I fiumi delle origini: il divenire della poesia in Egitto e Mesopotamia. 4 Mircea Eliade. Trattato di storia delle Religioni . P.58: Statua colossale di guerriero con leone, arte mesopotamica; p.59: Testa regale dagli scavi di Ninive; p.60-61: Bassorilievi con effigie di dignitari, arte Assira; p.62: Tavoletta con scrittura cuneiforme. p.63: Leone ferito durante una caccia reale, arte Assira.

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Esoterismo

La casa sulla soglia di un’altra dimensione Romania, Câmpina: il castello Julia Hasdeu Luigi Pruneti 64


Esoterismo

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a strada procede dritta verso Nord, tagliando la monotonia della vasta pianura, fino a quando torri metalliche e lunghi serpenti d’acciaio ci avvertono che siamo ormai giunti ai campi petroliferi di Ploiesti. È a quel punto che dalle brume dell’orizzonte emergono i primi contrafforti dei Carpazi meridionali; sembrano ombre oscure che incombono inquietanti sul verde dei campi, rinnovato dalla primavera. Pieghiamo verso Ovest, ora la strada si fa più stretta e la vegetazione, fra il diradarsi delle case, accoglie macchie di bosco. Ancora qualche chilometro e finalmente ci fermiamo; siamo giunti a Câmpina, dove si erge Castelul Jula Hasdeu. La costruzione colpisce immediatamente il viaggiatore per la sua singolarità; è evidente che questo è un edificio – messaggio. Percorriamo un breve viale che conduce al complesso monumentale, costituito da tre torri ottagonali merlate, con la centrale più alta delle altre. Il portale d’ingresso sottolinea il valore sacrale del castello: l’accesso, volutamente stretto è sovrastato da un delta raggiato con iscritto al centro l’occhio che tutto vede, ai lati sfingi in marmo impediscono a forze negative di vulnerare la sacralità del luogo. Siamo giunti ad un luogo simbolico, eretto sul finire dell’Ottocento da Bogdam Petriceicu Hasdeu (1838 – 1907), 65


Esoterismo

Un macigno mi opprime Ignoro la mia età ma sento a poco a poco che una mortale inerzia, così contraria al fuoco troppo presto m’invade

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storico, linguista, filosofo ermetico e medium. Egli dichiarò che la complessa costruzione gli fu ispirata dall’amata figlia Julia, rapita alla vita dalla tisi, a soli diciannove anni, mentre si trovava a studiare a Parigi. Si dice che Julia fosse una ragazza fuori dal comune; appena bambina conosceva ben sei lingue che parlava in modo fluente, a sedici anni fu ammessa in via eccezionale alla Sorbona; poetessa di straordinario valore compose versi che sembravano preannunciare la sua scomparsa nel fiorire della sua primavera: “Un macigno mi opprime / Ignoro la mia età ma sento a poco a poco / che una mortale inerzia, così contraria al fuoco / troppo presto m’invade”. La perdita non prostrò Hasdeu che cercò, comunque, di comunicare con Julia, nonostante il baratro dimensionale che lo divideva dalla figlia. S’immerse, pertanto, nell’esperienza medianica di cui questo edificio ne fu icona e testimonianza. Ogni dettaglio del castello, infatti, è un arcano, un messaggio cifrato, capace di riferire il pensiero e le attese di questo pensatore rumeno, per il quale la morte non era la fine, ma una soglia che introduceva ad una sfera diversa dell’esistere. P.60: Foto del Castello Hasdeu a Câmpina, Romania (p.64 e 65: foto Luigi Pruneti).


Esoterismo

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Fulcanelli Luca Bagatin

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ome mitologico certamente evocativo per la mente dei ricercatori dello Spirito, nella fattispecie degli studiosi di alchimia e di storia dell’arte e delle Cattedrali gotiche. Fulcanelli, autore delle erudite opere quali I Misteri delle Cattedrali, Le Dimore Filosofali (in due volumi) e Finis Gloriae Mundi, oggi disponibili per i tipi delle Edizioni Mediterranee, ma, nel passato, stampate in edizioni limitatissime e riservate a pochi esoteristi. Fulcanelli è, per molti versi (per quanto non tutti), svelato nel libro-reportage di Geneviève Dubois, libraia e appassionata di esoterismo, che le Edizioni Mediterranee hanno raccolto in Italia nel volume Fulcanelli: svelato l’enigma del più famoso alchimista del XX secolo, con prefazione di Gianfranco De Turris. 68

Volume denso di documenti fra la fine dell’800 e i primi del ‘900, epoca nella quale il Nostro visse, in una Francia dedita all’occulto e alla teosofia, ovvero alla scienza del Divino, alla ricerca della propria identità spirituale. Ma partiamo dall’analisi del nome: Fulcanelli, ovvero traducibile dal francese pressapoco in “vulcain” e “soleil” - vulcano e sole - che suona piuttosto come “Fuoco del Sole”. Un mito, quello di Fulcanelli, custodito per secoli dal suo discepolo, ovvero dall’alchimista Eugène Canseliet, morto nei primi anni ‘80 del XX secolo. Un mito che ha avuto origine, come spiega la Dubois, nell’ambiente degli adepti della Società Teosofica, dell’Ordine Martinista e della Massoneria di Memphis e Misraim, ovvero l’ambiente dei Papus, dei Marc Haven, degli Ambelain e dei René Guénon, ovvero di quei ricercatori dello Spirito che praticavano la Scienza sacra di Ermete Trimegisto e, dunque, l’Alchimia, capace di tramutare il vile spirito umano in spirito divino, perfetto, privo di impurità terrene e materiali. Fra costoro vi erano Pierre Dujols (1862 - 1926), discendente della nobile famiglia francese dei Valois e proprietario della libreria esoterica “Librairie du Merveilleux”, l’amico Jean-Julien Champagne (1877 - 1932), valente pittore ed artista, oltre che inventore e cultore della scienza e René Schwaller de Lubicz (1887 - 1961), egittologo e alchimista. Saranno loro tre, assieme al già citato Eugène Canseliet, con le loro ricerche e studi alchemici, nonchè relativi al simbolismo delle cattedrali, a far nascere e diffondere il mito del grande e dotto Fulcanelli. Saranno dunque le ricerche teoriche e di laboratorio di Dujols e successivamente di Schwaller de Lubicz e di Champagne, a produrre quei risultati contenuti nelle opere Il Mistero delle Cattedrali (1926), pubblicato in sole 300 copie, e Le Dimore Filosofali (1930), pubblicato in 500 esemplari. Eugène Canse-

liet (1899 - 1982), già allievo di Jean-Julien Champagne, e futuro prefatore delle opere di Fulcanelli, custodirà sino alla morte il mito del suo Maestro. Dirà persino che Fulcanelli era un essere ultraterreno, immortale, un Adepto della Fratellanza Bianca, un vero Rosa-Croce giunto sulla terra per favorirne l’evoluzione spirituale. Qualsiasi sia, in sostanza, l’autentica verità di Fulcanelli, ciò che conta è il contenuto delle opere che egli ci ha lasciato. Opere che svelano il significato del simbolismo delle Cattedrali gotiche, il loro significato religioso, spirituale e filosofico, che affonda le radici nell’Antico Egitto, passando per i templi greci, romani, l’epopea cristiana e medievale. Opere di alta filosofia alchemica, adatte piuttosto al ricercatore istruito, che non si lascia scoraggiare dalle prime difficoltà interpretative. L’opera-reportage di Geneviève Dubois ci fa assaporare l’epoca degli alchimisti e degli spiritualisti a cavallo fra il XIX ed il XX secolo e ci invita a proseguire il cammino che Fulcanelli - ovvero chi stava dietro alle sue opere - intraprese con grande sacrificio, dispendio di energie e persino di danaro, al fine di ricercare la Pietra Filosofale. Che è la scintilla divina in ciascuno di noi.


Biblioteca

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Sabrina Conti

Benvenuti allo stand della Gran Loggia d’Italia!! I

l titolo dell’Editoriale, uscito sul Tabloid che ha raccolto le iniziative poste in essere dalla nostra Obbedienza, non poteva essere di migliore auspicio e, ancor più, non poteva meglio identificare ciò che nello stand, da noi allestito all’interno della Fiera Internazionale del Libro di Torino 2012, è avvenuto. Da anni ormai organizziamo convegni, di varia tipologia, sempre molto partecipati dal pubblico, spesso ignorati dai mezzi di comunicazione. Già nel 2011 ci siamo affacciati a questa manifestazione, titubanti sull’impatto che l’iniziativa poteva avere tra i corridoi pieni di libri del Lingotto Fiere di Torino. Si festeggiavano i centocinquant’anni dell’Unità d’Italia e pensammo che sarebbe stato interessante raccontare di quanto questa “unione” fosse dipesa dall’impegno di “Uomini Liberi e di buoni costumi”. Rincuorati dai risultati, ci siamo riproposti quest’anno in una veste differente: 120 mq, la superficie dello stand (contro i 60 mq dello scorso anno) e … TRASPARENZA e LUCE, le parole d’ordine che hanno ispirato tutte le fasi del progetto. L’impatto non c’è stato. Il nostro stand si è inserito all’interno della manifestazione con una tale normalità, da consentire un afflusso costante di persone ed una sana curiosità da parte dei mezzi di comunicazione: il quotidiano “Repubblica” ci ha definiti “ lo spazio espositivo più elegante della Fiera”. Rai Due e Rai Tre hanno trasmesso l’in70

tervista al Gran Maestro Luigi Pruneti, evidenziando la nostra ricerca della cultura, la nostra voglia di uscire fuori dagli stereotipi che, da sempre, hanno riempito i giornali e la nostra trasparenza. La morbosa curiosità di citazioni mordi e fuggi ha lasciato spazio ad articoli dettagliati che sono entrati nel merito del fare e nel costrutto del pensiero degli ospiti delle nostre conferenze, Su “il Giornale” Aldo Alessandro Mola, tra i massimi conoscitori della storia della Massoneria, racconta il suo intervento all’interno della conferenza tenutasi con il G.M. di Romania ed il nostro G.M. Luigi Pruneti. Una repentina intervista tra il serio ed il faceto ha visto protagonista quest’ultimo nella trasmissione su Radio 24 de “La Zanzara”. Inoltre la segnalazione della presentazione di libri introdotti dal Gran Maestro, nello specifico quella di Arnaldo Francia uscita su “La Stampa” e Marco Materassi, ci hanno ufficializzati come “identità inerente al luogo”. Diversi sono stati gli argomenti sviscerati nel corso della manifestazione. Taluni sulla falsa riga delle proposte degli organizzatori, altri inseguendo le nostre grandi passioni. A tagliare il nastro d’avvio il Paolo Aldo Rossi, con la presentazione di “Aletheia”, il nostro periodico di Ricerca. A seguire, la tolleranza del diverso, analizzata dalla consulta di Bioetica, tenuta da Giuliano Boaretto e da Renato Ariano (Presidente della Consulta di Bioetica della G.L.D.I.).

Un dibattito in cui ci si è chiesti se “la metodologia” usata a livello iniziatico massonico sia applicabile ad argomenti di tanta difficile soluzione per l’uomo. Il divieto di affrontare discorsi di politica e di religione all’interno delle logge è universalmente rispettato, ma lascia spazio ad interpretazioni che Giuliano Boaretto, Antonio Binni e Matteo Bonazzi hanno evidenziato ed approfondito, con libera interpretazione, durante la tavola rotonda su Immaginario politico e massoneria. Il secondo giorno è stato sicuramente uno dei più applauditi: la voce narrante del Maestro Antonio Cericola si è mischiata agli arpeggi del prezioso violoncello del Maestro Dario Di Stefano, delle note del flauto del Maestro Adriano Megetto e delle tonalizzazioni della mezza soprano Ginevra Capriotti De Medici. Le note di J.S.Bach, degli inediti del Maestro Giulio Castagnoli e dello stesso Cericola sono penetrate nell’animo di chi aveva potuto trovare posto all’interno della sala. Folto pubblico anche per la conferenza successiva, in cui il G.M. di Romania Costantin Savoiu, con Aldo Mola e il G.M. Luigi Pruneti, hanno narrato dei fatti storici che hanno unito nel tempo questi due Paesi. Il ritmo incalzante del calendario offerto al pubblico dalla nostra Obbedienza ha riacceso i riflettori sabato 12 Maggio con un discorso sempre attuale quale quello dei rapporti della Massoneria con il Governo Italiano del pe-


riodo Fascista. Come sempre accade quando degli storici si incontrano, sono emerse, dai resoconti di Aldo A.Mola, del Col. Antonio Zarcone e di Luigi Pruneti sfaccettature comportamentali ed aneddoti sconosciuti ai più. Uno dei ricordi più cari e dei vanti più grandi, per coloro i quali appartengono all’Oriente di Venezia, è Hugo Pratt … In pochi attimi non vi sono state più pareti, né libri, ma … mari, dune, maghe, gitane … le immagini hanno mostrato, le parole narrato, le note emozionato ed una voce struggente ha commosso … questa l’incredibile malìa che ha colto e penetrato non solo lo spazio occupato dal nostro stand, ma anche i corridoi laterali … questo ciò che sono riusciti a trasmettere il nostro Gran Maestro, Marco Steiner, Fiorella Mondo, Giorgio Chies e Chiara Cesano. Le conferenze sono continuate, a ritmo incalzante, anche nei giorni successivi. Naturale è stato il coinvolgimento di pubblico mentre

Massimo Centini declinava la follia umana nelle immagini di Hieronymus Bosch. La bravura oratoria del Luogotenente S.G.C. Sergio Ciannella unita alla particolareggiata descrizione di fatti da parte di Pier Paolo Peracchino, portava una folta partecipazione alla conferenza su Democrazia nei Paesi emergenti. Diversi uditori incuriositi dal tema a noi caro dell’Ulivella si sono affacciati durante la conferenza tenuta dal Gran Maestro Aggiunto Marco Galeazzi, che è stato anche il promotore, insieme a Sandra Pirruccio, Francesco Chirivì, della presentazione del primo CD musicale marchiato G.L.D.I. Mysteria. Ai lettori di Officinae, che non sono potuti intervenire personalmente alla Fiera del Libro 2012, regaliamo ancora una suggestione: immaginate di avere sul vostro iPad questa rivista; di potervi navigare dentro, ingrandendo foto, sfogliando pagine … questa è la nuova realtà che ci hanno mo-

strato Simone Taddei e Valter Petrelli nella loro presentazione tecnologica. A dimostrare, ancora una volta, che la tecnologia può essere un ottimo mezzo al servizio della Tradizione. Ci sentiamo di dire che per cinque giorni abbiamo preso casa alla Fiera Internazionale del Libro di Torino ed altresì che nello stesso lasso di tempo centinaia di persone sono entrate a trovarci, ascoltando, domandando, avendo la possibilità di scoprire un mondo fatto di cultura, tradizione, passione e coerenza. Molti si sono portati a casa libri, scritti da Autori appartenenti alla nostra Obbedienza, venduti nello spazio allestito a questo scopo e tutti hanno ricevuto in omaggio Spartiti Segreti: ci piace immaginarli assorti nella lettura, sospesi tra una nota e l’altra … stupiti nello scoprire che la Massoneria altro non è se non … il fondamento della vita di ogni uomo Libero e di Buoni Costumi. 71


Un’etica per i viventi, Ambiente e Biodiversità

Atti del Convegno del 26 Novembre 2011 a Genova, editore Nova Scripta – Genova

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crive in apertura Renato Ariano “la bioetica non può essere definita una vera scienza bensì una forma d’etica filosofica applicata a questioni concernenti la vita (il bios). Questo comporta che in campo etico “non esistono fatti ma solo interpretazioni”. E’ così che è stato dato il titolo dove il termine “viventi” [βίος], fa da universo d’oggetti e il termine ethikòs [ήθος] indica la “teoria del vivere in modo adeguato all’ambiente” che deve essere interpretata. Solitamente si dice che la bioetica si occupa delle questioni morali collegate alla ricerca biologica e alla medicina, ma questo è troppo ristretto e in definitiva usa il termine “vivente” semplicemente come “uomo”. In Gaia. Nuove idee sulla ecologia l’opera in cui James Lovelock porta avanti una teo72

ria che studia la Terra come un essere vivente regolato omeostaticamente, si dice: “… abbiamo definito Gaia come un’entità complessa che coinvolge la biosfera, l’atmosfera, gli oceani e il suolo della Terra; la totalità costituisce un sistema cibernetico o con retroazione che cerca un ambiente fisico e chimico ottimale per la vita su questo pianeta”. In questo volume si parla del nostro pianeta con l’insieme del suo intero sistema solare, ma dato che l’universo e le sue leggi non possono essere incompatibili con la nostra esistenza, poiché si è sviluppata un’elaborazione intelligente dell’informazione nell’universo sulla nostra terra, si avanza l’ipotesi che l’evento si sia ripetuto (prima e dopo) in alcuni dei pianeti dei numerosissimi mondi legati al loro sole. Ma non si sono volute prendere in esame le conseguenze del principio antropico (sia debole che forte) e neppure dell’ecologia culturale che chiede a gran voce la salvezza di popoli con le loro lingue e i loro saperi, nonché le accurate consuetudini di civiltà, ma si vuole in questo volume prendere in esame almeno il rapporto sussistente tra l’uomo e le altre specie animali e animate. In primo luogo La metodologia massonica in campo bioetico di Giuliano Boaretto introduce il concetto di tolleranza che non è solo una virtù morale, ma è uno strumento cognitivo il quale caratterizza la ricerca e la nozione di verità che è un percorso collettivo non da scoprire, ma da ricercare asintoticamente con una curva che tende all’infinito senza mai raggiungerlo. I problemi bioetici sono problemi di libertà di coscienza, non di leggi o di scienza o di filosofia, la quale è conoscenza globale, è consapevolezza del Sé, è un work in progress. Con gli interventi di Renato Ariano, Garibaldi animalista ante-litteram, Annalisa Santini, Timoteo

Riboli e la fondazione della Società protettrice degli animali, e Ivan Iurlo, I diritti degli animali. Riflessioni sul codice Zanardelli, si entra nella dimensione storica, attraverso la ricostruzione della nascita della prima Società protettrice degli animali italiana e della prima normativa penale a tutela degli animali. In particolare i contributi di Renato Ariano e Annalisa Santini portano alla luce un aspetto disdegnato dalla storiografia “ufficiale”: il convinto animalismo di Garibaldi, fonte di ispirazione al progetto portato in porto dall’amico Timoteo Riboli della fondazione della prima Società protettrice degli animali, esperienza che pone l’Italia all’avanguardia nella promozione della tutela degli animali e che ben riflette quell’etica massonica cui Garibaldi e Riboli partecipavano che li portava spontaneamente a riconoscere la naturale fratellanza fra tutti gli esseri viventi. La cornice storica si chiude idealmente con il contributo di natura giuridica di Ivan Iurlo, I diritti degli animali. Riflessioni sul Codice Zanardelli, una ricostruzione puntuale della prima normativa italiana, per altro avanzatissima rispetto a quelle del resto dell’Europa, a tutela dei diritti degli animali. Dopo aver brevemente ricostruito l’intensa e a volte burrascosa attività politica dello Zanardelli, Ivan Iurlo concentra la sua attenzione da un lato sul contesto sociale e religioso, indifferente se non ostile a parlare di diritti degli animali, in cui si inserisce l’innovativa azione riformatrice del Codice Zanardelli, dall’altro sul fatto che tale codice penale si apre alla tutela di soggetti cui di norma non erano riconosciuti diritti o altri interessi giuridicamente rilevanti in quanto considerati semplici “oggetti”. Un’apertura che, giustificando la normativa contro il maltrattamento degli animale come tutela dell’uomo di fronte a comportamenti


che possono offendere i suoi sentimenti di pietà e di compassione verso esseri viventi indifesi, riesce di fatto a introdurre il reato di crudeltà, ovvero la possibilità penale di chi agisca brutalmente su soggetti viventi “non umani” non tutelati normativamente. Con l’intervento di Luisella Battaglia Lo specchio oscuro. L’ambiguo confine dell’umano la riflessione si sposta dal piano storico a quello più propriamente etico-filosofico ponendo in luce il complesso e contraddittorio confronto che l’uomo ha sempre posto in essere allorché deve confrontarsi con l’animale, anzi con la categoria dell’animalità. Lungi dal riconoscere la contiguità fra umano e animale, l’uomo civilizzato ha esorcizzato la paura di perdere una propria specificità caricando l’animale di valenze negative. In tal modo animalità diventa sinonimo di bestialità e di ferinità e dunque viene assunta per stigmatizzare il degrado morale, spirituale e sociale dell’uomo che non riesce a conformarsi al suo modello specifico, che si pone fuori della “norma”. Né a riscattare questa negativizzazione dell’animalità valgono le strategie di antropomorfizzazione e reificazione dietro le quali, come osserva acutamente Luisella Battaglia, si nasconde la

paura di confrontarsi con la “diversità”, di accettare l’altro da sé nella sua specificità “non umana”. In alternativa a queste due strade che ci portano a risolvere drammaticamente il problema rappresentato dal “diverso” o con l’eliminazione fisica o con l’omologazione, Luisella Battaglia propone una terza via, quella di “incontrare l’altro … riconoscerlo nella sua specificità”, nella consapevolezza che l’ “altro” non è mai solo fuori di noi, ma vive anche dentro di noi, fa parte di noi. Ed è una via che partendo proprio da un nuovo modo di porsi in dialogo con l’animalità aiuta l’uomo a fare i conti con tutte le forme di alterità, a rompere le frontiere della diversità, ad accettare di essere specchio dell’altro da sé. Le riflessioni di Luisella Battaglia costituiscono una sorta di prologo ideale ai tre interventi che affrontano da diversi punti di vista questioni di capitale importanza non solo nella relazione uomo animale, ma soprattutto in quella fra uomo e viventi. Così il tema dell’alimentazione degli animali allevati affrontato da Natasha Cola in La dimensione etica del cibo. Riflessioni sul dilemma dell’onnivoro allarga le problematiche dalle allucinanti condizioni di vita degli animali allevati costretti alla concentrazione e a regimi alimentari forzati e non natu-

rali alle ripercussioni che tali condizioni hanno non solo sulla nostra salute ma soprattutto nel nostro modo di approcciarsi eticamente ai diritti primari dei viventi, ovvero almeno i diritti al rispetto delle singole specificità e a condurre una vita degna di tale nome.

Recensioni Del pari l’intervento serrato e a tratti sarcastico di Pierluigi Castelli I limiti della vivisezione non solo denuncia in maniera particolareggiata i contenuti contraddittori e se si vuole ipocriti della normativa comunitaria in materia di sperimentazione sugli animali, ma evidenzia come dietro tale fragile normativa si continuino a tutelare interessi di profitto che non hanno nulla a che vedere con la rilevanza scientifica della sperimentazione. Sugli animali, osserva l’autore, si continua a fare quanto i nazisti avevano fatto su cavie umane, si perpetua cioè l’aberrante convinzione che tutto è lecito se giustificato dalle presunte ragioni della scienza, anche se ciò comporta inutili e dolorosissime sofferenze ai viventi che vengono sacrificati. E proprio la logica del profitto trova non solo la sua analisi, ma soprattutto l’indicazione di una solu-

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zione etica nell’articolato contributo di Franco Manti Etica della biocultura e responsabilità sociale d’impresa. Gli animali come stakeholder atipici. Secondo l’autore le imprese a impatto ecologico dovrebbero adottare indicatori etici di performance e utilizzarli

Recensioni come strumenti di comunicazione etico-sociale d’impresa al fine di realizzare un’autentica etica della corresponsabilità di specie. Infatti solo l’attuazione di questa etica consente di salvaguardare i diritti di viventi al proprio specifico “ben-essere” dando vita a un sistema produttivo rispettoso del bios in cui il profitto non deriva dallo sfruttamento indiscriminato delle risorse, ma dal loro utilizzo etico, un sistema in cui l’uomo si assume la responsabilità morale e pratica di salvaguardare l’ecosistema di cui fa parte insieme a tutti gli altri viventi. Si interroga Massimo Angelini in Sull’impronta emotiva delle cose come la materia possa conservare un’impronta (ad es. l’acqua Benveniste e Montagnier), un’impronta emotiva, del modo e delle condizioni con le quali è stata prodotta, lavorata e usata. Se inoltre ci si riferisce alle persone, non si fa fatica a comprendere cosa possa essere un’impronta emotiva. È quella che lasciano nella mente e sul corpo le emozioni più vive, più forti; è quella che passa attraverso il trauma, il sogno, la fantasia quando incidono nel profondo del nostro essere. Questo succede in molti luoghi, come se attraverso la sensibilità passasse una traccia fossile per qualcosa di terribile che è accaduto e che nel profondo si sa, in qualche modo, anche quando non restano più testimonianze. Pensiamo ad Auschwitz-Birkenau o al Ghetto di Varsavia, a Sant’Anna di Stazzema … dietro Genova, alla Benedicta o a Pian Manfrei dove non si sente il canto degli uccelli, ma solo il vento e un silenzio cupo, ambiguo. Scrive Paolo Aldo Rossi in L’ipotesi Gaia: auto-organizzazione e auto poiesi, riprendendo l’idea che fu presentata nel 1969 a Princeton da James Lovelock, un chimico dell’atmosfera: “La biosfera è un’entità auto regolativa ed è un singolare orga74

nismo vivente, che assorbe materia ed energia e libera prodotti di scarto per riciclare; un sistema che ridefinisce e risolve ininterrottamente con se stesso e al proprio interno si sostiene e si riproduce. Il suo spessore massimo è di circa 20 km e se pensiamo che il raggio terrestre è 6371 km (Superficie della Terra = 5,100 × 1014 m²) e lo spessore della biosfera 20.000 m. (una vernice di minuscola consistenza) lo vedremmo come un’epidermide che permette a questa struttura animata di essere l’alveo dell’esistenza di Gaia, ossia una presenza che mantiene vitale il pianeta Terra mediante il controllo e l’auto-regolazione dell’ambiente chimico e fisico, sia quello che ha al suo interno che la modificazione di quello che gli arriva dall’esterno. Oggi assediati dall’inquinamento e dalle crescenti anomalie del clima siamo al punto di non ritorno. E’ troppo tardi per uno sviluppo sostenibile; ciò di cui abbiamo bisogno è una ritirata sostenibile … Ma l’autore indica il fatto che Ross Abhy ci aveva avvertiti che l’omeostato avrebbe continuato a funzionare … a meno che lo prendessimo a martellate e che staccassimo la corrente … Ma in questo caso nessuno può più dire nulla eccetto che contemplarlo, il Niente”. E infine, accanto all’ipotesi Gaia e alle problematiche geoetiche prospettate da Paolo Aldo Rossi si colloca il contributo di Giuseppe Conte L’isola di plastica, con cui l’autore denuncia l’azione devastatrice della società contemporanea nei confronti di una natura che ormai è vissuta ente da dominare e assoggettare alla luce degli interessi economici e di un distorto concetto di benessere. In particolare tale azione viene individuata e stigmatizzata nello sconvolgente fenomeno, per altro poco noto e a cui i mass-media non danno voce, delle “isole di plastiche”, masse gigantesche di rifiuti di plastica di ogni tipo che si sono venute formando nel Nord del Pacifico e nei Caraibi per un gioco di vortici e di correnti marine. Un fenomeno che deve far riflettere l’uomo e spingerlo a recuperare quel rapporto sacrale con la natura che ormai ha quasi del tutto perso. Ida Li Vigni

“Kosmos 315” Rivista di studi esoterici, storici e filosofici

Periodico semestrale registrato presso il Tribunale di Catania, Direttore responsabile Francesco Zaccà

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o studio e la conoscenza della Tradizione sono alla base del progetto culturale che ha ispirato la nascita di Kosmos 315, rivista della casa editrice Tipheret, che ha compiuto da poco il suo primo anno di vita. L’esperienza di Kosmos nasce dalla considerazione che, pur essendoci state in Italia molteplici iniziative editoriali volte all’approfondimento della tematica iniziatica, queste siano spesso rimaste confinate al contributo culturale di questa o di quella espressione tradizionale, rinunciando di fatto allo sviluppo di uno sguardo più ampio sull’immenso universo spirituale dato dalla conoscenza iniziatica. In pratica, ci si è quasi sempre limitati a vivere la propria dimensione, senza azzardarsi a oltrepassare i confini conosciuti, per non rischiare di trovarsi in mare aperto. Questa rivista, al contrario, ha proprio il fine di salpare verso il mare aperto della Tradizione, nel quale è possibile incontrare compagni di viaggio inattesi, anch’essi in cammino lungo una rotta di cui probabilmente si conosce il punto di partenza, del quale sono note le coordinate del momento, ma il cui


approdo è ignoto. È per questa ragione che la nuova rivista edita da Tipheret è aperta al contributo di quanti abbiano da condividere il frutto della propria ricerca, le proprie domande, le proprie impressioni relative a questo straordinario viaggio interiore che è il cammino iniziatico, al di là dell’adesione a questa o quella scuola. Kosmos 315 riconosce alcuni padri nobili che, in passato, hanno veleggiato lungo una rotta non dissimile: riviste che storicamente hanno rappresentato e rappresentano per noi veri e propri punti di riferimento in questo percorso di ricerca a 360 gradi. Come non ricordare, ad esempio, Atanòr e Ignis? Riviste nate negli anni Venti, grazie all’impegno di chi ha consacrato la propria vita al lavoro interiore. O ancora, per riferirci a un esempio più recente, Vie della Tradizione che, a partire dai primi anni Settanta, costituì un punto di riferimento per quanti in Italia condividevano il gusto della ricerca interiore, al di là delle forme nelle quali essa si manifestasse. A questo proposito, facciamo nostre le parole espresse nel 1925 da Arturo Reghini per spiegare la nascita di Ignis: “La rivista - scriveva - non ha per scopo di fare propaganda ad alcuna teoria o scuola scientifica o filosofica [...] I collaboratori hanno in comune soltanto un profondo interesse per l’esoterismo ed ognuno di essi è responsabile di quanto scrive e soltanto di quanto egli stesso scrive. La rivista è responsabile dell’indirizzo generale. Come abbiamo fatto in Atanòr, intendiamo attenerci esclusivamente a criteri scientifici e culturali, sfrondando il terreno da tutte le erbacce sentimentali. [...] Soltanto l’esperienza, estesa ad ogni campo, e la comprensione razionale o iper-razionale ci danno affidamento sicuro per raggiungere delle conoscenze. Quanto alla Conoscenza Integrale essa è evidentemente irraggiungibile per mezzo dell’indagine analitica e della ragione discorsiva. Per conquistarla occorre superare ogni limitazione ed è perciò necessario liberare la coscienza dalla soggezione alle ordinarie limitazioni del corpo, del tempo e dello spazio. [...] Con le nostre forze e con le nostre conoscenze

intendiamo partecipare a questa opera. Nelle tenebre grandi, nella gelida indifferenza, anche la nostra modesta fiamma desterà qualche torpore, illuminerà qualche ombra. Ne siamo certi e ne saremo paghi”. E accendere una fiammella è anche lo scopo di Kosmos, che potrà perseguirlo solamente grazie al contributo culturale di quanti vorranno condividere questo percorso di ricerca. Un cammino che - è bene sottolinearlo - non è volto ad accrescere la nostra erudizione o un mero sapere intellettuale. La rivista, infatti, non persegue l’obiettivo di formare eleganti intellettuali dell’esoterismo, ma intende offrire spunti che possano essere utili alla ricerca personale di ciascuno: una ricerca che è nell’intelletto, così come nel sentimento e nel corpo.

Una ricerca che investe, perciò, tutte le dimensioni dell’essere umano, affinché attraverso di esse si possa sentire il gusto dell’unità. Il corpo, le emozioni e la mente dell’uomo sono, infatti, la prima officina in cui tentare un lavoro su di sé, per permettere che, partendo

Recensioni dal “materiale a nostra disposizione”, l’essere umano possa elevarsi verso le forme più reali dell’essere. L’obiettivo della rivista non è di indicare le coordinate di questo percorso, ma di permettere a ciascuno di scoprire la propria via, mediante la condivisione di esperienze e punti di vista. Il progetto è il medesimo perseguito dalla casa editrice Tipheret, cioè veicolare un messaggio sulla Tradizione,

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Nel terzo numero di Kosmos, il primo del 2012, oltre all’editoriale e a una rubrica di recensioni librarie, sono raccolti i seguenti articoli: Esoterismo come ragione eretica di Francesco Parasole; La grande impostura e il vero cammino iniziatico di Luigi Braco; A sua immagine di Umberto De Palma; Il divino materno, per costruire l’esistere di Alessandro Bertirotti; L’accampamento dei Principi del Real Segreto nei manoscritti del Fonds Baylot di Giovanni Marischi; L’iniziazione massonica degli Indiani d’America di Arlindo J. N. Castano; Emily Dickinson, girasole senza sole di Pierluigi Lenzi; L’elisir del Diavolo di Anita Tania Giuga; La pittura visionaria di Casimiro Piccolo di Ferdinando Testa. Alberto Samonà

Recensioni

la via iniziatica e il Sacro, senza limiti dettati dai diversi percorsi di ricerca. A questo proposito, nel proprio catalogo editoriale, Tipheret sviluppa differenti collane su ritualistica, simbologia, su storie di vita ed esperienze, sul Mito e la Tradizione, sulle descrizioni di luoghi sacri o esoterici, sulla conoscenza di se stessi e la spiritualità del medio e dell’estremo oriente, sul sufismo, sulla Libera Muratoria, sugli studi legati al Martinismo, sulla Tradizione GrecoRomana, sull’Oriente Cristiano, oltre a una collana sui profili di grandi maestri della storia e a una sui grandi iniziati. Le tematiche trattate nei primi tre numeri di Kosmos 315 sono varie e tutte soggette a ulteriori approfondimenti. Nel primo numero si è voluto sottolineare il contributo essenziale offerto alla conoscenza della Tradizione da un grande studioso qual è stato Bent Parodi, scrittore e giornalista scomparso nel 2009. Sono, inoltre, stati ospitati lavori di Francesco Saccà, Roberta Di Bella, Roberto Pizzi, Claudio Bonvecchio e Ferdinando Testa. Bonvecchio, in particolare ha sviluppato la tematica legata ai Riti ed ai simbo76

li del potere tra rivoluzione e impero, mentre Testa ha offerto una lettura relativa all’Immaginazione e al Mito nella nascita della coscienza. Il secondo numero ha proposto uno sguardo iniziale sull’esoterismo e ospitato approfondimenti su Dante e il numero, spunti di archeologia filosofale, con uno studio sulla Villa del Casale di Piazza Armerina. E ancora, un articolo sui Figli della Vedova, un ricordo di Giuseppe Zanardelli: massone, patriota, giurista e statista; un’analisi delle influenze della Gran Loggia degli “Antichi” e dello Ahiman Rezon sugli sviluppi della Massoneria moderna; uno spunto sulla democrazia e la formazione del pensiero critico. Ma anche studi sul Mito di Afrodite e gli enigmi di Eros, sul Teorema di Pitagora e, non ultimo, sulla figura di Elémire Zolla. Tra gli articoli del secondo numero, contributi di Silvia Emmi, Ferdinando Testa, Giuseppe Barresi (ni. bar), Marcello Vicchio, Gandolfo Dominaci, Giuseppe Rampulla, Vincenzo Carteny, Francesco Parasole, Alfredo Di Prinzio, Morris Grezzi, Stefano Campora, Silvia Annamaria Scandurra e Salvo Pulvirenti.

Cagliostro, il Mago Massone

Philippa Faulks e Robert L. D. Cooper, Edizioni Mediterranee

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uesto è l’ultimo libro dedicato al Grande Iniziato del XVIII secolo. Libro fondamentale e che restituisce finalmente il giusto posto alla figura del conte Alessandro Cagliostro, che, come già scrisse il regista Pier Carpi, non fu il ciarlatano Giuseppe Balsamo. Come scrivono gli autori Faulks e Cooper, la vita e la morte di Cagliostro sono avvolte da un’aura di mistero, ma, nonostante ciò, i nostri sono riusciti comunque a


raccogliere documenti fondamentali per conoscene i suoi insegnamenti esoterici ed i motivi per i quali la sua fama lo ha accompagnato sino ai nostri giorni. Cagliostro il Mago Massone inizia con la descrizione della vita del conte e dei suoi continui viaggi. Nato nel 1748, probabilmente in Portogallo, il Nostro fu allevato nella città di Medina nella casa del mufti Salahaym dal tutore Althotas. Sarà proprio Althotas a condurlo in innumerevoli viaggi: da La Mecca, nel 1760, passando per l’Egitto, l’Asia e l’Africa, sino a Malta, ove Althotas morirà. A Malta, Cagliostro sarà iniziato all’Ordine dei Cavalieri di Malta dal cavaliere Luigi D’Aquino e con lui intraprenderà altri viaggi, da Napoli sino a Roma. Qui il Nostro incontrerà e si innamorerà di Serafina Feliciani, figlia di un noto commerciante romano, che diverrà presto sua moglie. Giunto a Londra, Cagliostro, sarà iniziato alla Massoneria nella Loggia Esperience di Rito di Stretta Osservanza Templare. Correva l’anno 1776. Cagliostro, invero, proprio grazie agli insegnamenti di Althotas e a quelli appresi nel corso dei suoi viaggi - specie in Estremo Oriente - conosceva già i segreti della Teurgia e della Gnosi e si dice fosse in grado di trasmutare i metalli in oro e di curare gli ammalati. La sua fama, dunque, crebbe ben presto in Inghilterra, ma ciò fu in realtà l’inizio delle sue sventure. Qui, a causa dell’invidia nel suoi confronti, si fece molti nemici che gli causarono false accuse di frode e lo condussero, assieme alla moglie, nelle prigioni di Sua Maestà Britannica. Nel 1777, i Cagliostro, partirono dunque alla volta di Bruxelles anche grazie all’aiuto dei suoi Fratelli massoni. Successivamente si recarono in Olanda e anche qui Cagliostro non smise di stupire il pubblico con i suoi prodigi e guarigioni. Purtuttavia le sue idee innovative sulla Massoneria - come ad esempio l’iniziazione femminile - gli procurarono altre inimicizie. Cagliostro mise dunque appunto l’idea di creare una Massoneria di Rito Egizio, con, per le Logge femminili, Gran Maestra sua moglie Serafina. L’idea di Cagliostro, ad ogni modo, era ben più profonda e attingeva agli Antichi Misteri e alla teurgia. Il suo scopo ultimo si sostanziava nella riunificazione delle Logge in un’unica Massoneria, che attin-

gesse ai Sacri Misteri dell’Antico Egitto. I Cagliostro, nel frattempo, giungeranno in Polonia, Prussia e Russia. Saranno accolti con tutti gli onori sia dai massoni che da tutte le Corti europee. Purtroppo, però, a causa del potere dei suoi numerosi nemici, finirà ben presto in disgrazia. L’ingenuità di Cagliostro, infatti, era pari alla sua erudizione nel campo delle scienze occulte. Nel 1785, sarà infatti coinvolto ingiustamente nel cosiddetto “Scandalo della collana di Diamanti” ai danni della Regina di Francia Maria Antonietta. Scandalo orchestrato ad arte dalla contessa de La Motte che, ad ogni modo, come predetto dallo stesso Cagliostro, sarà scoperta e condannata ad essere esposta nuda e frustata di fronte alla Conciergerie. Cagliostro, ad ogni modo, ritenuto complice della de La Motte, anche grazie al già allora nascente giornalismo diffamatorio (si veda il “Courier de l’Europe” dell’epoca, di cui, grazie alle gratuite diffamazioni, diverrà direttore un certo Thevenau de Morande, già precedentemente “amico” di Cagliostro), sarà esiliato dalla Francia e riparerà a Roma. La Roma papalina di allora, oltre ad essere profondamente arretrata culturalmente ed economicamente, aveva messo al bando i massoni e la Massoneria. L’ingenuità di Cagliostro gli giocò, dunque, nuovamente, un brutto scherzo. L’Inquisizione cattolica, infatti, lo arresterà, imprigionerà e torturerà con una sola accusa: quella di essere massone. Il conte Alessandro Cagliostro, infatti, fu condannato unicamente in quanto appartenente alla nobile confraternita della Massoneria. Il suo fu, dunque, il primo atto di massonofobia assieme a quello che colpì il poeta Tommaso Crudeli, altro celebre martire massone. Questa, in sintesi, la prima parte del libro di Philippa Faulks e Robert Cooper. La seconda parte inizierà con un’interessantissima documentazione relativa alle origini e alla storia della Massoneria. La Massoneria, nata ufficialmente nel 1717 in Inghiliterra, in realtà, ha origini più antiche. Gli autori del volume la fanno risalire almeno al XVI secolo, in Scozia, allorquando William Schaw, Maestro d’Opera alla corte di Re Giacomo VI, decise di istruire i muratori di corte. I muratori, dediti alla costruzione di cat-

Recensioni

tedrali, erano ad ogni modo completamente analfabeti e digiuni di filosofia e speculazioni di qualsiasi tipo. Schaw decise di istruirli a un particolare rituale di sua invenzione, gettando così le basi della cosiddetta Massoneria Operativa. Un rituale esclusivo, non scritto ma solamente orale, che conteneva anche insegnamenti filosofici, alchemici, gnostici, esoterici. Le prime regole furono dettate nella Loggia dei muratori di Edimburgo nel 1598 e diffuse a tutte le Logge di Scozia. Il rituale doveva essere imparato esclusivamente a memoria e per mezzo della cosiddetta “Arte della Memoria”, diffusissima durante il Rinascimento. Ovvero quella particolare pratica avente origine nell’Antica Grecia, che permetteva agli eruditi di imparare interi volumi a memoria immaginandosi un grande edificio fatto di molte stanze e corridoi. Ad ogni stanza, da immaginarsi il più particolareggiata possibile, corrispondeva un periodo del volume da ripetere a memoria. Tecnica che, verosimilmente, Schaw insegnò ai suoi muratori ignoranti e analfabeti. Sarà poi nel XVIII secolo che si passerà dalla Massoneria Operativa a quella Speculativa, con l’iniziazione in Massoneria di non muratori, bensì di appartenenti all’aristocrazia, al clero e alla borghesia. E così, via via, dalla Gran Bretagna, essa si diffonderà in Francia ed in tutta Europa, incontrando subito l’avversione della Chiesa cattolica, la quale non poteva sopportare che potesse esistere un’associazione a lei concorrente in cam77


po spirituale, in particolare un’associazione senza dogmi e unicamente fondata sulla filosofia e le speculazioni umane. I primi massonofobi, dunque, saranno i cattolici. Nel corso della Storia essi saranno affiancati da comunisti, nazisti e fascisti: il totalitarismo non poteva

Recensioni sopportare la libertà di pensiero. La terza parte di Cagliostro il Mago Massone è ampiamente dedicata alla Massoneria elaborata da Cagliostro, ovvero quella di Rito Egizio, dotata di profondissimi insegnamenti spirituali. Per la prima volta, peraltro, viene riportato interamente il rituale originale scritto da Cagliostro: composto da Statuti e Regolamenti, Preparazione della Loggia e Catechismi e conservato attualmente in originale presso il Museo della Gran Loggia di Scozia. Infine, gli autori dedicano un intero capitolo di commento al rituale stesso, ricco di simbolismo e significato. Chi ama e ha amato Cagliostro non può dunque non leggere e appassionarsi a Cagliostro il Mago Massone. Un libro di cui sentivamo tutti l’esigenza per riportare alla luce uno fra i più grandi massoni e mistici che la Storia abbia mai conosciuto. Luca Bagatin

“Fratelli d’Italia”.

Ferruccio Pinotti, BUR Biblioteca Universale Rizzoli

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ratelli d’Italia di Ferruccio Pinotti, un pessimo libro dal sapore antimas-

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sonico pieno zeppo di errori e imprecisioni, come già fece egregiamente notare la giornalista e direttrice Anna Giacomini - purtroppo recentemente scomparsa - che nel numero 1 del dicembre 2007 della prestigiosa rivista “Officinae”, gli dedicò un ironicissimo e puntuale articolo evidenziandone tutte le incogruenze. Ferruccio Pinotti oggi ritorna a giocare la carta massonofoba, con un articolo apparso il 17 marzo scorso sul “Corriere della Sera” di Brescia. Nell’articolo, dal titolo “La carica dei massoni: è corsa alle logge”, Ferruccio Pinotti accusa nuovamente la Massoneria di essere un “network di potere riservato”. Di quale potere egli parli non è dato di sapere, in quanto la Massoneria è un’organizzazione morale, spirituale, culturale e filosofica, ove di potere non si parla punto (visto che è vietato parlare di politica, oltre che di religione). Quanto alla riservatezza ... mah, forse il Pinotti non ha dato un’occhiata all’elenco telefonico di Roma, oppure a Paginebianche.it ove, ad esempio, è presente la Gran Loggia d’Italia degli ALAM, la cui sede si trova a Roma nella centralissima Via S. Nicola De’ Cesarini 3 e le cui entrate sono regolarmente registrate e provenienti unicamente dagli affiliati. Altra imprecisione dell’articolo di Pinotti è che non è vero che “gli elenchi dei massoni non sono pubblici”, al massimo - quelli sì - sono riservati, così come avviene per ogni tipo di associazione: sia essa culturale, sportiva, politica ecc... I soci, infatti, hanno il sacrosanto diritto alla privacy e, dunque, alla riservatezza. È ovvio che, come per ogni tipo di associazione, anche gli elenchi delle Obbedienze massoniche italiane sono certamente reperibili dalle pubbliche autorità. Ferruccio Pinotti conclude poi l’articolo affermando: “Quindi al cittadino non è consentito sapere se un primario appena nominato è anche massone, o se lo è un magistrato che deve giudicare una causa nel quale uno dei due contendenti fa parte di una loggia. Il tema della «doppia lealtà» degli appartenenti a lobby e associazioni riservate non è mai stato risolto da leggi appropriate. E danneggia gravemente la democrazia”. Forse l’articolista non sa che in Italia la libertà di associazione è garantita persi-

no dalla Costituzione della Repubblica. E la libertà di associazione prevede anche la possibilità di mantenere riservata l’appartenenza a qualsivoglia associazione, così come riservato può essere anche l’orientamento religioso, politico e sessuale di ogni cittadino. Se un medico è massone, omosessuale, cattolico, musulmano ecc... non si vede che cosa ciò possa interessare al cittadino o al paziente. Oppure viviamo forse in una società ove è legittimo discriminare in base al colore, all’orientamento sessuale oppure all’appartenenza? Questa è la democrazia. Nelle dittature, diversamente, ciò non avveniva nè avviene e - non a caso - associazioni come la Massoneria erano perseguitate dai regimi (e lo sono tutt’ora nelle numerose dittature presenti nel mondo) al punto che, numerosi massoni, finirono nei campi di concentramento nazisti in Germania, oppure finirono, in Italia, al confino. Questo, però, l’articolista Pinotti omette di dirlo. Così come Pinotti omette anche di dire che, con sentenza del 17 febbraio 2004, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sancì il pieno diritto dei magistrati di appartenere a qualsiasi associazione legittima e quindi anche alla Massoneria e condannò l’Italia per violazione della libertà di associazione. Inoltre, la Corte di Strasburgo, già nel 2001, condannò la Regione Marche in quando aveva inserito una norma che prevedeva, per i suoi dipendenti e consiglieri, la “dichiarazione di non appartenenza a logge massoniche”: norma ovviamente fortemente discriminatoria e lesiva della libertà di associazione. Tutto ciò è documentato nel saggio da noi già recensito Il lenzuolo del fantasma (Edizioni Giuseppe Laterza, Bari), redatto dall’Avvocato Bruno Auricchio. Testo certamente non diffuso come il Fratelli d’Italia del Pinotti, ma certamente più attendibile e documentato. Questa è la democrazia: ovvero libertà di associarsi, partecipare senza essere discriminati, lavorare senza essere discriminati, lottare, anzi, contro le discriminazioni. Ciò, forse, l’articolista del “Corriere della Sera” di Brescia, l’ha probabilmente dimenticato. Luca Bagatin


R.L. Fratelli Cairoli Oriente di Pavia R.L. G.Carducci Oriente di Partanna

faccia del Fregio, altrettanto significativa nei simboli, si sofferma sull’esame dei numeri e del significato del compasso e il suo giusto modo di essere utilizzato. La sovrapposizione dei triangoli inscritti nel cerchio tracciato dal compasso, fa intravedere il Sigillo di Salomone.

R.L. G.Garibaldi Oriente di Mazara Del Vallo

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ra quei Massoni che nella libertà del pensiero si sono battuti perché si affermasse l’idea d’Italia una ed unita – che poi divenne una realtà – è certamente da annoverare Giosue Carducci, nato il 27 luglio 1835 e morto a Bologna il 16 febbraio 1907. Il suo avvicinarsi alla Massoneria ed il suo stile, che da tutti fu definito “eroico”, quella via fatta di principi e propositi – certamente scomoda – e che ogni uomo libero dovrebbe seguire, ci dà subito l’idea dello spessore della figura del Carducci. È superfluo rammentare in questa sede l’importanza e la valenza del Massone e dell’uomo di pensiero, più volte rammentate sulle pagine di questa rivista. Egli guardava all’avvenire, auspicando giustizia e libertà. Fondamentale fu poi il suo ruolo nell’avviare alla Massoneria un altro grande della letteratura italiana: Giovanni Pascoli. Carducci aderì al Rito Scozzese e raggiunse il grado di Principe Rosa Croce; gli studenti ed alcuni fratelli bolognesi vegliarono la salma rivestita delle insegne massoniche. Ai funerali solenni la Massoneria italiana intervenne compatta. Siano le gesta di Carducci e di quanti magistralmente ci hanno preceduto un monito ed al contempo una guida affinché questa nuova Loggia sia sorgente di Vera Luce e guida per quanti ne fanno e ne faranno parte, Loggia che nel più profondo dei nostri cuori consacriamo alla gloria del Grande Architetto dell’Universo. Nel fregio, di forma circolare su sfondo bianco, è inserita al centro radiante immagine di G. Carducci. Il nome della Loggia e il suo Oriente di appartenenza sono inseriti nella corona circolare più esterna nella parte superiore, mentre nella parte inferiore sono inseriti squadra e compasso, simboli fondamentali della Massoneria.

l Fregio di Loggia “Fratelli Cairoli” all’Oriente di Pavia si propone come una medaglia tonda che ha, su uno dei lati, la rappresentazione di un triangolo equilatero che contiene una piramide che é composta da quattro, tre, due e un gradino in senso ascensionale, il tutto racchiuso in una fascia di due cerchi concentrici. Partiamo dal cerchio, che corrisponde allegoricamente all’Ouroborus, il serpente che si morde la coda, il cui motto è “Uno tutto”: il caos primordiale da cui tutto deriva e tutto ritorna. Per gli alchimisti la sostanza universale che accomuna a sé, madre di tutte le cose create, ma anche più semplicemete simbolo del cielo. Il diametro del Fregio è di 5 centimetri ed il 5 è il numero del magico Pentagramma che corrisponde all’Uomo quintessenza di tutte le cose. Il triangolo equilatero è rivolto verso l’alto e simbolizza il fuoco spirituale che anima i fratelli e li indirizza nella vita profana: fiamma di vera vita che, come il cammino del Massone, necessariamente tende verso l’alto. Tralasciando altre interessantissime considerazioni che verrebbero dal numero 3 (tre lati eguali) che genera il numero 9 che ricollega all’eremita dei Tarocchi, l’Iniziato già avanti nella sua via di ricerca ma non ancora totalmente illuminato, ci soffermiamo nell’analisi della piramide che rappresenta la parte centrale di questa faccia del Fregio che abbiamo in esame. Come nello svolgersi del cammino di allontanamento dalla terra in elevazione spirituale le pietre divengono sempre più levigate per arrivare a quella più elevata, la Pietra Filosofale, unica, perfettamente levigata e squadrata, così sono quattro (primo gradino della raffigurazione del Fregio) le prove che il profano deve superare per essere iniziato, e quattro sono le file di pietre che deve superare per giungere al Sancta Sanctorum, passaggio decisivo per poter raggiungere poi quel cubo solitario sormontato da una piramide. L’altra

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el simbolo della Loggia, di forma circolare su sfondo azzurro, sono inseriti un delta luminoso, una squadra e compasso ed al centro il tempio “C” di Selinunte. Il nome della Loggia e il suo Oriente di appartenenza sono inseriti nella corona circolare più esterna. Il fregio invece è dominato dalla figura di Giuseppe Garibaldi, Eroe dell’Umanità, che incarna i valori della lotta per l’Emancipazione Umana e per la Giustizia Sociale. Il contorno del sigillo è scandito da sette nodi Savoia, che rappresentano i nodi d’amore che incorniciano il Tempio massonico, con ai lati due rami d’acacia e in basso squadra e compasso, a volere sottolineare la sua appartenenza Libero Muratoria quale vero motore interiore, generatore di quell’energia volitiva a difesa dell’Umanità tutta che lo incoronò come “Eroe dei due mondi”. Non stiamo a ricordare la grandezza della persona anche in ambito massonico: a Montevideo, nel 1844, venne iniziato massone in una loggia indipendente “L’Asilo de la virtud”; in seguito venne affiliato nella loggia “Les Amis de la Patrie”, all’obbedienza del G.O.F., “regolarizzando” così la sua iniziazione. Nel 1850 frequenterà a New York i lavori dei Fratelli americani e a Londra, nel 1854, i lavori di quelli inglesi. A Palermo verrà consacrato al grado di Maestro massone e sempre nel capoluogo siciliano, nel 1862, al 33° grado del Rito Scozzese, assumendo la guida del Supremo Consiglio scozzesista palermitano. Due anni più tardi, verrà eletto Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia.

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R.L. Gianni Cazzani Oriente di Pavia

R∴L∴ 14 Juillet Or∴di Savona R∴L∴ 4 Giugno 1270 R.G. Or∴di Viterbo R∴L∴ Ab Initio Or∴di Portoferraio R∴L∴ Ad Justitiam Or∴di Lucca R∴L∴ Aetruria Nova Or∴di Versilia R∴L∴ Alef Or∴di Viareggio R∴L∴ Alma Mater Or∴di Arezzo R∴L∴ Anita Garibaldi Or∴di Firenze R∴L∴ A.Garibaldi/A.Giulie Or∴di Livorno R∴L∴ Antares Or∴di Firenze R∴L∴ Antropos Or∴di Forlì R∴L∴ Archita Or∴di Taranto R∴L∴ Aristotele II Or∴di Bologna R∴L∴ Astrolabio Or∴di Grosseto R∴L∴ Athanor Or∴di Brescia R∴L∴ Athanor Or∴di Cosenza R∴L∴ Athanor Or∴di Pinerolo R∴L∴ Athanor Or∴di Rovigo R∴L∴ Athena Or∴di Pinerolo R∴L∴ Atlantide Or∴di Pinerolo R∴L∴ Audere Semper Or∴di Firenze R∴L∴ Augusta Or∴di Torino R∴L∴ Aurora Or∴di Genova R∴L∴ Ausonia Or∴di Siena R∴L∴ Ausonia Or∴di Torino R∴L∴ C. B.Conte di Cavour Or∴di Arezzo R∴L∴ C. Rosen Kreutz Or∴di Siena R∴L∴ Carlo Fajani Or∴di Ancona R∴L∴ Cartesio Or∴di Firenze R∴L∴ Cattaneo Or∴di Firenze R∴L∴ Cavour Or∴di Prato R∴L∴ Cavour Or∴di Vercelli R∴L∴ Chevaliers d’Orient Or∴di Beirut R∴L∴ Cidnea Or∴di Brescia R∴L∴ Clara Vallis Or∴di Como R∴L∴ Concordia Or∴di Asti R∴L∴ Corona Ferrea Or∴di Monza R∴L∴ Cosmo Or∴di Argentario Albinia R∴L∴ Costantino Nigra Or∴di Torino R∴L∴ D.Di Marco Or∴di Piedim.Matese R∴L∴ Dei Trecento Or∴di Treviso R∴L∴ Delta Or∴di Bologna R∴L∴ Eleuteria Or∴di Catania R∴L∴ Eleuteria Or∴di Pietra Ligure R∴L∴ Emanuele De Deo Or∴di Bari

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asce nel 2004 e porta il nome di un giovane fratello pavese passato prematuramente all’oriente Eterno. Sul recto sono raffigurati squadra e compasso racchiudenti la G il tutto coronato da due rami d’acacia mentre il verso è adornato dalla ‘scritta impronunciabile’ racchiusa in un delta emanante raggi di luce. Il tutto ci rammenta la leggenda di Hiram che pur nella sua tristezza, proietta l’immaginazione nella certezza della rinascita del Maestro. Il racconto simbolico dei tre operai che uccidono Hiram colpendolo tre volte alla porta occidentale, meridionale ed orienta-

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le del Tempio in costruzione, cela infatti la verità che l’Arte e la Sapienza sono eterne e non possono essere perdute; dobbiamo seguire nei nostri lavori - le stesse sollecitazioni che diede Salomone ai suoi: “Facciamoci coraggio, non tutto è perduto, e cerchiamo i resti mortali del Maestro, la sua sapienza non può essere scomparsa con Lui… Essa è eterna! Fu così che il saggio Re mandò a chiamare nove Maestri, inviandoli alla ricerca del corpo a gruppi di tre: - Viaggiate Maestri! Viaggiate da Oriente a Occidente, da Settentrione a mezzodì, finché non abbiate trovato Hiram”.

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