Officinae Marzo 2009

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Trimestrale internazionale di attualitĂ , storia e cultura esoterica Anno XXI - Marzo 2009 - numero 1


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2 Come una vibrante corda di liuto...

Anna Giacomini

4 Non c’è niente di nuovo sotto il sole, o forse... Luigi Pruneti

12 Massoneria e Diritto Sergio Ciannella

20 Gli studi di storia della massoneria in Francia

42 Due casse di munizioni... Maurizio Cohen

48 Sulla soglia del tempio cosmico Roberto Pinotti

52 Se la coscienza usa il tempo Sandra Zagatti

56 Il Rito Maria Concetta Nicolai

Aldo A. Mola

26 L’angelo caduto e la morte Paolo Maggi

30 Alata, infuocata o stellata, la ruota Michela Torcellan

34 Traforati e contrassegnati...

58 Un Fratello carcerato Silvia Braschi

62 Incontri Il picchio, il pavone, l’oca e l’aquila

64 In Biblioteca

Barbara Fabbroni

Doris Lessing A due ore dalla libertà Recensioni

38 Bello come Afrodite

70 Millelibri

Silvia Ghelardini

40 Il suono del silenzio Raffaele Mazzei

71 Fregi di Loggia


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Anna Giacomini

l mese di marzo è uno straordinario contenitore. Segna l’inizio dell’anno massonico, è il momento dell’equinozio di primavera, la vegetazione riprende il suo silenzioso ed impercettibile avanzare, la luce progredisce nella sua ciclica battaglia contro le tenebre. A contatto con la natura si avverte da piccoli segni che ogni singola particella vivente sta per esplodere in una fase di vita piena, il verde è tenero di promesse, i germogli sono piccoli ma lucidi e gonfi, certi rami apparentemente spogli scoppiano di turgide gemme. Non posso ignorare Tagore quando con indimenticabili versi diceva: La primavera con le sue foglie e i suoi fiori Mi è entrata nel cuore. Le api ronzano intorno lungo tutto il mattino Ed i venti giocano lenti con le ombre. Una dolce sorgente sgorga dal cuore del mio cuore. I miei occhi s’inumidiscono di gioia come di rugiada il mattino,

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Come una vibrante corda di liuto... e la vita freme nel mio corpo come una vibrante corda di liuto. È solo un frammento di una composizione più ampia, ma credo possa costituire un’eloquente introduzione al numero attuale di Officinae. Iniziamo con la suggestiva analisi di una commedia settecentesca effettuata dal Gran Maestro, che ci dimostra come i luoghi comuni dell’antimassoneria fin dalle origini del fenomeno si siano quasi cristallizzati nei più vieti stereotipi. È assai curioso notare come tutto si sia evoluto nella società occidentale al punto che nessuno azzarderebbe più negare il voto alle donne, accettare la pena di morte, o mangiare un paio di chili di cacciagione a pasto, come puntualmente accadeva trecento anni fa, ma l’antimassoneria è ancora lì, mummificata nei suoi ridicoli paradigmi, permeata di una sostanza old fashion che non ha neppure la seduzione dell’antiquariato. È solo pregiudizio: il ristagnante sintomo di aridità intellettuale. Attraverso uno stile letterario di

impronta inconfondibile, filtrato dalla vasta conoscenza del problema che ha da sempre inquadrato in modo lucido e completo, Luigi Pruneti con il suo contributo richiama le migliori pagine di La sinagoga di Satana (Bari 2002) divenuto ormai un cult del secolare problema. Per ben mettere a fuoco la natura dell’Istituzione massonica, che si dibatte tra l’incomprensione e la denigrazione a volte fraudolenta, interviene con una introduzione al tema “Massoneria e Diritto”, Sergio Ciannella, che sarà l’autore di una serie di articoli destinati ai prossimi numeri. In una forma essenziale e tecnica, ripercorre agilmente i punti salienti sui quali si àncora il tessuto connettivo della comunione iniziatica. Le pagine scorrono verso l’articolo di Aldo A.Mola che inizia un’esame della Massoneria europea a partire dall’Istituzione francese, molto ben inquadrata anche nel suo ruolo portante dei principi di libertà, uguaglianza e fratellanza. Affronta l’indagine attraverso una disamina delle


opere storiche pubblicate nel corso del tempo offrendo al lettore molti utili spunti per uno studio del tema. Nell’ambito dei suoi approfondimenti storici ci parla anche della sua ultima opera, la documentatissima “Gelli e la P2” nella rubrica In biblioteca. Fissati i capisaldi: antimassoneria, diritto e storia, il trimestrale si addentra sui temi del nostro umanesimo. Paolo Maggi scrive del rapporto tra gnosticismo e psicanalisi, tocca il nodo gordiano della teodicea con il conseguente irrisolto terrore della morte per approdare attaraverso un recupero di Kirkegaard alle teorie psicanalitiche di Becker. Un’altro contributo destinato alla conoscenza di noi stessi. L’uomo, come coacervo di contraddizioni, di sfrenate velleità e di divino inespresso, rappresenta il fil rouge di tutto il numero. Così Sandra Zagatti tocca il tema del libero arbitrio nella coscienza di quell’ampio serbatoio che è la natura retta dalla legge di evoluzione che guida tutto il creato fino all’ultima galassia, se mai ce ne fosse un’ultima. Viaggiando con la mente nella pluralità dei mondi, Roberto Pinotti ci suggerisce che forse “l’Umanità della Terra è come un profano, giunto infine alle porte del Tempio Cosmico al cospetto di un Guardiano della Soglia (seppur alieno)” e chiede di poter entrare a condividere conoscenza e aperture. Per mezzo di una scienza superiore che indirizzi verso nuovi sistemi

di vita e verso i valori dello spirito si potrebbe dimenticare tutto il male e il sangue versati. Con l’articolo di Maurizio Cohen, la mente del lettore vibra di dolore e si cala in uno dei più terribili orrori che possa colpire l’uomo: la guerra e soprattutto la guerra fratricida. Tra gli edifici in macerie non ancora ricostruiti, fa nascere a Sarajevo come un fiore di tundra, il personaggio di Zijad. È un sopravvissuto e impersona il vero protagonista della storia-incontro che ci narra lo scrittore. Egli è la resultanza positiva di quanto è scaturito dal distruttivo odio sistematico che annienta tutto ed infine anche se stesso. Perché l’odio è destinato a distruggere chi lo vive ed a produrre quell’humus nel quale la vita rivendicata produrrà tolleranza e pace. Messaggio massonico di confortante sapienza incernierato sulla certezza storica. Intanto agitandosi nelle passioni, nei dubbi e nel disperato bisogno di una sicurezza che sembra chimerica, le giovani generazioni si violentano in rituali dolorosi come quelli di cui ci parla Barbara Fabbroni, psicoterapeuta fecondissima che pur giovane ha al suo attivo una decina di pubblicazioni sul tema. Eppure il Rito rappresenta un nobilissimo momento in cui si costruisce un “ordine di natura trascendente entro il quale si strutturano i valori della organizzazione sociale”, come ci dice l’antropologa Maria Concetta Nicolai.

Simboli, emblemi, arte, musica e poesia hanno il loro spazio nel mondo ideale massonico per le penne di un Raffaele Mazzei, apprezzatissimo dai frequentatori delle nostre pagine, Silvia Ghelardini, Michela Torcellan. Due soli punti dolenti si annidano tra le ultime pagine del numero. Sono quelli che ricordano le tragedie della carcerazione per la colpa del libero pensiero e gli orrori della pena di morte. Si tratta del caso di Carlo Bini massone livornese di cui scrive Silvia Braschi e dei pensieri suggeriti dal Victor Hugo dell’“Ultimo giorno di un condannato” al vostro direttore. È altamente prevedibile che il lettore si soffermi affascinato sulle poesie di Luigi Pruneti, inediti sorprendenti, ma anche genuine composizioni intrise di forte lirismo, squisite espressioni di uno stile letterario personalissimo. A partire da questo numero ai Fregi di Loggia verranno date due intere pagine. Ricordiamo che nel 2009 cade il bicentenario della nascita di Charles Darwin. Nel prossimo numero (che si chiuderà in aprile) ne parleremo ed il contributo di chi desiderasse affrontare il tema in modo scientifico sarebbe molto gradito. Il direttore

P.2-3: Primavera, 2007, P.Del Freo, collez. priv.

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Gran Maestro

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ra il Maggio del 1785 e il sole di primavera sembrava voler esaltare lo splendore di Venezia che, adagiata languidamente nella Laguna, consumava gli ultimi anni della sua lunga ed affascinante decadenza. Ormai non era più la potenza commerciale, economica e politica di un tempo e di lì a poco un giovane Corso avrebbe posto fine alla sua secolare indipendenza. La città comunque non lo sapeva e viveva tranquilla, lontana dai travagli dell’Europa e dalle sue capitali dove si fucinavano i destini del mondo. I giorni scorrevano lentamente, animati da antiche consuetudini, da orgogliosi ricordi e dal cicaleccio di una realtà ormai provincializzata. Questo torpore fu scosso il 7 di quel mese da una notizia che repente percorse piazze e calli, fondaci e canali: i “Signori di Notte alla Criminal” avevano fatto irruzione nei locali della Loggia S. Martin, avevano requisito gli arredi e poi li avevano bruciati, “a perpetuo monito”, nel cortile di Palazzo Ducale1. L’operazione

di polizia era stata comandata dal Consiglio dei Dieci che, in tal modo, aveva voluto dare un forte segnale al patriziato e alla borghesia più progressista, penetrata da idee massoniche e illuministiche; per l’oligarchia conservatrice, raggrumata attorno alle famiglie dogali dei Foscarini, dei Pisani e dei Tron2, questi intellettuali erano dei sovversivi, dei pericolosi cospiratori, a loro andava imputata la crisi irreversibile della Serenissima. Si trattava dell’ennesima persecuzione, dell’ultimo strale, in ordine di tempo, che il potere politico-religioso scagliava contro le Officine venete, sperando di eliminarle per sempre3. I Liberi Muratori veneziani, che contavano nelle proprie file letterati di spicco, reagirono, difendendo nei loro scritti la Massoneria. InStoria della mia vita, ad esempio, Giacomo Casanova, per sfatare pregiudizi e pittoresche accuse, dette una definizione chiara e appropriata di segreto massonico e Carlo Goldoni4 nella commedia Le Donne curiose cercò di controbattere la violenta propaganda liberticida5. Non fu l’unica opera massoni-

cizzante del Nostro che affrontò l’argomento pure ne Il Filosofo inglese6, commedia dedicata a Smith, confratello di Goethe7, e ne I Malcontenti8, indirizzata al Murray un “figlio della vedova” amico di Casanova. Inoltre Goldoni fu vicino a due noti massoni: Parmenione Trissino e Francesco Griselini. Quest’ultimo fu un erudito di fama, autore di numerose opere come la commedia I Liberi Muratori, pubblicata sotto lo pseudonimo di Ferling Isac Crens e dedicata a Aldinoro Clog, anagramma di Carlo Goldoni9. Siffatto testo teatrale non è di certo un capolavoro: la lingua presenta difficoltà evidenti, i dialoghi risultano difficoltosi, molte scene risentono della commedia d’arte, concludendosi con ceffoni e baruffe e la vis comica è talmente eccessiva da risultare artificiosa e pesante. Nondimeno la Commedia è una preziosa testimonianza sull’organizzazione e la ritualità della Massoneria dell’epoca: si fanno riferimenti al cerimoniale, ai segni, alle agapi e alla presunta origine cavalleresca della Fratellanza, accogliendo

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Gran Maestro

le tesi di André Michel Ramsay10. A noi tuttavia interessa in particolare la denuncia dell’antimassoneria presente nel dramma. Veniamo dunque alla trama (del testo) che è simile per certi versi a Le donne curiose. Anche qui vi sono due fanciulle Bellisa e Lucilla, figlie di Procopio Maestro Venerabile di una Loggia, e la loro servetta Marinetta. Le tre sono rose dalla curiosità di conoscere il supposto segreto dei Liberi Muratori, di cui tutti parlano. Dopo vari ed infruttuosi tentativi, riescono, con un inganno, ad introdursi di soppiatto nel tempio dove sono scoperte. Grazie però all’amore per Lucilla del confratello Erasto, Procopio le perdona e la vicenda finisce nella migliore delle maniere con promesse di matrimonio e generale soddisfazione. Il fine di questo canovaccio teatrale è quello di sfatare i pregiudizi e le falsità che aleggiano intorno ai massoni, perseguitati dai principi e oggetto di leggende infamanti11. Secondo il servo Sganarello, difatti, il mondo dei liberi muratori è intriso di privilegi, aiuti reciproci, facilitazioni ed entrarvi significa sistemarsi per tutta la vita12. A sua volta il falso conte di Poltronico afferma di aver letto su un libro che il fine della

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oloro che entrano nella

massoneria solo per carpirne il segreto, possono ritrovarsi

delusi: può, infatti, accadere loro

di vivere per cinquant'anni come maestri massoni senza riuscirvi. Il mistero della massoneria è per sua natura inviolabile: il massone lo conosce solo per intuizione, non per averlo appreso. Quando lo ha conosciuto, si guarda bene dal far parte della scoperta chicchessia, sia pure il migliore amico massone, perché se costui non è stato capace di penetrare il mistero non sarà nemmeno capace di profittare se lo apprenderà da altri. Il mistero rimarrà sempre tale. Ciò che avviene nella loggia è obbligatorio che rimanga segreto, ma chi pure è così indiscreto e poco scrupoloso da rivelarlo, egli non rivelerà l'essenziale: come potrebbe se non lo conosce. G. Casanova, Storia della mia vita.

Massoneria è eversivo, in quanto gli affiliati aspirano a creare una società utopica, che dovrebbe avere la propria capitale in una nuova città, creata ad hoc nel cuore del deserto libico. Si tratterebbe di una Repubblica, priva di ogni differenza sociale: “Fonderanno una Repubblica sul modello di quella di Platone, ove ugualmente ogn’uno sarà Padrone e servo. Uguaglianza sarà scritto in fronte alle sue leggi; ed Astrea a mantenerle intesa allumarà la sua face brillante, onde al bel chiarore di quella si veda il vero, e la frode si scopra per allontanarla dalla cospicua società, cui i Numi e il fato a gara proteggeranno”13. Alla fine, nel tempio, il Soprintendente e il Segretario della Loggia riepilogano minuziosamente tutto ciò che si imputa ai Liberi Muratori, apprendiamo così che essi sono accusati di: - “essere i seguaci degli empi dogmi dello scellerato Spinosa”; - essere deisti; - essere sensisti e materialisti, - essere seguaci di Pomponazzi, - essere fanatici fedeli di un mostruoso sincretismo religioso giudaico-cristiano; - essere cabalisti rosacrociani “che a forza di


pentacoli e di nifre magiche dedotte dalla scienza gematrica degli antichi Rabini [... individuano] i siti dei tesori, il gran segreto delle metalliche trasformazioni; e che finalmente [... ottengano] la facilità di andare invisibili e di passare volando nelle più lontane regioni si come di fatto sostengono, che ogni anno [... convochino] in Masora nella Siria alla grande Riduzione, che [...] si tiene nel luogo medesimo, in cui già distrutta la Repubblica Ebraica, si radunava l’antico Sinedrio o l’assemblea dei Masorati, che affissero la puntazione della Sacra Bibbia”. - essere stati massoni i più illustri rabbini oltre a Galileo, Cartesio, “Neuton”, “Labnizio”, - essere nemici della pubblica quiete, contrari agli interessi dei regnanti, faziosi, organizzatori di complotti volti a destabilizzare il potere costituito, per costruire sulle sue ceneri una repubblica universale ed egalitaria14. Insomma, le accuse esposte ne I Liberi Muratori sono le più varie ed articolate. I massoni sono imputati di ogni genere di delitto: si va dal complotto politico all’intrallazzo, fino alle denunce più incredibili e pittoresche.

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rancesco Griselini, nacque a Venezia, nel 1717 e fu avviato ben presto alla carriera ecclesiastica, che però non trovò congeniale alla sua natura. Dopo aver abbandonato quella via si impegnò da autodidatta nello studio delle lettere delle arti e della fisica naturale. Dotato di buone capacità grafiche, negli anni tra il 1756 e il 1757 diventò l’incisore e il disegnatore di fiducia dei librai Bassaglia. Per aver dato prova di abilità nel settore ricevette dalla Serenissima l’incarico molto prestigioso di restaurare le mappe nella sala dello Scudo, ricavando un compenso di milleottocento ducati. Griselini, attento lettore dei philosophes francesi, inglesi ed italiani, ma anche di libri scientifici, scrisse commedie e saggi, diresse giornali e curò dizionari. Nel 1752, abbandonati temporaneamente gli studi di storia naturale, si cimentò nella scrittura teatrale e nel giro di poco tempo produsse alcune commedie alla moda, scrivendo “Il marito dissoluto”, “I liberi muratori”, del 1754, “Socrate filosofo sapientissimo” del 1755, “La schiava del serraglio dell’Agà dè giannizzeri in Costantinopoli” e “Reginella o La virtuosa”,

Vi è proprio di tutto e se non fosse per il linguaggio datato, per gli arcaismi e i riferimenti tipici all’immaginario collettivo del XVIII secolo, Francesco Griselini potrebbe passare per un nostro contemporaneo, lettore accanito di quotidiani e periodici ed esperto navigatore della rete. In questi ultimi mesi, in effetti, la Libera Muratoria è stata incolpata di ogni misfatto ed è tornata ad essere il centro misterioso delle trame più incredibili e fantastiche. Il culmine è stato raggiunto da una news riportata su “Focus”, periodico ad enorme diffusione, che conta

le ultime due scritte nel 1756. I primi lavori scientifici, l’attività teatrale e il lavoro di restauro alle mappe dimostrano che Francesco Griselini era ben inserito nella vita culturale di Venezia e l’amicizia con il patrizio Marco Foscarini lo spinsero ad intervenire su un dibattito politico-religioso nel segno tradizionale del giurisdizionalismo veneziano, ispirato alla lezione di Paolo Sarpi. Nel 1760 fu impegnato a sostenere una polemica politico-religiosa contro alcuni pubblicisti della curia romana, sulla presunta eterodossia, di Paolo Sarpi. Griselini, in sua difesa, compose una biografia del pensatore: “Memorie anedote spettanti alla vita ed agli studi del sommo filosofo e giureconsulto F. Paolo servita, raccolte ed organizzate da F. Griselini”, fondata su un’accurata ricerca documentaria. La polemica sulla biografia sarpiana proiettò Griselini pienamente nella vita culturale della Venezia dei “lumi”. Dal 1763 Griselini si interessò sempre di più all’agricoltura ed all’agronomia, col breve opuscolo “Nuova maniera di seminare e coltivare il frumento”, in cui descrisse una macchina seminatrice inventata dall’inglese Jethro Tull. L’interesse dell’opinione pubblica

Gran Maestro decine di migliaia di appassionati lettori. La sconvolgente notizia si trova nel numero 193 del Novembre 2008, ove a pagina 160, si legge: “Il Progetto Lucifero. Nel 2017, una sonda farà esplodere Saturno e pochi eletti si trasferiranno su Titano. Sarà vero?”15. Questo è il titolo di un lungo pezzo dove si comprende che alcuni cacciatori di complotti, le cui attività ed ipotesi sono ospitate sulla “rete”, pensano che fra otto anni la sonda Cassini costruita dalla Nasa e dall’Agenzia Spaziale Europea, disintegrandosi su Saturno provocherà un pandemonio. A quel punto, in vero, i 32,8 kg. di Plutonio che l’alimentano diventerebbero “una bomba nucleare di 600 kilotoni, 27 volte più potente di quella esplosa a Nagasaki. [la deflagrazione] Innescherebbe una reazione a catena che consentirebbe all’idrogeno, il cuore di Saturno, di trasformarsi in una gigantesca macchina a fusione nucleare [...] il pianeta diventerebbe [in tal modo] una palla di fuoco”16 e la terra riceverebbe una tale quantità di radiazioni da rimanere devastata, sarebbe un disastro che implicherebbe un miliardo di vittime. Questa apo-

per l’agricoltura lo indusse a rivolgersi al giornalismo. Diresse il “Giornale d’Italia spettante alla scienza naturale e principalmente all’agricoltura, alle arti ed al commercio”, ed altri periodici illuministi. Nel 1768 avviò, presso Modesto Fenzo, il “Dizionario delle arti e de’ mestieri”, poi continuato dall’abate Osvaldo Fassadoni, grande opera enciclopedica riguardante l’agricoltura e l’industria. Successivamente nel 1774, Griselini lasciò Venezia, deluso dalla mancanza di volontà riformatrice da parte del ceto dirigente, per seguire il conte Giuseppe Brigido in un lungo viaggio nel Banato di Temeswar, oggi Timisoara, da Trieste sino ai confini dell’Impero ottomano. Per i buoni uffici di Kaunitz ottenne dall’imperatrice Maria Teresa l’incarico di Segretario presso la nascente Società Patriottica di Milano, grazie anche all’appoggio del conte Brigido e d’influenti massoni viennesi, ma fu ben presto travolto da aspre polemiche e dovette dimettersi qualche anno dopo. Gli ultimi anni di vita furono molto tristi per Griselini, perché fu colpito da una malattia mentale e finì i suoi giorni nell’ospedale Fatebenfratelli di Milano dove morì nel 1787.

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calisse prossima ventura sarebbe, tuttavia, voluta, si tratterebbe di un progetto finalizzato a trasformare Titano in un pianeta abitabile, in una nuova “terra promessa”, destinata a pochi eletti. “Fantasie? - scrive l’autore dell’articolo - Non è detto, ha obiettato un misterioso studioso che [...] ha studiato nei dettagli la fattibilità dell’ipotesi, trovando, negli obiettivi della sonda Cassini “troppe coincidenze perché lo scenario fosse solo una favola” e ravvisando “forti legami con la massoneria”. E se avesse ragione?”17. Naturalmente il pezzo prosegue con le interviste ad alcuni illustri scienziati che definiscono questa teoria della trasformazione di Saturno in stella una bestialità, un’idiozia senza alcun fondamento, una barzelletta per chi ha dimestichezza con fisica ed astronomia. L’immagine catastrofica, però, rimane vivida nell’immaginazione, legata fatalmente alla parola “massoneria”, scritta in grassetto, quale titolo di un paragrafo. A questo “fiore” si aggiungano i vilipendi di fogli locali, la riesumazione di liste di iscritti, vecchie di anni ma presentate come aggiornatissime e, dulcis in fundo , l’accorato

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grido di dolore di un vescovo che imputa i numerosi mali della propria diocesi a una “cappa massonica che controlla tutto e tutti, che impedisce lo sviluppo per poter dominare tutto”18. È un ventaglio di accuse articolato ed onnicomprensivo, dove è possibile rintracciare tutte le tematiche esposte ne I Liberi Muratori, di Francesco Griselini erudito e commediografo a tempo perso del XVIII secolo. Anche le motivazioni, quelle vere, sono le stesse: ignoranza, pregiudizio, volontà d’imputare ad un capro espiatorio problemi e difficoltà di ogni genere, cinico calcolo politico, desiderio di ribalta, miope conformismo socio-culturale. “Il sole sorge e il sole tramonta, si affretta verso il luogo dove risorgerà. Il vento soffia a mezzogiorno poi gira a tramontana; gira e rigira, sopra i suoi giri il vento ritorna. Tutti i fiumi vanno al mare eppure il mare non è mai pieno [...] Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole”19. Sembra proprio che l’antico dettato biblico, chiamato nei testi preconciliari Ecclesiaste, abbia ragione. Niente è cambiato dopo oltre due secoli, stesse accuse, stessi accu-

satori, stesse motivazioni. Anche il periodo storico sembra presentare singolari analogie. Allora il mondo stava per conoscere un’età di drammatici cambiamenti che avrebbero originato la contemporaneità. Nel giro di pochi anni la Grande Rivoluzione avrebbe mutato il volto all’Europa e un’altra rivoluzione, quella industriale, avrebbe innescato un cambiamento epocale, sostituendo i mezzi di produzioni, alterando le dinamiche geopolitiche, mondializzando l’economia, dissolvendo assetti sociali inalterati da secoli per crearne di nuovi più dinamici e instabili. Dopo oltre duecento anni quel processo è giunto alla sua stretta finale, una fase è terminata ed un’altra ha avuto origine. Il terzo millennio ha condotto il Pianeta oltre la soglia di un’era e la globalizzazione ci ha accolto salutandoci, con una crisi epocale d’inusitata ampiezza, che niente ha da invidiare a quella del ‘29 anche se sarà spalmata su un arco di tempo più lungo e per questo è e sarà percepita in modo diverso. I rimedi prospettati fin ora, manovre economiche colossali, nuove regole per imbrigliare i mostri della speculazione, sostegno dei


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consumi, tentazioni neo-keynesiane, saranno effimeri palliativi, se non si avrà la forza e la costanza di veleggiare verso una dimensione diversa, se non si veicoleranno gli interessi e gli scopi verso l’uomo, inteso come essenza spirituale e non come grumo di materia da alimentare e illudere con un overdose di consumi e d’inconsapevolezza. La Libera Muratoria ha come fine proprio questo e l’attuale verve antimassonica, fenomeno ormai in crescita anche in molti altri paesi20, nasce proprio dalla percezione di siffatta vocazione. La casta del potere, qualunque esso sia, da sempre mira ad amministrare anche le coscienze e teme chi persegue una via di liberazione e d’indipendenza di pensiero. Ha terrore di chi si prefigge come aspirazione una conoscenza autocostruita e non acquistata, chiavi in mano, al supermercato del conformismo ideologico. Sospetta fortemente di chi, avendo sempre sulle labbra e nella mente la parola libertà, vuol ascoltare, indagare, riflettere, comprendere senza l’ausilio di tutor, con tanto di prontuario del politicamente corretto. Non preoccu-

piamoci più di tanto: la loro battaglia per mantenere, al di là delle promesse, lo status quo, è perduta in partenza, il ritorno alla “dimensione uomo” con una conseguente riscoperta dell’eticità e della spiritualità dell’esistenza, sarà imposta dai tempi, l’alternativa è il nulla. La Massoneria non può né deve temerli, deve invece ricordarsi di essere sempre se stessa, non smarrirsi, paventare le deviazioni, distinguersi dai turpi imitatori, da coloro che usurpano il suo nome, dai presunti innovatori e dai falsi iniziati che la vorrebbero trascinare su piani dove la contaminazione con la profanità porrebbe fine alla sua esistenza. ________________ Note 1 M. Zuccarelli, Le donne curiose di Carlo Goldoni,

in Hiram, n° 8 - 9, Agosto - Settembre 1989, pp. 230 - 231. 2 G. Rossi-Osmida, Venezia, 7 Maggio 1785, in “Hiram”, n° 3, Marzo 1988, pp. 82-85. 3 L. Pruneti, La sinagoga di Satana. Storia dell’antimassoneria 1725 - 2002, Bari 2002, p. 32, nota 42. 4 Carlo Goldoni fu sicuramente iniziato come attestano numerosi autori; cfr. A. Neri, Aneddoti goldoniani, Ancona 1883, p. 67; L. Falchi, Intendimenti

sociali del Goldoni, Roma 1907; A. Luzio, La Massoneria e il Risorgimento italiano, vol. I, Bologna 1925, p. IX. 5 C. Goldoni, Le donne curiose, a.c. di G. Geron, Milano 1988, atto II, scena XX, p. 180. Numerosi sono gli studi sulla celebre opera goldoniana, fra i quali cito: L. Pruneti, Verso la “Mixitè” Storia dell’integrazione femminile nella Massoneria, in La Donna il Sacro l’Iniziazione, Roma 1994, pp. 135137; cfr. AA. VV, Massoneria e Illuminismo a Venezia Carlo Goldoni e le donne curiose, a.c. di L. Danesin, Roma 2008; Cfr. F. Di Gregorio, E’ nelle donne curiose lo spirito massonico di Carlo Goldoni, in Officinae, a. V, n. 4, Dicembre 1993, pp. 25 - 27; Illuministi italiani, t. VII, Riformatori delle antiche repubbliche, dei ducati, dello Stato pontificio e delle isole, a.c. di G. Giarizzo, G. Torcella, F. Venturi, Milano - Napoli, 1965, pp. 97 - 98; P. Mariani, L’accademia e la loggia. Rivoluzione e massoneria alle origini dell’Italia moderna: i casi letterari, Rimini 2007, p. 13 e segg. 6 Del 1754. 7 M. Zuccarelli, Le donne ... cit., pp. 230 - 231. 8 Del 1755. 9 Cfr. C. Goldoni, Le memorie, traduzione, prefazione e note a. c. di R. Guastalla, (III ediz.), Firenze 1933, nota 1, p. 137. 10 I liberi Muratori Commedia di Ferling Isac Crens, Fratello operaio della Loggia di Danzica, dedicata al celebre e illustre signore Aldinoro Glog, Autore comico prestantissimo, in Libertapoli, l’Anno dell’Era Volgare 1785, Atto V, Scena IV, p. 22. (Ristampa anastatica, Forni, Bologna 1974). 11 Ibidem, Atto II, Scena II, p. 22. 12 Ibidem, Atto II, Scena VI e VII, pp. 29 -30. 13 Ibidem, Atto IV, Scena VIII, p. 65.

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Gran Maestro 14 Ibidem, Atto V, Scena IV, pp. 77-79. 15 L. Bignami, Il progetto Lucifero, in Focus, n. 193,

Novembre 2008, pp. 160 - 166. 16 Ibidem, p. 164. 17 Ibidem, p. 162. 18 Intervista all’Arcivescovo di Messina, Mons. Calogero La Piana, in Gazzetta del Sud, 13 Gennaio 2009; La Messina indolente e quella che vuole liberarsi dalla cappa, in Gazzetta del Sud, 15 Gennaio 2009; F. Celi, Cappa massonica, l’onda del riflusso, in Gazzetta del Sud 16 Gennaio 2009. 19 Qoelet, 1, 5-9. 20 La crescita dell’antimassonismo in altri paesi è testimoniato, oltre che da numerosi episodi di cronaca, anche dal rinnovato interesse per il fenomeno di diversi periodici massonici. Ad esempio, la rivista brasiliana O Prumo, pubblica le biografie di massoni ed antimassoni, uno dei Cahiers de la commission de l’Histoire del Droit Humain, Fédération français, è stato dedicato all’argomento, Joaben, mensile del Gran Capitolo Generale del Grande Oriente Francia, pubblica spesso disegni e vignette antimassoniche, lo stesso periodico nel numero di Dicembre del 2008 ha ospitato un mio lungo articolo sull’animassoneria. Da ricordare inoltre che la Enciclopedie de la Franc- Maçonnerie, rieditata recentemente dedica ben otto colonne all’antimaçonnisme. Infine, anche l’editoria francese sembra di nuovo interessata al fenomeno dell’antimassoneria. Non a caso nel 2008 l’editrice Véga ha pubblicato uno studio di Jan-Louis Coy sul noto film Forze occulte. Cfr. Pequenas biografias de Maçons e Antimamaçons, in O Prumo. Revista Maçonica, n. 181, Settembre/Ottobre 2008, pp. 38 -39; Carte postale anti-maçonique brocardant les Francs-Maçons et la République au moment de “l’affaire des fiches”, 1905, in Jaoben. Revue du Grand Chapitre Général du Grand Orient de France, n. 7 Luglio 2007, III di copertina; A. Prat, Et aujourd’hui?, in Cahiers de la commission de l’Histoire, n. 18, Luglio 2008, pp. 74 - 91 ; L. Pruneti, L’anti Franc - Maçonnerie dans les essais e dans le jounalisme en Italie, in “Jaoben. Revue

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du Grand Chapitre Général du Grand Orient de France, n. 10, Dicembre 2008, Antimaçonnisme, in Enciclopedie de la Franc- Maçonnerie, nouvelle édition, Paris 2008, pp. 33 - 38 ; J-L. Coy, Forces occultes. Le complot judéo-maçonnique au cinéma, Paris 2008. _____________________ Bibliografia AA. VV, Massoneria e Illuminismo a Venezia Carlo Goldoni e le donne curiose, a.c. di L. Danesin, Roma 2008. Antimaçonnisme, in Enciclopedie de la Franc- Maçonnerie, nouvelle édition, Paris 2008. L. Bignami, Il progetto Lucifero, in Focus, n. 193, Novembre 2008. Carte postale anti-maçonique brocardant les FrancsMaçons et la République au moment de “l’affaire des fiches”, 1905, in Jaoben. Revue du Grand Chapitre Général du Grand Orient de France, n. 7 Luglio 2007. G. Casanova, Storia della mia vita, vol. II, Milano 1964 - 1965. F. Celi, Cappa massonica, l’onda del riflusso, in Gazzetta del Sud 16 Gennaio 2009. J-L. Coy, Forces occultes. Le complot judéomaçonnique au cinéma, Paris 2008. F. Di Gregorio, E’ nelle donne curiose lo spirito massonico di Carlo Goldoni, in Officinae, a. V, n. 4, Dicembre 1993. C. Goldoni, Le donne curiose, a.c. di G. Geron, Milano 1988. C. Goldoni, Le memorie, traduzione, prefazione e note a. c. di R. Guastalla, (III ediz.), Firenze 1933. I liberi Muratori Commedia di FERLING ISAC CRENS, Fratello operaio della Loggia di Danzica, dedicata al celebre e illustre signore Aldinoro Glog, Autore comico prestantissimo, in Libertapoli, l’Anno dell’Era Volgare 1785, Atto V, Scena IV, p. 22. (Ristampa anastatica, Forni, Bologna 1974).

Illuministi italiani, t. VII, Riformatori delle antiche repubbliche, dei ducati, dello Stato pontificio e delle isole, a.c. di G. Giarizzo, G. Torcella, F. Venturi, Milano - Napoli, 1965. Intervista all’Arcivescovo di Messina, Mons. Calogero La Piana, in Gazzetta del Sud, 13 Gennaio 2009. La Messina indolente e quella che vuole liberarsi dalla cappa, in Gazzetta del Sud, 15 Gennaio 2009. A. Luzio, La Massoneria e il Risorgimento italiano, vol. I, Bologna 1925. P. Mariani, L’accademia e la loggia. Rivoluzione e massoneria alle origini dell’Italia moderna: i casi letterari, Rimini 2007. A. Neri, Aneddoti goldoniani, Ancona 1883. A. Prat, Et aujourd’hui?, in Cahiers de la commission de l’Histoire, n. 18, Luglio 2008 Pequenas biografias de Maçons e Antimamaçons, in O Prumo. Revista Maçonica, n. 181, Settembre / Ottobre 2008. L. Pruneti, L’anti Franc - Maçonnerie dans les essais e dans le jounalisme en Italie, in Jaoben. Revue du Grand Chapitre Général du Grand Orient de France, n. 10, Dicembre 2008. L. Pruneti, La sinagoga di Satana. Storia dell’antimassoneria 1725 - 2002, Bari 2002. L. Pruneti, Verso la “Mixitè” Storia dell’integrazione femminile nella Massoneria, in La Donna il Sacro l’Iniziazione, Roma 1994. G. Rossi-Osmida, Venezia, 7 Maggio 1785, in Hiram, n° 3, Marzo 1988. M. Zuccarelli, Le donne curiose di Carlo Goldoni, in Hiram, n° 8 - 9, Agosto - Settembre 1989.

P.4 e 6: Copertina e frontespizio de ‘I liberi muratori’ (vd. testo); p.5: Venezia, simboli della Serenissima; p.6: Venezia, monumento a Carlo Goldoni (5 e 6: foto P. Del Freo); p.7: Francesco Griselini; p.8-9: Napoli, 10 luglio 1751, Editto di Carlo contro la massoneria; p.10-11: Ingresso solenne del Conte Gergy a Palazzo Ducale, Canaletto, olio su tela, San Pietroburgo, Hermitage.


Gran Maestro

È

semplice la tua parola, Maestro, non quella di chi parla di te. Comprendo la voce delle tue stelle, il silenzio dei tuoi alberi, e so che il mio cuore s’aprirà come un fiore, che la mia vita s’è riempita, dissetandosi a una fonte segreta. Le tue canzoni, come uccelli venuti Dal paese solitario della neve, volano a costruire il loro nido, nella mia anima, nel tepore d’aprile, e io sono felice di attendere la dolce stagione. (Rabindranath Tagore)

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Diritto

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Diritto

P

remessa Ogni società organizzata, dalla più complessa come la comunità nazionale alla più semplice quale si può considerare una qualsiasi associazione di persone, fonda la propria esistenza su principi e regole che indicano ai suoi membri modelli di comportamento e limiti di azione. Comandi positivi e negativi dai quali nascono rispettivamente i diritti e i doveri dei singoli e nello stesso tempo le condizioni della loro appartenenza. La specificità di tali norme rivela gli scopi dell’aggregazione e le motivazioni che sottendono alla sua formazione e ne mettono in evidenza il carattere e le tendenze. Dal momento dell’ammissione, se è prevista una preventiva selezione, o dell’acquisto dello status di appartenenza, quando si richiede semplicemente il possesso di determinati requisiti, chi ne fa parte è tenuto ad osservare due obblighi concorrenti: sul piano giuridico il rispetto delle regole riconosciute valide ed applicate in quella società, su quello etico la collaborazione al conseguimento degli scopi comuni. Il più ampio consorzio umano governato da regole uniformi è la collettività nazionale, dove ragioni etniche, politiche, economiche, territoriali, sono alla base della esigenza di fissare principi e norme comuni e di delimitare confini, anche se negli Stati occidentali questi si vanno progressivamente espandendo a livelli sopranazionali, per la spinta naturale all’avvicinamento dei popoli. A questa realtà fa riscontro, sul piano spirituale, l’organizzazione di tipo religioso che legifera attraverso dogmi indiscutibili e precetti morali destinati a dirigere l’azione dei fedeli. Nella società si muovono - inoltre innumerevoli forme associative, di non secondaria importanza quanto a carattere e finalità. Tra queste la Massoneria, denominazione astratta di un metodo graduale di perfezionamento umano, sintesi di pensiero e azione che si estrinseca sul piano concreto attraverso l’azione di Obbedienze che operano in un determinato ambito territoriale. Nel presente scritto, punto di osservazione e allo

stesso tempo oggetto di analisi, sarà la Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. Palazzo Vitelleschi ed il Supremo Consiglio d’Italia, ad opera del quale l’Obbedienza ebbe vita nel 1910. Ciò per la indisponibilità di dati specifici sulla struttura e l’organizzazione di altre Obbedienze italiane e nella consapevolezza che uno sguardo dall’interno della Gran Loggia possa fornire elementi di riflessione più utili di generiche considerazioni fondate sullo studio teorico della Massoneria. Sulla base delle premesse enunciate saranno esaminati i rapporti tra Massoneria e diritto in tutti gli aspetti che implicano osservanza e applicazione di regole, sia all’interno che all’esterno della Istituzione. Partendo quindi dalle norme in uso nella Massoneria Universale espressa nelle due articolazioni della Gran Loggia d’Italia e del Supremo Consiglio d’Italia, ci si soffermerà sull’atteggiamento dello Stato verso le associazioni e in particolare verso l’associazionismo massonico, per poi illustrare la posizione giuridica della Massoneria rispetto all’ordinamento giuridico italiano e infine le speranze e le concrete prospettive di una regolamentazione generale a livello europeo che possa colmare le lacune normative in materia associativa e garantire libertà effettiva alle Obbedienze massoniche, in Italia e nei Paesi che di recente hanno fatto ingresso nella Unione. Diritto Massonico Prima di affrontare questo argomento occorre porsi un interrogativo di fondo: si può parlare di un diritto massonico? Possiede tale materia quei caratteri di complessità e organicità che consentono di individuare in un insieme di disposizioni un corpus normativo e di qualificarlo “diritto”? Sicuramente il problema non si pone riguardo a quelle associazioni che sono regolate da un semplice statuto o regolamento, frutto dell’accordo dei soci fondatori. E questo si può riferire alla generalità dei casi, nei quali l’atto costitutivo non è altro che un contratto ed è l’unica fonte regolatrice dell’organismo e dei rapporti tra gli associati. Anche se la Massoneria è qualificata dall’ordinamento giuridico statuale come semplice associa-

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Diritto zione, in Italia per giunta non riconosciuta, la complessità della sua organizzazione, la quantità di regole antiche e moderne che devono coesistere in un quadro di compatibilità, la completezza del sistema normativo interno, ne fanno un vero e proprio ordinamento dotato di forza autoregolatrice, che in termini massonici viene chiamata “sovranità”, qualificazione questa attribuita a tutti i centri di “potere” iniziatico: l’Obbedienza, il Gran Maestro, le Logge. Ora, se diritto è un complesso ordinato di norme sulle quali si regge l’organizzazione di una società e se norma vuol dire regola di condotta dotata di forza imperativa, la risposta non può essere che positiva. L’attività massonica é regolata minutamente in tutte le sue espressioni da norme precise e coordinate tra di loro. La loro vincolatività è indiscutibile perché trae forza dal coinvolgimento dell’adepto. Si estrinseca infatti sul piano morale ed impegna la sua coscienza. Non è un caso d’altra parte, che l’Istituto massonico sia denominato “Obbedienza”, proprio a rimarcare che l’ammissione di “profani” comporta in primo luogo l’accettazione di doveri. Il diritto massonico si sostanzia di regole di varia natura e di diversi livelli; la sua specialità rispetto ad altri ordinamenti è che molte di esse sono di antica e incerta datazione. Non diversamente dai sistemi giuridici statuali, nei quali la fonte normativa primaria è rappresentata da una Costituzione che racchiude e sintetizza i valori fondativi della società, la Massoneria si rifà ad una serie di principi di alto contenuto etico ma, mentre nella organizzazione giuridica di uno Stato le regole fondamentali esprimono il comune sentire della collettività e variano quindi secondo le tendenze socio-politiche del momento storico e del grado di civiltà raggiunto dalla comunità, nella Società dei Liberi Muratori i fondamenti giuridici risiedono in valori metastorici, dettami cioè che è difficile collocare nel tempo ed attribuire a qualcuno e che tuttavia si possono riconoscere come distillato di un sapere umano tramandato nel tempo attraverso una catena ininterrotta di iniziazioni. Nella esegesi sono avvantaggiate le Obbedienze

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massoniche di schema “liberale”, al quale appartiene la Gran Loggia d’Italia Palazzo Vitelleschi, che affidano alla coscienza dei singoli iniziati e al loro libero convincimento il compito di interpretare senza porre alcun limite o vincolo di natura dogmatica. Compito particolarmente arduo per il massone è valutare la portata di questi precetti, perché dallo scritto elaborato in epoche antiche è necessario espungere ogni contaminazione storica se si vuole estrarre il nucleo essenziale dell’insegnamento trasmesso. Ben più agevole invece si presenta il diritto massonico nell’attualità, ovvero quando le norme non provengono dalla tradizione ma sono emanate da organi deliberanti o da singole autorità massoniche investite dei poteri necessari. La differenza sta nel carattere non tradizionale della prescrizione, che viene adattata a scopi chiari e ben definiti e non richiede particolare sforzo di comprensione del suo contenuto, in quanto manifestazione di volontà immediatamente percepibile dai destinatari. In ogni regola che parte invece da lontano e che porta con sé le incrostazioni del tempo e le stratificazioni di interpreti e chiosatori, è nascosto un significato recondito da scoprire e, più antica è la fonte, maggiori sono le possibilità che si tratti di verità rivelate, ricoperte cioè da un velo da scoprire. Ciò accresce l’esigenza di rispettarle nella loro integrità, il che non implica accettazione passiva e applicazione pedissequa della regola tradizionale scritta, ma necessità di approfondirla con mentalità, oltre che giuridica e razionale, intuitiva. E’ solo con la speciale capacità percettiva dell’iniziato che si riesce infatti a cogliere quei significati nascosti e quella ratio elevata, che fanno di una semplice norma un messaggio esoterico. Passiamo adesso in rassegna le numerose norme in uso nella Massoneria, sempre con specifico riferimento alla esperienza della Gran Loggia d’Italia Palazzo Vitelleschi e del Supremo Consiglio d’Italia, nel rispetto della gerarchia esistente tra queste fonti e specificandone la diversa natura. Le Patenti La nascita di una Obbedienza non è paragonabile


Diritto alla costituzione di una qualsiasi associazione, che non richiede altro che l’accordo dei fondatori e la stesura di un atto nel quale siano fissati gli scopi comuni e le regole alle quali ci si vuole conformare. In considerazione della sua particolare finalità, necessita infatti di una sorta di legittimazione da parte di un centro di potere iniziatico, ovvero di una Obbedienza preesistente, che garantisca la continuità della trasmissione di forza sacrale, avendola a sua volta ricevuta da altra legittima detentrice di simili poteri. Se si risale la catena di queste trasmissioni, si giunge ai primordi della Massoneria moderna e alla ormai leggendaria unificazione delle quattro Logge londinesi, che andarono a costituire la Gran Loggia d’Inghilterra, divenuta nel 1813, in seguito alla fusione con gli “Antichi” facenti parte di una Obbedienza parallela, la Gran Loggia Unita d’Inghilterra. Costruita sulle fondamenta di antichi filoni iniziatici dotati di autorevole impronta tradizionale, la Massoneria moderna si diffuse rapidamente in Europa e nelle due Americhe, grazie al clima “illuminista” che nel XVIII sec. aveva aperto all’Umanità nuovi orizzonti di conoscenza. L’unico sistema di propagazione che potesse garantire la continuità del nuovo centro iniziatico e la efficace genuinità dei suoi contenuti, era l’affidamento, a proseliti di fiducia, del potere di fondare una nuova Obbedienza e di iniziare nuovi adepti. L’atto che concedeva tali poteri era denominato “Patente” e consisteva in una autorizzazione ad esercitarli, per trasmissione. Grazie a questo sistema, la Massoneria universale venne introdotta nella civiltà occidentale e in ogni Paese che l’accolse venne formata una Comunione nazionale, alla quale spesso si affiancarono legittimamente altre Obbedienze. In Italia, la prima Patente di cui si abbia notizia, è quella rilasciata nel 1728 dal Gran Maestro della Premier Grand Lodge, lord Henry Hare di Coleraine, al musicista toscano Xaverio Geminiani per la costituzione di una Loggia a Napoli che prese il titolo di Perfetta Unione. Da quell’epoca in poi, sia pure attraverso la frammentazione in diversi rivoli

e malgrado periodi di stasi e di vita sotterranea, la Massoneria italiana ha conservato continuità e vitalità grazie agli sforzi di iniziati che ne hanno ravvivato la fiamma per trasmetterla fino ai nostri giorni. La Patente massonica si può così considerare fonte primaria dei diritti attribuiti ad una Obbedienza, perché da essa e con essa soltanto, per processo di derivazione, è stata conferita in origine, ad una Comunione di liberi muratori, “sovranità” e potere di autoregolamentazione. Con questo non si vogliono peraltro giustificare i canoni della Massoneria anglosassone, secondo i quali spetterebbe alla Gran Loggia Madre d’Inghilterra giudicare della “regolarità” o meno delle Obbedienze. Il fatto che la Massoneria moderna sia nata in Inghilterra e di lì si sia diffusa in tutto il Mondo non attribuisce priorità perpetua alla Massoneria di quel Paese, in quanto il compito di propagazione del messaggio massonico si è esaurito con l’attribuzione delle prime Patenti nel corso del XVIII Secolo. Il filone iniziatico ha poi seguito il suo corso autonomamente, non solo a prescindere dalla influenza inglese, ma addirittura recuperando in altre aree d’influenza, come il Bacino del Mediterraneo, altre tradizioni iniziatiche della Massoneria Antica, depositate in alcuni Gradi superiori. Ciò che conta, per potere parlare di Massoneria, e per riconoscere in un’associazione il carattere di Comunione iniziatica, è il valore intrinseco rivelato dalla qualità dei suoi Lavori ed il rispetto dei principi fondamentali consegnati dalla Tradizione Muratoria. Il Gran Maestro della Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. Giovanni Ghinazzi, era solito affermare al riguardo che la “regolarità” di una Obbedienza si esprime nel rispetto delle regole che la medesima si è data. Il rilascio di Patenti continua ad essere un sistema di trasmissione di poteri iniziatici in uso all’interno delle Obbedienze. Attualmente è riservato al Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro, il quale le rilascia alle costituende Logge per conferire i poteri di lavorare massonicamente e di iniziare ai primi tre gradi della Massoneria blu.

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Diritto Le fonti tradizionali La Massoneria moderna si è consolidata su principi generali affidati a jus scriptum e a jus non scriptum, un insieme di dettami valevoli per tutte le Comunioni iniziatiche muratorie. Si tratta di principi e precetti assistiti da un alto grado di autorevolezza, per la semplice considerazione che la loro enunciazione, quanto più è risalente tanto più si avvicina alla sorgente di conoscenza alla quale i Padri fondatori della Massoneria hanno attinto. Gli statuti e i rituali del Supremo Consiglio d’Italia e della Gran Loggia d’Italia menzionano, come fonti ispiratrici alle quali adeguarsi, gli Antichi regolamenti del 1762, le Grandi Costituzioni attribuite a Federico II di Prussia del 1786, i principi tradizionali enunciati al Convegno di Losanna del 1875, le Costituzioni di Anderson del 1723 e 1738 e infine i cosiddetti Landmarks, che sono all’origine delle più accese dispute tra storici e studiosi della Massoneria. Nel 1721 la Gran Loggia d’Inghilterra incaricava il reverendo James Anderson di rivedere e adeguare le antiche costituzioni gotiche. Sottoposta al vaglio di una Commissione e approvata dalla Gran Loggia, l’opera veniva pubblicata nel 1723. Si ritiene che il testo abbia risentito della influenza di un dotto massone, John Desaguliers, Gran Maestro dal 1719 al 1721. Nel 1738 veniva pubblicata una seconda edizione delle Costituzioni, diversa dalla prima per l’inserimento di vari emendamenti. Il testo è considerato la “carta fondamentale” della Massoneria, in quanto contiene gli Old Charges, Antichi Doveri ai quali si devono conformare tutti i Liberi Muratori. I punti di maggior rilievo sono i primi tre, che danno indicazioni sulle principali materie con le quali si deve confrontare la coscienza dell’iniziato: la religione, la politica, la Massoneria. Quanto alla religione le Costituzioni affermano che un Muratore, se intende rettamente l’Arte, non sarà mai un ateo stupido né un libertino irreligioso. In politica confermano il “lealismo massonico” prescrivendo che il Muratore sia pacifico suddito dei poteri civili, ovunque risieda o lavori, e che non sia mai coinvolto in conflitti o cospirazioni contro la pace e il benessere della Nazione. In Massoneria

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indicano la Loggia come il luogo dove i Muratori si raccolgono ed operano; essi sono obbligati a farne parte e ad osservarne le norme ed i regolamenti generali. Dettano infine le condizioni per essere ammessi: “I candidati devono essere non schiavi, non donne, non uomini immorali o scandalosi, ma di buona reputazione”. Negli Antichi Doveri, e particolarmente in questa ultima prescrizione, si rivela fondamentale l’opera di epurazione che deve compiere l’interprete, per separare nella lettura della norma le incrostazioni sociologiche, dovute a contingenze storicoambientali, dal nucleo essenziale portatore di un insegnamento antico ed universale, che va salvaguardato perché tuttora attuale. Purtroppo l’interpretazione di una parte consistente della Massoneria, ancorata a schemi dogmatici, è rigida e non va oltre il senso letterale di queste prescrizioni. Anzi, nel tempo li ha fatti coincidere con i landmarks, ponendoli come limite invalicabile, oltre il quale non esisterebbe vera Massoneria, e quindi discrimine tra Obbedienze “regolari” e “irregolari”. Su questo aspetto nodale della vincolatività ed attualità delle norme in esame, occorre svolgere alcune riflessioni. E’ vero che nelle Costituzioni di Anderson si parla, e per la prima volta nella letteratura massonica, di “antichi landmarks”, ma in realtà il richiamo è generico e non se ne precisa il contenuto. Molti massoni e studiosi di Massoneria si sono impegnati nella individuazione di tali principi, ma senza raggiungere risultati uniformi e condivisi. Uno dei più accreditati giuristi massoni, Roscoe Pound, nel 1919 ne indica solo sette e con l’ultimo ripropone la discriminazione degli Old Charges, epurata dell’ormai inattuale divieto rivolto agli schiavi. Il settimo landmark secondo Pound recita “il Massone deve essere un maschio adulto, nato libero”. Insiste quindi nell’escludere le donne. Gli autori inglesi, interpreti della impostazione dogmatica della Massoneria, di tradizione britannica, definiscono come si è detto i landmarks limiti invalicabili, superando i quali si cade nella nonMassoneria, ovvero nella profanità. Ciò attribuisce


Diritto l’esclusiva dei riconoscimenti alla Gran Loggia Madre, che nel 1929 -a conferma del monopolio di questa prerogativa- codificava nei Basic Principles for Grand Lodge Recognition il principio di ‘‘regolarità di origine” delle Obbedienze. Ma un’analisi attenta può facilmente portare alla conclusione che si sia eccessivamente enfatizzato il valore dei landmarks e che alla lunga, dei principi da intepretare si sono trasformati in luoghi comuni e per molte Obbedienze in dogmi incrollabili. La opinabilità di tale impostazione risiede non solo nella obiettiva incertezza delle regole da collocare in questi contenitori, ma nello stesso significato che si è voluto attribuire al termine landmark, in maniera probabilmente non appropriata. La parola landmark nella lingua inglese corrisponde a tre diverse accezioni: punto di riferimento, pietra miliare, segno di confine tra fondi rustici. Qualunque dei tre significati si voglia attribuire all’uso della parola che ne fa la Massoneria, si possono ricavare interpretazioni difformi da quella consolidata ad opera dei commentatori “dogmatici”. Se per landmark si intende “punto di riferimento”, esso non rappresenta altro che una guida, un principio rigido solo nella sua essenza, da interpretare, ma non nella forma letterale della sua enunciazione. “Pietra miliare” significa parimenti punto di riferimento, non già limite invalicabile. I cippi lapidei collocati in epoca romana lungo le grandi strade, indicavano infatti la distanza progressiva, in miglia, dal punto di partenza, cioè da Roma; servivano quindi da orientamento circa il luogo in cui ci si trovava e, in senso figurato, rappresentano uno strumento che aiuta il viaggiatore a non perdersi. E quandanche si accogliesse il terzo significato di “confine tra fondi rustici”, le ragioni critiche non verrebbero meno. In tal caso landmark non è parola espressiva della invalicabilità, che sarebbe meglio descritta dall’idea di muro o di recinto protettivo, ma piuttosto segno di distinzione fra il “mio” e il “tuo”. Il che, ancora una volta, piuttosto che evocare il concetto di intangibilità, sta a significare l’individuazione di due distinti territori o ambiti, che in senso simbolico potrebbero rappresentare la dicotomia bene/male, virtù/vizio,

in altri termini potrebbero avere la funzione di fornire uno strumento di discernimento della verità e nello stesso tempo una guida per ricercare la propria morale. Nulla a che veder quindi con la rigida e pedissequa interpretazione che confonde la lettera con lo spirito della norma e che conduce a vere e proprie aberrazioni contrarie ai principi della Libera Muratoria, come quella di negare la iniziabilità della donna. Se si riporta l’enunciazione del terzo degli Old Charges al contesto storico di inizio del XVIII Secolo, quando cioè nessun diritto era accordato alla donna, si comprende facilmente perché l’altra metà del cielo fosse equiparata agli schiavi ed esclusa dalla Società dei Liberi Muratori. In seguito taluni interpreti si sono sforzati di trovare in tale esclusione una ragione esoterica, ma con scarso successo; a parte la opinabilità dei loro argomenti, la limitazione appare molto chiaramente e semplicemente, senza che sia necessario ricorrere ad elucubrazioni,come il riflesso di una discriminazione sociale basata sul sesso che, a distanza di tre Secoli, per fortuna è del tutto superata. Gli Statuti Il diritto positivo della Massoneria è un insieme di norme scritte di immediata applicazione, tra le quali risultano fondamentali gli statuti che disciplinano in maniera completa la struttura delle Obbedienze e le relazioni interne, fissando diritti e doveri degli adepti. La Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. ed il Supremo Consiglio d’Italia coesistono come Corpi separati, con giurisdizione, rispettivamente, sui primi tre gradi dell’Ordine e sui gradi dal 4° al 33° del Rito Scozzese. Sono tuttavia legati da un vertice unico rappresentato dal Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro, che garantisce unicità di indirizzi e una continuità iniziatica che parte dal grado di apprendista e si sviluppa fino al 33° grado. Vigono due distinti Statuti, quello del Supremo Consiglio d’Italia del Rito Scozzese Antico ed Accettato e quello della Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M., ma l’Ordine che amministra i primi tre gradi, denominato Massoneria blu, è retto altresì da una

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Diritto fonte normativa storica a carattere generale che contiene norme applicabili a tutte le Comunioni massoniche e non specificatamente alla Gran Loggia d’Italia, i cui aspetti peculiari vengono disciplinati, come detto, separatamente. Ci si riferisce agli Statuti Generali della Società dei Liberi Muratori, pubblicati a Napoli nel 1820 e tuttora in vigore, contenenti ben 479 articoli, oltre al preambolo, ed emendamenti ed aggiunte ratificate dalla Gran Loggia d’Italia. Curioso che questo Statuto sia stato redatto proprio nel 1820, in un’epoca cioè particolarmente critica per la Massoneria, all’indomani della Restaurazione e quindi in un clima politico poco favorevole alle libertà. Va osservato però che nel 1820 Napoli era il centro della Carboneria italiana, collegata con tutta probabilità con la Massoneria Scozzese che aveva curato la pubblicazione e che i moti rivoluzionari scoppiati nello stesso anno in Campania erano riusciti a “strappare” al Re Borbone Ferdinando IV, la Costituzione, con il sostegno di una figura influente, il Generale Guglielmo Pepe, che era anche capo spirituale della Carboneria. La ventata di libertà, peraltro durata solo pochi mesi, favorì sicuramente il ricompattamento dei Massoni napoletani e la riorganizzazione delle Logge, anche dal punto di vista normativo. Una sezione a parte degli statuti è dedicata alla giustizia massonica, che comprende la indicazione delle colpe distinte per gravità, le corrispondenti sanzioni fino a quella estrema della radiazione, il procedimento istruttorio da seguire per accertare la colpevolezza e infine le regole del giudizio. I Regolamenti Fonti normative secondarie rispetto agli statuti possono essere considerati i regolamenti, che hanno la funzione di disciplinare specifici settori dell’attività associativa. Secondarie perché sono emanate in forza di una previsione degli stessi statuti e nel pieno rispetto dei medesimi. Loro caratteristica è dunque la specialità rispetto alle norme primarie e la normativa di dettaglio di materie delle quali non potrebbe occuparsi una norma generale. La tipologia dei regolamenti massonici adottati dalla

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Gran Loggia d’Italia varia secondo la loro estensione: quelli che riguardano l’intera Comunione, come ad esempio i regolamenti elettorali che descrivono modalità e procedure da seguire in occasione del rinnovo delle Cariche nazionali e quelli che invece si riferiscono a singoli Corpi rituali della Comunione. Sia lo Statuto del Supremo Consiglio sia quello della Gran Loggia prevede infatti che le Camere del Rito e le Logge abbiano facoltà di dotarsi di un regolamento interno, che viene deliberato dai Fratelli e Sorelle che ne fanno parte ed approvato dalle competenti Autorità superiori. Questi regolamenti disciplinano aspetti pratici del lavoro massonico, sia procedimentali che comportamentali, e vincolano i soli componenti della Camera o della Loggia. Balaustre e Decreti Il Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro, Vertice dei due Corpi, Gran Loggia d’Italia e Supremo Consiglio d’Italia,ne è organo esecutivo e in tale qualità governa e amministra rispettivamente le Camere di ogni livello (nazionali, regionali, provinciali e circondariali) e le Logge della Comunione. Il potere che gli viene conferito ogni tre anni per elezione dalla Grande Assemblea Mista viene esercitato, sul piano normativo, attraverso Decreti e Balaustre. I primi sono provvedimenti adottati per situazioni specifiche, i secondi hanno invece portata generale, si rivolgono cioè a tutti i membri della Comunione e possono avere contenuto normativo nei limiti consentiti dagli statuti. Il più delle volte rivestono carattere interpretativo di principi e norme esistenti o di indirizzo riguardo ai comportamenti degli associati. L’insieme dei Decreti e delle Balaustre entrano a far parte dell’ordinamento massonico e sopravvivono al rinnovo della carica del Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro, di guisa che per modificarli o rimuoverli occorre un apposito provvedimento abrogativo. Nello stesso tempo formano una sorta di giurisprudenza massonica, assumendo il valore di precedente al quale si deve conformare la decisione su uno stesso caso. Nel Rito il Sovrano Gran Com-


Diritto mendatore Gran Maestro è dotato anche di potere di supplenza del Supremo Consiglio quando questo non è riunito, ma i suoi atti sono soggetti a revisione a maggioranza dei quattro quinti dei votanti. Le relazioni esterne 1) Con lo Stato Fin qui si è trattato della disciplina interna di una Comunione massonica. Per un quadro completo del diritto massonico occorre però considerare che la Gran Loggia d’Italia, come ogni altra Obbedienza, nello svolgimento della sua attività e per la realizzazione dei fini istituzionali, entra in contatto con organizzazioni ad essa estranee. Anzitutto con l’ordinamento giuridico italiano, in tutte le sue complesse articolazioni e comandi. L’atteggiamento della Massoneria verso lo Stato è, com’è noto e come si è ribadito innanzi, di assoluto lealismo. Per averne conferma basta considerare che nelle Agapi il primo brindisi è dedicato al Capo dello Stato, nei giuramenti di ammissione il neofita promette solennemente ossequio alle leggi. Sulla posizione giuridica della Gran Loggia d’Italia, in quanto associazione, si dirà diffusamente in seguito. In questa sede va comunque segnalata la difficoltà di una Istituzione a carattere iniziatico e morale qual’è la Massoneria, di interagire con i soggetti pubblici e privati con i quali si entra continuamente ed inevitabilmente in rapporto e con i quali si instaurano relazioni giuridiche regolate da norme. Per superare questo ostacolo la Gran Loggia d’Italia, fin dal 1968, si è dotata di una “interfaccia”, l’associazione denominata Centro Sociologico Italiano, che è la denominazione di rilevanza esterna della medesima Gran Loggia in quanto corrisponde alla struttura massonica, pur essendo dotata di caratteri associativi più adatti alla esigenza di adeguamento alle leggi dello Stato. 2) Con le Obbedienze estere L’altro contatto esterno, particolarmente rilevante perché attinente all’attività istituzionale della Gran Loggia, proiettata verso la realizzazione dell’ideale di una Massoneria universale, è quello con le

Obbedienze estere di tutto il Mondo. La Gran Loggia d’Italia coltiva rapporti con più di cento Obbedienze sparse nei vari Continenti. Le relazioni sono improntate al rispetto della sovranità di ciascuna Obbedienza e comportano scambi di considerazione e stima fraterna su un piano diplomatico di assoluta parità. Quando la conoscenza reciproca conferma che tra le due Obbedienze sussiste affinità e comunanza di obiettivi, la relazione si può trasformare in vero e proprio patto di amicizia e cooperazione che, sul piano giuridico, viene consacrato in un accordo internazionale denominato “Trattato”, formato da specifiche norme in base alle quali vengono regolati i futuri rapporti e che viene sottoscritto in occasioni solenni dai Gran Maestri delle Giurisdizioni massoniche stipulanti. La Gran Loggia d’Italia è inoltre associata ad Organismi internazionali che raggruppano diverse Obbedienze (tra le principali: CLIPSAS, Unione Massonica del Mediterraneo, Alti Gradi Scozzesi) che sono retti da Statuti, come nel caso del CLIPSAS, da un Protocollo di fondazione e da un regolamento nel caso dell’Unione Massonica del Mediterraneo, da una semplice prassi ultraquarantennale nel caso degli Alti Gradi Scozzesi. Tali norme sono vincolanti per tutte le Giurisdizioni massoniche che fanno parte del Sodalizio. In occasione dei periodici incontri organizzati a rotazione in vari Paesi del Mondo, i numerosi partecipanti, che rappresentano la Massoneria mondiale di schema liberale, adottano risoluzioni o sottoscrivono Dichiarazioni nelle quali sono sintetizzati i risultati dei lavori e gli orientamenti comuni emersi. Tali documenti, di particolare rilevanza, entrano nel diritto massonico in forma di principi non vincolanti, ma tali da indirizzare l’attività delle Obbedienze firmatarie e di tutte le altre che si riconoscono in tali enunciazioni e intendono uniformarvisi.

P.12: Illustrazione da ‘Les douze dames de rhétorique’, Jean Robertet, Georges Chastellain, and Jean de Montferrant, Flanders, Bruges, 1467-1468. In questa immagine è l’Eloquenza, dipinta dal maestro Antonio di Borgogna.

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e grandi ricorrenze invitano a tracciare bilanci con distacco critico. Il bicentenario della rivoluzione francese pareva fosse un’occasione d’oro anche per l’Italia, per il profondo e continuo coinvolgimento nei mutamenti generati a Parigi, Lione, Marsiglia e rimbalzativi da Oltralpe. Invece nei vent’anni dal 1989 a oggi, a parte molti convegni (non sempre tradotti in Atti) gli studi sulla storia della Massoneria nostrana fra rivoluzione francese, età napoleonica e restaurazione hanno segnato il passo. Non è comparsa alcuna monografia davvero innovativa. Non è stato pubblicato neppure un repertorio esauriente e attendibile delle Logge attive dalle Alpi alla Sicilia, sicché sulla Libera Muratoria di quegli anni si moltiplicano le congetture, con scarsi riferimenti fattuali, e si continuano a mescolare alla rinfusa carbonerie, sette politiche, supposti ‘‘portatori di segreti”, rituali di gradi alti, bassi, con sibillini accenni alla cosiddetta ‘‘religione dei moderni”. Strizzatine d’occhio anziché storia documentata. Ma com’è passato il Bicentenario in Francia? Le grandi ricorrenze, osserviamo, sono importanti non solo per le celebrazioni sul tamburo ma anche, e forse più, per ciò che ne rimane nel tempo. A ridosso dell’Ottantanove la massonologia francese si è divisa come già era accaduto in passato. Daniel Ligou ha negato con forza la consequenziarietà logico-cronologica tra massoneria, “lumi” e rivoluzione; soprattutto, ha ribadito la contraddizione in nuce fra Libera Muratoria e Terrore e ha confutato l’identificazione della Repubblica col giacobinismo. In primo tempo anche Charles Porset denunciò in pagine esemplari l’addebito alla Massoneria del complotto rivoluzionario; successivamente affermò invece che Agostino Barruel, autore dei celebri (o famigerati) Mémoires pour écrire l’historie du jacobinisme, non scrisse a vanvera. Già curatore di una nuova impeccabile edizione della storia della Loggia Neuf soeurs di Louis Amiable, il voltairriano Porset abbozzò che le arrières loges non erano affatto un’invenzione strampalata: andavano anzi considerate un vanto dalla Libera Muratoria perché in effetti costituivano il filo rosso per capire la lotta secolare contro l’ infame. L’eredità della Grande Rivoluzione, sintetizzata dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, è però stata fatta

propria da un ventaglio così ampio e autorevole di istituzioni (inclusa la Chiesa cattolica per bocca di papa Giovanni Paolo I) da depotenziare qualsiasi rivendicazione di primogenitura: proprio perché bene o male, tardivamente o meno, è divenuto patrimonio universalmente condiviso, anche il celebre trinomio libertàuguaglianza-fraternità ha perduto di specificità e di valenza propria. Si è ridotto a una sorta di carta per regali, nella quale ciascuno ha avvolto quel che gli torna comodo. Ora però la storiografia dovrà fare i conti con il Livre noir de la Révolution française, curato dal domenicano Renaud Escande (Parigi, Cerf, 2008, pp.882), che si vale di molti specialisti di prestigio e, ciò che più conta, preparati e originali. Paradossalmente la Massoneria riceve, per così dire, giustizia da un’opera che non nasce affatto dal suo interno e i cui autori non

nutrono molta simpatia nei suoi confronti. Sulla traccia di François Furet il poderoso volume distingue nettamente la prima stagione della Rivoluzione (1788-giugno 1789) come rifiuto dell’assolutismo monarchico, fondato sul privilegio, dalla seconda fase, che instaurò un assolutismo ancora più intransigente del precedente, basato sulla ideologia e sulla riduzione dell’uomo a stampino dello Stato. Nel bicentenario dell’età napoleonica, che corre via nell’indifferenza quasi generale di qua delle Alpi, in Francia si moltiplicano gli studi sui suoi pilastri portanti e sul suo durevole retaggio: anzitutto i Codici, le riforme dell’amministrazione pubblica, il Concordato con la Chiesa cattolica (che resse anche al duro conflitto dell’Imperatore contro Pio VII quale sovrano temporale), la promozione di scienza e istruzione quale fondamento della società civile, e

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Storia l’avvio, nella norma e nella prassi, della cittadinanza. Il formidabile Dictionnaire Napoléon diretto da Jean Tulard (Paris, Fayard,1987) rivela la sua fecondità con la miriade di volumi, saggi, articoli eruditi pubblicati nei vent’anni dalla sua comparsa: sulla loro base nel 2014-15 sarà possibile trarre un bilancio sereno del ventennio segnato dall’ “uom fatale”. In Italia siamo invece intenti a esaltare le “insorgenze” clerico-reazionarie quale rivelazione dell’ “identità nazionale” e, con sorprendente confusione di eventi e di ideali, movimenti quali il “Viva Maria!” e l’esercito della Santa Fede di Fabrizio Ruffo vengono elevati a prima grande “guerra di liberazione”, mentre la guerriglia degli spagnoli contro Giuseppe I e l’occupazione francese, sorretta dalla Gran Bretagna, cioè una guerra nazionale e liberale viene confusa con la rivendicazione dell’assolutismo clericale cattolico, fondato sull’iperdulia mariana e culti barbarici (per esempio quello dei “santi”, elevati a feticci). La massonologia d’Oltralpe si è misurata con rigore e vigore su altri territori che hanno richiesto e richiedono di fare i conti con molti miti dell’Istituzione. In primo luogo il ruolo della Carboneria. Fra le molte importanti opere recenti merita speciale attenzione Franc-maçonnerie et sociétés secrètes contre Napoléon. Naissance de la nation allemande di Gérard Hertault e Abel Douay (Nouveau Monde ed.-Fondation Napoléon, Malesherbes, 2005). Sulla scorta di vastissima esplorazione archivistica e di intelligente riesumazione di documenti pubblicati oltre un secolo addietro ma poi caduti nell’ oblio, il volume mostra a luce meridiana le connessioni tra la Massoneria e la Tugenbund, fra l’azione politicomilitare (e terroristica) dei settari e la filosofia soggiacente alla nascita della nazione germanica: quella di Fichte e di Krause, senza i quali non si comprenderebbe l’opera di statisti e militari della “Società Anarchica” di Berlino, trasfusa nella Deutsche Bund e fucina della Grande Germania cresciuta dalla reazione alla sconfitta di Jena sino al 1945 (e oltre). Esemplari sono i capitoli sugli attentati di Frédéric Staps, Ernest von der Sahala e decine di altri alla vita di quel Napoleone (che dichiarava di non temere i complotti politici sibbene i pazzi). L’Ordine imperiale, il suo rifiuto e le conseguenze di lungo periodo di quel conflitto radicale e incomponibile

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unto di forza degli studi massonici in Francia sono le biblioteche e gli archivi delle istituzioni liberomuratorie dell’Esagono, la preparazione e l’operatività di chi le dirige. Per motivi storici e ampiezza di dotazioni, primeggia quella del Grande Oriente di Francia. Forte di una ricca raccolta di riviste, libri antichi e rari, manoscritti e cimeli essa ospita fra altro, i grembiulini in parte esposti in Francia e all’estero in mostre accompagnate da catalogo: occasione di significativi incontri di studio, mentre è in allestimento un Museo destinato a fare da termine di paragone. Tra i fondi in corso di sistemazione nell’Archivio del Grande Oriente di Francia spiccano le carte nel 1940 sequestrate nella sede di rue Cadet 16 dalle SS di Hitler, trasferite in Germania, lì catturate dai servizi dell’URSS al crollo del Terzo Reich, trasferite in Russia e restituite ai legittimi proprietari solo dopo la caduta del regime comunista e la dissoluzione dell’URSS. Forse meno rilevanti di quanto a lungo supposto o fantasticato (nella primavera del 1940 il Grande Oriente ebbe il tempo di capire che cosa stava per accadere e... dovette pur lasciare qualcosa), quei fondi costituiscono comunque un importante termine di riferimento per la ricerca futura. Non va dimenticato che una parte dei documenti e dei cimeli sottratti al GOF servirono a Bernard Fay per la celebre mostra antimassonica. Nessuno studioso è mai rimasto deluso dal tempo trascorso alla Biblioteca e al Museo del Grande Oriente di Francia, anche perché vi si incontra una studiosa di fama internazionale, Irène Mainguy, alla quale si debbono opere fondamentali, quali Symbolyque des Grades

de Perfection et des Ordres de Sagesse (Dervy,2003), tradotto in italiano al pari di Simbolica massonica del Terzo Millennio (Roma, Mediterranee, 2004), Simbolica dei capitoli della massoneria. Rito Scozzese antico e accettato e rito francese e l’imminente Simbolica degli utensili e glorificazione del mestiere, presentato a Roma nei mesi scorsi. Irène Mainguy non necessita presentazioni né di elogi oltre quanto ne scrisse Michel Brodsky, past Grande Assistente Direttore delle cerimonie della Gran Loggia Unita d’Inghilterra, che sottolinea la ricchezza dell’apparato iconografico, la chiarezza del dettato e, aggiungiamo, il pregio delle tavole sinottiche che sintetizzano l’esposizione sistematica. Anche nel suo caso va detto che “se non fosse chiara non sarebbe francese”. Mainguy non si rifugia mai in formule vaghe per nascondere il proprio pensiero e, peggio, incertezze interpretative. Si basa su documenti, li esamina, ne trae gli elementi di certezza e inquadra ogni dettaglio in un universo di straordinaria ampiezza informativa e fa rimpiangere il tempo perduto su altri testi, frutto di faticosa improvvisazione. Le opere di Mainguy rendono omaggio a studiosi senza pregiudizio di epoche, nazionalità e ascrizione obbedienziale: Jean Baylot, Paul Naudon, Hervé Vigier, a tacere dei Tuileurs di de Grasse-Tilly, di Jean-Marie Ragon e altri classici. Da vero massone, insomma. La sua opera conferma come la Massoneria sia scuola iniziatica che si avvale del linguaggio dei simboli. Piace accostarne la persona all’inarrivabile classe di M.me Florence de Lussy, conservatrice dei Fondi Manoscritti della Biblioteca Nazionale di Parigi, nei cui confronti il debito degli studiosi di storia della Massoneria rimarrà impagabile.


si riverberano sulla storia odierna. La corresponsabilità con la Rivoluzione dell’Ottantanove, con i suoi torbidi sviluppi, e la compromissione con l’Impero del “Fratello Napoleone”, di cui ha scritto l’insuperato François Collaveri, sono solo due tra i rovelli della massonologia francese. Alle spalle vi è la complessa nascita del Grande Oriente, il tradimento di Filippo d’Orléans (un “mito negativo” sempre imbarazzante), la condotta di tanti autorevoli massoni nel voto che decise la sorte di Luigi XVI... La “Rivoluzione” è una sfida continua per la storia della Massoneria in Francia. La sintesi sua più valida è il succoso saggio di André Combes sui Trois siècles de FrancMaçonnerie en France (Paris, Edimaf), nato

per la Bastogi in parallelo con il profilo della Massoneria in Spagna di José A. Ferrer Benimeli. Vi si ricordano che dopo il crollo di Napoleone Gran Maestro del Grande Oriente rimase suo fratello maggiore, Giuseppe, già re di Napoli e poi di Spagna; la prudenza delle Logge dinnanzi alla Seconda Repubblica (1848); il convinto sostegno nei confronti di Luigi Napoleone, principe-presidente, nell’instaurazione del Secondo Impero; l’ostilità nei suoi riguardi da parte di ambienti non del tutto estranei alla Libera Muratoria (fu il caso di Victor Hugo, della sinistra democratica, dei protosocialisti). A ben vedere la Rivoluzione è però anche altro: una sorta di paradigma, con il quale la Massoneria francese ha fatto

Storia i conti nel corso degli eventi e che suscita lancinanti rovelli negli studiosi. Del resto, se vuole essere consustanziale alla storia del Paese, l’Istituzione deve mettersi in discussione sui passaggi fondamentali, anche quando amarissimi. E’ il caso della Commune del 1871. Bonapartista sino a pochi mesi prima, repubblicano e borghese (come poi si rivelerà nel secolo e mezzo seguente), il Grande Oriente di Francia scese sulle barricate a fianco dei comunardi e ne assunse la difesa d’ufficio dinnanzi alla storia, anche se poi si schierò a sostegno delle istituzioni che ne segnarono la durissima sorte. Al riguardo ha scritto pagine fondamentali André Combes nell’ormai

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Storia classica Histoire de la Franc-maçonnerie au XIX siècle (Paris,Ed.du Rocher, voll.2, 1998-1999). Pilastro portante di ‘‘Marianne’’ dagli Anni Settanta alla Grande Guerra, quando si disse che la Massoneria era la Repubblica al coperto e la Repubblica era il Grande Oriente alla luce del sole, la Libera Muratoria francese svolse un ruolo centrale nella costruzione dell’impero coloniale, incardinato sulla macchina burocratica e sulle Forze Armate, con tutti i condizionamenti connessi, inclusa la prudenza tenuta per almeno cinque anni a cospetto dell’ “affaire Dreyfus”: un nodo al quale la città di Muhlouse ha dedicato dieci convegni e altrettanti volumi, con

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la partecipazione dell’allora Gran Maestro Ragache. Da tempo, del resto, la Massoneria era investita dall’uragano di accuse lanciate da Léo Taxil (sempre in attesa di uno studio per gl’italofoni) e cercava di non farsi identificare con le altre minoranze “antinazionali”: socialisti, ebrei, “ugonotti” (o “protestanti” in genere). Appena scampata al rischio del conflitto con la Gran Bretagna per gli spazi extraeuropei da colonizzare e alla deflagrazione sul “caso Dreyfus” con la presidenza Loubet e il governo di Emile Combes la Repubblica si impelagò nelle leggi anticlericali, che determinarono la rottura dei rapporti diplomatici tra Parigi e la Santa Sede, e in una nuova lacerazione culturale

e sociale resa via via più drammatica dalla consapevolezza che ormai l’Europa si avviava a una nuova guerra generale, la cui genesi è stata tante volte indagata ma rimane per molti aspetti oscura. Gli anni d’inizio secolo per la Massoneria rimasero legati allo scandalo della schedatura degli ufficiali segretamente ordinata dal ministero della Guerra al Grande Oriente, che provvide a “intercettare” stato civile, costumi, abitudini dei militari, con speciale attenzione sull’osservanza di pratiche religiose. Un arbitrio e un errore culturale colossale, tutt’oggi fonte di grave imbarazzo. A differenza di quella nostrana, che tuttora ha evitato di misurarsi con la fatua “mozione Bissolati” tesa a vietare l’insegnamento della religione cattolica nella scuola elementare, la massonologia d’Oltralpe ha esaminato origine e conseguenze del Grand Exil des Congrégations religieuses françaises,1901-1914 (Paris, Cerf, 2005): una coraggiosa raccolta di studi curata da Jean-Dominique Durand, già consigliere d’Ambasciata di Francia in Vaticano, e Patrick Cabanel, membro dell’Institut universitarie de France, espressione di un laicismo senza fanatismi e che gli studiosi ricordano relatore quindici anni orsono al convegno internazionale su Stato e chiesa in Italia, Francia, Belgio e Spagna (CuneoMondovì-Savigliano). La “cacciata” dei congregazionisti dette effimera soddisfazione agli anticlericali “duri e puri”, ma impoverì la Francia di circa 33-35.000 “ecclesiastici” che si aggiunsero ai 30.000 émigrés sotto l’impeto della Rivoluzione: a tutto beneficio (per così dire) di Spagna (7.000), Svizzera (6.000), Germania (5.000), Italia (5.000), Gran Bretagna...: con quale vero vantaggio per la Terza Repubblica poi indotta a proclamare beata Giovanna d’Arco e a santificarla a garanzia della riannessione di Alsazia e Lorena dopo l’inutile strage della Grande Guerra?


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La massonologia francese ha affrontato anche i tornanti più impervi della storia. Valga d’esempio il corposo volume di André Combes La Franc-Maçonnerie sous l’Occupation (Paris. Ed. du Rocher, 2001, pp.420): un saggio pacato ed equilibrato, sorretto da corposa bibliografia e da fondi archivistici prima inesplorati. La ricchezza degli studi di storia della Massoneria oltralpe si spiega con tre prerequisiti fondamentali. In primo luogo, al di là di dissensi su quistioni circoscritte e sempre contenute in termini governabili, le Grandi Comunità (o Obbedienze) sanno convergere negli obiettivi fondamentali, a cominciare dalla salvaguardia dell’immagine dell’Ordine di fronte alla Repubblica. Per quanti scandali si volessero oggi attizzare non sarebbero più possibili, perché non credibili, i Barruel, Taxil Fay, MarquèsRivière... Un nuovo “affaire Stavisky” lascerebbe fredda l’opinione pubblica. In

secondo luogo le Grandi Obbedienze pubblicano riviste scientifiche accreditate, promuovono dibattiti, intervengono con misura sui grandi temi al centro del dibattito civile senza indulgenze faziose. Infine esse sono dotate di biblioteche, archivi e centri studio messi al riparo dal vento di cambi di grandi maestri e alti dignitari. La storia è considerata un tempio al di sopra dei tempi e chi la coltiva è lasciato libero di ricercare e pubblicare. Valgano d’esempio, accanto a riviste quali “Chaine d’Union” e “Humanisme”, i quaderni “Chroniques d’Histoire Maçonnique”, pubblicati dall’Istituto di studi e ricerche massoniche, al quale collaborano studiosi di varie Obbedienze o iniziati chissà dove ma sempre attivi “sotto la volta celeste”. E’ in quel clima di fervore e di rigore che si possono sviluppare confronti come quelli promossi da Paul Pistre da vent’anni autore della “Lettre aux catholiques amis

des maçons” (già promotore dei colloqui Incroyence-Foy: Tolosa, rue Bernardbeig 7). Su quelle basi, ha dichiarato il Gran Maestro del Grande Oriente di Francia Pierre Lambicchi all’insediamento, la massoneria continuerà a irradiare e a fecondare nella società. La Libera Muratoria, ha affermato, ha necessità di comunicare: ma può farlo se è consapevole della propria storia e se realizza per sé e per tutti quell’ “operazione verità” che libera dagli errori del passato (chi non ne ha commessi?) e consente di affrontare le severe prove del tempo presente.

P.20: Napoleone ritratto da J.L.David nel 1812; p.21: Un manifesto rivoluzionario; p.22: Un interno della Biblioteca Nazionale di Parigi; p.23: Gargoyle, Parigi (foto P.Del Freo); p.24: Il ‘J’Accuse’ di Zola; p.25: Cattedrale di Reims, monumento a Giovanna d’Arco.

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iciamoci la verità: pochi argomenti sono così ostici come la dottrina gnostica per chi, pieno di lodevoli propositi, si impegna nello studio delle culture iniziatiche. Una delle principali difficoltà di questo argomento è il fatto che lo gnosticismo non è affatto un fenomeno unitario. Le sue radici sono varie: vi confluisce la tradizione misterica, l’ermetismo d’origine egiziana, la qabbala, il giudaismo alessandrino... Peraltro le dottrine gnostiche si sviluppano in un arco temporale assai ampio che va da I secolo, sino al IV secolo dopo Cristo, in altre parole esse nascono già a pochi anni dalla morte di Cristo, in un’epoca in cui ancora sono vivi e operano gli apostoli! Ha ragione chi dice che esistono tante gnosi quanti sono stati gli gnostici. E questo non facilita affatto il nostro compito. Come sappiamo, lo gnosticismo parte dal presupposto che la comprensione dei misteri divini è concessa ad una ristretta cerchia d’iniziati, che la conoscenza è un processo individuale e non il frutto di una rivelazione divina, che essa è indipendente dall’esperienza sensibile e che l’uomo saggio deve astrarsi dal mondo

materiale. Ma non è mia intenzione produrre altra carta scritta ai danni del povero malcapitato che si accinge ad affrontare lo spinoso argomento. Piuttosto vorrei esplorare un’altra interpretazione dello gnosticismo, che a me piace più di ogni altra: è un’interpretazione che non ha nulla di storico o di teologico, ma che è esistenziale, che coinvolge la vita, il destino, l’essere stesso dell’uomo nella sua interezza. In altre parole, un’interpretazione psicologica. E’stato detto più volte che dietro ogni gnostico si cela un pessimista. Qualcuno ha coniato anche la definizione di “pessimismo gnostico”. Non vi è niente di più vero. Secondo l’interpretazione psicologica dello gnosticismo, sviluppata soprattutto da Henry-Charles Puech, lo gnostico è, in realtà, un uomo che ha preso coscienza del male di cui è intessuto il mondo e la storia degli uomini e ciò gli provoca un profondo disagio. Egli non si sente di accettare tutto questo: si sente straniero alla logica del mondo che lo circonda, sente di essere “in questo mondo” ma non “di questo mondo”: si sente una sorta di “angelo caduto” che non può che provenire da una realtà diversa da quella che vede e, quasi sempre, subisce. Egli per-

cepisce che “non può essere tutto qui”. Da questa sensazione di grande disagio e insoddisfazione nascono i tre interrogativi centrali dello gnostico: “chi sono, da dove vengo, dove vado?” E la risposta non può che venire da una conoscenza che è spirituale. E la risposta non può venire che dal profondo di sé. Lo gnostico, qualunque sia la sua provenienza e il suo nome, ha cercato di dare una risposta ad un interrogativo centrale lasciato aperto, allora come ora, dalle Sacre Scritture. Il grande interrogativo, quello più drammatico è quello noto con il nome di “teodicea”: il rapporto tra Dio e il male. Gli gnostici si pongono un dilemma centrale: se Dio è infinitamente buono, perché ha creato il male? Perché dobbiamo assistere quotidianamente alla vittoria nel mondo della sofferenza, del dolore, della malattia, della morte inaccettabile di bambini o di innocenti? Come può un’entità infinitamente buona e giusta aver voluto tutto questo? Il termine teodicea è stato introdotto da Leibnitz, ma questi interrogativi, come dicevamo, hanno cominciato ad animare il dibattito teologico già all’indomani della morte di Cristo e sono rimasti sempre degli enigmi. Gli esempi, in ogni

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L’Io tempo, non mancano, e ognuno di noi potrebbe trovarne di nuovi. Il primo novembre 1755, il giorno dei Santi, un tremendo tsunami si abbatte su Lisbona. Un’onda alta sedici metri semina morti e rovina. Tra l’altro, uccide numerosi fedeli riuniti in preghiera nella cattedrale. Due bambini sono schiacciati sotto il crocifisso. Il fratello Voltaire è molto colpito da questo avvenimento e ad esso dedica il Poema sul disastro di Lisbona. “Bisogna ammetterlo” dirà, “il male è sulla terra”. Tutti noi siamo stati peraltro testimoni oculari, attraverso le immagini dei video, dello tsunami del 2004. Si potrebbe anche ricordare l’Olocausto degli ebrei durante la seconda guerra mondiale. Dove era Dio, mentre i bambini più “fortunati” venivano avviati a migliaia nelle camere a gas e i meno fortunati sottoposti a torture in deliranti esperimenti medici? Molti di noi ricordano ne I fratelli Karamazof la ribellione di Ivan a Dio per la sofferenza di un bambino innocente. Il filosofo Hans Jonas ci riporta ad un interrogativo tremendo per la sua centralità e molto intessuto di gnosticismo: se è vero che Dio è onnipotente non è completamente buono, se è buono, allora egli è impotente su questa terra. Non si sfugge. La teodicea è un grande enigma, tuttora al centro delle riflessioni dei teologi, anche se le Chiese sono assai prudenti nel dare pubblicità a questo delicato tema. Gran parte della riflessione gnostica tenta invece di dare una aperta risposta a tale dilemma. Nel 1974 Ernest Becker vince il premio Pulitzer con il libro The denial of death (La negazione della morte). Con quest’opera egli, nei fatti, fonda una nuova corrente della psicanalisi. E’una corrente che ribalta completamente la dottrina freudiana della sessualità e rifonda la psicanalisi sulla base di una teoria unitaria che collega medicina, filosofia e spiritualità. Nello stesso anno della pubblicazione del libro Becker, a soli 50 anni, muore. La teoria psicanalitica dell’autore ha impressionanti analogie con il pensiero gnostico. Secondo Becker, nel corso del suo sviluppo mentale il bambino prende lentamente coscienza del fatto che il suo corpo è fragile: capisce che dovrà provare il dolore, dovrà ammalarsi, soffrire e, soprattutto, di dover dipendere dagli altri. Più in là negli anni si fa strada nella sua mente una drammatica consapevolezza: quella che esiste la morte: il bambino realizza che tutti gli esseri viventi intorno a lui sono destinati all’annullamento: le piante, gli ani-

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mali e anche i suoi familiari, primi fra tutti i più vecchi tra loro. Ma non solo loro. Egli capisce di essere rinchiuso in un corpo abbandonato e inerme, destinato alla stessa fine. Egli giunge poco alla volta alla drammatica consapevolezza che Madre Natura è una divinità brutale che distrugge tutto quello che crea. Ma nello stesso tempo, se non prima della scoperta di vivere all’interno di un corpo condannato a soffrire e a perire, il bambino prende coscienza di possedere un bene prezioso; la sua mente, il suo Io. Egli non è come gli oggetti e gli animali che ha intorno. E’ diverso, migliore, dal resto del mondo che lo circonda. Grazie alla sua mente il bambino può comprendere la realtà in cui vive, può fare mille cose, può dipingere, costruire, persino sfuggire alle punizioni dei genitori. Dentro di lui c’è un ché di divino... E allora, il bambino si chiede: come è possibile che una cosa così nobile e preziosa, come la mia intelligenza, sia racchiusa in un corpo così fragile, così dipendente dai bisogni materiali e dall’aiuto degli altri, senza il quale si è persi? Come è possibile che questo corpo, destinato alla rovina e alla morte debba trascinare con sé, nel baratro, la mia mente, il mio Io? Da questo drammatico contrasto tra la nobiltà di quello che il bambino sente dentro di sé e la fragilità della materia con cui è costruito il suo corpo nasce, già durante la sua infanzia, la consapevolezza di essere, come dice Becker, “un Dio seduto sul proprio ano”. Questa teoria supera e assorbe in sé la teoria freudiana sulla sessualità: le repressioni che il nostro inconscio esercita sugli istinti sessuali altro non sarebbero che la repressione inconscia di tutto ciò che ci ricorda che siamo, come ogni altro animale, destinati a tre compiti fondamentali: nascere, riprodurci e morire. E allora come fare, quando si arriva a questa consapevolezza? Come riuscire a sostenere il peso di tutta una vita dopo aver fatto la drammatica scoperta che tutta la bellezza, tutta la nobiltà della nostra mente è racchiusa in un corpo corruttibile, destinato inesorabilmente alla morte? “La condizione umana - dice Becker - è un peso troppo grande per essere sostenuto da un animale”. L’unica strada consiste nel trovare il modo di negare la morte, nell’opporsi ad essa, nel contrapporre al progetto universale in cui l’unico nostro ruolo è quello di nascere, riprodursi e togliersi rapidamente di mezzo, un progetto in cui è l’uomo al centro del suo destino. La posta in gioco è altissima: chi non riesce a dare un senso alla propria vita, a


sfuggire quell’ immane tritacarne che è il progetto universale cade, secondo Becker, nell’alienazione, nella malattia mentale. Ma non mi soffermerò sugli aspetti più squisitamente psicanalitici della teoria. I sistemi per difenderci dall’ansia devastante che ci deriva dal terrore della morte sono diversi. E collocati strategicamente su tre livelli. Il primo livello è quello dell’inconscio. Il nostro inconscio ci racconta “preziose bugie” che ci nascondono in ogni momento della nostra vita l’ineluttabile prospettiva della sofferenza e della morte. Una seconda e più complessa linea difensiva è rappresentata dalla società, che fornisce l’opportunità di inserirci in un sistema culturale che ci consente di partecipare a un progetto politico o sociale che durerà nel tempo, oltre la nostra vita e darà un senso ad essa. L’uomo ha di volta in volta ottenuto surrogati di immortalità sacrificando la sua vita per conquistare un impero, per edificare un tempio, per scrivere un libro, per costruire una famiglia, per accumulare una fortuna economica, o per affermare un’ideologia. Ma queste due prime linee di difesa sono fragili: l’inconscia fuga dalla morte ha presto fine quando ci rendiamo inevitabilmente conto che tutto ciò che ci sforziamo di negare e lì, inesorabile, ad attenderci. Anche i progetti “eterni” che la cultura ci fornisce durano assai poco: potremo gridare quanto vogliamo che Dio è dalla nostra parte, dalla parte della nostra religione, della nostra ideologia: ci troveremo ben presto di fronte ai nostri avversari che corrono contro di noi gridando a squarciagola la stessa cosa. E allora, secondo Becker, la terza via, l’unica praticabile, è quella indicata dal filosofo, che Becker considera un grande precursore della psicanalisi: Sören Kierkegaard. E’il ritorno ad una spiritualità, che non è identificabile con una religione positiva, ma che nasce da un rapporto diretto e personale con il Dio. Le teorie psicanalitiche di Becker hanno avuto grande attenzione da parte degli esperti, ma pochissimo successo di pubblico (i suoi libri, per esempio, non sono mai stati tradotti in Italia) ed è facile prevedere che non lo avranno mai perché la sua ricetta è assai amara: bisogna avere il coraggio di “guardare in faccia la morte” senza nasconderla a noi stessi. L’unica reale consolazione ci può venire dal guardare al di là di essa, alla ricerca di un’unione con un Dio che, inevitabilmente, non può condividere le logiche di una Madre Natura che, come dice lui, è “una brutale megera dai denti e dagli artigli rossi di sangue,

L’Io che distrugge tutto quel che crea”. Noi viviamo in un mondo nel quale l’attività quotidiana di ogni essere vivente è quella di “sbranare le altre creature con denti di ogni tipo, masticando e triturando tra i molari carne e ossa, inghiottendole con gusto e bramosia, per poi inglobare l’essenza delle vittime nella propria organizzazione e infine espellendo i residui con gas di immondo fetore”. Dunque il Dio di Becker, il Dio da cui l’uomo può trarre consolazione, è un Dio distinto e contrapposto a Madre Natura. E anche in questo la psicanalisi di Becker ricorda il pensiero gnostico. Infatti, secondo gran parte del pensiero gnostico l’enigma postoci dalla teodicea si può comporre solo se postuliamo la coesistenza di due distinte divinità: una, in definitiva, vittoriosa e maligna, l’altra benigna ma lontana. Ed è sul terreno dualistico che si accendono le costruzioni gnostiche più ardite, se la presenza di due divinità ci consente di interpretare l’esistenza del male, la dinamica tra le due divinità assume i caratteri più diversi: di volta in volta il Dio è un combattente eroico, ma sconfitto dagli arconti malvagi, altre volte è un re fannullone, lontano dal dramma della vita, oppure il Dio del Nuovo Testamento contrapposto a quello del Vecchio, e così via. Le costruzioni gnostiche sono complicate, spesso astruse, a volte francamente incomprensibili. Ma non bisogna mai intenderle in senso letterale: dietro la loro complessa simbologia si nasconde il tentativo di separare nettamente le logiche del mondo materiale, dominato dal dolore e dalla morte, da quelle del mondo dello spirito e dell’Io, categorie in cui possiamo proiettare tutte le nostre speranze e nella cui prospettiva possiamo sentirci dei “liberati in vita”. In definitiva, le nuove e ardite teorie della psicanalisi fanno ritornare di sconcertante attualità il pensiero di questi nostri antichi Fratelli, spesso un così difficili da studiare e da capire. __________________ Bibliografia Henry-Charles Puech. Sulle tracce della gnosi. Milano 2003. Ernest Becker. The denial of death. New York 1997.

P.26: Ali di fuoco, 2005 (foto P.Del Freo); p.27: L’angelo della morte, 2002, acrilico, collez. privata; p.28-29: Affiorare della Morte, 2006, acrilico, collez. privata.

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a vita umana gira instabile come i raggi della ruota di un carro scriveva il poeta greco Anacreonte tra il VI e il V sec.a.C. La ruota infatti è sinonimo di movimento, spostamento, cambiamento e di conseguenza di tutto ciò che è contingente ed effimero. Anzi l’immagine stessa della ruota richiama un insieme di concetti relativi da un lato al tempo ciclico, che si rinnova ad intervalli regolari ritualizzati, dall’altro al mondo materiale e al suo continuo divenire. Raffigurata ovunque fin dall’epoca preistorica, la ruota è spesso stilizzata in un cerchietto con un punto centrale e rappresenta, anche astrologicamente, il sole e, per analogia, l’oro. Si tratta di un motivo universalmente noto impiegato per decorare qualsiasi tipo di materiale, dalla ceramica alla stoffa, dalla pietra ai metalli. Molto frequente è anche la rappresentazione dei raggi in numero di quattro, sei oppure otto. I raggi, legame permanente e implicito tra il molteplice costituito dalla circonferenza e l’Uno evocato dal centro, sottolineano l’analogia della ruota con il sole e contribuiscono a simboleggiare il corso dell’astro diurno oltre che il cammino celeste delle costellazioni. Non è un caso che la ruota, quando è suddivisa in dodici settori, sia stata impiegata a rappresentare lo zodiaco -il cui nome stesso del resto significa “ruota della vita”- e, con esso, il tempo e il calendario.

Riferita alla natura in perenne cambiamento la ruota è immagine del mondo e si può ritenerla simbolo del centro e della sua irradiazione. La circonferenza infatti può essere considerata significativa della materia, mentre il centro, immobile in mezzo al movimento, ne costituisce il principio spirituale e al tempo stesso l’origine. I raggi in questo caso, come elementi di mediazione, si identificano con le vie spirituali grazie alle quali l’essere umano può superare la situazione contingente e molteplice e pervenire alla spiritualità e all’unità passando dal divenire della circonferenza all’essere del centro. Pur essendo il numero dei raggi infinito, in quanto infinite sono le rette che passano per un punto, solitamente se ne vedono rappresentati quattro (le quattro direzioni dello spazio, le stagioni, le età umane, i ritmi quaternari solari e lunari), sei (il doppio ternario, attivo e passivo, che rappresenta l’eterna dualità tra le forze cosmiche), otto (in estremo oriente la ruota dei chakra, ma anche quella del dharma). E’ necessario specificare che le ruote a sei o a otto raggi si evolvono in epoca medievale nella forma stilizzata del fiore. Quella a sei raggi, soprattutto, ha avuto un’enorme fortuna nelle rappresentazioni cristiane in quanto, con qualche lieve modifica, ha originato il monogramma di Cristo, o Chrismòn, formato da due lettere greche, Chi e Ro, intrecciate. In seguito, con la perdita della conoscenza del greco nel mondo latino,

anche questo segno grafico si è evoluto trasformandosi nel “monogramma di Pietro”, simbolo del Papato, con la P (che in realtà è la lettera greca Ro) attraversata da due chiavi incrociate (retaggio della Chi). La ruota a sei raggi insomma ha viaggiato molto lontano nel tempo arrivando fino ai giorni nostri e ai collegamenti in mondovisione. Segno evidente che certi simboli fanno parte di noi. La ruota, comunque la si voglia considerare, si presta a riferimenti sia generali che particolari perché può applicarsi sia alla totalità del mondo sia a un ambito specifico. Ecco alcuni esempi. Come elemento costruttivo la vediamo elevarsi nella cupola, con o senza i raggi rappresentati dalle costolature, e in questo caso è deputata a sovrastare luoghi dove è avvenuta una manifestazione divina o è sepolto il corpo di un martire. Se l’edificio, ogni edificio, tende a rappresentare il mondo, la cupola si riferisce al cielo. Come oggetto sacro la ruota trova la sua realizzazione nel parasole orientale, attributo esclusivo dei sovrani per i quali costituiva la rappresentazione visiva di un tetto a volta, a significare il mondo, di cui il monarca era centro mediatore. Come oggetto quotidiano sta alla base del carro da trasporto, che comunque è solo la versione pratica di tutti i carri divini che scandiscono il tempo celeste, primo tra tutti il carro del sole. È il girare di una ruota cosmica che produce il rinnovamento del mondo, il corso delle stelle e dei pianeti, le

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a màntica, o arte della divinazione, costituisce una delle attività umane più antiche e ambiziose. Essere in grado di comprendere gli eventi prima che accadano, inserirsi nel divenire ciclico individuandone ogni singolo cambiamento, comprendere quale sarà il cammino della ruota costituisce un riepilogo magico estremamente rassicurante perché risponde al bisogno di dominare il tempo. Cicerone nell’opera De Divinatione, divideva le arti mantiche in due categorie: la prima naturale (profetica e allucinatoria), la seconda artistica (che si avvale di uno strumento). In epoca già quasi moderna i Tarocchi costituirono l’intermediario più completo per effettuare questa lettura, alla portata anche di chi non era veggente, sciamano o sacerdote. Benché la loro origine non sia nota, tanto che ne è stata attribuita

alterne vicende della sorte. Da tutto questo nascono i concetti di spazio e di tempo e la necessità di misurarli. Il movimento, vorticoso o regolare, centrifugo o centripeto, può a sua volta essere rappresentato da segni dinamici come la spirale singola o doppia e la svastica, ma è generato da un punto solo, immobile, perfetto, l’Uno da cui tutto trae origine, il principio assoluto di ogni realtà. Il centro è perciò considerato simbolo geometrico della divinità come motore immobile. Dal centro passa l’axis mundi, l’asse del mondo che attraversa ciò che è manifestato per collegarlo con la dimensione ultraterrena. Il cosiddetto “mozzo della ruota” è perciò immaginato nelle mani di un Essere supremo, che tuttavia non sempre è onnisciente e onnipotente. E’ il caso della religione celtica dove la ruota è impugnata da un dio, identificato come Jupiter Taranis cioè “il tonante”, diffusamente effigiato in terrecotte, bronzi e amuleti, spesso a cavallo, mentre calpesta un essere mostruoso dalle estremità serpentiformi, evidente co-protagonista di un mito che ci è rimasto ignoto. Taranis tuttavia non era un dio del cielo, ma proteggeva le vette, le querce e produceva la tempesta. L’immagine della ruota caratterizza la tecnica costruttiva urbana dell’Iran, ispirata

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l’invenzione ai sacerdoti egizi oppure agli Ebrei dopo la distruzione del Tempio ma anche al mondo indù, sembra che l’elaborazione dei Tarocchi sia medievale e comunque successiva al gioco delle carte. Forse create in Cina e utilizzate in Italia a scopo istruttivo per bambini, le carte per il gioco sono citate per la prima volta nel 1299 in un manoscritto senese, il Trattato del governo della famiglia di Pipozzo di Sandro, dove vengono definite naibi, termine derivato dall’arabo nayb a sua volta mutuato dall’indostano, a conferma di un’origine orientale. Ma è nel successivo XIV secolo che le carte da gioco conoscono una certa diffusione come si apprende dalle inevitabili, e documentate, condanne della Chiesa. I Tarocchi sembrano aggiungersi alle carte da gioco solo in un secondo momento, tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo (il Tarocco dei Visconti è del 1415), ad opera degli artisti dell’autunno del

all’idea di sei settori disposti attorno a un settimo centrale, mentre i regni dell’antica Irlanda erano quattro attorno a un quinto nel mezzo, ancora una ruota a sei o a quattro raggi. E’ in ogni caso il mondo classico ad avere ereditato, sottolineandone l’importanza, la concezione dell’immensa ruota astrale che, relativamente al nostro ristretto punto di osservazione terrestre, avvolge la terra e dove scorrono le costellazioni, zodiacali e non. Il punto visivo in apparenza fermo, ma in realtà solo meno in movimento, cioè il polo nord celeste corrispondente alla stella Polaris dell’Orsa Minore, fu quindi identificato con il centro radiante, la sede dei beati, l’asse del mondo, lo zenit. La ruota del tempo e del ciclo, ruota astrale e cosmica, si è poi trasformata, come metafora della vita, anche in ruota del destino, dell’opportunità, della fortuna, la ruota alata cavalcata dal Kairòs (l’Occasione) che passa accanto, rapido come una saetta, e deve essere afferrato per i capelli prima che fugga. Ne consegue l’importanza di tutto ciò che rotola o può essere lanciato nell’ambito dell’arte divinatoria, si tratti di sassolini o dadi, astragali, conchiglie o dischetti e perfino legumi per arrivare, ma solo più tardi, alle carte con la raffigurazione allegorica dei possibili decreti del destino. Il Cristianesimo

medioevo. Le immagini che costituiscono questa celebre serie, chiamata anche “Arcani Maggiori”, sono 22, come le lettere dell’alfabeto ebraico, e numerate da 0 a 21. Sono immagini misteriose e piene di richiami suggestivi che raffigurano personaggi di notevole valore simbolico passibili di svariate riflessioni e interpretazioni. La lama numero 10, detta “la ruota della fortuna”, rappresenta le vicissitudini della vita umana attraverso una grande ruota a sei raggi sormontata da una sfinge alata e armata, emblema del mistero, cui si aggrappano a sinistra una scimmia con la testa in giù e a destra un cane rivolto verso l’alto. L’immagine si riferisce ai mutevoli capricci della sorte che alterna fasi positive e negative, fortuna e sfortuna, ascese e cadute, il tutto sotto lo sguardo di un’impassibile sfinge.

riprende l’immagine della ruota dalle letture profetiche che le descrivono alate e infuocate (Daniele, Ezechiele). Esse rappresentano la rivelazione divina destinata a infiammare e ad elevare l’intelligenza, quindi sono considerate strumento e tramite dell’illuminazione interiore. Simbolo della conoscenza cristiana e allo stesso tempo della santità, la ruota è emblema della dotta martire cristiana Caterina d’Alessandria, patrona dei teologi. L’arte medievale è perciò piena di ruote, dai portali scolpiti con figure dello zodiaco, dei mesi, di arti e mestieri, ai pavimenti in mosaico e in tarsia marmorea fino ai rosoni delle facciate e dei transetti. Ruote del tempo e della vita che scorre lenta o corre a precipizio, ma anche occhi intenti a contemplare il divino. _________________ Bibliografia J.Chevalier-A.Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Milano, 1986. R.Guénon, Simboli della Scienza sacra, Milano, 1978. R.Guénon, La Grande Triade, Milano, 1980. O.Wirth, I Tarocchi, Roma, 1983.

P.30: L’ultima rimasta, 2003, collez. privata; p.31: Luna Park, 2006, collez. privata; p.33: Clockwork, 2007, collez. priv.


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ella chiesa della Santissima Annunziata a Firenze si trova un’ inconsueta opera d’arte dipinta intorno al 1450 da Beato Angelico. Si tratta dello sportello a pannelli destinato a chiudere l’armadio contenente i preziosi ex voto, che i fedeli donavano alla chiesa, perciò detto “Armadio degli Argenti”. In uno dei riquadri l’ispirato pennello del domenicano effigiò una ruota della visione di Ezechiele, simbolica del trascorrere dei tempi, in essa è “lo spirito dell’essere vivente” (Ez. 1,16). E’ una ruota mistica fatta di due ordini di immagini, uno esterno ed uno interno. Il primo reca la raffigurazione dei 12 Profeti e quindi allude all’Antico Testamento, mentre il secondo più vicino al centro, esibisce la rappresentazione degli Evangelisti cui seguono Paolo, Pietro, Giacomo e Giuda. Questa seconda teoria riguarda perciò la vita e la predicazione di Cristo che cronologicamente segue le profezie bibliche. Tra gli evangelisti canonici sono rappresentati anche tre santi fondamentali per la dottrina cristiana, perché autori delle lettere sulle quali si strutturò la successiva predicazione: Paolo, Pietro e Giacomo. Chiude la serie la figura di Giuda autore anch’esso di una lettera, ma noto per tristi ragioni. Si tratta proprio di Giuda Iscariota, il traditore? Va ricordato che la sua lettera è un’invettiva contro i falsi dottori, gli impostori che si materializzeranno alla fine dei tempi provocando divisioni, perché saran-

no privi della vita dello spirito. Come è noto esiste anche un vangelo di Giuda, un apocrifo di ispirazione gnostica scritto in copto intorno alla metà del II secolo. Probabilmente il testo originario, perduto, era in lingua greca. In sostanza la sua rivelazione tende a discolpare Giuda presentato come l’apostolo cui Cristo aveva espressamente chiesto il tradimento per dare seguito alle profezie sulla sua morte. Tale documento rimase sigillato in una caverna per 1600 anni nei pressi di Al Minya (Egitto) fino al 1978, anno della sua scoperta. Solo nel 2001 fu tradotto ed i suoi contenuti sollevarono un notevole scalpore nell’ambito dell’esegesi evangelica. Il dipinto della ruota mistica di Beato Angelico sintetizza la storia dell’uomo come un doppio rincorrersi di preconizzazioni e di realizzazioni attuate da uomini illuminati, forti della conoscenza divina. Immagina una sorta di congegno, in cui due meccanismi inseriti l’uno nell’altro determinino le fasi della storia ed i suoi eventi, una forma di orologio spirituale che batta le ore del divenire al lento ritmo scandito dallo scorrere dei raggi della ruota. E’ una visione in movimento, come quella della Bibbia, che ricorda certe veggenze della monaca Ildegarda, ma è anche una costruzione razionale che può richiamare l’idea di un centro quale fulcro e propellente unico della varietà delle espressioni umane. (A.G.)

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uomo è un corpo che esistendo si apre al mondo. In quel corpo-che-sono, in quel corpo-che-sento, in quel corpo-che-mostro che è l’esperienza-di-Sé, come narrativizzazione della propria esistenzialità che diviene coscienza-di-Me attraverso l’in-contro con l’Altro, c’è tutto il racconto della propria esistenza. Quel corpo diviene, a volte, il palcoscenico all’esterno del quale si narrativizza la propria esistenzialità, la propria modalità di esserci e di essere attraverso l’uso di segni che vengono incisi indelebilmente in quel Io Pelle che entra in contatto con l’Altro. Esempio, sono i tatuaggi ed i piercing. Segni, questi, che si imprimono nel corpo proprio. Mon corps est aussi ce qui m’ouvre au monde et m’y met en situation1, in quanto, sorgente originaria del significato. Genesi di ogni senso. Donazione di quella sostanza esistenziale a cui, Io, uomo in cammino nel sentiero della vita, dono voce attraverso la parola simbolica. Il corpo si rappresenta e rappresenta l’immagine della corporeità culturale in cui abita ed a volte mostra incisivamente il bisogno di un’appartenenza diversificata che gli possa donare un’identità possibile. Quell’identità che offre la possibilità all’umana creatura di riconoscersi riconoscendosi nell’Altro attraverso il riconoscimento di un Altro-da-Sé, all’interno di quel corpo interelazionale che diviene reciprocità dell’incontro. Quel corpo, che Io abito, è abitato anche dalla cultura in cui sono stato gettato al momento della mia nascita. La corporeizzazione della mia esistenzialità attraversa la mia mondanità quotidianamente con quella costanza ritmata dal tempo e dallo spazio all’interno del quale il gioco dei simboli plasma e modella il mio linguaggio all’Altro, tanto da avvicinarlo o allontanarlo, da sentirlo o annullarlo, da guardarlo o cancellarlo, da scrutarlo o accettarlo, da viverlo o ucciderlo. C’è sempre l’incontro con l’Altro. Io senza l’Altro non esisto. Senza l’Altro c’è il territorio ghiacciato del Nulla. Il corpo è il luogo concentrico dove comincia, o ricomincia, l’enigma della parola2. È dalla parola perduta che può nascere il bisogno di comunicarsi attraverso l’esperienza segnica di tatuaggi o pearcing che si mostrano come linguaggio altro, linguaggio simbolico, linguaggio simbolizzante, linguaggio appartenenza. Per questo il corpo è costruzione simbolica, non realtà in sé3. L’uomo ed il corpo dell’uomo sono essenzialmente transito dialettico, percorso dialogico, mappa

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Questo corpo dalle mille paludi, questa miniera irrequieta, questo vaso di tenerezze mal esaudite (Amelia Rosselli) comunicativa, territorio della parola, luogo narrativo, spazio narrativizzato e temporalità ritmata dall’in-contro nell’ascolto di Sé con l’Altro vicendevolmente, in quel valzer di luci e di ombre, di parole e di silenzi, di attese e di indifferenza, che rendono attualizzabile la relazione4. Le pratiche di tatuaggio o di piercing consistono in operazioni che gli uomini esercitano sui propri corpi, attraverso tecniche diverse come l’istoriazione, l’incisione, la puntura, la marca di parti del corpo. Quella traccia che viene incisa in quello spazio dell’Io Pelle crea una linea di demarcazione comunicativa che offre all’Altro la possibilità di capire come quel segno sia l’espressione di una parola muta che diviene parola mutante, tras-mutate e trasformante di Sé. Ecco che questi segni simbolici rappresentano una

sorta di risalita al corporeo5. È una scription che si attualizza in quello spazio fisico del corpo per essere mezzo di coscienzialità nell’incontro con l’Altro. Il corpo è superficie di scrittura, superficie atta a ricevere il testo visibile della legge che la società detta ai propri membri marchiandoli. Marchiando il corpo, (le società arcaiche) lo designavano come l’unico spazio degno a portare il segno del gruppo, quelle almeno scrivevano la legge sul corpo, e con quel marchio scongiuravano la legge separata, lontana, dispotica, la legge che, articolandosi nel rapporto comandoobbedienza, conosce solo il potere coercitivo (...)6. Attualmente il tatuaggio non è espressione di dominio, infatti, non è nell’imporre un segno, come facevano i primitivi col marchio, ma nello svuotare di senso tutti i simboli sociali che cozzano con il sentire della persona a cui il corpo, nella sua originaria ambivalenza, potrebbe dare espressione. Per questo, questi segni dell’Era moderna ed industrializzata si pongono come presenza significante posta innanzi all’Altro che Io, uomo moderno, incontro. Io è un Altro, ci diceva Rimbaud, ponendo in modo poetico il tema dell’alterità. Ecco perché la corporeità e lo stigma hanno un significato significante in questa culturalizzazione coscienziale di un’iscrizione della corporeità. Il corpo inciso è dunque, sin dal principio, un corpo iscritto: un corpo marchiato dall’incisione, dalla

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Segni traccia, dalla demarcazione del simbolico7. Ma, nel momento in cui prendiamo in considerazione il significato che la corporeità assume nelle varie culture dobbiamo prendere atto innanzitutto del fatto che, come hanno dimostrato Galimberti8 e Le Breton9, esiste uno scarto fra l’esperienza immediata del corpo e le immagini del corpo tatuato, entrambe rinviano al tema dell’alterità. Ritengo che non esistano il corpo e lo stigma, ma innumerevoli immagini del corpo e dello stigma, frutto delle riflessioni sul corpo e sullo stigma che ogni cultura umana fa, nel corso del proprio divenire storico, in base al mutare delle proprie ragioni di vita. In Massoneria i tre gioielli immobili della Loggia sono la pietra grezza, la pietra cubica e la tavola da tracciare che corrispondono rispettivamente ai primi tre gradi iniziatici. È nella tavola da tracciare che viene incisa la storia, la narrativizzazione di un’Erlebnis interiore che può essere trasportata al di fuori della coscienza per diventare coscienzialità di Noi, ovvero senso di appartenenza e senso di fratellanza. Quindi, se l’immagine corporea è per me all’origine di tutti i processi di simbolizzazione, i quali emergono e prendono vita dall’esperienza del corpo, per cui fra soggetto e società vi è una dialettica, un dia-logos, che vede nel corpo un originario filtro in base al quale il mondo, l’Altro da Me, entra in rapporto con il Me, cioè con il soggetto. Quel soggetto Altro da Me che è gettato in quella mondanità culturale che lo forgia e lo traduce in un’immagine della corporeità è il riflesso di ciò che incontra10 nel mondo e di ciò che da quel mondo vuole tradurre in segno tangibile e leggibile. Così nell’esperienza massonica il corpo diviene custode interiore di quello scrigno stigmatico di conoscenza che poi il Maestro inciderà nella sua tavola tripartita. Quella tavola è, dal mio punto di vista, la metafora dell’incisione corporeizzata del senso di appartenenza massonico. Tant’è che se nella società industrializzata l’individuo ha trovato una via per entrare in contatto con il simbolo, ne emergono così i mille

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itinerari del corpo tatuato che aprono quello spazio in cui la narrativizzazione di Sé può essere impressa attraverso segni, che diventano un nodo di relazioni ulteriori e l’espressione di un corpo comunitario, di un corpo appartenenza, di un corpo-traccia(re). Il corpo comunitario, il corpo tracciato attra-

verso i riti, la magia, il ludus, i segni, i simboli, permette la circolazione simbolica fra natura e cultura, nel senso che è l’unica entità che riesce a dare senso a fenomeni quali la nascita, la morte, la meteorologia11 in un’unica parola a dare il senso dell’esistenza che sto vivendo, Io e Te, in questa danza della vita. Ed allora, il miglior modo di testimoniare a se stessi e agli altri che si fa parte del medesimo gruppo, è di imprimersi sul corpo una medesima marca di distinzione12. Il tatuaggio, il branding, il body-painting sono marchi d’identità, crismi d’appartenenza, tracce di esistenza, in ogni senso iscrizioni: a un gruppo (magari ideale) e sulla propria pelle (per convenzione reale)13. È appartenenza. È la relazione con l’Altro. È l’incontro con l’Altro. È Io che mi riconosco in Te, solo se Io e Te siamo uniti dal segno. Così il tatuaggio diviene un rito di iniziazione privato, così come privata è l’iniziazione massonica del fratello che varca la soglia del Tempio. Un rito intimo, intimizzato, intimizzante. Così come avviene in Massoneria con l’iniziazione che si presenta come una continuazione nei tempi moderni

dei misteri classici, affidata ad una corporazione di mestieri specializzata nell’architettura sacra. Tuttavia, qualsiasi rito immette, da sempre, il novizio in due nuove dimensioni del tempo e dello spazio, in base alle quali avvengono una serie di fenomeni che modificano il suo essere-nel-mondo. Il novizio non ha età, è colui che cerca di trovare una via, una risposta, un senso. Egli cerca la sua identità, e con il rito compie una vera e propria rinascita che lo conduce in quel territorio liminare dove va alla ricerca della sua Itaca, di quell’Isola che non c’è, non si trova, se, in primo luogo, non si fa coscienza di Sè. La ritualità contemporanea è attratta verso la sensorialità: ritmo e scansione, tatuaggio, giochi di linguaggio, di luci e di sonorità, attrazioni per gli effetti della droga, incanto per il movimento del corpo. Quando l’individuo non ha più dei riferimenti sociali precisi, cerca di costruirsi una propria ritualizzazione anche attraverso la ricostituzione del simbolico. L’essere umano è libero di agire e deve trovare da solo la sua strada nell’incertezza del mondo moderno14, per cui sperimenta mondi, esperienze, corpi possibili. Ma ciò che all’interno del gruppo è segno di adesione e di coesione, non potrebbe che essere, agli occhi dell’estraneo, marca di estraneità: ecco allora che la cultura europea moderna, quella cultura che sulla bella semplicità del corpo nudo ha costruito, e ben prima di Winckelmann, uno dei suoi più saldi idoli estetici15, individua nella pelle iscritta e tatuata dei selvaggi un discrimine (un crimen) dei più vistosi. È l’immagine che restituisce, per esempio, lo sguardo del Ramusio, quando nei suoi Viaggi di Marco Polo descrive gli abitanti della provincia di Cangigù precisando che‘essi, così uomini come donne, hanno tutto il corpo dipinto di diverse sorti d’animali e uccelli, perché vi sono maestri che non fanno altr’arte se non con un’agucchia di designarle, o sopra il volto, mani, gambe e ventre, e vi mettono color negro, che mai per acqua ove l’altro può levarsi via: e quella femina o vero uomo che n’ha più di dette figure è riputato più bello’. Era del resto già lo sguardo dei viaggiatori europei che nel XV sec. visitarono


la Birmania (in primis Nicolò dè Conti), e sarà ancora quello di James Cook, reduce da Tahiti nel 177116, quello attribuito da Melville al suo Ismaele, il ritratto indimenticabile di Quiqueg, quello di Cesare Lombroso, inflessibile esploratore delle carceri italiane sul finire dell’Ottocento17, e finanche quello di alcuni ispirati censori contemporanei18. È così che si crea quel confine in cui il segno diviene il limen, la cifra, l’Altrove, l’Oltre, tra Me e Te, tra Te e Me, tra di Noi. Ma quel segno è ciò che mi fa riconoscere, è ciò che identifica la capacità di sentirsi se stesso nel cambiamento, costituendo la base emozionale per l’identità. Tramite il tatuaggio il soggetto sente che può acquisire una maggior consapevolezza di sé. Il curare la propria immagine, il praticarsi tatuaggi, fa sentir bene, dà sicurezza. Il tatuaggio quale sistema di segni applicato direttamente sulla pelle, diventa così un mezzo per enfatizzare il corpo, che sta cambiando forma, presso se stessi e presso gli altri. Nasce il bisogno di essere unico. La smania di individualismo è la nuova fede a cui la persona di questo inizio secolo tende. Il tatuaggio diventa allora un mezzo di espressione narcisista19 che può essere diretto verso l’interno o verso l’esterno (verso l’esterno allorché il tatuaggio è praticato su parti del corpo esposte e visibili, verso l’interno quando il tatuaggio è nascosto e non è visibile agli altri). Quando il tatuaggio va verso l’esterno acquisisce un significato simbolico che riporta al segno corporeizzato di uno stigma simbolizzante. Ne emerge che il corpo si propone sempre di più come espressione di senso esistenziale. Aspetto significante è anche il tema del dolore che, per quanto riguarda il tatuaggio, ha un ruolo spesso centrale e sembra poter assumere il significato di riproporre al giovane la percezione della sostanza e dello spessore corporale e, in questo modo, la percezione della propria esistenza. Il dolore diviene senso patico dell’esserci che conduce all’essere in quella orchestrazione emozionale che permette la percezione vitale di Sé. Contrariamente nell’esperienza massonica, qui in questo luogo Sacro, l’individuo profano

viene lasciato al di là del Sacro Tempio, ciò che è fondamentale è la Luce vibrante e trasmutante di ogni Fratello che crea quella solida catena di unione in cui il Tutto diviene Uno e la pregnanza simbolica del segno, della traccia, del tracciare, del simbolo è processo interiorizzato di rinascita e riuscita

dai moti contaminati della vita profana. I segni esteriorizzati dell’età moderna sono espressione di un Io che cerca riconoscimento mentre i segni simbolici dell’esperienza massonica sono mezzo interiore di tras-form-azione e cammino verso la Luce da condividere nel senso globale e globalizzante dell’appartenenza che lega a vincoli indelebili l’un l’altro rendendo Uno. Ed è nell’Uno che l’Erlebnis vissuta dal fratello trova la sua esistenzialità rispondendo alla costante domanda che l’umana creatura si pone incessantemente: da dove vengo, dove sono, dove sto andando. _________________ Note 1 M. Merleau Ponty, (1960), Segni, Milano, 1967 2 Abdelkébir Khatibi, (1971), La Mémoire tatouée

(The Tatooed Memory) 1979 3 D. Le Breton, La pelle e la traccia. Le ferite del sé,

2006 4 Per una maggior trattazione B. Fabbroni, Dal significato del sintomo al significato della vita, Roma, 2008 5 R. Barthes, Variazioni sulla scrittura, seguite da Il piacere del testo, Torino, 1999

Segni 6 U. Galimberti, Il corpo, Milano, 1983. L’opposizione potrebbe forse essere meglio chiarita in termini di biopolitica foucaultiana: dove il potere non svuota il senso (del corpo o di altra pretesa origine), bensì lo produce e lo determina (su questo punto M. Foucault, L’ordine del discorso. I meccanismi sociali di controllo e di esclusione della parola, Milano, 1972) 7 Su lettera e simbolico, J. Lacan, Scritti, Torino, 1974, vedere ordine simbolico 8 U. Galimberti, cit, Milano, 1983 9 D. Le Breton, cit. 2006 10 Per una maggior trattazione B. Fabbroni,Dal significato del sintomo al significato della vita, Roma, 2008 11 U. Galimberti, Il corpo, Milano, 1983 12 E. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, Milano 1982 13 Tale prospettiva rischia però di appiattire su una facile vulgata sociologica la ricca fenomenologia (e la probabile sovradeterminazione) che emerge invece, per il fenomeno del tatuaggio e di altre manipolazioni cutanee, dalla letteratura antropologica: O. Konig, Pelle, in Cosmo, corpo, cultura. Enciclopedia antropologica, a c. di C. Wulf, ed. italiana a c. di A. Borsari, Milano, 2002 14 C. Rivière, Introduzione all’antropologia, Milano, 1998 15 Sul tema è da vedere M. Warnke, Il bello e il naturale. Un incontro letale, in I Greci. Storia, cultura, arte, società, I. Noi e i Greci, Torino, 1996. Per un pagina winckelmanniana esemplare, Storia dell’arte nell’antichità, Milano, 1990. Per un caricaturale ribaltamento del canone, R. Strassoldo, Sade trionfante o il corpo nell’arte contemporanea, in Corpo futuro. Il corpo umano fra tecnologie, comunicazione e moda, a c. di L. Fortunati et al., Milano, 1997 16 La prospettiva resa celebre da B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Torino, 1963, che data ad età post-omerica l’idea di corpo come intero organico e coeso, è stata recentemente ribadita da G. Reale, Corpo, anima, salute. Il concetto di uomo da Omero a Platone, Milano, 1999. È difficile, tuttavia, sottrarsi alla sensazione che tale approccio presupponga una concezione ancora teleologica e idealistica (ovvero, per dirla con Gramsci, partenogenetica): se si parte dall’idea di una fondamentale costituzione simbolica del corpo, non si vede ragione di attribuire maggiore o minore dignità simbolica a questa o a quella forma del corporeo, disposte lungo la linea di uno sviluppo, o di una entdeckung, segretamente e forzatamente gerarchica. 17 C. Lombroso, L’uomo delinquente, Milano, 1896 18 Tätowieren war früher ein Markenzeichen der Halbund Unter-welt (...) heute sollte nachdenklich stimmen, daß der Tätowierungsboom einhergeht mit dem Aufblühen einerseits heidnischer, andererseits esoterischer, okkulter Strömungen (...). Deshalb sollten Christen von jeglicher Form der Tätowierung Abstand nehmen: cito dall’illuministico scritto di A. Seibel, Zeichen der Sklaverei, in Idea Spektrum 29, 1998, disponibile on line(www.idea.de/html/spektrum/1998/ s2998s01.pdf; un riadattamento italiano nel non meno lungimirante www.apocalypsesoon.org/I/i-xfile-17.html ). 19 A. Bonito Oliva, Nuove trame dell’arte, Milano, 1985

P.34, 36 e 37: Tattoos; p.35: Piercings.

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ra i primi a chiedersi ragione degli effetti e della funzione del Bello in natura, vi furono i Greci e la filosofia platonica ne diede i frutti più importanti, per il riverbero che questa ebbe nella costruzione dell’estetica rinascimentale. Secondo il platonismo e la sua emanazione umanista, il neoplatonismo, la grazia della forma esteriore nella sua costruzione armonica, dettata dall’accordo delle parti col tutto, corrispondeva all’armonia interiore manifestata dalle virtù morali espresse nelle azioni dell’individuo. La figura allegorica della Verità appare infatti nuda, a sostegno dell’idea che ciò che sta interamente visibile sotto la luce del sole non produce inganni e deformità, ma quella nudità corrisponde anche alla perfezione del vero alla rettitudine, quindi per immediata deduzione, la perfe-

più immediata nel corpo della donna. Alla lettera S del mio ideale vademecum del Viaggiatore, se dovessi compilarne uno, figurerebbe senz’altro la parola ‘Sguardi’. Lo sguardo è il primo veicolo di conoscenza consapevole; si rivolge tanto alle cose che ci circondano quanto agli esseri, restituendoci una percezione rapidissima o una valutazione approfondita, a seconda che riceva informazioni istintive o segua dei processi mentali più analitici. Esso indaga e disvela realtà esteriori ma anche concetti astratti, quando divenga strumento di indagine filosofico o spirituale. Così, rivolto alle verità superiori, caratterizza la capacità di speculazione della specie umana. L’uso che facciamo noi, qui in Occidente, dei nostri corpi opachi e dei nostri sguardi cristallizzati, ben poco ha da spartire con ciò che per esempio, ho potuto osservare in un recente viaggio arrivando in

Bello come Afrodite Silvia Ghelardini zione armonica di un corpo nudo avrebbe messo in evidenza l’intima corrispondenza di verità e bellezza. Il corpo eroico è costantemente rappresentato nudo, non nell’intenzione di suscitare curiosità ma per certificare quanto quella perfetta armonia di forme assicuri la rispondenza a doti tanto virtuose quanto sovrumane. "Il bello è lo splendore del vero" secondo la filosofia platonica, la Bellezza fa, cioè, risplendere la verità nella sua interezza, come totalità di un fenomeno sottoposto alla sfera dello sguardo fisico; ecco come, nella cultura rinascimentale, così propensa all’ammirazione del Bello, l’armonia di una forma si fa veicolo di qualità superiori o meglio di Virtù immateriali; l’estetica del neoplatonismo ficiniano, che tanto peso ha nella produzione letteraria e artistica del nostro Quattrocento, tenta una conciliazione se non un’identificazione delle qualità morali e spirituali dell’uomo con la sua bellezza fisica, in omaggio a quel kalòs kai agathòs, che diviene nella più corrente declinazione, potere della bellezza. A questo potere, al pericolo di questo incanto, alla tentazione di fermarsi nella contemplazione di un riflesso illusorio di armonie più spirituali, si sono peraltro sottratti asceti e bacchettoni, la precettistica religiosa ne ha trattato ad ogni piè sospinto, individuandone l’evidenza

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India dove, al pari delle culture più antiche, il corpo si rivela, nell’eleganza e nella crudezza, il principale interprete e strumento di ogni singola azione quotidiana , strumento non mediato del fare e dove lo sguardo riveste una valenza assoluta nel riconoscere, valutare, soppesare, definire l’Altro, con una voracità dimenticata e cancellata dalla nostra promiscuità mediatica. Questa valenza colpisce immediatamente tra gli altri sensi, l’occhio, non appena si abbandoni l’asilo provvisorio che è l’aereo e se ne viene investiti con una potenza inusitata, soprattutto se sei una donna, e occidentale. In India, come nel mondo islamico, è tabù ogni forma di contatto fisico in pubblico tra uomini e donne, contatto che è riservato ai rapporti tra coniugi nel privato e ai genitori verso i figli piccoli. Non ci si dà la mano e tanto meno ci si abbraccia, cosicchè la facoltà, direi l’intelligenza aguzzata degli sguardi, specie maschili, per leggere informazioni dai segnali che il corpo dell’Altro/Altra lascia sfuggire, è portata di necessità, all’ennesima potenza: camminando per le vie di Calcutta non è possibile dissimulare una banconota nella mano, la minima indecisione nel passo tradisce un’incertezza d’intenzione, la possibilità di passeggiare rilassati si presenta remota in una città indiana, tanta è la concitazione della folla che non si arresta mai.


l’Occhio di Minerva

Non appena ti si individua come donna, anzi come femmina (leggi donna-nonvelata), si diviene oggetto, preda libera della potenza pervasiva degli sguardi di tutti gli astanti, pari soltanto agli strali di Apollo. Non mi sono sentita in pericolo mai, girando nei quartieri anche più miserabili, o molto meno che nella periferia di una nostra qualsiasi città italiana ma guardata sì, scansionata direi, tanto da capire ben presto che per passare inosservata e creare uno spazio, una distanza tra te e gli altri, l’unico modo è aderire al codice dell’invisibilità che offre il velo; non appena la testa, meglio magari se parte del viso o del corpo spariscono sotto una stoffa, gli sguardi si acquietano e si dirigono oltre la tua persona, si scompare letteralmente, strana sensazione di leggerezza e di libertà. La fonte di tanta dannazione per l’occhio e l’immaginazione risiederebbe dunque in ciò che di bello ed armonico, ma nello stesso tempo demonico, la donna possiede nella sua forma esteriore, se non volessimo valutare quanto siano invece proprio l’occhio e il cervello, strumenti apollinei, a formarsi un’immagine rispondente a canoni di avvenenza, e se dovessimo indagare anche superficialmente nella nostra

realtà più corrente, vedremmo corpi femminili associati ad automobili, abiti o merci di vario tipo o, all’opposto, racchiusi in bozzoli informi vietati allo sguardo di chiunque, ma che rispondono alle stesse esigenze. Interpretazioni estreme e perciò stesso errate, usi eccessivi, ideologici o al contrario, proni alla legge barbarica del mercato. In ogni caso la consuetudine di usare, manipolare l’integrità di un essere che per definizione (ricorre in queste settimane il sessantesimo anniversario della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo) si vuole nasca libero, coesiste strettamente nella lettura che diverse e lontane ma solidali culture fanno del corpo femminile, nel difetto di prospettiva comune a tutte: l’arenarsi dello sguardo, quindi della sanzione, sull’aspetto provocatorio e dirompente della persona, cioè della maschera, come si ricava dal termine latino con attitudine predatoria, su quel condensato di sesso e psiche espresso dal corpo, da contenere e ritualizzare. Ma facciamo un passo indietro, tornando all’archetipo che ispira Grazia e Bellezza, Venere come secondo pilastro visibile del Tempio massonico: ‘La potenza del bene si è rifugiata nella natura del bello’ (Platone). A noi massoni è dato riflettere

con il lume della Ragione, proprio sul farsi armonia di quell’intreccio di apparenza ed essenza, di veli sovrapposti e caduti, che il corpo sublimato della Dea dell’Amore, nata dall’acqua, rivela nella sua nudità con le valenze di fertilità, rinascita ed energia vivificatrice. Questa la vera forza motrice della Natura, che a popoli antichissimi apparve sacra quanto tangibile manifestazione del Divino. Se nel mondo profano Bello e Buono risultano divisi e lontani, è compito e privilegio dell’iniziato, nel suo percorso attraverso i gradi, lavorare a ricondurre all’unità armoniosa questi due princìpi finalmente riconciliati, con la dedizione che artisti di ogni tempo hanno messo nel modellare o dipingere il simulacro splendente di vita di Iside, Ishtar o Afrodite e con la certezza, che nel procedere all’innalzamento delle mura del Tempio invisibile, nel riscoprirne la strada d’accesso dentro sé stessi, solo quanto è costruito saggiamente con l’aiuto della livella può arrivare a grandi altezze; viceversa non c’è forza sufficiente a tenere in piedi un edificio, impostato su basi diseguali e mal distribuite. P.38-39: Venere, Sandro Botticelli.

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Canzone perduta

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C

antautore canto, voce. Cantautore come l’ultimo Seminole di una ridicola riserva per turisti-fotografi in calzini corti... cantautore a volte voce della coscienza. Voce di petto, di gola e di testa nel senso delle cose che si affollano nel petto, nella gola o nella testa. Voci bianche mai state innocenti. Urlo, parlato, ululato, diplofonia dei monaci tibetani. Canto di tenores, impareggiabile ricordo di Demetrio Stratos, Canto e discanto. Altezza, intensità. Canzoni non all’altezza della propria voce e voci non all’altezza delle proprie canzoni. Polmoni, laringe, faringe, cassa toracica. Che schifo. La musica è intangibile ma non infrangibile ed i musicisti hanno bisogno anche loro di vivere. La musica è intangibile ed invisibile ma da calli alle mani e fa sudare e vibra come uno tsunami buono. Sì la musica è intangibile come il pensiero. Non si vede, ma c’è. Per questo tutti fanno finta che non valga niente. Come il pensiero...Carmina non dant panem si dice così...ma il pane lo fanno i fornai e qualche volta i fornai cantano e fischiettano lavorando. Suoni & suoni, acuti come l’intelligenza o suoni ottusi come la deficienza. Risonanze, misteri, simboli sonori che eruttano da un dio profondo e assumono miriadi di significati nomadi. Musica erotica che titilla il velopendulo e solletica il plesso solare e accarezza come un cottonfioc le cavità uditive degli astanti e come uno spermatozoo entra nel cuore e lo feconda. Forse... Canto, voce, cantautore. Musica che sa di buono e di filantropia, nel senso della donazione-di-sé. A, E, I, O, U, cha cha cha. Vocali e vocalizzi. Estrazioni. Emozioni. Centro della fonazione. E dietro che c’è ? Qual è la causa delle cause? “Cerco un centro di gravità permanente”. La voce è lo strumento degli strumenti. Qualsiasi strumento inventato o creato dall’uomo tende a riprodurre la voce stessa che rappresenta lo strumento più esteso e più articolato. La voce racchiude ogni tipo di suono della natura. Diamo una voce, con un fil di voce. Voce ! Tramandiamo la voce...ascoltiamo la voce del cuore. Passiamo la voce. Anzi no, non diciamolo a nessuno. Stiamo qui stretti, stretti appoggiati a que-

sta rubrica di Officinae, in questa fortuita intimità. E teniamoci stretto il ricordo. La canzone d’autore - quella vera - come la poesia - quella vera - richiede perseveranza, silenzio ed ascolto, da veri apprendisti usciti vittoriosi dalle prove degli elementi. La canzone arcana, simbolica, eloquente si svela in un ascolto preparato dalla nudità di un ego che si fa coppa, che si fa Graal. In quel silenzio assoluto, abissale in cui il suono e la parola scoccando all’unisono come una scintilla, come l’arco e la freccia zen e ci fanno percepire un frammento d’armonia. La canzone “bianca”, per dirla con René Daumal, ci regala un frammento di senso e d’autenticità. Produce gratitudine in questa vita rapida ed arida. Adesso e qui, nella forza trattenuta di un piccolo-grande momento sacro, ci regala un tempo immoto ed eterno. La Canzone nasce dal silenzio e dopo aver vibrato, ritorna nel silenzio. Silenzio e Musica. Le colonne d’Ercole che limitano e delimitano la nostra cristallizzata esistenza. Musica e Silenzio. Il dono del silenzio che riceve e riattiva. Che ricompone ed evoca. Un balsamo corrosivo che scioglie i cristalli di ghiaccio della psiche. Uno strumento iniziatico che martella l’invisibile con i suoi colpi d’aria, di terra, d’acqua e di fuoco. Il silenzio: la polarizzazione femminile allo stato puro di “passività attiva” che ci può condurre alla plasticità del cambiamento. “Ci va carattere e fisarmonica, senso del brivido e solitudine/per fare musica, la grande musica...la grande musica frequenta l’anima/col buio inutile, e non si sa perché, e non si sa perché” canta Paolo Conte. La vera musica è fatta di pause. Di sottintesi. Un fragore impetuoso e trattenuto, come pote-

Canzone perduta va risuonare potente nella testa di Beethoven, fisicamente sordo ma spiritualmente udente, prima dell’incipit orchestrale. The sound of silence. Uno stato di grazia dove ognuno è uno e trino: orchestra, pubblico e cantante, unito all’amore misterioso di altri “ascoltanti”, fragili ed erranti, sparsi sulla superficie della terra. Legati dai fili invisibili di una comune ricerca. La trama è misteriosa, l’arte è lunga e la vita è breve. E noi siamo piccoli. Per quanto lo dissimuliamo (a noi stessi) sfoderando stolti superomismi. Ma qualcosa si muove, si legge, si suona, si percepisce, si svela a chi è umile e giocoso. Mi viene alla mente (o meglio al cuore) un verso di Poverangelo di Fiorella Mannoia: “le note si sistemano/ sul pentagramma del telegrafo/ e specialmente se non piove/ chiudono le ali proprio dove/ si leggeranno strofe nuove”.

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Viaggio

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Viaggio

A

rrivo a Sarajevo seguendo da Mostar il corso tortuoso ed irregolare della Neretva immerso in paesaggi mozzafiato. Lungo la strada si alternano emozioni contrastanti: la forza del fiume e della natura incontaminata si alternano a case, fattorie e piccole abitazioni completamente bruciate e devastate. Già so che sto per arrivare al cuore del mio viaggio, so bene cosa mi ha spinto ad arrivare in macchina fin quaggiù. Sono pochi i posti dove si va per capire e non per vedere, Sarajevo è uno di questi. Entro in città attraverso un lunghissimo viale che porta dritto al centro storico, in fondo alla valle, a ridosso delle colline più lontane di questa conca disseminata su tutti i lati di case che poco alla volta, quasi a voler fuggire dalla città, si diradano arrampicandosi sui leggeri pendii. Basta guardarsi intorno un attimo per capire quello che qui è successo. Dopo alcuni anni dalla fine dell’assedio sono ancora evidenti i segni della tragedia e della follia che ha colpito la città. Ancora moltissimi palazzi sono completamente crivellati di colpi, di proiettili di ogni tipo e calibro. I segni sono evidenti anche dove questi colpi non si vedono. Le case che non mostrano cicatrici sono troppo nuove, troppo pulite, troppo fredde, senza le rughe del tempo che ammorbidiscono i colori e creano sfumature di vita vissuta.

Questi palazzi troppo asettici, alternati a quelli che ancora sanguinano di tragedia, mi ricordano certe signore che hanno appena fatto un lifting troppo appariscente. Quelli che ancora portano sulle pareti e negli infissi i segni della guerra sono sicuramente quelli che erano stati meno danneggiati. Se questo mio pensiero è vero, significa che nulla, nessun palazzo, nessun appartamento, nessuna facciata, nessuna finestra è stata risparmiata. Trovo un albergo segnalato come uno dei migliori, a ridosso del centro, a metà di una collina. Non è un granché ma è in posizione dominante. Appena sotto di me il vecchio centro che si raggiunge a piedi in meno di dieci minuti. Da qui vedo quasi tutto e distinguo bene anche le persone. Solo un paio di giorni dopo vengo a sapere che lo stesso pensiero che ho avuto io lo hanno avuto anche i cecchini che da qui sparavano di sotto ad ogni cosa che si muovesse. Alzo gli occhi seguendo una linea immaginaria che dal centro si arrampica su ogni versante. Eccola Sarajevo: assediare questa città è la cosa più facile del mondo. E’ chiusa da ogni parte, le colline verdi sono punteggiate di tetti di piccole case, le strade nemmeno si vedono. Un infinito costone di collina è disseminato da migliaia di piccole stele bianche disordinate confuse, accatastate una accanto all’altra senza alcuna logica, ignorando le più semplici regole della geometria. E’

un cimitero, enorme, irregolare che non ha né un muro intorno né una porta di accesso. E’ terra libera, di nessuno e di tutti. Guardo meglio, mi accorgo che le tombe si infilano in ogni possibile passaggio di terra tra una casa e l’altra fino ad invaderne i giardini. In quegli anni di odio lo spazio per i morti ha invaso lo spazio per i vivi. Qua e là qualche uomo e qualche donna, in completa solitudine, sono inginocchiati davanti ad una tomba con un fiore in mano. Voglio sapere, voglio capire. Sdraiato su una spiaggia di una più che turistica isola croata qualche giorno prima avevo letto qualcosa su Sarajevo. Sarajevo che nei secoli, mentre nei Balcani la guerra era uno stato naturale, ha sempre continuato ad essere il simbolo della tolleranza, della convivenza, della cultura. Sarajevo l’unico posto al mondo dove in poco più di mezzo chilometro quadrato si trovano i luoghi di culto di cinque religioni: una moschea, una chiesa ortodossa, una sinagoga, una cattedrale cattolica ed una chiesa evangelica. Sarajevo con la sua antichissima università, con i suoi letterati ed i suoi dottori, i suoi commerci, con la sua innata predisposizione all’ospitalità e alla conoscenza. Ho bisogno di capire. Qui per secoli Serbi, Musulmani, Ebrei e Croati hanno vissuto in pace. La memoria di questa magia è bruciata insieme a migliaia di documenti, manoscritti e volumi a causa di una bomba incendiaria

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Viaggio

nei primi giorni dell’assedio, insieme al bellissimo palazzo in stile austro-ungarico della Biblioteca Nazionale. Nelle guerre raffinate prima degli uomini, se si può, si annienta la loro tradizione, la loro cultura. La prima passeggiata, a Bascarsija, un bazar ottomano che è il cuore della città , mi mostra centinaia di persone, quasi tutti giovani, che affollano decine e decine di piccoli bar e ristoranti: bevono il caffè , mangiano il cevapcici, un piatto di carne di agnello o vitello macinata al quale non si può rinunciare. Centinaia di piccolissimi negozi vendono qualsiasi cosa ed è il trionfo dell’artigianato. Ma gli oggetti che si ripetono con ossessione nelle vetrine o esposti su tavoli all’ esterno riportano subito l’animo nella parte più grigia. E’ il trionfo dell’ artigianato di guerra. Migliaia e migliaia di proiettili di ogni tipo sono stati trasformati in penne biro o stilografiche, in utensili da cucina o da tavola, in fermacapelli, portachiavi e souvenir. Queste grosse ceste sono testimoni della pioggia di morte che dal 5 Aprile del ‘92 al 29 febbraio del ‘96 è caduta incessante sulla città. Guardo le persone, le coppie di ragazzi che mano nella mano percorrono le stradine regolari e molto simili che si intrecciano nel quartiere, spezie e profumi orientali dilatano i polmoni insieme alla dissetante aria d’estate. Ridono, scherzano, mi sorridono

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quando i miei occhi si incrociano con i loro. Si fermano, parlano; i negozianti, quasi tutti giovani, ti fermano, pensi che vogliano venderti a forza qualcosa contaminati da uno spirito levantino che qui certo non manca. Ma non sono mai invadenti né fastidiosi. Scopro poco dopo che hanno solo voglia di parlare di qualsiasi cosa. In nessun posto mai mi è capitato di uscire da un negozio dopo aver parlato mezzora con in mano un oggetto che avevo adocchiato e che alla fine mi è stato regalato. E’ questo lo spirito della Sarajevo di oggi: tutti hanno un gran bisogno di comunicare che sono nonostante tutto simili a te e soprattutto ancora vivi, non sono e non vogliono essere considerati dei sopravvissuti.. Le conseguenze psicologiche di quanto è successo non si cancelleranno che con generazioni e generazioni. Molti parlando mi danno l’impressione di aver vissuto qualcosa che potrebbe anche ripetersi. Gli animi, le parole, gli sguardi, i gesti sono stati lacerati per sempre. Continuo a passeggiare mentre le luci si accendono poco alla volta ed i colori lentamente cambiano. Avverto un disagio e cammino. Senza rendermene conto respiro la storia, la stessa sensazione che offrono poche città al mondo come Roma o Gerusalemme. Arrivo ad un incrocio lungo il piccolo fiume, la Miljacka, poco più di un

torrente che divide la città, sulle cui sponde si affacciano variopinti caffè e i ragazzi prendono il sole. In alcuni punti per mesi è stata la linea del fronte. Qualche auto è in fila aspettando di poter entrare in un parcheggio pubblico, una vecchia si trascina a fatica la spesa, dei bambini scherzano appoggiati ad un muretto. Qui, esattamente in questo angolo, nel punto in cui poso lo zainetto che ho sulle spalle e preparo la macchina fotografica, in questo angolo che potrebbe essere un angolo qualsiasi di qualsiasi città del mondo, nel 1914, Gavrilo Princip, un giovane nazionalista serbo, uccise l’Arciduca Ferdinando e sua moglie dando vita all’inizio della prima guerra mondiale che provocò decine di milioni di morti. Qualche metro più in là, lungo uno dei piccolissimi ponti che uniscono le due sponde c’è una lapide con dei fiori freschi. Chi ci passa davanti non getta nemmeno un’occhiata. Qui il 6 aprile del ‘92, due ragazze: Suado, 24 anni e Olga, 28, furono uccise una dopo l’altra dai primi colpi sparati dai cecchini. Dopo di loro morirono altre 14.000 persone e decine di migliaia furono ferite. Altri cinquanta metri e un altro ponte, ora chiamato il ponte di Giulietta e Romeo. Qui furono uccisi due giovani ragazzi. Una storia che fece il giro del mondo. Una storia che ti potrebbero


raccontare decine di volte e che ogni volta ti farebbe tremare le gambe. Un ragazzo e una ragazza, lei musulmana e lui serbo, sfidano il mondo e continuano ad amarsi e a vedersi. Vivono a cento metri di distanza separati da un ponte che è il confine tra due universi lontanissimi. Lei come tante altre volte lo attraversa per andare a trovarlo e a metà viene colpita da un proiettile. Muore sul colpo. Qualcuno, come sempre è accaduto in quei giorni, la vede e si precipita a soccorrerla. Il suo ragazzo vede la scena dalla finestra, non sa che è lei ma ha paura. Corre verso il ponte, la raggiunge, si china su di lei ed un secondo colpo lo fa crollare senza vita sul corpo della ragazza. La realtà come sempre supera la fantasia. La serata è fresca, sarebbe bello camminare senza meta continuando ad osservare cose e persone, ma sento di aver bisogno di un rifugio, di un attimo di riposo più per la mente che per il corpo. Torno in albergo. Prima di salire in camera prendo su un banco alcuni depliants turistici: non voglio sprecare nemmeno un’ora del mio tempo qui: ho sete di sapere, ho fame di capire, sapendo già la risposta: sarà impossibile capire. Ripartirò con le stesse certezze e con gli stessi dubbi di prima. Prendo tutto ciò che trovo sul bancone: gite organizzate, visita ai luoghi di culto, un paio di musei, escursioni sulla Neretva. Non è il cibo di cui ho bisogno. Mi siedo sul terrazzino in modo da guardare le luci calde del centro e dando le spalle alla macchia scura del cimitero alla mia sinistra. In mano mi rimane una fotocopia di un foglio scritto a mano che prima non avevo visto. In un rudimentale inglese dice più o

meno così: qui tutti vogliono dimenticare, nessuno ha il coraggio di voler ricordare. Vuoi sapere cosa è successo, vuoi sapere come abbiamo vissuto, vuoi conoscere fino a dove si è spinto il bene e il male? Telefonami. E poi un nome difficilissimo da pronunciare ed il numero di un cellulare. La mattina dopo Zijad Jusufovic mi passa a prendere con la sua auto. Ha poco più di quaranta anni e ne mostra qualcuno di più. Alto, magrissimo, lo sguardo intenso e intelligente. Mi basta guardarlo per sapere che ho incontrato una persona speciale. Musulmano, ex militare dell’esercito bosniaco nella guerra contro gli indipendentisti serbi che hanno assediato la città, mi travolge subito con le emozioni che negli anni hanno dilatato il suo essere uomo. In un giorno che potrebbe essere durato un mese mi mostra quello che mai da solo sarei riuscito a vedere. Le sue parole accompagnano ogni immagine con una semplicità, una tolleranza, una conoscenza delle cose e dell’animo umano che mi abbaglia. In ciò che dice non c’è il minimo segno di rabbia, di rancore, di spirito di vendetta, di rimpianto. Mi porta al cimitero ebraico, il più antico dei Balcani. Una posizione privilegiata per dominare parte della città. Il cimitero è stato completamente devastato: è stato una delle linee più basse del fronte dell’assedio sulla città. Si vergogna mostrandomi le ferite inferte qui anche a chi è morto da secoli. Mi dice che è impossibile qualsiasi forma di restauro. Associazioni private straniere si sono offerte di farlo. Ma come si può fare qualsiasi cosa in un paese che unico al mondo, di soli 52.000 kmq, con meno di cinque

Viaggio milioni di abitanti, è diviso in due entità territoriali (la federazione croata-musulmana e la repubblica dei serbi di Bosnia, 3 Presidenti, uno musulmano, uno croato e uno serbo, 13 governi, 13 parlamenti e più di 200 ministri che rappresentano 75 partiti politici)? Anche restaurare un cimitero e con soldi privati è un’opera impossibile. Proseguiamo dieci minuti salendo su una delle colline che sovrastano la città. Lungo la strada alcuni mezzi della forza di pace ed alcuni militari che al di là di una striscia gialla che avverte del pericolo, dopo dodici anni stanno ancora cercando le mine lungo i sentieri e il bosco che scende in città. Arriviamo alle strutture che nel 1984 hanno ospitato i giochi olimpici invernali. Ecco un altro dei contrasti: i luoghi simbolo dello sport, della condivisione, del rispetto tra gli uomini, dopo essere stati trasformati in luoghi militari sono stati distrutti e dati alle fiamme. Alla base della stazione della funivia ci sono ancora le tracce pesanti sul terreno dei carri armati e dei cannoni che hanno martoriato la città. La pista del bob corre desolata infilandosi con ampie curve che giocano nel bosco. Un serpente di cemento, scuro, degradato, irreale, uno scheletro eterno colorato da graffiti incomprensibili nelle parole ma che nelle immagini esprimono violenza ed esaltazione. Facile capire che sia stato utilizzato come riparo dal quale si poteva sparare di sotto senza rischiare nulla. Appena cinquanta metri sotto le prime case di Sarajevo. Le più facili da colpire. Si vedono ancora decine di tetti sventrati dalle granate. Mi viene voglia di

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Viaggio tirare un sasso sapendo bene che forse potrei raggiungerle con la sola forza delle braccia. Dei panni stesi mi ricordano, ma tutto faceva credere il contrario, che in quelle case molte famiglie hanno continuato e continuano a vivere. Camminiamo per mezzora lungo la cresta della collina. Una dopo l’altra si susseguono le postazioni dei cecchini. In vari punti ci sono ancora i sacchi di sabbia sui quali si appoggiavano e si proteggevano i seminatori di lutto. Guardo giù. Si vedono i famosi incroci della morte, Zijad mi indica i punti più esposti, quelli dove era impossibile ma indispensabile passare correndo a zig zag per andare a prendere l’acqua al fiume. Ci sediamo su una roccia e mi racconta come hanno vissuto. Di come si facessero le sigarette con la carta di giornale, di come lui per sfamare le sue due bambine rischiasse una pallottola per poter andare a raccogliere le foglie per terra e poter fare una zuppa. Senza acqua, luce, cibo, riscaldamento. Di come in ogni casa si facesse la conta o i turni per andare a prendere un po’ di legna, l’acqua o qualcosa da mangiare al mercato nero. E di come il tuo vicino, un tuo amico o un tuo parente, uscito per provvedere anche a te non avesse fatto più ritorno. Delle esplosioni, della tensione dei colpi che si sapeva da dove partivano

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ma non dove arrivavano. Della gente che vedevi passeggiare per strada e di colpo cadere come birilli. Mentre parla il mio sguardo non abbandona quegli incroci. Penso una delle cose più terribili che abbia mai pensato. Ho l’idea che sparare da quassù, esattamente dove sono seduto io, sia stato come farlo in un videogioco dove il nemico è tutto ciò che si muove. Un gioco sadico e perverso. Da quassù gli uomini e le donne sono piccoli e distinti disegni animati, non si distinguono i volti, l’età, il sesso, non si sentono le voci. Questa immagine del videogioco mi angoscia, la rifiuto ma torna a galla come tutte le verità. Non sento più le parole del mio accompagnatore, mi sembra di vivere momenti che non ho mai vissuto. Rabbrividisco quando mi dice che di postazioni così, intorno a Sarajevo, da ogni lato, ce n’erano più di duecento. Un’enorme sala giochi immersa nella natura dove chi voleva poteva giocare gratis con la vita degli altri. Questo solo qualche anno fa e a poche centinaia di chilometri dalle nostre case. Avevo ragione, non riuscirò a darmi nessuna risposta. Le uniche me la dà il mio ormai amico Zijad: nel 1990 a Sarajevo c’erano stati 43.000 matrimoni misti, nel 2007 ce ne sono stati solo 3000. La differenza tra queste due cifre è odio. Prima della guerra Sarajevo aveva 532000 abitanti,

alla fine dell’assedio 420000. La differenza data da chi è morto e chi è riuscito a fuggire è solo e soltanto odio. Il nostro giro continua. Torniamo in città l’attraversiamo fino ad arrivare dall’altra parte della valle. Mi mostra un tunnel scavato nella terra lungo 760 metri ed alto poco più di un metro e mezzo e largo altrettanto con due rudimentali binari. Questa è stata l’unica via di accesso all’esterno dalla quale passavano uno alla volta soldati, politici, feriti, viveri e armi. Passando sotto l’aeroporto con la benevolenza dei soldati francesi che lo sorvegliavano, questo buco nel terreno senza aria ed asfissiante è stato ed è il simbolo della speranza. E’ stato bombardato più volte e nella baracca dalla quale vi si accede è ancora visibile nell’asfalto lo scheletro di una grossa granata che anche lì ha portato morte e distruzione. Oramai è quasi sera. Zijad mi porta a fare due passi nella parte del centro più nuova e commerciale. Anche qui non mancano i negozi delle più famose griffe italiane e francesi. Il corso principale è affollato e sembra di stare in una qualsiasi città occidentale. Non è possibile che qui sia avvenuto quello che ho visto e sentito in queste ore. C’è una grande differenza però. In vari punti sull’asfalto ci sono delle macchie di vernice rossa che si spargono a raggiera tutt’intorno. E sul muro più vicino


Viaggio

una targa con una data ed il numero dei morti dell’ennesima strage. Quadri astratti, molti, dei quali camminando da solo non mi sarei mai accorto. La gente con le proprie chiacchiere ed i propri pacchi, ci cammina sopra con l’indifferenza di chi non ha nulla da imparare o ricordare perché già sa. Arriviamo ad un mercato pieno di frutta e fiori, affollatissimo. Un affresco di gioia, colori, luce. La targa qui indica la strage più orrenda: quasi settanta morti tra uomini e donne che erano andati a comprare il pane. L’ultima strage di Sarajevo. Pochi giorni dopo la Nato decise di intervenire e le postazioni serbe intorno alla città furono bombardate. Zijad non mi ha mostrato a caso proprio alla fine quel posto. Mi ha voluto far capire che tutto quel massacro sarebbe potuto finire prima se si fosse voluto. Se la politica, la diplomazia o solo il buon senso del mondo avessero voluto evitarlo. Ci guardiamo un attimo e nei suoi occhi vedo un momento di commozione per una storia che avrà raccontato decine di volte. Riesco anche io a sentirmi responsabile per ciò che qui è successo. Glielo dico. E con la forza di chi ha imparato ad essere uomo, come se volesse essere lui a consolare me, mi dice che vuole portarmi in un ultimo posto, un luogo dove non va

sempre quando accompagna qualche turista un po’ più curioso come me in questo tour non autorizzato dalle autorità. Poco dopo siamo in un’altra zona della città, a cinque minuti dal centro. Ci sono due palazzine, o almeno quello che ne rimane, una appoggiata all’altra. Lunghe e basse, un paio di piani ciascuna che sembrano cresciute in un campo di arbusti selvatici. Sono state completamente sventrate dagli incendi e dalle pallottole. Una scena irreale, sembra che su quegli scheletri ci abbia lavorato esagerando un maestro degli effetti speciali. Non capisco mi pare troppo per una qualsiasi guerra, per una qualsiasi struttura considerata un bersaglio. Ricordo perfettamente le parole di Zijad. - Queste case sono state tra le prime ad essere colpite nei primi giorni dell’assedio. Qui ci sono state molte vittime. - Lo immagino- gli rispondo, per essere ridotte così! Ma cosa c’era qui di così importante?- gli chiedo poiché quelle case non mi sembrano diverse da tante altre, tutte uguali nel loro monotono stile popolare che ci sono intorno. - Nulla di particolare, sono state colpite a caso. Guardo e fotografo quelle mura devastate dai colpi. Siamo ad un metro dalla facciata

principale di una delle due case. - Sul muro perimetrale di questa casa sono state contate più o meno quattrocentomila pallottole tra grandi e piccole- aggiunge Zijad. - Non capisco- insisto. - Vedi, tutti noi ci chiedevamo perché ogni giorno da qualsiasi parte intorno alla città piovessero centinaia di proiettili in questo posto. Il motivo lo abbiamo saputo da alcuni militari serbi alla fine dell’assedio. Ogni mattina gli ufficiali consegnavano ai soldati che ci assediavano due casse di munizioni con l’ordine di non andare via finché non l’avessero finite. Queste case erano state subito abbandonate e così chi non voleva uccidere quelli con cui aveva convissuto, lavorato, studiato, giocato, mangiato, fino a qualche settimana prima, sapeva bene dove poter sparare. Lo guardo perplesso, mi sorride, arriccia le labbra, ha gli occhi lucidi. Muove la testa in un impercettibile gesto di assenso. Anche io. Fatico a credere a questo racconto dopo ciò che ho visto e che ho sentito. In certi casi il Bene è più difficile da capire del Male. Lo abbraccio, non dico altro. E non scrivo altro...

P.42/47: Sarajevo (vd. testo, tutte le foto M. Cohen)

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Misteri

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Misteri Antimassoneria ed extraterrestri

I C

ome ricorda Christian Jacq nel suo noto e diffuso La Massoneria: storia e iniziazione (Milano 1978), “nel 1823 un Fratello massone di nome Olivier affermava testualmente che la nostra Istituzione già esisteva in diversi sistemi solari, prima della creazione del globo terrestre. In realtà, egli non faceva altro che riprendere un mito, secondo cui una società iniziatica che si rispetti si confonde con l’ordine stesso dell’Universo. E’ per tale ragione” egli rileva “che certi massoni potranno sostenere, senza essere mentalmente confusi, che la Libera Muratoria era gia ben viva prima della formazione della Terra e diffusa nel Cosmo”. Ma c’è di più. Sempre nel XIX secolo il concetto espresso dal suddetto Fratello massone Olivier si collegava evidentemente, in ambito astronomico, a quello riferito a “la pluralità dei mondi abitati” divulgato da Camille Flammarion (e divenuto il titolo di un suo best seller) prendendo spunto dal successo editoriale della sua Astronomia popolare. Ma già allora i conservatori e gli scettici frenavano. Sì, le stelle erano innumerevoli. Ma forse solo il Sole aveva al suo seguito dei pianeti. Oggi invece sappiamo che la presunta eccezione costituita dal nostro astro è piuttosto la regola: e com’è noto al momento sono più i pianeti extra-solari individuati che non i corpi planetari appartenenti al Sistema Solare conosciuti. Pertanto, tutto ciò può solo

tendere ad accreditare le speculazioni filosofiche di Giordano Bruno, che nel suo De l’infinito universo et mondi arrivava ad affermare che il cosmo brulica di vita, e che gli innumerevoli corpi planetari dell’universo sono abitati da esseri che stanno all’uomo come l’uomo sta agli animali. Una formulazione forte, di difficile accettazione, fra le altre espresse dal grande nolano, per una Chiesa ancora gestita dall’Inquisizione. E così Bruno, il cui pensiero al riguardo peraltro non si discostava troppo da quello del Cardinale Nicola Cusano, finì sul rogo nel 1600 a Roma in Campo dei Fiori, assurgendo a imperituro simbolo del Libero Pensiero. Paradossalmente, mentre oggi l’astronomia fondata da un Galileo similmente inquisito e perseguitato ci indica le medesime conclusioni sulla base della ricerca d’avanguardia e del calcolo delle probabilità, adesso la Chiesa si pone su posizioni simili. Il direttore della Specola Vaticana, l’astronomo Luis Funes, dichiara pubblicamente la sua certezza nella vita extraterrestre, e afferma che dobbiamo guardare agli alieni che certo un giorno incontreremo come “nostri Fratelli”. La stessa espressione o quasi utilizzata negli anni Cinquanta dall’astrofilo esotericheggiante polaccoamericano George Adamski, avvistatore nonché fotografo di UFO e a suo dire anche in contatto con i loro piloti, i “Fratelli dello Spazio” (Space Brothers). Le affermazioni di costui, controverso antesignano

l fatto che la quasi totalità dei presidenti USA annoveri generalmente massoni e/o affiliati a vari organismi paramassonici (come ad esempio la Skull and Bones statunitense) è valso a consentire all’antimassoneria più irrazionale di scatenarsi anche sul fronte degli alieni. Da un punto di vista storico è noto che la reale “congiura del silenzio” e l’effettivo cover up oggettivamente applicati dal Governo USA al destabilizzante tema degli UFO e degli extraterrestri per palesi ragioni di ordine pubblico sarebbero stati ispirati a livello di intelligence dal Majestic 12, gruppo segretissimo di 12 consiglieri speciali voluto dal Presidente Truman che sembra tuttora operare presso l’inquilino della Casa Bianca di turno. Da questo a passare al cospirazionismo più schizzato il passo è breve. Così si è inizialmente favoleggiato di un folle “patto scellerato” fra i consiglieri occulti suddetti e i piloti non umani degli UFO teso a consentire loro sulla nostra popolazione atroci sperimentazioni bio-genetiche ad libitum in cambio di briciole di loro tecnologia e del libero accesso ai cieli del mondo attraverso la famigerata “Area 51” in Nevada. Non c’è neanche bisogno di dire che i componenti di tale gruppo sarebbero tutti massoni. Ma non solo. Oggi il tutto viene raccordato alla cosiddetta “Cabala”, un preteso potentato super-massonico ultrasegreto che gestirebbe la politica USA al riguardo e che - sempre nella logica dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo - sarebbe giunto ad accordarsi appieno sottobanco con alieni male intenzionati pur di dominare il mondo sulla pelle dell’ignaro “gregge umano”. Di più. Secondo le elucubrazioni dello scrittore anglo-americano David Icke, numerosi presunti alieni “rettiliani” (esponenti di una pretesa razza allogena sauriana a sangue freddo) oggi si troverebbero ormai in posizioni decisionali ai vertici politici della nostra società, con la benedizione dei capi della Massoneria internazionale, prona ai loro voleri e da costoro ovviamente privilegiata. Ormai siamo al totale delirio, palesemente ispirato - più che dalla fiction fantascientifica televisiva VVisitors - dall’imbecillità. Anche se i libri di Icke sono dei best-seller nel mondo anglosassone.

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Misteri

del “contattismo” in ufologia, hanno poi trovato autorevole conferma in quelle, attuali, del recentemente scomparso teologo ed esorcista di Santa Romana Chiesa Monsignor Corrado Balducci, strenuo sostenitore della realtà degli “Unidentified Flying Objects” quali astronavi aliene in visita alla Terra e dell’esistenza di civiltà extraterrestri. Balducci ha affermato che negare la realtà di esseri extraterrestri intelligenti sarebbe un assurdo in termini teologici. Infatti ciò sarebbe limitativo dell’onnipotenza creatrice di Dio nella Creazione Continua. Pertanto non solo gli alieni di certo esistono, ma addirittura non possono non esistere. In realtà sempre in ambito cattolico tali concetti erano già stati espressi negli anni Sessanta dal teologo Padre Domenico Grasso e negli anni Cinquanta dal gesuita americano Padre Francis Connel. Entrambi avevano sottolineato come in pratica gli alieni possano essere materialmente a noi uguali (a parte la forma fisica) oppure superiori o inferiori; ed eticamente come noi ovvero peggiori o migliori (senza poi entrare nel merito del supposto valore cosmico del Peccato Originale e quello salvifico della Resurrezione di Cristo). Il ventaglio delle possibilità è ampio. In altri termini, le posizioni cattoliche odierne quasi coincidono, comunque, con quelle di Giordano Bruno. Meglio tardi che mai. In ambito protestante, d’altro canto, il discorso non è da meno.

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Già il 28 luglio 1954, in seguito alle persistenti segnalazioni di UFO di quel periodo, il Reverendo Dessauer di Monaco di Baviera, durante un convegno a Bonn di teologi e sociologi sul tema della vita nell’universo, aveva dichiarato: “Le prove raccolte finora in merito ai dischi volanti (così erano allora chiamati popolarmente gli UFO) sembrano dimostrare con sufficiente certezza che la Terra è oggetto di osservazioni da parte di esseri ragionevoli provenienti da un altro pianeta. Questi esseri devono essere considerati alla stregua di persone dal punto di vista fisico e alla stregua di creature di Dio dal punto di vista teologico. Se un giorno fosse possibile prendere contatto con questi esseri, si produrrebbe l’evento più sensazionale e più drammatico della storia umana. E’ dovere dei governi preparare gli uomini all’eventualità di un tale incontro”. Guarda caso, oggi si parla ormai sempre di più di “esopolitica” (le possibili interazioni e relazioni con esseri non terrestri) e Hollywood ci continua a propinare (dai primi anni Cinquanta) pellicole fantascientifiche che in mezzo secolo hanno ‘‘acculturato’’ al tema l’intera popolazione mondiale in base a quelle che a livello cinematografico sono state chiamate da qualcuno “produzioni orientate” a preparare il pubblico a certe prospettive. Ultimo in ordine di tempo, il dignitoso remake di Ultimatum alla terra, film di

culto del 1951. Uscito a dicembre, ha immediatamente battuto in USA i record di incasso. A ben donde. Sul fronte strettamente astronomico, l’equazione di Frank Drake è alla base della certezza di molti scienziati nella esistenza di civiltà extraterrestri su cui si fonda la ricerca radioastronomica del Progetto SETI (acronimo da Search for Extra-Terrestrial Intelligence, ricerca di civiltà extraterrestri), il programma teso ad auscultare i segnali provenienti dal cosmo alla ricerca di una emissione intelligente. Il SETI, promosso dal romanzo (poi divenuto un film con Jodie Foster) Contact, porta avanti il discorso secondo cui un universo disabitato sarebbe indubbiamente “un grande spreco di spazio”. Nulla di più vero. D’altronde, per l’ideale massonico il concetto di un cosmo popolato dovrebbe essere conseguente e scontato. Non va dimenticato che gli astronauti americani Virgil Grissom, John Glenn, Gordon Cooper, Walter Schirra, Thomas Stafford, Paul Weitz ed Edgar Mitchell erano massoni, al pari di Edwin (Buzz) Aldrin che il 20 luglio 1969, giunto sulla Luna con Neil Armstrong con una bandiera massonica, si rivolse al mondo via radio con queste parole: “Vorrei cogliere quest’occasione per chiedere ad ogni persona che si trovi in ascolto, chiunque sia, di raccogliersi per qualche istante, rendersi conto di ciò che è successo in queste ultime ore e ringraziare Colui in cui crede e nella maniera


in cui crede”. Un messaggio che è intriso di concetti propri della Libera Muratoria e nel contempo un vibrante inno al Grande Architetto dell’Universo. Inoltre, va ricordato che Aldrin ha anche parlato di UFO osservati sulla Luna, mentre Cooper e Mitchell hanno addirittura accusato il Governo USA e la NASA di occultare al pubblico la realtà di persistenti visite di esseri alieni alla Terra in nome della “ragion di stato”. Alieni o no, quel che è certo è che significativamente la popolare saga cinematografica di Guerre stellari (Star Wars) col suo Ordine (palesemente ispirato a quello del Tempio) dei Cavalieri Jedi sorretto non dalla Fede ma dalla multiforme Forza (che col suo Lato Oscuro pur seduce e travia il futuro Darth Vader) e caratterizzato da apprendisti e maestri e così pure quella televisiva di Star Trek con la sua più che esauriente Prima Direttiva sono state letteralmente intrise di simbologie e spunti di carattere strettamente massonico alquanto comuni in USA, a riprova dell’evidente affinità fra le nuove aspettative cosmiche dell’umanità di cui Hollywood si fa interprete e gli ideali universali e senza tempo della Libera Muratoria. Gli eventuali alieni che, se come tutto lascia ormai pensare davvero visitano con discrezione la Terra, non ci hanno evidentemente mai coinvolti in una “Guerra dei Mondi” o comunque molestati più di tanto, con tale asettico e responsabile distacco nei nostri confronti mostrerebbero indirettamente una Coscienza Cosmica di cui in larga misura l’uomo profano con la sua violenza e la sua paura è del tutto privo; ma perfettamente in linea con i dettami massonici. Di conseguenza, forse, in fondo la criptica e sconcertante affermazione del Fratello massone Olivier del 1823 relativa all’esistenza di civiltà extraterrestri preumane regolate dai principi massonici potrebbe risultare più fondata e consapevole di quanto Christian Jacq non possa sospettare. Forse, a conti fatti, l’Umanità della Terra è come un profano, giunto infine alle porte del Tempio Cosmico al cospetto di un Guardiano della Soglia (seppur alieno) e in attesa di esservi ammesso. Auguriamoci dunque di potervi entrare presto e soprattutto di saperne essere degni. P.48: Apollo 17 (7-19 dicembre 1972), Il ‘Lunar Rover’, automobile lunare abbandonata al termine della missione; p.49: L’astronauta Edgar Mitchell della missione Apollo 14 (31 gennaio-9 febbraio 1971); p.50: Sci-Fi anni ‘50: i minacciosi ‘dischi volanti’; p.51: Manifesto del 50° Anniversario della NASA.

Misteri

Gli ufo e gli alieni per un astronauta massone

I

50 anni della NASA sono stati caratterizzati da una pubblica dichiarazione a sorpresa (rilasciata il 21 luglio 2008, nel trentanovesimo anniversario dello sbarco USA sul nostro satellite) dell’astronauta Edgar Mitchell, il sesto uomo disceso sulla Luna nel 1971 con l’”Apollo XIV”, notoriamente massone. Eccola. “Sono stato abbastanza privilegiato da sapere con certezza che siamo stati visitati sulla Terra dagli alieni e che gli UFO sono un fenomeno reale. E’ stato tenuto segreto dai nostri governi per circa 60 anni, ma lentamente le notizie stanno sfuggendo al controllo e alcuni di noi (astronauti) sono stati abbastanza fortunati da essere stati informati su alcuni eventi. Gli E.T.

sono proprio simili a quelli che sono poi stati dipinti dai films di fantascienza: piccoli e con occhi oblunghi, e non hanno cattive intenzioni nei nostri confronti”. Quanto sopra senza se e senza ma. Come c’era da attendersi, la presa di posizione di Mitchell ha spiazzato l’Ente Spaziale statunitense. “Il Dr. Mitchell è un grande americano, ma non condividiamo le sue idee su queste tematiche” hanno replicato freddi e stizziti alla NASA, più volte accusata di occultare dati al riguardo. Incredibilmente, quasi avesse ricevuto direttive in tal senso con “veline” assimilabili a quelle del periodo fascista, la stampa USA ha pressoché ignorato la scomoda notizia, ripresa peraltro dai media in Italia.

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Stelle

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a millenni l’uomo si interroga sul senso della vita, sul significato degli accadimenti esistenziali, sul valore dei rapporti con gli altri esseri umani, sull’utilità o vanità delle esperienze che si succedono, differenziate o ripetute, mentre l’età aumenta. Si interroga sulla gioia e sul dolore, sui sentimenti più nobili e le pulsioni più viscerali, sul perché della morte e quindi della vita stessa. Si interroga sul destino. E, da millenni, alterna e sovrappone risposte diverse, chiedendo ausilio alla fede, alla scienza, alla cultura o alla filosofia, al pragmatismo o al fatalismo, ma ritornando più o meno sempre al punto di partenza: quel misterioso punto nello spazio-tempo che è la propria nascita, con le sue eterne domande rinnovate. Chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Anche l’astrologia ha fornito un contributo a questa ricerca di verità; anzi, il cielo è stato forse il primo e primario ausilio a cui l’uomo si è rivolto per meglio capire il proprio essere sulla terra. Un ausilio ancora valido, e che sopravvive anch’esso da millenni non perché abbia saputo fornire una risposta assoluta e definitiva ma perché, a differenza della fede, della scienza, della filosofia o di ogni altro strumento conoscitivo, l’astrologia ha qualcosa in più: l’identikit del punto di inizio, l’evento simbolico della propria genesi, immortalato nel tema natale come un codice di riconoscimento istantaneo, un riferimento originale ma contestualizzabile e insieme decifrabile nel tempo. In quanto immagine, un tema di nascita si mostra evidentemente come opera in corso: sembra la fase di un divenire, stadio di un essere già formato ma che si sta ancora costruendo. Non ha nulla della purezza originale degli inizi, non è un quaderno bianco, una geometria perfetta, non ha la disarmante e profetica tenerezza di un volto neonatale... Ha invece, proprio come un volto adulto, già incise le tracce di una pesantezza accumulata, di un decadimento che si è già espresso, di un’inerzia che resiste; ha carenze, incognite o sproporzioni, ed altrettante speranze, offerte, prospettive. C’è già tanto e tanto ancora manca, in un tema di nascita. E’ l’istantanea di un presente che riflette un passato e contemporaneamente evoca un futuro. Osservando un tema natale, considerare l’esistenza che inaugura e rappresenta come un tutto autosignificante risulta difficilissi-

Stelle

mo per l’astrologo; se non altro perché disconoscere una domanda non equivale a rispondere. Dunque, è indubbiamente possibile non credere alle vite precedenti, a una esistenza ultraterrena o a un Ente superiore, mantenendo quindi un atteggiamento laico e agnostico nella pratica astrologica - tant’è che non tutti gli astrologi sono religiosi o, nel caso, reincarnazionisti - ma non è risolutivo: il tema natale resta lì, in tutta la sua evidenza, come un bagaglio e insieme un viatico, una malattia e insieme

convergono a far sì che accada qualcosa e non qualcos’altro; si tratta di considerare da un punto di vista assolutamente diverso sia l’osservazione del cielo simbolico che la sua traduzione in termini reali sul piano terrestre. E’ vero che, per fare un esempio, alla nascita di un bimbo noi astrologi possiamo già dire che, dopo circa 29 anni, quel bimbo ormai uomo dovrà confrontarsi con le verifiche del ritorno di Saturno, come tutti;

una cura; la tappa di un cammino iniziato - forse di un viaggio iniziatico - ed anche la direzione che lo guida. E resta lì, anche, come interrogativo. D’altra parte, se pure non ci fosse né origine né meta, resterebbe da chiedersi perché l’individuo nasca con un tema così dettagliato e non con un altro, laddove l’unica risposta verosimile dovrebbe ricorrere al caso, facendo rientrare dalla finestra il dubbio destinico cacciato dalla porta... Sono sempre stata una sostenitrice del compito anche previsionale dell’astrologia, riferendomi all’originale etimo di “oroscopo” come uno strumento di osservazione del tempo ed appoggiandomi in ciò a ben più illustri colleghi, Barbault e Volguine in testa. Tuttavia, ho anche sottolineato più volte che il termine “previsione” non equivale a “predizione”, e che tale differenza non è certo secondaria o marginale. Non si tratta, infatti, di mettere le mani avanti nei confronti di possibili o inevitabili errori previsionali ed ancor prima interpretativi, dovuti alle mille variabili che

ma non potremmo mai affermare che si tratterà dell’ingresso nel mondo del lavoro, di una paternità responsabilizzante o di un qualche altro bilancio che si troverà a sostenere. Anche conoscendo altri transiti contemporanei, potremmo aggiungere che quel periodo della sua vita sarà affrontato da lui con grinta e fiducia oppure con inquietudine o timore, che forse si concentrerà su un settore piuttosto che un altro, ma anche così sapremmo descrivere solo un eventuale approccio personale nei confronti di una realtà di fatto, di per sé inconoscibile. Il futuro è in continuo movimento: non si fa imbrigliare, né lusingare da aspettative o scaramanzie; cambia mentre cambiamo noi raggiungendolo, e si sposta più avanti man mano che si fa presente. Mentre un tema astrologico rispecchia sempre un vissuto soggettivo; ed è per questo - essenzialmente per questo - che non è possibile oggettivarne le manifestazioni. Eppure... Se fosse solo così, se l’astrologia fosse solo questo, non aggiungerebbe in

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pellenti o legittimi. Il fascino e insieme la Tuttavia, se torniamo indietro fino alla fondo granché alla filosofia, alla religione, difficoltà di questa disciplina è che i livelli protostoria dell’astrologia babilonese, non alla psicologia e persino alla scienza. Invece, in cui un segnalatore astrologico può espri- si può dire che allora ci fosse un atteggial’astrologia ha nell’osservazione del tempo mersi sono davvero tanti, se non infiniti. mento culturale, ideologico o persino tecuno strumento eccezionale ed unico in Importante, e non certo facile, è saper nico, particolarmente deterministico. quanto tale. Io apro le effemeridi spesso, riconoscere a quale livello e in quale fase L’idea degli “influssi” o i concetti di causaanche solo per sfogliarle a caso, senza si trova un soggetto, perché i movimenti effetto erano lontanissimi dal pensare e controllare date precise o movimenti pla- celesti, come disse Platone, sono agire di quel tempo, in cui si credeva che netari specifici. Il mio sguardo corre su “marcatori del tempo” ed è assolutamente il movimento dei corpi celesti fosse niente quei numerini tutti in fila e ben sistemati, inutile o persino pericoloso parlare ad un di più e niente di meno che una “scrittura sobri e discreti nel loro presentarsi impar- consultante di realtà a lui incomprensibili, divina”. Un linguaggio, insomma, decifrazialmente, privi di commenti e comunque o comunque non comprensibili in quel bile solo da sacerdoti o da saggi e non certo autorevoli in ciò che rapprealla portata dei profani, che però sentano. Tutto è così diverso e in quanto tale cominciò neChe io preghi, non per essere protetto insieme simile, rispettosamente cessariamente ad essere codiautonomo nelle sue parti seppur ficato in una sintassi, con regole dai pericoli, ma per affrontarli impavido. ciclicamente scandito ed arsempre più precise, pur rimaChe io implori, non per alleviare la mia pena, moniosamente collegato, e in nendo un mezzo di comunima per avere il coraggio di superarla. tale composta semplicità la foglia cazione tra cielo e terra, anzi Che io non cerchi alleati nella battaglia non ha minore importanza uno studio del cielo finalizzato dell’albero o della foresta, purché a comprenderne i significati per della vita, ma la mia stessa forza. si inseriscano tutti nel medesimo la vita sulla terra; per gli uomini, Che io non gema nell'angosciosa paura e più ampio contenitore che appunto. Anche se quella di di non salvarmi, ma che speri di avere pazienza chiamiamo Natura ma che a sua allora era paragonabile solo per ottenere la mia redenzione. volta rimanda a qualcosa di altro molto parzialmente all’astroe di più. Se riusciamo a sistemare logia che conosciamo oggi e che Concedimi di non essere un vile, in fila dati e date, gradi e segni, si sviluppò più tardi, resta il sentendo la tua misericordia solo ingressi, lunazioni ed eclissi... se fatto che la finalità attribuita a nella mia vittoria, ma fa che io riconosca riusciamo a farlo con il solo una tale scrittura celeste era ausilio della scienza matematica quella del presagio, e quindi la stretta della tua mano nella mia sconfitta. e astronomica e senza che sia dell’avvertimento, della rinecessario nient’altro, all’astrochiesta, del suggerimento o della (Rabindranath Tagore) logia resta il compito e l’onore guida. Per cui il compito degli di riconoscere che un tale ordine astrologi non era affatto quello è di per sé una realtà spirituale, perché la momento; mentre per chiunque ed in di scoprire cosa sarebbe accaduto, ma cosa sola natura materiale - foss’anche celeste qualunque momento c’è sempre qualcosa sarebbe potuto accadere “se”: se si facevano ed infinita - è invece, di per sé, entropica; “di più” o “di meglio” che lo riguarda e a o non si facevano determinate cose, se ci come la scienza stessa ha decretato. E que- cui quindi può accedere. E perché per chi si comportava in un modo piuttosto che sto non può che essere un conforto per fa consulti ciò che più conta è, appunto, in un altro... Il che presupponeva una l’uomo, che vaga sulla terra da sempre alla l’essere umano: con la sua individualità, possibilità - se non proprio una capacità ricerca di un senso, di un motivo per met- la sua unicità, le sue piccolezze e grandezze; - di interagire in modo dialettico con gli tere un passo dopo l’altro, di un valore a e in fondo il suo bisogno più grande, sot- eventi. cui dedicare tale fatica e possibilmente di tinteso ai tanti che può avvertire o mani- L’idea di una partecipazione alla costruuna meta verso cui dirigersi. Se, come festare, è di trovare un posto nel mondo, zione del futuro, e quindi di un dialogo astrologi, non ci limitiamo alla ricerca ma un senso alla vita. creativo con il destino, nacque proprio da facciamo anche consulenza, non possiamo L’astrologia moderna, soprattutto quella quel dia-logos tra movimento celeste e negare che le domande dei nostri consul- psicologica, ha preso le distanze dagli aspet- azione terrestre, e si basava essenzialmente tanti, più o meno complesse o raffinate ti divinatori del proprio esercizio, predili- sulla certezza di un qualche legame tra dalla cultura personale, non sono altro che gendone la funzione conoscitiva del carat- Alto e Basso. Una tale idea è poi giunta una traduzione individuale e contingente tere e delle tendenze e possibilità evolutive. sino a noi attraverso l’ermetismo e il neodelle eterne domande dell’uomo: appunto In particolare, l’astrologo orientato su un platonismo rinascimentale, per approdare chi sono? da dove vengo? dove vado? Pos- approccio umanistico tende giustamente alla sincronicità junghiana senza sostanziali sono esprimersi in termini modesti o su- a negare l’esistenza di “influssi” diretti e alterazioni, che sono intervenute invece perstiziosi, possono riguardare il lavoro, causali tra movimenti in cielo e vita sulla solo a livello di convivenza culturale e l’amore, la salute o il denaro, ma ciò che terra, rivendicando e promuovendo il molto più recentemente; cioè quando l’era segnalano è un bisogno di rassicurazione, diritto-dovere dell’uomo ad interpretare moderna, con l’arroganza seguita alla conun bisogno di aiuto, un bisogno di signi- in senso più maturo gli accadimenti sia quista del senso dei diritti e il trasferimento ficato; e non esistono bisogni meno im- interiori che esterni della propria vita. dell’oggetto fideistico dalla divinità alla

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scienza, ha cominciato a pensare che la libertà non fosse questione di coscienza individuale, ma quasi esclusivamente di esistenza fisica, materiale o comunque visibile e tangibile. Da questo a sostenere che l’uomo fosse artefice del suo destino, il passo fu breve; ma è ancora oggi un passo avventato... Nel suo insaziabile bisogno di rassicurazione, l’uomo può esprimere il massimo del coraggio e dell’orgoglio, come il massimo della fragilità e codardia. E in questa delicatissima condizione può accettare o rifiutare ogni aiuto: filosofico, scientifico o religioso. L’astrologia si offre a lui come una luce - piccola o grande che sia - per osservare meglio ciò che è dentro e fuori di lui, le cose che gli accadono o forse, come disse Rudhyar, le cose a cui lui accade... Lo lascia però libero di usare o meno una tale fiaccola, laddove l’astrologia non giudica né obbliga, non dà prove e nemmeno chiede scuse; ed è importante che anche l’astrologo faccia altrettanto, indicando senza imporre, giustificando ma responsabilizzando, spiegando e soprattutto comprendendo. E suggerendo al consultante non le “risposte esatte” che così spesso cerca, ma le domande più giuste - perché più sue; inserendole in quel generoso vocabolario di significati che è il suo tema natale. Credo che tutti noi ricordiamo almeno un momento della nostra esistenza che l’ha segnata inesorabilmente con un “prima” e un “dopo”. Ci sono transiti che avvengono una volta sola nella vita, e ognuno di noi ha probabilmente vissuto il proprio, o lo vivrà. E’ raro che si tratti di momenti felici, e non perché il destino prediliga il linguaggio della sofferenza per farsi ascoltare, ma perché la fatica, il dolore o lo smarrimento si pongono in quanto tali come domande, ci spingono a farle, ci costringono a farcele; mentre la felicità può farne a meno volentieri, essendo già risposta... forse l’unica e vera risposta che conta. Sono dunque e paradossalmente i momenti più difficili quelli che ci offrono la possibilità di diventare partecipi, se non artefici, del nostro destino. Perché è in quei momenti che possiamo scegliere: non certo di cambiare la realtà, di direzionarla a piacimento e con la sola forza dell’intenzione verso circostanze o prospettive diverse; pensare che la libertà umana arrivi a questo significa peccare di ingenuità o di superbia. Ma non per questo è meno

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potente e creativa la libertà che invece possediamo di modificare la realtà modificando il nostro modo di osservarla e di giudicarla; e in questo sì che l’intenzione diventa strumento magicamente efficace e, oltretutto, disponibile in ogni momento. Gli stoici la chiamavano “accettazione della necessità”; Assagioli la tradusse poi in “collaborazione con l’inevitabile”... Ma io credo che sia qualcosa di più, o forse di altro. Non si tratta infatti di nobilitare la fatica con trucchetti filosofici o di compensare la frustrazione con una sublimazione sacrificale. No: si tratta di esserci. Di esserci anche noi in quell’avventura destinica, proprio in quel momento ed esattamente in quel modo, per rispondere in prima persona non tanto o soltanto ad eventuali vite precedenti ma in particolare a questa, che è in fondo l’unica a competerci e su cui possiamo intervenire. E si tratta di guardarla con gli occhi amorevoli di una madre per cui il figlio è sempre meraviglioso, e che cerca di capirlo ed aiutarlo quando soffre, mai limitandosi a soffrire per lui o con lui... Se è vero, e lo credo fermamente, che essere

inclini a qualcosa non significa essere “condannati” a farla, è altrettanto vero che la differenza cruciale non è tra fare o non fare, e forse nemmeno tra fare in un modo piuttosto che in un altro, bensì nel capire cosa stia davvero accadendo, e quindi trasformare in Essere sia l’esperienza vissuta che quella subita. Solo un tale interesse (essere dentro) può permetterci infatti di capire anche il perché di ciò che accade e ci accade, e poco importa che sia prima, durante o dopo la relativa esperienza: in fondo, se c’è una cosa che l’astrologia ci insegna è che la coscienza può usare il tempo quando vuole, ma non può farsene usare se non vuole... E forse, proprio per questo, non è l’uomo a costruire il proprio destino, bensì il destino a costruire l’uomo: a volte senza la sua autorizzazione preventiva, spesso con la sua complicità inconscia, ma pur sempre con il suo tacito consenso. [Estratto della relazione presentata al Convegno 2008 del Centro di Discipline Astrologiche italiano] P.52: Immagine da un Almanacco persiano; p.53: Immagine da un Almanacco ebraico; p.55: Immagine da un Almanacco cinese.

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a natura del rito Il rito, sia esso religioso, individuale o collettivo, consiste nella creazione di un ordine normativo, reificato in oggetti e gesti, mediante la pratica di regole codificate. In altre parole, il rito rappresenta simbolicamente un ordine di natura trascendente entro il quale si strutturano i valori della organizzazione sociale, al di là della stessa consapevolezza comunitaria (Douglas 1975). Se Frazer analizzando le magie e le superstizioni distingue i riti in quattro categorie (riti simpatici, riti animisti, riti a base dinamista, riti di contatto) avvertendo che ogni forma di rito può rientrare in più di una categoria (Frazer 1975), Durkheim, per definirne la natura postula innanzi tutto la differenza tra credenza e rito, sottolineando che: la prima è una rappresentazione che esprime la qualità del sacro in rapporto con le azioni e le contingenze profane, mentre il secondo costituisce un universo di regole, di condotta e di comportamento che l’uomo mette in atto relazionandosi al sacro. Pertanto enuclea nella essenza del rito la qualità di collegare il singolo alla collettività, di strutturarne l’appartenenza ad uno status, di rafforzare i legami della solidarietà, di infrangere le regole quotidiane per rifondare il prestigio del tempo presente sui valori di un passato mitico e immutabile. Un rito, infatti, è efficace quando produce stati mentali collettivi derivanti dalla coesione del gruppo, tanto che non esiste società, sia essa primitiva o complessa, che non metta in atto, in determinati periodi, pratiche rituali intese a rinsaldare il sentimento comune. Tanto premesso distingue i riti in tre categorie principali: - riti negativi o tabuizanti, caratterizzati dalla astinenza, dalla separazione e dal dolore, che preparano l’iniziato ad entrare nel mondo del sacro; - riti positivi collegati a momenti festivi che a loro volta si correlano a particolari situazioni temporali e spaziali che mettono in comunione con il sacro, mediante offerte e oblazioni; - riti piacolari e di purificazione che, attraverso l’accettazione anche fisica dell’angoscia e della perdita della identità, inducono alla ricostituzione dell’empatia sociale. (Durkheim, 1973) Meno schematico è il pensiero di Marcel Mauss che pone attenzione alla centralità del rito come atto sociale. Poiché è definibile sacra ogni espressione che il gruppo ritiene


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possa qualificare il suo complesso, Mauss è tuttavia, pone in discussione la stessa natura dell’opinione che ogni atto normativo possa del rito, specie dopo la crisi culturale del di indagine è offerto dai riti politici e cittadini, partecipare alla natura del rito e divenire 1968 che sembra avergli negato, almeno nel del resto spesso correlati tra loro. Se, infatti, una azione tradizionalmente efficace. In mondo occidentale, qualsiasi valore norma- il rito politico si basa su referenti noti quali questo senso resta fondamentale il suo tivo. Recentemente Martin Segalen, partendo motivi musicali, personaggi che fanno parte “Saggio sull’origine del sacrificio” scritto dall’assunto che non esistono atti sociali del mito e della storia, quello cittadino, anche insieme a Henri Hubert, che superando la senza atti simbolici si chiede quale ruolo attraverso il ruolo catalizzatore dei masstematica iniziale, attraverso l’indagine eti- occupi il rito nella società contemporanea media tende a superare le divisioni di classe mologica, approfondisce la struttura e la e in che modo possa esercitare la sua natura, e a produrre un momento simbolico di dinamica del rito. Se sacrificio traduce diret- da sempre associata alla sfera religiosa e al ritrovata unanimità, specialmente con la tamente il concetto espresso dal latino sacrum sacro, in un corpo sociale razionale e indu- partecipazione collettiva alle fasi preparatorie, facere, allora esso è collocabile alin molti casi opportunamente l’interno di un atto rituale religioso lunghe ed elaborate. In questo che comporta la rinuncia di un ambito, posto che la politica, ribene particolare e la presenza di un spetto alle forme medioevali e premediatore in grado di fare da tramoderne, oggi propenda a non mite tra due livelli: quello umano esibire il proprio potere Edmund e quello soprannaturale (Mauss Leach individua la natura del rito Hubert, 1925). Riprendendo il politico in un doppio registro: da dibattito tra Edward Burnett Tylor un lato nelle espressioni di un (se il sacrificio e quindi anche il comportamento collettivo classico, rito sia solo una forma di scambio in grado di modificare la società, - Tylor, 1871) e Wilhelm Schmidt dall’altro in quelle di un compor(se al contrario sia una forma di tamento privato il cui effetto agisce ringraziamento per un beneficio sullo status del protagonista (Leach già ottenuto - Schmidt, 1949), i due 1973). In ambedue, l’aspetto più studiosi ribadiscono le posizioni di significativo resta quello del linEmile Durkheim, evidenziando la guaggio che, amplificato dai mass Muoversi è incontrarsi ad ogni istante, natura funzionale del rito che si media, tende ad un obiettivo coè cantare al ritmo dei tuoi passi. pone come ponte di collegamento municativo e, non di rado, metaChi sfiora il tuo respiro tra il tempo quantitativo o umano comunicativo, sul quale la leadere tempo qualitativo o sacro. (Mauss ship convalida il riconoscimento non scivola dalla sicurezza della riva, - Hubert, 1925). Per Mary Douglas, sociale (Navarini 2003). spiega fiducioso la vela al vento il rito è un insieme di atti forma____________ e sfida le onde tempestose. lizzati che per giungere ad una diBibliografia Chi spalanca le sue porte mensione simbolica, impongono la presenza di determinati soggetti e avanza, riceve il tuo saluto. M. Douglas, Purezza e pericolo, Bologna e l’uso di specifici comportamenti Non rimane a contare i suoi guadagni 1975. e linguaggi. Ne consegue che la E. Durkheim, Le forme elementari della vita o a piangere ciò che ha perduto; religiosa, Roma 1973. natura del rito vada individuata nel il ritmo per la sua marcia J. Frazer, Il Ramo d’oro, Milano 1975. suo deposito di senso, nella sua M. Mauss, Essai sur le don. Forme et raison capacità di modificare l’esperienza, lo batte il suo cuore, perché questo de l’échange dans les sociétés archaïques, ed. mentre il suo stesso valore, all’initaliana Saggio sul dono. Forma e motivo significa procedere con te, ad ogni passo, dello scambio nelle società arcaiche, 1925, terno dei processi di contaminaMilano 2002 Compagno di viaggio! zione culturale, risieda nella capacità M. Douglas, Purezza e pericolo, Bologna. di creare ordine mediante la pratica Isambert, Rite et efficacité symbolique. (Rabindranath Tagore) F.A. Essai d’anthropologie sociologique, Paris di azioni simboliche di carattere 1979. ripetitivo. (Douglas, 1975). Per E.B. Tylor, Primitive Culture: Researches alcuni autori infine, la natura del rito è strializzato. (Sengal, 2002). Accade così che into the Development of Mythology, Philosophy, Religion, essenzialmente relazionata a quella della ci si debba chiedere se in una società com- Language, Art and Custom, 1871, ed. italiana a cura di Giovan Battista Bronzini, Pisa-Roma 2000. festa. François-André Isambert, al riguardo plessa quale è quella attuale il rito, che d’altra W.Schmidt,Manuale di storia comparata delle religioni, afferma che poiché la festa è un atto collettivo parte assume nuove nature o per lo meno Morcelliana, Brescia 1949 . che mette in gioco diversi registri della vita una nuova polisemicità, possa rientrare nelle M. Segalen, Riti e rituali contemporanei, 2002. sociale, la sua realizzazione si serve di rituali categorie e negli schemi validi per le società E. Leach, Nuove vie dell’antropologia, Milano 1973. fissi, universalmente condivisi, negando nel primitive e tradizionali. Fermo restando che G. Navarini, Le forme rituali della politica, Roma-Bari 2001. contempo la necessità che lo spirito che li il rito, nuovo o antico che sia, è tale solo anima debba essere necessariamente di na- quando esprime un carattere morale e riceve tura religiosa. (Isambert, 1979). La teoria, un consenso generale, un proficuo campo P.56: Maschera maori; p.57: Sperduta nel deserto, collez. privata.

Compagno di viaggio!

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e pagine di Officinae hanno già ospitato, nel settembre del 2006, un interessante articolo firmato da Fabrizio del Re su Carlo Bini di cui, allora, ricorreva il bicentenario della nascita. Carlo Bini nacque a Livorno il 1 dicembre 1806, in via delle Galere, una viuzza della città vecchia così chiamata per ricordare le piccole imbarcazioni che venivano a trovare riparo nell’antico Porticciolo dei Genovesi. Fu figlio d’una città ribelle, città dallo spirito audace, irriverente, generoso e libertario, città di gente schietta, sanguigna nei modi e graffiante nelle parole. Popolana ma cultu-

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ralmente vivace, Livorno fu crocevia di incontri e approdo sicuro per mercanti, intellettuali e per la buona borghesia dell’epoca. Qui, dove di giorno si vive di commerci e di mare e la notte si consumano drammi a tinte fosche nelle taverne, il Bini affina il gusto del paradosso, il senso d’una sagace e raffinata ironia, la capacità ad inventare la cultura del quotidiano. Patriota e letterato di qualità, autodidatta, egli compose le sue opere più conosciute in soli tre mesi: fra le altre, Manoscritto di un prigioniero e il Forte della Stella. Le scrisse nel 1833 a Portoferraio quando, arrestato insieme al suo concittadino F.D.Guerrazzi, fu rinchiuso nel Forte della

Stella perché sospettato di appartenere alla ‘Giovine Italia’. Queste opere, scrisse il livornese Giorgio Fontanelli, “[...] rivelano una grande capacità stilistica e una notevole profondità di contenuto, ravvivato da un sottile umorismo[...] da un individualismo esasperato e una irrinunciabile vocazione al sarcasmo e alla critica.” Nel Manoscritto di un prigioniero e nel Forte della Stella l’Autore affronta il tema della prigionia, nei suoi risvolti più inquietanti e dolorosi, inserendosi così in quel filone letterario cui appartengono opere di scrittori del calibro di S.Pellico, V.Hugo, G.Byron, X.De Maistre e altri. Il Manoscritto è opera certamente autobiogra-


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fica, ma anche una sorta di dissertazione sociologica, in quanto il racconto prende le mosse dalla descrizione della diversità fra la detenzione di un povero plebeo e quella di un ricco signore. Ciò gli dà modo di inserire anche alcune considerazioni sulla natura umana, quali “L’egoismo, è l’unico movente delle azioni umane. Distruggerlo non potete[......]; potete bensì modificarlo,[......] sottomettendolo alla influenza potentissima della educazione”, oppure: “Lo scetticismo è il sistema degl’infingardi”. Nei capitoli successivi l’Autore affronta la problematica della vita in carcere. A suo dire la prima esigenza che si avverte è quella di fuggire, in qualunque modo e con qualunque mezzo, foss’anche con il suicidio “[......]ma io m’attento poco a proporvelo” poiché “di rado un uomo dotato di facoltà temperate mette le mani nel proprio sangue”. Un’affermazione forte, quella di Bini, che mette in evidenza l’emergere di sentimenti estremi pur di riconquistare la libertà perduta. Egli, infatti, descrive con immagini toccanti e cariche di pathos la condizione in cui viene a trovarsi l’anima durante il primo periodo di prigionia. In modo realistico e intenso al tempo stesso la descrive, l’anima, come stante in un luogo inondato di nebbie, in cui essa vede le cose confusamente, dove i sensi non riescono a percepire, dove lo spirito “[......] giace stordito e non sa pensare” ed il corpo è completamente fiaccato. Emerge prepotentemente la sensazione che lo scrivere rappresenti un conforto, un’alternativa alla solitudine per

l’uomo che, recluso, vive lo ‘spazio’ come dimensione forzatamente limitata e isolata dal mondo: “Scrivo per capriccio - per far diventare nero un foglio bianco. Scrivo perchè[sic] non ho da ciarlare con nessuno; chè[sic] se io potessi anche con una vecchia, anche con un bambino, non pensante, non toccherei la penna”. Il disagio genera inquietudine e l’inquietudine è compagna troppo assidua nei giorni tutti uguali, dove il presente non è “ [......] il Tempo con l’ali velocissime, è una figura di piombo sdraiata in un canto”, dove passato e futuro sono “[......]spazi così vasti e così comodi per il diporto dello spirito”. Misurare il tempo è un’umana necessità che ci distingue dalle bestie poiché, quantificandolo, oggettiviamo la nostra esistenza. Infatti, come afferma F.Kermode nel suo Il senso della fine. Studi sulla teoria del romanzo [1966], “ Senza la sensazione del tempo che passa si smette virtualmente di vivere, si perde ‘il contatto con la realtà’. Anche ad un lettore frettoloso non può passare inosservato che, per Bini, prigione è sinonimo di monotonia e, soprattutto, mancanza di stimoli esterni. Infatti, se talvolta alcuno, alla ricerca di una solitudine interiore, anela al disinteresse per le cose mondane, il distacco forzato dal mondo può, diversamente, uccidere: “E del mondo che ne è stato? - Cosa volete, ch’io ne sappia, io che son qua nel Limbo? Io ho lasciato il mondo con un segno a traverso, come si fa d’un libro non finito di leggere.” Tuttavia il recluso, chiudendo le sbarre dietro di sé, ha un’unica

via d’uscita, quella che lo conduce verso la sua anima e verso il risveglio della sua mente. Il Manoscritto si conclude con il ricordo della madre, pietoso e struggente, dove al “sembiante duro” dell’uomo vissuto si contrappone l’immagine del figlio amorevole, il cui parlare è quasi un lamento di fanciullo. Meno sofferto e lacerante appare l’altro scritto di Bini, il Forte della Stella, breve ma preziosa operetta teatrale in un atto unico. Lo stile narrativo è molto diverso; il fatto stesso che sia reso in forma di dialogo lo rende più fluido. Qui l’Autore non ha più se stesso come unico interlocutore, ma introduce il signor Innocenzio Tienlistretti, un amico che va a fargli visita. In realtà il personaggio è strumentale, una sorta di finzione scenica, in quanto serve a Bini per guardarsi allo specchio, valutarsi, interrogarsi e fare un profondo esame di coscienza. Incalzato dalle domande del signor Innocenzio, che è spinto più da curiosità che da pietoso conforto, Bini affronta nuovamente molti degli argomenti già trattati nel Manoscritto e lo fa con un rafforzato sarcasmo ed ironia. Le battute fra i due sono veloci, le domande precise e puntuali, le risposte pungenti. Bini non può sfuggire né al suo investigatore né tanto meno a se stesso, cosicché i fatti, passati e presenti, sono indagati con un’analisi svolta con una precisione quasi chirurgica. L’interlocutore conduce un vero e proprio interrogatorio, presentando a Bini un nutrito elenco di possibili crimini commessi. Il signor Innocenzio snocciola tutti i Dieci Comanda-

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Personaggi menti, nel tentativo di dimostrare che in qualcosa Bini deve pur aver sbagliato perché “La giustizia non è cieca; ella non opera a caso”. Tuttavia, il nostro Carlo, pare essere distaccato dal suo stesso problema e risponde con elegante sarcasmo. Come ho detto, le tematiche sono quelle care all’Autore; il

castica e qualche perla di saggezza popolare, si incastonano le sue verità, che hanno tutto il sapore di taglienti sentenze. Il povero signor Innocenzio è stremato, non riesce a venir a capo di nulla, e alla fine si limita a chiedere: “Avete fatto del male? Avete fatto del bene?”. Riceve solo un lapidaria risposta: “Niente affatto di ciò che dite: per non avere occasione

alpine confinanti con la Savoia. Nacque a Chambery, ottavo dei quattordici figli del conte François-Xavier e fratello del più famoso Joseph,(1753-1821). Quest’ultimo, filosofo, statista ed esponente del movimento controrivoluzionario post 1789, fu un politico di prestigio e teorico radicale della Restaurazione, ebbe incarichi internazionali d’eccel-

sentimento religioso, la solitudine, la consolazione dello scrivere, il vincolo matrimoniale, che finisce sotto accusa in quanto “Il contratto nuziale stabilito in perpetuo è contro natura; [...]L’amore nel matrimonio è il principio fondamentale a cui si rannoda la convenienza delle due parti”. Ampio spazio è dato anche alla donna e all’emancipazione femminile, che Bini legge in un’ottica del tutto innovativa per la sua epoca, affatto reazionaria e decisamente progressista. L’uomo dalle tante avventure amorose afferma che “La donna è libera come l’uomo, ha le medesime facoltà [...]. L’uomo solo, o la donna sola, sono imperfetti; - l’uomo e la donna uniti insieme formano l’ente completo;”. Non possono mancare certo le considerazioni sulla giustizia sociale. Interrogato se avesse mai peccato desiderando “[...] la roba degli altri”, l’Autore, con buona arte oratoria, ribalta l’accusa dimostrando che “[...] la roba del mondo è in potere di pochi, e non è là in un monte dove ognuno possa andare, e prendere secondo il suo bisogno. [...] Solamente al Camposanto un giorno vidi una fossa fresca fresca fresca, e dimandai di chi fosse; il becchino mi rispose: - per ora non è di nessuno, - è del primo che viene; forse di me, forse di lei”. In conclusione, Bini sembra non perdersi d’animo e replica con arguzia e con stile e nel testo, fra un aneddoto, una battuta sar-

di fare il male, non facevo né anche il bene”. L’ultima domanda è di quelle scottanti, che richiede circospezione e riservatezza: “Sareste uno di quelli? Un massone, un giacobino un carbonaro?”. Bini non usa mezzi termini e si dice “[...]nemico giurato di tutte le Accademie letterarie, religiose, politiche e di qualunque specie vogliate, perché[sic] non ci credo. Un’Accademia qualunque, il meglio che possa essere sia una cosa ridicola, e il peggio una cosa inutile; e che non sia in istato di fare altra rivoluzione, fuorché [sic] facendo una capriola”. C’è chi definisce il Forte della Stella un ‘manifesto’ ideologico, chi un testamento spirituale. Ciò che appare indiscutibile è che in quest’opera Bini non sembra essere indebolito né di spirito né di tempra, bensì rinvigorisce in lui la forza di lottare per le proprie idee che afferma con energia ed orgoglio, rivendicandone la legittimità. Con la mente lucida e l’animo sereno attende ... attende con pazienza, quella pazienza che è “la virtù dei forti”. Di tutt’altro genere è l’opera letteraria di François-Xavier De Maistre (1763-1852). Anch’egli, a seguito di esperienze personali, ebbe a scrivere di carcere e di carcerati. Infatti, nel 1790, a causa di un duello non autorizzato, fu condannato a 42 giorni di detenzione nel Forte di Finestrelle, il più grande complesso fortificato d’Europa, situato in Val Chisone, a cavallo delle terre

lenza ed entrò a far parte della Massoneria di Rito Inglese nel 1774. Pensatore europeo e uomo di grande cultura, scrisse le Soirées de Saint-Petersbourg. Xavier ebbe con lui una profonda comunione di intenti e di idee:”Mio fratello ed io eravamo due lancette di un orologio, egli era la grande ed io la piccola, ma segnavamo sempre la stessa ora, sebbene in maniera differente”. Joseph era un uomo d’azione, Xavier era un poeta, sognatore e sentimentale, soldato di professione e letterato per diletto, d’indole curiosa, non disdegnò neppure l’ebbrezza dell’avventura quando, acceso da giovanile entusiasmo per l’impresa dei fratelli Montgolfier del 1783, l’anno seguente organizzò e partecipò ad una seconda spedizione. Intrapresa la carriera militare, nel 1798 le vicende politiche lo costrinsero ad arruolarsi nell’armata del generale Alessandro Suvarof (attivo nella Loggia Bellona di Pietroburgo) che operava assieme agli Austriaci. Successivamente seguì il generale russo a Pietroburgo e, alla morte di questi, nel 1801, dette le dimissioni da capitano e si trasferì a Mosca dove aprì uno studio di pittore. Rientrato nell’esercito russo, nel 1813 sposò Sofia Zagriatski, dama d’onore dell’imperatrice e, intorno al 1815, si ritirò a vita privata, dedicandosi ai suoi studi e alla scrittura. Dei cinque figli avuti da Sofia ne sopravvissero solo due, Caterina e Arturo,

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entrambi di salute cagionevole. Su consiglio dei medici si trasferì in Italia, ma inutilmente. Caterina morì a Livorno nel 1830 e Arturo a Castellammare di Stabia nel 1837. De Maistre così ricorda quegl’anni:”Sebbene la disgrazia mi abbia colpito, io amo questo bel paese e lo lascerò con rimpianto. Ci finirei volentieri i miei giorni accanto alla tomba del mio caro Arturo”. Tornato in Russia, si stabilì a Pietroburgo; morì nel 1852, a ottantanove anni, nella villa di Strelnija sul Golfo di Finlandia. L’esperienza del carcere influenzò certamente tutta la sua produzione letteraria. Fu proprio in quella circostanza che, per riempire i giorni vuoti e inutili della prigionia, trovò l’ispirazione per scrivere Voyage autour de ma chambre. Come per il Manoscritto, si tratta di una conversazione fra l’Autore e se medesimo. Un piccolo capolavoro in cui De Maistre trasforma l’immobilità forzata in libertà, iniziando un viaggio ideale e fantastico secondo una diversa prospettiva della realtà. Nonostante sia costretto a vivere in un’angusta stanza, riesce ad abbattere le barriere spaziotemporali, esplorando nuovi territori del pensiero in cui egli vaga liberamente, dalla descrizione degli oggetti appesi alle pareti, alla visione introspettiva di ricordi e sensazioni. Diventano così, protagoniste, "l’anima" e "la bestia"; l’una lo innalza verso lo spirito, l’altra lo spinge verso le cose mondane. Due entità separate che, non di rado, finiscono per dialogare. Più inclini ad una sottile malinconia sono quei passi in cui l’Autore si abbandona al ricordo degli affetti. Ad un amico scomparso dedica una delle sue pagine più commoventi: “No, colui che allaga di tanta luce l’Oriente non l’ha fatto splendere ai miei occhi per piombarmi ben presto nella notte del nulla. [......]No, il mio amico non è entrato nel nulla; qualunque sia la barriera che ci divide, lo rivedrò”. Talora sagace e ironico, ma sempre misurato ed elegante, De Maistre, giunto alla fine del viaggio, si rivolge a coloro che stanno per restituirgli una libertà mai persa: “Come se avessero il potere di rubarmela per un momento solo, ed impedirmi di percorrere a mio piacimento il vasto spazio che sta sempre aperto davanti a me. Essi mi hanno vietato di percorrere una città, un punto; ma mi hanno lasciato l’universo intero; l’immensità

e l’eternità sono ai miei ordini”. Il motivo della prigionia e dell’uomo stretto nella morsa del tempo e dello spazio, lo ritroviamo in altre opere, in Les prisonniers du Caucase (1825), nella poesia Le prisonnier et le papillon (1813)e nel Le lepreux de la Cité d’Aoste (1810), quest’ultima, opera a me particolarmente cara. Il lebbroso è un personaggio

vero e non immaginario, come molti suoi personaggi. Si chiamava Pier Bernardo Guasco, nativo di Oneglia e visse ad Aosta, confinato in una torre di origine romana, detta dello Spavento, dal 1773 al 1803, anno della sua morte. Qui il protagonista è privato della libertà non per motivi ideologici ma a causa della malattia che lo rende ‘diverso’. E’ la storia di un "Giobbe moderno" che, totalmente isolato dal mondo, confida a un inatteso soldato(Xavier) la sua sventura, essendo di consolazione “[......]vedere gli uomini, sentire il suono della voce umana, che pare sfuggirmi”. Infatti il male implacabile gli tolse anche l’ultimo conforto rimastogli, quello della sorella che per alcuni anni, affetta dallo stesso morbo, condivise la sua stessa sorte. La segregazione e la malattia non lo hanno ancora totalmente abbrutito ed egli, nel giardinetto coltivato di fiori rari, “angolo tranquillo e solitario”, contempla i prati e gli alberi e le alte vette che lo circondano, abbandonandosi all’abbraccio consolatorio della Natura, unica presenza viva in tutta la sua “[......]lunga ed uniforme sciagura”. Così, se pur giunto al limite ultimo della sventura, egli sperimenta “[......]una gioia che gli uomini

Personaggi di solito non possono conoscere e che vi sembrerà molto singolare: quella cioè di esistere e di respirare. [......]allora tutte le mie idee sono vaghe, indecise; la tristezza riposa nel mio cuore senza opprimerlo; [......]e ogni luogo diventa per me un amico[......]”. A queste parole e di fronte a quest’anima appassionata, il militare immagina quale debba essere il peso della disperazione e la pena della rassegnazione. Il lebbroso non nega la lotta interiore che gli ha dato tormento e che lo ha condotto persino a concepire il suicidio; fu il sostegno della fede a trarlo dall’abisso nel quale stava per sprofondare. Finito il racconto “Dopo un momento di silenzio, il lebbroso si alzò. Straniero, disse, quando il dolore e lo scoraggiamento si accosteranno a voi, pensate al solitario della città d’Aosta; non gli avete fatto una vista inutile. Insieme s’incamminarono verso la porta del giardino”. Nelle pagine di questo dramma, pervase da profonda malinconia, l’isolamento crudele diventa il supplizio del condannato che, paradossalmente, sembra poter sublimare nella dolce solitudine del pensatore, di cui De Maistre celebra il fascino, solo attraverso un atto di incondizionata accettazione del proprio destino. Si potrebbe definire la ‘felicità dell’infelice’. Non v’è più molto da dire, i due Autori hanno parlato da soli. Potrei solo aggiungere che dall’analisi dei testi, risulta piuttosto evidente, benché diversa fosse l’estrazione sociale e il credo politico, quanto l’esperienza della prigionia - e non solo questa - abbia ispirato le loro opere, permeate dalla fede negli stessi ideali di libertà e fratellanza creando, così, delle particolari assonanze. Mi piacerebbe credere che tale corrispondenza possa essere il frutto di un loro ipotetico incontro avvenuto, presumibilmente, in occasione degli eventi che portarono De Maistre a Livorno, dove morì di tisi la figlia Caterina. E se così non fosse, il loro convergere verso un unico punto di fuga, sarebbe un risultato ancor più straordinario.

P.58: Libertà! 2007, collez. privata. p.59: Isola d’Elba, Portoferraio, il forte Stella; p. 60: Guerrazzi, Bini e De Maistre; p.61: Il forte di Fenestrelle (TO).

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Il picchio, il pavone, l’oca e l’aquila Anna Giacomini

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iassumendo in quattro simboli il contenuto dei lavori il Gran Maestro della GLDI, Luigi Pruneti, ha chiuso un interessante convegno che ha avuto luogo nella bella sala della Loggia Mercanti ad Ancona il 21 febbraio. I quattro simboli scelti per sintetizzare il dipanarsi degli interventi sono curiosamente quattro uccelli diversi ma legati profondamente alla Tradizione e quindi alle antiche concezioni sapienziali a cui i relatori si sono riferiti. Il picchio legato alle virtù solari allude al territorio marchigiano descritto con amore dal Gran Maestro Aggiunto Marco Galeazzi. L’uccello dal becco d’acciaio ha quindi ceduto il passo al pavone uno dei leit motiv iconografici notati dallo storico Maurizio Pascolini sul portale della chiesa romanica di Santa Maria della Piazza, uno dei monumenti medievali più interessanti di Ancona. Poi, si è fatta strada in questo ideale ‘bestiario’ l’oca, animale sacro e sacrificale simbolo di libertà scelto dal Gran Maestro per colorire di note storico-mitologiche il suo excursus sulle antiche corporazioni. Uno dei glifi rilevati più frequentemente sulle pietre lavorate dagli scalpellini medievali è proprio la patte d’oie: un segno tripartito che richiama il numero tre, base dei più antichi rituali massonici. Diffuso dalla Francia alla Spagna fino alla Galizia, ma presente anche in Italia, nel patrimonio dei marchi di corporazione è uno dei più misteriosi. Una scuola di costruttori tra le più attive si firmava con questo glifo a testimoniare la presenza dei suoi affiliati tra le maestranze operative nei numerosissimi cantieri che dopo il mille fiorirono nell’Europa cristiana. L’origine delle corporazioni muratorie è da sempre riferita agli antichi Collegia fabrorum della latinità. I documenti al riguardo sono scarsi ma per uno studio attento vanno suddivisi in due gruppi: - i documenti scritti, cartacei o pergamenacei reperibili negli archivi storici - i documenti indiretti ossia le opere prodotte.

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Franco Cardini afferma: “l’ipotesi è un ingrediente della ricerca necessario, anzi indispensabile e per così dire doveroso. La storia si fa con i documenti: ma essi non dicono mai tutto e vanno comunque interpretati. La verità storica non si rintraccia senza le fonti: ma esse sono, anche se e quando autentiche, troppo spesso ingannevoli. La fantasia dello storico -altro prezioso strumento di lavoro- si distingue da quella dell’artista nella misura in cui è filologicamente condizionata. È pericolosa, infida, ma indispensabile.1” Iniziamo l’analisi dai documenti scritti2. Per un primo aggancio al tema osserviamo che nel IV secolo Gregorio di Nissa affermava come ogni fondazione di chiesa equivalesse alla fondazione di un cosmo nuovo, quindi alla ripetizione rituale dell’atto della Creazione. Dunque costruire non era solo un’azione materiale ma piuttosto altamente metafisica ed essendo così considerata dal nord al sud del mondo cristiano, si basava su una superiore scienza delle costruzioni, patrimonio diffuso e sorprendentemente omogeneo in territori di difficile percorrenza. Chi erano questi artefici del sacro edificio? Da dove derivavano il loro conoscere? Erano riuniti in corporazioni ossia in gruppi chiusi nei quali le tecniche, trasmesse da tempi lontani, venivano insegnate sotto segreto nella schola e nel laborerium3. I paramenti murari di cattedrali o castelli, eseguiti in blocchi di pietra squadrati nella cava e poi posti in opera secondo i dettami dell’opus quadratum4, parlano chiaramente di criteri costruttivi e di repertori iconografici similari in tutta l’Europa cristiana e testimoniano una circolazione libera di metodologie e maestranze. I Magistri Comacini Il gruppo di costruttori più celebre per abilità tecnologica ed uso di simboli sapienziali, è quello dei Magistri Comacini che dal confine con la Svizzera migravano per raggiungere le terre più lontane. Con certezza esistevano


già nel VII secolo, poiché il re longobardo Rotari li menziona nel suo Editto, definendo i loro compiti e dando loro una sorta di normativa negli Art.144-145. Vi si parla di regole e tariffe, pene e responsabilità per gli infortuni sul lavoro5, a firma dello stesso Rotari, in data: decimo giorno delle kalende del dicembre 643. Più tardi il re Liutprando (713-741) volle riprendere il tema in un supplemento al suo Editto, dal titolo Memoratorio de Mercedes Comacinorum6. Nei 7 articoli che trattano la materia vi si riscontra tra l’altro un’interessante diversificazione tra due modi costruttivi uno denominato gallicum e l’altro romanense, contrapposti non solo per gli effetti stilistici ma anche per tecnica costruttiva. I Magistri Comacini venivano citati insieme con i Colligantes suos ovvero con i Consortibus suis, quindi con collaboratori diversi da loro, forse provenienti da altri luoghi con altre conoscenze tecnologiche. Si poteva trattare di maestranze bizantine o legate al mondo islamico7. Un’ interessante notizia. Negli anni tra il 686 e il 691, il califfo umayyade di Damasco Abd al Malik, in polemica con gli arabi, fonda a Gerusalemme un santuario in antitesi con la Kaaba della Mecca. L’opera viene affidata a costruttori bizantini e cristiani. La moschea che ha un esterno ottagonale racchiude un interno circolare e si trova sulla spianata del Tempio di Salomone intorno alla Roccia del Sacrificio di Abramo, punto di partenza per l’ascesa al cielo del Profeta e luogo di preghiera del califfo Omar al Kattab8. L’evento dimostra accertati contatti tra architetti dell’occidente cristiano e maestranze islamiche già dal VII sec. Latomi e Cementarii Proseguendo nel tempo, alla metà del XII secolo Hugo da San Vittore elenca le varie categorie di operai che contribuiscono all’esecuzione delle opere di architettura. Tra esse differenzia il Latomus dal Cementarius, essendo il primo colui che taglia le bozze di pietra9 ed il secondo quello che le mette in opera10. Ma questa distinzione appare meno netta in area germanica dove le due funzioni tendono a confondersi tanto che nel XIII secolo l’architetto Ulrich Von Ensingen è chiamato sia massone che tagliatore11. Successivamente agli inizi del XV secolo i tagliapietre tendono a rinserrarsi in una vera e propria aristocrazia chiusa all’interno delle gilde (o corporazioni), in lotta con le confraternite dell’arte muratoria. Il clima poteva raggiungere apici di violenza, tanto che nel

1402 a Strasburgo tra muratori e lapicidi si verificò un vero e proprio scontro per la custodia della bandiera della corporazione, con il trionfo dei secondi12. In questo periodo i documenti cominciano a citare i diversi gradi esistenti all’interno delle corporazioni stesse. Si distinguono gli apprendisti, privi di ogni conoscenza specifica e dediti solo alle mansioni più semplici, dai compagni che invece hanno già una loro preparazione tecnica. Negli Statuti di Ratisbona del 1549 si legifera che se un apprendista, che si è formato alle dipendenze di un maestro muratore (maurer), chiede di diventare lapicida, il suo nuovo apprendistato, invece di 5, durerà solo 3 anni13. In generale i documenti relativi a queste categorie ed alle loro opere sono scarsissimi per non dire inesistenti. Progetti e calcoli non ci sono pervenuti, ma ci è giunto il ricordo della segretezza assoluta con la quale essi venivano coperti attraverso un rituale tuttora in uso presso i Compagnons francesi. Ancora oggi, infatti, dopo le loro riunioni bruciano ogni documento relativo ai lavori compiuti e ne bevono le ceneri nel vino14. L’aristocrazia dei costruttori medievali si esprimeva secondo un sistema deontologico elitario spesso al di fuori di ogni redazione scritta, per mezzo di statuti, patti, segni affidati alla memoria ed al compito di trasmissione. Ci restano a testimonianza pochi Statuti (autentici) in vigore tra le confraternite. Nel 1352 lo Statuto di una Loggia inglese dà notizia di regolamenti ancora più antichi ai quali si uniformerebbe15. Vi si stabiliscono tempi e modalità, cariche e responsabilità tra le quali interessante appare la figura del maestro massone, capo del cantiere, che nella sua carica godeva della collaborazione stretta di un assistente con cui divideva l’onere ed i giuramenti di fedeltà. Le logge amministravano giustizia autonomamente quindi non erano sottoposte alle leggi dei luoghi dove si trovavano ad operare. D’altra parte le regole di comportamento erano assai restrittive, non confondibili con quelle dei semplici uomini liberi, e finivano con l’assimilare gli apprendisti massoni ed i compagni a figure ascetiche, cui era proibito frequentare bische e bordelli ed era fatto obbligo di obbedire ciecamente al maestro rispettando il dovere del silenzio sui lavori compiuti. Nei simboli lasciati sulle pietre ogni maestro, uomo di grande prestigio sociale, diceva la sua arte, la firmava e la trasmetteva nel tempo

Convegni a coloro che, iniziati ai misteri della geometria, avrebbero compreso il senso dei glifi. Dunque tutto un repertorio di lettere alfabetiche, sigle, simboli rappresenta le firme degli autori delle opere su cui sono allocate, e testimonia di senso iniziatico nei mestieri relativi all’arte del costruire16. M. Madeleine Davy sostiene che sarebbe difficile scrivere la storia dei collegi di costruttori nell’epoca romanica, data la scarsità dei documenti, ma afferma anche che queste scuole di architettura erano altrettante scuole di studio del simbolo17 e quindi comunioni iniziatiche. L’intervento a chiusura del convegno affidato al Grande Oratore Paolo Ciannella - che ha approfondito i temi suddetti - è stato poi emblematizzato dal Gran Maestro con l’immagine dell’aquila, il nobile volatile simbolo del Rito Scozzese Antico Accettato. Così la giornata di studi, aperta con l’intervento del Delegato Magistrale Roberto La Rocca si è conclusa con la formulazione del collegamento storico tra le origini operative della massoneria e l’istituzione moderna che se ne considera l’erede, senza interruzioni di continuità. ________________ Note: 1 F. Cardini, Castel del Monte, Bologna 2000, p.42. 2 Il testo che segue è stato estratto da A.Giacomini, Il

Verziere dei sensi perduti, Bari 2005 3 Giuseppe Merzario, I Maestri Comacini, Milano

1893, p.91 4 L’opus quadratum è la muratura formata da filaretti di bozze squadrate. 5 G.Merzario, op.cit., p.40. 6 L’Editto fu ritrovato in un manoscritto a Cava dei Tirreni, da Pietro Giannone (+1748) e chiamato Codice Membranaceo Cavense. 7 L’argomento è stato approfondito in La Nascita del Gotico e le Corporazioni medievali, di A.Giacomini, in Hera n°34, ottobre 2002 8 F.Cardini, op.cit. p.61. 9 Si chiamano ‘bozze’ i parallelepipedi di pietra ritagliati secondo precise regole nel rispetto delle vene e della struttura della materia cavata. Si presentano a superficie martellata con gli spigoli corniciati in liscio. 10 P.Du Colombier, Les Chantiers des Cathédrales, Paris 1973, p.44 11 O. Kletzl, Titel und Namen von Baumeistern deutscher Gotik, Munich 1930 12 D.Knoop, G.P.Jones, The mediaeval mason, Manchester 1949,p.82 13 F.Janner, Die Bauhutten des deutsches Mittelalters, Leipzig 1876, p.145 14 Luc Benoist, Il Compagnonaggio, Milano 1966, p.4. 15 Knoop-Jones, op.cit., p.61 16 Per approfondire ulteriormente il tema ci permettiamo di rimandare a A.Giacomini, Il libro dei segni sulle pietre, Carmagnola 2001 17 M.M.Davy, Il Simbolismo medievale, Roma 1988, p.203

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Incipit della prima lettera a lord Bolingbroke ‘‘Svegliati mio Saint John! Abbandono al volgo ambizioso e agli orgogliosi monarchi La contemplazione degli oggetti vili. E poiché la nostra vita appena ci lascia dare un’occhiata intorno e morire, spaziamo liberi su tutta la scena concessa all’Uomo; Un vasto labirinto! Ma non senza un metodo. Una terra incolta ove nascono promiscui gramigne e fiori; O un giardino che seduce con i suoi frutti proibiti’’ Alexander Pope (1688-1744)

Equinozio di Primavera Al ritornar del giorno il vento mi recò vaghe canzoni e mi sovvenne dell’azzurro cielo a ricordar di Marzo l’equinozio. Fra le gemme dischiuse nella brina l’ariete scalpitò ebbro di vita e la stagione nuova mi sorrise cancellando dal cuore i dubbi arcani. Oh Primavera, stagione di emozioni, di speranze audaci e di segrete fole! Tu che intrecci le danze degli auspici fra i racemi di mandorlo e di pesco rivelami il segreto della luce che splende pur se il bianco si fa grigio. Luigi Pruneti

Incipit della seconda lettera a lord Bolingbroke ‘‘Conosci dunque te stesso: non presumere di misurare Dio; ché lo studio appropriato al genere umano è l’Uomo. Piantato sull’istmo di una terra di mezzo È un essere oscuramente saggio e rozzamente grande’’ Alexander Pope (trad. A.G.)

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ccade a volte che scrittori innocenti, impegnati solo sul proprio piano espressivo con l'idea di dare forma letteraria alle più intime predilezioni culturali o ad un umanesimo senza tempo, si trovino trasformati in icone di movimenti con i quali in realtà hanno avuto poco a che fare ed in esse compressi. E' il caso, per esempio, di Carducci trasformato in portabandiera di valori nazionalistici di una marca politica ben precisa e per questo poi dimenticato dall'universo mondo che perseguiva valori di opposta bandiera. Sono le ingiustizie delle mode legate a momenti politici transeunti che con l'arte hanno poco a che fare. Bisognerebbe invece avere la pazienza di spogliare queste icone dei loro abiti fuori moda e riprenderne gli intimi sentimenti, senza pregiudizi. Si può fare anche con Doris Lessing una scrittrice davvero interessante, che per una volontà di autoreferenzialismo venne a suo tempo agguantata dal movimento femminista e fatta diventare la sua "ragazza immagine". La Lessing non è una ragazza e neppure un' immagine, è una donna che sa guardare il mondo con un binocolo girato dall'altra parte verso una società in cui vede anche se stessa avvolta in un'insieme, direi panoramico. Su questo nitido palcoscenico avviene l'incontro dei sentimenti e ogni personaggio raggiunge il livello di campione di un'umanità osservata con interesse e con critica lucida, per raggiungere la dignità dell'arte. Non è per tutti il premio Nobel. Nel 2006 le venne conferito dopo anni di attesa, quando ormai la sua opera letteraria era divenuta talmente ampia da far dimenticare i vecchi scippi perpetrati dal femminismo. Vorrei parlare qui di un suo romanzo scritto nel 1983 e riproposto da Feltrinelli, in quarta edizione, nel 2007: Il Diario di Jane Somers. E' la storia di Janna una giornalista di patinati magazine femminili, patinata essa stessa da lunghe sedute nella vasca da bagno ricolma di olii profumati e di raffinate essenze, mani curatissime, abiti di taglio perfetto, attenta

spasmodicamente alla sua immagine. Incontra per puro caso una vecchia dall'aspetto opposto al suo, perché sudicia, maleodorante, incartapecorita, sciatta e scorbutica. La decadenza fatta persona, tanto quanto lei, la scrittrice, rappresenta l’eleganza e l'attenzione all’abbellimento superchic. Per un'alchimia che conficca le sue radici in remoti sensi di colpa e in carenze affettive contrabbandate per scelte, Janna prende ad occuparsi della vecchia donna confinata in un tugurio di una sporcizia estrema, ma inamovibile perché legata

ad esso in modo morboso. La vecchia rifiuta ogni aiuto sociale per un suo senso di dignità ma non rifiuta l'aiuto dell'amore che, suo malgrado e contro ogni personale abitudine, Janna finisce con il darle, a manciate, in modo rabbioso, spesso come autopunizione. Ma con la delicatezza ed il profondo rispetto che richiede ogni essere umano, anche il più reietto. Le belle mani curate diventano gli strumenti per azioni sconosciute all'intellettuale giornalista. Lavano pavimenti sporchi, si cimentano in ripugnanti operazioni igieniche, faticano al

Biblioteca punto da provocare seri problemi alla loro colonna vertebrale. Ma Janna prosegue e fa scoprire al lettore come la solidarietà non sia un passatempo caritatevole ma un impulso profondo basato sul senso di uguaglianza tra gli uomini. La repellente vecchietta è l'umanità dolente che vive di regole sue, ne va rispettata la dignità e chi ha più forze deve con amore elargirle a chi non basta a se stesso. Janna non esibisce le sue buone azioni le considera un fatto personale intimo, un patto discreto tra due esseri di pari dignità, un dialogo tra intelligenze. Non un biglietto da visita da esibire magari con titoli accademici e rumorosi riconoscimenti sociali. Tutto questo giova alla sua crescita perché da estetizzante osservatrice di un'avvicendarsi effimero di usi, si trasforma in scrittrice di sentimenti, trovando così la sua vera strada. Con le mani sciupate però, distante anni luce dall'egoismo accentratore nel quale viveva prima. Vorrei proporre una citazione dal libro, in cui la Lessing descrive uno spaccato sociale della sua Londra, interessante anche per il suo peculiare incipit. "E ora l'autobus. A quest'ora la zona si è già svuotata della gente che lavora, e l'autobus è pieno di donne. La massoneria delle donne, che siedono a proprio agio, cariche di borse e ceste, e si godono la corsa, la bella giornata. L'autobus alle dieci del mattino è un altro mondo: niente a che vedere con le corse dell'ora di punta. Queste donne che tengono insieme le cose, che favoriscono i nostri importanti appuntamenti coi grandi eventi con le loro multiformi attività, così umili che, interrogate alla fine della giornata su quello che hanno fatto, spesso rispondono, Oh niente." Prosegue con tale amore a parlarci del mondo attivo femminile e alla fine del volume ci si accorge di aver ormai modificato il nostro punto di vista. Non ci attrae più il palcoscenico patinato inventato dai media, la favola non ci interessa più. L'attenzione si è spostata sulla fatica quotidiana del vivere, che può tornare ad essere ricca di poesia, solo che lasciamo parlare la nostra umanità. Uno spirito che i tempi ci invitano urgentemente a fare nostro.

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Biblioteca

A due ore dalla libertà

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Riflessioni su ‘L’ultimo giorno di un condannato’ di Victor Hugo

osa possa passare nella mente di un condannato a morte nelle ultime ore della sua vita è una domanda che forse tutti ci siamo posti. Forse abbiamo anche cercato di immaginare la sequenza dei pensieri delle percezioni e delle ansie, rivolte ai familiari, alle cose care o solo alla terribilità di un evento decretato da altri. E forse poi abbiamo concluso: "ma chi di noi non è un condannato a morte?" liquidando così la pesantezza non sostenibile di quella morsa che prende lo stomaco quando ci poniamo di fronte ad un problema noto, magari risolto nella nostra civiltà, ma vivo e graffiante in altri contesti umani nei quali l’incidenza del nostro pensiero è irrilevante. Nulla si può fare individualmente, la soluzione è affidata ad altri, l’orribile cosa

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non sembra affar nostro. Quando però una creazione letteraria di tutto rispetto la prende per tema, a quel punto avviene il miracolo, l’oggetto entra nell’immaginario collettivo, cattura i sentimenti del gruppo, e noi vibriamo con esso. Allora tutto è chiaro, il dolore di una parte dell’umanità è il nostro dolore. Rendere universale ciò che sembra di valore circoscritto a certi tempi e certi luoghi è la potenza dell’arte. Victor Hugo dette alle stampe nel 1829 la prima edizione di un lungo racconto, che rientra a buon diritto in tale categoria. Prende forma, pagina dopo pagina, tutto intriso di un’arte straziante dove la poesia della disperazione si alterna, in fasi altalenanti, al soffio vitale della speranza in un ritmo quasi manicheo di luce e di ombra, di disperazione e di spe-

ranza. Questa la storia vergata su un immaginario manoscritto. Ad un giovane colpevole di un grave delitto (potrebbe essere un omicidio) è riconosciuta la premeditazione e dunque la sua pena sarà quella capitale. Non una riga viene spesa per dare al lettore il sospetto dell’innocenza e quindi per rendere legittimo il riscatto dell’empatia verso quel condannato. Tutto è chiaro, l’uomo dovrà morire sotto la lama della ghigliottina: lo ha meritato. Le pagine scritte dall’io narrante, sotto forma di ultimo diario, dicono di una speranza nella grazia nonostante che l’alternativa alla pena capitale sia l’orrore dei lavori forzati, nei quali ogni dignità umana finisce sotto il giogo delle catene. Contemporaneamente, attraverso questo dialogo tra sentimenti estremi, i fogli ingialliti dicono


della disperazione e del dolore di un corpo giovane capace di vita in tutte le sue espressioni, ed oramai destinato solo alla putrescenza. ‘Meglio la morte!’ si grida il protagonista in questo flusso e riflusso di pensieri. Il battere le ore di un orologio mentale, immaginato come ritmo compositivo, incalza il lettore verso la meta finale, quella Place de la Grève dove si ergerà il patibolo. Ecco che l’intellettuale condannato, in queste intense ore, ha il tempo di scoprire la bellezza della luce, la speranza nel re, l’argot dei galeotti, i manierismi dei preti, il grido d’orrore della coscienza piena di rimorsi e gli attimi di dimenticanza o di sonno ristoratore, in un susseguirsi di brevi pezzi apparentemente buttati giù al ritmo dei pensieri. Uno stile molto attuale e ne porto un esempio: XXXVIII L’una e un quarto. Ecco cosa provo in questo momento: Un violento dolore alla testa. Freddo alle reni, la fronte bruciante. Ogni volta che m’alzo o mi piego, è come se nella testa si agitasse un liquido che manda il cervello a sbattere contro le pareti del cranio. Ho degli scatti convulsi, e come in preda a una scossa elettrica la penna di tanto in tanto mi cade dalla mano. Gli occhi mi bruciano come se fossi in mezzo al fumo. I gomiti mi dolgono. Ancora due ore e quarantacinque minuti e sarò guarito. In un momento successivo e curiosamente in terza persona, come se Hugo parlasse da critico nei confronti dell’immaginario estensore di quel diario, lo scrittore mas-

sone rilasciò questa dichiarazione: ‘L’ultimo giorno di un condannato’ non è altro che una perorazione diretta o indiretta, come si preferisce, per l’abolizione della pena di morte. Ciò che egli ha inteso fare, ciò che egli vorrebbe che la posterità vedesse nella sua opera, se mai s’occuperà di tanto poco, non è la difesa speciale, sempre facile, sempre transitoria, di questo o quel criminale scelto, di questo o quell’accusato d’elezione; ma una perorazione generale e permanente in favore di tutti gli accusati presenti e a venire [...]. Egli non conosce

uno scopo più elevato, più santo, più augusto del concorrere all’abolizione della pena di morte. Indubbiamente il valore sociale della denuncia (modernissima per altro) va collocato nei tempi in cui fu scritta. Allora si era ad una quarantina d’anni dopo la

Biblioteca rivoluzione francese e la certezza che ogni tipo di rivoluzione comporta il sangue istituzionalizzato, inteso come risoluzione delle gravi tensioni deflagrate in quell’evento, costituiva un argomento di riflessione necessario. Se però noi guardiamo nella filigrana dello scritto di Hugo, in quell’affascinante e tragica altalena di sentimenti possiamo riconoscere come schizzati in un emblema i tratti distintivi di ben altre situazioni oggi accettate come legali dalla nostra società. Da giudici improvvisati (che con la magistratura non hanno nulla a che vedere) vengono decretate pene di morte ad istituzioni legittime, al pensiero che non si accorda al coro, a comportamenti che chiedono solo il diritto di esistere perché espressioni libere e rispettose della libertà altrui, a chi marcia alla velocità dell’intelletto e non arranca impastoiato dalle catene del pregiudizio. Naturalmente queste persecuzioni non mirano all’educazione delle giovani generazioni, non a ristabilire un ordine morale apparentemente tradito, e neppure a combattere gli imbrogli storici. Sono invece vere e proprie armi politiche per far fuori gli avversari di turno. Sembra che anche oggi l’uso della pena di morte, sotto l’aspetto della decapitazione morale, sia vivo e vegeto nella società che pur ha inventato il diritto alla privacy e che si fa un vanto delle sue libertà. La Massoneria ne sa qualcosa. P.66: Victor Hugo, Rodin, XIX sec, bronzo; p.67: La ghigliottina.

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Recensioni Stradario magico-insolito di Firenze Luigi Pruneti Roberto Pinotti, Le Lettere, Firenze 2008, pp.246

Nel vasto panoramama della manualistica si distingue per brillantezza questo volume, che per la prima volta vede appaiati due autori di vasta esperienza letteraria. Luigi Pruneti, uscendo dalla materia che lo vede in primo piano nella produzione storiografica mondiale, ossia dalla massonologia, riprende il tema del ‘viaggiatore incantato’ che, come un Nikolaj Leskov della sua città, percorre le vie degli eventi e dei ricordi alla ricerca del punto di congiunzione tra leggenda e realtà, tra urbanistica ed antiche cronache. Roberto Pinotti profondo conoscitore di ufologia, come presidente del CUN (Centro Ufologico Nazionale) e come dinamico studioso dei fenomeni ad essa legati, riordina avvistamenti e fatti insipegabili accaduti realmente in Firenze, con l’intento di offrire un percorso logico al desiderio di mistero e di paranormale che caratterizza i nostri anni. Dalla collaborazione di due menti, attratte da tutto ciò che va oltre le apparenze materiali, è nato questo libro che parte dallo schema di uno stradario, per palesarsi solo dopo poche pagine di lettura come una silloge di curiosità, di notizie storiche raccolte nel tempo dalle fonti storiografiche più accreditate e dalla tradizione popolare. Uno stradario vorrebbe essere una sorta di dizionario, dove a mò di rubrica siano enumerati i nomi delle vie, in questo caso intese come contenitori di memorie storiche ‘in via di estinzione’. Ma questo stradario, più che richiamare la morfologia di un manuale ad uso di turisti attratti dal mistero, ricorda, per i contenuti, un sornione trattato di meraviglie e d’incantesimi. Di questi ultimi non le formule, quanto piuttosto gli effetti tramandati dalla memoria cittadina. Qualcosa di simile all’ariostesco libro di Astolfo, il figlio del re d’Inghilterra, dove sono elencate in ordine alfabetico molte utili informazioni di magia, e di prodigi. E se munito di questo catalogo Astolfo a cavallo dell’Ippogrifo può raggiungere la Luna e recuperare il senno di Orlando, con lo stradario di Pruneti e Pinotti il viandante può ricostruire una Firenze parallela a quella che oggi si intravede sotto la coltre dei graffiti

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e della spazzatura, soffocata dalle carovane di turisti distratti alla ricerca solo del banale. Una Firenze vera, fatta dai suoi storici abitanti e non dai tecnici dell’azienda turistica del comune. Può anche capitare che un ignaro condomino di un palazzo antico di qualche via del centro scopra in modo inaspettato che la sua casa fu, in tempi ormai remoti, la scena di un efferato delitto o il teatro di arcane manifestazioni paranormali. Il Massone alla ricerca di testimonianze ritrova i luoghi dove, nell’ottocento e nella prima metà del novecento, la sua ‘setta’ perseguitata si riuniva nella

segretezza di case aristocratiche. L’amante delle tracce esoteriche scopre immagini ed iconografie impensate. L’antropologo ricostruisce costumi e tradizioni. Mentre chi è affascinato dalla credenza nella pluralità dei mondi e delle vite, individua luoghi testimoni di fatti inspiegabili e si può soffermare sugli interessanti ricorsi che l’ufologia di tutto il mondo raccoglie e classifica. Un’interessante proposta di ricongiungimento tra le notizie indecifrate provenienti dal passato e le nuove conoscenze di oggi che tendono a spiegare senza imbarazzo anche ciò che fino a pochi anni fa era considerato incredibile, è il segno distintivo di tutta l’opera, che oltre ai suoi meriti documentali è anche un piacevole modo libero ed a volte ironico di riconsiderare la storia di una delle più maliarde città d’Europa. (A.G.)

2012 fine del mondo o fine di un mondo? Paola Giovetti, ed. Mediterranee, Roma 2008, pp.150

Luminoso e consolatorio si può definire questo lavoro della nota giornalista Paola Giovetti che da vari anni indaga nel complesso mondo del paranormale. La domanda di base sulla

quale imposta il suo nuovo studio è: "può esistere la precognizione?". Per poter trovare una risposta convincente la scrittrice esegue un excursus sintetico ma esauriente sui casi di veggenti antichi e moderni nelle cui profezie ricerca le conferme storiche che possano dimostrarne o meno la verità. Non è possibile stabilire però con certezza l’esistenza di un ‘sesto senso’ che faccia intuire in anticipo fatti che si verificheranno nel futuro, perché essendo l’uomo il protagonista del preteso fenomeno, con i suoi timori e le sue ansie inquina la veridicità di quanto, in momenti particolari, può apprendere fuori dalla sfera cognitiva dei suoi sensi. Dunque anche gli antichi veggenti se riuscirono da un lato a prevedere eventi drammatici come le guerre mondiali, dall’altro non ebbero alcuna contezza di fatti successivi, importanti quanto queste. Cataclismi previsti non si verificarono mai, disastri imprevisti invece ebbero luogo. Perciò credere o non credere? Una cosa è certa, la veridicità delle precognicozioni può essere dimostrata solo a posteriori. Ed allora come intendere la fatidica data del calendario Maya che ci proporrebbe il 2012 come fine dei tempi? Con alcune pratiche considerazioni si comprende come anche questa apocalittica notizia che da tempo serpeggia nel mondo della cultura alternativa, debba essere intesa in modo relativo. Come relativa appare la data di origine del mondo, certamente non avvenuta nell’anno indicato dagli astronomi maya, così non può essere intesa come irrimediabilmente catastrofica la data di conclusione della vita sulla terra. Per una particolare posizione del sole che si verificherà allora, invece è possibile pensare ad un mutamento profondo nella coscienza degli uomini. La fatidica data potrebbe simboleggiare rinnovamento radicale, un cambiamento di rotta nell’umanità dolente per mali che essa stessa ha determinato. E poiché sotto ad ogni profezia si ritrova l’invito fatto all’uomo di cercare l’amore e dimenticare gli egoismi si comprende che la metanoia dovrà accadere proprio in questo ambito. I vecchi valori della sopraffazione legata al selvaggio paradigma "homo homini lupus", siano sostituiti dai valori spirituali che le comunioni iniziatiche hanno da tempo individuato e nell’amore dato senza condizioni si trovi l’antidoto risolutivo di ogni apocalisse.


Gelli e la P2 tra cronaca e storia Aldo A. Mola, Foggia, Bastogi, 2009, pp. 580.

l libro fonde insieme la biografia di Licio Gelli, i travagli della massoneria in Italia dal dopoguerra a fine Novecento e l’uso politico del “mito negativo” costruito intorno alla loggia “Propaganda massonica” n.2 o P2. nel quadro della storia generale, non solo italiana. Un’ampia cronologia è opportunamente collocata in apertura. Nato a Pistoia il 21 aprile 1919, espulso per indisciplina dalle scuole del regno, volontario a sostegno dei nazionalisti nella guerra di Spagna nel 1937, ispettore del PNF a Càttaro nel 1942, ufficiale di collegamento tra Repubblica sociale e Comando germanico a Pistoia nel 1943-44, intento a risalire la china nel dopoguerra, dirigente industriale di successo, Segretario e poi Maestro Venerabile della Loggia P2, inseguito da mandato di arresto dal maggio 1981, latitante, arrestato in Svizzera, evaso, nuovamente arrestato, tradotto in Italia, a lungo in attesa di processo per il fallimento del Banco Ambrosiano, condannato, contumace in Francia, nuovamente arrestato e assegnato a detenzione domiciliare, il novantenne Gelli è anche autore di una sessantina di libri, da Fuoco!... (1940), alla Canzone per Wanda (1994, tradotta in tutte le lingue europee e anche in cinese) e al Dizionario poetico (2008), che raccoglie 2535 componimenti, dieci dei quali sono ora recitati in un Dvd da Alba Parietti con commento di Gelli stesso, nel 1996 giunto a un passo dal premio Nobel per la letteratura. Accusato dalla “pubblica voce” e indiziato per i reati più gravi (cospirazione militare e politica, stragi, assassini...) Gelli è stato sempre assolto. Nel giugno 2008 è stato prosciolto dall’accusa di coinvolgimento nella morte di Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, rinvenuto impiccato a Londra nel giugno 1982. La sua vicenda è paradigmatica di un Paese nel quale furono e vengono inventati “a tavolino” scandali per suscitare emozioni di massa, da tradurre in consensi elettorali. E’ il caso di Gelli e della P2, tenuti sotto tiro da quando alcuni sedicenti “massoni democratici” inondarono redazioni di giornali e scrivanie di magistrati con chili di “rivelazioni” sulle presunte malefatte dei massoni: Gelli, Salvini e Gamberini, dipinto quale agente della CIA. Il rinvenimento e la pubblicazione della cosiddetta lista dei membri della P2 (17 marzo 1981) travolse i partiti del

“grande centro”, collusi col “mostro”: Gelli, appunto. Sennonché, sciolta dal Parlamento, oggetto di un’inchiesta parlamentare approdata a sei diverse relazioni (1982-1984), dieci anni dopo la P2 fu assolta da ogni addebito con sentenza definitiva. La taccia però rimase. Chi costruì il “caso”, infatti, non puntò solo a demolire Gelli, la P2 e il Grande Oriente d’Italia (di cui faceva la “Propaganda” era parte secondo norme secolari) ma puntò a demonizzare tutta la massoneria. Dall’oceano degli Atti della Commissione Parlamentare d’Inchiesta presieduta da Tina Anselmi con molta indulgenza Mola trae alcune esemplificazioni concernenti anche la Gran Loggia d’Italia e altre comunità massoniche finite nel tritacarne di chi inventò il Male Assoluto e poi lo usò come ricatto permanente nei confronti dei partiti e degli uomini politici non omologati alla terza Internazionale del Partito comunista sovietico, agli ambienti integralisti della chiesa cattolica e all’estrema destra che già aveva campato con la denuncia del complotto demo-pluto-giudaico-massonico, di cui bene hanno scritto José A.Ferrer Benimeli e Luigi Pruneti citati. Non per caso - ed è questo un passaggio fondamentale del volume - nel dicembre 1991 i parlamentari del Partito comunista italiano denunciarono il presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, per attentato alla Costituzione imputandogli “un atteggiamento ambiguo” nei confronti della P2 e dei “piduisti”. Negli anni Settanta la massoneria era il terreno di convergenza dei “liberali”: ampio articolato mosaico di persone che, a prescindere da tessere di partito, si adoperarono per tenere l’Italia “a Occidente” mentre il Paese precipitava nel caos e il governo degli Stati Uniti d’America, che per decenni aveva rilasciato “cambiali in bianco” alla democrazia cristiana (più clericale che ‘occidentale’) esigeva un impegno più serio a sostegno dell’Alleanza. Lo “Schema R” e il Piano di Rinascita democratica di Gelli (197580) - ma si possono aggiungere anche i mòniti di Giovanni Ghinazzi e Mario Bogliolo - interpretarono il disagio, denunciarono i mali e indicarono rimedi di ordinario buon senso, anche se non vennero adottati, solo recentemente e appena in piccola parte furono avviati e ancora oggi sono al centro della discussione politicoparlamentare. D’altronde sin dal 1° maggio 1977 Aldo Moro deplorò la gravità del “vuoto” che si era ormai “creato in organismi essenziali per la tenuta dello Stato”. Parole pesanti, da

Presentazione meditare, come gli altri documenti raccolti nell’Appendice, incluse le dichiarazioni di Gianni Agnelli, presidente della Fiat, su erogazioni a una organizzazione massonica (non la P2) e, si legge nella seconda edizione, l’accorato “congedo” di Gamberini dalla Comunità cui aveva dato quarant’anni di vita, ottenendole il riconoscimento da parte della Gran Loggia Unita d’Inghilterra, il costruttivo dialogo con la chiesa cattolica e la sordina alle ostilità pregiudiziali con la Gran Loggia d’Italia. Il volume mette a nudo le conseguenze devastanti dell’artificioso “scandalo P2”: tante vite vennero distrutte. Chi le risarcirà mai? Da quel 1981 nulla fu più come prima. Dal democristiano Arnaldo Forlani il governo passò nelle mani di Giovanni Spadolini, intriso da antimassonismo congenito. I periodici e i mezzi radiotelevisivi inaugurarono l’epoca, tuttora in corso, delle “rivelazioni” di inchieste coperte da segreto istruttorio, mescolando impunemente pubblico e privato. I 120 volumi degli Atti della Commissione parlamentare d’inchiesta costituiscono, al riguardo, un capolavoro di perfidia. Però, mentre credevano di marchiare a fuoco la massoneria in tutte le sue forme Tina Anselmi mise a nudo lo squallore di un’Italia di cui facevano parte non solo i partiti poi travolti da Tangentopoli ma anche il beneficiario del loro tracollo, il Partito comunista italiano che, nelle versioni successive, assorbì le macerie della Democrazia cristiana e di partiti minori senza dar vita a una forza moderna, veramente occidentale e liberale. Il volume è percorso da profonda amarezza ma anche da una richiesta perentoria, implicita nella dedica preposta alla seconda edizione (”A tutti i Fratelli sparsi nel mondo, tanto in prosperità che in disgrazia. Indirizziamo i nostri voti al Grande Architetto dell’Universo perchè voglia soccorrere gli infelici e condurre i viaggiatori a buon porto”): verrà o no varata una legge sulle associazioni che liberi i massoni dal pericolo di persecuzioni arbitrarie? E i partiti nuovi nascenti conserveranno o aboliranno il divieto di appartenenza dei loro iscritti alle logge? All’origine del “mito negativo” di Gelli e della P2 e dell’uso che ne venne fatto vi era proprio la doppiezza di quei partiti che continuavano a vietare ai loro tesserati di far parte della Libera Muratoria: una malattia infantile che condusse a morte la Prima Repubblica e rende così stenta la nascita di una nuova. A.A.Mola

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Pensare il futuro

Giannandrea Iacobucci Edizioni Giuseppe Laterza, 2008

Labirinto tra viaggi e storia Gianni Vercellotti Tucano Edizioni, 2008

Il sigillo del Palladio Corrado Buscemi Cierre Grafica, 2008

Giuseppe Garibaldi e l’esprit de Sanremo Luca Fucini Edizione Casabianca, 2008

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R.L. ‘San Giorgio’ Oriente di Genova

I

l mito di San Giorgio ha origini antiche ed ha affascinato uomini, città, nazioni, popoli diversi per storia, tradizioni e costumi, ma accomunati tutti dai nobili valori simbolici del cavaliere che domina la bestia, del bene che trionfa sul male. Assegnare ad una Loggia Massonica il titolo distintivo San Giorgio ha rappresentato per i fondatori, e costituirà per i neofiti, l'assunzione di un vincolo solenne, il volersi caratterizzare quali paladini della verità contro l'ignoranza, la pigrizia mentale, la menzogna, la superstizione. E questa aspirazione ben si evince dal fregio di Loggia ove l'eroe cavaliere, l'aspetto exoterico, è sorretto,

sullo sfondo, dal Pentalfa, simbolo magico, epitome dei poteri della volontà umana, che solo l'iniziato può comprendere. La forza che erompe da siffatta rappresentazione è ben intesa dai Fratelli che hanno correttamente assimilato i principi della Libera Muratoria ed è viepiù rafforzata dall'incisione impressa sul retro del Gioiello di Loggia che impone, come impronta scolpita nell'anima, una meditazione ed un impegno: "....ad Astra".

R.L. ‘G.Papini’ Oriente di Roma

I

l triangolo, che la squadra disegna, contiene la circonferenza, che il compasso traccia, così come la Massoneria racchiude in se la perfezione. I tre gabbiani che, se nella loro dinamicità sono simboli di libertà, nella loro staticità rappresentano la Piramide in cui si muove l'agire Massonico. Questi, secondo un antico mito della Colombia britannica, custodivano gelosamente all'interno di

una scatola la luce del giorno, fin quando un corvo - a cui le culture nordiche ed orientali attribuiscono la qualità di demiurgo rompe la scatola illuminando così l'umanità.

R.L. ‘Anita Garibaldi - Alpi Giulie’ Oriente di Livorno

N

ata nel 1872, con i suoi 137 anni la R.L. Anita Garibaldi - Alpi Giulie è una delle testimoni più vetuste della nostra Obbedienza. È il frutto della fusione fra due Logge preesistenti che nei loro piedilista annoverarono uomini che fecero la storia d’Italia. Reduci garibaldini e patrioti irredentisti si unirono nell’unico ideale sotto lo stesso titolo distintivo. Ne nacque l’Oriente di Livorno così come oggi ancora prospera

sotto quell’illustre egida, che le parole di Giuseppe Mazzini ben sintetizzano: “Vi dicono che siete fratelli, chiamati ad avere una sola bandiera, un solo tempio dall’alto del quale splende... la missione italiana, la parte che Dio commise per il bene dell’umanità alla nostra Nazione”.

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R.L. ‘Melagrana’ Oriente di Cosenza

L

e tre Melagrane raffigurate nel quadro di Loggia in grado di Apprendista, simboleggiano la carità che racchiude tante virtù. La gran quantità dei chicchi che contiene la Melagrana, l'hanno fatta adottare nel simbolismo popolare come rappresentante della fecondità, della generazione, della ricchezza. In Massoneria i chicchi della Melagrana,

immersi in una polpa trasparente, simboleggiano i Massoni uniti tra loro da un comune ideale. Inoltre, poiché la scorza della radice del Melograno è tossica, la Melagrana ci mostra ancora i Massoni usciti da un mondo essenzialmente malvagio ed elevantisi ad uno stato di perfezione. Nel fregio di Loggia la Melagrana è rappresentata al centro di una volta stellata, sim-

bolo dell’Universalità massonica, dove si evidenziano i due astri, il Sole e la Luna, simboli attivi e passivi, ed i quattro punti cardinali perché il Tempio è orientato verso Est e la luce, o il Sole, si leva ad 0riente, passa al Mezzogiorno e tramonta ad Occidente.

ad oggi l’elenco delle Logge già pubblicato... R∴L∴ Cartesio O∴di Firenze R∴L∴ Nino Bixio O∴di Trieste R∴L∴ Scaligera O∴di Verona R∴L∴ Minerva O∴di Torino R∴L∴ Sile O∴di Treviso R∴L∴ Luigi Spadini O∴di Macerata R∴L∴ Enrico Fermi O∴di Milano R∴L∴ Kipling O∴di Firenze R∴L∴ Iter Virtutis O∴di Pisa R∴L∴ Venetia O∴di Venezia R∴L∴ La Fenice O∴di Forlì R∴L∴ Goldoni O∴di Londra R∴L∴ Horus O∴di R.Calabria R∴L∴ Pisacane O∴di Udine R∴L∴ Mozart O∴di Roma R∴L∴ Prometeo O∴di Lecce R∴L∴ Salomone O∴di Catanzaro R∴L∴ Teodorico O∴di Bologna R∴L∴ Fargnoli O∴di Viterbo R∴L∴ Minerva O∴di Cosenza R∴L∴ Federico II O∴di Jesi R∴L∴ Giovanni Pascoli O∴di Forlì R∴L∴ Triplice Alleanza O∴di Roma R∴L∴ Garibaldi O∴di Castiglione R∴L∴ Astrolabio O∴di Grosseto R∴L∴ Augusta O∴di Torino R∴L∴ Voltaire O∴di Torino R∴L∴ Zenith O∴di Cosenza R∴L∴ Audere Semper O∴di Firenze R∴L∴ Justitiam O∴di Lucca R∴L∴ Horus O∴di Pinerolo R∴L∴ Jakin e Boaz O∴di Milano R∴L∴ Petrarca O∴di Abano Terme R∴L∴ Eleuteria O∴di Pietra Ligure R∴L∴ Risorgimento O∴di Milano R∴L∴ Fidelitas O∴di Firenze R∴L∴ Athanor O∴di Cosenza R∴L∴ Ermete O∴di Bologna R∴L∴ Monviso O∴di Torino

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