Officinae Dicembre 2012

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Trimestrale internazionale di attualità , storia e cultura esoterica — Anno X XIV - Dicembre 2012 - n.4


Trimestrale internazionale di attualità, storia e cultura esoterica Anno XXIV - n.4 - Dicembre 2012 Direttore Editoriale e Responsabile LUIGI PRUNETI Direttore ANNA GIACOMINI Segreteria di Redazione ROBERTO PINOTTI SIMONE TADDEI Comitato di Redazione LINA ROTONDI LUISA CERAVOLO SABRINA CONTI VALERIA DI PACE STEFANO MOMENTÉ FEDERICA POZZI GIANCARLO GUERRERI MATTEO BARTOLETTI RENATA SALERNO Comitato Scientifico VINCENZO CIANCIO ALDO ALESSANDRO MOLA PAOLO ALDO ROSSI IDA LI VIGNI RAFFAELE MARRŸ PAOLO MAGGI Renato ARIANO BARBARA NARDACCI Consulente Legale PIERPAOLA MELEDANDRI hanno collaborato a questo numero ANTONIO BINNI MAURIZIO GALAFATE ORLANDI IDA LI VIGNI PAOLO MAGGI ALDO ALESSANDRO MOLA LUIGI PRUNETI MARCO QUADRELLI PAOLO ALDO ROSSI ANNALISA SANTINI IPPOLITO SPADAFORA ANTONINO ZARCONE progetto e realizzazione PAOLO DEL FREO


Sommario L.Pruneti - Nel cielo d’inverno e dal profondo del cuore — 2 A.A.Mola - 1814-1861: Il mito della Costituzione spagnola nell’unificazione dell’Italia — 4 A.Binni - Evoluzione o creazione? Caso e necessità o disegno intelligente? — 12 P.Maggi - I miti e la scienza: il Golem e la gamba di Giacobbe — 20 P.A.Rossi e I.Li Vigni - Il ‘Ludus de Anticristo’ — 24 I.Spadafora - Una proposta di modello del simbolismo — 34 L.Pruneti - Il ‘Visita Interiora Terrae’ nei romanzi di avventura — 42 A.A.Mola - Anniversari: la grande, tragica Campagna di Russia — 48 M.Quadrelli - Chi ha paura della donna massone? — 50 A.Zarcone - Massoni in divisa: Luigi Mascherpa — 56 M.Galafate Orlandi - I misteri di Glastonbury — 60 Ex Libris — 66 In Biblioteca — 70 Fregi di Loggia — 79


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atale è alle porte ma, a differenza degli anni scorsi, le piazze e le strade sono ancora spoglie di luminarie e di festoni. Poche sono le vetrine addobbate per la grande festa, mentre qua e là campeggiano le scritte “sconti”, “saldi”, segno evidente di una crisi che morde, prostrando le famiglie e rendendo il futuro sempre più incerto e nebuloso. Intanto sulla grande ruota dello zodiaco il Sagittario sta per lasciare il posto al Capricorno che i Sumeri associavano a Ea, la divinità primordiale della sfera sub-lunare. Ea dimorava nell’abisso dal quale emerse sotto la forma di “pesce–capra”, indice della sua duplice natura tellurica e acquatica; era il protettore dell’umanità, colui che l’aveva salvata dall’estinzione, insegnando all’ultimo saggio l’arte di costruire l’arca per sottrarsi al diluvio. Anche gli Egizi individuarono nel cielo d’inverno l’immagine del “pesce–capra” e l’associarono all’ibis e a Knum, il dio delle acque, portatore delle piene del Nilo. Per la mitologia greca il Capricorno era, invece, legato alla capra Amaltea che nutrì e protesse Zeus dal padre Crono. Dal corno di Amaltea uscivano nettare e ambrosia e con esso le figlie di Melissa sfamarono il dio bambino. Amaltea riconduce a Pan, il vecchio dio

zione è capace di risalire attraverso la propria interiorità all’anteriorità generante. Miti solstiziali, miti iniziatici, di morte e rinascita, di oscurità e di tenebre che accennano alla necessità di trovare il bianco nel nero, alla volontà di scoprire nelle difficoltà la forza per risollevarsi e per riprendere il cammino verso orizzonti di nuovo luminosi. L’augurio è che, in questo solstizio, così spoglio e sommesso, ciascuno di noi trovi dentro di sé un punto di luce, come nella Notte di Natale di Umberto Saba: “Io scrivo nella mia dolce stanzetta / di una candela al tenue chiarore, / ed una forza indomita d’amore / muove la stanca mano che s’affretta / Come è debole e dolce il suon dell’ore! / Forse il bene invocato oggi mi aspetta”. Natale delle piccole cose, Natale per sentirci migliori, per comprendere meglio gli altri, per riscoprire che nessuna soddisfazione ripaga un’amicizia perduta, per riflettere su quella parola “fratellanza” tante volte pronunciata e così poco vissuta. Officinae nacque proprio sull’onda della fratellanza. È ormai passato un quarto di secolo da quando Federico Esposito ci riunì in una saletta d’albergo umile e disadorna e, parlando con voce sommessa, disse: “Proviamoci... forse non diventerà un grande periodico, probabilmente di-

“...ascolterò il linguaggio della tua anima, come la spiaggia ascolta la storia delle onde.” Khalil Gibran

dell’Arcadia, dai piedi caprigni che, per sfuggire a Tifone, s’immerse nell’acqua, assumendo la forma di uno strano sirenide dalla doppia polarità. Fu lui – insieme ad Hermes – a salvare Zeus, permettendogli di colpire Tifone con la folgore. La similitudine col solstizio d’inverno è evidente: il dio solare, ridotto all’estremo, rinchiuso in una grotta è salvato dal capro sacrificale e inizia la lenta ascesa, il percorso di liberazione. Pan possiede il dono della profezia perché è un essere tellurico e come tale “è maestro di coraggio”; se non si ferma, se non si pietrifica nell’atimia, diventa quel granito che resiste ad ogni offesa e tramanda il messaggio archetipico. Egli è il simbolo della Tradizione e nel segno della Tradi2

versi articoli lasceranno a desiderare, ma se ci metteremo dentro testa e - soprattutto - cuore, sarà una testimonianza tangibile di ciò che ci unisce... del nostro desiderio di fratellanza”. E nel nome di questa magica parola, Officinae auspica che ciascuno – iniziato e non – possa, allo scadere dell’anno, far proprie le parole di Khalil Gibran: “Farò della mia anima uno scrigno per la tua anima / […] / ti amerò come le praterie amano la primavera, / e vivrò in te la vita di un fiore / sotto i raggi del sole. / Canterò il tuo nome come la valle / canta l’eco delle campane; / ascolterò il linguaggio della tua anima / come la spiaggia ascolta / la storia delle onde”. P.2-3: Melograni, 2012, (fotografia P.Del Freo).


Nel cielo d’inverno e dal profondo del cuore Luigi Pruneti

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parte I Storia

Aldo A.Mola

1814-1861: Il mito della Costituzione spagnola nell’unificazione dell’Italia 4


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all’11 al 13 ottobre si è svolto a Gibilterra il XIII Simposio Internazionale del Centro di studi storici della Massoneria spagnola (Università di Saragozza) con il patrocinio del Governo di Gibilterra e il concorso di Università di Cadice, King’s College di Londra, Gibraltar Heritage Trust, Museo di Gibilterra, Garrison Library, Archivi di Gibilterra, “The Gibraltar Chronicle” (il più antico quotidiano locale) e la Società Filosofica di Gibilterra. Forte di un comitato d’onore comprendente i ministri della Cultura (Steven Linares) e del Lavoro (Joseph Bossano), che hanno assistito ai lavori, e i Rettori delle Università di Cadice e di Saragozza, il Simposio si è valso di un comitato organizzatore e di un comitato scientifico che per mesi ne hanno curato la preparazione. In tre giorni si sono susseguite un’ottantina di relazioni, seguite da dibattito ogni tre o quattro esposizioni. Più che internazionale, il Simposio orchestrato dal presidente del CEHME, José Miguel Delgado Idarreta (Un. Della Rioja), sulla scia del presidente onorario José Antonio Ferrer Benimeli, a buon diritto va considerato intercontinentale, per la partecipazione di relatori da Messico (Carlos Francisco Martinez Moreno), Costa Rica (Miguel Guzman-Stein e i suoi collaboratori), Stati Uniti d’America (Maria Victoris Vazquez Semadeni), Cuba (Eduardo Torre Cuevas) e altri, tutti da anni a contatto con la Scuola storica spagnola cresciuta dal primo Simposio (Saragozza, 1983), tra i cui protagonisti ricordiamo almeno Susana Cuartero Escobés, Eduardo Enrique del Arbol, Pere Sanchez Ferré, ai quali poi si aggiunsero Francisco Lopez Casimiro, José Ignacio Cruz Orozco, Agustin Martinez de las Heras e molti ancora sino ad Andrew Prescott del già ricordato King’s College di Londra, José Eduardo Franco dell’Università di Lisbona, Eric Saunier (Le Havre, curatore della nota Encyclopédie de la Franc-Maçonnerie, La Pochothèque, 2000) e altri, tra i quali Juan José Ruiz Morales, più volte relatore ai convegni della Gran Loggia d’Italia, come del resto José Antonio Ferrer Benimeli. Al XIII Simposio del CEHME l’Italia ha

XIII Symposium del Centro di Studi sulla Storia della massoneria in Spagna

Storia Gibilterra, 11-13 ottobre 2012

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opo la caduta del dominio franconapoleonico (1814-1815), in Italia vennero restaurati gli antichi regimi, tutti nemici di qualsiasi costituzione, contrari quindi a “patti” tra sovrani – “legittimi” perché fondati sulla “grazia di Dio” – e sudditi. I pochi fautori dell’unità e dell’indipendenza italiana in età franco-napoleonica avevano avversato l’imperatore. Dopo la sua caduta essi rimasero contrari al suo regime, fondato sul predominio politico-militare dei francesi sull’Europa continentale. Tale avversione comportò il rifiuto della Costituzione francese (compreso l’Atto addizionale del 1815, pur accettato da “liberali” come Simonde de Sismondi) e alle costituzioni degli Stati italiani moltiplicatesi nel ventennio precedente (17961815). I liberali si trovarono a scegliere tra due possibili modelli: la Costituzione siciliana del 1812 (voluta dall’inglese lord Bentinck, che usarono i Borbone d’Italia contro Napoleone) e la Costituzione di Spagna, elaborata dalle Cortes autoconvocate a Cadice (1812). Quest’ultima venne considerata più democratica non tanto per il suo vero contenuto (essa proclamava la sovranità nazionale quale fondamento della monarchia, ma imponeva la fede cattolica come religione dello Stato, la sola permessa), quanto per l’esempio dato dagli Spagnoli nella guerra di indipendenza nazionale contro il dominatore straniero. Dopo il pronunciamento militare che dal gennaio 1820 impose a Fernando VII di Borbone il ripristino della Carta di Cadice (da lui revocata nel 1814), la Costituzione spagnola fu assunta a vessillo

dei liberali italiani. Perciò nel 1820-1821 i cospiratori e rivoluzionari (carbonari, adelfi, federati…) la chiesero per realtà diversissime come il Regno delle Due Sicilie e quello di Sardegna. I moti furono schiacciati dall’intervento armato degli Austriaci in nome e per conto della Santa Alleanza. I liberali vennero quasi completamente annientati con patiboli, carceri, esilio. La reazione durò sino al 1848: una intera generazione. Insurrezioni (o “rivoluzioni”) fallirono, ma quella Costituzione rimase un mito, soprattutto perché affermò il principio della assemblea nazionale unica, depositaria della sovranità. Malgrado la leggenda, i massoni ebbero un ruolo secondario nel Risorgimento italiano e nell’unificazione nazionale. Ebbero parte minima sia a Napoli o Palermo, sia a Torino. Proprio i documenti sulla diffusione di copie della Costituzione di Cadice in Italia confermano che essa venne chiesta da chi non la conosceva. Va però osservato che i massoni italiani adottarono nella propria Costituzione alcuni principi della Carta di Cadice: soprattutto il concetto di “Assemblea costituente permanente”, depositaria della sovranità del “popolo massonico” (repubblicano, monarchico o federale, secondo le opportunità). In tal modo l’Ordine introdusse al proprio interno un principio rivoluzionario (la “sovranità popolare”), fattore di instabilità permanente, mentre una parte di essi optò per il primato della monarchia (storicamente incarnata nella Casa di Savoia), cioè per la conciliazione tra liberalismo e antico regime (secondo il modello inglese). 5


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partecipato con le relazioni di Guglielmo Adilardi su “Lo Statuto di Pio IX (14 marzo 1848) ed il riverbero della Costituzione di Cadice” e di Aldo A. Mola, membro del Comitato d’Onore, veterano dei Simposi, con Luigi Pruneti e pochi altri studiosi italiani. Nel corso dei lavori i congressisti sono stati ricevuti alla Garrison Library e, per i buoni uffici di Keith Sheriff, in una tenuta aperta della antichissima “Loggia San Giovanni” all’obbedienza della Gran Loggia Unita d’Inghilterra: un evento memorabile. Merita sottolineare che alla loggia si accede da un portone affacciato sulla via ed evidenziato dalla riproduzione delle colonne del Tempio, 6

con tanto di insegna ormata dai simboli dell’Arte Reale. La segretaria del CEHME, Isabel Martin Sanchez (Università Complutense di Madrid) ha volto un ruolo superiore a ogni elogio. Gli Atti, anticipati in un robusto Quaderno comprendente le loro sintesi, verranno riprodotti a stampa e in cd, sull’esempio dei Simposi precedenti, arricchiti da un poderoso volume di indici, vera e propria guida alla massonologia contemporanea, di concerto con la Bibliografia de la Masonerìa curata da Ferrer Benimeli e da Cuartero Escobés (Madrid, 2004, voll.3). Aldo A.Mola, componente della redazione di Officinae e Croce d’oro di I clas-

se della Gran Loggia d’Italia, ha presentato la relazione, che qui pubblichiamo senza apparato critico per non appesantirne la lettura. *** 1 - Il quadro geostorico Negli anni dal 1814 al 1821 la Costituzione spagnola del 1812 ebbe enorme influenza nell’opinione dei liberali italiani. Essa ispirò organizzazioni settarie, cospirazioni, insurrezioni e la cosiddetta Rivoluzione del 1820-21 nel regno delle Due Sicilie e in quello di Sardegna. Per comprendere l’influenza della Carta di Cadice nella storia italiana di quel periodo bisogna ricordare che la sconfitta di Napoleone I nel marzo 1814 e la conseguente pace di Fontainebleau ripristinarono sui troni papa Pio VII nello Stato Pontificio, Vittorio Emanuele I di Savoia sui possedimenti sabaudi di Terraferma (Piemonte, Savoia, Nizza cui venne aggiunta l’intera Liguria, solo in minima parte precedentemente sabauda), il duca di BorboneParma a Lucca e gli Asburgici a Firenze, Modena e nel regno Lombardo-Veneto, mentre il ducato dì Parma-Piacenza venne assegnato vita natural durante a Maria Luisa d’Asburgo, moglie di Napoleone I, esiliato nell’isola di Sant’Elena dopo la sconfitta di Waterloo (giugno 1815). Nel 1815 fu spazzato via anche Gioacchino Murat dal trono di Napoli, ove venne restaurato Ferdinando IV, che assunse il titolo di Ferdinando I delle Due Sicilie. Murat tentò la riscossa, ma cadde prigioniero e venne fucilato. Tra quanti ne decretarono l’esecuzione capitale vi fu Scalfaro, che egli aveva creato barone. Il suo appello all’unità per l’indipendenza dell’Italia dal dominio austriaco (Proclama di Rimini, redatto dal giureconsulto Pellegrino Rossi ed elogiato da Alessandro Manzoni) fallì, ma la speranza (o il sogno) rimase. Altrettanto accadde per Napoleone I, considerato da molti liberali italiani un tiranno sino al 1814 ma riscoperto quale campione della libertà dopo l’Atto addizionale che presentò l’impero dei Cento giorni come garante del progresso: diritti dell’uomo, avvento delle nazioni, riforme sociali. Sconfitto e deportato a Sant’Elena, ancor più di Murat l’imperatore divenne il simbolo di vent’anni di sperimenti costituzionali. Fortune e sfortune del liberalismo si intrecciarono con la pace europea stabilita


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dal Congresso di Vienna (1815) e con la Santa Alleanza tra Russia, Austria, Prussia e la Francia tornata sotto i Borbone (Luigi XVIII e poi suo fratello, Carlo X): un sistema politico-diplomatico fondato sulla conservazione delle monarchie amministrative, solitamente dette “assolutistiche”. La Santa Alleanza risultò fragile

per le rivalità tra i suoi componenti. Tuttavia durò sino alle rivoluzioni del 1848. Gli equilibri continentali fissati con il Congresso di Vienna (concerto delle grandi potenze) si prolungarono invece sino al 1914, assicurando all’Europa un secolo di pace, scalfita da guerre locali o “di teatro” e da piccole modifiche. Tre le

novità più importanti vi furono, a metà Ottocento, la nascita del Regno d’Italia, come garante della pace europea, l’ascesa militare del Regno di Prussia e la proclamazione dell’Impero di Germania, l’avvento del Principato (poi regno) di Romania, poi del Regno di Bulgaria. Molto più importanti furono le novità registra7


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te negli spazi extraeuropei: il declino dell’Impero turco-ottomano dall’Africa Settentrionale al Mediterraneo orientale, l’indipendenza dell’America centromeridionale da Spagna e Portogallo, il primato degli Stati Uniti nello spazio americano (“dottrina Monroe”, ideata dal vicepresidente Quincy Adams, antimassone fanatico). Le potenze dell’Europa centrale non percepirono subito o si accorsero solo tardi di queste trasformazioni degli equilibri planetari. 2 - Le Costituzioni dell’età franco-napoleonica in Italia In Italia l’età franco-napoleonica (17961814/15) introdusse novità in tutti i settori della vita politica, sociale, economica e culturale. L’impero napoleonico non avrebbe mai generato l’unificazione di uno Stato autonomo. Esso, anzi, avrebbe reso l’Italia vassallo perpetuo della Francia e ridotto la stessa Roma a città secondaria rispetto a Parigi. Lo stesso, del re8

sto, valeva per gli altri Stati vassalli del sistema napoleonico: dalla Confederazione germanica alla Svezia, da Olanda (assegnata a Luigi Bonaparte), Spagna (affidata a Giuseppe Bonaparte) al Portogallo, temporaneamente vassallo. Tuttavia l’età franco-napoleonica fu per l’Italia un periodo di sperimentazione di costituzioni, cioè di enunciazione della identità degli Stati e dei modi attraverso i quali essi dovevano conseguire i loro fini. Ogni costituzione è una filosofia della storia applicata all’ordinamento politico, l’Idea che si fa azione, l’Ideale che diviene reale, come intuì e scrisse Giorgio Guglielmo Federico Hegel. In pochi anni si susseguirono le costituzioni della Repubblica di Bologna (1796), di quelle Cispadana (1797) e Cisalpina (1797 e 1798), la costituzione della Repubblica Romana (1898), quelle della Repubblica Napoletana (1799) e della Repubblica Italiana (varata dai Comizi di Lione del

1802), la Costituzione del Popolo Ligure (1802), quella provvisoria della Repubblica di Lucca (1799) e lo Statuto costituzionale dello Stato di Lucca (1801). Dal 1805 si registrarono nove Statuti costituzionali del regno d’Italia (1805-1810) e quello del regno di Napoli e di Sicilia (1808) per il regno di Giuseppe Bonaparte prima e di Murat poi. Le Carte di quegli Stati non furono affatto ripetitive, l’una ricalcata sull’altra. Ciascuna a suo modo ambì a enunciare l’Età Novella, un Ordine Nuovo, l’aspirazione a una visione universale. Il modello delle costituzioni francesi è evidente, come anche l’ispirazione razionale, illuministica in senso lato. Lo compresero bene gli avversari delle costituzioni, sin dall’emanazione di quella della Repubblica di Bologna, accusata di non essere affatto adatta a una città che vantava secoli di corporazioni del tutto ignorate dalla Carta del 1796. La critica principale


contro la Carta di Bologna fu però un’altra: essa parlava di diritti dell’uomo e del cittadino ma nulla diceva della religione cattolica. Era infatti caduto all’ultimo momento il suo articolo conclusivo, secondo il quale “la religione cattolica romana è la sola in tutto il territorio della repubblica. Niuno può essere eletto agli uffici stabiliti dalla costituzione se non professa questa religione”. Va aggiunto che proprio a Bologna venne approvata per la prima volta la “bandiera nazionale”, cioè il tricolore verde, bianco e rosso, che invece secondo l’opinione comune venne istituito dalla repubblica Cispadana a Reggio Emilia il 7 gennaio 1797: una fiaba compiacente di anno in anno avallata anche dai presidenti della Repubblica italiana odierna, che si recano in pellegrinaggio a Reggio Emilia ignorando l’antecedente di Bologna. Le Carte successivamente adottate da altri Stati franco-napoleonici furono molto più attente a un tema di tale centralità, quale il ruolo della fede cattolica e, conseguentemente, della libertà di religione, a cominciare da quella della Repubblica Cispadana, che all’art. 4 del titolo I sancì: “(La Repubblica) conserva la religione della Chiesa cattolica, apostolica, romana. Non permette verun altro esercizio di pubblico culto. Solo agli ebrei permette la continuazione del libero e pubblico esercizio per tutto il suo territorio. Non vuole però che alcun cittadino, quando viva ubbidiente alla legge, sia inquietato per opinione religiosa”. Ancora più esplicita fu al riguardo la Costituzione della Repubblica Cisalpina, firmata da politici che ritroveremo nelle logge del Grande Oriente in Italia. All’art. 349 essa recitò: “È garantito a chiunque il libero esercizio del culto che si è scelto, conformandosi alle leggi. Nessuno può essere sforzato a contribuire alle spese di un culto”. Era la Carta che dettava: “Non fate agli altri ciò che non vorreste che si faceste a voi. Fate agli altri il bene che vorreste riceverne”. Non vi compariva più, tuttavia, l’art. 3 della Carta precedente: “La repubblica cisalpina conserva e tramanda ai posteri il sentimento di eterna gratitudine verso la repubblica francese, cui è debitrice della recuperata libertà”: un singolare omaggio allo straniero ancora ritenuto “liberatore”; o, secondo altri, una triste prova di servilismo dei “padani” nei

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confronti dell’Armata d’Italia di Napoleone e dell’esoso e vorace Direttorio della Repubblica francese. 3 - Le Costituzioni della Repubblica Romana e della Napoletana (1798-1799) A sua volta la Carta della Repubblica Romana proclamò: “La legge non riconosce né voti religiosi, né alcun impegno contrario ai diritti naturali dell’uomo”: una bordata contro gli ordini religiosi. L’art. 351, sia pure con ampio giro di parole, si sostanziò nel divieto delle associazioni politiche e quindi delle sette segrete (“nessuna società particolare, che si occupi di questioni politiche, può corri-

spondere con un’altra, né aggregarsi ad essa, né tener sedute pubbliche composte di associati, e di assistenti distinti gli uni dagli altri, né imporre condizioni di ammissione e di eleggibilità, né arrogarsi diritti di esclusione, né aver presidenti, o segretari, o oratori, in una parola alcuna organizzazione, né far portare ai suoi membri alcun segno esteriore della loro associazione”). Mentre enunciava la libertà, la Carta della repubblica romana vietava un diritto elementare: quello di associazione in forme non riconosciute dal potere, come già aveva fatto il governo francese all’epoca 9


del Terrore, che vietò le logge e suppliziò molti massoni. Da questo punto di vista quella Costituzione precorre quella oggi in vigore, che decreta la libertà di associazione ma vieta le società segrete senza però enunciare i requisiti della segretezza.

Storia 4 - La costituzione della Repubblica di Napoli del 1799 Il culmine della separazione dalla tradizione storica venne raggiunto dalla Carta della Repubblica Napoletana (un insieme di 421 articoli), incardinata su principi rigorosamente razionalistici, come spiegato dal Rapporto del comitato di legislazione al governo provvisorio, che ne costituì la premessa organica. Essa è aperta dalla dichiarazione dei diritti e doveri dell’uomo, del popolo e dei suoi rappresentanti. Non vi compare mai alcun riferimento a Dio o all’Essere supremo. L’uomo è chiamato a conservare e migliorare il suo essere e perciò tutte le sue facoltà fisiche e morali. La Carta di Napoli introdusse in Italia il “diritto di resistenza” già affermato dalla Repubblica francese nella sua stagione giacobina. Tra i doveri del cittadino vi spicca quello di “illuminare e istruire gli altri”. La repubblica napoletana si assegnò una missione pedagogica, fondata sulla presunzione del possesso sociale della verità. Di lì il richiamo ai cittadini a vivere nella e per la Repubblica e quindi pubblicamente non solo nelle assemblee. Per cogliere la portata della rivoluzione napoletana ricordiamo il Titolo X, art. 292-306 della sua Carta. Ne ricordiamo alcuni: “L’educazione è fisica, morale e intellettuale (292). L’educazione fisica, morale e intellettuale privata che debbono i padri di famiglia dare a’ loro figliuoli fino all’età di sette anni è prescritta dalla legge (293). In ogni comune vi saranno dei luoghi pubblici, dei ginnasi e campi di Marte, destinati vari esercizi ginnastici e guerrieri (294). In ogni giorno festivo i giovinetti maggiori di sette anni intervengono nei luoghi dalla legge stabiliti a sentire la spiega del catechismo repubblicano (298). Vi sono delle scuole primarie, nelle quali 10

i giovinetti appendono a leggere, a scrivere, e gli elementi della aritmetica ed il catechismo repubblicano (301). I cittadini hanno il diritto di formare degli stabilimenti particolari di educazione e d’istruzione, ma conformi alle leggi della repubblica, come ancora delle libere società per concorrere ai progressi delle lettere, delle scienze e delle arti (306)”. Le vie verso il totalitarismo sono infinite e non passano necessariamente attraverso l’imposizione di una sola confessione religiosa. Anche lo Stato può esserne veicolo, mentre la libertà vera è un sentiero stretto, impervio e solitario. 5 - L’influenza diretta della Francia nelle terre italiane annesse all’Impero e lo Statuto costituzionale del Regno di Napoli e di Sicilia (1808) Sulla vita sociale ed economica della popolazione del futuro Regno d’Italia influì molto l’annessione alla Repubblica francese come XXVI^ Divisione e, per continuità, all’Impero dei Francesi degli Stati di Terraferma della monarchia sabauda: Savoia, contea di Nizza, Piemonte e, dal 1806, della Repubblica ligure, che i Francesi stessi avevano costituito come Stato temporaneamente indipendente: un ampio spazio pluriregionale, per un insieme di oltre cinque milioni di abitanti, con alcuni centri urbani importanti, di importanza strategica (Torino, Cuneo, Alessandria, Novara, le città portuali di Genova, Nizza, La Spezia) e settori produttivi di eccellenza (manifatture della seta, allevamento del bestiame, coltura di

cereali, riso, vite, olivi …). La francesizzazione si sostanziò nell’immediata adozione dei Codici napoleonici, nell’imposizione della lingua francese nella vita pubblica e nell’amministrazione locale, con una penetrazione dalle conseguenze non durevoli solo per il repentino crollo dell’impero. La svolta ebbe ripercussioni profonde nella posizione della chiesa cattolica nella società civile, nella vita quotidiana, nei costumi. Mentre nel regno di Sardegna essa era tutt’uno con lo Stato, nella Repubblica francese venne regolata dal concordato del 1801 tra Napoleone Primo Console e papa Pio VII e, successivamente, dal sempre più aspro conflitto concluso con la debellatio del potere temporale del Papa, internato a Savona, una cittadina portuale ligure, cioè nei confini dell’Impero. Gli Annuaires ufficiali dei Départements transalpini (Torino, Cuneo, ecc.) indicano la vastità del cambio sin dalle date memoriali: quella dell’incarnazione di Cristo vi comparve tra molte altre, quali la fondazione di Roma, l’Egira, ecc. La francesizzazione influì in specie su pensiero politico e coscienza dell’identità tra nazione e lingua. La “nobiltà”, ovvero l’insieme della classe dirigente, era bilingue per tradizione. Il francese era usato abitualmente, ma considerato seconda lingua anche da chi lo utilizzava nella vita domestica. Con l’annessione le parti si invertirono. Perciò, mentre continuò a parlare e a scrivere in francese, quella stessa nobiltà cominciò a capire che doveva pensare in italiano. Non solo: mirò ad apprendere l’italiano “classico”. Proprio sotto la dominazione napoleonica in Italia si pose dunque la questione della lingua, che accompagnò tutto il processo dell’unificazione italiana e risultò irrisolto ancora dieci anni dopo la proclamazione del Regno, nel contrasto tra Alessandro Manzoni (che propose di usare il fiorentino) e il toscano Giosue Carducci, che invece affermò di lasciar libero corso alla lingua viva: l’ italiano. P.4, 6 e 11: Monumento alla Costituzione, Plaza de España, Cadiz; p.5: Veduta di Gibilterra, gouache, collez. privata; p.7: Allegoria della Costituzione Spagnola, olio di Francisco de Goya y Lucientes, XIX sec; p.8: Corte di Cadiz, il Giuramento del 1810 - Olio di José María Casado del Alisal, 1863; p.9 e 10: Incipit di un capitolo della Costituzione Spagnola del 1812.


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Evoluzione o creazione? Caso e necessitĂ o disegno intelligente? Alla luce della scoperta e della cattura del bosone di Higgs Antonio Binni

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Alto e solenne, ma privo di illusioni e, perfino, frustrante, è il monito di Sapienza 9.16: «A stento sappiamo comprendere ció che è terreno, perfino le cose che pur abbiamo tra mano conosciamo cosí poco; chi dunque riuscirà a capire le cose celesti?» Eppure, dopo Copernico (+1543), Galileo (+1642) e Newton (+1727), le «cose celesti» sono diventate, sicuramente, meno sconosciute e sempre più comprensibili. Curiosità, tenacia, umiltà e appositi strumenti – per Galileo, un semplice cannocchiale – continueranno ad arare il cielo spostando sempre più in avanti le colonne d’Ercole della conoscenza. 2.- Nel lontano 1964, il fisico teorico dell’Università di Edimburgo, Peter Higgs, sostenne la teoria che tutto lo spazio è permeato da una sostanza invisibile che agisce come un liquido che esercita una resistenza fluido-dinamica quando una particella cerca di attraversarla. È questa resistenza – o campo di Higgs – che, pochi istanti dopo il Big-Bang, avrebbe rallentato la corsa di miliardi di frammenti verso l’infinito, che avrebbero, cosí, iniziato a interagire fra loro, formando, con il tempo, gli atomi, le molecole, i pianeti, le stelle e tutto l’universo attualmente conosciuto. Dopo cinquant’anni di

esperimenti, il «Bosone di Higgs» è stato scoperto e imprigionato nei dati dei sensibili e elaborati strumenti elettronici del CERN di Ginevra. La scoperta ha rivoluzionato la fisica, perché quella energia minuscola, che si fa massa, è l’alfa di tutte le cose. Il che spiega perché tutte le particelle elementari, costituenti la materia, abbiano una massa. Fra gli scienziati, si ha il convincimento che, con la scoperta del «Bosone di Higgs», si è chiusa un’era e, nello stesso tempo, inaugurata un’epoca straordinaria, aperta a nuove sfide e a nuove inimmaginabili e sorprendenti scoperte, posto che c’è ancora tanto da capire. Perché, ad esempio, l’universo è composto di materia, anziché di antimateria. Perché, per limitarsi ad un ulteriore ultimo esempio, la forza di gravità rimanga l’anomalia, per eccellenza, delle forze dell’universo, in quanto ancora inspiega-

bile con i modelli fisico-matematici disponibili: un autentico mistero fonte di possibili grandiose sorprese. 3.- La scoperta della «particella di Dio», riguardando l’origine dell’universo, ha riportato all’attualità l’eterna questione sulla esistenza di una entità superiore, riaprendo il dibattito fra i fautori, da un lato, dell’evoluzionismo, e, dall’altro, del creazionismo, sotto la specie, più evoluta, del «pensiero intelligente». Vexata quaestio che, da Darwin fino ai giorni nostri, tiene fra loro separati scienziati, filosofi e teologi. Oggi, a dar credito ai fatti, la storia «scientifica» del mondo ha finito per prevalere su quella biblica, degradata a una sorta di racconto mitico. Nonostante che, nella teoria del «big bang», senza dubbio, la più verosimile, sia rimasto ancora in ombra quello che è accaduto fra il tempo iniziale e 10/43 secondi. Per non dire ancora della pochezza della base documentaria rispetto alla ricchezza degli eventi, dei quali si vuole rendere conto, che ha fatto dire, a qualcuno, che l’evoluzionismo, più che una teoria scientifica, è, invece, un «romanzo cosmogonico» proprio perché il racconto scientifico delle origini comporta una parte di ipotesi maggiore delle conoscen13


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ze oggettive. In ogni caso la storia «biblica» continua ad essere raccontata, nonostante il mondo sia stato creato circa 6.000 anni fa e, ancor oggi, il popolo ebraico (… e non solo!) continui a contare gli anni «dalla creazione del mondo». La domanda – inevitabile – che si pone, allora, è quella del rapporto che intercorre fra queste due opposte visioni sull’origine del mondo e dell’uomo. Donde l’interrogativo se l’una prevale sull’altra, fino ad escluderla, ovvero se le risposte della fede e della scienza non sono in conflitto fra loro, in quanto trattasi di distinti approcci alla realtà, che non possono cadere in contraddizione fra loro perché teologia e scienza si distinguono per principio, nel metodo e nel proprio oggetto di ricerca. 14

Né manca chi si è domandato se è possibile individuare un super-sapere che possa unificare questi due saperi. Le domande rimangono, purtroppo, aperte. Anche se non appare inutile approfondire gli elementi, quanto meno quelli più rilevanti e significativi, che tengono ancora separate le due opposte visioni. 4.- L’atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronti dell’evoluzionismo è noto. Da doveroso «oggetto di ricerche e di discussioni» (cosí Pio XII nella Humani Generis – «Del genere umano» – del 1950), a «più» di «una mera ipotesi» (secondo Giovanni Paolo II, nel discorso tenuto il 22 ottobre 1996 ai membri della Pontificia Accademia delle Scienze). Sempre, tuttavia, traguardata con un occhio di sospetto e, comunque, senza mai

rinunciare ai capisaldi della caduta e del peccato originale «veramente commesso da Adamo individualmente e personalmente» (cosí Pio XII, in Enciclica, cit.). «Per ottimi motivi», si è scritto – visto che «la teoria di Darwin ha rimpiazzato il progetto divino con la causalità naturale, e declassato l’uomo da grandiosa immagine del Creatore a modesta varietà della scimmia» (cosí, P. Odifreddi, Caro Papa, ti scrivo. Un matematico ateo a confronto con il Papa teologo. Milano, 2011, pag. 115). È, tuttavia, solo col documento «La persona umana creata a immagine di Dio», promulgato dall’allora cardinale Ratzinger, nella sua veste di Presidente della Commissione Teologica Internazionale, riunitasi a Roma dal 2000 al 2002, che la


Chiesa abbraccia apertamente quella forma di creazionismo che va sotto il nome di «Disegno intelligente», potendo – in tesi – l’intelletto umano discernere, facilmente e chiaramente, uno scopo e un progetto nel mondo naturale, ivi compreso quello degli esseri viventi. Quell’insegnamento fu poi ulteriormente confermato al termine del seminario, avente ad oggetto il tema Creazione ed evoluzione, tenuto a Castelgandolfo, i giorni 1 e 2 settembre 2006, sotto la direzione dell’attuale Pontefice, in uno dei periodici meeting che, da venticinque anni, il Prof. Ratzinger tiene ad alcuni dei suoi studenti più dotati. I cui atti, nel 2007, sono poi stati pubblicati dalle Edizioni Dehoniane. La consacrazione della teoria del «disegno intelligente» avviene, comunque, nella forma più solenne, nel Discorso di incoronazione del 24 aprile 2005, tenuto, all’atto del suo insediamento, dall’attuale Pontefice Benedetto XVI, nel quale, testualmente, si legge: «Non siamo il prodotto casuale e senza senso della evoluzione». Dopo un generico rimando al Compendio del Catechismo promulgato nel 1992 da Giovanni Paolo II, la sintetica rassegna puó utilmente proseguire richiamando l’opera di Cristoph von Schönborn, Caso o disegno? Evoluzione e creazione secondo una fede ragionevole (ESD, 2007), sulla quale concentreremo la nostra attenzione, per una pluralità di motivi. Innanzi tutto, perché l’autore dell’opera, già professore di teologia dogmatica a Friburgo, in Svizzera, è l’allievo prediletto del Prof. Ratzinger. In secondo luogo, perché l’estensore del saggio, oltre ad essere riconosciuto come un fine teologo – non a caso è membro della Commissione teologica internazionale – è pure un profondo studioso dell’argomento. In terzo luogo, e in principalità, perché, nell’opera richiamata, si trova un’ottima ricognizione della posizione assunta in materia dalla Chiesa di Roma. Il saggio racchiude, infatti, le catechesi, nell’anno 2005-2006, tenute, una volta al mese, la domenica sera, nel Duomo di Santo Stefano di Vienna, dove l’A. è arcivescovo e cardinale. Non possono, pertanto, sorgere dubbi sulla limpidezza di quell’insegnamento, visto che il compito della catechesi è ap-

punto quello di rinvigorire la fede. 5.- Le linee fondamentali della teologia della creazione vengono dall’A. fissate in quattro punti fondamentali, di seguito, richiamati. 1) La creazione è avvenuta «dal nulla». 2) Le creature sono fra loro diverse. 3) Esiste una creatio continua perché Dio conserva nell’essere tutto quello che ha creato. 4) Fa parte della creazione anche il governo, nel senso che, attraverso la divina Provvidenza, Dio conduce la sua opera a compimento. A ciascuno dei quattro elementi, l’A. dedica ampi approfondimenti, in pagine serrate, molto meditate, sicuramente da meditare, nella ricca, elegante e solida argomentazione, alimentata dalla rivelazione cristiana, letta alla luce della ragione filosofica, con un significativo riconoscimento al primato della «ragione». A quel «logos» che, al Maestro del Nostro, il teologo Ratzinger, nel famoso discorso tenuto alla Sorbona di Parigi, ha permesso di affermare che il cristianesimo significa «illuminismo», in quanto determina e segna la «liberazione da false dipendenze» (la fonte della citazione si trova nell’opera qui punteggiata alla nota 13 di pag. 161). Una tale ricchezza di pensiero – a prescin-

dere dalla sua condivisione o meno – non merita di essere mortificata in una epitome che, per quanto accurata, finirebbe, comunque, per essere riduttiva e penalizzante. Per questo, ci sembra doveroso rivolgere l’invito ad attingere direttamente alla fon-

Filosofia te, assicurando una lettura, in ogni caso, proficua, oltre che ricca di risvolti, spesso, assolutamente inaspettati. Come quando, in contrappunto con l’approccio scientifico moderno, l’A. sottolinea la stretta connessione esistente fra il neodarwinismo e il neoliberalismo economico. Che, anche nel linguaggio corrente, ricorre, esplicitamente, al termine “selezione” operata dal mercato nei confronti di chi non sa adattarsi allo scontro concorrenziale. O il parallelismo della estinzione della specie – concetto tanto caro ai neodarwinisti – con la concezione di una scuola che finisce per emarginare «coloro che non sono in grado di adattarsi, che sono troppo lenti, troppo poco furbi, troppo pochi adatti a lotte di concorrenza, che sono timidi, timorosi, insicuri» (pag.161). Anche se, sul piano delle ricadute, si po-

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trebbe, inoltre, ricordare l’idea – assolutamente controversa – di migliorare la specie con la genetica, nata nella seconda metà dell’Ottocento in “casa” Darwin, per opera del cugino Francis Galton, diffusa in Europa e nel Nord America (sulla nascita di questa idea e sulle sue implicazioni, è utile approfondimento il saggio di Carlo Alberto Defanti, Eugenetica: un tabù contemporaneo, Codice Edizioni, Torino, 2012). 6.- Prima di entrare nel vivo del confronto fra evoluzione e creazione considerate dal versante cattolico alla luce del saggio richiamato, sia, peró, concesso all’autore di queste note una digressione su un punto, invero, non marginale. Senza che ció comporti una scelta di campo, intendendosi, invece, soltanto rimarcare una problematicità che nasce da testi non considerati dal teologo arcivescovo e cardinale. 7.- Scrive, con fondamento, Schönborn che, nella maggior parte dei miti della creazione, gli dei creano trasformando l’esistente. Essi sono dei semplici «demiurghi», nel senso che operano su una materia che già pre-esiste (pag. 40). In quest’ottica, Dio altri non è che un capomastro, che costruisce con materie prime già disponibili. Il che risponde al vero 16

anche per gli uomini che, «con tutte le loro capacità, possono trasformare solo cose già esistenti» (pag. 41). Ci permettiamo di aggiungere che cosí era pure per il mondo greco, che resta, pur sempre, il punto di riferimento del pensiero occidentale. Che qualcosa potesse venire fuori dal niente era, infatti, contrario all’orientamento scientifico dello spirito greco (come ha esattamente sostenuto anche B. Russel, La saggezza dell’Occidente, Milano, 1961, pag. 165). Solo il Dio della Bibbia – il che è «qualcosa di unico» (pag. 18) – è, invece, Creatore ex nihilo. Con l’avvertenza – scrive sempre il Nostro – che il nulla non è un quid preesistente, dal quale il Dio della Bibbia realizza poi qualcosa. Il nulla, per il fine teologo, significa, invece, propriamente che «l’atto creatore di Dio è un porre sovrano» (pag. 41), perché l’azione creatrice non dà forma a nulla che sia già pre-esistente. Questa conclusione è tratta dall’A. dai soli racconti di Gn 1-3, da non considerarsi, avverte il Nostro, come «sei giorni cronologici» (pag. 31), come intendono, invece, i fondamentalisti, che pretendono di leggere quel passo biblico alla lettera.

La creazione, secondo l’A., infatti, «non è un atto temporale» (pag. 41), perché è Dio a creare il tempo. Sicchè, la creazione «avviene ora, nell’Ora di Dio» (pag. 42). Non puó, tuttavia, sottacersi che, sul tema della creazione, la ricchezza del dato biblico è molto più ampia. Sicchè, la scelta operata dall’A. pare invero riduttiva e, conseguentemente, più appropriata un’indagine estesa ad un contesto di testi più ampi. Tutti, ovviamente, facenti parte dell’Antico Testamento. Molti dei quali rivelano sorprese problematiche, sulle quali è doveroso, sia pure sinteticamente, soffermarsi. 8.- Ai fini che qui interessano – se la creazione sia avvenuta, o no, ex nihilo – non sembra decisivo il richiamo alle pur evidenti metafore di Dio come «vasaio» (Sal. 95.5; Sal. 139,16). O come «scultore» (Sal. 148,5 e Sal. 89) «Il settentrione e il mezzogiorno tu li ha creati». O come «architetto», secondo la classica figura antropomorfica rappresentata in una famosa miniatura. Tutte codeste metafore, pur richiamando l’esistenza di una materia pre-esistente, non escludono, infatti, con certezza, la creazione della materia stessa prima dell’avvenuto intervento modificativo effettuato attraverso una tecnica appropriata, costituita dalla «Sapienza», prossima a Dio, «artefice di tutte le cose» (Sapienza 7.23) prima che il mondo fosse, o dalla «Parola» creatrice. Ai nostri fini, paiono, invece, molto più pertinenti i richiami a quei testi che danno, invece, conto, con certezza, della esistenza di una distesa compatta di acque, in mezzo alle quali galleggia una massa informe, dalla quale uscirà poi la terra, che apparirà asciutta, una volta che le acque si saranno ritirate (cfr. Gb 9,6 e Sal. 18,14.15 e Sal. 24, 1-2). Questa visione postula, infatti, un prius caotico che diventa ordo dopo un combattimento, che presuppone un mondo ostile. Nel che rifulge un’opera stabilizzatrice («È il Signore che ha fondato il mondo sui mari e sui fiumi l’ha stabilito» Sal. 24.2; ma vedasi pure il Sal. 3.1 «È stabile il mondo non potrà più vacillare») e, soprattutto, ordinatrice, che comporta l’assegnazione di ogni cosa al suo posto in funzione del compito ascrittole. Da qui la potente – e bellissima – immagine degli astri disposti con un tale ordine


da essere paragonati a un esercito schierato in battaglia (cfr. Sal. 33,6). L’analisi accurata delle fonti autorizza – in estrema sintesi – a sostenere che la maggior parte dei testi indica che, nel punto di partenza, la materia, seppur informe e disorganizzata, esiste. Anche se quest’ultima constatazione non pare, tuttavia, né decisiva, né dirimente, a ragione che la Bibbia, per parlare delle origini, si fonda sulle conoscenze del tempo, ricorrendo a generi letterari in uso in Mesopotamia, che entrarono in Israele grazie al commercio e agli scambi internazionali. Si vuol dire, altrimenti, che l’elemento culturale è altro dalla legge naturale che, essendo universale, non appartiene, per definizione, alla sfera culturale. Il problema sollevato rimane, dunque, aperto sulla base della ricchezza dei testi biblici, fra loro diversi, perché la creazione non ha lo stesso identico ruolo in ognuno di essi. Sicchè, una teologia della creazione puó essere elaborata solo considerandoli nel loro insieme. Tale, invece, non rimane dal profilo fideistico, visto che il Dio creatore ex nihilo è professione di fede. Col che si ritorna al tema del confronto, compiuto da Schönborn con apprezzabile – ed apprezzato – equilibrio, frutto pure, da parte dell’A., di riconoscimenti importanti, dettati da una indubbia onestà intellettuale. 9.- Riconosce, cosí, il Nostro che la scienza, nella sua autonomia, deve consapevolmente rinunciare a un previo intervento divino1. L’esclusione della dimensione trascendente è, dunque, «metodica», perché la ricerca deve consistere unicamente nella scoperta delle leggi che regolano l’universo e le sue connessioni. La risposta di Laplace a Napoleone, che gli chiedeva quale posto aveva Dio nella sua teoria: «Sire, non ho bisogno di questa ipotesi», a detta del Nostro, è, dunque, assolutamente corretta, perché «La scienza non puó supporre l’intervento di nessun orologiaio» (pag. 38). D’altro canto, peró, sempre secondo il Nostro, è indispensabile liberare la teoria della evoluzione da tutto quello che non è strettamente scientifico, affinchè resti autentica scienza, e non si trasformi, invece, in ideologia, fonte, a sua volta, di una battaglia culturale. Infatti «Chi fa della questione dell’evolu-

zione una “guerra di fede” non rende certamente un servizio alla scienza» (pag. 70). L’enorme progresso delle scienze naturali, ambiti che un tempo si chiamavano «soprannaturali», rinvengono, oggi, spiegazioni rigorosamente scientifiche. Si ha cosí l’impressione – scrive il Nostro – che la religione perda sempre più terreno. Il che esclude, peró, che la Chiesa possa mettere sotto tutela la scienza. Anche se la scienza, a sua volta, deve, tuttavia, a sua volta rinunciare alla pretesa di ricondurre al proprio orizzonte non solo la fede, ma anche qualsiasi altro sapere qualitativamente diverso. Nel contempo, sempre secondo Schön-

no, perció, di volta in volta, scandagliati e chiariti» (pag. 21). Non risponderebbe poi al vero che fede e scienza vivano sempre in una specie di conflitto perenne, a ragione che scienza e teologia, lungi dall’essere in contraddizione fra loro, sono, all’opposto, ambedue ra-

born, va respinto il pregiudizio che la Chiesa sia una «grande rallentatrice» del progresso e la scienza, all’opposto, una sua «coraggiosa liberatrice» (pag. 19). La scienza, secondo il Nostro, deve, soprattutto, riconoscere i propri limiti e rispettarli. Il che non è, tuttavia, men vero per la Chiesa. Di talchè, come si scrive con apprezzabile realismo, codesti «limiti van-

ta all’uomo, in quanto essere che pensa e che si interroga. Da qui l’auspicio dell’A. di un incontro fra scienza e fede. Il che postula, peró, la necessità di un costante, reciproco dialogo, che richiede una maggiore conoscenza delle posizioni dei rispettivi interlocutori (pag. 10). Anche perché le alte conoscenze scientifiche si trovano spesso confrontate con una

Filosofia gionevoli accessi alla realtà. Come lo sono la poesia e la musica. Nella quale il richiamo a «La creazione» di Haydin (+1809) esclude la possibilità di ravvisare nei cristiani seguaci di «miti crudeli» (pag. 30). La scienza, che opera con metodi strettamente scientifici, non puó, comunque, rispondere alla domanda di senso, assegna-

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conoscenza religiosa «ancora infantile» (pag. 31). In quest’ottica «La fede nella creazione e l’approccio scientifico possono completarsi nel migliore dei modi» (pag. 69). Anche perché la «fede nella creazione ha anche a che fare con il fondamento dell’etica. In essa infatti è implicito che il Creatore, attraverso la sua creazione, abbia qualcosa da dirci circa il retto uso di questa sua opera e circa il vero senso della nostra vita» (pag. 14). Il che, tuttavia, postula il rifiuto di una fede cieca («fideismo») perché una «fede senza comprensione (…) non sarebbe una fede cristiana» (pag. 15) e neppure «una fede umana», quanto, invece, «un salto nell’incertezza totale» (pag. 14). Quando, all’opposto, la fede cristiana ritiene che la ragione umana sia in grado «di capire molte cose» (pag. 15) di Dio e, in specifico, il design di una creazione ordinata, conservata e guidata «verso un fine» (pag. 14). Col che – se non andiamo errati – viene capovolto l’insegnamento di Anselmo – e pure di Agostino (credo ut intellegam «credo per poter comprendere») – in favore del più ragionevole intelligo ut credam «comprendo per credere», sostenuto da Abelardo, proprio in antitesi ad Anselmo. Il dialogo fra chi ha fede in un Dio 18

creatore e chi, invece, investiga la natura alla ricerca di leggi universali, per quanto provvisorie, perchè, per loro natura, destinate ad essere superate dalle continue revisioni critiche, alle quali sono sottoposte, e, dunque, via via abbandonate a motivo che la scienza continuamente progredisce – quello che la teoria di Newton lasciava in ombra è spiegato dalla teoria di Einstein – richiede, tuttavia, un intenso sforzo intellettuale, del quale l’A. fornisce ampie dimostrazioni. Anche quando, attingendo, da domenicano, al pensiero di Tommaso, scrive che la difesa della fede non deve mai essere esposta alla irrisio infidelium, inevitabile, invece, quando si fa ricorso a falsi argomenti (op. cit., pag. 32). 10.- La scoperta della «particella di Dio» ha costituito l’occasione per una riflessione sul rapporto tra fede e ragione. Si parva licet, non inutili ci paiono allora alcune considerazioni. Gli asserti teologici, se sottoposti al vaglio della logica formale e al criterio della verificabilità, non possono essere ricondotti all’alternativa fra vero e falso. Sono piuttosto privi di senso. Anche se la tendenza prevalente finisce per considerarli come esplicitamente falsi. Da qui, l’ateismo come punto d’arrivo inevitabile dell’ap-

proccio scientifico (in questo senso, paradigmaticamente esemplare, è la già citata opera di Odifreddi, Caro Papa, ti scrivo, pag. 176 e ss.), perché a nessun essere razionale puó sfuggire la capacità di convincimento, propria ed esclusiva, della prova sperimentale, perció, valida. Anche se soltanto provvisoria, in quanto destinata ad essere superata da successive scoperte. Come onestà intellettuale impone di ripetere e ribadire. Per il credente, la fede è, invece, un prius, che, per definizione, non dipende, né da regole logiche, né da procedure di verificazione. Per il credente, infatti, è decisivo unicamente quanto preliminarmente accolto, per chiosare Bergson, con un salto nel buio, che approda, peró, alla Luce. 11.- La tentazione più volte riproposta nella storia del pensiero è quella di rendere reciprocamente ausiliari fra loro il sapere scientifico e il sapere di fede. Per raccogliere la sfida della conoscenza scientifica, e di quell’ateismo che, ai risultati di essa, fa riferimento, viene allora fatto ricorso ad argomenti sviluppati dalla pura ragione. Con una prospettiva promettente, ma, dallo sbocco, razionalmente, non condivisibile. Chi si colloca in una dimensione religiosa subordina, infatti, ad essa, la pro-


pria ricerca. Sicchè, non puó dirsi autonomo quel pensiero che riflette già sapendo che le sue conclusioni non possono essere in contrasto con quello in cui si crede. Il che comporta un prezzo molto alto. Non solo perché viene meno la possibilità di condividere con altri il proprio punto di vista, appunto perché condotto alla luce della fede, sebbene utilizzando forme argomentative proprie della pura ragione. Ma anche perché, con quella impostazione, si rinunzia a quella istanza di universalità che è, invece, la caratteristica più propria – e preziosa – delle leggi del pensiero, sacrificata, appunto, a causa delle premesse particolari che anima la ricerca di chi ragiona religiosamente, inchiodato, com’è, a un approccio che, per definizione, è relativo alle proprie convinzioni fideistiche. Nel che è palese il rischio del fondamentalismo, visto che il fondamentalismo è l’esito ultimo della chiusura del proprio «credo» a tutto ció che è altro. Si vuole, in estrema sintesi, dire che accordare la figura di chi assume «non manco di nulla» con quella dell’uomo di scienza, aperto, invece, sempre a nuove sfide, rimane un problema di non facile soluzione. Nonostante ogni buona volontà e pia intenzione. Siamo, pertanto, indotti a pensare che, per il credente, «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe» non potrà mai coincidere con «il Dio dei filosofi», quanto dire, il Dio posto da chi lo pensa, perció umano, troppo umano. Come aveva ben capito Tommaso, quando, dopo di avere illustrato le famose «cinque vie» atte a provare l’esistenza di Dio, finisce, peró, col concludere che l’entità suprema, colta col pensiero, costituisce una configurazione meramente parziale se confrontata con il Dio della rivelazione. Si vuol dire, altrimenti, che, per il credente, dietro l’albero e la fonte, non ci sono più le ninfe, né esseri divini, perché tutto quanto esiste nell’universo è opera del Creatore. Per gli scienziati, invece, i cieli continueranno a non narrare più la gloria di Dio, come recita il salmista (cfr Salmo 19,1), perché persisteranno a parlare solo di se stessi, in quanto le leggi, che li governano, sono impersonali. Si direbbe, oggi, più di ieri, perché il bosone di Higgs ha messo in discussione la gerarchia verticale del creato, sostituendola con una struttura orizzontale, oltre che dinamica, una volta che si afferma

che l’universo altro non è che «un sistema relazionale». Nel che non puó non riconoscersi quella «tracotanza del conoscere» che ha fatto scrivere pagine indimenticabili a G. Colli (che, i pochi, che ancora non le conoscono, possono, con sommo profitto, leggere nel Vol. I de La sapienza greca, nella 2^ pregevole edizione pubblicata da Adelphi, nel 1978). 12.- La questione affrontata è cruciale, perché, se la Scienza ci dice come è fatto il cielo, è, invece, la Fede che continua a dirci come si puó cercare di raggiungerlo. Sulle conclusioni permane il timore che si continuerà a rimanere divisi. Concordi, invece, sull’unico punto fermo costituito dal mistero del creato. Fonte di quella meraviglia, dalla quale, secondo Aristotele (in Metafisica 982,12 ss.), è nata la filosofia, e, più in generale, l’ansia e l’affanno di ogni ricerca. Cifra della dignità dell’uomo. Che, mentre rifugge l’ovvietà del senso comune, anela a conoscere attraverso lunghi e faticosi percorsi. Spesso interrotti. Pensare significa, infatti, oltrepassare quel luogo, inquieto, proprio dell’uomo. Perennemente in bilico fra la notte e la luce. _______________

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Note: 1) In questo senso, da ultimo, vds Michael Smith S.I., Il bosone di Higgs e la teoria generale del tutto, in “La civiltà cattolica”, n. 3893 del 1° settembre 2012, il quale, a pag. 391, testualmente, scrive: «Il principio della conservazione dell’energia è alla base di tutto il sapere scientifico, e qualsiasi cosa Dio faccia violerebbe quel principio. È uno dei pochi punti in cui, a questo stadio della nostra conoscenza, la scienza deve respingere ogni ipotesi di intervento divino». L’interessante saggio si sviluppa, peraltro, nel pieno rispetto dell’insegnamento dettato in materia dalla Chiesa di Roma. Emblematica, in questo senso, è la frase, con la quale si chiude l’articolo, qui riprodotta puntualmente, per renderne più agevole la consultazione «La nostra fede dovrebbe permetterci di avere fiducia nelle leggi della scienza (e nella validità degli sforzi della scienza) per credere che possono essere parte integrante della creazione di Dio, piuttosto che qualcosa da spiegare separatamente malgrado l’amore di Dio per la creazione».

P.12, 14, 16, 17 e 19: Riprese dal telescopio spaziale Hubble; p.13: La creazione della Cappella Sistina (guanti astronautici, NASA); p.7: Il fisico Peter Higgs (1929); p.15 e 18: Parti dell’acceleratore del CERN a Ginevra.

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I miti e la scienza: il Golem e la gamba di Giacobbe Paolo Maggi

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uò apparire un bizzarro esercizio ragionare di scienza attraverso i miti dell’Antichità. Eppure i miti possono fare molto bene ad una scienza che, alle soglie di un nuovo mondo, sembra incapace di riflettere sui suoi limiti e di riconfigurarsi. I miti appartengono al mondo della metafora. Metafora è quel modo di pensare, passando dalla cosa in sé all’universo dei suoi mille possibili rinvii. E, per la scienza, il valore del mito consiste proprio nel proporci un cambiamento di metafora che ci consente di osservare un fenomeno noto da un punto di vista completamente diverso dal solito. Qualche numero fa Officinae ospitava alcune mie riflessioni su Prometeo e Chirone, la tecnica e la medicina, l’immortalità e la mortalità, due miti strettamente connessi l’un l’altro, che camminano in parallelo per poi toccarsi alla fine, quando Chirone cede la vita a Prometeo. Vi sono altri due miti che sembrano invece non aver nulla a che fare l’uno con l’altro, anche temporalmente, ma la cui relazione è profonda: il mito di Giacobbe e quello del Golem. Del primo ci parla l’Antico Testamento. Giacobbe, dopo essersi accampato per trascorrere la notte, ingaggiò una misteriosa lotta con un uomo, fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, l’uomo lo colpì all’articolazione del femore, che si slogò, ma Giacobbe continuò a lottare, finché l’uomo gli disse: “lasciami andare, perché è spuntata l’aurora”. Giacobbe, che aveva evidentemente capito con chi aveva a che fare, rispose: “non ti lascerò se non mi avrai benedetto”. L’uomo misterioso gli domandò: “come ti chiami?”. Rispose “Giacobbe”. Riprese: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto”. Giacobbe si disse: “Ho visto Dio a faccia a faccia eppure la mia vita è rimasta salva”. (Genesi 32, 24-34). Israele, in ebraico, significa uomo che vide Dio, ma anche uomo che lotta con Dio. E l’accostamento di questi due significati non mi sembra affatto casuale. Il mito del Golem, invece, appartiene alla tarda tradizione ebraica ed è ambientato a Praga, nell’anno 1530. Il protagonista è il grande Rabbi Loew, rabbino realmente vissuto, uomo di grande saggezza e tuttora molto

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amato dalla comunità ebraica praghese. Quelli erano, per gli ebrei praghesi, anni di terribili persecuzioni. Qualcuno aveva messo in giro la voce che nel Ghetto si usasse compiere sacrifici umani in occasione delle ricorrenze religiose. Quel che è peggio è che, secondo queste voci, venivano sacrificati bambini cristiani. La vita era diventata impossibile. Nemmeno i bambini ebrei potevano più camminare liberamente per Praga: venivano insultati e minacciati di morte. Bisognava fare qualcosa. Rabbi Loew, dopo aver molto meditato e sofferto, decise un pia21


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no. Chiamò i suoi due migliori discepoli, Rabbi Yitzachak e Rabbi Jacob, e spiegò loro ciò che avrebbero fatto: “Noi costruiremo l’Essere, il Golem, ed egli ci aiuterà a riportare l’armonia nella nostra Comunità”. Così, il 20 Adar del 1530, a mezzanotte, i tre si incontrarono nella Mikwa, il bagno rituale. Si immersero nell’acqua, pregarono a lungo. Poi scesero sulle rive della Moldava e, con l’argilla del fiume, impastarono un grande corpo umano, che giaceva supino, come un cadavere. Poi i tre Maestri, usando le Sacre Formule, fecero fluire nell’argilla l’aria, l’acqua e il fuoco. Infine Rabbi Loew scrisse sulla fronte del Golem una Parola: Emet, verità. Così il Golem ebbe vita. Il Golem non poteva parlare. Ma era indenne dalla malattia e dalla morte. Ed era molto forte. Rabbi Lowe aveva ge22

nerato una fantastica guardia per tutta la Comunità. La notte girava per i vicoli ed aveva sotto controllo tutti gli ingressi. Aveva sventato molti attacchi e scoperto molte terribili macchinazioni: come quella di Hawilicek, un macellaio senza scrupoli che aveva disseppellito la salma di un bambino cattolico, l’aveva nascosta nel fegato di un maiale e stava cercando di introdurla nella casa di un ricco ebreo, suo creditore, per discreditare lui e tutta la comunità, con le conseguenza terribili che possiamo ben immaginare. Tutta la comunità voleva bene al Golem, ma non bisognava chiedergli nulla che richiedesse garbo e delicatezza, come fare la spesa o sbrigare faccende domestiche: era estremamente goffo e combinava molti guai. I bambini ridevano e le donne si arrabbiavano con lui. Ma lui non se la

prendeva. Prima che arrivasse il sabato, lo Shabbat, il Rabbino cancellava dalla sua fronte la prima lettera di Emet, Alef, così da lasciare solo due lettere, Men e Tau: morte. Il Golem così si riposava. Il giorno dopo Loew riscriveva la lettera. Così, per dieci anni, nel Ghetto regnò la pace. Ma un triste venerdì, Rabbi Loew dimenticò di cancellare la lettera dalla fronte e il Golem, costretto a lavorare durante lo Shabbat, si ribellò con violenza e iniziò a distruggere tutto quello che trovava davanti. Ben presto avrebbe raso al suolo il Ghetto intero se Rabbi Loew non fosse riuscito a cancellare la lettera Alef. Così il Golem, finalmente, si addormentò. Tutti volevano perdonare la svista del rabbino e le intemperanze del Golem, e tornare a disporre di quell’eccezionale guardiano, ma Loew non era di questo parere; convocò i suoi due allievi e fece tornare il Golem un mucchio di argilla. I due miti rispondono ad un unico, antico, interrogativo: può l’uomo sostituirsi alla divinità ridefinendo le regole che guidano l’universo attorno a lui e dentro di lui? È lecito lottare contro una forza superiore per imporre un proprio progetto, come ha fatto Giacobbe quella notte? La domanda è estremamente attuale se si pensa che la tecnologia, la scienza, la medicina, oggi, si trovano quotidianamente a interagire e spesso a dover ridisegnare e rimodellare il sistema biologico in cui l’uomo è inserito, e il suo stesso corpo, con il rischio di generare danni incalcolabili. La risposta a Rabbi Lowe è: no, se non si possiede la saggezza sufficiente per farlo. La risposta a Giacobbe è: sì, se si possiede la saggezza e la determinazione per farlo. In questo caso è la stessa divinità a riconoscere e a sancire il compito che il saggio si è dato e che, a quel punto, si identificherà, anche agli occhi della divinità, con il suo progetto. La nostra, oggi, non è la cultura di Giacobbe, quella del sapiente che lentamente matura la competenza necessaria per farsi reinterprete del disegno della Natura, ma è quella dei costruttori del Golem, che si arrogano il diritto di interagire, anche pesantemente, con le leggi dell’universo, in nome di una specifica conoscenza tecnica, a prescindere dalla propria reale competenza per farlo che implica, invece, un’intelligenza complessiva delle cose, un percorso di saggezza, come quello che ave-


va intrapreso Giacobbe e il cui simbolo era proprio quella tenda, testimonianza concreta del cammino dell’uomo. Oggi si sta radicando un pensiero che la dice lunga sulla visione di questo problema: il principio dell’impatto zero. Un progetto, per poter essere accettato come compatibile con l’ambiente in cui andrà realizzato, deve essere a impatto zero, non deve cioè interagire con il sistema circostante. E questo è certamente un principio giusto: dopo tutti i danni che abbiamo fatto al mondo che ci circonda, evitiamo almeno di farne altri. Questo principio ignora tuttavia l’ipotesi che l’uomo possa mai migliorare il sistema biologico di cui fa parte. Eppure questo, se egli avesse la sapienza sufficiente per farlo, sarebbe in teoria possibile e qualche volta, seppure raramente, è anche avvenuto. Per Francesco Bacone il compito della scienza è quello di adattare la natura ai bisogni dell’uomo. Bacone sottintendeva che, per realizzare questo, l’uomo di scienza deve prima compiere un percorso di conoscenza che non può essere esclusivamente tecnico. Deve farsi Giacobbe. Noi in questo abbiamo invece fallito, perché non abbiamo mai maturato un livello di saggezza e di conoscenze sufficienti a modificare la natura senza creare disastri. E così abbiamo sviato dal progetto baconiano sulla natura, sovrapponendo ad essa un mondo artificiale. Continuiamo cioè a produrre Golem. Chiedere progetti a impatto zero è una strategia prudente. Ma è anche un’ammissione di fallimento. In medicina, invece, l’impatto zero non esiste. È un lusso che non ci possiamo permettere: una medicina a impatto zero vuol dire lasciare la malattia alla sua storia naturale. La medicina ha sempre un impatto, in ogni caso riprogetta, su un piano differente rispetto alla natura, il nostro corpo. E la sapienza di Giacobbe è sempre necessaria perché questo impatto abbia il segno meno. Vi è un’altra simbologia significativa nel mito di Giacobbe: la divinità lascia un segno del suo passaggio. Infatti, durante la lotta, lo ferisce seriamente e Giacobbe resta zoppo. La tradizione ebraica ricorda questo mito con il divieto, previsto dalle norme di casherut, di cibarsi della carne attraversata da tagli al nervo sciatico. La cultura moderna, invece, se l’è completamente dimenticato. Haim Baha-

canza dovrebbe insegnare qualcosa anche ai medici: le nostre malattie, i difetti congeniti, le patologie della psiche sono, nella nostra vita, l’equivalente del dubbio nel percorso del pensiero scientifico. Paradossalmente la malattia fa parte della nostra integrità. È la malattia che ci fa

Scienza

rier, matematico, psicanalista e studioso di Qabbālâ ci aiuta a riscriverne il valore simbolico con la sua teoria della claudicanza: la menomazione di Giacobbe non è un suo limite, ma è uno strumento per procedere. In generale, secondo il principio della claudicanza, i nostri limiti rappresentano il carburante che ci permette di compiere il nostro percorso. Sono i dubbi, le incertezze e gli errori che ci rendono forti e ci spingono a progredire intellettualmente, non le certezze che, invece, ci conferiscono uno stato di quiescenza. Per Baharier le certezze sono come corazze. Ma “se scegli la corazza sei simile al granchio: lo scheletro che hai come guscio ti lascia molle dentro, e ti mangiano”. Il principio della claudi-

procedere, non l’integrità che, invece, ci rende inerti e ci fa rinunciare alla progettualità. La claudicanza sta all’integrità fisica come i dubbi stanno alle certezze: sono i primi elementi della proporzione che ci spingono a conoscere e a progredire intellettualmente, non i secondi. Ed è pur vero che la malattia è generatrice continua di dubbi. Insomma, il claudicante corre più del sano. E questo lo sa bene Oscar Pistorius. Lo sprinter sudafricano è portatore, sin dall’infanzia, di una doppia amputazione degli arti inferiori, dovuta a un difetto congenito. Con l’aiuto di due lamine al titanio al posto delle gambe ha battuto diversi record ed è stato il primo atleta che, nonostante la sua menomazione, ha corso ai Giochi Olimpici. Egli è un uomo che ha trasformato la sua malattia in un potente strumento per riprogettare la sua esistenza. Questo è stato possibile perché fin da bambino si è abituato a non considerare la mancanza delle gambe come un’emergenza, ma come un fenomeno, una caratteristica della sua storia personale. E su questo ha costruito e realizzato un progetto, con più forza di quanta ne avrebbe avuta se fosse stato proprietario di un paio di gambe normali. Pistorius a proposito della sua infanzia ci racconta: “Mia madre usava dirci: “Carl, mettiti le scarpe. Oscar mettiti le protesi”. Così io sono cresciuto non pensando di avere una disabilità. Sono cresciuto pensando di avere scarpe differenti”. Così Oscar, indossando le sue lamine, al posto delle gambe, ha corso più veloce di molti atleti sani. P.20: Olimpiadi di Londra 2012, le protesi per la corsa di Oscar Pistorius; p.21 e 22: Il film muto ‘Der Golem’ del 1920, interpretato da Paul Wegener; p.23: in alto la locandina originale del film, in basso l’attore Paul Wegener.

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Teatro

Il “Ludus de Anticristo” Paolo Aldo Rossi e Ida Li Vigni

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F

ranco Cardini terminava un suo breve ed illuminante articolo dedicato al Ludus de Antichristo1 con queste parole: Racconto dei Tempi Ultimi, o metafora del resto trasparente di vicende politiche e religiose? Nel secondo caso uno splendido esempio di propaganda politica attraverso il teatro.2 Era dall’età di San Giovanni che si parlava dei “tempi ultimi” e della venuta dell’Anticristo: “Figlioli, questa è l’ultima ora. Come avete udito che deve venire l’anticristo, di fatto ora molti anticristi sono apparsi. Da questo sappiamo che è l’ultima ora [...]. Chi è il menzognero se non colui che nega che Gesù è il Cristo? L’anticristo è colui che nega il Padre e il Figlio” (1 Gv 2,18-22). Tuttavia, con quel nome non compare mai esplicitamente nell’Apocalisse, ma in San Paolo si parla senza sottintesi di “mistero dell’iniquità” (mysterion tes anomìas)3. Per l’escatologia cristiana (particolarmente la Scrittura e la Tradizione, ma anche e fondamentalmente le Opere dei Padri e Dottori della Chiesa), l’Anticristo sarà l’antagonista del Messia e subito prima della parusia (o il ritorno del Pantocratore nella gloria alla fine della storia per giudicare il mondo e per instaurare il Regno dei Cieli) egli porterà al trionfo il 1 Ludus traditus est in manuscripto singulo ex monasterio Tegernsee (nunc Bayerische Staatsbibliothek München, CLM 19411, fol. 2c-7b (6a-15b)). Ludus de Anticristo, Das Spiel vom Antichrist, Lateinisch/Deutsch, ed. R. Engelsing, Stuttgart 1968. In Karl Langosch, Geistliche Spiele. Lateinische dramen des Mittelalters mit deuschen versen, Wissenschaftliche Buchgesellsshhaft, Darmstadt, 1917. pp. 180-239. Trad. it. in Il teatro latino medievale, a cura di Ezio Franceschini, Milano, 1960, pp. 265-95. 2 Franco Cardini, Il Ludus de Anticristo e la teologia imperiale di Federico I, in A.A.V.V. Mito e realtà nel teatro dell’antichità classica al Rinascimento. Ripubblicato in Dal Medioevo alla medievistica, Genova, 1989, pp. 151-63. 3 “Il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene. Solo allora sarà rivelato l’empio e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà all’apparire della sua venuta, l’iniquo, la cui venuta avverrà nella potenza di satana, con ogni specie di portenti, di segni e prodigi menzogneri, e con ogni sorta di empio inganno per quelli che vanno in rovina perché non hanno accolto l’amore della verità per essere salvi”. San Paolo, Lettera Seconda ai Tessalonicesi, 7-10.

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suo regno e questo sarà verso gli ultimi giorni del mondo e dei tempi4: “Prima che il Giudizio Finale di Dio abbia introdotto il regno eterno dei santi, il regno dell’Anticristo attaccherà la Chiesa ferocemente, anche se per breve tempo...” Sarà un topos ricorrente in tutta la storia del cristianesimo, da Giovanni l’Evangelista a Paolo di Tarso, da Agostino d’Ippona a Ippolito vescovo, da Ireneo di Smirne a Rabano Mauro, da Girolamo di Stridone a Giovanni Mansur “il damasceno”, da Anselmo d’Aosta a Tommaso D’Aquino … Ma proprio il secolo XII presentò in Germania due donne: una poetessa, Frau Ava di Melk (ca. 1060 4 Agostino, La Città di Dio, Libro XX, 23.

–1127), che compose un Der Antichrist5 e la filosofa profetessa Hildegarda di Bingen6 (1098 –1179) che contese con parole aspre e severe l’imperatore Federico I quando questi si pose in contrasto con papa Alessandro III (e si comportò velut 5 Aveva letto il Libellus de Antichristo di Adsone di Luxeuill (m. 992), abate del monastero di Moutier-en-Der (cfr M. Rangheri, la Epistola ad Gerbergam reginam de ortu et tempore Antichristi di Adsone di Montier-en-Der e le sue fonti, «Studi medievali», ser. III, 14 (1973), pp. 677-732.) e le opere di Rabano Mauro e del Venerabile Beda. Cfr. Maurer, F. Die Dichtungen der Frau Ava. Tubinga, 1966. Lena Mayer-Skumanz. Frau Ava. Wien, Dachs-Verlag, 2002. 6 Hildegardis abbatisse Opera, Patrologia Latina ac. J.P. Migne, vol. CXVII, Parigi 1895.

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parvulum et veluit insane viventem). A questa in molte sue “visioni”, illuminata dallo Spirito Santo, apparvero gli Ultimi Giorni, con la vittoria effimera dell’Anticristo (Quarantadue mesi, Ap XI, 2; XIII, 5); dice la Sibilla del Reno: “… dopo la nascita dell’Anticristo gli eretici predicheranno le loro false dottrine indisturbati”7. I secoli XI-XII produrranno e recheranno il “tempo delle eresie” contro le quali la Chiesa, l’Impero e i Re Cristiani si 7 Scivias: Hildegardi Scivias, Adelgundis Fuhrkotter, CCCM, XLIII; XLIIIA, Turnhout; Symphonia harmoniae celestium revelationum: Hildegard von Bingen.

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opporranno decisamente, ma quando si parla di eresia, ovvero “scelta” (dal verbo aireō = scelgo, preferisco, approvo una opinione, eleggo una parte politica …), molto spesso chi accusa e chi è accusato si scambiano le parti e le false dottrine e quindi il termine Anticristo verrà usato costantemente da tutti contro i loro nemici. Il “mistero dell’iniquità”, in questa metà del secolo XII, l’Imperatore degli Ultimi Tempi, ricompare con la forza di un evento cosmico, ossia quello della venuta di eretici ed ipocriti che appoggiano il Falso Messia, e in una comunità ormai dilaniata e lacerata dallo scisma in attesa della battaglia fra i Figli della Luce e i Figli delle Tenebre.

Un ignoto monaco dell’Abbazia di Tegernsee, fra il 1155 e il 11698 (ma è possibile – almeno noi lo crediamo - anche più tardi, ossia verso il 1188), scriveva un Ludus de Antichristo. Una rappresentazione o spectaculis quasi theatralibus ispirato come sempre da episodi evangelici o della tradizione cristiana o biblica, ma recitato nelle chiese da mimi, attori, cantanti, giocolieri, buffoni … che facevano diventare la Casa del Signore il più delle volte una bettola o un locale malfamato e che: “… come dalla radice di buoni esempi possono nascere pessimi frutti – scriveva Herrada di Landsberg (1130-1195) nella seconda metà del XIII secolo – Nel giorno e nell’ottava dell’Epifania fu introdotto dai nostri padri un rito fatto di immagini visive rappresentante i magi guidati dalla stella alla ricerca del Cristo appena nato, la crudeltà e la malizia ingannatrice di Erode, i soldati incaricati della strage degli innocenti, il letto della Vergine, l’angelo che avvisa i magi di non tornare a Gerusalemme, o altri fatti che in quel giorno si ricordano: e tutto ciò perché ne avesse aumento la fede dei credenti, la. grazia divina fosse più ricercata, e l’incredulo stesso ne traesse incitamento e sprone a tornare a Dio e alla pratica religiosa. Ma oggi? Che cosa succede in alcune chiese in questi nostri giorni? Non è più un pio rito che si celebra a onore di Dio, ma un’impudicizia irreligiosa e dissoluta che si sfrena. L’abito clericale viene deposto, si introducono usanze militari, preti e soldati non si distinguono più, e in una confusione di chierici e di laici la casa di Dio è profanata; ci si ingozza, ci si ubriaca, si rappresentano scene scurrili, mimi disonesti, giochi ridevoli; e uno strepito d’armi, una confusione da bettole, uno 8 Sono le due date corrispondenti all’incoronazione imperiale di Federico Barbarossa, identificato con l’Imperator del Ludus, e all’elezione a Bamberga di Enrico VI di Hohenstaufen a re dei Romani. Ma il testo parla dell’Imperator che depone la corona nel Tempio di Gerusalemme diventando Rex Teutonicorum. Cosa, in qualche modo, già avvenuta il 27 marzo del 1188 a Magonza, in cui Federico nella quarta domenica di Quaresima (Laetare Jerusalem) lascia vuoto il suo seggio per il rex regum et dominum dominantium (etimasia che sta a significare la presenza invisibile del Cristo sul proprio trono). Enrico è re dei Romani, ma non re dei Tedeschi; lo diventerà alla morte del padre nel 1190.


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sfrenato manifestarsi di ogni vanità. Si aggiungano le discordie che vengono a turbare un siffatto ambiente: così che anche quando l’inizio è pacifico, non succede mai che si finisca senza gravi tumulti di risse e di liti”9. Nel 1161-1162 Gerhoth di Reichersberg, il notissimo canonista e teologo sostenitore di Alessandro III contro il l’Imperatore, scomunicato perché appoggiava Ottaviano Monticelli (Vittore IV) contro Rolando Bandinelli (Alessandro III), scrive il De investigatione Antichristi nel quale si legge: “Vi sono dei sacerdoti che non si dedicano al ministero della Chiesa e dell’altare, ma piuttosto alle opere dell’avarizia, della vanità 
e degli spettacoli: così che le chiese, le quali dovrebbero essere case 
di orazione, trasformano in teatri e riempiono con mimici spettacoli di rappresentazioni sceniche. Nei quali spettacoli, presenti e 
spettatrici le donne, essi compiono talora perfino l’iniquo mistero 
dell’Anticristo, non - come si crede - immaginaria figura, ma in 
verità, com’è possibile credere per quanto sta in loro ... Che cosa 
c’è 9 K. Young, The Drama in the Medieval Church, London, 1933, II, 412-14.

quindi da stupirsi se anche costoro, ora, simulando nelle loro 
 rappresentazioni l’Anticristo o Erode, non mentiscono come si suole 
fare a scopo di divertimento, ma veramente li pongono sulla scena, 
come coloro la cui vita non differisce troppo dalla ignobile vita del
l’Anticristo? Ed è anche accaduto talvolta presso costoro, come sia
mo venuti a sapere, che colui che nei loro divertimenti aveva figurato come morto da resuscitare per opera del profeta Eliseo, compiuta la simulazione, sia morto per davvero. Così, un altro, presentato all’Anticristo per essere da questi resuscitato, nella settimana 
successiva - siamo venuti a sapere - morì veramente e fu sepol
to. E chi può sapere se anche tutte le altre simulazioni, e cioè l’effi
gie dell'Anticristo, i fantasmi dei demoni, la pazzia di Erode, essi 
non presentino veracemente?”10 Su questo brano si basano le datazioni di E. Levi (fra il 1155 e il 1167) ed E. Franceschini (fra il 1155 e il 1162), dimenticando che di Ludus ce n’erano molti e quello di Tegernsee non è l’unico (ci sono rima10 Gerhoth di Reichersberg, De investigatione Antichristi, Opera hactenus inedita, F. Scheibeberger. I, Linz. 1875, pp. 25-37.

sti in ambiente germanico il Ludus scenicus de Nativitate Christi e il Ludus de Antichristo) e Gerhoth, per la verità, non ne parla chiaramente, altrimenti avrebbe discusso di Enoch e di Elia e non di Eliseo (che nell’opera bavarese non appare). Nel X secolo l’abate Adsone di Montieren-Der nell’Epistola ad Gerbergam reginam de ortu et tempore Antichristi aveva ripresa, manipolandola, la profezia della “Sibilla Tiburtina” per dedicarla alla regina Gerberga, figlia di Ottone I e moglie di Luigi IV, e da questa si evinceva che il re di Francia era colui che avrebbe regnato prima della venuta dell’Anticristo. Era chiaro che un “ludus” sugli Ultimi Giorni, composto da un tedesco di Tegernsee, ribadirà, per bocca dei Messi, ai Franchi su chi dovesse essere il vero imperatore alla Fine del Tempo: “Ecco che i Franchi insolenti, ormai troppo inorgoglitisi, con pro­tervia si op­ pongono alla tua maestà. E c’è di più: essi contestano la legittimità del tuo Impero, affermando persino che esso è in mano di usurpatori. Che siano dunque ripor­tati a ragione, corretti con giusta pena, affinché la loro punizione insegni agli altri a obbedire. Allora l’IMPERATORE can27


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terà: Sempre i cuori sono soliti esaltarsi prima della rovina. Non me­raviglia­tevi se gli stolti parlano con arroganza! Questo è certo: soffocheremo la loro super­bia e li calpesteremo sotto i nostri piedi. Così questi, che ora si rifiutano di ob­bedire come soldati, in futuro saranno costretti a servire come schiavi. E subito muoverà con i suoi soldati ad assalire il Re dei Franchi. Questi lo affronterà, com­batterà contro di lui e, vinto, verrà con­dotto prigio­niero dinnanzi al trono dell’Imperatore”. Federico Barbarossa, duca di Svevia, era presente alla sconfitta di Dorileo il 25 ottobre 1147, durante la Seconda Crociata, quando l’esercito di Corrado III, 20.000 uomini, fu annientato dai Turchi selgiuchidi di Mas’ud I e ridotto a soli 2000 uomini, i quali non poterono intervenire alla crociata, anzi si dovettero unire ai Francesi di Luigi VII dai quali venivano insultati con grida di “Pousse Allemand”. Il giovane duca di Svevia non avrebbe dimenticato né le grida di scherno ad Efe28

so, né l’estate del 1148 in cui era a Gerusalemme e, diventato Imperatore, aveva vestito, ormai vecchio, gli abiti del pellegrino armato per la Terra Santa; non l’avrebbe più rivista però, fermato da un fiume fra le gole del Tauro, in cui cercava ristoro dal caldo. Era il 10 giugno 1190. Gerhoth di Reichersberg scriveva, essendo già lo scisma in corso, avendo preso le parti di Alessandro III: “… la benedizione dei sacerdoti non crea affatto i re e i principi ma … allorché essi siano stati fatti tali dall’elezione, allora essi li benedicono”11; e l’Archipoeta dopo la caduta di Milano esprime la più alta concezione della sacra regalità in termini di una teologia basata sul potere imperiale: “Salve mundi domine, Cesar noster ave! cuius bonis omnibus iugum est suave; … Princeps terre principum, Cesar Friderice … Nemo prudens ambigit te per dei nutum super reges alios regem constitutum et

in dei populo digne consecutum tam vindicte gladium, quam tutele scutum.”12 Nel testo del Ludus la concezione è ribadita. L’Imperatore (atto I), poi Re dei Tedeschi (a partire dall’atto II), rappresenta per i contemporanei Federico I; le prime parole che dice sono: “Narrano gli storici che un tempo tutto il mondo fosse soggetto al fisco dei Romani. Il valore degli avi ne aveva fondato la potenza, ma l’ignavia dei po­steri ne provocò la caduta. Sotto costoro si dissolse quel potere imperiale che ora la maestà della nostra po­tenza rinnova. Paghi dunque ogni re all’Impera­tore dei Romani i tri­buti un tempo fissati” (L. de Ant. I, 1). È il tema della traslatio e della renovatio imperi (tanto caro a Carlo Magno ed agli Ottoni) in base al quale Federico I penserà a se stesso come il mundi dominus, il signore universale a cui tutti i re devono inchinarsi. Ma alla fine dell’atto I, quarta parte, l’Im-

11 Gerhoth di Reichersberg, De investigatione Antichristi, Opera hactenus inedita, F. Scheibeberger. I, Linz. 1875, p. 85.

12 Salve mundi domine in M. Manitius, Geschite der lateinischen Literatur des Mittealter, III. Heildelberg, 1931 pp. 984-86.


peratore restituisce a Cristo i simboli del potere: “Accetta la mia offerta! A te, Re dei Re, in umiltà di cuore restitui­sco l’Impero. A te, per cui i re regnano, a te che solo puoi essere detto Imperatore e sei di ogni cosa ordinatore!” Deposti sull’altare i simboli del potere, l’Imperatore ritornerà al suo antico dominio mentre la Chiesa, venuta con lui a Gerusalemme, ri­marrà nel Tempio. A leggere attentamente il Ludus vi si trovano tutte le istanze imperiali dal 1155 (incoronazione di Federico) al 1188 (quando riconsegna i simboli dell’impero a Cristo) e per di più tutti gli inviti pressanti degli Anni Ottanta: dalla risorgente teologia imperiale alla crociata del 1187 (dopo la battaglia di Hattin e la caduta di Gerusalemme. Chi affronti per la prima volta la lettura del Ludus de Antichristo e co­nosca al­ meno sommariamente i caratteri del teatro alto-medievale non può non cogliere la novità sorprendente di questo testo, così ricco di indicazioni scenografico-recitative e così intimamente estraneo alla matrice liturgico-cerimoniale dei primi drammi medievali. Se è vero, infatti, che gli schemi rappresentativi appaiono ancora par­zialmente soggetti alle regole della li­turgia spettacolarizzata, è altrettanto inequivo­cabile che ci si trova dinnanzi ad un’opera dotata tanto di una propria autonoma in­tenzionalità letteraria, quanto di una precisa regia drammaturgia, che tende ad elu­dere o a trasfor­mare in chiave laica le modalità istituzionalizzate dal teatro liturgico, al fine di fornire alle vicende narrate un funzionale linguaggio rappresentativo tale da suggerire agli spettatori la corretta chiave interpretativa. Da qui la necessità di analizzare, sia pur sinteticamente, i principali aspetti tecnici del Ludus, non fosse altro che per soddisfare la legittima curiosità del lettore che potrebbe domandarsi come fosse realmente il teatro nell’Alto Medioevo, come recitassero gli attori, che tipo di regia o di scenografia si seguisse, a quale pubblico si indiriz­zassero gli spettacoli. Interrogativi di non facile soluzione dato che, in as­senza di documenti che indichino con assoluta precisione la tecnica rappre­ sentativa e recita­ tiva alto-medievale, le risposte vanno estrapolate da mate­riali disparati e, almeno per la mentalità mo-

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derna, spesso in­conciliabili: i testi liturgici, le indicazioni interne ai drammi e i rari trattati specifici (ad esempio, il Poetria Nova di Goffredo di Vinsauf degli inizi del XIII se­colo), ma anche e soprattutto la trattati­stica morale cristiana sulla liceità degli spettacoli, i manuali di retorica e l’ampio materiale ico­nografico e let­ terario sul linguaggio dei gesti. E tuttavia, almeno nel nostro caso, risol­vibili con un certo grado di approssimazione, grazie alle precise indicazioni conte­nute nel manoscritto, facilmente integrabili con i dati teorici a nostra disposizione. Vediamo dunque nello specifico le caratteristi-

che tecniche e tematiche del dramma. Circa il primo punto, va sottolineato un dato pressoché unico: il Ludus è, allo stato attuale delle nostre conoscenze, il solo testo teatrale pervenu­toci che rechi precise indicazioni di “regia”, ovvero che precisi con abbon­danza di dati gli elementi scenografici e i movimenti di scena. In tal senso esso riveste un ruolo di grande importanza nel campo dello studio del tea­tro alto-medievale, dato che avvalora l’ipotesi dell’esistenza di tecniche rappresentative ben più complesse rispetto a quelle che si suppone venis­sero utilizzate per i drammi liturgici. Non ci sono sta29


te conservate invece indi­cazioni musicali, anche se il ritmo dei versi e le formule continuamente ri­petute “cantando / canterà / canteranno” testimoniano con certezza il fatto che il testo doveva essere musicato e cantato, come accade ad esempio nel Ludus Danielis (Jeu de Da-

Teatro niel degli scholari della Scuola Episcopale di Beauvais), di cui è stato possibile ricostruire l’intera partitura musicale. Forse, l’assenza di tale tipo di informazioni nel manoscritto pervenutoci o in altre fonti in cui si accenna al Ludus de Antichristo è da imputare al ruolo “marginale” dato dall’autore alla sottolineatura musicale, per lui espressivamente meno significativa sul piano simbolico rispetto all’anda­ mento scenografico. Di contro, l’attenzione minuziosa alle indicazioni di regia è preziosis­sima spia del particolare intento ideologico che l’anonimo autore del Ludus persegue. È evidente che questi opera all’interno di un progetto dramma­ turgico consapevolmente teso a portare sul palcoscenico, per la prima volta nella storia del teatro alto-medievale, la Storia universale e la realtà con­temporanea del suo tempo. Tale mutamento di prospettiva, che sostituisce al messaggio spiri­ tuale il messaggio politico e che quindi si rivolge ad un pubblico d’élite, comporta inevitabilmente un diverso impiego delle tradi­zionali regole drammaturgiche e una modifica dello stesso linguaggio tea­ trale. Obbliga, cioè, l’autore a sottrarre la propria opera all’equivoco di una collocazione liturgico-cerimoniale (il dramma veniva rap­presentato in chiesa, luogo

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deputato delle rappresentazioni teatrali “serie”, ma a sentire Gerhoth di Reichersberg e Herrada di Landsberg la serietà del luogo veniva screditata non da ciò che era rappresentato, ma da chi lo faceva e dal come lo eseguiva) e a con­notare il testo in chiave “storicistica”, pur conservando una chiave interpretativa meta-testuale di tipo metafi­sico (lo schema della vittoria del Bene sul Male proiettato all’interno della storia politica del XII secolo), sicché l’operato di Federico I diviene il momento centrale della Storia universale, il perno umano attorno a cui ruota e trova spiegazione la drammatica vicenda dei Tempi Ultimi. Proprio questa volontà di portare la Storia, umana e universale, nel tea­tro spinge l’autore del Ludus a dotare lo spettacolo di un grandioso mec­cani­smo di messinscena, giocato su due elementi, idealmente corri­spon­denti ai nostri moderni concetti di scenografia e regia: un’ampia disloca­zione spaziale dei luoghi d’azione, sottolineata da un imponente simboli­ smo scenogra­ fico, e un complesso movimento di scena, scandito da una precisa gestualità recita­tiva. Il primo elemento, quello appunto scenografico, si fonda sulla proie­zione della tipica carta geografica medievale a “T” all’interno dello spazio rappresentativo. Sfruttando la pianta a due absidi affrontate (una ad est con l’altare, l’altra ad ovest col trono) tipica delle chiese imperiali, egli rovescia la tradizionale prospettiva scenografica e, di conseguenza, il rapporto fra scena e pubblico. In luogo di un’unica pedana centrale, attorno alla quale si collocano gli spettatori, egli ne introduce quattro, collegate dalle navate la­terali, sicché gli spettatori vengono a disporsi al

centro della chiesa e agli ingressi. Su tali pedane egli colloca i troni dei re: ad oriente il trono di Geru­salemme e la Sinagoga, ad occidente i troni dei re di Francia e di Germania e la Chiesa, a settentrione il trono del re dei Bizantini, a mezzogiorno quelli del Re di Babilonia e della Gentilità. In tal modo lo spettatore si viene a trovare ide­almente al centro del mondo terreno - palcoscenico della storia umana - e di quello spirituale - palcoscenico della vittoria della Fede cri­stiana sulla pa­ ganità (cioè l’Islam, al tempo considerato erede del pagane­simo antico) e sull’incredulità degli Ebrei -, né ha difficoltà a orientarsi, poiché ogni palco è connotato simbolicamente dalla presenza di elementi allegorici (oggetti, abiti, personaggi) di elementare decifratura. Una siffatta sistemazione obbliga necessariamente gli attori a seguire una precisa scansione di apparizioni e di spostamenti, così come il simboli­smo sotteso a ogni spazio rappresentativo implica una diversificata e ap­propriata gestualità recitativa. Si passa così al secondo elemento sopra ri­cordato, quello propriamente legato alla regia. Fin dalle prime battute del dramma notiamo come l’ordine di apparizione degli attori e i loro succes­sivi spostamenti siano giocati su due piani: uno meramente narrativo (e dunque rispondente a necessità di ordine tecnico-rappresentativo) e l’altro apertamente simbolico. Se il primo piano, nonostante l’apparizione di un angelo e la presenza di tre finti miracoli e di sei azioni di massa (ben cinque battaglie e addirittura un terremoto), non richiede alcun tipo di spie­gazione, dato che ognuno di questi momenti corrisponde a un determinato evento narrativo, il secondo ci obbliga a una riflessione più profonda, dato che in esso si manifesta quel complesso codice di relazioni sociali e spiri­ tuali che è proprio del mondo medievale. Vediamo intanto le diverse tappe. Ad avviare la rappresentazione è il corteo guidato dal Re di Babilonia e dalla Gentilità che, cantando le lodi della fede politeista e idolatra, va a collocarsi a sud. E'il mondo degli In­fedeli, presumibilmente connotato da insegne e vesti simboliche, anche se il testo al proposito tace (e questo accade anche per gli altri personaggi, fatta eccezione per la Chiesa). Segue il corteo della Sinagoga e dei Giudei, che va a disporsi a est, cantando le lodi del Dio unico e il ri-


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fiuto della fede in Cristo. A questo punto può fare il suo ingresso maestoso la Cristianità, che si dirige verso ovest scortata da una grandiosa processione di figure allegoriche (la Misericordia e la Giustizia) e di personaggi meta-storici (il Papa e l’Imperatore). In questo caso l’autore fornisce precise indicazioni, dal momento che il significato simbolico della scena svolge un ruolo cen­trale nel dramma, costituendone la chiave di lettura: la Chiesa deve indos­sare vesti muliebri e sarà cinta di usbergo e di corona, la Misericordia e la Giustizia, anch’esse in abiti femminili, reche­ranno invece i loro specifici attributi: la prima l’ampolla dell’olio santo, la seconda la bilancia e la spada. Fondamentale anche la disposizione dei per­sonaggi, allegoria dei rapporti metastorici intercorrenti fra potere spirituale e potere tem­porale. Infatti, una volta giunto il corteo nella sua sede, la Misericordia e la Giu­stizia si porranno rispettivamente a destra e a sinistra della Chiesa, mentre alle loro spalle di fermeranno il Papa e l’Imperatore, cioè i garanti dell’or­dine spirituale e di quello politico, secondo lo schema tipicamente medie­vale di separazione fra mondo dei chierici e mondo dei laici. Chiude la se­rie degli ingressi l’arrivo del Re dei Francesi, del Re dei Bizantini e del Re di Gerusalemme, accompagna-

ti dai loro eserciti, che vanno ad occupare i loro troni, posti ri­spettivamente ad ovest, a nord e ad est, quasi a chiudere idealmente in un triangolo le successive vicende. Questa complessa sequenza in funzione di prologo proietta gli spettatori in una dimensione spazio-temporale particolarissima: se da un lato, infatti, disegna gli spazi geografici allora conosciuti e rievoca le tappe storiche che hanno portato al trionfo della Cristianità e alla divisione dei due poteri, spirituale e terreno, dall’altro pone le vicende in una dimensione metafi­sica, affinché la storia umana e politica si venga in ultimo a inserire armo­nio­samente nel quadro della Storia universale e divina. Stabilita così la con­ temporaneità dei due diversi piani interpretativi, l’autore del Ludus può in­ trodurre finalmente quegli eventi storici a lui contemporanei che lo hanno spinto a riflettere sul significato ideologico della politica del Barbarossa e sulle conseguenze di questa all’interno del mondo cristiano. Dispostisi dunque tutti gli attori, ha inizio la vera e propria rappresenta­zione, giocata su un susseguirsi vivacissimo di battaglie, annunciate e spiegate da un continuo andirivieni di messi. È in scena, inizial­mente, la storia politica del XII secolo, dominata dalla figura del Barba­

rossa, ora in lotta contro Luigi VII, ora in polemica con il papato e soprattutto con Ales­sandro III, ora in veste di crociato e di difensore di Gerusalemme, dopo il clamoroso gesto di rinuncia alle insegne imperiali per vestire solo i panni del soldato di Cristo. L’imperatore, in questa fase del dramma, è presen­tato come il supremo garante della stabilitas terrena, ovvero il miles Christi cui è affidato il compito di conservare l’unità politica della societas chri­stiana, proteggendola al contempo dagli attacchi della paganità e dell’ere­sia. Il gesto di sottomissione dell’imperatore alla Cristianità (si badi bene, non alla Chiesa mondanizzata, di cui Federico I contestò sempre le intro­missioni tempo­ rali) dà avvio all’ultima parte del dramma, quella in cui piano storico e piano metafisico si incontrano e si amalgamano. La rinuncia all’Impero e la riconquista della Città Santa in nome della Fede aprono un nuovo e defini­tivo capitolo nella storia umana. Lungi dall’instaurare im­ mantinentemente la Città di Dio in terra, esse annunciano l’arrivo dell’An­ticristo e, dunque, l’“ultima delle guerre”. Specchio rovesciato della Chiesa e dell’Impero, l’Anticristo entra in scena affiancato a destra dall’Ipocrisia (dietro alla quale si colloca il falso clero) e a sinistra dall’Eresia (seguita dai cattivi laici) e va a occupa31


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re il trono di Gerusalemme. A partire da questo momento ogni sua mossa politica (la sconfitta della Gentilità, la sottomis­ sione della Sinagoga e dell’Imperatore) e ogni suo gesto (gli inter­venti mi­racolosi e la benedi­zione impartita ai nuovi fedeli) sono allegorie trasparenti dell’instaurazione di un falso ordine, spirituale e temporale, abilmente ma­scherato di verità. È il trionfo in terra del Male annunciato dall’Apocalisse quale “segno” dell’avvento degli Ultimi tempi. E come era stato profetiz­zato nella Apoca­lisse, solo l’apparizione e il martirio dei pro­feti Enoch ed Elia salverà l’umanità dalle Tenebre. Con­vertitasi la Sina­goga, strettasi la Cristianità at­torno alla Chiesa, la falsa fede viene scon­fitta: mentre ancora l’Anticristo sta inneggiando alla vittoria, un terribile terre­moto lo costringe alla fuga e la rappresenta­zione si chiude sulle note della lode che la Chiesa rivolge a Dio. Resta ancora da chiarire un punto: quale tipo di recitazione e quale pro­fessionalità prevedesse la comunicazione teatrale medievale, laddove si passa dalle rappresentazioni di piazza dei giullari al teatro drammatico. Un celebre passo della Poetria Nova di Goffredo di Vinsauf (vv. 2031-2065) può es­serci utile, dato che in poche righe compendia le possibile tecniche recita­tive: 32

“... Nella recitazione vi sono tre modi: il primo sia della bocca, il se­condo dell’espressione retorica, il terzo del gesto. Nella voce ci sono le leggi e di queste leggi serviti: la clausola suggerisce le pause e il modo di porgere indica l’accentuazione. Dividi quelle parole che il significato di­vide, congiungi quelle che congiunge. Imposta in tal modo la voce che non si discosti dall’argomento; ... L’ira, genere di fiamma e madre del furore, traendo origine dalla follia, avvelena il cuore e l’anima; punge con la follia, brucia con la fiamma e turba con il furore; viene fuori in questa stessa forma una voce amara, un volto concitato, un gesto turbato; e l’espressione esteriore è specchio di quella interiore e si muovono insieme. Che cosa fai tu che reciti quel personaggio? Imita i veri furori. Non essere, tuttavia, fu­rente; agisci come quello soltanto in parte, non interamente; ed il tuo gestire non sia lo stesso che nella realtà, ma suggerisca, come si conviene, la cosa. ... La voce rappresenti la voce, il volto il volto ed il gesto il gesto per accenni...”13 È evidente sia il rifiuto di qualsiasi forma di realismo recitativo, pro­ prio degli istrioni che sono appunto “imitatori 13 E. Faral, Les art poetique du XIIe e di XIIIe siècle, 1924, Parigi.

della verità”, sia l’opzione per una tecnica espressiva artificiale e simbolica, che di per sé implica un alto livello di professionalità e una cultura retorica non indifferente, lontana dalla convenzionale comicità espressivo-gestuale dei semplici giullari. Gli attori dei drammi (esclusivamente uomini, poiché alle donne è vietata rigoro­samente ogni forma di apparizione teatrale) sono dunque degli autentici professionisti e come tali non ricadono sotto gli strali feroci dei moralisti. Il loro compito, infatti, non è soltanto quello di “narrare” o di divertire, bensì quello di rappresentare attraverso un preciso codice di segni verbali e mi­mici la gerarchia di valori che sta dietro ai molteplici modelli di comporta­mento sociale e spirituale che caratterizzano la cultura medievale. La loro è un’arte raffinatissima, giocata sull’alternanza fra moderatio e gesticulatio, dove la prima è cifra morale dell’ordine sociale e spirituale, mentre la se­conda mette in scena il degrado bestiale dell’uomo colpevole di aver tur­bato con i suoi peccati l’armonia universale. Di conseguenza, ogni gesto del corpo (compresi gli impercettibili mutamenti mimici del volto) corri­sponde a un codice simbolico di natura morale e sociale e come tale viene immediatamente percepito dallo spettatore, tanto che questi “riconosce” la natura e i fini di un personaggio ancora prima che essi si rivelino attra­verso il dipanarsi dell’azione narrativa. Un esempio di tipologie gestuali contrapposte può essere sufficiente ad illustrare quanto sopra osservato. Si consideri dunque il personaggio dell’Anticristo: ogni suo gesto è improntato al principio della gesticulatio, dal momento che egli deve rappresentare il Male che si nasconde dietro l’imitazione ingannatrice. In quanto simulatore, egli imita, amplificandoli e distorcendoli, i gesti composti e ieratici degli uomini giusti, laici e chierici, così come le parole che pronuncia sono rovesciamenti mascherati dei veri valori morali della cristianità. Con un semplice rovesciamento della postura della mano egli rivela la propria natura maligna e blasfema: con l’indice e il medio della mano destra rivolti verso il basso e aperti a forma di “V”, mentre il pollice chiude le altre due dita piegate sul palmo della mano, egli compie un gesto malefico che dissacra contemporaneamente sia


il gesto della santa benedizione, sia quello della santa investitura vassallatica. Fa­cile immaginare, a contrappunto, la gestualità degli attori chiamati a rappre­sentare la Chiesa e l’Imperatore: una gestualità ieratica e controllata anche nei momenti di maggior azione (ad esempio, le battaglie), perfettamente conforme ai modelli elaborati tanto dalla società aristocratica quanto da quella clericale. Così l’Imperatore, nella scena della deposizione delle inse­gne davanti all’altare di Dio, si genufletterà mantenendo il busto diritto, poiché l’atteggiamento prostrato (a busto inclinato) è proprio soltanto dei chierici; parimenti la Chiesa, nel momento del suo ingresso sulla scena, procederà con passo lento e composto e, una volta giunta presso il suo trono, si vol­gerà verso il pubblico impartendo la benedizione in base alla corretta po­stura della mano. In tal modo al registro della simulazione, dell’ingan­nevole imitazione della realtà, si oppone costantemente il registro della per­fetta confluenza fra movimento del

corpo e codice socio-morale corrispon­ dente, consentendo anche sul piano recitativo un pieno recupero e trionfo degli autentici valori morali e spirituali posti a fondamento della societas christiana. E tuttavia, nonostante la piena aderenza al linguaggio culturale e simbo­lico medievale, proprio in virtù di questa singolare armonizzazione del lin­ guaggio rappresentativo col contenuto narrativo, l’evento teatrale finisce con lo spezzare i legami originari con la cerimonia liturgica per farsi “rappresentazione del mondo”, “teatro” nel pieno senso del termine. Non a caso proprio nel XII secolo e in relazione al Ludus de Antichristo (ma non è detto che sia quello di Tegernsse) Gero di Reichensberg nel suo De investigazione Antichristi condanna in quanto blasfeme e sacrileghe queste nuove forme di spettacolo in cui “verace­mente” e “immaginosamente” gli attori si “mascherano in larve di demoni”. Come giustamente annota Luigi Allegri in Teatro e spettacolo nel Medioevo, ci troviamo di fronte

al “... rifiuto del passaggio dalla cerimonia religiosa ... alla rappresentazione teatrale ...” quale si poteva ricavare, sia pur approssimativamente, dal mondo classico; ma ciò che più importa sottolineare è che, nonostante gli strali dei moralisti e il controllo ecclesiastico, incominciava

Teatro a delinearsi un nuovo capitolo della storia del teatro. Ormai, il progetto drammaturgico abbandona il mondo degli exempla e la funzione catechetica per proiettare sul palcosce­nico le maschere verosimili di quella realtà in cui è immerso quotidiana­mente lo spettatore. P.24: Majestat Batlló, olio su scultura lignea, sec. XII, Barcellona; p.25, 26 e 27: Duomo normanno e Chiostro di Cefalù (1131...); p.28: Interno della chiesa dell’Abbazia di sant’Antimo; p.29 e 31: Gerona, Sant Cugat del Valles, chiostro; p.30: Aosta, Collegiata di Sant’Orso, capitello; p.32: Monza, la Corona Ferrea del Sacro Romano Impero (V e il IX sec. ?); p.33: I cavalieri dell’Apocalisse, Codex miniato XII sec. (28, 29 e 31, foto P.Del Freo)

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Una proposta di modello del simbolismo Ippolito Spadafora

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imbolismo come dimensione-1.1 Noi possiamo muoverci in questo mondo mediante opportuni mezzi di cui la natura ci ha dotato e secondo le leggi della fisica; questo vuol dire che non possiamo volare né essere simultaneamente in due posti diversi. In ogni caso ci muoviamo secondo il numero dei gradi di libertà disponibili per il movimento nello spazio, che sono tre: e si parla di uno spazio tridimensionale. Il muoversi nel mondo tridimensionale, secondo le leggi fisiche, non comporta l’uso di alcun formalismo simbolico. Le cose si complicano se volessimo spostarci nel tempo sia nel futuro sia nel passato; se l’uomo non potesse usare simboli, vivrebbe in un presente perenne, senza memoria del passato né anticipazioni del futuro. Per muoverci nel tempo abbiamo bisogno di un qualche formalismo simbolico che registri in qualche parte della mente il “fatto” passato per poterci spostare in questo “fatto”. Quindi il simbolismo non solo ci permette di muoverci o più esattamente di orientarci nelle quattro dimensioni spaziali e temporali, ma è anche l’ambiente in cui noi ci orientiamo; è anche l’ambiente in cui noi ricostruiamo il mondo per muoverci e orientarci; pertanto il simbolismo è una dimensione vera e propria: per questo è stata denominata quinta dimensione1. Ogni movimento non solo nello spazio quadridimensionale, ma anche nel mondo del simbolismo richiede l’utilizzo del simbolismo stesso. Ogni fatto collocato nello spazio deve essere collocato anche nel tempo e deve essere collocato anche nel simbolismo sia per esprimere le quattro coordinate ma anche per avere l’ambiente, la ‘copia del mondo’ in cui è possibile usare il simbolismo. Come un metalinguaggio è un linguaggio che permette di descrivere un linguaggio, una metadimensione è una dimensione che permette di orientarsi in una dimensione. Il simbolismo permette di orientarsi in tutte le dimensioni, quindi esso stesso è una dimensione, in particolare una metadimensione. 1.2 Simbolismo come caratteristica creativa dell’uomo L’insieme degli oggetti che l’uomo rie-

1 Norbert Elias, The symbol theory, London, 1991, Trad. italiano, Teoria dei simboli, Bologna, 1998, pp. 88-89, 192-193.

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sce a esperire nel mondo fisico, ossia attraverso i suoi organi di senso, è formato dagli elementi che crea l’uomo e da quelli che non sono stati prodotti dagli uomini. Quelli non creati dall’uomo, come gli alberi, le montagne, i mari, l’uomo stesso, ecc., sono oggetti simbolizzati, ossia sono stati rappresentati da simboli, o simbolizzabili se si scoprissero nuovi oggetti. Gli oggetti prodotti dall’uomo, in quanto rappresentazioni dell’insieme di simboli che hanno determinato il concetto dell’elemento che si è voluto costruire, sono di per se stessi simboli. Per esempio, se la sedia non esistesse e qualcuno pensasse un oggetto con le caratteristiche di una sedia, creerebbe il concetto di sedia e quindi po-

trebbe effettivamente costruirlo creando in tal modo la rappresentazione del concetto di sedia e quindi il simbolo stesso del concetto di sedia. Pertanto l’insieme degli elementi del mondo fisico con i quali si riesce a far esperienza sono o oggetti fisici non prodotti dall’uomo ma simbolizzabili o simboli creati dagli uomini. Ossia l’uomo crea solo simboli. Anche Gioberti afferma2: “L’arte umana è imitativa dell’arte divina ... Laonde, quando l’uomo crea un’opera artificiale, come uno stato politico, un tempio, un ipogeo, una necropoli, egli 2 Vincenzo Gioberti, Introduzione allo studio della filosofia, Venezia, 1851, p. 461.

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non ritrae solamente la natura sensibile, come crede il volgare: ma imita sovrattutto que’ tipi intellettivi, che porta in se stesso, e che ha ricevuti dalla ragione o dalla

che è più di lui e, però, è essenzialmente manifestato mediante lui ... Il simbolo è una sostanza, l’energia della quale, essendo congiunta ... con l’energia di un’al-

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rivelazione. Perciò le immagini artifiziose sono bene spesso la copia delle idee, come si vede sovrattutto nelle instituzioni religiose e politiche”. 1.3 Un modello per descrivere il simbolismo Per quanto riguarda la definizione di simbolo è importante rilevare i princìpi generali del simbolismo, come afferma Florenskij3. Florenskij presenta una varietà di definizioni del simbolo4: “Una parte che è uguale al tutto, mentre il tutto non è uguale alla parte; o anche un essere che è più di se stesso: questa è la definizione fondamentale del simbolo. Il simbolo è una certa cosa che manifesta da sé ciò che non è questo simbolo, ciò 3 Pavel A. Florenskij, Il Simbolo e la forma, scritti di filosofia della scienza, Torino, 2007, p. 187. 4 Pavel A. Florenskij, Ibid, p. 187, n. 6.

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tra sostanza, che è più preziosa sotto un dato aspetto, porta in sé quest’ultima sostanza”. Florenskij individua le questioni basilari tra loro connesse del simbolismo nei seguenti punti5: la natura del simbolo (il rapporto del simbolo con quanto è simboleggiato); la costruzione e la composizione del simbolo (il rapporto reciproco di logico e prelogico presente nel simbolo); l’applicazione di una scala dei simboli (la differente rilevanza tra simbolo e simbolo); la classificazione dei simboli secondo il loro rapporto con la sfera oggettuale. E su questa linea di ricerca mi sono mosso per dispiegare i misteri del simbolo. Ernest Jones così si esprime6 a proposito 5 Pavel A. Florenskij, Ibid, p. LX, Introduzione di Natalino Valentini. 6 Ernest Jones, Papers on psychoanalysis, London, 1948; trad. it. Teoria del simbolismo, scritti sulla sessualità femminile e altri saggi, Roma,

dell’aspetto definitorio del simbolismo: “La caratteristica basilare di tutte le forme di simbolismo è l’identificazione. Questa è una delle tendenze fondamentali della mente, ed è molto più marcata nelle sue zone più primitive”. Si può esprimere matematicamente questo concetto di Jones, ossia che l’identificazione è alla base di ogni simbolismo? Ebbene esiste in matematica, e fa ormai parte del corredo scolastico di ognuno, il concetto di classi di equivalenza che formalizza questo concetto. Una relazione7 è l’insieme delle coppie che soddisfano ad una certa proprietà. Per esempio, consideriamo la proprietà seguente: ‘Avere la stessa età’; poniamo in uno stesso insieme tutte le persone che hanno la medesima età. Mario, Luigi, Antonio, ecc., hanno tutti la stessa età, allora appartengono allo stesso insieme che chiameremo classe (di equivalenza) e s’indicherà con [Mario], [Luigi], ecc. Quindi, ci sarà la classe di equivalenza di tutti quelli che hanno 1 anno, quella formata dalle persone con 2 anni di vita, ecc. Raggruppando le persone che hanno la stessa età in una stessa classe di equivalenza si scompone l’insieme delle persone P in tanti classi. Le classi [Mario], [Antonio], ecc. si possono riguardare come elementi di un nuovo insieme, che chiameremo insieme quoziente di P rispetto alla relazione R considerata (nel nostro caso R vuol dire ‘Avere la stessa età’), e che si indica con [P]; quindi [Mario] appartiene a [P], ecc. Questo nuovo insieme [P] si dice dedotto da P mediante contrazione oppure mediante identificazione degli elementi congruenti. Approfondendo questo concetto, così si esprime Lombardo-Radice8: “Il passaggio dall’insieme P all’insieme [P] schematizza e precisa il processo di formazione dei concetti a partire da oggetti, e più in generale, l’ordinario processo di astrazione, consistente nell’identificazione di elementi diversi, sì, ma godenti tutti di una comune ‘proprietà’. Si tratta, infatti, di considerare classi di elementi di (P) come elementi (di un nuo1972, pp. 144-145. 7 In realtà le considerazioni che si esprimono si riferiscono alle relazioni di equivalenza. Ma per i nostri scopi usiamo il termine generico relazione. 8 Lucio Lombardo-Radice, Istituzioni di algebra astratta, Milano, 1971, p. 27.


vo insieme, [P]); gli elementi di P possono essere riguardati come (oggetti) ‘dati’, gli elementi di [P] come ‘astrazioni concettuali’ (classi di oggetti pensate come un unico oggetto)”. Tutto ciò è espresso con la definizione di simbolo S proposta, come intersezione di classi (di equivalenza) appartenenti a insiemi quozienti dedotti mediante un processo di contrazione o identificazione9 di elementi congruenti, ossia appartenenti alla stessa classe di equivalenza. Sia S un elemento di un insieme infinito P. Consideriamo l’insieme di tutte le relazioni su P; S apparterrà per ogni relazione R ad una sola classe di equivalenza10; l’intersezione di tutte queste classi di equivalenza che contengono S, è uguale all’insieme formato dal solo elemento S. Quindi ogni simbolo S è l’intersezione di classi di equivalenza, ossia il punto di contrazione e di identificazione delle varie proprietà espresse da ogni classe di equivalenza; pertanto con il formalismo esposto in precedenza abbiamo dato una rappresentazione formale all’idea di Jones sulla genesi del simbolismo. Così si esprime Blanco a tal proposito11: “In altre parole, un individuo è l’elemento di una classe formata da un solo elemento e che si costruisce attraverso l’intersezione di un certo numero di classi. Facciamo un esempio pratico”. Supponiamo che si voglia individuare, o identificare12 una persona, Mario Bianchi, il simbolo S. Tale identificazione può avvenire in maniera molto semplice se si conosce poco il Signor Bianchi; per esempio, tramite nome, cognome. Ma tale individuazione è molto vaga, perché possono esistere molti Mario Bianchi. Se invece si vuol fare un’identificazione più precisa possibile, si può definire la relazione: ‘avere la stessa data di nascita’. Tale relazione scompone l’insieme P=Uomo in tante classi di equivalenza formate dagli elementi di Uomo che hanno la stessa età. Mario Bianchi apparterrà 9 Peter Frederik Strawson, Individuals, an essay in descriptive metaphysics, New York, 1963; trad. it., Individui. Saggio di metafisica descrittiva, Milano, 1979, cap. I. 10 Perché ha intersezione vuota con le altre classi di equivalenza della stessa partizione. 11 Ignacio Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti, saggio sulla Bi-logica, Torino, 1981, p. 371. 12 Cfr.: Peter Frederik Strawson, cit.

Simbolismo

alla classe di equivalenza formata da tutte le persone che hanno la stessa data di nascita di Mario Bianchi. Ma se si vuol conoscere meglio il signor Bianchi si può richiedere di sapere la città dove vive, titolo di studio, stato civile. Allora definiamo su Uomo la relazione ‘avere la stessa residenza, lo stesso titolo di studio e lo stesso stato civile’. Quindi Mario Bianchi appartiene all’intersezione della classe di equivalenza delle persone che hanno la stessa data di nascita del signor Bianchi con la classe di equivalenza delle persone che hanno la stessa residenza, stesso titolo di studio e stesso stato civile di Mario Bianchi. Se vogliamo avere altre informazioni sul signor Bianchi possiamo definire altre relazioni, fino ad arrivare alla completa individuazione di Mario Bianchi: ad esempio, si può definire la relazione: avere lo stes-

so codice fiscale. Ovviamente la classe di equivalenza che identifica quelli che hanno lo stesso codice fiscale, è formata dalla sola persona che ha quel codice fiscale. Pertanto il signor Bianchi apparterrà alla classe di equivalenza formata da lui solo in quanto il codice fiscale è univoco. 1.4 Misurazione della diversità tra due classi Il problema che ci poniamo ora è il seguente: si può definire una misurazione (o distanza) di due classi di equivalenza che indichi la diversità (o la somiglianza) delle due classi di equivalenza? Vedremo che è possibile definire una misurazione che risolve il problema che abbiamo esposto. Definiamo come distanza tra le due classi A e B il numero di elementi diversi tra A e B rapportato al numero complessivo di elementi di A e B, cioè 37


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diviso il numero complessivo di elementi tra A e B; quindi misura la diversità di A da B (e viceversa). Per esempio, sia A= {1, 2, 3} e B={1, 3, 4}, allora: la distanza tra A e B è uguale a 2 diviso 4, ossia 1/2, in quanto gli elementi diversi sono 2 e 4, e gli elementi complessivi sono 1, 2, 3, 4, ossia in numero di 4. Indicheremo tale distanza con il nome di distanza armonica. La distanza armonica o varianti di essa sono abbastanza conosciute13. Tale metrica è nota come metrica di Marczewski-Steinhaus H.14 e la 13 Andrei Z. Broder, On the Resemblance and Containment of documents, in Proceedings of the Compression and Complexity of sequences 1997, Washington, 1997, pp. 21 e ss.; Ronald Rousseau, Jaccard similarity leads to the Marczwski-Steinaus topology for information retrieval, in Information Processing & Management, Elsevier Science, 1998, pp. 87-94; 14 E. Marczewski, H. Steinhaus, On a certain distance of sets and the corresponding distan-

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sua importanza, soprattutto per information retrieval, è discussa in Heine15; mentre la relazione fra questa metrica e l’indice di Jaccard fu studiata in Levandowsky, Winter D.16. Dunque, alla nostra domanda, in termini non matematici, possiamo così rispondere: la distanza armonica contiene tutti i requisiti che una distanza fra classi richiede. 1.5 Processo generativo dei simboli Passiamo, adesso, alla generazione del simbolo. Abbiamo detto che ogni simbolo S è la contrazione di classi di equivalenza. Vediamo il processo inverso di espansione di S, che partendo da S ricostruisce ce of function, in Colloquium mathematicum, Varsavia, vol. VI, 1958, pp. 319-327. 15 M. H. Heine, Distance between sets as an objective measure of retrieval effectiveness, in Information Storage and Retrieval, 1973, vol. 9(3), pp. 181-198. 16 M. Levandowsky, D. Winter, Distance between sets, in Nature, Nov. 1971, vol. 234, pp. 34-35.

le classi di equivalenza da cui deriva. Una catena generativa di S è una sequenza di classi (di equivalenza) ‘inscatolate’ una dentro l’altra, che concorrono alla definizione di S, passo dopo passo, a iniziare da S fino all’infinito; per esempio, una catena generativa è la seguente: S; S, S2; S, S2, S3; ... S, S2, ..., Sn, ... Al primo passo la catena generativa è formata da S; al secondo passo è formata da S e S2; al terzo passo da S, S2, S3; e così di seguito. Al primo passo la distanza armonica è uguale a 1 in quanto l’insieme formato da S, e il niente differiscono per 1. Al secondo passo la distanza tra S, e S, S2 è data da 1 diviso 2, in quanto gi elementi diversi fra S, e S, S2 è solo S2 e il numero complessivo di elementi è 2. Così facendo al terzo passo la distanza tra S, S2, e S, S2, S3 è un 1/3, fino ad arrivare all’n-simo passo in cui è uguale a 1/n. La sequenza 1, 1/2, 1/3, ..., 1/n, ... si chiama successione armonica17. Per cui quando n va verso infinito, la distanza armonica all’n-simo passo diventa sempre più piccola, ossia va verso zero; si dice più precisamente che due elementi consecutivi della catena generativa distano (secondo la distanza armonica) di 1/n. Quindi la distanza fra due ‘passi’ consecutivi della catena generativa diventa sempre più piccola all’aumentare di n, e quindi due elementi consecutivi sono sempre più vicini; il che implica che i due elementi della catena incominciano a confondersi l’uno con l’altro, iniziano a perdere i connotati e quindi l’individuazione. Questo vuol dire che, nel processo generativo di espansione di S, è molto lungo il cammino mediante cui S inizia a confondersi nel disordine e nella nebbia della palude delle somiglianze. Se, invece, si vede come fase d’individuazione di S, essa necessita di molto tempo e richie17 Si chiama armonica perché la k-esima armonica prodotta da una stringa di violino è il tono fondamentale prodotto da una stringa che è lunga 1/k di volte. Cfr. Ronald L. Graham, Donald E. Knuth, Oren Patashnik, Concrete mathematics, New York, 1989, pp. 29, 41, 258268, 56, 298-302. Vedi anche: Donald E. Knuth, The art of computer programming, New York, 1969, pp. 73-79, 89, 111, 157, 615.


de molti passaggi dal momento in cui incomincia ad uscire dal caos dei dintorni della distanza 0, che annulla l’individuazione di S. È importante notare che nel processo generativo di S tramite contrazione non si può stabilire in generale un inizio preciso del processo, ma come afferma Elias18: “Molti aspetti del mondo reale, che è l’oggetto dell’esplorazione scientifica, hanno spesso un carattere processuale con riconoscibili punti di transizione verso una nuova fase ma privi di un inizio assoluto […] Il bisogno di individuare degli inizi assoluti fa parte del costume sociale della nostra epoca”. Pertanto, si ponga attenzione che fa parte di un’assuefazione mentale pensare con assoluta precisione un inizio o una fine, a punti fissi. Dovremmo abituarci, invece, alla luce delle nostre considerazioni, a pensare in termini di processo, punti di transizione da un ordine di cose a un altro. Tale aspetto è ben evidenziato dal fatto che al passo n-simo la distanza tra il passo n-1 e il passo n è dato da 1/n, che converge a 0 quando n tende a infinito; più siamo lontani dalla definizione di S, e più i vari simboli sono ‘vicini’ e quindi poco identificabili l’uno dall’altro; la cosa importante è che ora tramite una distanza fra classi, si può misurare la perdita o meno di individuazione. Il processo iterativo di sostituzione di una classe di equivalenza con un’altra è spiegato in tal modo da Jones19: “Quasi tutte le forme di simbolismo, quindi, si possono descrivere come la sostituzione automatica con un’idea concreta, caratteristicamente sotto forma della sua immagine sensibile, di un’altra idea, più o meno difficilmente accessibile che può essere nascosta o anche del tutto inconscia, e che possiede uno o più attributi in comune con l’idea simbolizzante”. Inoltre generalizza ancor di più20: “Che altro è, infatti, quello sviluppo [s’intenda: l’intero sviluppo della civiltà] se non una serie senza fine di sostituzioni in evoluzione, un incessante sostituire un’idea, un interesse, una capacità o una tendenza con un’altra?” Si può anche dire che il processo gene18 Norbert Elias, cit, pp. 57, 160. 19 Ernest Jones, cit. p. 144. 20 Ernest Jones, cit. pp. 94-95.

lo armonico è rappresentato dalle grammatiche generative22 (o di Chomsky); tale formalismo applica molto da vicino il concetto espresso da Jones, che definisce ogni forma di simbolismo quasi come sostituzione di una idea con un’altra. In tutti questi esempi che si avvicinano al

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rativo armonico è un processo simile a quello che sottende al meccanismo delle bambole russe (matrioska): la bambola più esterna contiene tutte le bambole; l’insieme di tutte le bambole contiene ogni singola bambola. Nel nostro caso, il numero 1 (essendo il più grande) contiene tutti gli altri numeri armonici, e l’insieme di tutti i numeri armonici contengono l’uno21. In termini trasposti, un tal processo generativo lo offre il mondo esoterico tramite la simbologia del melograno: esso è un frutto celato da una scorza coriacea e non commestibile, in cui si trova una notevole quantità di granuli, separatamente individuabili, ma uniti fra loro in un corpo unico. In ambito iniziatico il simbolo in questione rappresenta un sodalizio in cui ogni singolo membro pur individuabile nella sua soggettività, è unito a tutti gli altri da un vincolo saldo, comune e reciproco. Il processo generativo più vicino a quel21 Ignacio Matte Blanco, cit. pp. 41 e ss., 153 e ss. Per questo motivo il modello presentato potrebbe essere utile ad una rappresentazione del concetto di principio di simmetria di Ignacio Matte Blanco. Molto probabilmente tale formalismo potrebbe essere utile al problema della misurazione dei processi inconsci: infatti, con tale formalismo si potrebbero valutare i processi all’infinito del concetto di limite e di divergenza (concetti che in generale vengono considerati poco esplicativi e quindi poco utili alle analisi interessate; vedi Blanco, pp. 215 e ss.).

nostro formalismo, il fattore che, però, manca di più è che non offrono la possibilità di confronto fra insiemi in termini di diversità o somiglianza, ossia secondo un criterio di misurazione, che noi abbiamo individuato nella distanza armonica. Si possono costruire infinite catene generative, e ognuna rappresenta un processo generativo di S, che può essere anche molto diverso l’uno dall’altro; per esempio, ‘margherita’ può avere diversi significati: il fiore margherita, il nome proprio Margherita, la pizza margherita, ecc. Il concetto da evidenziare è che le catene generative sono infinite, ma il processo generativo è sempre lo stesso, di tipo armonico, cioè espresso da una successione armonica. Si noti che è errato ‘credere’ che il comportamento di una successione all’infinito si possa dedurre dal suo comportamento nei primi elementi della stessa successione. Per esempio, le serie armoniche (le serie che sottendono al processo generativo dei simboli che è stato illustrato in precedenza) hanno sottoserie che godono di risultati inattesi23. È difficile ‘pensare’ con strutture infinite perché, andando all’infinito, non sem22 Fra i tanti testi sull’argomento, ne citiamo solo due che sono considerati dei riferimenti basilari sull’argomento: J. E. Hopcroft, J. D. Ulmann, Formal Languages and Their Relation to Automata, 1969; A. V. Aho, J. D. Ulmann, Theory of Parsing, Translatin and Compiling, p. I, II, 1973. 23 G. Hossein Behforooz, Thinning out the harmonic series, in Mathematics Magazine, Washington, vol. 68, n. 4 October 1995, pp. 289293; Ross Honsberger, Mathematical Gems II, Mathematical Association of America, cap. 10, pp. 98-103; A. J. Kempner, A curious Convergent series, in The American Mathematical Monthly, v. 21, n. 2, Feb., 1914, pp. 48-50; Frank Irwin, A curious convergent series, The American Mathematical Monthly, v. 23, n. 5, May, 1916, pp. 149-152; G. H. Hardy, E. M. Wright, An introduction to the theory of numbers, Oxford, 1968, pp. 120-128.

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pre si seguono regole simili a quelle che si constatano nelle vicinanze dei primi elementi corrispondenti ai primi numeri naturali. Si consideri, per esempio, la somma infinita (detta serie armonica), M: sia M1: la sottosequenza della serie armonica24, che è formata da tutti i termini della serie armonica con uno o più 9; tale serie diverge, cioè assume valori sempre più grandi verso l’infinito. Si consideri invece, la sottoserie sempre della serie armonica: M2: che è formata da tutti i termini della serie armonica che non contengono 9. Essa è convergente. Tuttavia, sembrerebbe essere divergente: infatti, se si confrontano le due serie M1 e M2, si vede che in M1, tra i posti 1 e 9 vi è solo termine, mentre in M2 ve ne sono otto; inoltre tra i posti 10 e 99, vi sono 18 termini in M1 e 72 in M2, e così via. Per questa ragione sembrerebbe che se M1 è divergente, lo sia anche M2. Invece, lo ripetiamo, si ha una convergenza25.

1.6 Considerazioni Abbiamo presentato un modello per la definizione di simbolo come l’intersezione di classi di equivalenza. In tal modo ne abbiamo tratto varie e importanti conseguenze, che così riassumiamo: l’utilizzo della distanza armonica per misurare le differenze (o le eguaglianze) tra due classi di equivalenza; la creazione del processo generativo di un simbolo mediante la successione e la serie armonica; la descrizione, tramite il formalismo armonico, dei processi generativi simbolici come processi senza un inizio assoluto; la presentazione delle varie forme di simbolismo come sostituzione di un’idea con un’altra; l’osservazione che il modello proposto non dipende dalla particolare catena generativa, ma solamente dal formalismo armonico. Infine, tramite le successioni armoniche, si è verificato il diverso comportamento fra gli elementi vicini alle posizioni iniziali (1, 2, ecc.) di una sequenza infinita di termini, e gli elementi posti ‘vicino’ all’infinito. Ma la conclusione più importante mi pare essere la seguente: la definizione sia sintattica che semantica di ogni simbo-

24 R. Baillie, Sums of reciprocal of integers missing a given digit, Amer. Math. Monthly, v. 86, 1979, pp. 372-374; A. C. Segal, A limit problem, elementary problems and solutions, Amer. Math. Monthly, v. 77, 1970, pp. 1009-1010. 25 Vi sono diversi lavori che trattano questi ar-

gomenti. Cfr. con relative bibliografia: Ross Honsberger, Mathematica Plums (1979), and Gems I (1973), and II (1976), Math. Assoc. of America. Ralph A. Raimi, The first digit problem, in The American Mathematical Monthly, v. 83, n. 7 (Aug.-Sep.) 1976, pp. 521-538.

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lo S nasce dalla confusione in cui si trova immerso S agli inizi del processo generativo. Ciò è dovuto al fatto che la distanza fra due elementi consecutivi della catena generativa (che al passo n-simo è uguale a, si avvicina sempre più a 0 all’aumentare di n. Questo fondamentale aspetto del simbolismo si può ora esprimere, in termini ‘precisi’ e completi, mediante il modello proposto. Ogni individuazione di un simbolo S richiede ‘molti’ passaggi, da quando inizia a uscire dal caos e dal rumore esistente nei dintorni della distanza (armonica) 0, che confonde, fino a far sparire, l’individuazione e l’individualità di S. Da ciò si può capire il ruolo determinante che gioca l’introduzione della distanza armonica e quindi di una metrica nel modello presentato, al contrario di altri formalismi usati per lo stesso scopo. A questo punto si possono esporre alcuni attuali concetti che toccano la più intima profondità: due simboli incominciano a ‘vedersi’ quando escono dalla nebbia determinata dalla distanza zero e dipende da ogni individuo intravedere nella confusione una strada o la strada da percorrere per raggiungere il simbolo S. Molto spesso questo cammino viene dimenticato e non si ricordano neppure i motivi per cui è stato seguito, e più volte la scelta dipende da una intuizione oppure è il risultato di vari cammini compiuti. In ogni caso ognuno deve districarsi o sapersi di-


stricare nella palude simbolica dell’anonimato da cui derivano molti aspetti ulteriori e posteriori dell’uomo. Due persone possono seguire percorsi diversi per raggiungere S, per cui il loro cammino incontra significati diversi e quindi ottiene anche significati differenti. Trovare durante il cammino un’armonia con se stessi e con gli altri, vuol dire aver percorso cammini molto vicini alla nostra individualità e prossimi a quelli degli altri. In tal caso, l’empatia ha dato significati comuni o vicini. È stato necessario ricorrere a formalismi matematici, che se da un lato hanno appesantito la presentazione del modello, dall’altro hanno permesso di esprimere concetti rilevanti e innovativi per la definizione dei simboli. Dopo aver descritto il simbolismo come una metadimensione, ci siamo posti l’annoso problema di costruire un modello formale per definire i simboli in tutti i suoi aspetti, soprattutto quantitativi e non solo qualitativi o parziali. Occorreva dare una definizione di simbolo che fosse adeguata all’idea intuitiva che ognuno di noi ne ha e conforme a quella che ne danno gli studiosi, quasi sempre, in termini qualitativi. Abbiamo dato come definizione formale-matematico di simbolo la seguente proposizione: un simbolo S è l’intersezione di classi di equivalenza contenenti S. Ma, ancora non bastava una definizione solamente ‘insiemistica’ con una struttura relazionale; occorreva una struttura che esprimesse quando e quanto due simboli o due classi di equivalenza fossero vicini. Ossia occorreva la definizione di una metrica e quindi di una distanza fra insiemi. Si è rivelata adatta la distanza armonica poiché rappresenta il numero di elementi diversi fra due insiemi A e B, e quindi appropriata a misurare la diversità (o la somiglianza) tra A e B. A questo punto si poteva descrivere tutto il processo generativo di un simbolo S. Per realizzare ciò, si è utilizzato il concetto di catena generativa perché il più idoneo a descrivere tale processo. L’uso delle catene generative mise in risalto un aspetto del tutto sorprendente e inatteso, ma di estrema importanza: ossia si scoprì che il processo che sottende alla generazione di un simbolo è di tipo armonico, anzi esso stesso si esprime tramite una successione armonica. È stato facile dedurne (poiché la successione armonica

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1, ½, 1/3, ..., 1/n ecc. converge a zero quando n va all’infinito) che l’inizio della generazione di S si confonde con altre catene generative e solo quando S riesce ad uscire dalla zona stagnante delle somiglianze e trovare la propria individualità (ossia gli elementi della catena generativa incominciano ad aver distanza apprezzabile gli uni dagli altri), che incomincia ad essere palese il cammino passo dopo passo per giungere con un processo armonico alla sua individuazione. Quindi si era data una rappresentazione matematica alla constatazione, che è stata fatta in vari ambienti e da varie persone, tra cui Jones26, che il meccanismo di varie forme 26 Ernest Jones, cit. pp. 94-95, 144.

di simbolismo, consistente nella sostituzione di una idea con un’altra, racchiude aspetti nascosti o anche del tutto inconsci. Per questi motivi riteniamo il modello descritto completo e non solo adatto alla definizione del simbolismo, ma anche capace di mettere in evidenza aspetti nascosti che possono venire alla luce mediante l’utilizzo di tale modello, come abbiamo già osservato all’interno del presente articolo.

P.34: (da sin.) Horus, Osiride e Iside, scultura funeraria in oro, Il Cairo; p.36 e 37: Traslitterazione dei geroglifici e rappresentazione della relativa divinità; p.35, 38, 39 e 40: Luxor, incisioni e bassorilievi; p.41: Ritratto in granito rosso, Il Cairo.

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Il ‘Visita Interiora Terrae’ nei romanzi di avventura Luigi Pruneti

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n ogni processo iniziatico, che implica un cambiamento di stato, il ritorno all’indifferenziato, il regressum ad uterum1 è il momento della morte, premessa necessaria e indispensabile alla rinascita2. La fase in nero della putrefazione avviene nel Gabinetto di Riflessione3, simbolo della materia operante che tutto afferra e forgia, dell’humus dal quale germoglia il seme e del freddo abbraccio che accoglie le spoglie mortali per liberare il trascendente. Qui penetra l’iniziando e si decompongono i suoi falsi pensieri, si disgregano le fatue preoccupazioni. Lo spirito, intimorito dal crollo delle illusioni, ritorna in se stesso e, seguendo un processo implosivo, visita le profondità della psiche, comprende, analizza, esamina, esorcizza i demoni nati dal bulicare delle passioni frustranti: “Visita Interiora Terrae Rettificandoquae Invenit occultam lapidem”. Questo itinerario di morte e rinascita è sottinteso in una vasta produzione letteraria ambientata nelle viscere della terra. Fra i tanti autori mi limito a citare i più celebri: Allan Poe, Howard Philips Lovecraft4, Haggar, Benoit e Sir Edward Bulwer-Lytton. Quest’ultimo, barone di Knebworth e Pari del Regno, fu un esponente di spicco dei circoli iniziatici inglesi, fra i quali la Societas Rosacruciana in Anglia e la Fratres Lucis di cui fu fondatore. Scrisse diverse opere di successo come Gli ultimi giorni di Pompei e Zanoni, storia di un alchimista capace di rinunciare all’eterna giovinezza per amore. Fra i suoi racconti merita una particolare citazione The Haunted and the Haunters, definito da Lovecraft “una delle migliori cose mai scritte sulle case infestate”5, anche se il suo romanzo più famoso rimane 1 G. Cagliuno, Ritorno alle caverne, Iniziazione e rinascita, Milano 1989, p. 50. 2 R. Guenon, Simboli della Scienza sacra, Milano 1994, p. 179. 3 AA. VV. La Libera Muratoria, Milano 1978, pp. 229-230; M. Polisseno, Un’esperienza indimenticabile: il gabinetto delle riflessioni, in “Agorà”, Novembre 1996, p. 31; E. Bonvicini, Il Gabinetto di Riflessione ed i tre viaggi negli Elementi primordiali, in “Massoneria Oggi”, n° 1, Gennaio – Febbraio 1996, pp. 51 – 54. 4 H. P. Lovecraft, Le montagne della follia, in Tutti i racconti 1931 – 1936, a. c. di G. Lippi, Milano 1992, p. 39. 5 A. Maclellan, Da Atlantide a Shamballah, tr. di C. De Nardi, Casale Monferrato 2005, p. 103.

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The Coming Race6, ove la geniale invenzione del vril, quinta essenza delle forze odiche, divenne per alcuni esoteristi una verità incontrovertibile. Lo scrittore che, però, più di ogni altro individua nella “catabasi o nekia […] un viaggio d’iniziazione o di maturazione [che …] comporta un aumento di conoscenza [e] di coscienza della caratura eroica”7 è sicuramente Jules Verne. Fu il fortunato autore francese un inizia6 E. Bulwer-Lytton, La razza ventura, a.c. di G. De Turris e S. Fusco Carmagnola 1982. 7 P. Orvieto, Labirinti, castelli, giardini … cit, p. 313.

to? Probabilmente sì, come sembrerebbero indicare i numerosi accenni alla Massoneria presenti nella sua vasta produzione. Nei Figli del Capitano Grant8 e in Robur il Conquistatore9 allude, ad esempio, alle logge “segni di civiltà” e al tempio massonico. Altri indizi emergono nei Cinquecento milioni della Begun e nel Castello della California10 e in Michele Strogoff. In questo romanzo, dai tratti epici, sono numerosi i riferimenti all’iniziazione: le 8 M. Lamy, Jules Verne e l’esoterismo. I viaggi straordinari, i Rosa + Croce, Rennes Le Chateau, a. c. di G. De Turris, intr. di M. Bizzarri, Roma 2005, p. 50. 9 Ibidem, p. 50. 10 Ibiden, p. 51.

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prove dell’acqua, del fuoco, dell’aria e la cecità momentanea del protagonista che riacquista la vista nel momento del trionfo11. Tali elementi sono per Michel Lamy sufficienti a dimostrare l’appartenenza dello scrittore a qualche officina massonica12. Io sarei più prudente, data la mancanza di una prova certa; resta il fatto che i romanzi di Verne, come Viaggio al centro della terra13, offrono un ricco ventaglio di elementi simbolici. Questa opera narra la storia del giovane Axel, convinto dallo zio, il professore Otto Lindenbrock, 11 Ibidem, p. 49. 12 Ibidem, p. 36 e segg. 13 P. Verri, La dimora del Re del Mondo, Milano 1977, p. 20.

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a compiere una spedizione verso il centro della terra. La strada è loro indicata dall’opera oscura e di difficile decifrazione di Arne Saknussemm che indica nel vulcano islandese Sneffels la porta d’accesso al mondo sotterraneo. Rotto ogni indugio, fugate le naturali perplessità, insieme alla guida Hans, iniziano la discesa in un labirinto oscuro e ostile; è il mondo minaccioso delle tenebre, simile all’Ade di Odisseo e di Enea. In questo dedalo Axel si smarrisce, rimanendo solo con se stesso e la propria angoscia. È un momento drammatico, una sorta di morte rituale: “Ero sepolto vivo con la prospettiva di morire torturato dalla fame e dalla sete […] La mia situazione si riassumeva in una sola parola: “smarrito”! Sì, smar-

rito ad una profondità immensurabile: quelle trenta leghe di scorza terrestre gravavano sulle mie spalle con un peso spaventoso. Mi sentivo schiacciato”14. Per ottenere quello stato coscienziale che lo trasformerà, Axel dovrà affrontare la parte primordiale di sé, le pulsioni ancestrali annidiate nell’archeocortes. Ciò è simboleggiato dalla presenza dei mostri che qui non sono esseri fantastici ma rettili primordiali, ben noti alla paleontologia: “Scorgo l’occhio sanguigno dell’ittiosauro grosso come la testa di un uomo. La natura l’ha dotato di un organo ottico di estrema potenza e capace di resistere alla pressione dell’acqua nelle profondità dove abita. È stato giustamente chiamato la balena dei sauriani perché ne ha la velocità e la mole. Questo che noi vediamo misura almeno cento piedi e posso giudicare la sua grandezza quando alza tra i flutti le pinne verticali della coda. La sua 14 J. Verne, Viaggio al centro della terra, trad. di E. Bellonci, Firenze 2003, p.119.


mascella è gigantesca, e, come avvertono i naturalisti non porta meno di centottantadue denti”15. Axel, inoltre, deve sfidare e superare altre prove, seguendo un processo di crescita che lo trasforma da immaturo studente ad uomo, saggio, coraggioso capace di guardare in faccia la vita. Egli è l’alter ego del cavaliere, di ritorno al castello dopo aver ucciso il drago; come questi possiede ormai il dono della conoscenza e può ottenere il premio più ambito: impalmare la bella Grauben. Scrive Lamy: la fanciulla amata “non è la causa del viaggio, bensì la ricompensa del coraggio e dell’audacia dimostrati nel mondo sotterraneo […] Il viaggio al centro della terra si articola come un romanzo di cavalleria, fino a fare di Axel, il futuro eroe, una sorta di “puro folle”, […] Axel è il metallo povero che deve essere forgiato nel fuoco della terra […] purificato e indurito nell’acqua del mare interiore sotterraneo, martellato dai pericoli: è informe e riceverà la propria forma solo mediante il violento contatto con le prove; fino ad allora resterà malleabile, senza profilo, ordinario, inconsistente […] Il viaggio costituisce un’iniziazione in sé completa”16. Un altro romanzo di Verne che presenta evidenti aspetti iniziatici è Le Indie nere, vicenda ambientata in un’immensa miniera di carbone del Regno Unito. La storia narra di un ingegnere minerario di nome James Starr che si reca nella vecchia miniera di Aberfoyle, abbandonata da tempo per la sua improduttività. Lo scopo del viaggio è di convincere il vecchio minatore Simon Ford ad abbandonare l’impianto. Egli, in vero, si rifiuta di lasciare quel mondo sotterraneo, anzi si è costruito un’abitazione all’interno delle gallerie, perché è convinto che nella miniera vi sia sempre un’enorme quantità di minerale. Testardo e risoluto alla fine convince suo figlio Harry e Simon Ford a seguirlo nel dedalo dei cunicoli, per raggiungere la nuova vena. Durante la spedizione si viene però a sapere che nella miniera aleggia un inquietante enigma: spesso si odono strani rumori, voci incomprensibili e, all’improvviso, compaiono luci. Nessuno è riuscito a dare una spiegazione logica ai fenomeni che vengono imputati ad un 15 Ibidem, p. 149. 16 In M. Lamy, Jules Verne e l’esoterismo … cit, pp. 151 – 152.

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misterioso genio. I tre, giunti alla meta, fanno brillare una carica esplosiva, cade un frammento di roccia e di fronte a loro appare un’immensa caverna con un lago e una straordinaria quantità di minerale. La gioia della scoperta si muta però in disperazione quando una frana improvvisa e sospetta sbarra la via del ritorno. Diventano così prigionieri dell’abisso, condannati a morire d’inedia. Per dieci giorni rimangano incarcerati, riescono comunque a sopravvivere grazie al misterioso aiuto di qualcuno che sembra vegliare su di loro, procurando un po’ di cibo. Finalmente sono raggiunti da una squadra di soccorso, guidata da un altrettanto inspiegabile chiarore. Sono salvi e immediatamente ha inizio lo sfruttamento

del nuovo giacimento. La miniera rinasce ma il mistero, però, continua a imperare; tutti, infatti, percepiscono una presenza occulta, per alcuni è un folletto, per altri potrebbe essere una “dama di fuoco” di cui parlano numerose leggende su grotte e caverne. Herry per svelare l’arcano si fa calare in un pozzo profondissimo. In fondo all’abisso egli non trova presenze soprannaturali, né esseri mitologici ma una bellissima fanciulla. La ragazza, che non è mai uscita all’aperto, si chiama Nell ed è la figlia adottiva di Silfax, un vecchio minatore specializzato nell’individuare le sacche di grisù. Ogni cosa a quel punto diventa chiara: Silfax è impazzito e, ritenendosi il signore della miniera, ha cercato di impedire ogni intrusione. I suoi pro45


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getti tuttavia non sono andati a buon fine per il comportamento di Nell; pertanto, preso da un’ira incontenibile, cerca di distruggere quel mondo sotterraneo provocando l’esplosione di una sacca di grisù ma anche questa volta il provvidenziale intervento della fanciulla impedisce il disastro. La storia si conclude nella migliore delle maniere: Silfax, l’unico cattivo, annega del lago, l’estrazione del carbone riprende immediatamente, nella grande caverna sorge una città sotterranea, Nell ed Her46

ry convolano a giuste nozze. Questa fiaba a lieto fine presenta numerosi significati simbolici: il percorso iniziatico nelle viscere della terra, la verità ripristinata, il cammino di Nell verso la luce. Anche i nomi dei protagonisti non sono casuali: Starr, Silfax, Nell sono emblematici ed evocativi17. Inoltre, Michel Lamy ravvede una corrispondenza diretta fra Le Indie nere e Il Flauto magico di Mozart, tanto da elaborare una minuziosa tabella com17 Ibidem, pp. 41 – 42.

parativa. Esaminandola si legge come James Starr equivalga a Sarastro, Herry Ford a Tamino, Jack Rayan a Papagheno, Pamina a Nell, Silfax alla Regina della Notte18. Nel Novecento il tema del mondo sotterraneo fu trattato in particolare dal celebre scrittore fantasy Abraham Merritt19. Questo autore americano, caratterizzato da una vena narrativa “spesso esoterica e decadente”20, produsse opere ambientate in dimensioni ctonie, popolate da razze preumane, da esseri rettiliformi e da abomini metallici degni dell’incubo più angosciante. Ricordo, ad esempio, Lo stagno della luna, storia della spedizione archeologica del dottor David Throckmartin inviata su un’isola del Pacifico per studiare le rovine di alcuni antichissimi e misteriosi edifici megalitici. Intorno a quei ruderi fioriscono dei miti oscuri: “spesso sentivo raccontare delle leggende che parlavano di strade segrete sotto Nat – Matal, cunicoli che portavano all’isola maggiore, corridoi di basalto che seguivano il tracciato dei canali da un’isola all’altra, unendole con una catena misteriosa”21. Le tradizioni locali, 18 Ibidem, pp. 46 – 49. 19 1884 – 1943. 20 G. Montanari, La fantascienza, gli autori e le opere, Milano 1978, p. 96. 21 A. Merritt, Lo stagno della Luna, in H. P. Lovecraft, I miei orrori preferiti, a. c. di G. Pilo e M. Fusco, Roma 1994, p. 419.


in realtà, denunciano in modo circostanziato i pericoli dell’isola, nelle cui viscere vi è “il grande sotterraneo […] a cui viene associato l’unico nome di un essere vivente che sia giunto fino a noi dalle nebbie del passato”22. Tale presenza aliena, simile ad una spirale di nebbia, eliminerà alla fine tutti i membri della sfortunata spedizione, la cui colpa è stata quella di non prendere in dovuta considerazione il folclore locale. Ancor più interessante è il celebre romanzo Gli abitanti del miraggio, ove sono presenti gli elementi tipicizzanti del viaggio iniziatico. Leif, il protagonista, durante un’escursione, scopre che un lago di una sperduta regione montuosa non è altro che un miraggio: “Mentre parlavo un brivido percorse il lago. Proruppe tra le piramidi nere, quasi sommergendole, e spense i fuochi sacrificali. Ricoprì le piramidi. Un brivido lo percorse di nuovo. Sparì. Al posto del lago c’era ancora il fondo della valle coperta da massi erratici”23. Quell’illusione ottica cela la soglia di una dimensione parallela abitata da due popoli in guerra. Il primo è costituito da uomini di bassa statura e dalla pelle dorata, la cui regina, Evalie, è una fanciulla di bellezza straordinaria: “Era una ragazza bruna, di alta statura. Aveva occhi castani sotto le ciglia nere, del castano chiaro di un ruscello di montagna in autunno; i suoi capelli erano neri, capelli di ghiaietto che sotto una certa luce splendono dell’azzurro più scuro […] La sua pelle era di color ambra chiara. Splendeva come ambra pura e lucente sotto l’abito scollato tuttavia aderente che la vestiva, lungo fino al ginocchio, argentato, una rete bella e trasparente. Attorno alle anche cingeva la fascia bianca degli appartenenti al Piccolo Popolo […] Ma era la sua grazia che mozzava il respiro nella gola di chi la guardava, la lunga linea fluente dalle spalle alle caviglie, delicata e mobile come la curva dell’acqua che scorre su una roccia liscia, la grazia liquida di una linea che mutava ad ogni movimento. Era quello e la vita che bruciava in lei simile alla fiamma verde della foresta vergine quando le carezze più calde dell’Estate si sostituiscono ai baci della Primavera […] Non saprei dire che età avesse, la sua era una bellezza pagana

che non conosce età”24. L’altra razza è costituita da uomini crudeli e spietati guidati dalla strega Lur, la maledetta donnalupo, il cui fascino è pari ad uno spietato desiderio di dominio. Siffatta regina dell’abisso ha un’ossessione: sterminare e ridurre in schiavitù il piccolo popolo e sopprimere fra le sofferenze più atroci Evalie. Leif si schiera con gli uomini dalla pelle dorata e combatte con tutte le forze per la loro sopravvivenza. È costretto però a rischiare la vita, a convivere col pericolo e a superare numerose prove, l’ultima, quella finale, consiste nel resistere al male e alle sue perverse seduzioni. La vittoria di Leif sulle forze delle tenebre comporta il trionfo dei buoni sui cattivi e l’amore della splendida Evalie. Gli abitanti del miraggio, nonostante risalga al 1932, risulta sempre coinvolgente e piacevole; annota Jac-

22 A. Merritt, Lo stagno della Luna … cit, p. 425. 23 In J. Sadoul, Storia della fantascienza, Milano 1975, p. 92.

24 In B. W. Aldiss, Un miliardo di anni. La storia della fantascienza dalle origini ad oggi, Milano 1973, pp. 189 – 190.

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P.42: Slot Canyon, Arizona/Utah (foto P.Del Freo); p.43 in basso e 46-47: Copertine (vd. testo); p.43 in alto: Ritratto di Jules Verne (1828 – 1905); p.44 in alto a sinistra: Illustrazione da un romanzo di Verne; p.44 in alto a destra: Edward George Earle Bulwer-Lytton (1803 – 1873); in basso a destra: Ritratto di Howard Phillips Lovecraft (1890 – 1937); p.45: Copertina de ‘Le Monde Illustré’ con simboli massonici.

ques Sadoul25: “Scritto in maniera superba, alternando scene di violenza, poesia, erotismo, a volte perfino sadismo, questo ‘Dwellers in the mirage’ si rilegge con ammirazione sempre nuova”. Inoltre, l’opera è ricca di significati simbolici: le prove, lo scontro con le forze oscure, l’acquisizione progressiva della coscienza di sé e del proprio ruolo e, infine, la vittoria e la realizzazione. Con la vittoria sulla donna-lupo il processo d’identificazione di Leif si è concluso: Evalie, la lucerna scoperta nel Gabinetto di riflessione, non si è spenta; al contrario, alimentata dalle prove subite e superate, ha infine innescato il fuoco dell’illuminazione. 25 J. Sadoul, Storia della fantascienza … cit, p. 93.

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Storia

Anniversari: la grande, tragica Campagna di Russia Aldo A. Mola

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l 2012 non è ancora chiuso, ma già si può dire che la rete degli studi storici anche quest’anno porta a riva poche opere memorabili. Non mancano ottimi saggi di approfondimento né aggiornamenti di opere già di ampio respiro, come quelle segnalate e premiate all’Acqui Storia, selezionate tra quasi duecento candidate. Però sono state lasciate tra parentesi alcune date fondamentali. Forse i centenari sono ormai un rituale al crepuscolo. Il 150° del regno d’Italia (smemorata, incapace di riforme vere, pronta ora a intonare un Canto Nazionale il cui autore rimane da stabilire: molto probabilmente padre Atanasio Canata anziché il ventenne Goffredo Mameli …) ha forse esaurito il fascino 48

delle ricorrenze, retrocedendole a passione filatelica. Si avverte un bisogno di oblio: basta commemorazioni; basta orazioni e/o conferenze. Semmai, come diceva Carducci, ci vorrebbero Discorsi. In questo dolce naufragar della memoria, chi vuol ricordare qualcosa se lo rammemori da sé, a prescindere da “istituti” sorti per celebrare anziché per studiare. Eppure il 2012 offriva occasione per ampliare gli orizzonti. Qui abbiamo già ricordato che quell’anno iniziò la rivoluzione delle colonie spagnole nell’America centro-meridionale contro il secolare dominio di Madrid: un moto storico profondo, che subito attrasse l’attenzione degli studiosi più acuti, come Carlo Botta, autore della celebre Storia della guerra


d’indipendenza degli Stati Uniti d’America (Parigi, 1809), ripubblicato per iniziativa di Guido Massimo Arri, sindaco del suo nativo comune di San Giorgio Canavese (pref. Di Ugo Cardinale, Rubbettino, 2010, voll. 4). Lo stesso 1812 fu anche l’anno dell’aggressione di Napoleone I (Ajaccio, Corsica, 1768 / isola di Sant’Elena, 1821) alla Russia di Alessandro I Romanov (Pietroburgo, 1777 / Taganrog, 1825). La Grande Armée reclutò Italiani dalle terre incorporate nell’Impero (Piemonte e Liguria), nel regno d’Italia (Lombardo-Veneto ed Emilia), nelle regioni annesse o sotto controllo (ex Stato pontificio), mentre la potente cavalleria (circa 80.000 uomini) fu comandata da Gioacchino Murat, cognato di Napoleone e re di Napoli. Per i militari italiani fu un’esperienza politica e culturale di portata storica, sia per quanto videro, sia per come si condussero. Mostrarono di sapersi battere con valore non inferiore ai veterani dell’imperatore. Anzi, ne suscitarono l’ammirazione. Nel 1818 il ventenne Giacomo Leopardi (Recanati, 1798 / Napoli, 1837) riecheggiò l’impresa

nell’ode All’Italia, chiusa con versi profetici: “O numi, o numi,/ pugnan per altra terra itali acciari,/ Oh misero lui che in guerra è spento,/non per li patrii lidi e per la pia/ consorte e i figli cari,/ ma da nemici altrui/ per altra gente e non può dir morendo:/Alma terra natia, /La vita che mi desti ecco ti rendo”. Analoghi concetti espressero negli stessi anni il trentenne Silvio Pellico, redattore del Conciliatore, e quanti, come Alessandro Manzoni, anche senza aver preso parte di persona al suo percorso politicomilitare, ritenevano che l’età franco-napoleonica aveva fatto capire agli Italiani che non dovevano più dividersi a servizio degli stranieri né attendere liberatori da Oltralpe, perché “Il forte si mesce col vinto nemico,/col novo signore rimane l’antico;/ l’un popolo e l’altro sul collo vi sta./ Dividono i servi, dividon gli armenti,/ si posano insieme sui campi cruenti/ d’un volgo disperso che nome non ha”. Era l’ora di emancipare la patria con la guerra per l’indipendenza. Non si comprendono le due generazioni seguenti (i cospiratori delle sette, quali massoni,

carbonari, federati, adelfi …; la Giovine Italia di Mazzini, il Primato morale e civile degli Italiani di Vincenzo Gioberti, il Quarantotto, la Società Nazionale di Daniele Manin e Giuseppe La Farina …) se non partendo da quelle esperienze che insegnarono l’eroismo come regola quo-

Storia tidiana, il sacrificio per l’ideale superiore. L’oblio riservato dall’editoria di ampia diffusione e dai media nei confronti degli eventi di due secoli orsono, specialmente alla Campagna di Russia del 1812, fondamentale per la coscienza nazionale e universale, non fa bene sperare sulla preparazione del massimo centenario incombente: la conflagrazione europea dell’agosto 1914 e l’intervento dell’Italia il 24 maggio 1915. Forse è il caso di rileggere, intanto, Guerra e Pace di Leone Tolstoi. P.48 e 49: La ritirata di Russia e la Battaglia di Borodino, anonimo, collez. privata; p.48 in basso: Ritratto di Lev Tolstoj, olio di Il’ja Efimovich Repin, 1887, collez. privata.

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Massoneria...

Chi ha paura della donna massone? Marco Quadrelli


U

n attimo dopo aver deciso di avventurarmi in questa tematica tanto affascinante quanto complessa, mi ha assalito il dubbio di aver “peccato” di presunzione nel valutare le mie conoscenze in materia e, quindi, nel ritenere di disporre di tutti gli strumenti intellettuali necessari allo scopo. Infatti, già ad un primo sommario esame del materiale consultato in fase di ricerca, mi sono reso conto innanzi tutto che il tema della presenza della donna in Massoneria può essere analizzato da molteplici punti di osservazione: quello storico, quello esoterico, quello sociologico, quello antropologico-culturale, nonché – all’interno dei confini dell’Istituzione massonica in generale - quello “politico”, intendendosi con tale terminologia fare riferimento da qui in avanti alla questione della “regolarità” e del rispetto della Tradizione che tante discussioni ha originato e continua ad alimentare tra Fratelli e Sorelle delle diverse Obbedienze ed anche all’interno di queste ultime. Detto ciò, essendo la nostra un’Istituzione a carattere iniziatico, mi sembra opportuno iniziare il mio cammino con una sintetica ma utile disamina del ruolo della donna nelle varie fasi storiche, con riguardo proprio alla “iniziazione”. Le società arcaiche di tutto il mondo (Australia, America, Africa, etc.) escludono la donna dal “potere”, inteso in senso vuoi politico vuoi religioso, attraverso la preclusione per essa dalla Iniziazione che è solo maschile: attraverso tale iniziazione il ragazzo (talora bambino) muore al “dato” della vita naturale e rinasce all’acquisto di quella sociale; accede al mito, al sapere e si separa dalle donne: passa dal non essere all’essere. Tutto questo a dispetto del fatto che, per contro, la Natura (come sosterrà Hobbes) non conosce la differenza sessuale; e Locke, parlando della Creazione, ricorderà che Dio avrebbe dato la terra a tutti gli uomini e dicendo al plurale “dominate” si sarebbe riferito anche ad Eva. Anche nel mondo greco-romano, dove la “parola” è percepita come una forza piena di potenza sacrale, una sua congiunzione-coincidenza con un’altra potenza (ritenuta sommamente negativa!), cioè il mestruo, è considerata una sciagura da

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evitare a tutti i costi; quindi alla donna è proibito usare della potenza della parola e da tale divieto deriva la sua incapacità giuridica: non può, tra le altre cose, giurare e, quindi, ricevere un’iniziazione. In ambito religioso, nel I Concilio Ecumenico di Nicea del 325, si interdice alla donna mestruata l’ingresso nel Tempio e la Comunione: ergo la donna è esclusa dall’iniziazione al sacerdozio. Questa fenomenologia viene catalogata in ambito antropologico-culturale sotto il nome di “evitazione del mestruo”. Da notare che tale tabù verrà superato dalla teologia morale di fine ‘800 - inizi ’900, ma ciò non impedirà il permanere della suddetta preclusione. Nel XII secolo, durante i lavori del Concilio di Maçon, oggetto di disputa è se le donne abbiano o meno l’anima e se, per accedere dopo morte in Paradiso, debbano cambiare sesso. Nel XVIII secolo, col progresso dei Lumi, si stempera la misoginia accesa del Concilio di Trento e ci si allontana da una visione trascendente del mondo nella quale la donna veniva necessariamente annullata in quanto considerata “natura”. Nel XIX secolo, specie con la Restaurazione, non si com-

piono grossi passi in avanti. Arriviamo, così, ai giorni nostri quando i profondi mutamenti politico-sociali intervenuti nel corso del secolo da poco conclusosi, operano un radicale mutamento del ruolo e della stessa concezione della donna in ogni ambito; e da qui parto con l’analisi che più ci interessa e ci riguarda: può una donna essere Massone a tutti gli effetti? Volendo sintetizzare all’estremo mi sentirei di affermare che, attualmente, la questione viene dibattuta in termini squisitamente “politici” accompagnati da argomentazioni inerenti ad un rispetto acritico (e quindi dogmatico) della Tradizione (Costituzioni di Anderson, Landmarks, Old Charges) con l’aggiunta di corollari vari di natura esoterica e perfino psichica, volti a riconoscere o meno la possibilità per la donna di lavorare ritualmente al pari dei fratelli uomini: voglio dire che quasi tutte le argomentazioni di chi nega tale possibilità mi sembrano secondarie (e talora un po’ artificiose) rispetto a quella principale, ossia il riconoscimento della “regolarità massonica” a tutt’oggi negato dalla Gran Loggia Unita d’Inghilterra a quelle Ob51


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bedienze che, come nel nostro caso, ammettono la presenza attiva delle donne fra le Colonne delle proprie Logge. Non è questa l’occasione adatta per discettare sulla pur non secondaria questione del diritto da parte della Massoneria anglosassone a rilasciare “patenti” di regolarità massonica a chicchessia e pertanto mi asterrò dal farlo; passerò, quindi, ad esaminare le opinioni favorevoli e contrarie alla presenza femminile in Massoneria per tentare, poi, di trarne qualche conclusione personale. In termini strettamente storici nell’accezione tradizionale della parola che si riferisce ad eventi databili con seppur relativa certezza in base a prove documentali 52

e non, la prima Iniziazione massonica di una donna avvenne in Francia; si tratta dell’Iniziazione di Maria 72s avvenuta il 14 gennaio 1882 E.V. a Parigi nella Loggia Les libres penseurs du Pecq (passata poi alla Gran Loggia Simbolica). La Deraismes apparteneva al ceto nobiliare, era ricca, colta e dotata di una personalità molto forte e combattiva, tanto da essere stata paladina (nella Francia dell’epoca) della triplice battaglia: femminista, repubblicana ed anticlericale, seppure senza mai giungere ad eccessi estremistici. Questa Iniziazione sollevò una vera e propria tempesta negli ambienti massonici, dando vita a vivaci riunioni ed a

scambi di lettere e pubblicazioni in riviste massoniche: gli uomini, infatti, erano in maggioranza contrari alla promiscuità in Loggia, basando tale loro ostilità su argomentazioni che possono sembrare di primo acchito figlie di quell’epoca, ma che, tuttavia, ricorrono ancora oggi nelle tesi dei “contrari”: la diversa natura psichica della donna rispetto all’uomo; la scarsa attitudine della donne a mantenere il segreto; la distinzione dei ruoli e dei compiti affidati ai due sessi nella società e nella famiglia; la necessità di modificare i Rituali che parlano di “fratelli liberi muratori” e non di “sorelle”; la natura passiva (lunare) femminile contrapposta a quella attiva (solare) maschile con le conseguenti ricadute sul tipo di Iniziazione e specialmente sulla trasmissione della stessa; e così via. Tutto ciò porterà prima alla creazione nel 1893, sempre in Francia, di una nuova Obbedienza mista l’Ordine internazionale del Diritto Umano che, peraltro, si svilupperà anche al di fuori dei confini transalpini; e poi, nel 1952, alla nascita della Gran Loggia Femminile di Francia, esclusivamente femminile e derivante dalla tradizione delle c.d. “Logge di Adozione”, propaggini delle Obbedienze maschili (in primis della Gran Loggia di Francia) atterrite dalla promiscuità ma che nondimeno, stante l’esistenza di fatto del “Diritto Umano”, non potevano più negare alle donne la pratica dell’attività massonica seppure “sotto tutela” maschile. In realtà, prima di tutti questi eventi e senza arretrare nel tempo fino ad ere troppo lontane dalla nostra, troviamo già tracce documentali attestanti l’ammissione delle donne – con parità di diritti e doveri - in Massoneria risalenti al periodo “operativo” o “corporativo” di quest’ultima: in Francia un Livre des Métiers del 1268 prevedeva l’accesso delle donne nelle Corporazioni artigiane e la loro elevazione al grado di Maestro, anche in mestieri manuali tradizionalmente maschili. Gli Statuti della Gilda dei Carpentieri di Norwich (1375) si rivolgono “ai Fratelli ed alle Sorelle”. Nello Statuto della Loggia di York (1693) si legge che “... Colui o Colei che deve esser fatto Massone pone le mani sul Libro ed allora le istruzioni sono date ...”. Da parte di alcuni, però, si obietta al ri-


guardo che tale ammissione femminile nella Massoneria Corporativa rispondeva alla necessità prettamente economica di trasmettere in linea familiare il patrimonio d’impresa: il Maestro Muratore, che non aveva figli maschi ai quali trasmettere l’eredità, assicurava alla vedova la “regolarità” necessaria a continuare la sua opera. Venendo al nostro Paese e specialmente alla Gran Loggia d’Italia degli alam – Obbedienza di Piazza del Gesù Palazzo Vitelleschi, noi tutti sappiamo che le note vicende dei primi anni del secolo scorso hanno originato l’esistenza delle due principali Obbedienze massoniche:

la citata Gran Loggia d’Italia ed il Grande Oriente d’Italia. È altrettanto noto che, al contrario del G.O.I., la nostra Obbedienza ammette nelle Logge la presenza femminile, non potendosi pertanto fregiare di quella “regolarità” massonica di cui si è fatto cenno in precedenza. Prima di passare ad analizzare le differenti tesi sottostanti alle due diverse scelte di campo, è utile anche in questo caso - per una loro migliore comprensione e contestualizzazione – ripercorrere rapidamente il susseguirsi temporale degli avvenimenti omettendo, per evidenti ragioni “spazio/temporali” il pur interessantissimo discorso sulla Iniziazione di Serafina Cagliostro e del Rito Egizio ideato dal “Gran Cofto” Giuseppe Balsamo, alias Alessandro conte di Cagliostro.

Il movimento massonico femminile si sviluppa nel nostro Paese nel XIX secolo, ad Unità nazionale compiuta, raccogliendo l’eredità di una pratica associativa iniziata dalla Carboneria femminile durante il Risorgimento e continuata in seguito da un’associazione di donne e di Massoni nata ai margini dell’Ordine ufficiale, costituita da Logge paramassoniche: stiamo parlando delle Logge femminili di Adozione italiane. Esse rappresentano uno degli aspetti meno evidenti e studiati di un più ampio movimento femminile, laico e democratico che propugnava una rinascita – nella misera ed arretrata Italia ottocentesca – di valori etici e culturali inerenti alla sfera delle libertà individuali, sposati dalla Massoneria ufficiale e dallo stesso Garibaldi il quale, però, rimase abbastanza isolato all’interno dell’Istituzione nell’intento di traslare tale emancipazione femminile sul piano iniziatico. Nei primi anni del ‘900 la condizione generale della donna in senso evolutivo subisce una apprezzabile accelerazione che si riverbera anche sul piano latomistico con la creazione della Gran Loggia Mista Simbolica, prima autorità massonica femminile stricto sensu italiana composta da una dirigenza di alte dignitare guidate da una Gran Maestra. Tutti noi conosciamo i tragici effetti del ventennio fascista sul movimento massonico ed il campo femminile di quest’ultimo, naturalmente, non fece eccezione. Arriviamo, così, al secondo dopoguerra quando, nel 1947, nasce l’Ordine Massonico Femminile Italiano collegato a gruppi latomistici maschili non più dipendenti, per varie ragioni, dal Grande Oriente d’Italia. Anche in questo caso, forte è la volontà di agire per risollevare la Patria dalle misere condizioni in cui versava sia sotto l’aspetto profano e civile, sia sotto quello iniziatico, con in più la convinzione che la presenza femminile nella Massoneria avrebbe concorso all’affermazione di una Fratellanza veramente universale. Gli anni ’60 rappresentano un periodo di riflessione per la Massoneria femminile italiana che, come un fiume carsico, sembra eclissarsi in un fallito tentativo di creare in ambito europeo una sorta di “internazionale femminile massonica” per poi riemergere nei decenni successivi

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che arrivano fino ai giorni nostri, in cui la “donna libera muratrice” è una realtà - non solo italiana - ormai consolidata ed in continuo sviluppo. Volendo perciò schematizzare la situazione, possiamo dire che “il no” alla donna Massone è, in Italia, appannaggio dell’Obbedienza di Palazzo Giustiniani, anche se qualche opinione contraria sul tema in questione fa capolino (e non da oggi!) con sempre maggiore insistenza anche tra quei fratelli. Le motivazioni a sostegno della scelta di campo “ufficiale”, come già accennato, sono essenzialmente di natura dogmatica, pratica, naturale; dimenticando, però, che una seria indagine sulle origini del pensiero latomistico ci riporta molto più indietro nel tempo rispetto al 1717: e allora dobbiamo constatare che – ad esempio – nell’antico Egitto esistevano sacerdotesse e che le donne potevano addirittura ricoprire la dignità sociale e religiosa suprema di Faraone. E, dunque, esaminiamo queste remore alla mixité: Remore di natura Dogmatica: si risolvono essenzialmente nell’affermazione pura e semplice dell’esplicita esclusione delle donne dalla Massoneria, stabilita al capitolo 3° degli Old Charges: chiunque contravvenga a tale “regola” è ipso facto “irregolare”. Remore di origine Naturale: si basano sulla indubbia diversità sul piano psichico, oltre che fisico, tra i due sessi: la psiche della donna è fondamentalmente di natura intuitiva, diversamente da quella maschile prettamente razionale. Questo comporterebbe un diverso approccio 53


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alla via iniziatica che impedirebbe alle donne di giungere a livelli di illuminazione. Ci si addentra, qui, in un campo che travalica i limiti del grado in cui si lavora; pertanto ci basti affermare che diversità di tipo schiettamente “naturale” impedirebbero non tanto l’iniziazione femminile quanto il raggiungimento da parte delle donne della meta che con essa ci si prefigge. Remore di natura Pratica: qui si rischia di scadere talora nel comico, come quando si afferma che i Fratelli – in quanto maschi – potrebbero essere sviati, distratti nella loro ricerca dell’affinamento delle facoltà spirituali vuoi da una forma di vanagloria da far valere nei 54

confronti delle Sorelle, vuoi da incontrollabili pulsioni sessuali. Inoltre, si afferma, stante l’emancipazione raggiunta nel mondo profano dalle donne ai giorni nostri, che le porta ad essere impegnate severamente in attività lavorative dentro e fuori l’ambito domestico, è per loro estremamente difficile e gravoso partecipare attivamente agli “architettonici lavori”, nonché impegnarsi nello studio ad essi connesso. Prova ne sarebbe il fatto che, nelle Obbedienze miste, la esigua percentuale di donne presenti sarebbero singles oppure sposate, ma pensionate o senza prole. Per quanto attiene alle prime, la nostra Obbedienza (liberale ed adogmati-

ca) le ha brillantemente superate già dagli anni ’60 dello scorso secolo quando, sotto l’alta Maestranza dell’allora Gran Maestro Giovanni Ghinazzi, entra a far parte dell’associazione internazionale CLIPSAS; nata a Strasburgo nel 1961, tale associazione si componeva di undici Obbedienze che votarono un documento che negava alla Gran Loggia Unita d’Inghilterra il diritto di definire ed imporre ai gruppi latomistici i principi della regolarità massonica, riconoscendo ad ogni Obbedienza il libero discernimento interpretativo delle leggi massoniche. Non va inoltre dimenticato che il citato 3° articolo Andersoniano esclude dal cammino iniziatico, oltre alle donne, anche gli schiavi: è noto che, nel XVIII secolo, la condizione della donna in generale era fortemente accomunabile a quella degli schiavi, dipendente com’era dall’uomo sotto tutti gli aspetti. Stante il radicale mutamento attuale di tale condizione, un simile dogma risulta con tutta evidenza anacronistico e privo di ogni ragion d’essere! Non riferendosi a questa o quella Obbedienza o corpo massonico operante in un Paese piuttosto che in un altro, bensì alla Istituzione massonica universale in sé ed in quanto tale, Hegel sosteneva che “… il pensiero massonico deve reificarsi, libero da ogni costrizione dogmatica e da ogni illusione di una sua immobile identità atemporale” e quindi – aggiungo io – astorica. Le obiezioni relative alla diversità naturale tra i due sessi costituiscono, a ben vedere, un falso problema: nel senso che tali diversità, lungi dal rappresentare un impedimento, si estrinsecano al contrario sotto forma di una feconda collaborazione contrapposta di intelletti con qualificazioni biologiche e psichiche opposte sì, ma complementari; tendenti, attraverso un loro accorto quanto naturale equilibrio, a quella unità androgina immaginata da Platone e che si sostanzia nei concetti di giusto, vero e bello oggetto di ogni percorso latomistico. In quanto alle remore di natura pratica relative all’equilibrio psicologico dei Fratelli in una situazione di promiscuità, ritengo (forse un po’ brutalmente) che rappresentino un problema unicamente per coloro che, per le più svariate motivazioni, le vivono appunto come un


problema e non come una preziosa opportunità. Mentre le problematiche derivanti dagli eccessivi molteplici impegni della donna moderna non tengono conto vuoi della loro validità comune a molti uomini e donne che ricoprono indifferentemente ruoli un tempo rigidamente separati, vuoi della enorme importanza della assenza dai lavori della donna in maternità che, in quanto Massone, si adopera per forgiare dei futuri buoni Massoni. In fine vorrei affrontare la questione oggetto di questa analisi da un punto puramente simbolico. Appena ci accingiamo a varcare la soglia di uno dei nostri Templi ci troviamo in mezzo a due colonne: la B e la J, le quali sono illuminate da due astri: il sole e la luna; proseguendo la nostra deambulazione calchiamo un pavimento a scacchi bicolore, bianco e nero, e notiamo la presenza di due scranni dei Sorveglianti nei pressi dei quali sono poste le due statue raffiguranti Ercole e Venere (maschio-femmina); ci dirigiamo, quindi, verso l’Oriente passando in mezzo a due colonne (quella del nord e quella del sud) adornate da pilastri sormontati da capitelli di due stili (dorico e corinzio); arrivati all’Oriente troviamo il sole e la luna (maschile-femminile) i quali sono posti ai due lati del Delta luminoso (Unità androgina) e sovrastano lo scranno del Maestro Venerabile nei pressi del quale osserviamo la statua di Minerva, simbolo della Saggezza equilibratrice di Forza (Ercole) e Bellezza (Venere). Tutta questa simbologia esprime, con la chiarezza di cui solo il simbolo è capace, il concetto dualistico di polarità contraria e complementare: solo attraverso una proficua mescolanza e reciprocità di rapporti tra l’elemento maschile e quello femminile si arriva (o meglio si tenta di arrivare) alla perfezione della loro sintesi, alla reductio ad unum; quell’Unum androgino che rappresenta la Luce, la Verità! Concludo con le profetiche parole, in merito, del grande G.Ghinazzi: “L’elemento femminile è il nostro futuro. Bisogna coltivarlo. Ci vuole attenzione, rispetto, interesse. Credete sia facile, per le Sorelle, approdare e rimanere in un’associazione che per secoli le ha escluse senza mezzi termini o, nei casi migliori,

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le ha relegate al ruolo di damine di carità o di pittoresche ancelle, da sfoggiare nelle grandi occasioni. Datemi ascolto, consideratele dentro il vostro cuore iniziate dalle immense potenzialità e la Gran Loggia d’Italia avrà il domani in mano”. ________________ Bibliografia: Officinae, Dic. 2007: Nera sono io, ma pur graziosa, Le madonne nere – R. Visigalli. Lilith l’indipendente – S. Braschi Giovanni Ghinazzi – L. Pruneti Serafina Cagliostro. Alle origini dell’iniziazione femminile – A.A.Mola Françoise Gaspard, Donne e Massoneria.

Massoneria Femminile e Massoneria Femminista? Il caso della Francia. In La Massoneria Oggi, Bari, 1992. E. C., L’Associazionismo massonico oggi. Tesi di Laurea – Fac. Scienze Politiche, Università degli Studi Torino – A.A. 1995-96. Ida Magli, La femmina dell’uomo, Bari, 1985 Ida Magli, Matriarcato e potere delle donne, Milano, 1982. G. Conti Odorisio, Storia dell’idea femminista in Italia, 1980.

P.50, 51, 52 e 53: Marie Adélaïde Deraismes, (Parigi, 17 agosto 1828 – Parigi, 6 febbraio 1894); p.53: Nodo Savoia; p.54: Ercole Farnese, marmo, III sec, Napoli; p.55: Venere di Milo, marmo pario, II sec, Parigi.

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Massoni...

L

uigi Mascherpa (Genova 16 aprile 1893 – 24 maggio 1944). Figlio di Luigi. Allievo dell’Accademia Navale di Livorno dal 16 novembre 1911. Partecipa alla Campagna Italo-turca da imbarcato su nave “Etna” dall’11 luglio al 22 ottobre 1912, nave su cui resta imbarcato dall’11 lu-

1915. Imbarcato su nave “K.Albert” dal 18 aprile al 18 giugno 1916, sull’Incrociatore ausiliario “Città di Sassari” dal 19 giugno 1916 al 10 febbraio 1917, su nave “Varese” dal 28 marzo all’8 agosto 1917, sul “Conte di Cavour” dal 13 al 20 agosto 1917. Comandante del piroscafo “Regina Elena” dal 21 agosto al 13 settembre

co nemico in modo intelligente ed encomiabile esplicava ogni incarico a lui affidato mostrando animo sereno e grande spirito di abnegazione. Durazzo, 2 ottobre 1918”. Ufficiale di rotta su nave “San Giorgio” dal 29 agosto 1919 al 3 marzo 1920. Promosso Tenente di Vascello il 1 settembre 1919. Autorizzato a fregiar-

Luigi Mascherpa Documenti su massoni in divisa Antonino Zarcone glio al 27 ottobre 1913. Autorizzato a fregiarsi della Medaglia Commemorativa della guerra Italo-turca. Imbarcato su nave “Saint Bon” dal 1 maggio 1914 al 4 maggio 1915. Allievo Pilota Militare dal 27 marzo 1915. Nominato Guardiamarina nel corpo di Stato Maggiore della marina il 1 settembre 1914. Imbarcato su nave “Trinacria” dal 9 maggio al 6 giugno 1915. Combattente della guerra 1915/18. Assegnato alla Squadriglia idrovolanti dal 7 al 15 giugno 1915. Pilota di idrovolante sulla nave “Europa” dal 16 giugno 1915 al 1 aprile 1916. Promosso Sottotenente di Vascello il 31 dicembre 56

1917. Imbarcato sul “Conte di Cavour” dal 14 settembre al 2 novembre 1917, sul “San Marco” dal 3 al 9 novembre 1917, su nave “Caio Duilio” dal 10 novembre 1917 al 15 maggio 1918. Aiutante di Bandiera del Comando superiore in Albania ed imbarcato su nave “San Giorgio” dal 16 maggio 1918 al 20 gennaio 1920. Decorato di Medaglia d’Argento al Valore Militare perché “Aiutante di Bandiera ed Ufficiale di rotta della Divisione con intelligenza e solerzia coadiuvava il suo Ammiraglio nella preparazione di una importante missione di guerra. Durante l’esecuzione di essa e sotto il fuo-

si della Medaglia Commemorativa della guerra 1915-18 ed autorizzato ad apporre sul nastro le fascette per gli anni 1915, 1916, 1917 e 1918, della medaglia Inter – alleata della Vittoria e della Medaglia a ricordo dell’unità d’Italia. Decorato della Croce al Merito di Guerra. Partecipa al Corpo d’occupazione dell’Albania. Imbarcato su nave “Alessandro Poerio” dal 3 marzo 1920 al 29 gennaio 1921. Il giorno dello sbarco viene iniziato Apprendista libero muratore nella loggia Nazionale all’Obbedienza di Piazza del Gesù. Imbarcato su nave “Roma” dal 30 agosto 1921 al 22 giugno 1922. Il 18 febbraio


1922 viene promosso Compagno ed innalzato al grado di Maestro. Imbarcato sul “Guglielmo Pepe” dal 23 giugno 1922 al 4 marzo 1923. Comandante di nave “Giuliana” dal 5 maggio 1923 al 1 marzo 1924. Imbarcato sul “Farinati” dal 2 marzo al 3 aprile 1924, sul cacciatorpediniere “Fuciliere” dal 4 aprile al 17 dicembre 1924. Comandante del Mas 110 e Capo Squadriglia dal 18 dicembre 1924 al 15 giugno 1925. Nel febbraio 1925 si dimette dalla Massoneria nel rispetto della nuova legge che sancisce il divieto di appartenenza per i funzionari dello stato ed i militari. Capo squadriglia e comandante del Mas 156 dal 16 giugno al 3 agosto 1925, del Mas 402 dal 4 agosto al 1 ottobre 1925. Comandante del Battaglione “San Marco” e relatore della Difesa di Pola dal 1 ottobre 1925 al 1 ottobre 1926. Nominato Cavaliere dell’ordine della Corona d’Italia il 9 novembre 1925. Promosso Capitano di Corvetta il 24 gennaio 1926. Imbarcato sull’Esploratore “Quarto” dal 4 ottobre 1926 al 17 ottobre 1927. Il 28 aprile 1927 sposa la signorina Elfrida Desimon. Comandante del Battaglione “San Marco”, relatore della Difesa, capo Centro educazione fisica e Comandante in 2^ della Difesa e Deposito Corpo Reali Equipaggi della Marina di Pola dal 1 novembre 1927 al 25 aprile 1928. Imbarcato su nave “Benedetto Cairoli” dal 23

aprile 1928 al 13 ottobre 1929. Comandante del Battaglione “San Marco” a Pola dal 13 ottobre 1929 al 10 luglio 1931. Nominato Cavaliere dell’Ordine Coloniale della Stella d’Italia per Moto Proprio del Sovrano il 19 dicembre 1930. Promosso Capitano di Fregata il 15 luglio 1931. Comandante in 2^ del “Caio Duilio” dal 26 luglio 1931 al 21 marzo 1932. Sottocapo di Stato Maggiore del Comando Marina di Pola dal 25 marzo 1932 al 10 aprile 1935. Responsabile del “Francesco Nullo” e del “Daniele Manin” dal 20 giugno al 1 ottobre 1933, del “Daniele Manin” dal 2 ottobre al 15 novembre 1933, del Gruppo RD e Posamine dal 20 novembre 1933 al 21 gennaio 1934, del “Augusto Riboty” dal 22 gennaio al 3 febbraio 1934, del “Augusto Roboty” e del “Premuda” dal 4 febbraio 1934 al 10 aprile 1935. Nominato Cavaliere dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro il 31 maggio 1934. Comandante del “Alessandro Volta” dal 13 aprile al 26 maggio 1935, del “Quarnaro” dal 1 giugno al 1 settembre 1935, di nave “Aquila” dal 2 settembre 1935 al 1 ottobre 1936. Mobilitato per l’esigenza Africa Orientale dal 3 ottobre 1935 al 28 luglio 1936. Autorizzato a fregiarsi della medaglia Commemorativa senza gladio romano per le Operazioni militari in Africa Orientale Italiana. Nominato Ufficiale dell’ordine della Corona d’Italia il 27 ottobre 1935. Coman-

dante del gruppo Mas sottili in Egeo dal 3 marzo al 21 aprile 1936. Comandante e responsabile di nave “Nembo” dal 20 gennaio al 13 marzo 1938. Comandante del “Francesco Nullo” dal 1 aprile all’11 maggio 1938, di nave “Zeffiro” dal 12 maggio al 19 giugno 1938, del “Danie-

...in divisa le Manin” dal 20 giugno al 5 dicembre 1938. Autorizzato a fregiarsi del distintivo di ex pilota aviatore di guerra il 15 luglio 1938. Responsabile del “Cesare Battisti” dal 7 gennaio al 7 marzo 1939, del

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Massoni...

“Augusto Riboty” dal 13 marzo al 2 agosto 1939. Promosso Capitano di Vascello il 17 ottobre 1941. Comandante della marina a Lero dal 5 febbraio 1942 al 30 novembre 1943. Encomiato il 3 giugno 1942 perché “Nel corso di lunghe e difficili operazioni di ricerca e rimozione di numerose bombe nemiche inesplose, dirigeva con spirito di iniziativa e perizia lo smontamento di un ordigno esplosivo, ricavando utili elementi per il successivo andamento dei lavori”. Dopo l’8 settembre 1943 conduce la resistenza contro i Tedeschi, con le truppe presenti nella base e con l’aiuto di circa 2.000 britannici giunti via mare resistendo per 22 giorni agli attacchi aerei e agli sbarchi tedeschi. Esaurita ogni capacità di resistenza, si arrende ai Tedeschi che massacrano la maggior parte degli ufficiali e un discreto numero di soldati della guarnigione, composta dai fanti del 10º reggimento della divisione Regina, da marinai della base navale e da personale della difesa antiaerea. Preso prigioniero dai Tedeschi il 1 dicembre 1943, inizialmente viene internato in campo di concentramentoe poi consegnato alle autorità della Repubblica Sociale Italiana e quindi ristretto nel Carcere degli Scalzi di Verona poi nel carcere San Francesco di Parma. Durante la reclusione il carcere viene as58


...in divisa

salito dai partigiani che liberano diversi detenuti politici, ma Luigi Mascherpa rifiuta di fuggire. Processato dal Tribunale Speciale di Parma in quello che viene definito il Processo agli ammiragli, viene condannato a morte per alto tradimento e fucilato nel poligono di tiro di Parma insieme all’ammiraglio Igino Campioni. Promosso Contrammiraglio (alla memoria) per merito di guerra il 9 novembre 1944. Decorato di Medaglia d’Oro al Valore Militare (alla Memoria) il 13 gennaio 1945 perché “Ufficiale Ammiraglio di eccezionali doti morali e militari, assumeva, in circostanze estrema-

mente difficili, il comando di un’importante base navale nell’Egeo. Attaccato da schiaccianti forze aeree e navali tedesche, manteneva salda, in oltre cinquanta giorni di durissima e sanguinosa lotta, la compagine difensiva dell’isola. Dopo una strenua ed epica resistenza protrattasi oltre ogni umana possibilità, ormai privo di munizioni e con gli effettivi decimati, era costretto a desistere dalla lotta. Catturato dal nemico e condannato a morte da un tribunale di parte asservito ai Tedeschi, coronava fieramente col sacrificio della vita una esistenza nobilmente spesa al servizio della Patria. Zona di operazioni, settembre 1943 - maggio

1944”. Decorato della Croce al merito di guerra il 17 luglio 1947. Il 30 dicembre 1947 gli viene riconosciuta la qualifica di partigiano combattente quindi il distintivo della guerra 1940/43 con due stellette corrispondenti agli anni 1942 e 1943 ed il distintivo della guerra 1943/45 con una stelletta corrispondente all’anno 1944. P.56: Cappello da Ammiraglio della Marina Militare Italiana, anni ‘30/’40; p.57: Luigi Mascherpa in divisa e - sotto - cartolina con la nave ‘C.Duilio’ (ca. anni ‘20); p.58 in alto e 59 in basso: La nave ‘Duilio’ in rada a Trieste; p.58 in basso e 59 in alto a destra: MAS (Mezzi d’Assalto di Superficie) ormeggiati ed in navigazione; p.59 in alto a sinistra: Fregio dei piloti MAS.

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Mysterium

I misteri di Glastonbury Maurizio Galafate Orlandi

parte II


Mysterium

I

l Tor Una collinetta che si erge per circa 150 metri sul livello del suolo circostante, nel corso dei secoli è stata considerata, di volta in volta, montagna magica, collina fatata, Castello del Graal, Centro di iniziazione druidica, centro di forza magnetica, Centro per rituali e celebrazioni della fertilità, punto convergenza per gli UFO e luogo di intersezione delle ley lines. La sua mitologia risale a tempi così antichi che i ricordi si confondono, anche perché ogni nuovo culto tenta di sostituire il precedente, cercando, senza riuscirvi, di nasconderne le tracce. Questo è quanto puntualmente è avvenuto al culto della Dea madre, già presente in epoca neolitica. Nel corso dei tempi la Dea, rappresentata sotto forme diverse, è stata identificata nell’armonia dell’ordine naturale, nel flusso e riflusso, nella crescita ed il declino della vita stessa. È interessante notare come in alcune immagini giunte fino a noi si trovino disegnate sul suo petto delle spirali che ricordano molto da vicino quella del Tor. In verità si tratta di un labirinto che molti credono sia stato

realizzato con propositi rituali ancora prima che i druidi lo utilizzassero per i loro riti e le loro cerimonie di iniziazione. Questo genere di labirinto ha da sempre rappresentato il viaggio dell’anima attraverso la vita, la morte ed infine la rinascita. L’epoca in cui venne costruito è incerta, mentre alcuni sostengono che risalga all’epoca in cui il culto della Dea era maggiormente sentito; Philip Arthur Rahtz, archeologo molto attivo nella seconda metà del secolo scorso, fu di diverso avviso. Egli si interessò particolarmente al Somerset in generale ed a Glastonbury in particolare e, dopo aver scavato la sommità del Tor tra il 1964 ed 1966, collocò la data della costruzione del labirinto tra il II ed il III millennio A.C. Successivamente, nel 1979, Geoffrey Ashe, scrittore e storico britannico, dopo aver lungamente studiato la collina, concluse che si trattava proprio di un labirinto e su questa sua ricerca scrisse un libro dal titolo The Glastonbury Tor maze, in cui sostenne che si trattava di una delle più grandi realizzazioni rituali dell’antica Britannia. Molte storie popolari ancora più miste-

riose, e per alcuni anche fantastiche, raccontano dell’esistenza di tunnel sotterranei. Una di queste leggende, forse la più conosciuta, narra di un passaggio che dall’Abbazia condurrebbe fino al Tor. In un anno imprecisato, una trentina di monaci entrarono per questa via all’interno della collina, ma ne uscirono soltanto in tre, due completamente impazziti mentre il terzo aveva perduto l’uso della parola. Un’altra leggenda popolare narra addirittura che all’interno del Tor si cela anche un tempio druidico. Il Tor e la stessa Glastonbury fanno comunque parte dell’allineamento dei siti preistorici sacri, conosciuto come la linea di San Michele, che Paul Broadhurst e Hamish Miller, autori del libro Il Sole ed il Serpente, hanno seguito per 300 miglia, ma di questo ne parleremo in seguito. A Glastonbury c’è chi, ancora oggi, racconta che alcuni giorni si sente sospinto a salire lungo il pendio del Tor, mentre altri viene come respinto e che il sostare sulla collina può produrre effetti di disorientamento, perché in quel luogo il velo che divide le diverse dimensioni spazio61


Mysterium

temporali diventa più sottile. Percezioni extrasensoriali? Forse il Tor è un centro magnetico dove si celano le forze della terra e del cielo che attendono di essere riscoperte? Chalice Well Tra il Tor e Glastonbury troviamo ‘Chalice Well’, il Pozzo del Calice. La prima volta che entrai in quei giardini, passeggiando sotto archi di vegetazione lussureggiante lungo i vialetti che lo attraversavano, notai immediatamente dei vecchi tassi. La presenza dei tassi nei cimiteri è una tradizione che risale all’epoca precristiana quando venivano piantati nei siti dove Celti e Druidi celebravano le loro cerimonie. Cinquant’anni fa venne rinvenuto presso il Pozzo il troncone di un tasso ritenuto vecchio di oltre 1800 anni, che si suppone avesse fatto parte di un viale cerimoniale. Da tempi antichissimi l’acqua è considerata fonte di vita, un dono della terra per nutrire il suo popolo. Chalice Well è questo dono, venerato come simbolo della natura stessa e come forza rigeneratrice, mentre la sua acqua, ricca di depositi fer62

rosi, è conosciuta come la Sorgente rossa o Fonte del Sangue. Il Pozzo del Calice è il simbolo del nutrimento spirituale, della purezza e della verità. Ricordo ancora bene di avere visto i cittadini di Glastonbury bere insieme ad altri visitatori un sorso di quell’acqua da una testa di leone sormontata da un piccolo biancospino. Il Pozzo del Calice è anche, come il Tor, un varco in cui ciò che separa le diverse dimensioni è più sottile, permettendo così l’accesso al divino. Ma l’acqua ha ben altre proprietà oltre a quelle comunemente conosciute; l’acqua, come vedremo in seguito, è anche dotata di memoria. Ma torniamo a Chalice Well ed all’antica usanza di raccogliere i fiori e le gemme di biancospino per poi metterli in un contenitore di vetro pieno d’acqua e farli macerare al sole, per ricavarne così essenze dalle proprietà curative. Lasciamo i giardini di Chalice Well non dopo aver letto una esortazione che viene rivolta a tutti i visitatori: “Prendete il tempo di apprezzare la tranquilllità, la pace e l’essenza curativa dei giardini stessi e delle loro acque.”

Glastonbury Thorn Poco distante da Chalice Well – sulla Wearyall Hill – si trova il leggendario Sacro Biancospino che, legato alla leggenda di Giuseppe di Arimatea, è tutt’oggi venerato, e si sovrappone, come vedremo, ad una pratica pagana cercando di sostituirla, anche se non riesce a cancellarne le tracce. La leggenda racconta che quando Giuseppe arrivò nel Somerset si fermò fissando a lungo la collina di Glastonbury e su di essa piantò il bastone che aveva portato con sé e che era stato ricavato da un albero germogliato da una spina della corona di Cristo. Quando Giuseppe decise di riprendere il viaggio vide che il bastone aveva messo radici. Così nacque la pianta del biancospino che fiorisce due volte l’anno, la prima a Natale e la seconda a Pasqua. In tempi ancor più remoti il biancospino veniva chiamato l’albero di Maggio ed era associato ad un simbolismo ben diverso. Era infatti a maggio che venivano celebrate le festività di ringraziamento, ed il primo giorno di quel mese si svolgeva il festival di Beltane in omaggio alla


Glastonbury, si raggiungono due querce nodose dall’aspetto molto particolare. Si tratta di Gog e Magog, ciò che resta di una lunga fila di querce che si racconta costeggiasse la strada in direzione del Tor. Gli alberi vennero tagliati all’inizio del secolo passato e c’è chi afferma che

Mysterium

Dea Madre, conosciuta anche come Beltis o Belit. Tornando alla leggenda cristiana, questa continua narrando che Giuseppe e tutti i suoi dodici compagni arrivarono a terra esausti, ciò che dette il nome alla collina, Weary, che significa esausti ed all, tutti. Il biancospino, che non sembra affatto

appartenere alla flora di questi luoghi, bensì ad alcune zone della Palestina, fiorisce ancora a Glastonbury ed ogni anno un suo ramoscello fiorito viene tagliato dal Sindaco del paese nella ricorrenza delle festività natalizie ed inviato ai regnanti. Wearyall Hill rappresenta l’intelletto, la percezione spirituale, l’illuminazione creativa, laddove il Tor è la forza e Chalice Hill è l’Amore. Le proprietà magiche del biancospino vengono ulteriormente testimoniate dalla tradizione celtica secondo la quale piccoli pezzi di stoffa venivano annodati attorno ai suoi rami; una tradizione ancora oggi seguita affinché sogni e desideri si avverino, oppure in segno di ringraziamento. Gog e Magog, Seguendo un sentiero poco distante da

una di queste querce aveva un tronco del diametro di oltre tre metri e che la sua età era di oltre duemila anni. Questi alberi, che erano stati originariamente dedicati alla Grande Madre, vennero successivamente considerati sacri anche dai Celti, che ne utilizzarono le foglie per celebrare i loro riti, in santuari situati nei boschi di querce. Alcuni sostengono che la parola Druidi significasse “uomini delle querce”. Quando mi trovai di fronte a Gog e Magog cercai di immaginare il lungo corteo cerimoniale che, attraversando il viale costeggiato da querce secolari, proseguiva poi verso il Tor. Questi cortei erano parte di veri e propri rituali di venerazione della Dea che, pur non sopravvissuti nella loro integrità, ci hanno tramandato almeno una parte del loro messaggio. Ancora ai giorni nostri c’è chi si riunisce attorno a Gog e Magog per la festa di Beltane che viene celebrata tra il trenta di aprile ed il primo maggio di ogni anno, anche se dovrebbe esserlo il giorno posto tra l’equinozio di primavera ed il solstizio d’estate e quindi, secondo il tempo astronomico, il 5 maggio. Durante queste celebrazioni si saltava attraverso il fuoco come auspicio di buon augurio, una pratica rituale che si è perpetuata nel tempo sino a giungere ai nostri giorni. Ley Lines Molte sono le leggende, più o meno misteriose, che sopravvivono ancora oggi a Glastonbury. Una di queste riguarda le ley lines che la collegherebbero a siti preistorici considerati sacri. Chiamate, di volta in volta, linee di forza, linee di energia, linee di prateria e linee temporanee, consistono in sentieri della larghezza approssimativa di due metri che percorrono l’intero pianeta e che intersecandosi formano una rete. 63


Nel 1846 un certo Edward Duke notò che alcuni siti preistorici intorno ad Avebury riproducevano la struttura planetaria geocentrica del sistema solare, in cui ciascuna località corrispondeva ad un pianeta e ne evidenziava la traiettoria orbitale. In questo sistema geocentrico

Mysterium Silbury Hill rappresentava la Terra. Successivamente, William Henry Black sostenne che i manufatti eretti dall’uomo non sarebbero stati posizionati casualmente, ma in modo da creare una sorta di allineamenti, che, come abbiamo già detto, formerebbero una rete tale da avvolgere l’intera Europa occidentale. Arrivamo così ad Alfred Watkins, un archeologo dilettante che sulle ley lines scrisse un libro dal titolo The old Straight Track. Watkins aveva osservato che alcuni degli allineamenti di cui sopra erano individuati da pietre erette, tumuli, alture

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arrotondate (come quella del Tor), cerchi di pietre, collinette ed insediamenti neolitici di vario tipo, rilevandone elementi di carattere topografico, mentre si ritiene che le ley lines possiedano anche energie eteree. Sig Lonegren, un esperto di radioestesia, parte di un progetto educazionale chiamato the Oak Dragon e curatore del Pozzo del Calice di Glastonbury, cercò di individuare queste energie terrestri, che lui riteneva fossero presenti nelle antiche località considerate sacre. La sua conclusione fu che effettivamente ci fosse una corrispondenza in grado di favorire la crescita spirituale dell’uomo. Nella convinzione che la loro rilevanza non fosse soltanto topografica, classificò le ley lines in quattro differenti tipologie. La prima è quella delle ley lines lineari, per intenderci quelle di Watkins, la seconda riguarda quelle che trasmettono energia eterica lungo i loro allineamenti, la terza invece è di tipo astronomico, in cui le linee individuano una congiunzio-

ne con eventi astronomici, ad esempio i solstizi. La quarta ed ultima è costituita dalle linee di energia topografico-astronomica, come quella di St. Michael. Inoltre, sempre più spesso viene associato alle ley lines il fenomeno delle correnti terrestri naturali, che si riscontrano lungo tutta la superficie del Pianeta e che si ritiene siano il risultato dei movimenti magmatici all’interno della Terra e dell’attività solare, correnti, l’una positiva e l’altra negativa, che intersecandosi a loro volta con le ley lines ne rafforzerebbero l’energia. Negli anni Ottanta del secolo scorso Hamish Miller, un rabdomante studioso della materia, e Paul Broadhurst, scrittore e ricercatore, individuarono due di queste correnti di energia geomagnetica che si allungano attorno alla St. Michael ley line. Chiamarono l’una “Michael” e l’altra “Mary”, la prima positiva e la seconda negativa. Quando arrivai per la prima volta a Glastonbury, mi resi immediatamente con-


to di trovarmi in un luogo dove queste correnti di energia vibravano. Il mio primo pensiero fu che avrebbe potuto trattarsi della mia immaginazione, quando ricordai di aver già provato la medesima sensazione. Infatti, pur non possedendo alcuna capacità legata alla radioestesia, avvertii una sensazione o forse si potrebbe definire meglio come “una intuizione”, che era molto simile a quella provata durante un mio soggiorno in un piccolo villaggio dell’Africa oltre trent’anni prima. Ecco cosa era accaduto. Quando mi trovavo nella parte sud di questo villaggio, provavo una sensazione di benessere psicofisico, mentre quando mi spostavo nella parte nord, distante non più di due o tre chilometri, mi sentivo a disagio ed il mio umore diventava cupo. Mi trovavo forse su una ley line? Oppure in un campo di energia positiva prima e negativa poi? Conclusione Di una cosa sono certo, in luoghi come Glastonbury la meditazione diventa un fatto spontaneo, ci si sente liberi da pulsioni negative ed è possibile avvicinarci a noi stessi, perché, come diceva l’ammonimento delfico, “In te si trova occulto il Tesoro degli Dei. Uomo, conosci te stesso, e conoscerai l’Universo e gli Dei”. Delfi, dove venne rinvenuto l’Omphalos più conosciuto, simbolo di un punto nevralgico della Terra, che si narra fosse dedicato a Gaia, uno dei tanti nomi attribuiti alla Dea Madre. Conoscere noi stessi permetterà di raggiungere l’Armonia universale di cui parlava Aristotele e che, in tempi moderni, è stata teorizzata dallo scrittore John Michell, il quale sostenne che l’armonia della società civile, quindi degli uomini, dipende dalle forze della natura e della terra e, dove questa era particolarmente intensa, era stata individuata con manufatti, monoliti ed altro. Coincidenza? Casualità? E se la casualità fosse soltanto apparente perché invece determinabile e pertanto risultasse evidente soltanto in un momento successivo? Vero o no, l’emozione fu intensa. Quando si parla di mistero, sappiamo benissimo che certezze non se ne possono avere, e tantomeno dare. Uno dei maggiori storici dell’Ottocento – Jo-

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hann Gustav Droysen – sostenne che ogni manifestazione esteriore dell’uomo è “espressione del suo intimo essere, del suo volere e del suo pensiero [...] anche ciò che è lontano nello spazio e nel tempo, anche ciò che nel più remoto passato fu voluto, fatto, creato dagli uomini [...] cerchiamo, indagando, di conoscere il passato, le azioni che questi compirono e gli effetti del loro agire”. I misteri non si possono esprimere in termini convenzionali, oggi ne abbiamo parlato, ma non saranno le nostre parole che li potranno svelare, perché si possono percepire soltanto a livello emozionale; e saran-

no proprio le emozioni che ci potranno guidare alla loro comprensione. Ancora oggi, molti sono coloro che la notte del 30 di aprile si ritrovano nei pressi di Gog e Magog a festeggiare Beltane, una antichissima festa ancora in grado di evocare le stesse emozioni che altri provarono in tempi remoti, per avvicinarsi così alla natura, al culto della Dea Madre, che tutto ha generato, e che venerata da ben oltre settemila anni lo viene ancora, anche se sotto sembianze diverse. P.60, 61 e 65: Il Tor; p.62: Chalice Well; p.63: Glastonbury Thorn; p.64: Le querce Gog e Magog (per tutte le foto vd. testo).

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I

l mondo degli ex libris ha in sé una serie di sfumature, da quella storica per i più antichi, a quella artistica per le opere più rappresentative di artisti, pittori e incisori che si sono dedicati a questa affascinante forma d’arte, tanto da far sì che il legame originario con il libro in alcuni casi si perda e “la trasformazione dell’ex libris da piccola grafica applicata a piccola grafica artistica sia quasi completamente compiuta”1. Indubbiamente il bello si trova in qualsiasi manifestazione artistica, ma il legame tra il libro e il suo proprietario deve essere interpretato con la sensibilità e l’intelligenza che solo l’occhio dell’artista può avere. Recentemente l’ex libris è realizzato principalmente per i collezionisti allo scopo di promuoverne lo scambio, e la grafica dedica, specie nei paesi dell’Europa dell’Est e dell’ Estremo Oriente, un’attenzione particolare alle piccole opere e perciò alla produzione dei bookplates. Ho purtroppo però nel contempo l’impressione che l’interesse dei Fratelli ad avere un proprio ex libris massonico stia diminuendo, ragion per cui la collezione della Gran Loggia d’Italia si sta rivelando un piccolo prezioso museo a sé stante. A ciò si aggiunga che, anche se alcuni Fratelli che nel passato si sono fatti realizzare una propria opera ne hanno donato un esemplare all’Obbedienza, senza un apporto di nuove opere che rappresentino la dinamicità rigenerante del divenire, vi è il pericolo che la testimonianza del lavoro del massone sui propri testi, lungamente letti, meditati e infine contrassegnati cessi, e con essa cessi una parte della nostra Tradizione. Un ex libris di particolare rilevanza, sia per i nomi che vi compaiono, sia per la particolare simbologia che lo contraddistingue, è quello di mm 61x85 che ripor1 Joseph Burch, in Concorso Mondiale Ex libris 1999 “L’uomo del nuovo millennio”, edizione Il Melo. Civica Galleria d’Arte Moderna, Tipografia Chinetti, Gallarate, 1999.

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ta come titolare il nome di O.G. Targioni Tozzetti e come autore quello di G.T.T. (nell’angolo inferiore sinistro dell’immagine). Non facile dunque analizzarlo, anche perché per quasi due secoli la famiglia Targioni Tozzetti ha regalato all’arte e alla scienza illustri esponenti, a cominciare da quel Giovanni (1712-1783) figlio di Benedetto Targioni e di Cecilia Tozzetti che, pur laureatosi in Medicina a Pisa nel 1734, si occupò di botani-

ca, scienza della quale fu professore nello Studio fiorentino e direttore del Giardino botanico. Prefetto della biblioteca magliabechiana, storico, geografo, cartografo della Toscana, sulla quale scrisse Viaggi fatti in diverse parti della Toscana per osservare le produzioni naturali e gli antichi monumenti di essa, con una prima edizione in sei volumi ed una seconda in dodici, fu anche fondatore della Collezione lito-mineralogica di circa 9000 campio-


ni, attualmente conservata presso la sezione di Mineralogia del Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze. Fu uno dei primi membri dell’Accademia dei Georgofili e della Società Colombaria, oltre che amico e frequentatore e probabilmente fratello di Antonio Cocchi, il primo massone italiano. Protagonista nel 1737 dell’asportazione dalla salma di Galileo, durante la traslazione del corpo nella basilica di S. Croce, di tre dita, una vertebra e un dente, scomparsi da oltre un secolo, è tornato agli onori delle cronache per l’essersi recentemente ritrovate le due dita e il dente, creduti scomparsi da tempo, a un’asta della fiorentina Casa Pandolfini che ha sede proprio nel Palazzo Ramirez Montalvo dove dimorava e riuniva la loggia il barone Filippo von Stosch, uno dei fondatori della loggia fiorentina. Con Giovanni iniziò una dinastia di studiosi e naturalisti: il figlio Ottaviano (1755-1829) botanico, il nipote Antonio (1785-1856) medico e botanico, e marito della “chiacchierata” Fanny Ronchivecchi, amata da Giacomo Leopardi che la canterà sotto il nome di Aspasia, il pronipote Adolfo (1823-1902) zoologo, Federico (1886-1902) e infine Ottaviano Giovanni, medico e ultimo erede. Si tratta di vicende di una famiglia e di una serie d’istituzioni scientifiche che si sono intrecciate per quasi due secoli, come fu esposto nel 2006 nella bella mostra dell’Accademia fiorentina dei Georgofili “I Targioni Tozzetti fra ‘700 e ‘900”. Ottaviano Giovanni Targioni Tozzetti, il titolare dell’ex libris, nel giugno 1940 donerà al Museo dell’Arte sanitaria di Milano, presso l’Ospedale Maggiore, una preziosa cassetta di ferri chirurgici da viaggio che aveva ereditato dal suo antenato al quale erano stati a propria volta donati dal Granduca di Toscana, assieme a due riproduzioni di ex libris e a un biglietto da visita dell’avo. La donazione fu accettata con delibera n. 1631 del 2 luglio 1940 e i ferri sono conservati tuttora nell’archivio dell’Ospedale Maggiore di Milano. L’autore dell’ex libris G.T.T. risulta essere Giovanni Targioni Tozzetti, Nanni per gli amici (Livorno, 17 marzo 1863 – 30 maggio 1934), anch’egli discendente dalla stessa nobile famiglia fiorentina, noto nella Livorno “bene” per essere un “signore”, un conversatore elegante, un improvvisatore di

versi e giornalista, attaccato alla propria città e assiduo frequentatore dell’Ardenza, più noto per essere stato amico e librettista di Paolo Mascagni. Fra gli altri scrisse il libretto della Cavalleria rusticana (in collaborazione con G. Menasci, 1890) e del Nerone (1935). Figlio del famoso erudito e grecista, professore e poi preside del R. Liceo “Niccolini” di Livorno, Ottaviano Targioni Tozzetti (Mercatale di Vernio 1833 - Livorno 1899) fece parte del gruppo degli “Amici pedanti”, nome assunto, oltre che da lui, da Giosue Carducci, Giuseppe Chiarini e Giuseppe Torquato Gargani, tutti appartenenti alla Massoneria quando nel 1856, traendo pretesto da un libretto di versi pubblicato dal livornese Braccio Bracci, si scagliarono contro i romantici. Combattevano “l’irruzione straniera nelle lettere”, una spiritualità sognante, un modo d’immaginare e di scrivere, a loro dire, sfumato e poco concreto; l’epiteto di pedanti ebbe per loro il significato polemico e “onorifico” di classicisti e puristi. Giovanni fu letterato, giornalista e insegnante, ricoprì cariche pubbliche, prima come assessore all’istruzione, poi come sindaco (1911-1915) e infine come presidente del Consiglio Provinciale. Per la città di Livorno creò anche i testi di molte lapidi collocate nelle strade cittadine, riconoscibili dalla sigla “G. T. T.” Sua la commemorazione nel 1911 per il 50° Anniversario dell’Unità d’Italia, come consigliere anziano, delegato dal sindaco Giuseppe Malenchini che si era recato al Campidoglio per le celebrazioni nazionali. L’interesse di questo ex libris non si limita all’importanza di titolare e autore, ma si estende alla simbologia che raffigurata ha una valenza storica notevole. Infatti, oltre a simboli tradizionali, squadra, compasso, archipendolo e globo terrestre, una lucerna fiorentina, un libro pieno di formule matematiche e geometriche fra le quali si nota l’illustrazione del teorema di Pitagora, penne e quanto altro può essere sulla scrivania di uno studioso (simbologia massonica parzialmente esplicita forse per il fascismo che prepotentemente stava prendendo campo), nella parete dello studio è disegnata una finestra aperta sulla vista del Carro dell’Orsa Maggiore e di una colomba che ha nel becco un rametto di ulivo. Accanto alla finestra un cartiglio recita:

“Si Spiritus pro nobis, quis contra nos?”. Questa immagine ricorda troppo da vicino il labaro della Reggenza del Carnaro per essere una coincidenza. Questo, infatti, nato da un bozzetto dello stesso D’Annunzio, disegnato e perfezionato da Adolfo De Carolis, ora conservato

Ex Libris nel museo di Fiume, presso la Società di Studi Fiumani di Roma, riporta
su fondo rosso l’Orsa Maggiore, raffigurata da sette stelle a sette punte, nel terzo esterno inquadra i tricolori italiani e fiumano, nei due terzi rimasti liberi include l’emblema: un serpente d’oro squamato che fa cerchio mordendosi la coda. Dentro il cerchio del serpente, le sette stelle dell’Orsa, ricordo, forse, dei sette legionari di Ronchi che giurarono “O Fiume o morte”, o forse dei sette fratelli
necessari a formare una loggia. Nel cartiglio compare la scritta: Quis contra nos? (Chi sarà contro di noi?) che fa parte del motto Si Spiritus pro nobis/quis contra nos?, ispirata ad una frase dell’Epistola di S. Paolo ai Romani. Alla fine della Prima Guerra Mondiale, nonostante le aspettative degli Italiani che erano la maggioranza dei cittadini in una città multietnica con popolazione anche croata, slovena e tedesca, la Conferenza di pace di Parigi voleva escludere l’annessione di Fiume e della Dalmazia all’Italia, suscitando così proteste e disordini: i granatieri lasciarono Fiume e si trasferirono a Ronchi dei Legionari. Da qui sette tra ufficiali e sottufficiali di fede massonica, legati dall’idea di Fiume italiana, rivolsero a Gabriele D’Annunzio l’invito a compiere l’impresa di occupare la città; molti dei volontari fiumani erano massoni e tra di essi figuravano in particolare Alceste De Ambris, Sante Ceccherini, Eugenio Coselschi, Ulderico Zasio, Marco Egidio Allegri. La bandiera della Reggenza del Carnaro avrebbe contenuto svariati simboli massonici e gnostici, come l’Uroburo e le sette stelle dell’Orsa Maggiore. Il poeta Gabriele d’Annunzio, protagonista della cultura italiana fra i due secoli, durante la Reggenza del Carnaro fu insignito del 33° grado del Rito scozzese antico ed accettato da una delegazione di Piazza del Gesù; secondo una testimonianza di 67


Ex Libris

Marco Egidio Allegri, però, il poeta era già stato iniziato dalla loggia “XXX Ottobre”, facente parte della stessa Comunione. La marcia su Fiume si concluse il 12 settembre del 1919, e in seguito al poeta vennero conferiti i pieni poteri, militari e civili. Dopo alcuni tentativi del governo italiano di risolvere la questione, tutti respinti dalla popolazione e dallo stesso D’Annunzio, l’8 settembre del 1920 fu costituita
la Reggenza del Carnaro, ed è in questa occasione che D’Annunzio stesso disegnò e fece realizzare il labaro, che fu esposto alla presentazione della Carta del Carnaro, una Costituzione repubblicana che conteneva anche importanti anticipazioni di norme oggi adottate come l’uguaglianza tra i sessi e la libertà di pensiero, di stampa e di culto. L’8 settembre è ufficialmente proclama68

ti nel disegnare l’ex libris pensava a Fiume e forse la colomba che portava nel becco il ramoscello d’ulivo significava un augurio di pace alla tormentata città o forse il titolare era il diacono della sua loggia, perché nel gioiello del diacono questa è l’immagine raffigurata. *** dolfo Ruiz Casamitjana (Barcellona, 1869-1937) è stato un architetto modernista protagonista assieme al notissimo Antoni Gaudí dello sviluppo nella regione spagnola della Catalogna dell’Art Noveau3. Ha lavorato a Barcellona e a Badalona dove ha realizzato molte costruzioni famose. Ha fatto creare questo suo ex libris da José Triadó Mayol (Barcellona, 1870 - 1929). Questi fu un vignettista, ex librista e pittore che nel 1890 si dedicò alla pittura simbolista. Dopo aver studiato nella Scuela Llotja, cioè la Scuola d’Arte di Barcellona, dove dal 1902 insegnò vignettistica, perfezionò le tecniche di incisione con Alexandre de Riquer, l’artista che ha introdotto l’arte dell’ex libris in Catalogna. Triadó si è interessato in toto alla creazione del libro, occupandosi oltre che di ex libris, anche di illustrarne i colophon e di arricchirne le pagine con illustrazioni di sua invenzione. Fu direttore artistico della Revista Gráfica, dell’Instituto Catalán de las Artes del Libro y del Anuario de las Artes Decorativas. Questo raffinato ex libris dei primi del ‘900, di mm 16x10,5, è stampato con un processo di fotoincisione4. L’avvento della fotografia ha offerto agli incisori di fine ‘800 la possibilità di rappresentare fedelmente la realtà applicando i principi fotografici alle arti grafiche per rinnovare il proprio linguaggio espressivo e facilitare la stampa su larga scala di prodotti tipografici. L’applicazione della fotografia viene estesa a tutte le branche della grafica: calcografia, litografia e di lì a breve alla serigrafia. Negli ultimi vent’anni dell’Ottocento

A

ta la Reggenza del Carnaro. La bandiera della Reggenza, rossa con al centro la costellazione dell’Orsa Maggiore circondata dall’Uroboro, mistico simbolo dell’infinito, con il cartiglio Quis contra nos?, farà invece la sua prima apparizione il 12 settembre 1920 in occasione dell’anniversario della marcia di Ronchi2. L’avventura fiumana finì poco dopo, nel Natale di sangue, come lo definì D’Annunzio, del 1920, con il cannoneggiamento della città da parte della Regia Marina e l’attacco dell’esercito ai legionari e volontari dannunziani. Fiume ora ha nome Rijeka ed è il porto più importante della Croazia. Sicuramente Giovanni Targioni Tozzet2 F. Gerra, L’impresa di Fiume, Milano, 1966, pp. 486-487.

3 «Glossari d’artístes» (en catalán). El Modernisme. Volumen 2. Barcelona, Ed. Olimpíada Cultural i Lundwerg, 1990. 4 “Il processo di fotoincisione viene realizzato utilizzando tecniche fotografiche per ricavare su lastra di zinco o di rame sensibilizzata appositamente, una incisione in rilievo (cliché), dalla quale si possa ottenere, con la stampa tipografica la riproduzione dell’originale”. Dizionario Enciclopedico UTET, Torino, UTET, 1967, Vol. VIII, p. 271.


molti incisori condurranno esperimenti innovativi per impadronirsi dei principi fotografici e per creare gelatine fotosensibili e resistenti alla morsura da applicare alle lastre di metallo; riusciranno con il tempo a perfezionare queste tecniche e ad ottenere buoni risultati. Nel secondo dopoguerra la riproduzione fotomeccanica oramai perfetta alimenterà il mercato dei falsi, mettendo in discussione la fotoincisione come opera originale. La rappresentazione di un raffinato decoro di foglie dalle linee sinuose che esprime pienamente lo stile dell’epoca esalta la linearità del compasso sovrapposto ad una vera da pozzo o a un tappo di bottiglia, come lo si voglia leggere, anch’esso in stile floreale. Dal punto di vista esoterico il compasso rappresenta l’opera della creazione, reinviando alla simbologia del cerchio, e incarna la passione razionale che sovrasta la dimensione nascosta dell’inconscio freudiano simbolizzata dal pozzo che è comunque, come una bottiglia chiusa, un emblema del segreto e della conoscenza, accessibile al solo iniziato. In altri termini è una rappresentazione di come il massone debba alla luce della razionalità tenere a bada le pulsioni più nascoste, ma anche scavare nelle profondità del proprio essere alla luce del pensiero razionale. Il compasso, misurando l’apertura della mente ogni qualvolta l’individuo si appresta alla ricerca, è anche l’emblema della spiritualità e quindi per estensione del cielo. Potremmo quindi leggervi anche i quattro elementi, giacché il compasso è inteso come raffigurazione del cielo e quindi simbolo dell’aria; il pozzo, o la bottiglia, che contiene un liquore spirituale, richiamano l’acqua, ma se li leggiamo come contenitori richiamano anche l’athanor, vale a dire il fuoco; chiara poi è la raffinata granulazione che distingue la terra, quindi l’uomo che vuole compiere la ricerca del sé deve scavare nella profondità della sua coscienza col fuoco della passione. Utilizzando il compasso egli deve giungere a dominare e plasmare la materia di cui è costituito per raggiungere quella spiritualità e quella saggezza tipici di colui che sta fra cielo e terra. *** ex libris del 1989 di mm 128x111 di Remo Palmirani è una serigrafia numerata e colorata del belga Mar69

L’

Ex Libris

tin Baeyens, pittore, disegnatore e grafico. La sua tecnica preferita è la serigrafia5 e, pur ricorrendo frequentemente alle tecniche innovative della computergrafica, rimane fedele ai canoni della grafica d’arte. Per 37 anni ha insegnato alla Reale Accademia di Belle Arti di Gand e ha collaborato e tenuto seminari al Centro Grafico Masereel in Belgio, alla Texas University di Lubbock e in diverse Università in Turchia e Cipro. Per il Progetto Erasmus è stato invitato alle Accademie di Barcellona, Lisbona, Krankow, Limerick e Vilnius. Ha esposto le sue opere in 101 mostre personali. Ha partecipato a 5 La serigrafia o stampa serigrafica è una tecnica di stampa artistica di immagini e grafiche su qualsiasi supporto o superficie mediante l’uso di un tessuto (tessuto di stampa), in cui si fa depositare dell’inchiostro su un supporto attraverso le aree libere del tessuto. Il termine “serigrafia” deriva dal latino “seri” (seta) e dal greco “grapho” (scrivere), dato che i primi tessuti che fungevano da stencil erano di seta.

857 esposizioni in patria e all’estero ottenendo 93 premi o riconoscimenti. Ha realizzato 595 ex libris. Di Remo Palmirani, eminente figura di medico, studioso e massone abbiamo già parlato; ha fatto realizzare a suo nome numerosissimi ex libris, la maggior parte dei quali a soggetto massonico. In questo è evidenziato in primo piano, al di sopra della squadra e del compasso, un Libro, inteso come simbolo di quel sapere tradizionale che solo può permettere all’iniziato di avvicinarsi alla conoscenza.
È una delle “grandi luci” sulle quali il massone presta giuramento, ed è solo quando viene aperto dal I Sorvegliante che vi sovrappone Squadra e Compasso che i Lavori possono iniziare, per poi finire quando verrà di nuovo chiuso. Su di esso noi dovremmo regolare il nostro comportamento, considerandolo il simbolo della saggezza divina che viene rivelata agli Iniziati. Annalisa Santini


Benedetto Croce e la mentalità massonica (con due testi di J.G.Fichte) Valerio Meattini, L’Arco e la Corte Editore, Bari, 2011, € 20,00.

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Il tema del saggio, profondo e accurato, che presentiamo, secondo il suo A., «è stato oggetto, salvo eccezioni veramente rare, di una rimozione collettiva» (pag. 9). Da un lato, causata dalla stessa massoneria. Che, «sebbene protagonista di un dibattito culturale di alto livello» (ivi), ha finito, peró, per brillare soltanto «nella cronaca degli scandali» (ivi). Dall’altro, indotta, invece, dal tramonto, nel secondo dopoguerra, della filosofia di Croce, per di più, «accusato di essere esponente di una cultura e di una mentalità che aveva fatto dell’Italia un paese culturalmente arretrato rispetto alla modernità avanzata» (ivi). La necessità di riproporlo al Nostro è parsa, invece, giustificata, oltre che da una indubbia esigenza di «completezza storiografica» (pag. 10), anche, per non dire soprattutto, dalla necessità di assumere «consapevolezza su temi che hanno ben altra importanza» (ivi), investendo «un piano di serietà che non rimane senza effetti di edi-

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ficazione personale di relazioni umane meno aggressive e distorte» (ivi). Da qui il suscitato interesse dell’A. a rivisitare l’argomento, nella sua genesi remota nato «nelle conversazioni con Domenico Conte su temi crociani» (pag. 12), a conferma della nuova attenzione suscitata in ambito filosofico dall’opera di Croce. Attestata, da ultimo, pure dal volume di Giovanni Cucci, Benedetto Croce e il problema del male, Milano, 2012, pag. 153, € 16,00, particolarmente indicato per chi voglia approfondire il pensiero del filosofo di Pescasseroli. 2.- I termini della dura polemica contro la “mentalità massonica”, spesso sferzante, ma mai ingiuriosa, vogliamo poi desumerli direttamente dalle pagine crociane, con apprezzata decisione, «a vantaggio del lettore» (pag. 12), riprodotte dall’A. nella Sezione “Testi”, con la quale si chiude l’opera segnalata. Lasciando, cosí, la parola direttamente a Croce, siamo in grado di cogliere il «fastidio» personale del filosofo nei confronti dei massoni, delle logge e dell’Istituto massonico. Dei massoni «commercianti, piccoli professionisti, maestri elementari, avvocati, mediconzoli», in quanto dotati di una «cultura a buon mercato», non sempre tale da non sorpassare neppure «il livello di cultura della scuola primaria». Nel novero dei quali il filosofo riconosce di avere pure «parecchi miei amici», non per questo «messi al bando della stima e dell’amicizia per il solo fatto che fanno parte» dell’Associazione massonica. Delle logge massoniche, perché interessate unicamente alle «elezioni amministrative e politiche», con l’unico esito di causare poi un «acceso clericalismo parolaio». Quando il vero anticlericalismo si fa, invece, «coi fatti», sostituendo «verità più alte alle verità che la Chiesa ha serbato e diffonde, opere più degne a quelle che la Chiesa promuove; e, quando non si ha modo di far di meglio, rispettando anche la religione e la Chiesa, e lasciando che operino dove noi non possiamo operare». Dell’Istituto massonico, del quale ascolta «i vanti» autocelebrativi, ma pure «le atroci accuse» che gli «scagliano contro gli avversari». I quali, alla massoneria, «attribuiscono tutte le iniquità e tutti gli imbrogli della odierna vita italiana». Dunque: nihil novi sub sole!

Anche se Croce è poi «disposto a credere che vanti e accuse siano egualmente esagerati». Non è, tuttavia, di questi aspetti che Croce, nella sua polemica, intende occuparsi. Tutte codeste questioni sono, infatti, dal filosofo, lasciate «da parte», perché «essendo lontano dalle lotte politiche, mi è malagevole giudicarne». Nel che, v’era, sicuramente, del vero. Anche se, a chi scrive, pare, invece, di scorgere un’altra – e ben più alta – motivazione, nella convinzione che la fermezza richiesta dall’ufficio di maestro – e, Croce, Maestro, lo era davvero! – non deve, mai e comunque, prevaricare sul rispetto e sulla delicatezza, non solo per l’avversario, ma per ogni uomo, in genere. Sia, comunque, come sia, a Croce, come «uomo di studi», interessava misurarsi sul piano della idealità. Da qui, la polemica contro la «mentalità massonica», intesa come una forma mentis arretrata sul piano storico. In quanto tale, «serio pericolo contro la cultura italiana». Da subito, va, infatti, messo in chiaro che l’atteggiamento critico crociano, lungi dall’essere dettato da un gretto fine denigratorio, era, invece, mosso dalla necessità di assicurare all’Italia una «più alta cultura» rispetto a quella propria della massoneria, considerata dal filosofo di retroguardia. 3.- Secondo Croce, al quale, di buon grado, continuiamo a lasciare la parola, la «mentalità massonica» è viziata da «astrattismo» e «semplicismo» che, «trionfalmente», «passa» sulla storia, sulla filosofia, sulla scienza e sulla morale, «in nome della ragione, della libertà, della umanità, della fratellanza, della tolleranza». Metodo «pessimo per chi deve approfondire i problemi dello spirito, della società, della realtà», implicando conseguenze radicalmente negative «non solo mentalmente, ma anche moralmente». La «mentalità massonica» viene cosí osteggiata in quanto culturalmente anacronistica, per essere, nel tempo, divenuta «vuota» di ogni contenuto, siccome espressione di bisogni ormai totalmente superati dalla Storia. Vivi, invece, e reali, quando la «mentalità massonica si chiamó nel secolo decimottavo enciclopedismo». L’obiettivo ultimo della polemica contro la


«mentalità massonica» finisce, perció, per essere determinato dalla necessità di assicurare all’Italia una «più alta cultura» rispetto a quella della massoneria, «oltrepassata». Scopo, e fine, per certo, ad un tempo, nobile e pienamente consentaneo a chi si proponeva un risveglio intellettuale in un paese sicuramente non all’avanguardia rispetto al panorama culturale europeo. Dovendosi aggiungere che la critica crociana finiva per investire lo stesso piano fattuale, per essere stata la massoneria incapace di attuare gli scopi universalittici propri del suo programma. Come aveva comprovato la guerra, che aveva «scosso e sconvolto e messo quasi in completa ruina l’ideologia umanitaria e massonica», avendo mostrato che, nell’uomo, non c’è il «serafico fratello delle logge», ma l’«animale sanguinario» e l’eroe «pronto a gettare la vita e ogni sorta di beni per difendere una bandiera». Argomento ostativo, quest’ultimo, sia detto per incidens, molto serio per la coscienza di qualsiasi massone chiamato a combattere nemici del proprio Paese, nel novero dei quali si trovano pure Fratelli, non potendo assolvere il fatto, in quanto tutt’altro che esimente, che si sconoscono. Eccezione, nei confronti della quale si sono poi fatalmente scontrati anche i «fratelli socialisti», nell’imminenza di quella «grande guerra» che li ha poi visti, invece, divisi su fronti opposti senza esclusioni e senza che la pur invocata fratellanza avesse poi potuto ostacolare il conflitto. 4.- Alla critica frontale di Croce, non mancó di replicare direttamente la massoneria (con voci nel saggio puntualmente riferite alle pag. 54 e ss.). Gli argomenti addotti, anche a sommesso parere dell’estensore di queste note, furono, peró, flebili e non decisivi. Anche se pertinente e fondata appare, ancor oggi, l’obiezione del Petrocchi, secondo la quale la massoneria non costituisce un sinedrio di filosofi. Quanto, invece, una libera associazione di uomini liberi agenti per il “trionfo di una verità politica concreta”. Fu, perció, agevole a Croce liquidare quelle repliche in termini caustici e mordaci. Nelle risposte a lui indirizzate «su giornali e giornaletti», i massoni avevano, infatti, mostrato di non sapersi «nemmeno come si faccia a difendersi, con qualche conoscenza di fatti storici, con qualche perizia dialettica, con qualche decoro letterario». Conferma ulteriore che «il loro mondo non è propriamente quello della buona cultura». Tanto da offrire lui stesso, con intento beffardo, l’arma di un massone – nella specie: Vincenzo Monti – che almeno sapeva scrivere e

Recensioni

commuovere con versi, fedelmente riportati da Croce, saputi «a mente». Un’arma, tuttavia, priva di ogni e qualsivoglia capacità confutativa, proprio perché antistorica, in quanto espressione di una ideologia risalente ad un secolo e mezzo prima. Nel quale caustico atteggiamento v’è tutto il radicale dissenso nei confronti di chi, «con zelo ma senza preparazione, si diletta di filosofia» (versus Enriques), invocando, a proprio conforto, quella libertà di pensiero che, tuttavia, «non puó identificarsi con la libertà di restare ignoranti e di dire spropositi». 5.- Questi i termini delle vedute antagoniste riproposti dall’A. dell’opera con singole, acute, considerazioni. Sempre ancorate alle fonti, completamente conosciute, calate, per di più, nel periodo storico-politico, ugualmente dominato, nel quale il dibattito è insorto e si è svolto. Un quadro, dunque, ben più ampio ed

articolato di quello che emerge dalle scarne citazioni scelte dall’estensore di queste note, che, sul punto, si è fatto guidare da una propensione personale. Tuttavia, non arbitraria, in quanto alimentata da quelli che sono parsi pur sempre i rimandi più significativi. In questo complesso quadro di riferimento si colloca il saggio segnalato e la revisione critica del pensiero crociano svolta su diversi registri. Come ovvio, sono, poi, queste le pagine dell’A. meritevoli di maggior attenzione, prestandosi a riflessioni utili e proficue. 6.- Meattini riconosce a Croce il merito di essere stato, nella sua polemica, mosso da un nobile intento, quale è quello di volere assicurare all’Italia un «più alto livello di cultura» rispetto alla «mentalità massonica», secondo Croce, contraddistinta da un ritardo storico e, perció, da un anacronismo culturale, posto che, sempre secondo Croce, la massoneria

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non «seppe far altro (…) che accogliere la filosofia» sorta «nel primo quarto del Settecento», ripetendola, poi, con «formule trite e triviali», in funzione del risveglio culturale, del quale si sentiva protagonista (pag. 20). Che, come approdo, avrebbe dovuto assicurare all’Italia una «soda cultura storica e politica»,

Recensioni dunque, un pensiero antitetico a quello praticato dalla massoneria, accomunata all’ebraismo e al modernismo. In quest’opera, Croce spese, perció, non solo la sua ben nota verve di polemista (… spesso impietoso!), ma pure tutto il suo prestigio culturale e la sua autorità di riconosciuto Maestro, oltre che di dominatore della scena culturale italiana. Benemerenze che, secondo l’A. dell’opera, non sono tali, tuttavia, da impedire di riconoscere, prima ancora che i limiti, lo stesso vizio di fondo che inficia quella veduta. Come acutamente ha notato il Nostro, infatti, il duro giudizio espresso da Croce è dipeso unicamente «dall’accettazione della sua prospettiva filosofica» (pag. 66), che, come noto, coincide con quella filosofia dello spirito, che Croce finí poi con il denominare come «storicismo assoluto», inteso come «unica forma del conoscere». Prospettiva filosofica, quest’ultima, tutt’altro, peró, che sicura, posto che la filosofia crociana, per quanto pregevole nelle sue conquiste, si presenta, tuttavia, insufficiente, laddove finisce con il negare la dimensione veritativa della scienza, e perfino incondivisibile nel suo epicentro. La storia, come osserva il Nostro, anche a volere restare all’interno dello stesso storicismo, non puó, infatti, davvero considerarsi, né “svolgimento”, né “sviluppo”, dovendosi, piuttosto, ritenere «un insieme di processi fra loro non necessariamente connessi e snodatisi in forza di cause perfino sorprendenti e paradossali, come invece pensava Max Weber» (pag. 65). Una volta riconosciuta l’impossibilità di identificare la conoscenza con la conoscenza storica, pertanto, ne segue che il giudizio crociano – sebbene cosí recisamente negativo e severo – viene notevolmente ridimensionato, proprio perché condizionato da presupposti teorici, a voler esser generosi, tutt’altro che solidi. Secondo Meattini, la polemica massonica di Croce, a ben considerare, altro non è stata, dunque, che una mera occasione, colta da Croce, per difendere la propria filosofia. Per la stessa finalità insita nell’atteggiamento critico crociano, non si puó, poi, non condividere il giudizio dell’A., quando scrive che «Croce non portó la pole-

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mica sul livello mediocre e calunnioso di fine Ottocento e che in ogni caso è un registro alto che invita a produrre ricerche e ragioni» (pag. 77). Non senza fondamento osserva, infine, Meattini che non puó non sorprendere il fatto che, pur avendo sempre specificato che la sua era una lotta culturale, Croce non abbia, invece, mai avvertito «il bisogno di un confronto diretto con i grandi appartenenti» all’Istituto massonico, che «pur ammirava

senza (o con poche) riserve» (pag. 76), quali, Goethe, Carducci, Francesco de Sanctis e Fichte. Senza neppure mai impegnarsi in una «(almeno iniziale) comprensione di quei linguaggi specifici che la massoneria parla» (pag. 77). Col risultato che, anche da quest’ultimo profilo, il giudizio crociano finisce per svuotarsi ulteriormente del suo carattere rigorosamente negativo. 7.- Croce, come ricorda l’A., oltre che da «protagonista sotto ogni aspetto della vita culturale» (pag. 67), pronunziava, peró, parole anche da «testimone» (pag. 66) di un’epoca, per certo, non felice per la massoneria perché il magistero massonico era dettato dalla profanità, visto che, chi entrava nel sodalizio massonico da ministro, era difficile che avvertisse poi anche il bisogno di apprendere qualcosa (sulla quale ultima emblematica affermazione vds nota 103 di pag. 67). Da qui, verosimilmente, un ulteriore motivo per alimentare, in Croce, un giudizio critico, tuttavia, secondo l’A., neppure da quest’ultimo profilo totalmente condivisibile. Se risponde, infatti, al vero che la massoneria non era stata capace di attuare la propria aspirazione universalistica proprio a causa di un conflitto interno, stante l’insanabile divi-

sione esistente fra le diverse Obbedienze – almeno in parte ancor oggi sussistente, né sanabile, a breve, stando almeno ai fatti, che, notoriamente, sono argomenti testardi (sul che è utile approfondimento la lettura del saggio di De Keghel, La massoneria in Europa – Una analisi geopolitica, Foggia, 2010, con mia Recensione comparsa alla pag. 149 e ss. del n. 4 e n. 1 dell’anno XXII e XXIII – dicembre 2010 e marzo 2011 – di Officinae) – era palese, invece, che la massoneria italiana, sul piano della realtà socio-politica, aveva operato positivamente. Non solo perché aveva pur sempre fornito al paese la sua classe dirigente. Ma anche perché, con varie forme e diversi risultati, aveva pur sempre tentato di far fronte alle sofferenze e ai problemi del giovane stato unitario. Si pensi, per rifarsi all’esempio più eclatante, alla lotta contro l’analfabetismo, condotta in attuazione, come non sarà inutile ricordare, dell’impegno di rimuovere gli ostacoli nello sviluppo degli individui e delle società, in termini permanenti assegnato alla massoneria dalle Costituzioni di Anderson. All’evidenza, tavola normativa largamente anticipatrice dell’uguale obbligo che, al secondo comma dell’art. 3, la Carta costituzionale assegna alla nostra Repubblica. Anche se non si deve poi negare che, nelle sue finalità immediate, v’erano pure aspirazioni sicuramente velleitarie. Come emerge leggendo (alla nota 81 di pag. 55) il programma culturale, sociale e politico del Gran Maestro Ettore Ferrari. Nel quale, fra gli altri obiettivi da raggiungere, figuravano il divorzio, la priorità del matrimonio civile, l’insegnamento laico, la compartecipazione agli utili con quota più remunerativa al lavoro. Progetto, quest’ultimo, ancor oggi, fortemente osteggiato. È, infine, inoltre vero che le sortite profane in politica e nell’impegno sociale, per la massoneria, si erano, talora, se non spesso, risolte in una cronaca scandalistica. La bontà di un ideale o anche solo di una istituzione, come ricorderà poi Fichte, non puó, tuttavia, misurarsi «da ció che effettivamente ne conseguono gli individui». Secondo il Nostro, il duro e severo giudizio di Croce deve essere, pertanto, ridimensionato, anche se lo si voglia valutare restando ancorati alla realtà fattuale. Anche se la negata condivisione alla stroncatura crociana, secondo l’A., deve essere poi desunta soprattutto dal carattere iniziatico, quale peculiarità e caratteristica, propria ed esclusiva, della massoneria. 8.- Nella visione crociana, massoneria e Settecento coincidono in toto perché, come si è visto, la massoneria si sarebbe limitata a ripetere, per di più in «formule trite e triviali»,


la filosofia del secolo dei lumi: un secolo da Croce, notoriamente, mai amato. L’errore più grave, secondo Meattini, consiste nel non essersi saputo, da parte di Croce, cogliere quanto di ben altro – e di proprio – esiste, invece, nella tradizione massonica. Codesto specifico argomento viene poi desunto dal pensiero di Fichte, che, come noto, ravvisa lo scopo della massoneria nel recupero dell’uomo nella sua pienezza, in presenza di una società che, per essere sempre più tecnologizzata, frantuma l’uomo perché lo specializza. Alla massoneria non possono, pertanto, essere assegnate le finalità proprie della scienza, della filosofia, della teologia e di qualsiasi altra attività intellettuale dell’uomo. Altrimenti diverrebbe superflua, se non, addirittura, «sommamente nociva». La massoneria, per il suo ubi consistam, deve, dunque, avere uno scopo suo proprio, diverso da qualsiasi diversa istituzione. Codesta finalità non puó, dunque, essere difforme da quello di educare l’uomo a superare ogni propria cultura specialistica, in quanto tale, unilaterale, a beneficio di una umanità, completa e totale, che lo recuperi alla sua essenza più profonda e al suo destino più autentico: esito dell’Uomo inteso come progetto e come compito nato dalla libertà. Quest’opera di riconquista, che sfocia nel divenire altro da sé, secondo Fichte – e l’A. concorda – non sarebbe possibile raggiungere al di fuori dell’associazione massonica, perché «ció che sorge e si coltiva in una comunanza coesa e affinata dalla consuetudine, ha maggior vita e forza per la prassi che non quanto viene generato nella solitudine» (pag. 74). Si potrebbe cosí ripetere: studium et collegia fecerunt me doctorem. Dove il confronto assicura inoltre la capacità di «innalzare anche altri» ad un grado non altrimenti raggiungibile al di fuori dell’Ordine massonico, perché, quando si conosce una cultura universalmente umana, non se ne puó trarre che beneficio fino al punto di aderirvi. Il che diventa criterio per una tegolatura corretta. Ricorda, infine, l’A. che i più recenti studi si muovono su questa stessa identica linea di pensiero che segna, per la massoneria, il distacco, sempre più progressivo e marcato, dalla politica, per dedicarsi, invece, alla realizzazione della vocazione sua propria: l’autoperfezionamento dell’uomo. 9.- Croce, durante il corso della sua non breve vita, non mutó mai opinione. Tanto da astenersi, al momento della dichiarazione di voto fatta al Senato del Regno nella tornata del 20 novembre 1925, in occasione della discussione della legge contro le Associazioni, non potendo, cosí motivó la sua scelta, da liberale, votare a favore di una legislazione liberticida,

zione di una «competenza in umanità» (pag. 83): continuo stimolo e ausilio ad una crescita che è «volontà di capire e di esperire la vita in modo più radicale» (pag. 83). Nella sfera iniziatica – e, opportunamente, l’A. insiste sul punto – si perde, cosí, ogni valutazione «solamente storico-culturale a favore di una radi-

Recensioni

da studioso, a favore della «mentalità massonica», quanto dire, di una ideologia «semplicistica ed antiquata», fermamente osteggiata. Pure perché – qualche anno prima (1918), in risposta ad una inchiesta promossa dalla Idea nazionale di Roma – aveva scritto testualmente: «Se io fossi massone (che non sono e non sono stato mai), promuoverei con tutte le mie forze, per la salvezza di quell’istituto, l’abolizione del cerimoniale e del segreto». Col che il filosofo, faceva salva, ad un tempo, la «propria coscienza» e il «proprio passato». Dal qual ultimo profilo risultava cosí riconfermato l’antico giudizio negativo, cosí radicalmente inflessibile, da avere autorizzato l’A. del saggio a sostenere che Croce fu il «più duro e dettagliato fra altri non teneri sulla massoneria» (pag. 17, in particolare, nota 1). Una simile opinione, alla luce delle plurime eccezioni addotte a contrasto, tuttavia, non regge al vaglio degli argomenti – anch’essi rigorosi – addotti dal Nostro in via confutativa. L’A., con fondamento, si sente, perció, legittimato a riequilibrare «sul piano storico e nella riconsiderazione storiografica, e su vasta scale, il giudizio negativo di Croce» (pag. 81). Anche perché la massoneria non rivendica diritti sul piano specifico, nel quale è stata contrastata, spesso, pure aggredita. La specificità della massoneria – scrive Meattini che, sul punto, ha ben presente il pensiero di Fichte – va, infatti, cercata altrove, risolvendosi in un «altro modo di sapere» (pag. 82), che si realizza all’interno di quella “piccola comunità” che è la loggia. Dove i partecipanti imparano a superare le loro specifiche competenze mondane, non in aggiunta o per semplice sommatoria. Ma partecipando al proprio e all’altrui sapere, in modo diverso da quello che intercorre fra specialisti, per ottenere, di conseguenza, una rielaborazione della propria personalità. Il cui esito è l’acquisi-

calità di ricerca altrimenti inaspettata» (pag. 87). Dunque. La massoneria moderna non «è espressione in tutto e per tutto del Settecento, come diceva Croce e come ripetono gli storici recenti per valutarla e talvolta rivalutarla», non potendosi ignorare che «su quell’atto di origine (…) sia cresciuta una ricerca di recuperi dettata dalla volontà di capire e di esperire la vita in modo più radicale» (pag. 83). E non v’è, davvero, conclusione più pertinente – e corretta – di questa, visto che il sapere in modo altro non puó essere mai disgiunto dalle proprie specializzazioni profane, visto che tutti si vive pur sempre nel mondo, a contatto, pertanto, con una cultura unilaterale e, dunque, parziale. 10.- Ci siamo limitati a ripercorrere le linee portanti del saggio segnalato, dal contenuto, peró, molto più ricco e articolato. Non ci si puó, pertanto, esimere dal segnalare al lettore il paragrafo dedicato dall’A. ai “Temi connessi” (pag. 35 e ss.), nei quali figura, fra l’altro, un’ampia trattazione al ruolo avuto dalla massoneria nel Risorgimento italiano. Negato da Croce perché «l’idea stessa dell’unità italiana nacque come motto d’ordine contro l’universale abbracciamento predicato dai francesi». Riconosciuto, invece, da altri AA., tutti, puntualmente, richiamati dal Nostro. Né di minore interesse è il tema della inconciliabilità fra massoneria e socialismo, sostenuta da Croce in termini peraltro cosí radicalmente antitetici, che, sotto «l’aspetto ideale», non pareva «dubbio» al filosofo che l’una fosse «destinata a distruggere» l’altro (socialismo), o viceversa. Mentre, sul piano fattuale, «la conciliazione, che ne è nata o ne nascerà, non possa essere se non apparente, e frutto di illusioni individuali e d’interessi transitori». Né poteva mancare un richiamo al problema della scuola e alla connessa tematica della presenza del Crocifisso nelle aule (pag. 45 e ss.): temi sui quali Croce si spese con considerazioni, ancor oggi, per certo, meritevoli di meditazione. Argomenti – questi ed altri – che avrebbero consigliato una trattazione ben più ampia del semplice accenno qui fatto, solo se la sede lo avesse consentito. Dove il

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rilievo, peró, si imponeva, a conferma di una ricchezza di temi, la cui importanza non puó sfuggire anche al meno attento dei lettori. 11.- Pubblicato da una casa editrice di Bari, che ha iniziato la propria attività con il volume proposto all’attenzione del lettore – alla quale non puó, pertanto, non rivolgersi ogni

Recensioni augurio di successo, non solo per avere esordito felicemente, ma anche per il coraggio dimostrato con l’iniziativa assunta, in un periodo economico, per certo, non facile – il saggio di Meattini induce ex se alla sua lettura, fin dalla copertina, dove figurano i ritratti di Croce e Fichte, disegnati da Renato Nosek, «amico discreto» dell’A., «ed eccellente pittore». L’opera si segnala, peró, soprattutto, per il suo solido impianto, per il suo spessore scientifico e la sua vastissima intensità culturale. Le “Note”, a piè di pagina, oltre a costituire un ampio e denso apparato critico, per la loro ricchezza, finiscono, infatti, per essere un altro testo: una sorta di controcanto che impreziosisce l’elevatezza del contenuto, svolto sempre con rigore e onestà intellettuale, oltre che con acutezza argomentativa e finezza stilistica. A sommesso, ma ponderato giudizio del suo recensore, un saggio, quello di Meattini, oltremodo pregevole, al quale, anziché una superflua fortuna, si augura, invece, di divenire un testo molto frequentato e, soprattutto, profondamente meditato, con tutta l’attenzione che, per certo, merita. Antonio Binni

Biblioteca minima

M. Galafate Orlandi, Atanor, Roma, 2012, pp. 174, € 15,00.

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er “Biblioteca” si intende di solito una raccolta di libri per uso di studio, oppure la si utilizza come titolo di collezioni di opere che trattano una determinata materia. È quest’ultimo il senso inteso dall’autore, il quale aggiunge “minima”, perché è evidente che la considera la quantità di libri più piccola possibile per raccontare la storia della Massoneria. Il materiale raccolto appare il frutto di una accurata ricerca, con particolare gusto per i particolari, che ha la capacità di produrre significati e di comunicare non soltanto notizie ma anche emozioni al fine di fornirci informazioni che si integrino poi le une con le altre. Una biblioteca, ancorché minima, è infatti tale se ciascun libro che ne fa parte interagisce con tutti gli altri. L’autore ha evidentemente fatto una scelta che appare

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dettata innanzitutto dalla sua convinzione che i libri debbano comunicare con il lettore per permettergli di entrare a far parte egli stesso delle vicende ivi narrate. I testi che ci vengono proposti appartengono a vari ambiti della cultura massonica ed appaiono scelti proprio con la visione di collegarli fra loro. Quelli che caratterizzano una particolare località geografica in cui è nata e si è sviluppata la Massoneria ne sono un esempio, essi costituiscono una delle partizioni del libro (storia, esoterismo, simbologia ed altre ancora) che permetteranno nuove e diverse sintesi. Esistono libri e libri, alcuni di questi seguono una ruotine ormai consolidata, mentre altri sono aperti anche a soluzioni diverse. Anche la cultura massonica può mummificarsi se non tiene conto degli eventi nel loro insieme e rimane invece ancorata a proposte e situazioni ormai stereotipate. L’autore, da parte sua, non ha comunque raccolto testi che uscissero volutamente da un tracciato consolidato, bensì quelli che potessero permettere di acquisire una conoscenza oggettiva della Massoneria, scevra da parzialità. Galafate Orlandi, come abbiamo già detto, ha costruito una biblioteca che, proprio perché la definisce minima, sa bene che deve essere frutto di una scelta ma sa altrettanto bene che questa non deve essere condizionante per il lettore. Questo è quanto afferma nella sua introduzione, “Ho cercato di soddisfare il desiderio di sapere che tutti abbiamo, i trentatre libri qui raccolti consentiranno ai lettori di conoscere l’esistenza di altri libri ancora, in quanto ad essi correlati per affinità di argomento o perché scritti dallo stesso autore, affinché ciascuno di noi possa successivamente approfondire a suo piacimento lo studio degli argomenti

che maggiormente lo interessano, per poi effettuare una selezione e costituire così la sua biblioteca personale”. Notiamo che la curiosità dell’autore ha spaziato a trecentosessanta gradi senza mai farsi guidare da faziosità intellettuale e neppure cedere alla tentazione di istituire gerarchie tra le informazioni. Il suo scopo appare quello di consentire ai lettori di trarre le proprie conclusioni senza condizionamenti di sorta. Un mio personale consiglio ai lettori: leggete innanzitutto la premessa e l’introduzione (io l’ho fatto), poi l’indice, e vi renderete così conto della struttura del libro e del criterio di partizione utilizzato. Il primo capitolo è dedicato alle origini, seguono poi tutti gli altri con un contenuto che è soltanto un aperitivo, perché il proposito dell’autore è quello di offrire, per settori, un panorama generale dell’universo Massoneria, in una parola: una guida. Si tratta di un aperitivo “robusto” che (questa è una riflessione che ho fatto soltanto dopo aver letto il libro dalla prima pagina all’ultima) si può sorseggiare ma anche bere tutto d’un fiato. Nel primo caso si leggeranno soltanto le citazioni, una di seguito all’altra, in quanto già di per se stesse rivelano cosa quel libro vuole comunicare. Nel secondo caso, invece, la lettura si estenderà anche alla parte, per così dire “descrittiva”, che non riassume, bensì ritrae con considerazioni di carattere generale che fungono da filo conduttore. Questa “Biblioteca minima” ci offre anche la possibilità di attingere ad informazioni di cui, forse, non conoscevamo l’esistenza. Come questa: “Nelle Costituzioni di Anderson leggiamo una affermazione che sa di leggenda ed è anche inesatta dal punto di vista storico perché la lingua ebraica discende da quella egizia [...] la scelta della lingua ebraica nella Massoneria è dovuta al fatto che la medesima nasce al tempo di Adamo ed è quindi la lingua più antica della storia [...]. La risposta di Saint-Gall è ancora una volta puntuale e, alla lettera “f” ci fa notare che nessuna parola in ebraico inizia in questo modo e pertanto quelle appartenenti a questa sezione non possono essere che deformazioni di parole ebraiche, oppure di diversa origine.” Per non dimenticare le riflessioni di Jean Barles, che sono illuminanti nel momento in cui lega l’evoluzione della Libera Muratoria a ciascun periodo storico di riferimento. In “Biblioteca minima” scorre il passato ed il presente della Massoneria, poi lascia intravedere quale potrebbe esserne il futuro, perché travalica i limiti geografici, politici e sociali per favorirne la visione d’insieme. Elena De Ricci


Pisa, simboli e Massoneria

ne il proprio occulto significato simbolico, stabilendo sul secondo piano, quello fisico, gli eventi che determineranno le vicende dell’intero racconto. La narrazione è ambientata in località reali, che interessano inizialmente Liguria e Piemonte, in seguito allargherà i propri confini a zone più lontane come Egitto, Ladakh,

I.Spadafora , ETS Editore, Pisa 2012, €. 24,00

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enza i sistemi simbolici non ci sarebbe cultura e civiltà. Pertanto i simboli sono necessari; ma possono anche essere deleteri per l’uomo: basti pensare ai massacri, a tutti gli atti che si sono commessi in politica e religione. In questo contesto s’inserisce anche la problematica della separazione fra simbolismo umanistico e simbolismo scientifico, e la conseguente specializzazione. Un aspetto di questa specializzazione è rappresentato dal rapporto tra religione e razionalità. Oggi le persone sono abituate a dare una spiegazione di ogni cosa; nelle religioni c’è un punto che per oltrepassarlo occorre un ‘salto di fede’. Il ragionamento scientifico e la sperimentazione sono in chiaro contrasto con la religione; ma i credenti devono essere sicuri che le dottrine in cui credono siano conformi alle verità note e soprattutto al più alto bene spirituale dell’umanità. Nathan così definisce la religione: “Perirono le religioni: vive immortale la religione, quel sentimento che ispira gli uomini a muovere innanzi e salire le vette inesplorate della civiltà, alla ricerca della legge, che li governa.” È difficile per l’uomo capire che le sue esigenze personali e i suoi bisogni individuali sono collegati alle problematiche più ampie, e oggi globali, che l’umanità ha di fronte. Forse la religione può essere in grado di far capire questo collegamento e di colmare il divario tra i numerosi e differenti interessi locali e gli obiettivi globali dominanti nella cultura mondiale. Fra i vari significati cosa si può associare alla parola ‘simbolo’ o ‘simbolico’? Qual è la natura del simbolismo, le sue caratteristiche, i suoi contenuti? Qual è stata la genesi del simbolismo? Questo studio cercherà di rispondere in maniera semplice a tali domande. Inoltre non vuole ambire alla completezza degli argomenti trattati, soprattutto perché si basa su emerografia e documentazione locali. Pertanto ho lasciato parlare soprattutto le fonti da cui ho attinto, cercando di influire il meno possibile sulle opinioni e sulle idee che il lettore si possa formare lungo la lettura del testo. Per questo motivo ho riportato queste mie fonti, ho dato largo spazio a piccoli casi locali, con l’ambizione che, parlando di micro-fatti, si potesse contribuire a far conoscere meglio il periodo di storia di riferimento (dal 1920 al 2000 circa). Come si dirà, si pensa che anche cambiamenti a livello mondiale possano avvenire

Recensioni

solo se c’è un cambiamento in noi stessi, e questo è il significato più profondo dell’esoterismo e del simbolismo hiramico. Ho dato maggior evidenza ai rapporti, e quindi ai documenti e ai giornali, che trattassero le relazioni fra Chiesa cattolica e Massoneria, con uno sguardo alle vicende e ai personaggi del ventennio fascista. Inoltre ritenendo che la memoria ‘storica’ vada di tanto in tanto rinverdita perché sussiste il reale pericolo che possa venire a mancare, ho riportato, per quanto mi è stato possibile, i nominativi coinvolti con le più importanti vicende pisane e italiane, che si riferiscono al periodo preso in considerazione (19202000 circa). L’autore ringrazia sentitamente i Gran Maestri Luigi Pruneti e Gustavo Raffi, rispettivamente, della Gran Loggia d’Italia e del Grande Oriente d’Italia, che, con il loro rilevante contributo, hanno arricchito il testo di questo libro. La Redazione

Inghilterra ... Parte integrante del testo è la ricca simbologia esoterica che propone un filo conduttore in grado di accompagnare il lettore attraverso dimensioni non sempre conosciute. Tali dimensioni, appartenenti a vari modelli metafisici, sono oggetto d’indagine dei protagonisti della storia che risulteranno sostanzialmente modificati dal contatto reale con le esperienze ad esse correlate. Ad alleggerire i toni della narrazione provvedono delle descrizioni estemporanee di piccoli eventi quotidiani inserite nel testo con la necessaria naturalezza. Guglielmo, il protagonista, uscirà dalla storia completamente trasformato: il mondo delle apparenze non sarà, per lui, mai più lo stesso, il senso della vita verrà modificato, così come sarà spostato il baricentro della sua percezione dell’oggettività. L’annullamento delle “certezze” condurrà Guglielmo verso una nuova consapevolezza, consentendogli di effettuare quel “salto quantico” ricercato dai Maestri di saggezza. Molte delle esperienze descritte nel racconto sono state sperimentate in prima persona dall’Autore, che da anni si occupa di argomenti legati alle discipline ermetiche. La

La danza dei tarocchi

G. Guerreri, e-book, Mondi Velati Editore, 2012, pp. 379, con disegni e immagini a colori, €. 6,99.

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n percorso iniziatico nato dall’esperienza diretta dell’Autore, un racconto complesso che traduce la magica alchimia, celata nella simbologia del Tarocco, in un lungo cammino orientato verso la crescita personale. L’intera vicenda costruisce il proprio sviluppo su due piani, distinti ma correlati: il piano metafisico, ove opera l’inquietante figura del Demiurgo, ospita le ventidue Lame degli Arcani maggiori del Tarocco. Le Figure, inizialmente non visibili, sveleranno con l’evolversi della narrazio-

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sua formazione culturale trae tuttavia origine da studi scientifici coltivati nella città di Torino, ove ha conseguito il diploma di Laurea in Scienze Biologiche. Questa apparente contraddizione compare tra le pagine del romanzo, creando un dialogo aperto tra punti di vista differenti ma

Recensioni compatibili. Il lavoro dell’Autore si traduce nella ricerca di un equilibrio tra le opposte posizioni, lasciando alla sensibilità del lettore la scelta del riferimento più convincente. Descrivere una trama riconducibile ad un complesso percorso iniziatico, utilizzando riferimenti geografici reali ha comportato oggettive difficoltà. Tali ostacoli si sono successivamente tradotti in concrete opportunità, che attraverso alcuni meccanismi sconosciuti anche all’Autore, hanno reso possibile presentare una logica conclusione degli eventi. Un aspetto non trascurabile del testo è dato dalla presenza di alcune terzine organizzate in endecasillabi: tali espressioni poetiche costituiscono una struttura semantica che agisce all’interno del testo come originale chiave di decifrazione. La narrazione si conclude in Liguria, sull’Isola di Bergeggi, nel punto preciso ove era iniziata, riproponendo la logica occulta del serpente Uroborus. La natura dei luoghi non risulta modificata, mentre la Natura spirituale del protagonista rivela i cambiamenti attesi da un processo evolutivo, armonicamente maturato sulle note di una danza arcana e occulta. La Redazione Il romanzo può essere scaricato dai seguenti siti:

ibook store / amazon / ultimabooks.it / ibs. it / la feltrinelli / net-ebook.it / cubolibri.it / book republic / ebookizzati.it / libreriauniversitaria.it / deastore.itwebster.itunilibro. itmrebookebook.itomniabuk.comkobobooks.itsanpaolostore.it / libramente.it

Mussolini a pieni voti?

Da Facta al Duce. Inediti sulla crisi del 1922 a. c. di Aldo A. Mola, edizioni del Capricorno Torino, pp. 375, €. 25.

È

in libreria Mussolini a pieni voti? Da Facta al Duce. Inediti sulla crisi del 1922 a cura di Aldo A. Mola (edizioni del Capricorno, Torino, pp. 375, euro 25), con saggi di An-

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tonino Zarcone sul discusso rapporto tra Forze Armate e fascismo e di Gian Paolo Ferraioli sull’incidenza della politica estera nell’avvento del governo Mussolini. Il volume pubblica i verbali sinora inediti dei due governi presieduti da Luigi Facta (febbraio-ottobre 1922) e dei due primi mesi del governo Mussolini (1 novembre - 30 dicembre 1922), quelli decisivi. Produce inoltre dispacci dell’Ufficio Cifra del Ministero dell’Interno in arrivo e in partenza dall’agosto a inizio novembre 1922 e il Diario della Casa Militare del Re dall’1 gennaio al 31 dicembre 1922. Sono documenti “secchi”: il film di quanto veramente accadde. Storico dell’età giolittiana in senso lato e autore di varie opere di ampio raggio qui Mola si ritaglia appena un “cantuccio”: una cronologia degli eventi (che nell’ottobre 1922 diviene incalzante e nei giorni decisivi scandisce di ora in ora gli eventi, spazzando via fiabe e chiacchiere) e una asciutta introduzione alla nascita del governo di unione nazionale presieduto da Mussolini, incaricato da Vittorio Emanuele III il 30 ottobre, insediato il 31 e al lavoro dall’1 novembre. La leggendaria “marcia su Roma”, documenta Mola, non ebbe mai luogo. Si ridusse da “rivoluzione” a sfilata degli squadristi (25.000?) da Piazza del Popolo alla Stazione Termini, donde il grosso tornò a casa con treni speciali frettolosamente allestiti dal governo stesso. Il corteo venne preceduto dalla banda musicale della Città Eterna: una sagra del…Bel Paese. Documenti e ampia letteratura storica alla mano, il libro risponde a un ampio ventaglio di domande e chiarisce in specie perché il re non firmò lo stato d’assedio deliberato dal governo Facta. Questo il 27 sera si occupò di faccende del tutto secondarie (inclusa la disciplina su accendini e pietre focaie mentre era in

corso la mobilitazione delle “squadre”), deliberò di dimettersi e andò a dormire come nulla fosse. Del resto, da tempo aveva autorizzato l’Esercito a usare le armi e ordinato di arrestare i capi dell’eversione. Però tutti i maggiorenti costituzionali volevano i fascisti al governo. Lo stato d’assedio, ricorda il curatore, avrebbe sostituito i codici militari a quelli ordinari e scatenato un’assurda guerra civile, che nessuno voleva. Solo Vittorio Emanuele III fronteggiò la crisi e le dette soluzione extraparlamentare ma statutaria, come tante volte in passato. Mussolini formò un esecutivo con tre ministri fascisti mentre i più erano nazionalisti, popolari (cattolici), liberali, democratici e democratici sociali guidati da Colonna di Cesarò, massone come altri ministri e sottosegretari. Nel viaggio da Milano a Roma, nella notte tra il 29 e il 30 ottobre, la lista dei ministri comprendeva il socialista Gino Baldesi e il liberista Luigi Einaudi che chiedeva “tagli, tagli, tagli” per quadrare i conti dello Stato e delle pubbliche amministrazioni: come poi fece il governo Mussolini con Albero De Stefani alle Finanze e Giovanni Gentile all’Istruzione, il generale Diaz alla Guerra e alla Marina Paolo Thaon di Revel, componente del supremo consiglio del Rito Scozzese antico e accettato della Gran Loggia d’Italia. Il governo ottenne e usò pieno poteri per razionalizzare le spese, a cominciare dai pubblici impiegati parassitari, drasticamente ridotti, come da anni chiedevano Giolitti, Einaudi, Orlando e tutte le persone di buon senso. Il 16 novembre il governo ebbe la fiducia della Camera (306 “si”, 116 “no”: i fascisti erano appena 35) e successivamente quella del Senato, ove si contava un solo pater fascista su 398. Giolitti sentenziò: “Questa Camera ha il governo che si merita. Essa non ha saputo darsi, in varie crisi, un governo e il Paese se lo è dato da sé”. Ma, ricorda Mola, il governo del 1922 in sé non conteneva affatto né il regime di partito unico, né le leggi razziali del 1938, né il Patto di Acciaio con la Germania e l’ingresso in guerra a fianco di Hitler. A chiedere il voto a suo favore fu Alcide De Gasperi, capo dei “popolari”, che avevano al governo ministri e sottosegretari, tra i quali Giovanni Gronchi. Mussolini ebbe anche il viatico delle due Obbedienze massoniche (Gran Loggia e Grande Oriente d’Italia), della Chiesa cattolica, della Confindustria, di molti sindacati e, ben presto, dei governi di Londra e di Washington. La “grande stampa” (Corriere della Sera, Stampa, Messaggero…) approvò in pieno. Dal canto loro i comunisti erano a Mosca, impegnati nel congresso della Terza Internazionale che espulse i massoni, agenti del nemico di classe; i socialisti si proclamavo indifferenti al crollo delle istituzioni


borghesi. Tra l’insediamento del governo di unione nazionale e il discorso del 3 gennaio 1925 con il quale Mussolini annunciò la svolta verso il regime passarono ventisei mesi. Liberaldemocratici, socialisti, repubblicani c’erano ancora ma non batterono il colpo. Erano fantasmi. Poi addossarono la “colpa di tutto” a Vittorio Emanuele III e ne fecero il capro espiatorio della loro inconcludenza. E’ la leggenda usata per restituire verginità ai partiti del Comitato di liberazione nazionale che tennero a balia la repubblica ora allo stremo. “Con questo libro – dice Mola – non pretendo; protendo invece documenti, sperando che vengano letti da chi fa informazione, sia dalle cattedre sia dai media”. Ingenuità? Ottimismo? La Redazione

conflitto mondiale. Sul grande palcoscenico della storia si alternano così l’assassinio di re Umberto, la grande guerra, la crisi politica e economica dei giorni della pace, l’occupazione delle fabbriche del 1920, le violenze di Firenze e di Bologna del 1921. Governi deboli e incapaci si susseguono in quest’arco di tempo, mentre sull’altra sponda dell’Adriatico le grandi potenze decretano, a dispetto dell’Italia, la morte del Regno di Nicola di Montenegro e il sorgere di un nuovo, vasto soggetto balcanico: la Jugoslavia. Sullo sfondo di momenti drammatici, di scelte e di non scelte, spesso epocali, si proietta sempre l’ombra della massoneria capace d’incidere sul corso della storia di quegli anni. Se, infatti, il Grande Oriente ‘Italia, si mostra soggetto alle principali Comunioni transalpine, la Serenissima Gran Loggia d’Italia, sotto la guida di Vittorio Raoul Palermi, insegue un sogno di predominio massonico, forte dei successi ottenuti a Losanna e della crescita esponenziale del numero degli iscritti. Ne fuoriesce un volume che, pur nella sua sinteticità, formula prospettive di ricerca nuove, ipotesi diverse da quelle comunemente accettate e che per di più, senza rinunciare alla prova documentata e al valore scientifico della ricerca, si legge come un romanzo, ove amore e odio, guerra e speranza contribuiscono a creare un complesso affresco della comédie humaine. La Redazione

La fiaba popolare è un immenso serbatoio di storie in cui sono perfettamente riconoscibili i motivi dominanti di una cultura folclorica o della tradizione specifica di un gruppo d’uomini che venivano chiamati pagani o gli abitanti del pagus, ossia la cima di un monte o di un colle su cui la gente rurale si poteva ritirare con la famiglia e il bestiame, un luogo riparato le cui

Recensioni sole voci erano i suoni e i rumori della natura, a volte conosciuta e spesso ignota. La storia della fiaba sta nel non averne, nel restare abbastanza regolarmente ai margini delle grandi correnti incivilitrici. La storia della civilizzazione del pagus è una vicenda di continue riconquiste, di equilibri instabili con il potere centrale, di strenue resistenze, di improvvise rivolte e, di conseguenza, di feroci repressioni. L’ordito sul quale è intessuta la sua cultura spirituale ha nelle sue trame religiose le superstizioni idolatre e demoniache, non meno di quanto, nelle sue trame civili, presenti forme di interazione sociale, economica e giuridica del tutto particolari. “Da sempre l’immaginario collettivo è stato popolato da figure elusive, - scrive Luigi Pruneti all’inizio del suo incantevole libro Folletti e gnomi e oscure presenze in Toscana e nel mondo che stiamo presentando - da presenze ora malvagie, ora protettive, di natura difficilmente definibile. Di volta in volta sono state reputate demoni o spiriti disincarnati, oppure forze della natura riferibili alla dimensione del sacro”. Fate e folletti, gnomi ed elfi, fate e ninfe (e quanti

A volte s’incontrano...

Folletti e gnomi e oscure presenze in Toscana e nel mondo.

Aquile e Corone

L’Italia il Montenegro e la massoneria dalle nozze di Vittorio IIII ed Elena al governo Mussolini, di L. Pruneti; con introduzione di A. A. Mola, Le Lettere, Firenze 2012, pp. 170, €. 16,00.

A

quile e Corone è un libro nato da un’approfondita ricerca che si è avvalsa non solo di vaste letture ma anche dall’esame di numerosi documenti, spesso inediti, dell’Archivio dello Stato Maggiore dell’Esercito e di vari fondi massonici. Il periodo preso in esame ha inizio con il matrimonio di Vittorio Emanuele III e di Elena di Montenegro. Le vicende della coppia reale, definita da Danis Mack Smith la “più felice dell’età moderna”, è il file rouge della narrazione che esamina la politica estera italiana e le sue ambizioni egemoniche nello scacchiere adriatico, prima durante e dopo il primo

Luigi Pruneti. Prefazione di P. A. Rossi, Realizzazione grafica di P. Del Freo, Disegni G. Crocini, foto di G. Di Gaddo. Editrice Le Lettere, Firenze, 2012.

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ometimes they meet, precisely because sometimes they come back, ossia ‘a volte essi s’incontrano proprio perché essi ritornano’. Ma chi e dove? Sono i personaggi della fiaba in diversi e straordinari momenti della nostra vita, cioè l’elemento immaginativo frutto di inventiva, ma non irreale, fittizio e inimmaginabile, perché il magico e l’incantato sono la caratteristica peculiare dei racconti di fantasy, i quali percorrono la nostra esistenza accanto alla concretezza e alla materialità del mondo reale come il sogno a fianco alle figure esteriori della veglia, come la visione onirica all’essere desti, come il viaggio iniziatico che conduce l’uomo alla presenza dell’ineffabile mistero divino che ha come proprie condizioni essenziali l’essere puri e liberi dai vincoli corporei1.

1 Aletheia e doxa sono fra loro diverse come la veglia e il sonno, ma non inverse [Platone, Polit. 278c-e.].

altri innumerevoli nomi vengono usati)… sono la gente del mondo invisibile abitato dal “Piccolo Popolo” o “Popolo delle Colline”: Sidhe è la parola gaelica che denota e individua il popolo fatato e suggerisce che si tratta dell’immagine evocativa del mondo spirituale. “Nell’età classica – aggiunge Luigi Pruneti - ac-

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Recensioni

canto alle striges, apparvero incubi e fauni, sileni e ninfe, naiadi, satiri, nereidi, oceanine, amadriadi e demoni senza nome che, in taluni casi, divennero ispiratori di filosofi. Chi erano in realtà queste presenze così misteriose e al tempo stesso tanto concrete da condizionare la vita degli uomini? Porfirio cercò di fornire una risposta definendole “una classe di esseri intermedi tra l’uomo e gli dei, che si compiace di assumere quante più forme possibili, da quella dell’uomo a quella di animali”, riprendendo la grande teoria del mito platonico del Convivio dove narra la genealogia di Eros “non uomo né dio, ma daimon”. Dall’Alto Medioevo in poi il piccolo popolo diventa smisurato, immenso, immane …; ogni popolo, etnia, regione, villaggio … ha i suoi spiritelli che vivono in mezzo agli uomini e che, quando lo vogliono, si fanno vedere … dal focolare alla stalla, dalle boscaglie agli acquitrini, dagli stagni ai campi coltivati … un mondo marginale sommerso dai sussurri e dalla grida del panteismo naturalistico per cui l’universo o la natura sono equiparabili e corrispondenti a Dio. Se cercassimo di trovare i nomi, le ragioni da cui provengono, le loro fattezze e le azioni che questi compiono non la finiremmo più … sarebbe una vera enciclopedia di varie migliaia di voci. Fermandosi all’Italia e citare soltanto i nomi degli appartenenti al piccolo popolo nei vari dialetti avrebbe preso una vita di studi sia da un punto di vista storico che filologico. Anche quando la Chiesa riconobbe che gli ultimi residui del paganesimo sembravano scomparire, boschi, fonti, fiumi ed edifici continuarono a essere popolati da un popolo misterioso, da presenze oscure, alcune volte benevole, altre volte malevole. Luigi Pruneti ha fatto molto bene a circoscrivere la sua narrazione alla Toscana e più propriamente alle leggende lucchesi e fiorentine. È vero che dedica la prima parte (settanta pagine) sull’origine e diffusione del piccolo popolo sia nei paesi extraeuropei che in Europa e principalmente in Italia, ma ciò rappresenta una prefazione alla Toscana dove il Nostro Autore, essendo un affabulatore di vaglia, un novellie-

re abile, un narratore esperto …, ha voluto dare un campione della sua valentia da prosatore e saggista a favore del lettore che da un lavoro del genere non si aspetta certo un saggio enciclopedico. “L’Europa annovera numerosi elementali, la gran quantità di folletti, elfi, fate e gnomi è dovuta sia all’apporto di culture e civiltà diverse, sia all’attenzione con la quale il fenomeno è stato studiato. Pertanto, dagli Urali all’Atlantico, dal Mediterraneo alla Scozia, si contano molte presenze … questi esseri hanno caratteristiche simili, in altri casi ciò che cambia sono solo il nome ed alcuni dettagli minimi. Sarebbe impossibile fare una disamina completa della sterminata famiglia dei folletti del vecchio continente, vale la pena, comunque, indicarne alcuni che, per caratteristiche e comportamento, sono particolarmente significativi… I fenotipi principali degli elementali sono relativamente pochi, ma ogni categoria comprende un numero elevato di esemplari che spesso si distinguono solo per il nome o per dettagli di relativa importanza. L’Italia ne vanta moltissimi, sono tutti simili ma con aspetti tipici, desunti dalla cultura, dalla storia e dagli orizzonti collettivi della regione che li ospita”. Il famosissimo medico del ‘500 Filippus Aureolus Theofrastus Bombastus von Hohneheim scriveva: “Mi propongo d’intrattenervi sulle quattro specie d’esseri di natura spirituale, cioè le Ninfe, i Pigmei, i Silfi e le Salamandre; a queste quattro specie, per la verità, bisognerebbe aggiungere i Giganti e parecchie altre. Questi esseri, benché abbiano apparenza umana, non discendono affatto da Adamo; hanno un’origine del tutto differente da quella degli uomini e da quella degli animali... Però si accoppiano con l’uomo, e da questa unione nascono individui di razza umana”2. Il De Nymphis, Sylphis, Pygmaeis et Salamandris et coeteris spiritibus di Paracelso è la prima fonte in cui incontriamo nella storia letteraria occidentale il piccolo popolo degli elementi. Il mondo dei salamandri, degli gno2 Paracelso, Scritti alchemici e magici¸ Genova 1991, ed. Phoenix, pp. 17-32.

mi, degli ondini e dei silfidi, proveniente, in varie forme e coloriture, dalla cultura e dal folklore dei popoli centroeuropei, fa il suo primo ingresso nella letteratura magica proprio nell’opera di Paracelso. Da questo momento le credenze e le leggende attinenti a queste specie d’esseri di natura spirituale si sono dimostrate più forti dello durata del tempo, sopravvivendo ancora oggi nelle leggende e nei racconti popolari. Insieme alla mitologia e alle fiabe descrivono l’elemento fondamentale della letteratura fantastica. “La varietà delle tipologie italiane è, comunque, in linea con la casistica europea: gli spiriti familiari sono i più rappresentati, seguono quelli silvestri e per terzi vengono le entità legate all’acqua e all’aria; rare, infine, sono quelle dipendenti dal fuoco”. Luigi Pruneti ricorda nello specifico: “Folletti più o meno celebri nelle memorie toscane, Gli elementali nelle leggende fiorentine, I big: il Linchetto e i suoi parenti, Fate e altri elementali minori, Esseri volanti poco raccomandabili e rettili da incubo, Esseri infestanti di dubbia natura, Mal compagnie, Esseri acquatici, L’Omo selvatico, l’Orco e la Befana” e termina con gli spauracchi dei bambini, diffusi in ogni angolo della terra ma che hanno solo una parentela alla lontana con il piccolo popolo. Essi sono stati, infatti, partoriti dalla creatività dei genitori che, attraverso la paura, cercavano di tener lontano la loro prole da luoghi o da situazioni pericolose Alla fine di questo viaggio nell’immaginario collettivo toscano – termina Luigi Pruneti sorge spontanea una domanda: nella regione vi sono esseri capaci di far accapponare la pelle? Presenze feroci, di quelle che hanno ispirato e continuano a ispirare film e romanzi horror? Il lupo mannaro in ululati nella notte, e i vampiri etrusci da quei silenziosi sepolcri. Charles Baudelalre in Il viaggio - da I fiori del male – scrive sul piccolo mondo: Ah, que le monde est grand à la clarté des lampes! / Aux yeux du souvenir que le monde est petit! [Ah, com’è grande il mondo al lume delle lampade! / Agli occhi della memoria, come è piccolo!] Paolo Aldo Rossi e Ida Li Vigni


R.L. Bereshit Oriente di Sanremo

R.L. Aleph Oriente di Lecce

I

‘A

R.L. Virgo Oriente di Roma

I

l geroglifico di Virgo, sesta costellazione dello zodiaco, ne esprime perfettamente il simbolismo. Ha la forma della lettera emme maiuscola alla quale si collega un segno interpretato come una specie di enne. La emme simboleggerebbe il principio femminile, la enne il frutto della donna. È il principio femminile che, fecondato dallo Spirito, genera, ovvero si tramuta nel Figlio. Rappresenta metafisicamente la fine dell'involuzione nella materia dell'entità in via di manifestazione, e, nello stesso tempo, il suo passaggio dalla curva involutiva alla curva evolutiva, cioè dall'individuazione e dalla coscienza distintiva dell'io e del non io e degli opposti, a quello della coscienza intuitiva dell'unità cosmica. Psicologicamente rappresenta l'inizio di una crescita interiore, di una maturazione intellettiva, di un ribaltamento di direzione. Virgo simboleggia la logica, l'intelletto che stabilisce rapporti e legami fra manifestato e non manifestato, e fra gli esseri del manifestato poiché presiede anche agli scambi, alle trattative. Ma allude anche all'intelligenza ricettiva, la quale concepisce e trasmette quella Luce che trasmuta e apre la via verso le regioni superiori dello spirito. Tutto ciò è molto ben espresso dalla nostra Obbedienza, la Gran Loggia d'Italia, che ha ridato dignità iniziatica alla Donna, 'raccogliendo' nel suo ambito "le due metà del Cielo".

l Gioiello della R.L.Bereshit, in bronzo dorato, raffigura, in rilievo, una squadra ed un compasso in grado di Apprendista che racchiudono, alloro interno, la lettera Beth. Questa è la prima lettera della parola Bereshit (in principio), titolo distintivo della Loggia. - Valore numerologico: 2 Tramite questo numero lo spirito crea ed organizza l'Universo. - Significato Kabbalistico: il Creato - Per i Kabbalisti la lettera BETH deriva da un antico ideogramma che rappresentava un Tempio. Contiene le chiavi della Conoscenza e simboleggia quindi il Tempio che si crea dalla forza interiore. - Corrispondenza astrologica: Saturno. Questo pianeta dà forma alla realtà astratta o sottile per incarnarsi nel piano materiale. - Sentiero: 12° Kether/Binar. Sentiero dell’intuizione. - Corrispondenza Tarocchi: la Papessa. Questa lama indica che il contatto con Dio è possibile solo attraverso una qualità femminile: la ricettività. Con questa raffigurazione si è voluto simboleggiare l'indirizzo primario della R.L.Bereshit: sviluppare con metodo sistematico ed approfondito, tramite i Lavori di Officina, quella ricerca esoterica suggerita dai nostri Statuti Generali e dalla nostra Ritualità, finalizzata alla costruzione del Tempio Interiore che ci consenta di sviluppare un maggior afflato con tutte le nostre Sorelle e i nostri Fratelli ed attuare, altresì, un mirato e qualificato proselitismo fra gli Uomini liberi e di buoni costumi, propedeutico alla costante crescita della Loggia, dell'Oriente e della nostra Obbedienza.

leph’ è la prima lettera dell’alfabeto ebraico, nel quale è una delle tre lettere Madri insieme a ‘Mem’ e ‘Shin’. È il simbolo dell’inizio e della fine, nonché dell’Universo e sintetizza tutti gli stadi della Creazione. Simbolizza allo stesso tempo l’uomo universale, ‘Adam’, la più nobile delle creazioni di Dio, il principio astratto delle cose, l’Antico dei giorni, ‘l’Ain soph’, che contiene il principio e lo sviluppo definitivo e potenziale dall’Alfa all’Omega. Aleph è anche unione degli opposti, segna la soglia tra il manifesto e l’inconoscibile, tra il segreto e il risvelato, fra il potenziale e l’attuale. La ‘Aleph’ è composta da due punti e una linea, cioè due ‘Yod’ e una ‘Vav’. Il punto in alto rappresenta le acque superiori, onde di conoscenza pura e illuminata; il punto basso sta per le acque inferiori, l’insieme di emotività umana affettiva e istintuale, con i suoi moti a volte sereni a volte turbinosi. La linea ‘Vav’ unisce e media i due punti. ‘Aleph’ significa ‘insegnare’. È la promessa fatta da Dio di insegnarci la sapienza superiore. Il nome ‘Aleph’ sottolinea l’importanza dello studio della verità esoterica che secondo il pensiero ebraico è il più nobile che l’essere umano possa compiere. Il Massone, prescindendo dalla religione, dalla razza o dal sesso, è chiamato a partecipare al lavoro di ultimazione del processo creativo: il nostro compito è Riparare e Rettificare, cioè Fare. Forse l’insegnamento di ‘Aleph’ è l’unione dell’intera Famiglia archetipa che deve fondersi in un’unica espressione, l’Uomo Nuovo che sarà Avo, Padre e Madre, Fratello e Sorella, perfino Partner Eterno di sé stesso.

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R.L. Stupor Mundi Oriente di Taranto

I

l Il sigillo reca l’immagine di Federico II di Svevia assiso su trono. In primo piano squadra e compasso, il triangolo sacro contenente l’occhio

R.L. Oltre il Cielo Oriente di Lecco

L

e notti stellate della Brianza, nostra fertile ed operosa terra di appartenenza, hanno ispirato ai Fr. fondatori il nome di questa Loggia, creata nel 2007, che vuole essere un invito a ‘considerare’. Questa azione, dal latino sider, ha il significato di ‘agire con gli astri’, di uno slancio metafisico verso

del G.A.D.U. Con tale simbolismo la Loggia vuole rappresentare il desiderio di ricerca della conoscenza che supera le barriere socio-culturali che ancora oggi caratterizzano spesso profonde divisioni fra i popoli, impedendo pace e progresso all’intera umanità.

l’alto, verso il gadu, al quale tendiamo con tutta la forza del nostro sacro trinomio: Libertà, Uguaglianza, Fratellanza. Il Fregio raffigura un cielo stellato nel quale campeggia l’Orsa Maggiore e le imponenti montagne - manifestazione della Natura - che dominano il paesaggio del lago. La squadra e il compasso sottolineano la nostra vocazione massonica intesa a lavorare serenamente e armoniosamente per il bene della Patria e dell’Umanità.

La sequenza dei Fregi è in ordine alfabetico per denominazione di Loggia e successivamente per Oriente.

R∴L∴ 14 Juillet Or∴di Savona R∴L∴ 4 Giugno 1270 R.G. Or∴di Viterbo R∴L∴ Ab Initio Or∴di Portoferraio R∴L∴ Ad Justitiam Or∴di Lucca R∴L∴ Aetruria Nova Or∴di Versilia R∴L∴ Alef Or∴di Viareggio R∴L∴ Aleph Or∴di Lecce R∴L∴ Alma Mater Or∴di Arezzo R∴L∴ Anita Garibaldi Or∴di Firenze R∴L∴ A.Garibaldi/A.Giulie Or∴di Livorno R∴L∴ Antares Or∴di Firenze R∴L∴ Antropos Or∴di Forlì R∴L∴ Archita Or∴di Taranto R∴L∴ Aristotele II Or∴di Bologna R∴L∴ Astrolabio Or∴di Grosseto R∴L∴ Athanor Or∴di Brescia R∴L∴ Athanor Or∴di Cosenza R∴L∴ Athanor Or∴di Pinerolo R∴L∴ Athanor Or∴di Rovigo R∴L∴ Athena Or∴di Pinerolo R∴L∴ Atlantide Or∴di Pinerolo R∴L∴ Audere Semper Or∴di Firenze R∴L∴ Augusta Or∴di Torino R∴L∴ Aurora Or∴di Genova R∴L∴ Ausonia Or∴di Siena R∴L∴ Ausonia Or∴di Torino R∴L∴ Bereshit Or∴di Sanremo R∴L∴ C. B.Conte di Cavour Or∴di Arezzo R∴L∴ C. Rosen Kreutz Or∴di Siena R∴L∴ Carlo Fajani Or∴di Ancona R∴L∴ Cartesio Or∴di Firenze R∴L∴ Cattaneo Or∴di Firenze R∴L∴ Cavour Or∴di Prato R∴L∴ Cavour Or∴di Vercelli R∴L∴ Chevaliers d’Orient Or∴di Beirut R∴L∴ Cidnea Or∴di Brescia R∴L∴ Clara Vallis Or∴di Como R∴L∴ Concordia Or∴di Asti R∴L∴ Corona Ferrea Or∴di Monza R∴L∴ Cosmo Or∴di Argentario Albinia R∴L∴ Costantino Nigra Or∴di Torino R∴L∴ D.Di Marco Or∴di Piedim.Matese R∴L∴ Dei Trecento Or∴di Treviso R∴L∴ Delta Or∴di Bologna R∴L∴ Eleuteria Or∴di Catania R∴L∴ Eleuteria Or∴di Pietra Ligure R∴L∴ Emanuele De Deo Or∴di Bari

R∴L∴ Enrico Fermi Or∴di Milano R∴L∴ EOS Or∴di Bari R∴L∴ Erasmo Or∴di Torino R∴L∴ Ermete Or∴di Bologna R∴L∴ Etruria Or∴di Siena R∴L∴ Excalibur Or∴di Trieste R∴L∴ Falesia Or∴di Piombino R∴L∴ Fargnoli Or∴di Viterbo R∴L∴ Fedeli d’Amore Or∴di Vicenza R∴L∴ Federico II Or∴di Firenze R∴L∴ Federico II Or∴di Jesi R∴L∴ Fenice Or∴di Spotorno R∴L∴ F.Rodriguez y Baena Or∴di Milano R∴L∴ Fidelitas Or∴di Firenze R∴L∴ Fra Pantaleo Or∴di Castelvetrano R∴L∴ Fratelli Cairoli Or∴di Pavia R∴L∴ Galahad Or∴di Roma R∴L∴ G.Ghinazzi Or∴di Roma R∴L∴ G.Mazzini Or∴di Livorno R∴L∴ G.Mazzini Or∴di Parma R∴L∴ G.Biancheri Or∴di Ventimiglia R∴L∴ G.Bruno - S.La Torre Or∴di Roma R∴L∴ G.Papini Or∴di Roma R∴L∴ Garibaldi Or∴di Castiglione R∴L∴ Garibaldi Or∴di Cosenza R∴L∴ Garibaldi Or∴di Mazara del Vallo R∴L∴ Garibaldi Or∴di Toronto R∴L∴ Gaspare Spontini Or∴di Jesi R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di Catanzaro R∴L∴ Gianni Cazzani Or∴di Pavia R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di Firenze R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di R.Calabria R∴L∴ Giosuè Carducci Or∴di Follonica R∴L∴ Giosuè Carducci Or∴di Partanna R∴L∴ Giovanni Bovio Or∴di Bari R∴L∴ Giovanni Pascoli Or∴di Forlì R∴L∴ Giovanni Risi Or∴di Firenze R∴L∴ Giustizia e Libertà Or∴di Roma R∴L∴ Goldoni Or∴di Londra R∴L∴ Graal Or∴di Livorno R∴L∴ Herdonea Or∴di Foggia R∴L∴ Hiram Or∴di Bologna R∴L∴ Hiram Or∴di Sanremo R∴L∴ Hispaniola Or∴di Santo Domingo R∴L∴ Horus Or∴di Padova R∴L∴ Horus Or∴di Pinerolo R∴L∴ Horus Or∴di R.Calabria

R∴L∴ Humanitas Or∴di Pistoia R∴L∴ Humanitas Or∴di Treviso R∴L∴ Ibis Or∴di Torino R∴L∴ Il Cenacolo Or∴di Pescara R∴L∴ Il Nuovo Pensiero Or∴di Catanzaro R∴L∴ Internazionale Or∴di Sanremo R∴L∴ Iter Virtutis Or∴di Pisa R∴L∴ Jakin e Boaz Or∴di Milano R∴L∴ Kipling Or∴di Firenze R∴L∴ La Fenice Or∴di Bari R∴L∴ La Fenice Or∴di Chieti R∴L∴ La Fenice Or∴di Forlì R∴L∴ La Fenice Or∴di Livorno R∴L∴ La Fenice Or∴di Pieve a Nievole R∴L∴ La Fenice Or∴di Rovato R∴L∴ La Prealpina Or∴di Biella R∴L∴ La Silenceuse Or∴di Cuneo R∴L∴ Le Melagrane Or∴di Padova R∴L∴ Leonardo da Vinci Or∴di Taranto R∴L∴ Les 9 Soeurs Or∴di Pinerolo R∴L∴ Libertà e Progresso Or∴di Livorno R∴L∴ Liguria Or∴di Orspedaletti R∴L∴ Logos Or∴di Milano R∴L∴ Luce e Libertà Or∴di Potenza R∴L∴ Luigi Alberotanza Or∴di Bari R∴L∴ Luigi Spadini Or∴di Macerata R∴L∴ Lux Or∴di Firenze R∴L∴ M’’aat Or∴di Barletta R∴L∴ Magistri Comacini Or∴di Como R∴L∴ Manfredi Or∴di Taranto R∴L∴ Melagrana Or∴di Cosenza R∴L∴ Melagrana Or∴di Torino R∴L∴ Minerva Or∴di Cosenza R∴L∴ Minerva Or∴di Torino R∴L∴ Monviso Or∴di Torino R∴L∴ Mozart Or∴di Castelvetrano R∴L∴ Mozart Or∴di Genova R∴L∴ Mozart Or∴di Roma R∴L∴ Mozart Or∴di Torino R∴L∴ Navenna Or∴di Ravenna R∴L∴ Nazario Sauro Or∴di Piombino R∴L∴ Nino Bixio Or∴di Trieste R∴L∴ Oltre il Cielo Or∴di Lecco R∴L∴ Omnium Matrix Or∴di Milano R∴L∴ Orione Or∴di Torino R∴L∴ Palermo Or∴di Palermo R∴L∴ Per Aspera ad Astra Or∴di Lucca

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