Officinae 2013 Giugno Prima Parte

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Trimestrale internazionale di attualità , storia e cultura esoterica — Anno XXV - Giugno 2013 - n.2


Trimestrale internazionale di attualità, storia e cultura esoterica Anno XXV - n.2 - Giugno 2013 Direttore Editoriale e Responsabile LUIGI PRUNETI Direttore ANNA GIACOMINI Segreteria di Redazione ROBERTO PINOTTI SIMONE TADDEI Comitato di Redazione LINA ROTONDI LUISA CERAVOLO SABRINA CONTI VALERIA DI PACE STEFANO MOMENTÉ FEDERICA POZZI GIANCARLO GUERRERI MATTEO BARTOLETTI RENATA SALERNO Comitato Scientifico VINCENZO CIANCIO ALDO ALESSANDRO MOLA PAOLO ALDO ROSSI IDA LI VIGNI RAFFAELE MARR PAOLO MAGGI RENATO ARIANO BARBARA NARDACCI Consulente Legale PIERPAOLA MELEDANDRI hanno collaborato a questo numero DAVIDE ARECCO LUCA BAGATIN VALTER BENCINI SABRINA CONTI GIUSEPPE IVAN LANTOS GERARDINA LAUDATO IDA LI VIGNI ALDO ALESSANDRO MOLA CARLO MOSCARDI ANTONELLA OREFICE LIDIA PARENTELLI GIOVANNI PELOSINI NICO PERRONE ROBERTO PINOTTI LUIGI PRUNETI MARCO QUADRELLI PAOLO ALDO ROSSI ANNALISA SANTINI JEAN MARC SCHIVO VINCENZO TARTAGLIA progetto e realizzazione PAOLO DEL FREO


L.Pruneti - Per Renata — 2 L.Pruneti - In una notte di maggio — 4 L.Pruneti - Quis contra nos? — 6 A.A.Mola - Garibaldi contro il ‘pericolo turco’ — 18 V.Bencini - l’Iniziazione femminile — 28 M.Quadrelli - La Fonte di Narciso — 40 I.Li Vigni - Gli angeli e le “sante” — 42 G.Laudato - La “Consolazione della Filosofia — 48 J.M.Schivo - La città massonica — 52 G.Laudato - Educare alla coscienza dei valori — 64 V.Tartaglia - La ‘prova’ dell’Acqua — 66 C.Moscardi - Il labirinto — 72 A.A.Mola - Guardiamo la storia universale... — 80 A.Orefice - Ettore Carafa, Conte di Ruvo — 82 L.Parentelli - Diario di Bordo: Washington massonica — 88

Sommario

P.A.Rossi - I Misteri di Eleusi — 98 D.Arecco - Il danese Olaus Worm... — 104

N.Perrone - Massoneria e lega anti-massonica... — 114 L.Bagatin - Antimassoneria — 118 G.Pelosini - Le chiavi del linguaggio simbolico — 122 G.I.Lantos - Lajos Kossuth — 130 R.Pinotti - Extraterrestri, Angeli e Tradizione esoterica — 140 S.Conti - Comunicare con la Conoscenza — 146 A.A.Mola - Pascal Vesin sospeso da parroco: massone o... — 148 Ex Libris — 149 In Biblioteca — 154 Fregi di Loggia — 159


Oriente Eterno

Per Renata... i ero svegliato da poco e come sempre la tazzina fumante del caffè mi mise di buon umore. Poi un trillo del cellulare cambiò ogni cosa: ore 7.37 “Renata è passata all’Oriente Eterno, Giuseppe”. Il mondo iniziò a girarmi intorno, il giorno si spense e nel silenzio un solo grido echeggiò dentro di me: “Non è possibile … è uno scherzo, un macabro scherzo idiota”, poi una voce soffocata dal pianto mi confermò tutto … Renata se ne era andata, se ne era andata per sempre. L’ho conosciuta tanto tempo fa, eravamo seduti ad un tavolino insieme a Giuseppe e a Caterina; allora era un’adolescente che si affacciava stupita sul complicato e spesso incomprensibile universo degli adulti. È stato quello l’inizio di un’amicizia profonda e fraterna, di un rapporto di collaborazione via via sempre più intenso. Con lei e con Giuseppe ho condiviso progetti e speranze, sogni e realtà. Insieme abbiamo vissuto delusioni e successi, abbiamo assapora2

to ambrosia e fiele, abbiamo spartito il pane e il vino della fratellanza. Tutto questo se n’è andato per sempre … Le rondini torneranno a garrire nei cieli azzurri di Bari ed ogni mattina il sole illuminerà la bianca pietra di Trani, risveglierà gli enigmi di pietra di San Nicola, calerà nei vicoli della città vecchia per rianimare la vita … ma lei non ci sarà. Le dita svelte del tempo faranno scorrere il rosario dei mesi e verrà l’autunno, con le sue piogge piangenti e il mare s’adornerà di lame d’acciaio e di arabeschi di onde … ma lei non ci sarà. La sua dipartita ci condannerà a una solitudine amara, a un vuoto che non potrà essere colmato, giacché Renata era una persona rara che sapeva coniugare cuore e mente, volontà ed equilibrio, intelligenza e sentimento. Era schiva e silenziosa, accorta e prudente, ma determinata e lungimirante, pronta a sacrificarsi per il bene degli altri, per la nostra Comunione. Fu Ispettore,

Delegato Magistrale, Secondo Gran Sorvegliante, fu una risorsa eccezionale per Officinae e da sola si occupò, di Palazzo Vitelleschi, la nostra rassegna semestrale. Tanti incarichi, tanti impegni, nessuna ambizione se non quella di far sempre più bella, grande, accogliente la casa comune. Sono certo che ora si trovi in una dimensione felice, priva d’invidia e di egoismo, d’indifferenza e di falsità, in una dimensione avvolta di comprensione e di amore, di serenità e di unione. Voglio pensare che da quelle valli celesti, dove la gazzella gioca col leopardo e il fuoco sorride all’acqua, ci guardi con i suoi occhi colmi di bontà, indicandoci la giusta via in questo oscuro labirinto che si chiama vita. Ciao Renata, cara sorella e amica … non scordarti di noi, sarai in ogni momento fiamma che arde nei nostri cuori, luce che rischiara le nostre menti. Luigi Pruneti p.2-3: Renata Salerno, 2011 (foto P.Del Freo).


Oriente Eterno

... La pietra è una fronte dove i sogni gemono senz’avere acqua curva né cipressi ghiacciati. La pietra è una spalla per portare il tempo con alberi di lacrime e nastri di pianeti. Ho visto piogge grigie correre verso le onde alzando le tenere braccia crivellate per non essere prese dalla pietra stesa che scioglie le loro membra senza bere il sangue. Perché la pietra coglie semenze e nuvole, scheletri d’allodole e lupi di penombre, ma non dà suoni, né cristalli, né fuoco, ma arene e arene e un’altra arena senza muri ... Federico Garcìa Lorca, Lamento per Ignacio Sanchez Majias 3


S

aranno state le 22.30, ero a letto in una camera al secondo e ultimo piano di una vecchia casa di campagna. Nonostante fosse maggio il clima era inclemente, il vento fischiava rabbioso e la pioggia tambureggiava sulle tegole sbiadite dal tempo. Sotto una provvida coperta di lana, mi godevo il momento che precede il sonno, sfogliando un paio di quotidiani: la lettura era al tempo stesso divertente e imbarazzante, giacché l’uno affermava il contrario dell’altro. Morfeo, intanto, lavorava sulle mie palpebre che diventavano sempre più pesanti e il giornale mi era già caduto di mano quando, all’improvviso, colsi nonostante la pioggia un insolito rumore. Veniva dall’alto, dalla soffitta, era uno strano trambusto, uno scalpiccio leggero, interrotto da brevi pause. Pensai a qualche topolino di campagna, ma ero così stanco che la cosa non mi preoccupò più di tanto e di lì a poco caddi in un sonno profondo. Mi risvegliai nel profondo della notte, con il cuore che mi sobbalzava: il mio sesto senso mi diceva che non ero più solo. L’acquazzone era cessato e intorno a me regnava il silenzio. Rimanendo immobile mi guardai intorno, il buio era impenetrabile, però, mettendo a fuoco la vista, mi parve di scorgere, proprio di fronte a me, due puntini rossi. Piano, piano allungai la mano e accesi la luce e fu così che vidi un enorme topo ai piedi del letto. Se ne stava in posizione eretta, fissandomi e sarebbe sembrato una statua se di tanto in tanto non avesse arricciato il naso. Quando mi fui ripreso dallo stupore, gli dissi con un fil di voce: “Vattene subito, animale immondo, non ho timore della tua stazza abnorme, ritorna nei cunicoli sotterranei dove dimori … dovrò disinfettare questa stanza, giacché è noto che la tua genìa è vettore di gravi malattie”. L’enorme roditore non si scompose, si limitò ad arricciare di nuovo il naso e quindi rispose: “Prima di tutto io non sono un “immondo animale” ma il Gran Topo e amministro una felice comunità di attenti apprendisti, di solerti compagni e di saggi maestri, in secondo luogo, finitela voi umani con il discorso delle pandemie dovute ai topi. Che colpa ne abbiamo se vivete nella sporcizia, se le vostre città sono pattumiere e se non rispettate le più elementari norme igieniche”. “Non raccontare favole – replicai – da sempre la tua specie è nemica della mia, tanto è vero che il topo è diventato simbolo del male e dell’oscurità”. Il Gran Topo mise allora in mostra la sua dentatura, forse voleva sorridere, e rispose: “Non è sempre così. In Estremo oriente il topo è elemento yin per eccellenza e dona la seconda vista, in India Muskaka è la cavalcatura del grande Ganesha e in quella vasta regione, nel Rajastan, vi è il tempio di Desmoke, dedicato a Karniji la dea dei bardi e dei topi; questi ultimi sono considerati l’emblema dell’energia vitale che vince anche Yana il dio della morte. Anche

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da voi in Occidente, i topi erano sacri ad Apollo Sminteo e rappresentavano il tramite tra il trascendente e l’immanente”. Era incredibile, mi ero imbattuto in un topo sapiente e mentre ero lì ammutolito di fronte a tanto sapere, quell’ospite imprevisto riprese la sua lezione: “Voi uomini dovreste imparare dai topi. Noi viviamo per gli altri, per la comunità, non operiamo per interessi personali, per manie di protagonismo, per intrallazzi di fazione … per noi la Comunione topesca è tutto. Noi non azzoppiamo i migliori perché temiamo che un giorno possano superarci nella corsa, noi non abbiamo il vizietto di disconoscere i meriti altrui, noi non conosciamo né l’idolatria del potere, né la sindrome di Narciso. Per noi la diffamazione, la calunnia, l’ottusa vanità, il pregiudizio, il vaniloquio sono fole che le madri amorevoli narrano ai topolini per metterli in guarda sul regno degli uomini. Tanto è vero che nei momenti di crisi, quando precipitate nella disperazione, ci prendete ad esempio. Cosa fai? Aggrotti la fronte? Non credi alle mie parole? Allora sei ignorante fratello … ascolta e rifletti. Si narra che nel 1928, negli Stati Uniti vi fosse un povero disegnatore, era così mal messo in quattrini da aver preso in affitto un abbaino di pochi metri quadrati. Quell’uomo si chiamava Walt Elias Disney e aveva come unico amico un topolino, fu lui a ispirargli il personaggio di Mickey Mouse che divenne immediatamente una celebrità. Pensa che più tardi Topolino fu candidato al premio Nobel per la pace e la Società delle Nazioni lo insignì di un riconoscimento internazionale quale “simbolo di buona volontà”. Durante la grande depressione Mickey Mouse fu l’emblema della ripresa, della lotta contro le avversità, l’archetipo dell’eroe borghese che crede profondamente nei valori, che è coraggioso senza essere temerario, che coniuga istinto e ragione, astuzia e buon cuore. Egli è il simbolo della luce capace di aver ragione sulle tenebre più fitte”. Terminata la predica, il Grande Topo scomparve ed io ripiombai nel sonno; mi ridestai il mattino seguente, pronto a cimentarmi con un nuovo giorno e a scrivere il redazionale per Officinae; davanti a me vi erano i nuovi numeri dei quotidiani che da anni leggo, anche questa volta l’uno affermava il contrario dell’altro e al tempo stesso contraddiceva ciò che aveva attestato il giorno precedente. Mi resi conto, allora, che il Gran Topo aveva non una, ma tante ragioni, per questo ho deciso di citarlo in questo numero solstiziale del nostro periodico. Il giorno del sole che culmina sul tropico del Cancro, indica una tappa e induce alla meditazione, orbene, se continueremo a pensare solo a noi stessi e non al bene comune, faremo il percorso a ritroso dello schiavo di Platone, ritorneremo nella caverna delle ombre e delle illusioni, lasciando al Gran Topo e ai suoi seguaci gli spazi aprichi, cari alla luce della saggezza e della conoscenza. P.4-5: Tegole a San Gimignano, 2012, (fotografia P.Del Freo).


In una notte di maggio ... Luigi Pruneti

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Per i centocinquanta dalla nascita di Gabriele d’Annunzio

‘Quis contra nos?’ Gabriele d’Annunzio, la Massoneria e la Reggenza del Carnaro Luigi Pruneti

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el 1918 era evidente la volontà dei Fiumani di diventare sudditi del Regno d’Italia, anche Gramsci aveva scritto che “Fiume doveva andare dove voleva, e cioè all’Italia”1. D’altra parte la maggioranza di loro parlava la lingua del “bel paese” e fin dal 1905 era nata l’associazione irredentista “Giovane Fiume” nella quale erano confluiti tanti fratelli della loggia “Syrius”, “vero e proprio cenacolo d’italianità”2. La predominanza dell’elemento peninsulare su quello croato, sloveno, ungherese e tedesco era stato verificato dal censimento del 1910 e da quello del 1918 che aveva attribuito l’italianità al 62% della popolazione. È vero che molti Croati, abitando soprattutto nelle campagne, non avevano partecipato al censimento, ma anche tenendo presente questo aspetto la componente italiana era predominante. Nell’autunno del 1918 la situazione precipitò per la costituzione di un “Consiglio Nazionale Fiumano”, presieduto da Antonio Gros1 In “L’Ordine Nuovo” 20 – 27 settembre 1919. 2 L. Pruneti, Per non dimenticare, in “Officinae”, a. XXV, n. 1, marzo 2013, p. 84.

Arditi! Alla cote di Fiume avete riaffilato il doppio taglio dei vostri pugnali e bene riaguzzato la punta. Il ferro non parla. Se parla è laconico. L’arma corta ha una sola parola: piuttosto che una parola, un guizzo. E il resto è silenzio. Fiume 1919, G. d’Annunzio

sich che, il 19 ottobre del 1918, proclamò l’annessione della città al Regno sabaudo. Alla dichiarazione di unione seguirono torbidi e scontri fra gli irredentisti e le truppe croate, fino a quando, grazie all’intervento di Attilio Prodam3, il 4 novembre, una squadra della Regia Marina, per evitare ulteriori problemi, sbarcò un contingente di truppe. La situazione rimase, tuttavia, critica con continui alti e bassi: a momenti di relativa calma s’alternavano altri di tensione e di violenza. Nell’anno successivo, mentre le pretese italiane erano disattese dalla Conferenza di pace di Parigi, Giovanni Host-Venturi e Giovanni Giuriati crearono una “Legione fiumana”, in funzione anti francese, giacché le truppe transalpine erano palesemente filo jugoslave. Contemporaneamente Gabriele d’Annunzio pronunciava infuocati comizi per la causa di Fiume, ostaggio incolpevole di un “complotto internazionale” volto a vanificare la vittoria italiana sugli Imperi centrali. Il Poeta Soldato ebbe un seguito via via crescente e le sue appassionanti orazio3 Cfr. A Prodam, Gli Argonauti del Carnaro, Milano 1939.

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ni incisero notevolmente sull’opinione pubblica. Egli aveva capito “che la questione decisiva era quella di trovare un modo per affascinare le masse, colpire la loro fantasia […]. Gli strumenti di questo coinvolgimento erano […] il gesto e la parola nella loro suggestiva combinazione. Ma in definitiva a giocare erano il fascino e la fama del personaggio”4. La lezione di d’Annunzio sarebbe stata poi appresa da Mussolini che imitò il Poeta in tutto e per tutto, giungendo a plagiarne “saluti, uniformi, milizie, squadre, gridi di guerra, gagliardetti, col “me

ne frego”, riti e liturgie”5. In quel momento, comunque, l’ex direttore de “L’Avanti” era solo un comprimario, chi monopolizzava le piazze era solo lui, il Vate, l’Eroe della Beffa di Buccari e del Volo su Vienna. I suoi discorsi esaltavano gli animi: Fiume, la “Città olocausta”, l’Italianissima perla dell’Adriatico doveva tornare alla madre, il sangue versato per questa causa sarebbe stato sacro e santo come quello degli Spartani alle Termopili e quello dei Garibaldini a Milazzo. Tali affermazioni gettarono benzina sul fuoco e il 19 luglio 1919, vi furono nuovi incidenti fra gli irredentisti e le trup-

4 A. Gibelli, La grande guerra degli italiani 1915 – 1918, Milano 2009, p. 60.

5 D. Biondi, La fabbrica del duce, Firenze 1973, p. 50.

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pe d’occupazione interalleate. Il livello della preoccupazione crebbe al punto che la Conferenza di pace a Parigi, decise di sciogliere sia il “Consiglio Nazionale” che la “Legione dei volontari fiumani”; inoltre si stabilì di allontanare dalla città i Granatieri di Sardegna, considerati fomentatori di discordie e pericolose teste calde. Questi il 25 agosto, al comando del generale Mario Grazioli, lasciarono obtorto collo Fiume e si acquartierarono a Ronchi, fra di loro aleggiavano venti di rivolta, si parlava senza mezzi termini di tradimento imposto, di orgoglio ferito, di pavida sottomissione alla volontà straniera. Sette ufficiali del reperto scrissero a quel punto a d’Annunzio, l’unico che mostrasse di avere attributi, chiedendogli di mettersi alla loro testa e di occupare la città. Nello stesso momento anche la massoneria si stava muovendo con fini pressoché identici. Era, soprattutto, il Grande Oriente a tirare le fila. Vi era una vecchia e consolidata amicizia fra Domizio Torrigiani e il Poeta, i loro contatti risalivano al 1901, ai tempi dell’Università popolare, da allora i rapporti non si erano mai interrotti e nel 1919 si rinsaldarono: ambedue desideravano forzare la mano ai “politici inetti” e riportare Fiume nell’alveo della Patria. Con la benedizione del Gran Maestro Domizio Torrigiani il 6 settembre del 1919 la loggia “Guglielmo Oberdan” di Trieste accolse una delegazione di fratelli fiumani; era presente il sindaco Antonio Vio, il segretario del municipio e i rappresentanti della loggia “Syrius”6, da sempre in prima linea nella battaglia per il ritorno di 6 G.Tirotti, Fiume l’Olocausta, l’impresa di Gabriele d’Annunzio e la Massoneria, in “Fiume. Rivista di Studi Fiumani”, nuova serie, n. 8, ottobre 1984, p. 43.


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Fiume all’Italia. Nel corso della riunione si pianificò il colpo di mano e il giorno dopo il fratello Giacomo Treves incontrò a Venezia l’Immaginifico per prendere gli ultimi accordi. L’11 d’Annunzio scrisse a Mussolini per comunicargli che la decisione era stata presa: “Mio caro compagno, il dado è tratto. Parto ora. Domattina prenderò Fiume con le armi”. In realtà le operazioni iniziarono solo il 12, in tutto i legionari erano circa 2.600, in massima parte Granatieri di Sardegna, al comando del maggiore Carlo Reina. Si aggiunsero poi altri militari, fra i quali alcuni reparti di bersaglieri che in teoria avrebbero dovuto impedire la spedizione; giunte alla periferia della città, le file dannunziane furono ulteriormente ingrossate dai legionari di Host-Ventura, armati di tutto punto. Poco più tardi vi fu il trionfale ingresso dei combattenti a Fiume, dopo una marcia che per la presenza di molti massoni, Mola definì “un corteo libero muratorio”7. D’Annunzio da abile comunicatore quale era, ribattezzò l’arrivo dei legionari nella città dalmata la “Santa Entrata”, in memoria 7 A. A. Mola, Storia della Massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni, Milano 1992, p. 454.

di quando i rappresentanti della Serenissima giunsero a Zara, acquistata da Ladislao, re di Napoli e d’Ungheria. Era il 1409 e i Veneziani arrivarono in Dalmazia, recando la “Bolla d’oro” che garantiva agli Zaratini la cittadinanza de intus, essi pertanto venivano non come conquistatori, ma come concittadini e fratelli8. La coreografia dell’evento fu ben curata; il Comandante, indossava un’elegante uniforme di Tenente colonnello dei Lancieri di Novara, intorno a lui vi era il suo stato maggiore: volti duri, sguardi feroci di chi la morte l’aveva vista più volte in faccia; i Fiumani potevano essere certi, sarebbero stati italiani ora e sempre. Di fronte al capo sfilarono i legionari, era un piccolo esercito raccogliticcio e composito, ma l’entusiasmo era alle stelle, come racconta Giacomo Treves: “Drappelli di Arditi, Fanti, Granatieri, tutti quasi di corsa, scorgendoci lanciano al nostro passaggio il grido Fiume o morte”9. Quando questa armata sui generis entrò in città fu subito festa: “Ar8 G. Distefano, Atlante storico della Serenissima, vol. III, 1400 – 1599, Venezia 2010, p. 530. 9 G. Tirotti, Fiume l’Olocausta, l’impresa di Gabriele d’Annunzio e la Massoneria … cit, p. 45.

riviamo alle prime case di Fiume. Ogni finestra è un grappolo umano; sventolano mille bandiere, è tutto un inno ai liberatori. Poi, più avanti, è il popolo: è la marea che ci assale, che ci investe da ogni parte che ci impedisce di proseguire: in ogni volto è un sorriso e noi anneghiamo nella gioia ogni nostro pensiero”10. 10 Ivi.

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D’Annunzio raggiante, fra il tripudio generale, proclamò l’annessione di Fiume all’Italia e anche nei giorni successivi le cose sembrarono andare per il verso giusto: il numero dei legionari cresceva di momento in momento, grazie soprattutto ad altri militari che abbandonavano i reparti per unirsi al Poeta Soldato. Il 20 settembre, data sacra all’Unificazione d’Italia e alla massoneria, vi fu di nuovo festa, con l’Immaginifico vi erano ormai 9 ufficiali superiori, 276 ufficiali inferiori e 4467 militari di truppa. Questi ultimi sfilano per le vie del centro, cantando a squarcia gola: “Se non ci conoscete / guardateci sul petto / noi sia10

mo i disertori / ma non di Caporetto”11. Ad aumentare l’euforia collettiva ci pensò l’ex incrociatore “Marco Polo”, ribattezzato “Cortellazzo” che il 22 settembre, entrò nella rada a sirene spiegate, mentre i marinai dai ponti della nave gridavano “Fiume o morte!”: Ora il Vate aveva anche una flotta. Di fronte al precipitare degli eventi il presidente del Consiglio, Francesco Saverio Nitti, si mostrava indeciso ed incerto. Egli, in pratica, si limitò a nominare il generale Pietro Badoglio commissario straordinario per la Venezia Giulia, con il compito di risolvere la faccenda con meno clamore possibile. Badoglio si stabilì a Trieste e cercò in un primo momento di ottenere qualche risultato con le minacce. Su Fiume furono lanciati dei volantini che intimavano 11 Elia Rossi Passavanti Dragone ed eroe di guerra. Raccolta di documenti e lettere, a. c. di G. Pesce, Terni 2012, p. 84.

ai militari di abbandonare l’impresa e di ritornare ai loro reggimenti, altrimenti sarebbero stati processati quali disertori. Fu meno di un fuoco di paglia, l’iniziativa non riscosse alcun successo, anzi, il 25 settembre, tre battaglioni di bersaglieri, raggiunsero la città per dar manforte ai legionari. A Badoglio, che in un primo momento sembrava volersi dimettere, non rimane altro che cercare di prendere la città per fame, attraverso il blocco dei rifornimenti. Per d’Annunzio quello degli aiuti era il problema più grosso. La città rischiava di essere strangolata dall’inedia, occorrevano derrate alimentari, armi, carburante e soprattutto soldi, tanti soldi. Il Comandante reagì al pericolo usando la sua arma preferita, la propaganda. Scrisse, scrisse e ancora scrisse; in primis si scagliò contro il nemico del momento, Francesco Saverio Nitti, il Presidente del consiglio, che ribattezzò per l’occasione, “Cagoja”, chiocciola in


dialetto friulano. In quell’epiteto ingiurioso era sintetizzato tutto il disprezzo per l’uomo politico, considerato un essere strisciante, viscido, pavido, capace solo di colpire gli inermi. “Sua indecenza – Scrisse il Poeta - la degenerazione adiposa, si propone di affamare i bambini e le donne che con le bocche santificate gridano Viva l’Italia”. “Cagoja”, tacque e ingozzò, replicò all’Immaginifico solo nel 1948, quando, in una sua opera autobiografica, scrisse: “[D’Annunzio] Aveva inventato per me il nomignolo di Cagoja, mi faceva ripetutamente bruciare in effigie con riti pagliacceschi. Tutte queste cose, conoscendo io bene la teatralità di d’Annunzio mi facevano ridere e non davo loro nessuna importanza”12. Fu una vendetta fuori tempo massimo, il Poeta era morto da più di un decennio e non poteva replicare all’ex primo ministro che, bramoso di rivincita, giunse a negare il valore letterario dell’avversario, profetizzando che di lì a poco tutti si sarebbero dimenticati di lui: “non ho mai contribuito alla gloria letteraria di d’Annunzio perché sono sicuro che essa è soltanto effimera e che dell’opera di d’Annunzio rimarrà ben poco e tra non molto si riderà della più gran parte delle manifestazioni in versi e in prosa”13. Si sbagliava, d’Annunzio, sarebbe rimasto per sempre nelle pagine della letteratura italiana come un autore di fondamentale importanza, mentre Nitti/Cagoja sarebbe stato ricordato per l’inconsistenza del suo governo e per gli anni di esilio durante il ventennio. Il Vate, comunque, non faceva sconti a nessuno, scagliava strali a destra e a sinistra, non risparmiò nemmeno Mussolini, il “caro compagno”, di pochi giorni prima, al quale il 16 settembre scrisse una lettera di fuoco: “Mio caro Mussolini – affermava - mi stupisco di voi e del popolo italiano […] voi tremate di paura! Voi che lasciate mettere sul collo il piede porcino del più abietto truffatore che abbia mai illustrato la storia del canagliume universale. Qualunque altro paese – anche la Lapponia – avrebbe rovesciato quell’uomo, quegli uomini. E voi state lì a cianciare, mentre noi lottiamo […] svegliatevi e vergognatevi anche […] altrimenti verrò io quando 12 F. S. Nitti, Rivelazioni. Dramatis personae, Napoli 1948, p. 339. 13 Ibidem, p. 353.

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avrò consolidato qui il mio potere”. Mussolini corse subito ai ripari, il 20 settembre, pubblicò la missiva di d’Annunzio sul “Popolo d’Italia” emendandola sapientemente e contemporaneamente aprì una sottoscrizione che raccolse quasi 3.000.000 di lire; 857.842 furono consegnate al Poeta fin dal mese di ottobre, altre furono versate in seguito, ma una parte consistente sparì nelle casse del Partito Fascista, cosa che l’Immaginifico ricordò per un lungo periodo di tempo14, tanto che, nel momento della “marcia su 14 A. A. Mola, Giolitti. Lo statista della nuova Italia, Milano 2012, p. 24.

Roma”, definita “fetida ruina”15, chiamò il duce “beccaio”16 e i suoi estimatori “goffi turiferai”17. Si dice, inoltre, che più tardi il Poeta si prese sull’uomo di Predappio una rivincita del tutto particolare. Quando questi andò a trovarlo al Vittoriale lo costrinse ad una lunga anticamera; alcuni ben informati riferirono ridacchiando che Mussolini fu costretto a passare oltre mezz’ora scomodamente allocato in una stanzuccia, ammorba15 D. Biondi, La fabbrica del duce … cit, p. 121. 16 Ibidem, p. 70. 17 Ibidem, p. 101.

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ta da incensi18, il Romagnolo non la prese bene, bestemmiando come un turco, espresse più volte l’idea che il luogo più consono al Poeta sarebbe stato il manicomio. La Massoneria, a differenza di Mussolini, si dimostrò assai più affidabile nel foraggiare l’impresa. Abbiamo già visto come le logge avessero spianato la via dell’avventura fiumana e l’importanza che giocò nella spedizione il fratello Giacomo Treves e le logge triestine del G.O.I19. La Comunione, che aveva la propria sede centrale in Palazzo Giusti-

niani, aprì un credito di 2.000.000 di lire a favore della città dalmata20, mentre rifornimenti di ogni genere giungevano nel Golfo del Carnaro tramite la Croce Rossa Italiana, il cui Presidente era il fratello Giovanni Ceraiolo, esponente di spicco del Rito Simbolico Italiano21. Inoltre, i legionari liberi muratori erano numerosissimi22, tanto che lo stesso d’Annunzio, riconobbe in seguito che “senza l’appoggio incondizionato della massoneria l’impresa di Ronchi non avrebbe potuto raggiungere il suo obiettivo”23. In quei

18 E. Caviglia, Diario 1925 – 1945, Roma 1952, p. 4. 19 A. A. Mola, Storia della Massoneria italiana … cit, p. 452; A. A. Mola, L’ultima impresa del Risorgimento: La Massoneria per d’Annunzio a Fiume (dalle carte di Giacomo Treves) in AA. VV, La liberazione d’Italia nell’opera della Massoneria, a. c. di A. A. Mola, Foggia 1990, pp. 261 – 304.

20 A. A. Mola, Giolitti. Lo statista della nuova Italia … cit, p. 394. 21 A. A. Mola, Storia della Massoneria italiana … cit, p. 455. 22 F. Conti, Storia della Massoneria italiana, dal Risorgimento al fascismo, Bologna 2003, p. 267. 23 G. Leti, Carboneria e Massoneria nel

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giorni di entusiasmo, di speranza e di timori, i rapporti fra d’Annunzio e i vertici del Grande Oriente furono strettissimi, egli era in contatto continuo col Gran Maestro, Domizio Torrigiani24 che giornalmente s’informava di come procedessero le cose e si preoccupava di venire incontro con ogni mezzo ai legionari; poi qualche mese più tardi qualcosa s’incrinò25. I motivi della frattura furono dovuti, in parte, a un avvicinamento del Poeta a esponenti della Serenissima Gran Loggia26 che sicuramente gli consegnarono honoris causa la sciarpa del 33° ed ultimo Grado del Rito Scozzese Antico ed Accettato27 e forse lo iniziarono nella loggia “XXX Ottobre”28. Il venerabile di questa officina fiumana era il fratello Attilio Prodam, noto esponente della massoneria scozzese e intermediario fra d’Annunzio e il Gran Maestro di Piazza del Gesù Vittorio Raoul Palermi. Anche questo discusso personaggio si era mosso in favore dell’impresa in Dalmazia, costituendo a Roma un Comitato per la raccolta di fondi pro Fiume; l’entità delle somme che riuscì a veicolare a d’Annunzio è ignota, ma è certo che un appoggio consistente vi fu. Si sa, ad esempio, che quando il legionario massone Tommaso Ceraiolo si recò a Milano alla ricerca di apparecchi per rafforzare l’aviazione fiumana, raccolse da una loggia palermiana la consistente somma di 72.000 lire29. Il principale motivo della rottura fu, però, essenzialmente politico: Domizio Torrigiani temeva Risorgimento italiano, Bologna 1925, p. 392. 24 F. Conti, Storia della Massoneria italiana … cit, p. 267; G. Padulo, La Massoneria italiana nel XX secolo. Dall’interventismo al fascismo, in Storia d’Italia, Annali XXI, La Massoneria, a. c. di G. M. Cazzaniga, Torino 2006, p. 666. 25 F. Conti, Storia della Massoneria italiana … cit, p. 269. 26 L. Pruneti, La Tradizione massonica scozzese in Italia, Roma 1994, p. 103; A. A. Mola, L’ultima impresa del Risorgimento … cit, p. 300. 27 L. Pruneti, Gabriele d’Annunzio la massoneria e l’occulto”, in “Archeomisteri”, a. IV, n. 35, settembre – ottobre 2007, p. 53; C. Gentile, L’altro d’Annunzio, Foggia 1982, p. 8. 28 G. Vannoni, Massoneria Fascismo e Chiesa cattolica, Bari 1980, p. 52, nota 133. 29 G. Tirotti, Fiume, l’Olocausta, l’impresa di Gabriele d’Annunzio e la Massoneria … cit, p. 52.


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possibili derive avventuristiche di d’Annunzio. Già il 14 novembre 1919, il Poeta aveva effettuato la “Spedizione su Zara”. Si era trattato di un atto dimostrativo, ma significativo da un punto di vista simbolico. Il Comandante, insieme a Guido Keller, Giovanni Host-Venturi, Luigi Rizzo e Elia Rossi Passavanti, si era imbarcato sulla “Nullo” e aveva raggiunto Zara dove fu accolto benevolmente dal comandante della Piazza l’ammiraglio massone30 Enrico Millo, odiato da Nitti31. L’alto ufficiale, al termine dell’incontro, gli promise solennemente che non avrebbe abbandonato la Dalmazia fino a quando non fosse diventata italiana. Si era trattato dell’ennesima operazione di propaganda, atta a mobilitare i giornali dell’epoca; ma ora il Comandante sembrava volesse alzare la posta, si mormorava che favoleggiasse, addirittura, due raid arerei sulla Penisola e uno sbarco sulla costa marchigiana per innescare un’insurrezione contro Nitti32. Appurata questa tendenza, Domizio Torrigiani 30 F. S. Nitti, Rivelazioni … cit, p. 336. 31 Ivi. 32 A. A. Mola, Giolitti. Lo statista della nuova Italia … cit, p. 395.

decise di prendere le distanze dal Pescarese, col quale, nel volgere di pochi mesi cessò ogni contatto. Ad Ancona non fu effettuato nessuno sbarco, ma il 24 giugno del 1920 la città fu teatro di una vera e propria sommossa popolare. Tutto ebbe origine dalla ribellione dell’XI Reggimento bersaglieri, acquartierato nella caserma Villarej che, alla notizia di essere stato destinato in Albania, si ammutinò, occupando la caserma. Ne seguirono scontri con le guardie regie e uno sciope-

ro generale che si trasformò in una vera e propria sommossa, con gli insorti che occuparono alcuni quartieri popolari. La calma ritornò solo dopo alcuni giorni di guerra civile, un bombardamento dal mare e un notevole tributo di sangue: le vittime furono venticinque e i feriti numerosissimi33. Nella sommossa di An33 L.Pruneti, Aquile e corone. L’Italia il Montenegro e la massoneria dalle nozze di Vittorio Emanuele III ed Elena al governo Mussolini, Firenze 2012, pp. 57 – 58.

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cona giocarono un ruolo determinante alcuni agitatori professionisti, venuti da fuori; diversi di loro erano anarchici ma altri erano legionari fiumani34. La Fiume di d’Annunzio era, infatti, un particolare crogiuolo dove si mischiavano e convivevano elementi più disparati. Forse non era la “signoria rinascimentale, truccata da repubblica sovietica”, indicata da Sergio Romano35, né tantomeno, il “miscuglio eteroclito d’idealisti, di scioperati 34 M. A. Zingaretti, Popolari e sovversivi, i moti popolari di Ancona nei ricordi di un sindacalista (1909 – 1924), a.c. di P. R. Farnesi e M. Papini, Ancona 1992, pp. 49 e segg. E. Santarelli, Le Marche dall’Unità al fascismo. Democrazia repubblicana e movimento socialista, Roma 1964, pp. 258 e segg. 35 S. Romano, Storia d’Italia dal Risorgimento ai nostri giorni, Milano 1998, p. 221.

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e di bricconi”36 di Angelo Tasca, ma sicuramente fu un “gesto di romanticismo politico” che coagulò sindacalisti rivoluzionari, nazionalisti, ex arditi e anarchici, in un brodo di cultura tendenzialmente di massa, capace di saldare insieme destra e sinistra, demagogia sociale, utopismi massonici e aspirazioni libertarie37, in dispregio a una classe borghese rappresenta dai vari “Cagoja” e “Labbrone”. Un siffatto humus socio – politico si articolava intorno all’Immaginifico, la cui capacità di stupire non conosceva alcun declino, tanto che a Randolfo Vel36 A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo. L’Italia dal 1919 al 1922, Bari 1971, p. 78. Cfr. F. Cordova, Arditi e legionari dannunziani, Padova 1969. 37 E. Ragionieri, Storia d’Italia, vol. IV, Dall’Unità a oggi, t. III, La storia politica e sociale, Torino 1976, pp. 2090 – 2091.

la, inviato di “Umanità nuova”, dichiarò: “Tutta la mia cultura è anarchica […]. È mia intenzione di fare questa città un’isola spirituale dalla quale possa irradiare, un’azione eminentemente comunista verso tutte le nazioni oppresse. Io ho bisogno di non essere calunniato da voi sovversivi; poi vedrete che la mia opera non è nazionalista”38. Alla sua corte, accanto a monarchici e a borghesi, a Figli della vedova e a ex combattenti, sedevano personaggi come Mario Carli direttore di “Testa di Ferro”, futurista, capitano degli arditi e simpatizzante della rivoluzione bolscevica o Guido Keller animatore dell’Associazione Yoga, prima libertario e poi fascista, o ancora Renato Cigarini, ex ardito e comunista che si recò a Fiume portando sul bavero la stella rossa dei soviet39. I legionari immaginavano la vita come “una favola bella”, che non fosse gravata da ammorbanti convinzioni sociali, né da gravami moralistici, il gusto per la trasgressione e il ribellismo imperavano, pertanto ogni comportamento era lecito a iniziare dalla libertà sessuale; questo vitalismo esondante aveva bisogno di una coreografia, di cui il Vate era maestro; la festa, la parata, esemplificazioni di una gioia collettiva, imperavano nella sua Fiume ed esprimevano il valore edonistico dell’esistenza che andava modellata come un’opera d’arte; Andrea Sperelli, nella “Città Olocausta” aveva dismesso gli eleganti abiti romani per indossare la divisa di ardito40. Tutto ciò faceva sì che i benpensanti indicassero i legionari come la quintessenza dell’immoralità e della perversione; ad esempio Filippo Turati scriveva: “Fiume è diventata un postribolo, ricetto di malavita e di prostitute high-life. Nitti mi parlò di una marchesa Incisa, che vi sta vestita da ardita con tanto di pugnale. Purtroppo non può dire alla Camera tutte queste cose, per l’onore d’Italia”. Il celebre esponente del Socialismo italiano si riferiva alla marchesa Margherita Incisa di Camerana, compagna del grande invalido di guerra Elia Rossi Passavanti, comandante della “disperata”, la guardia persona38 “Umanità Nova” 9 giugno 1920. 39 In “La Repubblica” 13 agosto 2005. 40 L. Pruneti, Il sentiero del bosco incantato. Appunti sull’esoterico nella letteratura, Bari 2009, p. 162.


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le del poeta di cui la nobildonna divenne madrina41. Cosa combinò la “marchesa Incisa”, oltre a usare un look poco femminile, è difficile saperlo; fatto sta che divenne un emblema dei comportamenti e delle abitudini “indecenti” dei legionari, denunciati all’opinione pubblica da stampa e uomini politici. Quando la Reggenza del Carnaro era ormai finita, Gramsci sulle colonne di “Ordine Nuovo” difese d’Annunzio, lamentando il linciaggio mediatico del quale era stato oggetto: “L’onorevole Giolitti […] ha più di una volta con estrema violenza, caratterizzato l’avventura fiumana. I legionari sono stati presentati come un’orda di briganti, gente senza arte né parte, assetata solo di soddisfare le passioni elementari della bestialità umana: la prepotenza, i quattrini, il possesso di molte donne. D’Annunzio, il capo dei legionari, è stato presentato come un pazzo, come un istrione, come un nemico della patria, come un seminatore di guerra civile, come un nemico di ogni legge umana e civile. Ai fini del governo sono stati scatenati i sentimenti più intimi e profondi della coscienza collettiva: la santità della famiglia violata, il sangue fraterno sparso freddamente, la integrità e la libertà delle persone lasciate in balia di una soldataglia folle di vino e di lussuria, la fanciullezza contaminata dalla più sfrenata libidine. Su questi motivi il governo è riuscito a ottenere un accordo quasi perfetto: l’opinione pubblica fu modellata con una 41 Elia Rossi Passavanti Dragone ed eroe di guerra … cit, p. 85.

plasticità senza precedenti”42. A molti il valore eversivo dell’Impresa Fiumana sembrò ancor più evidente quando il 12 agosto del 1920 d’Annunzio proclamò la Reggenza del Carnaro, attribuendosi tutti i poteri politici e militari. La Costituzione del nuovo stato fu scritta da Alceste De Ambris che dal mese di gennaio aveva sostituito Giovanni Giurati come Capo gabinetto. De Ambris, già sindacalista rivoluzionario43, elaborò la così detta Carta del Carnaro un documento, assai avanzato, con carat42 In “L’Ordine Nuovo”, 6 gennaio 1921. 43 Alceste De Ambris venne così definito da Francesco Saverio Nitti: “uomo esuberante ma non privo d’intelligenza, benché del tutto privo di studi economici e sociali”. F. S. Nitti, Rivelazioni … cit, p. 333.

teristiche massonico - corporative44 che per certi versi desiderava “confrontarsi con le esperienze bolsceviche e a misurarsi con l’immagine che in Occidente si aveva di Lenin e Trockij, ai quali molti attribuivano non dimenticate esperienze liberomuratorie”45. L’articolo 2 del documento, ad esempio, affermava: “La Repubblica del Carnaro è una democrazia diretta”, [basata sulla …] “sovranità collettiva di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di classe e di religione; […] e decentra, per quanto è possibile, i poteri dello Stato, onde assicurare l’armonica convivenza degli elementi che la compongono”. L’articolo 5, poi, garantiva “a tutti i cittadini, senza distinzio44 A. A. Mola, Giolitti. Lo statista della nuova Italia … cit, p. 399. 45 Ibidem, p. 463.

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ne di sesso, l’istruzione primaria, il lavoro compensato con un minimo di salario sufficiente alla vita, l’assistenza in caso di malattia o d’involontaria disoccupazione, la pensione per la vecchiaia, l’uso dei beni legittimamente acquistati, l’inviolabilità del domicilio, l’habeans corpus, il risarcimento dei danni in caso di errore giudiziario o abuso di potere”. Lo stato doveva essere assolutamente laico: “Ogni culto religioso – si leggeva - è ammesso e rispettato e può edificare il suo tempio. Ma nessun cittadino invochi la credenza o i suoi diritti per sottrarsi all’adempimento dei doveri prescritti dalla legge”46. Concetto ulteriormente sottolineato nel titolo riguardante la pubblica istruzione: “Alle chiare pareti delle scuole […] non convengono emblemi di religione né figure di parte politica. Le scuole pubbliche accolgono i seguaci di tutte le confessioni religiose, i credenti di tutte le fedi, e quelli che possono vivere senza altare e senza Dio. Perfettamente rispettata è la libertà di coscienza. E ciascuno può fare la sua preghiera tacita”47. Erano, infine, garantiti a tutti i cittadini la libertà di stampa, di riunione, di associazione, i diritti politici e civili, identici per gli uomini e le donne, era contemplato il divorzio, la parità salariale fra i sessi; in tempo di pace non vi era esercito, ma in caso di guerra sussisteva l’obbligo del servizio militare ai quali erano chiamati uomini e donne in età compresa fra i 17 ai 52 anni. La struttura dell’apparato militare presentava, inoltre aspetti interessanti con orga46 C. Gentile, L’altro d’Annunzio … cit, p. 137. 47 La Carta del Carnaro fu considerata da Nitti “ridicolissima e stupidissima […] un documento d’ignoranza e di fatuità, degna solo di una riunione di mattoidi”. F. S. Nitti, Rivelazioni … cit, p. 333,

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ni collegiali simili ai soviet; era previsto, ad esempio, che gli ufficiali di ogni ordine e grado avessero lo stesso peso nelle decisioni; ciò comportò le dimissioni di numerosi ufficiali, fra questi il generale Sante Ceccherini che il 20 novembre del 1920 se ne andò dichiarando: “la sistematica inversione dei valori disciplinari è troppo grave […] venimmo qui chiamati da V.S. come generale e come tali ce ne andiamo”. Altri ufficiali seguirono il suo esempio quando il governo fiumano riconobbe la Russia Sovietica, un atto che parve a molti una provocazione insopportabile e una manifesta dimostrazione del carattere sovversivo della Reggenza. Fece molto discutere pure il complesso vessillo che questa adottò. Sembra che sia stato lo stesso d’Annunzio ad idearlo. Il Poeta avrebbe, infatti, tracciato un bozzetto che poi fu elaborato da Adolfo de Carolis. L’emblema presentava in alto, ai lati, i tricolori d’Italia e di Fiume, al centro, su campo rosso, era disegnato l’uroboros, il serpente che si morde la coda e nel cerchio da questi disegnato vi erano le sette stelle dell’Orsa. Completava il tutto un cartiglio con il motto “Quis contra nos?”48, la scritta era mutuata dall’Epistola di San Paolo ai Romani: “Si spiritus pro nobis, quis contra nos?”. Il vessillo aveva una chiara valenza esoterica se non massonica; il serpente che si morde la coda indica “Un ciclo di evoluzione chiusa su se stesso. Questo simbolo racchiude – si legge in una nota opera di simbologia - […] le idee di movimento, 48 Su i motti dannunziani cfr. D. L. Massagrande, d’Annunzio e Fiume. Autografi dannunziani nell’archivio della Società di Studi fiumani, Roma 2009.

di continuità, di autofecondazione”49. E’ il tempo ciclico, l’eterno ritorno della Libera muratoria, scandito dall’alternarsi dei solstizi e degli equinozi. La costellazione dell’Orsa maggiore con le sette stelle potrebbe indicare i legionari che a Ronchi giurarono “O Fiume o morte”, ma anche le virtù guerriere, o la saggezza di cui è depositaria quella tradizione primordiale, illustrata da René Guénon50. Anche il labaro fiumano potrebbe, dunque, accennare a quel distillato dell’alambicco massonico del quale parla Aldo Alessandro Mola nella sua nota opera sulla storia della Massoneria italiana51. La Reggenza del Carnaro ebbe vita breve, il 12 novembre del 1920, Giolitti, subentrato a Nitti, stipulò con il Regno di Jugoslavia il Trattato di Rapallo52 che stabilì la costituzione di uno stato libero di Fiume. L’accordo fu bene accolto dalla maggior parte dei partiti politici, pure Mussolini, nemico giurato di “Labbrone”, lo considerò in modo positivo. Identica fu l’analisi di Alceste De Ambris conscio che i Fiumani desideravano uscire dal cul de sac dove si erano infilati per ritornare alla normalità. D’Annunzio invece lo rifiutò, cosicché quando il Regno d’Italia ratificò il trattato, il generale Caviglia, succeduto a Badoglio, inviò al Vate un ultimatum: i legionari avevano 48 ore di tempo per abbandonare la città. Al silenzio di d’Annunzio il 24 dicembre le truppe si mossero, ebbe così inizio il “Natale di sangue” che, dopo una breve tregua, chiamò in causa anche la Regia Marina con l’Andrea Doria che bombardò l’edificio dove si era insediata la reggenza53. La capitolazione fu pressoché immediata; nel gennaio i legionari lasciarono Fiume e il 18 dello stesso mese furono seguiti da Gabriele d’Annunzio che lasciò la “Città olocausta” per ritirarsi a Venezia. Terminò così la breve vita della Reggenza del 49 J. Chevalier A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli. Miti sogni costumi gesti forme figure colori numeri, vol. II, Milano 1997, pp. 526 – 527. 50 R. Guenon, Forme tradizionali e riti cosmici, Roma 1981; R. Guenon, Simboli della Scienza sacra, Milano 1994. 51 A. A. Mola, Storia della Massoneria italiana … cit, p. 463. 52 L. Pruneti, Aquile e corone … cit, pp. 67 – 68. 53 A. A. Mola, Giolitti. Lo statista della nuova Italia … cit, p. 405.


Storia

Carnaro, una pagina di storia estremamente interessante, nella quale la Libera Muratoria giocò un ruolo fondamentale che ancora non è del tutto chiaro. _____________

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P.6: d’Annunzio su una cartolina d’epoca; p.7: d’Annunzio e lo stemma della Legione Fiumana; p.7 in Basso: pugnale da Ardito (reperto I Guerra mondiale); p.8 a sin: d’Annunzio entra a Fiume; p.8 a destra: Fregio Arditi appartenuto a d’Annunzio; p.9 in basso: la famosa lettera di d’Annunzio (vd. testo); p.9 in alto: Arditi fiumani nel 1919; p.10 e 11: Memorabilia fiumani; p.10 in basso: Stemma dell’ ’Irriducibile’; p.10 in basso: Ordine autografo del ‘Comandante’; p.12-17: Foto d’epoca e reperti di cronaca del 1919.

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Garibaldi contro il ‘pericolo turco’

Garibaldi massone contro la dominazione turca sull’Europa e il fanatismo islamico Aldo A. Mola

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aribaldi nel 1864 fu per pochi mesi Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia. Due anni prima, sconfitto da Filippo Cordova nella elezione alla suprema carica, fregiato di medaglia d’oro e del titolo di Primo massone d’Italia e di Gran Maestro Onorario ad vitam, quando la carica era esclusiva, Garibaldi fu campione di tolleranza e fratellanza, senza mai rinunciare a impugnare la spada e a imbracciare il fucile quando lo riteneva necessario. Non perché fosse avido di sangue, ma per la libertà. È il Garibaldi che tanti conoscono. È l’Uomo Universale che brandisce la spada fiammeggiante come l’Arcangelo Michele per spezzare le catene che avvincono l’umanità e purificare il mondo dalla cancrena dell’ignoranza e della superstizione. È il Garibaldi caro al fratello Giosue Carducci, che lo immortalò a capo della lunga asperrima lotta contro “Cesare e Piero”, la tenaglia infuocata del potere politico (e militare) sommato a quello della chiesa cattolica, o meglio dell’imperatore d’Austria e di Pio IX. Pacifista, Garibaldi

le “celebrazioni” del bicentenario della sua nascita (2007) e del 150° dell’impresa dei Mille (2010), della costituzione del Regno d’Italia (2011) e della spedizione “Roma o Morte”. Quest’ultimo centocinquantesimo è filato via come acqua sulla pietra perché il Garibaldi del luglio-agosto 1862 non è affatto riducibile al “rivoluzionario disciplinato” di Mario Isnenghi, comodo per celebrazioni retoriche, e avrebbe costretto a fare i conti con il suo grembiulino di Gran Maestro della Massoneria, con la sua irriducibile avversione contro il papa– re, restaurato l’11 febbraio 1929. Dipendesse dall’Edizione Nazionale dell’Epistolario (dal 2009 ferma al carteggio garibaldino d’inizio 1871) e dalla generalità delle biografie anche recenti, l’ultimo Garibaldi (1871-1882), il più maturo e lungimirante, quello del bilancio politico di un secolo di lotte per la liberazione dei popoli oppressi, rimarrebbe sotto traccia per chissà quanto tempo. Le altre maggiori raccolte di lettere del generale (a cominciare da quelle curate da Ximenes e da Ciampoli) risalgono infatti a fine Ottocento- inizio

fu anche generale del re di Sardegna. L’eroe anticlericale celebrò nuovi riti o quanto meno non sconfessò la pratica di battezzare e unire in matrimonio nel nome suo, non per egotismo ma per liberare dalla superstizione verso altre divinità. Contraddizioni? Il discorso è più complesso. Va meglio articolato. E non solo a tale riguardo. Vi è infatti un altro Garibaldi pressoché sconosciuto. È rimasto ai margini del-

Novecento e le si trova solo nelle sale di lettura delle biblioteche più attrezzate o specializzate. Nel corposo libro Tra squadra e compasso e il Sol dell’avvenire Marco Novarino si è sforzato di addomesticare Garibaldi in subordine alle “influenze massoniche sulla nascita del socialismo italiano”. Non ricorda, però, che Garibaldi condannò “i scioperi” (sic!), rifiutò nettamente il socialismo marxista, l’anarchia e tanti altri

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ell’ultimo decennio di vita Giuseppe Garibaldi scrisse le Memorie e sintetizzò la sua visione su problemi politici di ampio respiro. Nel 1860 aveva vaticinato gli Stati Uniti d’Europa. Dal 1870, dopo la feroce guerra francogermanica, quasi una profezia della Grande Guerra, e a cospetto della “Commune” di Parigi, che contenne in nuce il nazionalcomunismo, Garibaldi predicò la debellatio dell’Impero turco che impediva la liberazione dei popoli oppressi dell’Europa orientale. Non aveva alcuna animosità contro i Turchi come individui né come etnia. Però li sapeva succubi di un regime fondato sul fanatismo religioso. Equanime, dopo l’annessione di Roma all’Italia, che eliminò il papare e la disuguaglianza dinnanzi alle leggi, Garibaldi spostò il tiro sull’altro bastione di una dominazione insopportabile: la Sublime Porta…: non perché fosse un potere politico, ma perché (come tutti i “preti”) entrava nelle coscienze, nella vita intima di ogni persona, con fanatismo letale. Garibaldi non volle l’incontro tra le religioni. Volle la liberazione dalle superstizioni. 19


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massimalismi. È curioso che nel suo vasto libro Novarino non ricordi che Garibaldi morì deputato del regno d’Italia, generale dell’Esercito e che nella scheda di parlamentare scrisse “Agricoltore”. Pertanto qui evochiamo un Garibaldi pressoché sconosciuto: alfiere della fratellanza universale ma al tempo stesso strenuo fautore della lotta per sottrarre ogni lembo d’Europa all’Impero dei Turchi perché fondato sul fanatismo del clero islamico. Per Garibaldi il confine tra l’Europa e l’Asia non era un tratto di penna sulla carta geografica: era segnato dalla natura, dagli Stretti. Come quello dell’Italia, che va dal Carnaro al Varo. Garibaldi ne scrisse ripetutamente nel suo ultimo decennio di vita, quello più fecondo ma, al tempo stesso, il meno studiato e quindi poco noto e compreso. Per esempio, Andrea Possieri gli dedica poche pagine del suo Garibaldi (Bologna, 2010), come se nell’ultimo decennio di vita il Generale fosse ormai un pupazzo di cartapesta da esibire in giro per l’Italia come una Ma20

donna pellegrina della rivoluzione mancata. La maggior parte delle sue biografie, compresa quella di Alfonso Scirocco (la più nota, elogiata e ristampata), prendono la rincorsa da lontano, si attardano sugli anni in cui fu corsaro, guerrigliero, generale tra Brasile ed Uruguay, arrivano stanche agli anni 1871-1882, dopo tanti capitoli sul quarantennio dalla cospirazione mazziniana di Genova (1834) alla Repubblica Romana (1849), dal secondo esilio ai Cacciatori delle Alpi (1859) e all’impresa dei Mille (1860), dal successo di Bezzecca sugli Austriaci (1866) a Mentana (1867) e alla vittoria di Digione sui Prussiani (1871), ove si batté in difesa della Repubblica francese che spocchiosamente lo ripagò dichiarandolo ineleggibile all’Assemblea costituente della novella Marianne. Si direbbe che, agognando la fine del lavoro, molti autori abbiano avuto fretta di liberarsene, nel presupposto che quel che aveva da dire Garibaldi lo disse sui campi di battaglia o nelle Memorie. Così quel decennio conclusivo e concludente dal Generale in gran

parte dedicato alla rifondazione della pace universale (o almeno euro-mediterranea) sulla libertà dei popoli e sul progresso economico e civile, troppo spesso sfuma in poche pagine sbrigative, talora in poche righe di congedo. Il tema qui accennato – la netta, aspra, coerente avversione di Garibaldi contro il dominio turco su qualunque tratto di Europa e contro il monoteismo islamico: una religione che sconta sei secoli di arretratezza rispetto al cristianesimo e non ha mai fatto i conti, se non per negarne l’identità, né con la filosofia greco-latina, né con la Rivoluzione francese – rischia di rimanere ignorato. Certo questo è un Garibaldi scomodo. Vi sono però almeno tre buone ragioni per parlarne. In primo luogo il Generale (o Eroe dei due Mondi o Gran Maestro o comunque lo si voglia appellare) ebbe e mostrò senno politico superiore a quello che di rado e avaramente gli viene riconosciuto da chi lascia tra parentesi (non letti o non capiti) gli scritti dei suoi ultimi anni. Inoltre occorre fare i conti con le


Storia

motivazioni profonde e con l’intero ventaglio del suo anticlericalismo radicale, che non si circoscrisse alla sola chiesa cattolica ma investì ogni forma di intrusione del clero di qualsiasi chiesa o religione come pretesa normativa nella vita civile, di poteri arcani nella libertà delle persone. Infine (ed è questo un aspetto importante della sua cultura politico-militare-diplomatica) la sua lotta per la liberazione dello spazio euro-mediterraneo dai “turchi”, dall’impero della Sublime Porta, andò molto oltre la questione religiosa: fu politica e si legò alla valutazione positiva dell’espansione degli Europei Oltremare e della colonizzazione dell’Africa settentrionale da parte della civiltà del suo tempo, razionale, positiva, fondata sulle scienze, la produzione, il mercato, il progresso civile: un viluppo di questioni che nella sua mente non erano affatto un groviglio confuso e indistricabile, anzi gli erano lucidamente presenti nella loro intima connessione. A ben vedere il vero Garibaldi non è molto diverso dal Karl Marx vero: per il quale la co-

lonizzazione degli spazi extraeuropei era indispensabile per il capitalismo, fondamento necessario del superamento delle classi non verso il pauperismo ma in direzione del benessere, della “felicità”. Garibaldi non ingabbiava il Libero Pensiero in pochi meridiani e paralleli, non ne faceva un primato da celebrare nel recinto europeo o “occidentale”: anche per lui la liberazione dal clericalismo era (doveva essere) conquista universale. E considerava sua missione propugnarla ovunque. Anche per quel suo impegno egli fu effettivamente “eroe dei due mondi”, un’etichetta altrimenti futile, da manualetto scolastico e retorica patriottarda. Nelle Memorie Garibaldi ricordò la sua lunga dimora a Costantinopoli, una pagina per molti aspetti tuttora pressoché oscura. Ammalatosi nel corso di uno dei tanti viaggi in Oriente (di quale morbo? Non ne scrisse e non se ne sa nulla), vi rimase più del previsto e si trovò alle strette: “La guerra accesa tra la Russia e la Porta (cioè l’Impero turco, detto Sublime Porta

dalla residenza del Sultano, NdA) contribuì a prolungare il mio soggiorno. In tale periodo mi successe per la prima volta di impiegarmi a precettore di ragazzi, offertomi dal signor Diego, dottore in medicina, e che mi presentò alla vedova Timoni, che ne abbisognava. Entrai in quella casa maestro di tre ragazzi, e profittai di tale periodo per studiare un po’di greco, dimenticato poi, siccome il latino che avevo imparato nei prim’anni”. I maligni imbastirono molte insinuazioni su quella lunga stagione e sui suoi rapporti con la vedova. Garibaldi tornò sulle sue disavventure di Costantinopoli molti decenni dopo. In una pagina di appunti fustigò “Il prete”: “Si chiami egli prete, Ministro, dervista, Calogero, Bonzo, Papas, qualunque nome egli abbia, a qualunque religione egli appartenga, il prete è un impostore, il prete è la più nociva di tutte le creature, perché egli più di nessun altro è un ostacolo al progresso umano, alla fratellanza degli uomini e dei popoli. Egli è un ministro di Dio? Dimandate che vi faccia un uccel21


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lino, una mosca, una formica. Come! Un ministro di colui che seminò di Mondi l’Infinito non sarà capace di fare un insetto? Io ho percorso la superficie del globo. In Turchia fui obbligato di fuggire davanti ad una folla di ragazzi e di donne, perché i preti dicevan loro ch’ io era un maledetto! In Cina mi successe lo stesso, e voi giunti a Canton, la più frequentata e commerciale delle città Chinesi non potete visitarla perché sareste lapidato dalla moltitudine suscitata dai preti”. L’avversione di Garibaldi nei confronti dell’islamismo non è dunque una cappella laterale della vastissima basilica dell’anticlericalsimo da lui disegnata. Non è solo dottrinale. È propriamente politica. Dall’infanzia egli aveva appreso, e non solo per racconti popolari ma per esperienze vissute, il pericolo dei “pirati”, delle incursioni “saracene”. Nizza, la sua città, ricordava le devastanti imprese delle flotte turche nel Cinquecento, propiziate dall’alleanza tra Parigi e Istanbul (dal 1453 soggiogata da Maometto II) contro il Sacro Romano Impero di Carlo V, la Spagna di Filippo II e la Repubblica di Venezia: un gioco diplomatico continuato sino a Luigi XIV e a Napoleone III (alleato con Londra e l’Impero turco contro la Russia di Nicola 22

I: la “guerra di Crimea”, per la quale ha straveduto la storiografia italocentrica che la celebra per l’ingresso del regno di Sardegna a fianco di Francia e Gran Bretagna, ma tace che essa ebbe per posta anche l’avallo del Sultano, durato per altri settant’anni, sino alla Grande Guerra). Nei primi decenni dell’Ottocento la pirateria barbaresca rimaneva così minacciosa e dannosa che la Francia di Carlo X, il Piemonte di Carlo Felice e le Due Sicilie di Francesco I di Borbone decisero una spedizione navale comune per metterle fine. Vi si distinse Carlo Mameli dei Mannelli, padre di Goffredo. Nel 1827, ricorda Maurice Mauviel, sagace esploratore di archivi e autore di molti saggi sul versante mazziniano e garibaldino della storia d’Italia, il “Cortese”, cioè il brigantino sul quale viaggiava il ventenne Garibaldi, fu assalito da corsari greci. Il comandante, Semeria, ordinò all’equipaggio di non opporre resistenza per scampare al peggio. In seguito il giovane nizzardo subì due altri assalti pirateschi, con esiti mortificanti e umilianti, mai descritti analiticamente. Subì la sorte di Lawrence d’Arabia? Certo rimasero fissi nella memoria. Ne evocò uno in Manlio, il romanzo contemporaneo, al quale lavorò

nell’ultimo decennio di vita, sino agli ultimi giorni. Vi descrisse i Riffegni (abitanti del Riff, sull’Atlante marocchino, da lui ben conosciuto nel secondo esilio 1849, quando andava a caccia di conigli non potendo sparare agli zuavi mandati da Luigi Napoleone in soccorso di Pio IX) e l’Assalto di pirati alla nave “Libertà” che, al comando del capitano Schiaffino, eroe della Repubblica Romana, recava il suo eroe eponimo, Manlio, di soli cinque anni, costeggiando il Marocco verso lo stretto di Gibilterra alla volta dell’America meridionale. In quelle pagine Garibaldi non parla né di “arabi”, né di “turchi”. Vi scrisse: “Come il leone, il Riffegno è bello e forte. Non so se, figlio dell’Atlas, egli si debba chiamare di stirpe caucasea, ma certamente il Caucaseo di qualunque parte non è più bello del Riffegno, più bruno per il clima, ma perciò con una fisionomia più fiera e più marziale. (…) Ignorante, fiero, feroce, e considerando tutto ciò che non è mussulmano, eretico e niente più d’un cane, il Riffegno è naturalmente pirata; e molti furono gli equipagi (sic) di legni mercantili sgozzati quando trattenuti dalle calme presso coteste coste inospitali”. A differenza di quanto solitamente si è detto e si


reputa, Manlio non è un romanzetto qualunque, una sorta di passatempo al quale il Generale ormai al crepuscolo dedicava la lunghe giornate nell’isolamento di Caprera, appena lenito dalla solerte Francesca Armosino (finalmente sposata con rito civile nel 1880) e dai figlioletti, Clelia e Manlio. Quel “Romanzo” è il suo “testa-

mento politico”. Scoperto tardi, venne pubblicato in edizioni pressoché clandestine, prima da Anthony Campanella (1981), poi a cura di Marziano Guglielminetti (1982), ma fu subito dimenticato. Troppo scomodo. Il Generale-Eroe lo scrisse quando tirava le difficili somme della sua vita pubblica e privata. Lì, appunto, fece i conti anche con l’Islam e con i Turchi. Valgano di saggio alcune frasi del capitolo vi, Assalto di pirati: “Da poppa il capitan Schiaffino, con Attilio a fianco, pugnava con varia fortuna (…) Marcello, che bruciava di menar le mani (…) si lanciò colla sua riserva alla riscossa del suo comandante con tanta furia che, lasciandolo indietro, menò tali colpi sui Musulmani invasori da obligarli di gettarsi (in mare, NdA), quei che non caddero nelle loro barche, più velocemente

che non eran saliti…”. Il capitolo è un susseguirsi di colpi e di grida, culminanti in una sorta di seconda Lepanto liberopensatrice: “ ‘Marsala! Marsala’! rispondeva un garibaldino all’ ‘Allah Urrah’ degli Ottomani e si lanciava seguito dai suoi alla riscossa dei difensori della prora”. Lo scontro viene infine risolto da Vero, che,

precedentemente ferito e curato dal piccolo Manlio, lascia febbricitante la cabina ove è ricoverato al grido “All’armi…Qui non si tratta di bende ma della pele (sic, NdA). Avanti fratelli!” e a colpi di revolver e di “un coltellaccio che teneva in cintura fece strage orrenda tra i barbareschi, e così i compagni, spinti dall’esempio del valoroso capo e per la propria conservazione”. Ma quale ferita aveva riportato Vero (nella cui maschia figura di quando in quando Garibaldi si identifica) nel combattimento contro i pirati? L’Eroe lo dice un paio di pagine prima: “Vero, assalito da un collosso, che era il capo d’assalto dei Riffegni, avea ricevuto un fendente tale che, se lo colpiva sul cranio, glielo avrebbe spaccato come una cipolla; per fortuna sua, l’atagan (cioè la scimitarra barbaresca NdA) scivolò sulla

sua sinistra e ne portò via intieramente l’orecchio, come se fosse stato tagliato da un rasoio”. A quel modo forse Garibaldi fornì la spiegazione della menomazione (l’orecchio troncato, mascherato con i capelli alla nazarena) che tante chiacchiere e insinuazioni suscitò nel tempo e parrebbe invece

Storia risalire a uno scontro degli anni giovanili con i pirati dai quali, come si è detto, più volte venne assalito mentre andava per mare in un Mediterraneo niente affatto sicuro. Sarebbe però meschino ridurre il pensiero di Garibaldi sull’insanabile incompatibilità fra Impero turco ed Europa e tra islamismo e Occidente a mero riflesso di vicissitudini personali o all’insofferenza nei confronti del clero di qualsivoglia religione. Esso rispose a una visione geopolitica di ampio orizzonte, alla “percezione progressiva del Mediterraneo”, come acutamente osserva Maurice Mauviel, che staglia la figura del Generale in uno scenario plurisecolare, a partire dalla “Prima guerra mondiale” tra Cristianità e Islam: quella di metà Cinquecento, tra l’Europa cattolica, sotto assedio, e l’offensiva dell’Impero turco otto secoli dopo il duello tra la Francia dei Capetingi e gli Arabi avanzati sino a Poitiers. Prosatore esondante, Garibaldi sapeva controllare la penna quando necessario. Perciò i suoi scritti vanno centellinati e capiti più e meglio di quanto sinora sia stato fatto da critici frettolosi o attenti ad aspetti estetici anziché al fulcro sostanziale. Il Generale-Eroe scandiva le parole. Il 5 maggio 1873 scrisse al fido Timoteo Riboli, medico, massone, fondatore della lega per la protezione degli animali: “Mentre l’Europa progredisce (…) che fa l’Italia? Non accenneremo ai miserabili suoi governanti già condannati dal disgusto universale, ma bensì alla parte virile e generosa che forma la sua democrazia, prodotto delle cento chiesuole in cui la dividono i suoi Archimandriti, Massoni, Mazziniani, Internazionalisti, sono egualmente fautori dell’indolenza democratica in Italia, e quindi del trionfo effimero ma reale dell’oppressione e della menzogna…”. Pigiava su tasti suonati da tempo: riforme per guarire la gran piaga della miseria, rifiuto del programma dell’Internazionale esplosa nella Commune di Parigi (abolizione della proprietà privata, dei diritti eredi23


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tari…), condanna della scioperomania, che avrebbe precipitato l’Italia nel disastro. Non parlava per interesse personale. Viveva in povertà ma continuava a rifiutare il “dono nazionale” deliberato a suo favore dal governo. Accettava invece l’obolo che gli veniva da amministrazioni civiche, da amici (anche dall’estero) e persino da popolani (le cinque lire donategli una tantum da un cittadino bisognoso come lui e come lui generoso). D’altronde, rieletto alla Camera nel 1874, nella scheda informativa di deputato della Nazione, alla voce “titoli, professione, impieghi all’epoca dell’elezione” Garibaldi scrisse orgogliosamente: “Agricoltore”. Era e si sentiva un onesto “proprietario”, grato agli Inglesi che avevano acquistato e gli avevano donato la metà di Caprera che non aveva pagato di tasca propria. Andava fiero del suo “lavoro” di contadino e di allevatore di bestiame, dedito a colture sperimentali, in linea con l’Europa delle scienze e del pro24

gresso fondato anche sull’incremento della produzione di alimenti per una società libera da pregiudizi e quindi anche da costumanze e superstizioni nella consumazione di animali e di prodotti marini. A Garibaldi, pagano onnivoro, i “precetti della chiesa” cattolica non parevano più astrusi e nocivi rispetto a quelli imposti da altri religioni; li sapeva, anzi, di gran lunga meno vincolanti di quelli islamici. Garibaldi, insomma, era una filosofia politica in azione. Era, si sentiva, campione di una guerra di liberazione culturale e politica. Per lui l’Occidente era contrapposto alla Turchia in un conflitto incomponibile, non solo politico-militare ma di civiltà. Lo scrisse il 4 marzo1876 a Dobelli, rispondendo all’appello della gioventù slava: “La diplomazia del ventre fu incapace di prevenire l’iniziativa del macello umano. I preti nel connubio dei turchi e satolli del loro oro, hanno lanciato l’anatema contro i se-

guaci della croce. Ed i settari del palo (corsivo nostro), dopo d’aver lottato per tenerlo in piedi, devono oggi conformarsi allo slancio degli schiavi che preferirono la morte al servaggio. (…) E voi, concittadini di Botzaris, ricordatevi di tutti gli oltraggi ricevuti dai feroci ed osceni discendenti di Maometto (…). Il turco deve passare il Bosforo (…) e solo alcuni ottomani, senza preti, potranno convivere, se onesti, coi loro antichi schiavi. E voi, discendenti dei famosi legionari di Traiano, abitatori del Pindo e delle ubertose pianure del Danubio, non abbandonate i fratelli in servaggio, e non ascoltate l’oscura voce dell’egoismo diplomatico, che vi consiglia di stare indifferenti alla più santa delle lotte. Invalido, io invio un saluto del cuore ai fieri campioni della libertà orientale”. Contro la pax dettata dal Congresso di Vienna, ribadita da quello di Parigi del 1856 e dal concerto delle grandi potenze, che di conflitto in conflitto riportava l’Europa ai


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confini e alle logiche della Restaurazione del 1814-1815, Garibaldi rivendicò con forza l’emancipazione delle nazioni senza stato, dei popoli inchiodati alle tavole della spartizione delle genti tra le grandi potenze. In lui vibrava il Risorgimento, la memoria dei Profughi di Parga cantati da Giuseppe Berchet, lo spirito che aveva fatto nascere l’Italia a stato indipendente, unica nazione emersa per somma di fortune dalle catene imposte all’Europa postnapoleonica nel 1814-15 e dalla repressione della primavera dei popoli (1848-1849). Agli occhi di Garibaldi la presenza della Turchia in Europa era una cappa di piombo sulla storia. Bisognava liberarsene.

L’occasione sembrò profilarsi dal 18741875 con le rivolte antiturche dalla Bosnia alla Bulgaria, represse dalla Sublime Porta grazie al sostegno della Gran Bretagna, che solo nelle leggende è “campione di libertà”. Nel 1874 anche i Montenegrini di Nicola Petrovic insorsero e iniziarono la lunga guerra che condusse la loro terra da Principato a Regno del Montenegro (1910), come documenta Luigi Pruneti in Aquile e Corone. L’Italia il Montenegro e la massoneria dalle nozze di Vittorio Emanuele III ed Elena al governo Mussolini (Firenze, 2012). Londra aveva vari buoni motivi per reggere le dande dell’Impero turco. In primo luogo la Sublime Porta dichiarò la bancarotta

finanziaria. Per recuperare i prestiti i banchieri inglesi dovevano tenerlo in piedi, a costo di reprimere le aspirazioni indipendentistiche di Romeni, Bulgari, Montenegrini, Macedoni, … Inoltre Londra temeva l’avanzata della Russia nell’Europa centrale. Ne sarebbe risultato indebolito l’Impero austro-ungarico, pilastro dell’equilibrio continentale, a tutto vantaggio della Germania. Infine il crollo dell’Impero turco, che ancora andava dalla Tripolitania alla Persia, avrebbe aperto un vuoto nel Mediterraneo orientale. Con la medesima penna acuminata Garibaldi ribadì il suo pensiero nelle lettere ai suoi fidi seguaci e nelle pagine del Manlio. Il 17 luglio 1877 scrisse al marchese 25


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Filippo Villani: “Mandare i Turchi in Asia, ecco il provvedimento efficace per gli schiavi dell’Europa Orientale; ogni altra misura sarà una tappa di guerra”. Per raggiungere la meta occorreva superare gli intralci della diplomazia, come ruvidamente vergò nel Romanzo contemporaneo: “In questi ultimi tempi, massime per la questione orientale, si è manifestato nel mondo quanto di lurido esiste ancora nell’umana famiglia. L’Austria ha fatto il suo dovere di aquila o piuttosto d’avvoltoio, sostenendo sordamente la causa dell’oppressore e accatastando ogni specie d’ostacoli all’Europa Orientale. Essenzialmente tiranna essa ha fatto quanto doveva. Ma l’Inghilterra, la terra universale d’asilo, l’emancipatrice degli schiavi, non doveva, guidata da un Ebreo (Benjamin Disraeli, Lord di Beaconsfield, di famiglia israelita dalle origini veneziane, primo ministro dal 1874 al 1880, NdA) lasciarsi condurre all’esterminio dei poveri servi ed al sostegno di tiranni esecrabili. No! Ed io racapricio pensandovi! (…) E i preti? Peste dell’umana famiglia, hanno fatto causa comune coi massacratori degli innocenti”. Di capitolo in capitolo, nel Manlio Garibaldi passò dalle staffilate contro il clero di qualunque religione a quelle specifiche contro i Turchi. Riecheggiate le sue esperienze di 26

perseguitato dagli “astuti impostori, vestiti in diversa foggia, sotto diverse denominazioni”, ricordò i due sacerdoti “da me veduti in una chiesa di Lima, ubbriachi e pugnando come cani, dopo d’aver giuocato a carte, il guiderdone di un battesimo di cui ero il padrino” e rapidamente trascorse a marchiare a fuoco i Turchi: “come si può, pensando al prete, non ricorrere colla mente alle carneficine dei Turchi nella Bulgaria e dei Russi nel Turkestan? Il Turco, che più cristiani uccide e più titoli acquista ai godimenti ed alla gloria dell’immorale suo paradiso e, codardo come sono generalmente gli uomini sanguinari, si diverte a impalare, mutilare, squartare uomini inermi, donne, bambini!!!”. Il prete e il Turco divennero quasi un’endiadi nella sua penna. Se ne ricordò aprendo, in Manlio, il capitolo sulla cremazione: “Il motivo per cui gli animali d’ogni specie brulicano sulla terra non si sa. I migliori godimenti sfumano come la nebbia al vento e le torture, i patimenti, non minori e non può essere presto cadavere…”. Sospinto dall’orrore per quelle visioni, il Solitario (come Garibaldi si autodefinì in Clelia) sognò allora una guerra di liberazione del Mediterraneo dal dominio turco, a cominciare dall’isola di Creta: “Giunta la flotta italiana sulla rada di Canea, v’incontrò la

turca, composta di cinque corazzate e se ne impadronì. Mi si chiederà con quale diritto. Ed io risponderò: collo stesso diritto con cui Maometto Secondo si impadroniva di Costantinopoli ed i pirati turchi delle nostre donne, bambini, uomini, etc., per farne degli schiavi…”. Non erano sfoghi letterari ma ragionamento politici. Al marchese Villani il 15 marzo 1878 da Caprera scrisse: “Dunque dopo tanto sangue versato risulterà nell’Europa Orientale uno di quei mostruosi pasticci di cui la diplomazia va famosa. Cosa è questa lunga Turchia che dal Bosforo si estenderà all’Adriatico, passando sul corpo della Bulgaria quasi indipendente, o tra questa e la Serbia da una parte, la Macedonia e la Tessalia dall’altra, le di cui popolazioni se hanno un’ombra di dignità dovranno mantenersi in uno stato perenne d’insurrezione? Quando io dissi al principio di questa guerra: i Turchi dover passare il Bosforo per poter ottenere una pace durevole, e tale è pure la mia opinione d’oggi, ma i turchi che intendano ciò solo: il sultano, le sue odalische, i suoi eunuchi e l’immensa caterva di preti ottomani, non già la popolazione turca onesta e laboriosa che di quanti popoli abitatori del Levante è la migliore. Tale emigrazione sarebbe impossibile, converrebbe però non lasciar in Europa un solo prete turco, che basterebbe a seminar la zizzania in tutta la confederazione; e le moschee cambiar in scuole, ove s’insegnerebbe la religione del vero”. Garibaldi sperava in un Areopago che esercitasse l’arbitrato sovrannazionale, la ricerca di una soluzione pattizia dei conflitti tra gli Stati nel rispetto della libertà dei popoli, che avrebbe comportato con sé la libera navi-


gazione nel Mar Nero (rumeno perché daco-romano) e negli Stretti. La pace di Santo Stefano e il congresso di Berlino del 1878 dettero tutt’altri risultati: la Gran Bretagna s’accaparrò Cipro e ne fece l’isola della divisione, del conflitto permanente, quale ancora rimane, mezza staterello indipendente (finanziariamente allo stremo), mezza sotto sovranità turca: un equivoco nel bel mezzo del Mediterraneo orientale. Membro di una Unione Europea che da lì mostrò le rughe di adolescente precocemente avvizzita. E il gran Malato d’Oriente divenne sempre più la polveriera della futura conflagrazione europea, esplosa nell’estate 1914 dopo la guerra italo-turca per la sovranità sulla Libia e tre guerre balcaniche in due anni: groviglio inestricabile, letto di Procuste sul quale la diplomazia inetta inchiodò l’area balcanica sino all’esasperazione delle genti. Il Solitario aveva intuito e suggerito la soluzione, ma non ne vide l’approdo ultimo. Nel 1897 Creta insorse ma l’Europa fu solidale con la Sublime Porta nella repressione, come deplorò Giosue Carducci in La mietitura del Turco, versi staffilanti contro il primo genocidio degli Armeni (vd. Aldo A. Mola, Giosue Carducci, scrittore, politico, massone Milano, 2006). La Grande guerra si concluse con la pace di Sèvres (1920) che lasciò gli Stretti ad Ataturk in cambio dell’adozione dell’alfabeto latino e di una parvenza di laicizzazione. La Seconda guerra mondiale lasciò le cose com’erano, per una somma di errori e nefandezze (frutto di egoismi mal ripagati) delle diplomazie degli Stati Uniti e ancor più della Gran Bretagna. Così le ha ereditate l’Unione Europea, a sua volta incapace di politica estera unitaria, lungimirante e di vasto respiro. Aveva ragione Garibaldi. Il cui pensiero perciò venne lasciato chiuso in carte dimenticate: troppo scomodo. Tempo è venuto di scoprirlo, anche per superare l’equivoco antico e perdurante: fu anticlericale non già per promuovere il dialogo tra le religioni (capriccio di massoni che non hanno letto le Costituzioni di Anderson o poco ne hanno appreso), ma perché a-clericale.

Storia

P.18: Costantinopoli; p.19: Roma o Morte! p.19 in alto: Ritratto marmoreo di G.Garibaldi; p.20: Moschea Laleli, ca. 1890, Istanbul; p.21: Istanbul, la dinastia Ottomana da Osman I a Mehmed V (al centro), stampa turco-tedesca della I Guerra Mondiale; p.22: Istanbul, veduta sulla Moschea Blu dalla Moschea di santa Sofia; p.23: Pranzo turco/occidentale, Istanbul, ca. 1920; p.24: Carta settecentesca dell’Impero Turco; p.25: Turchi in abiti tradizionali, ca. 1885; p.26: G.Garibaldi; p.27: Istanbul, Moschea di santa Sofia.

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Massoneria

l’Iniziazione femminile

Valter Bencini

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I

niziamo l’uomo, la donna o l’essere umano? Il Grande Oriente di Francia, che conta 50.000 adepti, ha deciso di ammettere recentemente al suo interno membri di sesso femminile. Da circa un decennio ormai i membri del Grande Oriente di Francia discutevano se ammettere le donne nell’Istituzione. L’8 aprile del 2010 la Camera Suprema di Giustizia Massonica, convocata dal Gran Maestro Lambicchi, ha emesso la «sentenza» sostenendo che non vi era nei regolamenti alcun espresso divieto che impediva alle donne di far parte dell’associazione. Nel 2009, poi, un gruppo di logge ribelli aveva clandestinamente «iniziato» alla massoneria transalpina ben sei donne. Il vero casus belli, però è stato rappresentato dal fatto che il 21 gennaio 2010 la transessuale Olivia Chaumont è stata proclamata «sorella» della federazione massonica1. Iniziata come uomo, il suo percorso psicobiologico l’ha portata alla scelta di essere donna a tutti gli effetti. E il Gran Maestro non ha che potuto che concludere: “Questa è la sua casa”. Un caso umano come questo potrebbe benissimo capitare in ognuna delle Comunioni Maschili o Femminili presenti in Italia. E allora come verrebbe risolto? Con l’umana lungimiranza francese o con una fredda scelta di convenienza politica? Ragioni sociali o tradizionali? Direi che le ragioni dell’esclusione delle donne all’iniziazione femminile sono state trattate spesso con sufficienza e superficialità, concentrandosi spesso sugli aspetti sociologici, morali, umanistici come nel caso di Marie Deraismes, di “Diritto umano”, che pure era una donna. Le sue istanze egualitarie sulla donna sono lodevoli sul piano delle concezioni attinenti all’evoluzione sociale, ma c’è una mancanza di una conoscenza approfondita delle motivazioni esoteriche sul tema della esclusione massonica. Il fatto inspiegabile è che, non solo gli oppositori come la Deraismes, ma anche chi queste regole le propugnava e le attuava non ha saputo fornire almeno per lunghi periodi una spiegazione logica di questa esclusione. Come è pensabile che una Massoneria “regolare” che pratica tolleranza ed eguaglianza non ammetta le donne tra le sue fila e che tale divieto

sia persino un Landmark (letteralmente “traccia nella terra”, confine)? L’art 3 degli Old Charges, quando si parla delle Logge, recita testualmente: “Le persone ammesse come membri di una Loggia devono essere buoni e sinceri, nati liberi e di età matura, non schiavi, non donne, non uomini

Massoneria

Ma egli [il Sé] non provava gioia. Perché chi è solo non prova gioia. Desiderò la presenza di un altro da sé. Egli aveva le dimensioni di un uomo ed una donna strettamente allacciati. Si divise in due e da ciò sorsero un marito ed una moglie. Perciò, come disse Yajnavalkya, “ciascuno è simile alla metà di un intero”. Ora il vuoto era riempito da una donna. Upanisad

immorali o scandalosi, ma di buona reputazione” 2. Fino al 1858 né Anderson, né nessun altro spiegava e codificava però il perché di tale esclusione; in qualche modo la possiamo intuire noi e ricavarla esaminando le condizioni sociali della donna in quell’epoca. La donna inglese del 1700 era, piaccia o no, in una posizione subordinata all’uomo, quasi assimilabile in qualche misura all’altro termine che compare nel capitolo: “schiavi”. Dunque esclusivamente un motivo sociale, in quanto le donne erano sempre dipendenti da un uomo, fosse il marito, il padre, lo zio o un fratello, tanto da non poter disporre liberamente neppure di diritti banali come quello ereditario, per non parlare poi del diritto di voto. Nel 1858 il Mackey invece affermò che l’esclusione poteva rifarsi a un costume operativo precedente, rifacendosi finalmente all’unico parametro effettivo, quello della validità iniziatica e della tradizione esoterica. Il Mackey, nel commentare il XVIII dei suoi Landmarks, afferma: “Fin dalla nostra entrata nell’Ordine abbiamo trovato certi decreti che stabiliscono che potessero entrarvi solo uomini capaci di affrontare fatiche o di adempire al dovere dei massoni speculativi. Noi abbiamo preso l’impegno solenne di non alterare questi regolamenti che non potrebbero esser cambiati senza una completa disorganizzazione del sistema intero della Massoneria speculativa”. Vedremo però quanto questa affermazione potrà essere smentita da alcuni documenti incontestabili. Non mi riferisco al caso di Elizabeth Aldworth3, irlandese, che comunque, a mio avviso fa testo come una sentenza della giurisprudenza, anche se viene presentato da chi nega l’iniziabilità delle donne come fatto occasionale e non rilevante. La storia ci dice che la ragazza avrebbe assistito di nascosto a una funzione massonica nella casa del padre nella prima metà del secolo XVIII. Quando fu scoperta, gli 29


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adepti si riunirono e decisero di cooptarla all’interno della Loggia. Mi riferisco piuttosto a costumi della Massoneria Operativa che sono stati volutamente nascosti, distorti e probabilmente in alcuni casi distrutti. Massoneria operativa e speculativa Da parte di molti studiosi, soprattutto anglosassoni come Jones4 e Gould5 e francesi come Ambelain6, sull’opera dei quali mi baserò, sono state perciò avanzate varie riserve sul rispetto del patrimonio spirituale e iniziatico dell’antica Massoneria nella formazione della Gran Loggia di Londra e nelle Costituzioni di Ander30

son. Sappiamo che Desaguliers e Anderson, pastore anglicano, operarono a un riassetto dell’Ordine e a una codificazione per scritto di quanto fino a quel momento fosse affidato alla Tradizione Orale ma, in questa operazione, gli antichi usi e rituali della massoneria operativa risultarono profondamente trasformati tanto da nascondere le origini cattoliche e probabilmente, come effetto collaterale, si perse anche traccia dell’ammissione delle donne nella Massoneria Operativa. Le ricerche dei Fratelli C.E.Stretton e T. Carr, citate da Vanni7, provarono quanto segue: James Anderson, che era Cappellano di Loggia, nel 1714 inizia delle Con-

versazioni sulla Massoneria con dei gentiluomini e li riceve in Loggia, rifiutando però l’accesso a dei Massoni Operativi. Tra questi gentiluomini: G. Payne, futuro G.M., il pastore di origine ugonotta J.T. Desaguliers, A. Sayer, primo Gran Maestro, il Duca di Montagu, che succederà a Payne come G.M., Johnson, un medico che prendeva onorari per l’esame fisico dei profani, Entick e Stuart, un avvocato. È da notarsi che i Cappellani nella Massoneria Operativa officiavano su richiesta su questioni puramente religiose e appartenevano alle Logge solo esternamente. A essi non si richiedeva altro che una promessa di discrezione e non c’erano motivi di comunicargli i segreti del mestiere e le parole di passo. Solo più tardi si crearono le Logge di Jakin in cui si istruivano i Cappellani che non potevano comunque superare il 2° Grado. Non essendo Maestro non poteva ricevere Massoni e fondare una Loggia. Le attività ambigue di Anderson attirarono l’attenzione degli Operativi. Alcuni di loro gli chiesero la parola di passo che avrebbe permesso loro di frequentare i lavori della sua Loggia “alla taverna dell’Oca” ma Anderson la rifiutò. A quel punto Anderson e gli altri 7 irregolari fondarono la Lodge of Antiquity, che fondò altre Logge ovviamente irregolari come la prima. Sir C. Wren, il grande architetto inglese autore della grandiosa cattedrale di San Paolo, che nel 1716 era Gran Maestro annuale dell’”Antichissima e Onorabile confraternita dei Liberi Muratori”, si rifiutò di riconoscere la Lodge of antiquity e la sua discendenza. Oltre a queste irregolarità iniziatiche gli Operativi contestarono ad Anderson le seguenti alterazioni della Massoneria Primitiva: Aver ridotto a due gli antichi gradi operativi che erano sette. / Aver iniziato un’Apprendista senza il noviziato di sette anni, minimo cinque, passandolo poi al grado di Compagno un mese dopo. / Aver rimosso i due Sorveglianti della Loggia scegliendo altri senza le caratteristiche dovute. / Aver cambiato l’orientamento della Loggia e aver messo il Venerabile all’Oriente mentre la tradizione Operativa lo metteva all’Occidente. / Aver introdotto nel 1730 il grado di Maestro Massone con il rituale della morte di Hiram, che gli operativi non conoscevano per niente e ai loro occhi appariva come rituale negromantico. / Aver


introdotto il grado di ex-venerabile, di cui non si vedeva l’utilità e che poteva mettere in dubbio l’autorità del 1° Sorvegliante. Stretton afferma che questi avvenimenti furono registrati nella Guild Minute Book of Lodge Saint Paul, detenuti negli scantinati della loro sede sociale e che tali archivi erano accessibili solo ai detentori del 7° grado della Massoneria Operativa. Dice in proposito G. Ponte (in “Rivista di Studi Tradizionali”, Torino): “In realtà, un esame approfondito dei fatti ha condotto a togliere valore alle famose “Costituzioni” di Anderson del 1723, che alterarono gli antichi “Old Charges” della Massoneria operativa”. D’altra parte, avverte in varie occasioni René Guénon, non si trattò soltanto del “prodotto della fantasia di un individuo senza mandato: l’innovazione a cui si dava vita comportava anche una frode su vasta scala, con la distruzione dei documenti che avrebbero offerto la prova della alterazioni volute, e persino, a quanto pare, con l’incendio doloso degli archivi della Loggia di San Paolo” 8. Come curiosità c’è da segnalare che lo sconcerto provato dalle numerose Logge operative rimaste fu tale che per molti anni non accettarono tra i propri membri neofiti il cui cognome fosse Anderson. Così come il ritrovamento negli anni del Poema Regius, del Manoscritto Cooke, Plot, Gran Loggia 1, Tew, Sloane, Roberts, Spencer hanno contribuito a togliere qualche velo su cosa potesse essere la Massoneria Operativa, altrettanto valore possono avere questi documenti relativamente all’Iniziazione Femminile: - In Francia il Livre des Metiers di Etienne Boileau (1268) prevedeva l’accesso alle donne nelle Corporazioni Artigiane e la loro elevazione al grado di Maestro, anche in mestieri manuali tradizionalmente maschili. - Gli statuti della Gilda dei Carpentieri di Norwich (1375) sono indirizzati “ai Fratelli ed alle Sorelle”. - Lo statuto della Loggia di York (1693) riporta che “Colui e Colei che deve essere fatto Massone pone le mani sul Libro (la Bibbia) ed allora le istruzioni sono date”. In ogni caso anche negli anni in cui la Massoneria Speculativa era già più consolidata si trova un verbale datato 1756 della “Old King’s Arms Lodge” (n. 28) che riporta: “Che la Loggia sia rivestita di grembiuli una volta l’anno e all’inizio

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dell’anno di guanti per le sorelle”. Cosa accade dunque negli anni andersoniani e post-andersoniani che tenne lontano le donne dalla Massoneria? Indubbiamente il completo decadere della componente operativa o “d’impresa” nell’economia delle Logge ha avuto il suo peso, ma soprattutto l’influsso del puritanesimo, che incise sulla morale fino ad arrivare alle ridicole esasperazioni della società vittoriana, ben diversa da quella così libera e gioiosa espressa dai Canterbury Tales o, due secoli più tardi, dalle Allegre Comari di Windsor 9. È evidente che l’ammissione delle donne nella Massoneria Corporativa rispettava la necessità economica di trasmettere in linea familiare il patrimo-

nio d’impresa. Sicuramente un’iniziazione non “operativa” in senso stretto, se si eccettua la corporazione francese che prevedeva anche questo tipo di adesione. Certamente posso concludere al riguardo di queste origini che non esistono motivi storici o tradizionali che impediscano l’iniziazione massonica alle donne. È solo con l’avvento della Massoneria Moderna o Speculativa, caratterizzata da dolose elisioni e innovazioni che viene impedita alle donne l’iniziazione. Del resto, andando oltre alla mera apparenza del costume operativo, questa è l’opinione di alcuni eminenti studiosi come il Naudon: “… non vediamo alcuna ragione di rifiutare l’iniziazione massonica alle donne. 31


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Diremo pure che le fondamenta del metodo iniziatico - in quanto mettono l’accento sulla via interiore, quella del cuore e dell’intuizione - ci sembrano, al contrario, mete adatte alla natura femminile” 10. Riconoscimenti e cambiamento delle prospettive massoniche Le Regole internazionali per il riconoscimento non sono di epoca lontanissima. La UGLE le pubblica nel 1929, le tre Grandi Logge britanniche nel 1938 e le Gran Logge degli Stati Uniti nel 1952. Al punto 4 dei Principi Fondamentali per il Riconoscimento di una Gran Loggia si legge che “la Gran Loggia o le singole Logge siano costituite esclusivamente da uomini e che la Gran Loggia non abbia rapporti massonici di alcun genere con Logge Miste o Corpi che ammettono donne” 11. Perché queste norme e in particolare questa si snodano in un periodo che va dal 1929 al 1952? A mio avviso è indubbio che l’ascesa delle donne alla parificazione con gli uomini era ormai inarresta32

bile, per trovare poi concreta attuazione con il femminismo degli anni 70/80. Il panorama massonico internazionale ricco di intrecci, di legami anche con realtà federative impone a mio modesto avviso una revisione dei concetti di riconoscimento che non possono essere più mantenuti se non in maniera obsoleta e con una fedeltà, per chi li osserva, non dico acritica ma quantomeno discutibile alla UGLE, facendo finta di non vedere realtà presenti ed esistenti. Ci sono situazioni che definire borderline è il minimo. La Gran Loggia Unita d’Inghilterra riconosce infatti Grandi Logge, che a loro volta hanno trattati e riconoscimenti con Comunioni Femminili o Maschili non riconosciute; valga per tutte l’esempio del riconoscimento di molte Gran Logge degli Stati Uniti, che a loro volta sono in amicizia, promuovono e proteggono l’Order of the eastern star costituito da donne nel 1850. Siamo di fronte quando si parla di “regolarità” a una gigantesca messinsce-

na in cui conta soltanto la convenienza e la geopolitica massonica? Se le donne entrassero nelle varie famiglie Massoniche a impronta maschile non è che verrebbero messi in serio imbarazzo proprio quegli elementi di frammentazione che non avrebbero più senso di esistere? Rimossi gli ostacoli, non sarebbe postulabile una Massoneria finalmente unita e perciò in grado di essere credibile e incisiva nel tessuto sociale del rispettivo Paese d’appartenenza? Non sarebbe ipotizzabile forse la realizzazione di quella Massoneria Universale che invochiamo all’apertura dei nostri lavori e che viene puntualmente disattesa, almeno qui in Italia, da continue divisioni e frammentazioni? Scrive R. Ambelain: “A forza di distribuire dei certificati di regolarità o di rifiutarli la Gran Loggia Unita d’Inghilterra, derivata dalla Gran Loggia di Londra e di Westminster, che era inizialmente la Gran Loggia di Londra ha finito di far credere che solo lei sia regolare” 12. Dopo 22 anni di Massoneria credo di aver compreso che ci sia una regolarità e un riconoscimento, ovviamente se l’iniziazione e i passaggi sono stati condotti nell’alveo di regole e rituali aderenti realmente alla Tradizione, che conta al di là dei Principi che ogni Comunione possa legittimamente adottare nei propri Statuti e/o Regolamenti. Si tratta della Regolarità e del Riconoscimento del Cuore e dell’amore fraterno: ovvero il rispetto del Trinomio, la tolleranza, la generosità, la lealtà, l’altruismo, l’amore ... con il cuore posso riconoscere un vero fratello o una vera sorella! Del resto certi punti sulla Regolarità, che parevano fermi e bloccati, mi pare che lentamente comincino a manife-


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stare qualche “crepa” proprio a casa di chi certi principi li aveva codificati, lasciando aperte Vie che prima o poi, mi auguro, faranno prevalere il buon senso e l’amore fraterno sulle logiche geopolitiche attualmente in essere. In Inghilterra esistono attualmente associazioni iniziatiche femminili che si basano sul “compagnonico” ordine della tessitura e l’Order of Woman Freemasons, che conta più di 300 Logge, e pur non essendo riconosciute dalla UGLE sono molto stimate. Un documento della UGLE del 10 Marzo 1999 ha dichiarato a firma del Gran Segretario che “esistono in Inghilterra e nel Galles almeno due Grandi Logge per sole donne. Eccetto per il fatto che questi corpi ammettono le donne, queste sono, da quanto finora accertato, assolutamente regolari nella loro pratica. C’è n’è anche una che ammette uomini e donne. Queste non sono riconosciute da questa Grande Loggia e lo scambio di visite non può avere luogo. Ci sono a volte comunque, discussioni con le Grandi Logge femminili sulle questioni di reciproco riconoscimento. I Fratelli sono perciò liberi di spiegare a non-muratori, se interpellati sull’argomento, che la Massoneria non è riservata agli uomini (sebbene questa Grande Loggia non ammetta donne). Ulteriori informazioni su questi corpi possono essere ottenute scrivendo al Grande Segretario”. In sostanza le Comunioni femminili e miste vanno considerate “regolari nella pratica”, pur non essendo ufficialmente riconoscibili da parte di una gran loggia “regolare”. Questo perché la presenza femmini-

le viola i “Principi per il riconoscimento di una Gran Loggia” pubblicati dalla stessa UGLE13. In pratica siamo all’assurdo di Gran Logge considerate Regolari che non possono essere riconosciute da un’altra Gran Loggia Regolare senza che siano violati i principi per il Riconoscimento, che agiscono come un blocco-autoimposto. Nel 2008 il World Award destinato per il miglior lavoro massonico di un Massone non appartenente alla UGLE non è andato a un esponente di una Obbedienza riconosciuta ma a Karen Kidd, una donna appartenente all’“Onorevole Ordine della Massoneria Mista Americana”, “Shemesh Lodge n.13”, Seattle, che ha presentato una tavola dal titolo “Io sono regolare”. Logge d’adozione Il ritorno delle donne nelle Logge avven-

ne nel Continente e, più precisamente, nella galante terra francese. I Clavel14 accennano che verso il 1730 si crearono delle società androgine, che usavano forme para-rituali imitanti quelle massoniche. Più tardi, si crearono ufficialmente delle Logge d’Adozione, d’effettiva origine massonica, “come un mezzo onesto di far partecipare le mogli e le figlie dei Massoni ai piaceri che essi provavano nelle loro feste misteriose”. Il Findel15, nonostante la mole enciclopedica della sua opera, non accenna in alcun modo alle “Logge d’Adozione” e alla Massoneria Femminile. L’unica opera sull’argomento è quella del Le Forestier 16. Anche quest’autore si sofferma sulla nascita di società androgine imitanti la Massoneria per fini di divertimento. Ma è evidente che è solo per una sorta di ma33


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liziosità o per pignoleria erudita che lo storico sopracitato ha parlato di società quali l’Ordine dei Cavalieri e delle Ninfe, della Rosa, dei Mopses, ecc., come origine prima delle Logge d’Adozione. Il Le Forestier riporta, in nome di questa maliziosità, alcune notizie su una Confrérie de Figues che voleva “far rivivere l’età dell’oro praticando la comunità dei beni ed estendendola a quella dei corpi”. Le Soeurs de la Figue Noire dovevano accordare, con una docilità e una compiacenza senza riserve, tutti i favori che avrebbero chiesto i “Frères du Chapeau Noir”. Quest’imitazione sensualistica dei misteri framassonici, la cui riservatezza era cagione d’estrema curiosità nel mondo profano e soprattutto in quello femminile, non può aver certo preformato le “Logge d’Adozio34

ne”, sottoposte d’altro canto a un rigido codice, ove erano accolte soltanto le mogli e le figlie dei Massoni e dove si trasmetteva un simbolismo ultra-virtuoso e moralistico, certamente desiderato e voluto dai Fratelli e imposto alle “Sorelle”. Questa modalità di appartenenza alla Massoneria caratterizza ancora oggi in alcune Comunioni un certo tipo di presenza femminile. Per molti autori, tra cui V. Vanni, il rituale d’adozione non ha niente a che vedere con l’iniziazione femminile. La definisce una necessità più sociale e familiare e comunque subalterna all’uomo, compiuta obtorto collo, al di là dell’epoca in cui si sviluppa, piuttosto che una derivazione da una convinzione iniziatica17. C’è una falsa magnanimità, una superiorità in chi

concede, in chi tollera, in chi regala generosamente. Ovviamente, specie nell’antico, non si inizia mai la donna nubile, sola, libera, senza padrini e protettori. I rituali d’adozione insistono sulle virtù femminili quale quello della fedeltà; non a caso il simbolo dell’Ordine delle Mopses è il cane Carlino, emblema di assoluta fedeltà. “Ma quali sono questi doveri, queste presunte virtù”, si chiede il Vanni: “la fedeltà coniugale, i propri doveri di madre e di moglie, casalinga o squisita padrona di casa? Quindi la virtù consisterebbe nell’adorante sottomissione, nell’obbedienza, qualità prescritte anche ai bambini e agli schiavi. Ma esiste ancora oggi questa virtù femminile, per la quale gli uomini dovrebbero cadere in ginocchio offrendo fiori, cioccolatini e stipendi?… o forse, non vogliamo prendere consapevolezza entrambi di quanto sia si diversa la nostra natura in senso biologico ma uguale in fatto di debolezze, di seduzioni interessate, d’inganni…situazioni che sono spesso fonte di dolore,umiliazioni, a volte tragedie” e di cui, aggiungo, conseguentemente si riempiono talvolta gli studi degli avvocati e degli psicoterapeuti individuali e di coppia. Tornando al piano strettamente massonico credo che sarebbe più corretto per il ruolo subordinato nei confronti dell’uomo in questo tipo di adesione adottare la dizione “Tornata d’Adozione femminile” anziché quella di “Loggia d’Adozione” 18. Garibaldi e le donne In Italia una apertura alle donne si ebbe con l’“eroe dei due mondi” Giuseppe Garibaldi. E Stolper19 in una sua ricerca parla di un documento, successivo a un viaggio in Inghilterra del Generale, datato 15 Maggio 1864 e redatto a Caprera in cui al punto 4 Garibaldi parla della necessità di creare delle Logge di donne. Alcuni autori20 lasciano adombrare che non si trattò soltanto di Logge di Adozione, ma che vennero fatte importanti probabili eccezioni e cita tra tutte la Contessa Leonilda Fimiani, tesoriere della Vessillo e Carità ed Annita, le contesse Milbitz e Altems iniziate alla Ausonia, la sig.ra De Atanasio, moglie del Capo dell’approvvigionatore dei foraggi del Re, alla Cavour, alla Dante la figlia di Francesco Gaggione, maggiore di artiglieria originario di Monteleone Calabro. Nel 1871 anche a Livorno nella Garibaldi-Avvenire si iniziò una donna con grande scandalo! Non


mancano segnalazioni in Lombardia (Cristina Trivulzio detta Belgioioso), Veneto (Fua Fusinato) e Lazio (Damo, Iezzi, Terigi e Persiani), ma in queste tre regioni si tratta di Logge d’Adozione. Nella Loggia Romana fu animatrice la Livornese Mengozzi, moglie di Ettore, uomo di fiducia di Angherà. Oltre ad avere il titolo di “Gran Principessa della Corona” ottenne il titolo di “Principessa Rosa-croce”, grado allora squisitamente maschile. Un’altra donna soltanto, una certa Cigala, ebbe il medesimo riconoscimento. Dopo la presa di Roma viene descritta da Luigi Parascandolo21 una Loggia di “Massonesse” impiantate in Firenze. Recentemente la Gran Loggia D’Italia ha esibito un documento molto importante di una elevazione a Maestra di Luigia Candia, di Pisa, di anni 27, di Giovanni, maritata all’ill.mo fratello 33 Paolo De Michelis, datato 20 Maggio 1867 firmato da Giuseppe Garibaldi e rilasciato dal Supremo Consiglio del Grande Oriente d’Italia sedente in Palermo22. Un analogo documento di tal Susanna Elena Carruthers, sempre residente in Pisa, rilasciato il 28 Giugno del 1867, di anni 36, nata a Edinburgo e figlia di William, è visionabile sul web23. La cosa incontestabile e importante è che in entrambi i documenti si dice che esistevano altre Sorelle, segno evidente che il proposito del 1864 di Giuseppe Garibaldi era divenuto realtà: “Preghiamo in conseguenza tutte le Sor.Mas. di riconoscerla ed ammetterla ai loro Trav.” si legge infatti nel documento di Luigia Candia.

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La Grande madre I primi graffiti preistorici furono scoperti alla fine del XIX secolo e se ne negò all’inizio l’autenticità accusando ingiustamente uno degli scopritori, il De Sautola, di averli falsificati. La società darwinista non poteva accettare che ci fossero manifestazioni artistiche in uomini vicini alla rozzezza antropoide. Oltre ai dipinti famosi con le scene di caccia, l’altra raffigurazione numerosa e abituale è la Venere Steatopigica (dai grandi glutei). Alcuni esemplari riproducono anche un foro. È una donna obesa e sfiancata dalle maternità, grandi seni cadenti e addome enorme. In taluni esemplari ha un corno, simbolo di fertilità in mano (i corni venivano usati come contenitori di vivande – Cornucopia dell’abbondanza). Ma perché il genere umano

sceglie come prima divinità archetipica una entità femminile come questa? Meraviglia per l’allattamento. Nutrizione. Meraviglia per il parto, non collegato, secondo alcuni antropologi, dai primitivi all’atto sessuale ma visto come evento quasi magico. Osservazione della natura e coincidenza tra le fasi lunari (ciclo, parto) e le prime forme di agricoltura primitiva. Uomo cacciatore aveva vita aspra, violenta, materiale. Alle donne era affidata la mediazione tra materia e spirito. Emerge anche un primo concetto di eguaglianza sociale con riferimento all’eguaglianza dei figli di fronte all’amore materno. Madre vista anche come distributrice di generosità. È infatti produttrice di semi e frutti che offre generosa al mondo. È il mito che poi è stato trasposto in Gea o Maia la terra. 35


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Simbologia del Sole e della Luna Nel mito successivo di Dioniso il sole che nasce ad Oriente (ex Oriente Lux) porta un fuoco che può essere domato solo nella brezza della sera, nel crepuscolo che porta la notte e la luna, nelle acque, così tipiche del femminile e delle grandi dee. Non vi è opposizione tra principio solare e lunare, ma complementarietà. Nella simbologia del sole e della luna, simbolo rispettivamente del maschile e femminile, questi astri sono sottoposti nelle nostre Logge alla stella fiammeggiante. Nel Rebis alchemico, figura ermetica riportata da molti autori quali Basilio Valentino nel 1659 e più tardi dal Wirth, diviene simbolo di una congiunzione, di un doppio, che esprime complementarietà ed esaltazione delle caratteristiche maschili e femminili 24. Nell’astrologia esoterica25 il domicilio notturno del sole è nel regno delle madri, nel grembo e nelle acque dell’utero quando il feto ha ancora gli attributi potenziali di ambo i sessi, che come vedremo in realtà sono dimostrabili anche da alcune evidenze scientifiche. Il domicilio diurno della luna è al centro 36

stesso dell’astro solare. L’essere umano colma questa nostalgia infinita dell’Uomo Luna e della Donna Sole nella via lunisolare dell’iniziazione. Proclo,26 la cui opera si può considerare esprimente gli assiomi fondamentali dell’esoterismo, che è una visione arcaica e futuristica assieme del mondo, afferma, parlando dell’affinità micro-macrocosmica del simbolismo del Sole e della Luna, che: …non è forse questo il motivo per cui il girasole si muove in sintonia con il sole e il seletrópion [pianta a segnatura lunare] in sintonia con la luna, compiendo la propria rivoluzione, nei limiti delle proprie possibilità, insieme con le lampade del mondo?… Una curiosità riguardo alla pretesa iniziazione solare sostenuta in alcune Comunioni Maschili. Nei rituali del Grande Oriente d’Italia, tuttora in uso, il Vanni fa presente che si legge: “essendo la nostra iniziazione solare, le donne non possono essere ammesse ai nostri misteri”. 27 Questa frase in realtà non è patrimonio di una Tradizione antica ma risale al 1969. Il rituale poi continua così: ”Tuttavia, noi le rispettiamo e le onoriamo. Questi guanti sono destinati a colei che rappresenta la tua perfetta polari-

tà contraria, cioè quella lunare”. Lo stesso Autore ha interpellato I F.lli Drake e Renato Caporali, allora nella Commissione Rituali, che gli hanno confermato che, dopo il fisiologico ripristino della consegna dei guanti per la compagna, giustamente reintegrata e mancante nei rituali del 1949 e del 1955, la frase relativa all’iniziazione solare, contrapposta a una polarità lunare, era stata “inserita” al fine di dare una motivazione plausibile all’esclusione, altrimenti non evidenziabile. In sostanza, la consegna dei guanti da donna è tradizionale, la giustificazione invece è posteriore e non legata ad alcun riferimento di ordine rituale. Andando infatti a vedere attentamente cosa recita il rituale francese da cui il Farina ha attinto per la compilazione dei rituali scozzesi28 si legge: ”Ceux-ci sont destinés pour celle que vous aimez le plus, persuadé qu’un macon ne sauriet faire un choix indigne de lui”, praticamente “Questi sono destinati a colei che più amate, persuaso che un Massone non potrebbe fare una scelta indegna di lui’. Non ci sono riferimenti né all’iniziazione solare né all’esclusione delle donne. Tantrismo


Nell’iniziazione Tantrica, legata inizialmente alla società matriarcale degli Harappei29 (2000 a.C.), la donna era estremamente più generosa di noi. Non ci precludeva all’iniziazione ma ci faceva salire e lo fa, ancora oggi, per chi pratica il tantra, fine alle soglie superiori della conoscenza col Divino. Attraverso il Maithuna, il Rituale della grande unione, uomo e donna nella posizione in cui la donna è seduta sopra l’uomo, lo sguardo uno nell’altro, le spine dorsali entrambe erette, a ripetere l’accoppiamento universale di Shiva e Shakti, con l’energia dell’uomo che viene spostata dal 5° chakra, la gola, centro energetico della comunicazione a cui arriverebbe con le sue sole forze, fino a quello del 6° dell’intuizione, in pratica il terzo occhio, un chakra a cui la donna giunge naturalmente e spontaneamente e che l’uomo, senza l’amore della donna, difficilmente raggiungerebbe, e da lì progrediscono singolarmente verso il settimo, posto alla sommità della testa (il contatto con il Divino) Ebraismo e Kabbalah Siamo in un mondo che sta indubbiamente cambiando a velocità supersonica. Viviamo in una epoca particolare dove l’uomo deve fare i conti con una società che, per scelte medico-economiche, sta mettendo sempre più in dubbio il suo ruolo di maschio. In America da anni, cioè dal post-Vietnam, e recentemente in Europa si sta affermando una figura di “maschio tenero”30 poco in contatto con la sua forza, demonizzata dalla società che la equipara ingiustamente ad aggressività. L’osservazione stessa della normale e naturale fisiologia ci porta inevitabilmente a considerare quanto scarso sia l’apporto maschile nella trasmissione della più importante delle Iniziazioni, quella che sta alla base di tutte le successive: l’Iniziazione alla vita. Eppure c’è anche chi fa sottili distinguo che, comunque, conducono sempre alla solita conclusione dell’esclusione della donna dalla via massonica: ovvero che la donna potrebbe essere al limite iniziata, ma non essere in grado di trasmettere. Le evidenze scientifiche dicono ben altro. L’apporto del maschio è oggi facilmente sostituibile con tecniche divenute ormai di relativamente semplice applicazione, mentre l’apporto della femmina non è altrettanto facilmente surrogabile: il forno

alchemico in cui avvengono la fusione e poi tutto il successivo processo della trasmutazione, con il finale trapasso dal buio alla luce, è esclusivamente femminile. Noi tutti sappiamo di essere figli di una prima e unica Femmina mitocondriale - una Madre primordiale – necessaria perché il maschio non è in grado di trasmettere elementi cellulari fondamentali per la vita: i mitocondri appunto, batteri mutati che si sono adattati a vivere all’interno delle nostre cellule e che “respirano” per noi, rendendo possibile la vita stessa. Già solo questo sarebbe sufficiente per sostenere che la Donna è la detentrice prima del diritto e del potere di trasferire l’Iniziazione. Eva, Chawwàh, che rappresenta letteralmente “colei che dà la vita”, possiede poi alcune caratteristiche fondamentali per essere iniziata e trasmettere l’Iniziazione: secondo Genesi 3,6 è lei a comprendere che il frutto dell’albero della conoscenza “è buono da mangiare … piacevole agli occhi … e desiderabile perché rende sapienti”. Eva cioè possiede, prima ancora di Adamo, tre attributi: facoltà di discernere, capacità di godere della bellezza estetica e desiderio di conoscenza. Non sono forse tre degli attributi che in Massoneria vengono cercati nell’Uomo di desiderio, cioè in colui che dovrebbe essere candidato all’iniziazione? La stessa tradizione Kabbalista riconosce nella Shekinà (presenza di Dio, simboleggiata dalla luce lunare), la personificazione della sposa capace di bellezza (tiferet), amore (besed) e conoscenza (da’at), stabilendo così una successione di anelli associativi che uniscono: Donna → Luce → Bellezza → Amore → Conoscenza. Inoltre, contrariamente a ciò che spesso si pensa e afferma, l’ebraicità che viene trasmessa con l’atto del concepimento e della nascita non è un concetto razziale: per essere ebrei infatti è sufficiente avere una madre ebrea; il padre non conta. Eppure non si può certo dire che l’Ebraismo non sia la religione dei Patriarchi! Dunque non la purezza della razza o del sangue fanno l’ebreo ma l’essere stato concepito e l’avere avviato la propria Iniziazione alla vita in un “ forno alchemico”, cioè in un “utero” ebreo. La madre, e solo la madre, trasmette l’essenza dell’ebraismo: perché essa nutre, conserva, protegge, educa, fa crescere … in una parola fa “respirare” l’ebraicità sin dai primi momenti della vita: il feto vive e

respira del sangue della madre, ne avverte le emozioni, i sussulti, ne ascolta la voce, la sente parlare, ridere e piangere e attraverso queste sensazioni, trasmesse con l’immediatezza irripetibile di una “Iniziazione fisiologica”, si costruisce l’ebraicità.31 Ciò che pare essere la credenza o l’intuizione

Massoneria di una religione, trova oggi riscontro negli studi più moderni sul periodo prenatale (Bowlby, Winnicott, Rispoli)32. La donna quindi risulta sicuramente essere detentrice della capacità e del potere di Iniziare, di trasmettere cioè un’essenza unica, se mai ci fosse stato bisogno di dimostrarlo. In Massoneria la Donna che, a buon titolo naturale, ha la prerogativa di donare la vita, dovrebbe godere, in questo ambito, di ovvie e dovute condizioni paritetiche, senza che neppure vengano messe in dubbio. La detentrice per diritto naturale della capacità di Iniziare alla vita non può essere privata della possibilità di trasmettere altre Iniziazioni che sono razionalmente definite, comprese e condivise. La Gran Loggia d’Italia ha fatto suo questo concetto fin dal lontano 1955. Psicologia, tao ed alcuni elementi sulla sessualità Nell’inconscio collettivo l’intuizione è femminile e si oppone all’eccesso di razionalità maschile. L’uomo nel corso dei millenni ha costruito dolorosamente uno iato che separa la coscienza razionale dalla coscienza intuitiva naturale dell’animalità da cui deriva. Jung33, fratello della Loggia Modestia cum Libertate di Rito Scozzese Rettificato all’Oriente di Zurigo, in L’io e l’inconscio parla di Anima, la parte femminile dell’inconscio maschile, e Animus, il maschile di quello femminile34. L’obiezione potrebbe essere quella che si tratta solo di un modello, che funziona anche bene, ma soltanto un modello utile per la terapia. Anche il simbolo taoista dello Ying e dello Yang, principi femminile e maschile, che hanno nel massimo della loro estrinsecazione caratteristica un punto che ricorda il sesso opposto, potrebbero essere a una prima e superficiale vista essere equiparati a un modello o un emblema, senza riscontro negli aspetti psico-fisici dell’essere umano. Ciò che l’analisi junghiana e il taoismo postulano trova però riscontro in 37


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alcune nozioni embriologiche. La scienza dice che in noi residuano vestigia atrofiche dell’altro sesso, residuo e “ricordo” di un caos da cui si avvierà lo sviluppo definitivo che poi si differenzierà per il sesso a noi corrispondente. In questo caso non si tratta solo di un modello, perché le conquiste recenti della fisiologia in ambito di sessualità paiono proprio portarci in altra direzione; infatti il Punto P (prostatico) nell’uomo ed il Punto G nella donna, oltre a essere costituiti da tessuto embrionario tipico dell’altro sesso, sono da considerare zone attive, delle vere e proprie zone erogene, connesse fortemente con il piacere35. Conclusioni Ogni Comunione esprime con toni lieve38

mente diversi più o meno il seguente concetto: “che può nell’interesse dell’antica fratellanza, fare nuove norme o modificarne delle vecchie”; Anderson aggiungeva “purché siano mantenuti scrupolosamente gli Antichi Landmarks”. In questo articolo credo di aver dimostrato, tramite autori vari, tra cui alcuni anglosassoni che hanno dato lustro alla Quator Coronati, quanto risulti paradossale la frase del Pastore Anglicano, che aveva probabilmente eliso, occultato se non addirittura incendiato questi Landmarks. Abbiamo altresì visto che, pur non essendo la consuetudine, nella Massoneria Operativa l’iniziazione alle donne era concessa. Nei prossimi anni a

venire, d’accordo o no, la richiesta d’Iniziazione femminile in ogni Massoneria sarà sempre più presente. Se verrà accolta sarà bene che avvenga nel rispetto di parametri esoterici, che sono presenti e reali, piuttosto che per delle motivazioni etico sociali, che sarebbero l’ennesima forma degenerativa della Tradizione Massonica. Siamo indietro anche rispetto alla Chiesa, che talvolta viene citata ad esempio di arretratezza; parlo ovviamente di Massoneria in generale e non della nostra Comunione che, ricordo con orgoglio, ha fatto scelte importanti e coraggiose al riguardo, come detto, già dal lontano 1955. Al concilio di Trento svoltosi tra il 1545 ed il 1563 si attribuisce la concessione dell’anima alle donne, ma già nel sinodo di Macon del 585 d.c il tema era stato affrontato. A quel sinodo partecipò anche il vescovo dì Tours, il futuro san Gregorio, il quale, al libro ottavo della sua Historia Francorum, ci lasciò la descrizione dei lavori. In una pausa un Vescovo pose ai fratelli un quiz filologico: il termine latino Homo può essere allargato nel senso di persona umana comprendente entrambi i sessi o è da intendersi nel senso ristretto di Vir (maschio)? Gli altri Vescovi lo rinviarono alla traduzione latina della Genesi, secondo cui Dio Creò l’essere umano (homo) come maschio e femmina. Negli Stati Uniti si ripropone oggi il solito problema e non si dice più il termine Chairman, a meno che non si voglia passare per maschilisti, ma Chairperson. Noi Massoni a volte siamo spesso a lamentarci che nella società non siamo abbastanza credibili. Vogliamo parlare della Pace e siamo divisi in molte famiglie. Parliamo di tolleranza ed uguaglianza e ci sono Comunioni che tengono le donne fuori dalle logge, siamo propugnatori della libertà ma i neri americani per seguire la via Massonica hanno costituito le Logge Prince Hall. Abbiamo paura della diversità che è invece sempre fonte di arricchimento e miglioramento individuale. Uguaglianza sociale e diversità sessuale sono forse problemi all’Iniziazione? Non possiamo estendere il concetto di diversità in senso più ampio al singolo, visto che ognuno di noi è unico nella sua irripetibilità, nella sua diversificazione del prossimo, in poche parole nella sua diversità dall’altro. Allora quale è il concetto che impedisce


Massoneria

a una persona diversa per sesso, religione o colore della pelle di essere iniziata? Vogliamo fare peccato di presunzione, dimostrando di conoscere le caratteristiche dell’animo umano e sostituirci al GADU, di fronte al quale bianchi e neri, gialli e rossi, uomini e donne siamo tutti uguali? Ancora una volta, emerge di nuovo domanda posta all’inizio: “Iniziamo l’uomo, la donna, o l’essere umano?”. Concludo, facendo mie le parole di Giorgio Gaber, tratte dal monologo “Secondo me la donna”, che dopo aver introdotto i motivi di uguaglianza sul piano sociale, così si esprime sulla diversità: “Sì secondo me la donna e l’uomo sono destinati a rimanere assolutamente differenti e contrariamente a molti io credo che sia necessario mantenere certe differenze se non addirittura esaltarle queste differenze perché è proprio da questo scontro incontro tra un uomo ed una donna che si muove l’universo intero. All’universo non gliene importa niente dei popoli e delle nazioni, l’universo sa soltanto che senza due corpi differenti e due pensieri differenti non c’è futuro” 36. ________________ Note: 1 “Corriere della sera”, 10 Aprile 2010, Tortora F., Svolta in Francia. Donne nella Massoneria. 2 Traduzione da Costituzione e Regolamenti della U.G.L.E / Gran Loggia Regolare d’Italia – Statuti e regolamenti, 2003.

3 Ritorto R., Tavole Massoniche. 4 Jones B.E., Guida e Compendio per Liberi Muratori. 5 Gould R.F, The History of Freemasonry. 6 Ambelain R., La Franc-Maconerie oubliè. 7 Vanni V., Esoterismo e rivoluzione, scritto inedito. 8 Guénon R., Studi sulla Massoneria. 9 Vanni V., Iniziazione femminile e Massoneria da Zenit e http://www.zen-it.com/mason/studi/ inizfemm&mas.htm 10 Naudon P., Le origini della Massoneria. 11 Traduzione da Costituzione e R egolamenti della U.G.L.E / Gran Loggia Regolare d’Italia – Statuti e regolamenti, 2003. 12 Ambelain R., La Franc-Maconerie oubliè.

24 Urzì Brancati A., Androginia - http://www. memphismisraim.it/id74.htm 25 Vanni V., L’iniziazione femminile – metamorfosi e trascendenza. 26 Proclo, I Manuali. Testi Magico teurgici. 27 V. Vanni, Iniziazione femminile e Massoneria da Zenit http://www.zen-it.com/mason/studi/inizfemm&mas.htm 28 Farina S., Rituali dei lavori del rito scozzese antico e accettato. 29 Zadra E&M., Tantra la via dell’estasi sessuale. 30 Bly R., Per diventare uomini. 31 Biglino M., Tavola Architettonica Mixité: fisiologia e razionalità dell’Iniziazione.

13 Gerli F., La Massoneria e le donne http://loggia-andreadoria.com/documenti/donne.htm

32 Rispoli L., Esperienze basilari del sé.

14 Clavel B., Clavel F.T., Storia della Massoneria e delle società segrete.

34 Jung K.G., L’io e l’inconscio.

15 Proclo, I Manuali. Testi Magico teurgici. 16 Le Forestier R., Maçonnerie feminines et Loges Academiques. 17 Vanni V., L’iniziazione femminile – metamorfosi e trascendenza.

33 Jung K.G., L’uomo e i suoi simboli. 35 Zadra E&M, Il punto G. Una guida tantrica al mistero della sessualità femminile. 36 Gaber G., Monologo Secondo me la donna dallo spettacolo Un’Idiozia conquistata a fatica.

18 Vanni V., Iniziazione femminile e Massoneria da Zenit e http://www.zen-it.com/mason/studi/ iniz-femm&mas.htm 19 Stolper E., Garibaldi Massone. 20 Polo Fritz L., La massoneria italiana nel decennio post-unitario: Ludovico Frapolli. 21 Parascandolo L., La frammassoneria figlia ed erede del manicheismo. 22 Pruneti L., www.luigipruneti.it 23 Neri M., Principi e ordinamenti iniziatici femminili. http://www.ritosimbolico.net/studi2/ studi2_03.html

P.28: Grande Madre, reperto di area iranica; p.29: Coppia di amanti, avorio, scultura di area indiana; p.30-31: Documenti massonici di Marie Deraismes; p.32: Ritratto con insegne di Marie Deraismes; p.33: Ritratto con insegne di Marie Bonnevial, Gran Maestro dal 1914 al 1918; p.34-35: Marie Georges Martin, 33: . p.36: Parigi, la sede centrale de ‘LE DROIT HUMAN’; p.38: 1771, stampa sulla ‘donna Massone’ (vd. foto); p39: ‘Anch’io libero/a’, stampa Rivoluzionaria, XVIII sec.

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Mito

La Fonte di Narciso Riflessioni Esoteriche sul Mito Marco Quadrelli

N

el Settecento e nell’Ottocento erano di moda i giardini simbolici che, in taluni casi, si presentavano come veri e propri percorsi iniziatici. Ne è un esempio il Parco delle Cascine a Firenze che, nel tempo, si è andato via via arricchendosi di statue e monumenti con significati anche esoterici. È il caso del fonte di Narciso ubicato nell’omonimo vialetto; questo monumento è costituito da una piramide tronca (figura già di per sé ricca di valenze simbolico-esoteriche) sulla quale sono incisi questi versi: ‘Eterno monumento in questo luogo/ generosa pietà fonda a Narciso/ che vagheggiando al fonte il proprio viso/ morì consunto d’amoroso fuoco”. Il mito di Narciso, contenuto nel III libro delle Metamorfosi di Ovidio, si snoda - com’è noto - col racconto dell’efebico giovane che, specchiandosi nell’acqua della fonte, vede la sua bellissima immagine riflessa; e qui mi è subito venuto da pensare alla valenza allegorica di ciò: Narciso (l’Uomo) vede il suo involucro esteriore, materiale e, restandone affascinato, 40

se ne innamora anche se talora l’immagine risulta distorta da una seppur lieve increspatura dell’acqua. Tuttavia se ne innamora perché - inconsciamente direi - percepisce, intuisce l’emanazione divina della sua immagine (si veda il celeberrimo motto della Tavola Smeraldina di Ermete Trismegisto), ma è ancora fermo all’esteriorità, all’apparenza ingannevole. Cionondimeno, Narciso è attratto irresistibilmente da quella immagine stupenda, la vuole toccare e baciare, vuole procedere oltre lo specchio delle apparenze; così si protende verso di essa fino a cadere nello stagno, scendendo giù, a toccarne il fondo fino alle profondità più oscure (dell’interiore); e muore. In quel preciso istante - quello della Morte simbolica, della Iniziazione Finale - si rende conto di tutto, trova la occultam lapidem, conosce la Verità. E alla sua morte fa seguito la nascita di una nuova vita: sul ciglio dello stagno, infatti, sboccia un fiore bianco (un narciso, appunto, al quale per gli antichi greci erano collegate le idee del sonno, della morte, dell’Ade) dando inizio, così, a

un nuovo ciclo esistenziale. Narciso viola lo specchio d’acqua (elemento indispensabile a ogni forma di vita, componente maggioritaria del nostro corpo materiale e nella quale noi esseri umani siamo a lungo immersi prima di venire al mondo), penetra la fonte e, giunto a scoprire la Verità, si trasmuta rigenerandosi. A questo punto, scartabellando nei meandri della mia memoria scolastica, è emerso un altro mito di un certo interesse a questo riguardo: quello di Dioniso bambino, figlio preferito di Zeus; egli, contemplando la sua immagine riflessa in uno specchio, si gettò a creare tutta l’umanità. L’immagine che il Dio bambino pone nello specchio si rovescia, promana nell’immagine globale del mondo mediante un atto creativo compiuto dal Dio stesso. Daniela Diana – operatrice sociale in favore di soggetti svantaggiati – scrive al riguardo: ‘‘La verità della creazione è un dio che si specchia: nell’istante di quell’azione passiva accade la divisione dell’identità divina nella pluralità delle parti. Ecco dunque che il momento della dispersione


Mito

creativa non può non richiamarci simbolicamente all’identità tra il dio ed il mondo, atto che si rinnova continuamente nel momento della riflessione (soggettiv. del verbo riflettere) ”. E non a caso il dio Dioniso è ‘‘bambino’’; sempre Daniela Diana: ‘‘La meraviglia di fronte alle cose, lo stupore di fronte al creato sono la sfida che i bambini lanciano ogni giorno nei confronti della natura. Il loro fare disinteressato, sciolto dai legami con le cose, rivela la capacità di condividere una medesima esperienza con soggetti diversi, riuscendo anche a conferirle un senso, cioè di poterla dire, pensare e rappresentare perché la si è percepita in modo non prevenuto ”. Quanto sopra per agganciarmi alla sofferenza esistenziale tipica di questa nostra epoca, accecata da un progresso unicamente scientifico, materiale e quindi fuorviante e illusorio. Al contrario di quello del bambino, il nostro sguardo è stanco e disincantato; è lo sguardo di chi ha barattato la sorpresa, lo stupore, la meraviglia, in distanza, estraneità, amarezza. Siamo di fronte a uno specchio che ci riman-

da un’immagine che non riusciamo più a riconoscere e assistiamo, così, alla metamorfosi dell’epoca moderna e contemporanea: la trasformazione del riflesso del ‘‘sé’’ che riteniamo così familiare in un portatore estraneo di turbamenti e dolori. Narciso ha finito di riconoscersi nello specchio d’acqua, così come la più parte di noi oggi non riesce più a riconoscersi nello specchio del mondo - meglio, dell’universo -. Ecco dunque il disagio dell’individuo moderno e ancor più di quello contemporaneo, inserito in uno scenario di cui gli sfugge la comprensione, assillato dal desiderio-esigenza di orientarsi in un mondo il cui senso si sta facendo sempre più recondito e nascosto e di cui non ha gli strumenti adatti per cercare e trovare. In questo scenario nel quale al posto della dimora comune troviamo il luogo dell’estraneo, l’avversario, si rende necessaria una formazione, una guida che ci insegni a disvelare le false e vuote apparenze e ci affratelli nella ricerca del Vero, del Bello e del Giusto, il che significa conoscere le cose senza impedimenti, dogmi, né attac-

camenti moralistici, perché sciolti dal legame verso la materialità. ‘‘Noi non ci meravigliamo che tu pianga tanto Narciso, perché era davvero bellissimo - Ma era bello Narciso? – disse lo stagno. Chi potrebbe saperlo meglio di te? – risposero le Oreadi. Ci passava sempre davanti, ma cercava te e si stendeva sulle tue rive e guardava dentro di te e nello specchio delle tue acque specchiava la propria bellezza. - Allora lo stagno rispose: Ma io amavo Narciso perché, mentre egli se ne stava Disteso sulle mie rive e mi guardava, nello specchio dei suoi occhi io vedevo sempre specchiata la mia bellezza’’. Oscar Wilde _______________ Bibliografia e Spunti vari: L. Pruneti – R. Pinotti, Stradario magico-insolito di Firenze, Le Lettere, 2008. Daniela Diana, Lo specchio di Narciso, Soc. Coop. a.r.l. “A.R.C.A.” ONLUS.

P.40-41: Echo e Narcissus, J.W.Waterhouse, olio su tela, 1903.

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Mistica

Gli angeli e le “sante” Ida Li Vigni 42


E

ssere inafferrabile come il guizzo di luce che lo manifesta, l’angelo sembra appartenere più che all’umanissimo bestiario dell’immaginario collettivo all’astratto e lontano mondo del logos. Pura presenza e pura essenza che si manifesta agli uomini in un bagliore accecante o in un’armoniosa onda di suono, voce che “mostra ciò che deve accadere” (per parafrasare un noto versetto dell’Apocalisse) e che disvela a coloro che sanno ascoltarla i misteri del Divino, esso appartiene a un’oltranza così inattingibile che solo chi è toccato dalla Grazia può accostarvisi e parteciparvi. Ormai estraneo ai pagani messaggeri degli dèi che non disdegnavano assumere sembianze e comportamenti umanissimi, l’angelo rimane sempre e comunque estraneo al mondo degli uomini con i quali pure dovrebbe interagire, a differenza del suo “fratello” malvagio che vi si trova fin troppo a suo agio, tanto da confondersi disinvoltamente con il naturale e il terreno. E’ forse per questo suo essere sfuggente, per questo suo non avere corpo pur potendo partecipare al corporeo (se dobbiamo prestare fede ai teologi secenteschi che dissertarono disinvoltamente sulle funzioni “biologiche” degli angeli), che nella letteratura - fatta la debita eccezione delle agiografie o dei trattati di teologia l’angelo trova raramente ospitalità. Creatura troppo perfetta, egli non possiede quella vis esistenziale indispensabile a costruire un vero personaggio, ovvero una persona in senso teatrale. Se proprio lo si vuole cogliere fra gli uomini, spoglio per un istante della sua intollerabile numinosità, bisogna spiarne il suo manifestarsi alle sante, quasi che dinnanzi alla donna, soprattutto se priva delle armi del sapere teologico, l’angelo ritrovi la sua originaria veste di Messaggero e si conceda qualche atteggiamento umano, da buon angelo custode quale dev’essere. Non a caso, dunque, egli compare a quelle sante e “possibili sante”, quasi sempre di origini umili, che a lungo hanno dovuto combattere per accettare la loro misteriosa “diversità” e per farsi accettare nella loro straordinaria esperienza. Costretto a scendere sulla terra dalla forza dell’immaginario femminile, l’angelo abbandona la sua veste di luce per indossare i prosaici tratti di un bellissimo giovane,

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forse realmente incontrato, forse soltanto disegnato dal desiderio che si sforza di diventare visione spirituale. Tre casi (ma infiniti altri potremmo citare) sono sufficienti a raccontare questa stupefacente investitura umana dell’angelo; e sono tre casi particolarmente emblematici, in quanto lasciano intravvedere un sostrato di cultura popolare difficilmente afferrabile nell’iconologia e iconografia tradizionali, confermando l’ipotesi di un sussistere umano della creatura di luce solo nell’ambiente non dotto o nella sfera del desiderio. Il primo caso è quello notissimo di Giovanna d’Arco che, tredicenne, viene folgorata dalla visita dall’arcangelo Michele (l’angelo-guerriero), venuto a imporle una missione non propriamente femminile (e dunque scandalosa): guidare la guerra che avrebbe riscattato le sorti del-

la Francia. Un primo dato indicativo dell’humus popolare che contraddistingue l’esperienza di Giovanna è ricavabile da un elemento temporale: questa prima apparizione ha luogo nel meriggio, nell’ora in cui Pan (e le sue successive incarnazioni) appare ai pastori o a chi si avventura nei boschi per apportare visioni. Vediamo come Giovanna, nel corso del processo, rievoca quel primo incontro: [...] Sono ora sette anni che le voci m’apparvero per la prima volta. Era un giorno d’estate, verso l’ora del mezzodì. Io avea presso a poco tredici anni ed era nell’orto di mio padre: udii la voce a destra, dal lato della Chiesa, e vidi al tempo stesso un’apparizione tutta risplendente. Ella avea l’esteriore di un onesto e bellissimo uomo, avea le ali, ed era d’ogni lato intorniata da molti lumi ed accompagnata dagli angeli. Perché gli angeli vengono spesso tra i cri43


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stiani, senza che questi li notino: io stessa li ho veduti spesso fra loro. Quello era l’arcangelo Michele [...] egli m’insegnò e mi mostrò tante cose [...] All’ingenua fanciulla, educata dalle prediche e forse anche dalle gesta cavalleresche che ancora si raccontavano nelle campagne, l’esperienza delle “voci” che appaiono (ovvero si manifestano e non si ascoltano, con uno slittamento semantico denso di significati inconsci, quasi che la voce, per sottrarsi allo statuto di allucinazione, debba accompagnarsi al corporeo) appare subito quale evento celeste, miracoloso. Non a caso, dunque, le voci s’incarnano nelle sembianze umane dell’arcangelo Michele (la cui natura angelica è appena accennata dal fin troppo scontato motivo delle ali) e delle sante Caterina e Margherita, dove però è l’angelo-guerriero a guidare la pulzella, a consigliarla (anche e soprattutto militarmente) e a confortarla, con un’emblematica rimozione dell’elemento femminile che la dice lunga sulla fin troppo “virile” volontà di autoaffermazione della Pulzella d’Orleans. Che l’immaginario di Giovanna sia decisamente poco ortodosso e fin troppo legato ai topoi cavallereschi (basti pensare al ritrovamento della “spada santa” e all’investitura militare rappresentata dalle vesti maschili che l’arcangelo Michele le fa indossare) appare indubitabilmente chiaro ai giudici che la interrogano: questa scandalosa virago di umili origini, che pretende di indossare l’armatura e di impugnare la spada per volontà divina e che dichiara tranquillamente di colloquiare con angeli e sante, non sa nulla di quelle essenze angeliche su cui dissertano elegantemente i teologi e risponde con il buon senso, troppo terreno e quindi demoniaco, degli uomini comuni. Le si chiede se l’arcangelo le sia apparso nudo e come abbia i capelli ed ella replica indignata che Dio veste gli angeli e non taglia loro le chiome. Ma dove scivola è allorché descrive l’investitura angelica di quell’Orleans tanto ingrato da prendere le distanze da quanto Giovanna dichiara. I giudici chiedono: [...] In che modo l’angelo portò la corona? [...] veniva dall’alto o toccava terra? [...] avanzò toccando terra? [...] C’erano altri con lui? [...] Ed ella replica: [...] Egli entrò dall’alto, passò dalla porta e

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toccando terra avanzò verso il re [...] Era accompagnato da molti altri angeli, che non tutti potevano vedere [ma il re, sì, e non lo dice], e nella schiera v’erano anche santa Catterina e santa Margherita [...] Un angelo che cammina toccando terra e che varca la soglia come un semplice mortale è veramente troppo per i giudici di Giovanna, abituati a presenze angeliche ortodosse che volano o levitano e che comunque mai si sognerebbero di consegnare spade e vesti maschili ad una fanciulla veramente timorata di Dio. Se l’arcangelo della Pulzella sembra uscito da un poema cavalleresco e assomiglia fin troppo a Parsifal o a Lancillotto, l’angelo custode di santa Francesca Bussi (1384-1436) non disdegna le manieri forti di un burbero pater familiae pur di avviare verso la Grazia la sua protetta. Come i santi di Jacopo da Varagine puniscono duramente i recalcitranti pagani, l’angelo di Francesca non esita a picchiar-

la ogni qualvolta commette una mancanza. Così, per citare un passo della biografia della santa: [...] Una volta, mentre faceva la sua confessione, dimenticando di raccontare di una grazia poco tempo prima ricevuta, fu colpita dall’angelo in modo sì violento, che la sua testa fu piegata infino a terra [...] A quest’angelo indubbiamente manesco ma efficace si sovrapporrà, allorché Francesca perderà via via i figli e il marito (ovvero quei legami terreni che le impediscono l’ascesi mistica e da cui prende le distanze quasi con un sospiro di sollievo) un angelo-guida più mansueto e affettuoso che la introdurrà ai misteri delle gerarchie angeliche e dei regni ultraterreni. Né è l’unico, dal momento che questa santa sembra avere un rapporto privilegiato con le gerarchie angeliche, addirittura impegnate a illuminarne le fatiche domestiche. Vediamo altri passi della sua biografia: 45


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[...] Oltre il suo angiolo custode [quello manesco] Francesca aveva altresì [...] un arcangelo ad assistente perpetuo. Esso lo vedeva giorno e notte sotto la forma umana di un giovane, vestito di una tunica bianca al paro della neve. Il suo volto raggiava più che il sole, a tal ch’ella poteva vederne lo splendore ma non tener fissi gli sguardi a lui. In due sole occasioni poteva contemplare la sua figura [...]: quando parlava dell’arcangelo al suo padre spirituale, allora ella poteva ben considerare i suoi capelli, i suoi occhi e le altre sue membra; indi, allorché era travagliata dagli spiriti maligni, ella guardava senza alcuna difficoltà l’arcangelo [...]. [...] Era tale lo splendore che mandava l’arcangelo, che al suo lume Francesca faceva la notte tutti gli esercizi necessari nella casa, senza bisogno di alcun lume materiale [...] Grazie a questo gentile angelo domestico Francesca apprenderà il destino generale degli angeli buoni e cattivi e diventerà esperta nello smascherare quegli “spiriti aerei” ingannatori che tormentano gli 46

uomini con malattie, tentazioni e calamità di ogni genere, mentre ad accompagnarla nel suo viaggio oltremondano sarà l’arcangelo Raffaele, assai più luminoso e splendente dei suoi predecessori. Il destino di Francesca sembra consumarsi tutto all’insegna dell’angelologia, anche se non poche perplessità dovette suscitare questo via vai di angeli nel padre confessore della santa. Sparito l’arcangelo Raffaele, ecco al suo fianco un arcangelo di ancor più luminosa bellezza. E’ il momento tanto atteso della tardiva consacrazione a Dio: accolta fra le Benedettine, Francesca ha subito una visione: [...] Ella era stata ammessa al Tempio celeste, davanti al trono luminoso di Dio, il cui sguardo, dopo aver percorso l’insieme della sua corte, si era arrestato sul quarto coro e si era fissato su uno dei più sublimi spiriti [...] Assai più grande e incomparabile era la bellezza del nuovo Custode [...] Sarà quest’ultimo Custode a presentare Francesca allo Sposo mistico, per poi sparire in un guizzo di luce, lasciando la santa, ormai giunta all’ultima tappa del

suo viaggio mistico, in sereno colloquio con Dio. Se si analizza la biografia di Francesca Bussi ci si rende conto del ruolo particolare che l’angelo viene ad assumere nella vita delle sante che hanno conosciuto l’inferno della condizione coniugale. Come nel caso di Angela da Foligno o, più tardi, di Caterina Fieschi Adorno, l’angelo svolge una funzione mediatrice, di correttore e di guida ad un tempo, quasi che l’esperienza laica di sofferente soggezione all’universo maschile vissuta da queste sante inibisca l’ascesi mistica e renda necessario un lungo percorso di affrancamento dai legami e dai ruoli terreni. Di questo bisogno interiore di autoaffermazione mediato dal messaggero di Dio è perfettamente consapevole Jeanne des Anges, splendido caso di santa “mancata”. Nota più per la spettacolare possessione demoniaca di cui fu protagonista indiscussa a Loudun che per i suoi successivi tentativi di “costruirsi” quale santa, suor Jeanne des Anges chiude emblematicamente questo breve excursus sulle visitazioni angeliche. Creatura votata agli angeli, Jeanne reca nel nome scelto all’atto della monacazione la cifra oscura di un destino ambiguo, di una predestinazione destinata a rimanere incompiuta perché inficiata fin dalle origini da un eccesso di superbia: legarsi agli angeli per affermarsi come santa in terra. Sarà proprio questo desiderio così forte e caparbio a condannare Jeanne alla disperazione e al paradossale risultato di confondere gli spiriti maligni con quelli angelici, ovvero di farsi possedere dai nomi sbagliati. Ma poiché è il regime del nome che domina, Jeanne saprà superare l’esperienza demoniaca per ritornare a Dio, ricollocando il proprio destino nell’area numinosa di quella purezza angelica cui si era consegnata attraverso l’investitura di un appellativo: la suora degli Angeli. Guarita, Jeanne si vota dunque agli angeli e, con la stessa forza con cui si era identificata nella parte dell’ossessa, si applica alla via della santità, tanto da sfiorare il successo. Alle sue spalle ha ormai lasciato l’unica guida terrena che ha saputo leggere nel suo animo tormentato e che ha pagato di persona, con una lunga sofferenza corporale e spirituale, la battaglia contro i nomi di Jeanne: quel padre Surin, esorcista e geniale conoscitore delle anime tor-


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mentate, che in una lettera alla monaca di Loudun aveva scritto: [...] Vi prego di porre le basi dell’autentica vita spirituale nella sincerità del cuore. Intendo dire che in voi sottigliezze e astuzie sono così numerose, che è difficile rintracciarvi uno spirito di verità [...] Ben altre sono le guide di cui ha bisogno per accedere alla santità, custodi divini come San Giuseppe (che, guarda caso, richiama il nome di padre Jean-Joseph Surin) e un angelo così affascinante e terreno da rivelarsi subito all’occhio attento del saggio esorcista come la proiezione angelicata di quel giovane Duca di Beaufort che più volte aveva presenziato agli esorcismi pubblici di Loudun e che di certo aveva colpito la fantasia di Jeanne. Ma vediamo come la monaca descrive l’apparizione angelica in un passo delle sue memorie: [...] Era di una strana bellezza, simile a un giovine di diciott’anni, con una lunga chioma bionda e rilucente, che ricadeva sulla spalla sinistra [...] Quest’angelo indossava una veste candida come la neve e reggeva in mano un cero bianco, molto lungo, molto grosso e molto fiammeggiante [...]. Questa presenza angelica (e poco conta,

tutto sommato, quali materiali siano stati utilizzati dalla monaca per dare corpo al suo desiderio) accompagnerà Jeanne des Anges lungo la via della santità, rinnovandole periodicamente i nomi sacri impressi sulla mano sinistra e ponendosi quale garante assoluto dei segni (ancora una volta dei nomi) che orientano senza più esitazioni e confusioni la suora degli Angeli verso Dio. Sotto la guida del suo angelo “buono”, Jeanne non conoscerà più smarrimenti o, per lo meno, non sembrerà avvertire il drammatico paradosso cui s’era consegnata, in gioventù, fermando la sua volontà su quella semplice apparenza che è un nome. Invertito il segno del suo cammino ma per nulla mutata nell’animo, ella continuerà a esibirsi, anche se stavolta si tratta di una folla riverente che ne vuole vedere le misteriose lettere impresse sulla mano e non della folla che un tempo accorreva a contemplare intimorita le contorsioni di ossessa. Non è certo il caso di assimilare Jeanne alle autentiche sante, anche se la ferrea coerenza del suo desiderio ci spingerebbe a suggerire straordinarie analogie (e, d’altra parte, tanto incerto è il confine fra santità e perdizione che solo agli uomini di Dio è dato pronunciarsi); piutto-

sto, occorre collocare la sua esperienza in una dimensione altra, tutta racchiusa nel dominio assoluto dei segni e delle loro infinite significanze. Come dichiara Saussure: “... Tutto accade al di fuori dello spirito, nella sfera dei mutamenti di suoni ...”. A differenza di Giovanna d’Arco, di Francesca Bussi e delle altre sante per le quali gli angeli sono tangibili manifestazioni del numinoso che aprono la via alla conoscenza e alla Grazia, per Jeanne des Anges essi non sono altro che “segni” che attendono invano di fermarsi in una forma, in un suono, anche in un inafferrabile guizzo di luce. Confondendo significato e significante, essenza e forma, Jeanne si condanna al mondo disperante del desiderio, all’universo caotico e disviante dei poteri del nome. Con lei gli angeli si allontanano definitivamente dall’umano per fermare il loro battito d’ala nei gessi dei rosoni delle chiese, nelle buie tele o nel freddo marmo delle statue di un Barocco che tutto congela in vuota forma, in nome. P.42: Jeanne d’Arc, église Saint-Pierre, Le Mont-Saint-Michel; p.43: Vetrata dipinta, Notre Dame, Paris; p.44: Jeanne d’Arc, pastello di P.Dubois, 1873; p.45: Roma, ponte Sant’Angelo; p46-47: Santa Teresa, G.L.Bernini, San Pietro, Roma.

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Letteratura

La “Consolazione della Filosofia� Un modello di scrittura poetica Gerardina Laudato

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Letteratura

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ue terzine che Dante dedicò alla memoria di Anicio Manlio Torquato Severino Boezio ricordando la sua sepoltura nella basilica pavese di San Pietro in Ciel d’Oro. Patrizio di nobiltà romana visse fra il 480 e il 524 anno in cui, essendo caduto in disgrazia presso Teodorico, fu incarcerato e messo a morte. Incarnava il patrizio illuminato imbevuto di poliedriche conoscenze (prevalentemente retorica e filosofia) distillate al fuoco costante degli studi iniziati a Roma e completati ad Atene. Era il normale percorso da praticarsi per chiunque volesse far carriera nel campo della politica e dell’amministrazione. Già all’età di trent’anni lo vediamo attivo politicamente in veste di console a Roma. Non dismise il suo impegno diplomatico vivendo alla corte del re ostrogoto fino a ricevere la nomina di Maestro di Palazzo nel 523, anno precedente alla sua incarcerazione e messa a morte, ordinata da Teodorico dimentico della lealtà di Boezio e ossessionato dal terrore del tradimento. La fine della vita del filosofo fu determinata da trame perverse ordite dalle feroci gelosie dei nobili ostrogoti che mal tolle-

Per vedere ogni ben , dentro vi gode l’anima santa, che il mondo fallace fa manifesta a chi di lei ben ode; lo corpo ond’ella fu cacciata giace giuso in Cieldauro; ed essa da martirio e da esilio venne a questa pace. (Paradiso, X, 124-129) ravano la presenza del patriziato romano nella gestione del potere. I molteplici impegni diplomatici non gli impedirono di dedicare costantemente parte delle sue energie alla stesura di trattati e commenti alle opere logiche

(Analitici I e II, Introduzione al sillogismo categorico, Il sillogismo categorico, I sillogismi ipotetici, Sulla divisione, un commentario alla versione di Mario Vittorino dell’Isagoge di Porfirio, De interpretazione). Gli scrittori medievali debbono a Cicerone, quanto a Boezio, le conoscenze sulla logica stoica. Egli gestì, infatti, le sue riflessioni sul sillogismo ipotetico, articolandole nell’ottica di innesto della logica stoica sul ceppo della logica aristotelica. Nel velocissimo iter che nomina, solo in parte, la sua messe di scritti, merita di essere citato il commento alle Categorie di Aristotele, da considerarsi pilastro portante della tradizione logica medievale. Aveva progettato di tradurre e interpretare tutte le opere di Platone e Aristotele con l’obiettivo di dimostrarne la fondamentale concordanza. Ci piace pensare che, se la sua vita non fosse stata stroncata, avrebbe portato a compimento un lavoro che si interruppe al solo Organon aristotelico e all’Isagoge di Porfirio. E non avremmo conosciuto uno dei modelli più alti di scrittura poetica, concepita in quell’età di mezzo della storia occidentale squarciata dai conflitti esi49


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stenziali di una società brancolante alla ricerca di identità: il De Consolatione Philosophiae. Cinque libri di prosa e versi (39 poesie) permeati di spirito neoplatonico, di spunti che attingono a fonti diverse, fra cui sembrano prevalere accenti del Protrettico di Aristotele, allegorie che marcano l’eco di una solitudine dolente affranta dalle oscurità dell’ingiustizia, che evolvono amplificandosi in un dialogo totalmente interiore capace di purificarsi nell’ispirazione delle Muse, addolcirsi negli accenti della fede e della ragione, nobilitarsi in una ricostruzione dell’io che sa valicare le vette del tempo e amplificarsi in una norma cosmica delle “cose” terrene. Accostiamoci insieme alla lettura di alcuni passaggi per assaporarne la magica intensità lirica. «Mi sembrò che sopra il mio capo fosse apparsa una donna di aspetto venerando, dagli occhi sfolgoranti e penetranti oltre la comune capacità degli uomini. Il suo colorito era vivo e integro il suo vigore, benché ella fosse tanto carica d’anni da non potersi credere in alcun modo appartenente al tempo nostro.» Una nobile Donna si presenta a Boezio nella tenebra gelida che pervade, allo stesso modo plumbeo, la cella e l’anima del filosofo. È Filosofia, venuta per dargli conforto, rispondere ai suoi dubbi e ricordargli che tanti altri, prima di lui, amanti della conoscenza, subirono medesime ingiustizie. Non per sua colpa Boezio è avvinto in catene ma per non essersi discostato dal seguire la via della verità e della giustizia. «Ahimé, in qual profondo abisso sommerso lo spirito langue e, dispersa la propria luce. S’avvia incontro alle tenebre che lo circondano…» La felicità che il possesso dei beni della fortuna, sovente instabili e caduchi, sembra comportare è per sua stessa natura precaria. Sia l’uomo sufficiente a se stesso nel distacco sereno dalle contingenze e nell’equilibrio, che misura nelle eque dimensioni il valore delle cose annullando il timore della loro perdita. Le vicende avverse della fortuna, tuttavia, non gettano il mon-

do nel disordine degli avvenimenti accidentali. Una volontà provvidenziale governa gli eventi e, anche se il contingente appare stravolto dalla presenza del male, anche se sembra vittoriosa la prosperità dei malvagi, la Sapienza di un Ente altissimo conduce tutto verso il Bene per costituire l’armonia del Tutto: «... se il mare sconfinato trattiene entro un preciso limite i suoi flutti. Perché a questi, invadendo la terraferma, non sia permesso di allargare i propri confini. è l’amore che concatena questa serie di elementi, l’amore che governa la terra e il mare ed esercita il suo comando sul cielo.» Nulla accade per caso. Il vero Bene travalica le urgenze di perseguire i beni passeggeri dell’esistenza, rigetta la deturpazione del costante timore della perdita, pacifica nella certezza di aver superato il bisogno dei beni finiti per un Bene che non perisce: «Chi intende seminare un campo non ancora dissodato libera prima il terreno dagli sterpi, e con la falce taglia via rovi e felci, perché la dea delle messi faccia ricco il nuovo raccolto. […] Voi non andate a cercar oro su un albero verde e non pretendete di coglier pietre preziose dalla vite, non disponete reti nascoste sugli alti monti per catturare pesci da servire a mensa… Ciechi gli uomini si rassegnano a ignorare il bene, cui pure aspirano, e, immersi come sono nella terra, vi ricercano valori che stanno oltre il cielo stellato.»


Letteratura

Questo Supremo Bene, l’Intelligenza somma, regge il mondo disponendolo in un piano ordinato: «Ogni razza di uomini che è sulla terra nasce da comuni origini; uno solo è il padre di tutti gli esseri, uno solo li governa tutti. […] La provvidenza è la stessa ratio divina che, costituita nel supremo Principe di tutto, dispone tutte le cose; il fato è la disposizione inerente alle cose mutevoli, disposizione per la quale la provvidenza assegna ogni cosa al suo ordine proprio.» Ed è una provvidenza libera dalla “necessità”, fato che non priva l’uomo della libertà che gli è data per esercitare la ra-

gione, metro cui commisurarsi per giudicare e operare scelte: «In Lui non esiste né il passato né il futuro e la sua scienza è la conoscenza totale e simultanea di tutti gli eventi che si verificano successivamente nel tempo […] In Lui sono presenti anche gli eventi, ma sono presenti nel modo stesso del loro accadimento: e quelli che dipendono dal libero arbitrio sono presenti appunto nella loro contingenza.» Lo spirito di Anicio Manlio Torquato Severino Boezio è pacificato. La Libertà dell’intelletto e dello spirito sono sangue vivo che circola nelle vene, la metamorfosi dello stato fisico e mentale e il superamento del tempo mortale sono com-

piuti. Filosofia canta: «O tu che governi il mondo con stabile norma, creatore della terra e del cielo, che dai primordi fai scorrere il tempo e, restando immoto, imprimi il moto a tutte le cose, […] tu sei infatti il sereno, tu sei il riposo e la pace per i giusti, contemplare te è il nostro fine tu sei insieme principio, stimolo, guida, via, mèta.» P.48 e 50: Dittico Barberini, Parigi; p.49: Lapide a Pavia, San Pietro in Ciel d’Oro; p.5o a destra: Frontespizio di una ediz. secentesca del ‘De Consolatione’ di Boezio, collez. priv.; p.51: Ravenna, mosaico.

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Massoneria

parte II

La cittĂ massonica Un metodo per lo sviluppo ecosostenibile di questo nuovo secolo Jean Marc Schivo

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L

a città del Sale di Chaux (1775) (fig.14), progettata da ClaudeNicolas Ledoux, è stata costruita solo per metà ed è stata inserita nel 1982 nel Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Primo tentativo concreto di utopia sociale, organizzato in un sistema aperto capace di espandersi per fasi successive, rappresenta una visione illuministica del mondo del lavoro e realizza nel contempo anche un’opera vicina al concetto alchemico della trasformazione del sale e di Arte Regia nell’uso delle proporzioni con evidenti rimandi alla Città del

Sole di Campanella. Nella scia di Ledoux Charles Fourier (fig.15) con i trattati Teoria dei quattro movimenti e Teoria dell’unità universale pone le basi del socialismo utopico codificando un nuovo sviluppo della società e di conseguenza dell’architettura. Il “Falansterio” è di fatto un brano di città caratterizzato da molteplici funzioni produttive, sociali, residenziali, culturali che rappresenta il nuovo mondo della partecipazione e della condivisione rappresentato da un’unica entità architettonica proporzionata e armonica. In questo ribollire di vitalità la “strada galleria”,

sulla falsariga delle proporzioni delle gallerie del Louvre, diventa elemento di raccordo dell’intera città insieme a un sistema di verde distribuito su tutto il complesso, vera struttura bioclimatica, che anticipa di molti anni le attuali tendenze progettuali. Jean–Baptiste André Godin (fig. 16) (membro della Loggia “Thelem”) con il progetto del Familistère (1859) a Guise in Belgio e successivamente Victor Considerant rappresentano l’applicazione pratica delle idee di Fourier. È infine nel Nuovo Mondo che l’ideologia massonica si concretizzerà in una serie di

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fig.14

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fig.15

pianificazioni urbanistiche di ampie proporzioni territoriali. È compito dell’architetto francese Pierre-Charles L’Enfant (1754) (fig. 17) di tracciare il piano simbo-

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lico della nuova capitale degli USA e di definirne l’urbanistica. Dietro indicazione di G. Washington, esperto e appassionato di topografia fin dall’infanzia, L’Enfant

traccerà la pianta del District of Columbia (un rombo di 10 miglia di lato) rifacendosi agli antichi landmarks che ne delimiteranno i confini tra la Virginia e il Maryland. La nuova capitale nasce sotto il segno sacro del “10”, la mistica Tetraktys pitagorica, ed esprime insieme l’idea della totalità e della legge divina. Caratterizzato da unità, dualità, triade e quaternario, l’impianto sarà anche riconducibile al diagramma degli oroscopi, diventando di fatto una fondazione astrologica. La nuova capitale, come dice Marcello Fagiolo, “costituisce il disegno vivente della nazione e del mondo massonico”. È interessante scoprire nei punti più significativi alcuni riferimenti massonici: il grembiule, la squadra, il compasso, la scacchiera, il triangolo sacro, raccordo tra il Capitol, la futura White House, e il monumento a G.Washington, le piazze stellari e altri ancora. La simbologia diventa così elemento conformante il territorio, si integra con la natura e diventa fruibile anche per i profani. Alla capitale seguiranno altri interventi che applicheranno la stessa filosofia tra cui la città di Sandusky (1818) nell’Ohio, progettata da Hector Kilbourne, e Chicago (1909) (fig. 18) progettata da Daniel H. Burnham e Edward P. Bennet. In Argentina il progetto per la nuova capitale della provincia di Buenos Aires, La Plata (1882), eseguito da tre architetti massoni Burgos, Grade e Benoit, presenta uno schema a scacchiera arricchito da un sistema di diagonali, un macro pattern triangolare dall’evidente contenuto simbolico, che consente di ottimizzare la viabilità della città. Anche New Delhi (1900), progettata da Edwin Lutyens, e Camberra (1913), progetta da Walter Burley Griffin, trovano nello schema radiocentrico il loro modello organizzativo basato sul triangolo equilatero su cui si attestano i tre poli fondamentali “commerciale, civico e politico”. Dopo questa parentesi di felici realizzazioni riprende il periodo delle utopie. Etienne Cabet (1788) nel suo romanzo Voyage en Icarie descrive l’immaginaria capitale di un nuovo mondo come una città ideale di impianto circolare attraversata da un fiume e suddivisa in 60 quartieri, espressione architettonica di stili e modi di vita delle 60 principali nazioni. Sostenuto da Robert Owen (1771) tentò invano di realizzare il suo sogno nel Nuovo Continente. Anche Ebenezer Howard


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fig.19

(1850) (fig. 19), estimatore delle idee massoniche, rappresenta con la “Città Giardino” l’ultima visione utopica ottocentesca in una fusione ideale tra città e campagna. Jules Verne (1828), iniziato e grande iniziatore, in tutta la sua opera affronta il tema della società e della sua organizzazione, questa volta con uno spirito molto più aperto e già con una precisa visione tecnologica. Nel romanzo I 500 milioni della Begum, la città ideale di France-ville si contrappone alla città dell’acciaio. 10 punti fondamentali ne definiscono gli aspetti architettonici, tecnici, urbanistici e organizzativi “… chiunque può vivere a France-ville, le industrie e il commercio sono liberi, la gestione politica è di competenza di tutti i suoi cittadini che si riuniscono in consiglio per dibattere e condividere tutti le decisioni da intraprendere per la città stessa” e ancora: “... l’ambiente è pienamente rispettato e la natura ha un posto prioritario nello sviluppo della città,

fig.17

la scelta del luogo di costruzione non avviene per caso, ma segue dei principi scientifici al fine di assicurare un quadro di vita ideale …”. Anche in questo caso Jules Verne anticipa la visione degli eco quartieri o di quello che oggi noi chiamiamo Eco–città o sistema ecosostenibile. In questo filone immaginato da J. Verne si inseriscono F.LL.Wright e Walt E.Disney. Il primo (fig. 20) con il suo

scritto “La città vivente“ una città/campagna, Broadacre city, che rappresenta l’immagine di una mondo libero caratterizzato da uno schema espandibile basato sul concetto di sovranità dell’individuo. Qui: “I caratteri architettonici di questa pianta democratica del terreno per la libertà umana sorgono naturalmente per e dalla topografia”. Non a caso l’architetto, forse il più grande dello scor55


fig.20

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so secolo, cita Paracelso nell’introduzione del suo libro per meglio descrivere l’uomo come centro di questo nuovo saper costruire: “Questo corpo fisico... è la vera pietra rifiutata dai costruttori, ma che deve diventare la pietra angolare del Tempio...” Questo corpo fisico non è soltanto uno strumento per il potere divino, 56

ma è anche il suolo da cui quel che nell’uomo è immortale attinge la propria forza” . Walt E.Disney (fig. 21) con il progetto del 1936 di EPCOT: Experimental Prototipe Comunity of Tomorrow, una città utopica, ma anche uno spazio reale in cui concretizzare immaginazione e visioni, dove il visitatore può immaginare nuovi mo-

delli urbani e sperimentare le meraviglie del futuro, dell’energia, dell’agricoltura sostenibile, della creatività e della comunicazione senza limiti. Nel modello circolare voluto da Walt E. Disney riaffiorano non a caso gli schemi delle cattedrali, con proporzioni e immagini di luce e colore, ma anche tecnologie, avveniristiche per l’epoca, basate sui semplici rapporti universali di un linguaggio inteso come unicum. A questi esempi se ne potrebbero aggiungere altri, ma l’obbiettivo non è quello effettuare una sistematica analisi storica quanto di prendere atto dell’interruzione di un processo di ricerca e di cercare di rilanciarlo concretamente. Il mes-


saggio di Verne da un lato e i fondamenti presenti nei vari Gradi dall’altro rappresentano, con il loro simbolismo, i valori indispensabili per realizzare uno sviluppo territoriale ecosostenibile e un modello di città in linea con le aspettative attuali. I fortissimi squilibri che si avvertono ormai a livello planetario sono originati principalmente da tre fattori: economici, con la crisi iniziata nel 2007, ambientali ed energetici. La loro influenza è ancora più devastante data la mancanza di accordi internazionali realmente validi riguardo al contenimento delle emissioni di co2, alla corretta gestione delle risorse planetarie, al rispetto dei valori di libertà, tolleranza e fratellanza. “Lo sviluppo sostenibile è lo sviluppo che fornisce elementi ecologici, sociali ed opportunità economiche a tutti gli abitanti di una comunità senza creare una minaccia alla vitalità del sistema naturale, urbano e sociale che da queste opportunità dipendono”. Niente più chiaramente di questa frase enunciata dalla “wced World Commission on Environment and development” dell’ONU nel 1987 potrebbe indicare il ruolo fondamentale di una corretta sinergia fra economia, energia ed ambiente nella pianificazione e organizzazione del territorio e delle città. E ancora: “Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che garantisce i bisogni delle generazioni attuali senza compromettere la possibilità che le generazioni future riescano a soddisfare le proprie”. Infine nel 2001 l’unesco introduce il concetto di diversità culturale, necessaria per l’umanità quanto la biodiversità per la natura. La diversità culturale diventa quindi il quarto pilastro dello sviluppo sostenibile accanto al tradizionale equilibrio delle 3 E: Ecologia–Economia–Equità (fig. 22). In questo schema troviamo immediati collegamenti con i differenti punti del pensiero massonico generale. La reale entità della sfida da affrontare è ben esemplificata dalle cifre relative alla popolazione mondiale: gli attuali 7 miliardi di persone secondo una proiezione onu potranno diventare 9 mld nel 2040. È quindi evidente che in un mondo sempre più globalizzato e collegato da reti di comunicazione sempre più capillarmente diffuse, quindi più efficienti, qualsiasi squilibrio fra questi tre fattori viene evidenziato con una velocità e incisività che in altri

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tempi sarebbero state inimmaginabili. Oggi infatti la comunicazione è parte integrante di qualsiasi avvenimento. Le recenti rivoluzioni arabe dei paesi Nord Africani iniziate nel 2010 sono state caratterizzate da un’impressionante ricerca della comunicazione trasversale resa possibile soprattutto grazie a Internet che ha di fatto dato origine ad una sorta di città virtuale costituita da una rete di flussi informativi senza precedenti. Oggi il 50% della popolazione mondiale è concentrato in aree con la maggior produzione di gas serra. Gli indicatori internazionali indicano che si è raggiunto un punto critico in termini di effetti collaterali. La grande sfida è quindi intraprendere un processo

di inversione di marcia e un’accelerazione verso una prospettiva di sviluppo sostenibile del pianeta. In quali termini la Massoneria attraverso il suo patrimonio di contributi e la sua filosofia operativa può essere di supporto alla concezione di un nuovo modo di abitare e di nuove città e realtà territoriali? La risposta potrebbe essere quella d’immaginare la città come uno spazio per la trasformazione evolutiva dell’uomo di cui la gestione dell’energia sia lo strumento organizzativo. Questo modello non più solo ideale, ma pratico si dovrebbe fondare su due azioni fondamentali che rispecchiano alcuni dei fondamenti massonici: a) Fondazione del distretto e applicazione dei suoi landmar57


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ks; b) Realizzazione di un modello architettonico in cui lo svolgimento delle attività viene interpretato come strumento dell’apprendere e della trasformazione individuale e il cui sviluppo non sia inteso come semplice espansione territoriale, ma come esaltazione della qualità della vita, delle idee e della condivisione. L’energia Elemento organizzativo della città In questa ottica i quattro elementi (fig. 23) rappresentano i principi attivi che mantengono in equilibrio dinamico la 58

materia elementare e i fondamenti su cui poggia la città. La Terra ne costituisce il legame con il paesaggio circostante e la sua morfologia. L’Acqua ne garantisce la vita, la comunicazione, la qualità degli spazi. L’Aria ne anima il funzionamento, regola il micro clima, è fondamento della struttura degli esseri viventi . Il Fuoco rappresenta l’armonia dei primi tre e la loro corretta sinergia. L’organizzazione alchemica simboleggia

la parte non visibile che regola l’evoluzione e la trasformazione di un territorio in cui tutte le forze trovano spazio. Lo zolfo, energia espansiva che scaturisce dal centro di ogni essere, e il mercurio, forza di penetrazione che influenza dall’esterno, ritrovano l’elemento del loro equilibrio nel sale che rappresenta il principio di cristallizzazione e tutto ciò che dal punto di vista intellettuale, fisico e morale costituisce l’essenza stessa della personalità. È quindi un uomo trasformato e in equilibrio con gli elementi che avrà l’opportunità di sviluppare le attività della città intesa come luogo della trasformazione e della ricerca. In questa visione trova ampio spazio il concetto di energia rinnovabile inserendosi in un processo di continua trasformazione sempre più coinvolgente. Saggezza, Forza, Bellezza (fig. 24), i tre pilastri all’interno del Tem-


pio, rappresentano i cardini dello sviluppo delle attività urbane, evidenziando qui il loro legame con i concetti di sostenibilità espressi dall’onu. La Saggezza rappresenta l’intelligenza che sa concepire, realizzare e rendere stabile il progetto nella sua interezza accentuandone il dinamismo collettivo, generatore di spazi e funzioni per una cultura multietnica e globale. La Forza è la capacità di concretizzare i concetti, di costruire controllando tutte le energie e di generare spazi tecnologicamente avanzati in cui sviluppare idee e ricerca. La Bellezza fa amare la vita trasformandone gli aspetti negativi, nutre la terra che genera fiori, verde, cibo e stabilisce un nuovo rapporto tra le molteplici funzioni del tessuto urbano. La struttura astrologica Le città che in passato hanno sempre avuto una fondazione astrologica, spesso in anticipo su quella urbanistica, hanno ormai completamente perso il rapporto con la volta celeste e le forze che ci governano. Spesso in passato i punti cardinali corrispondevano a uno degli elementi o a una data stagione. La suddivisione dello spazio in quattro quarti, o quartieri, determinava l’organizzazione della città, la sua suddivisione in caste e gli spazi di lavoro. La forma circolare o quadrata era dunque dettata dall’orientamento. Il Solstizio d’inverno, corrispondente al Nord, e l’Equinozio di primavera, corrispondente all’Est, formavano i quadranti ognuno dei quali comprendeva altre tre suddivisioni per un totale di 12 in corrispondenza con i segni zodiacali. Se la gamma umana è espressione delle influenze planetarie, rappresentate dal Settenario che contiene le fondamentali caratteristiche dei diversi individui - il sognatore, il pacifico, il realizzatore, il conquistatore, l’egoista, l’altruista e l’equilibrato - risulta evidente come i pianeti abbiano un’influenza non solo sull’uomo, ma su tutto il mondo ad esso collegato. Siti, paesaggi, architetture, perfino le occupazioni, risultano fare parte di questo antico linguaggio universale, alternativo a quello convenzionalmente adottato, di cui i segni zodiacali sono le parole. La struttura geometrica e le divine proporzioni Nella formazione del Massone la com-

fig.28

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prensione e l’uso della geometria (fig. 25) lo accompagnano durante tutta la sua fase di ricerca “Azzurra, Rossa, Nera e Bianca”. La geometria filosofale diventa il compagno silenzioso e costruttivo per la comprensione di realtà che progressivamente si manifestano durante il suo percorso. La Sezione Aurea, il Rettangolo Aureo, il Triangolo Sublime, caratterizzati da quel numero d’oro così caro a Pitagora, rappresentano la base del costruire armonico. Oltre al pentagono, all’ottagono, al cerchio e alle altre molteplici figure geometriche, la sua applicazione diventa Arte reale della costruzione dove la semplicità dei numeri primi riesce a esprimere e riproporre le forme più complesse pensate dall’uomo e presenti in natura. “Du mâle et de la femme, fais-toi un cercle unique d’où surgit le carré aux côtés bien égaux. Con-

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struis-en un triangle, à son tour transformé en sphère toute ronde. La Pierre alors est née. Si ton esprit est lent à saisir ce mystère. Comprends l’œuvre du géomètre et tu sauras” (Michel Maier). Ritroviamo in questa spirale evolutiva le antiche piramidi, i templi greci, le cattedrali, l’arte 59


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dei castelli, le proporzioni rinascimentali, il dinamismo del barocco, la ricchezza dell’ingegneria illuminista, le basi dell’architettura moderna e oggi le forme organiche delle future Eco–città e della nuova ingegneria. Una grande spirale dinamica come quella di Leonardo Fibonacci (1170, fig. 26 e 27), la cui “sequenza” scandisce la crescita di ogni sistema e forma, anticipa le proporzioni costruttive delle più complesse architetture attuali. La geometria e la matematica, basilari nella costruzione dell’urbanistica del XXI secolo, si integrano nei processi di calcolo strutturale e architettonico, nella progettazione della domanda energetica, nella conservazione e analisi delle risorse, formulando finalmente un unico linguaggio costruttivo. Esse colgono sempre di più gli aspetti infinitesimali di un codice alchemico universale riuscendo a collegare, come nello zodiaco, aspetti della realtà fino ad ora privi di connessione e verifica scientifica. Infatti più la ricerca scientifica si perfeziona più trovano conferma le intuizioni dell’Opera Massonica. La città come via iniziatica L’Apprendista L’Eco–città getta le basi per una nuova comunicazione e diventa il mezzo per superare con l’aiuto della collettività le difficoltà che il singolo non riesce ad affrontare. Diventa filtro tra il disordine delle periferie e uno spazio di nuova concezione, partecipativo. Il proporzionato rapporto tra natura e costruito che la contraddistingue è di supporto allo sviluppo delle peculiarità dei suoi abitanti median60

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te un processo iniziatico in cui i tre viaggi dedicati all’aria, all’acqua e al fuoco trovano spazi e spunti per la riflessione in una quotidianità che segue ritmi diversi. L’uomo si sposta a piedi o con mezzi elettrici condivisi, poiché le distanze sono ottimizzate rispetto alla popolazione e alla produttività economica dell’intera città. Non più gestiti dalle macchine e con tempi difficilmente controllabili, i suoi spostamenti lo aiutano invece a gestire meglio il suo tempo, a comprendere il valore dell’Unità, il senso del Binario e del dualismo tra dare o ricevere, tra movimento e riposo e il valore del Ternario. La riconquista di un nuovo ruolo dei cinque sensi nell’approccio alla ricerca Il Compagno In questo (fig. 28) nuovo panorama urbano costruito armonicamente finalmente l’uomo riscopre se stesso, la sua fisiologia, la natura, la bellezza dell’architettura

e dei suoi stili, l’importanza delle forme in relazione con l’evoluzione interiore, le Arti Liberali pubblicamente codificate negli spazi cittadini, come quando la scrittura era padrona delle cattedrali e la pietra era incisa in modo ermetico, comprensibile solo per chi voleva capirne il linguaggio. Finalmente l’uomo riesce ad applicare queste nuove conoscenze a una nuova quotidianità. La città come via di perfezionamento Il Maestro L’Eco–città è nella sua definizione di principio: “una città costruita e sviluppata in equilibrio con l’ambiente naturale, è dotata di un chiaro limite, di un rapporto ottimale tra densità e spazi pubblici composta da una federazione organica di quartieri e distretti a destinazione mista”. L’obbiettivo principale è quello di creare un ambiente urbano che ottimizzi l’uso delle risorse naturali e riduca drasticamente l’inquinamento dell’aria e del paesaggio naturale. L’Eco–città permette ai suoi abitanti di vivere all’interno di un ambiente ad alta accessibilità pedonale. Un luogo dove efficacia economica, equità sociale e qualità ambientale interagiscono tra loro. La configurazione urbana risponde a una serie di indicatori di sviluppo che possono suddividersi in primari: fonti di inquinamento, qualità dell’aria, clima, verde, spazi pubblici e privati, integrazione, energia, gestione dell’acqua, riciclaggio rifiuti, qualità dell’architettura, gestione del cantiere, flessibilità, mobilità, e 21 strategici secondari fra cui: educazione e formazione, integrazione, partecipazione e solidarietà, che rappresentano fattori determinanti per lo sviluppo umano. Se uno degli scopi della Massoneria è quello di promuovere una società fatta di equità, tolleranza e fratellanza attraverso un sistema evolutivo di partecipazione di idee e condivisione globale, allora si può affermare che questa sia una città massonica e che la ricerca che è sottesa a questo concetto urbanistico sia parte integrante di un nuovo modo di immaginare il XXI secolo. Parallelamente scopriamo che alcuni Gradi di Perfezionamento riflettono in maniera sia allegorica sia concreta alcuni aspetti indispensabili per il corretto funzionamento del territorio urbano contribuendo a definirne in maniera più preci-


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sa la gestione e lo sviluppo. 5° grado. Come il Maestro Perfetto ha la prerogativa di studiare l’intelligenza umana relativa sia alla vita materiale sia a quella immateriale, così verranno previsti sia spazi adatti a favorire il dialogo e la socialità, sia spazi più appartati, intimi, per sviluppare riflessioni sugli elementi immateriali che compongono i differenti aspetti del linguaggio universale. La quadratura del cerchio caratteristica del grado è di organizzare lo spazio e renderlo conforme alle differenti forme che la natura manifesta in quel luogo e a mettere in relazione la materia con lo spirito. Il

rapporto con l’uomo è evidente. Gli antichi costruttori con l’aiuto dell’intuito, utilizzavano più codici e applicavano differenti sistemi di proporzioni. Queste direttrici consentiranno di strutturare le nuove geometrie urbane. 6° grado. Come il Segretario Intimo ha la prerogativa di ricercare e stimolare la curiosità e l’intelligenza in un continuo processo creativo, così le aree, gli spazi culturali e i laboratori urbani mobili permetteranno ai cittadini di esprimersi utilizzando un sistema globale di comunicazione di cui la rete sarà il principale veicolo.

9° grado. Come il Maestro o Cavaliere Eletto ha la prerogativa di difendere la verità, mantenere integra la propria libertà, combattere i dogmi e le forme di condizionamento, così il cittadino avrà il diritto di conoscere i dati energetici e produttivi della propria città tramite la corresponsabilità collettiva e un sistema trasparente di comunicazione dei dati. La città creerà così un autentico movimento sociale capace di difendere la comunità locale, tutelandone la qualità produttiva inserita in una logica di mercato ecosostenibile. 18° grado. Come il Cavaliere Rosa Croce 61


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ha la prerogativa di studiare le leggi naturali e di ricercare l’emancipazione attraverso lo studio dello gnosticismo per esprimere una libera cultura in sintonia con la comprensione delle leggi naturali, così un’urbanistica fatta da spazi sensibili alle esigenze umane in cui il negativo e il positivo, i pieni e vuoti vengono programmati in maniera scientifica con proporzioni e distanze ottimizzate su criteri energetici, permettendo al cittadino di essere costantemente in contatto con tutti, crea uno stimolo perfetto per la comprensione dei meccanismi universali. Il diritto alla ricerca diventa allora valore primario per stimolare un dialogo di crescita. 28° grado. Come il Cavaliere del Sole ha la prerogativa di essere un grado filosofico, dedito allo studio delle leggi che rappresentano l’energia universale e i suoi meccanismi applicativi, il grado afferma che esistono 7 verità, così senz’altro tre di queste trovano applicazione nello sviluppo della città: 3° punto: i concetti che regolano l’armonia universale diventano modello di costruzione dello schema della città; 5° punto: il visibile è la manifestazione dell’invisibile, così spesso oggi tecnologia e architettura prendono forma grazie alla comprensione di modelli infinitamente piccoli presenti in organismi naturali; 7° punto: l’analogia è l’unica chiave di interpretazione della natura. Ciò che finora era solo intuizione diventa ora espressione architettonica e tecnologica condivisibile. 30° grado. Come il Grande Eletto Cavaliere Kadosch rappresenta lo studio e la comprensione delle metodologie finaliz62

zate al ripristino dell’armonia e dell’unità universale del rapporto costante tra terra e cielo, così occorre realizzare un sistema di costruzione e gestione della città integrato e dinamico che sia in grado di liberarci da qualsiasi forma di condizionamento temporale e spirituale. I temi rivelati nella Scala misteriosa (fig. 29) rappresentano in sequenza ascendente matematica, astronomia, fisica, fisiologia, psicologia, sociologia, e discendente sincerità, pazienza, coraggio, prudenza, giustizia, tolleranza e devozione. Ognuno di questi ideali gradini è un punto imprescindibile del processo progettuale e ha riflessi di enorme portata sugli individui: La matematica: studio dei fenomeni e delle metodologie di sviluppo alla base della costruzione; L’astronomia: conoscenza dei corpi celesti e delle forze cosmiche per il corretto orientamento degli spazi e dell’architettura inseriti in uno specifico contesto territoriale e climatico. La fisica: conoscenza dei materiali, delle forze e delle dinamiche costruttive e la loro applicazione e flessibilità; La chimica: analisi dei componenti che costituiscono la materia e l’energia, l’applicabilità al sistema energetico globale e la scelta dei materiali da costruzione; La fisiologia: studio e condivisione di un sistema unico della materia vivente nel rispetto dei criteri di uguaglianza e tolleranza; La psicologia: studio che aiuta il corretto sviluppo dell’uomo sia dal punto di vista intellettuale sia emotivo e volitivo; La sociologia: studio delle necessità che la città presenta nella sua evoluzione per elaborare un sistema di partecipazione globale condivisa in tutti i suoi aspetti sociali, energe-

tici, ambientali, economici e morali. La città diventa quindi un sistema dinamico in cui idee e correnti di pensiero trovano applicazione nel mondo civile per stimolare nuovi comportamenti e costruire una comunità di persone più sincere, pazienti, coraggiose, responsabilizzate verso una giustizia condivisa e trasparente, tolleranti e impegnate con maggior dedizione nello svolgimento delle proprie attività quotidiane. 31° grado. Come il Grande Ispettore Inquisitore Commendatore opera per organizzare una giustizia adeguata, imparziale ed indipendente, primo requisito di una società pluralista, così la struttura dell’Eco–città ne rappresenta il pertinente campo di applicazione. 32° grado. Come il Sublime Principe del Real Segreto (fig. 30) ha la finalità di istruire e illuminare gli uomini nelle scelte finalizzate a garantire felicità e libertà, così il modello di governance della città deve garantire equità e sviluppo sostenibile del territorio in uno spirito globale. Al di la dell’allegoria che lo schema dell’accampamento (fig. 31) vuole proporre, le 9 tende rappresentano spazi dove vengono appresi i fondamenti etici della struttura della città, le sue necessità presenti e future e il rapporto tra le sue componenti sociali. L’accampamento è modello per lo sviluppo di un sistema che sia garante dell’applicazione di insegnamenti e metodologie, delle libertà acquisite e dello sviluppo sostenibile. Nella geometria esterna dell’ennagono ritroviamo le 9 tende che, rifacentesi all’iter massonico, possono essere rappresentate nella realtà con 9 sistemi in relazione fra


loro in cui: 9. Sviluppare l’arte dell’associazionismo, raggruppare la diversità degli interessi (1°, 2°, 3°); 8. Sviluppare l’arte di educare se stessi prima di concorrere alla rigenerazione della società (4°, 5°); 7. Imparare a giudicare gli altri allo stesso modo in cui vorremmo essere giudicati (6°, 7°); 6. Sviluppare i valori del concetto di pace ed uguaglianza tra tutte le classi (8°); 5. Apprendere che tutto è passeggero mentre le istituzioni restano. Fondare la città su rapporti sociali ed etici (9°, 10°, 11°); 4. Apprendere che ogni programma di gestione deve essere sviluppato con una visione unitaria e globale (12°, 13°); 3. Diffondere con il massimo impegno le conoscenze acquisite nei settori sensibili della città (14°); 2. Preservare i sistemi dinamici di “produzione - sviluppo“, ricchezza produttiva della città, garantendone il corretto controllo gestionale (15°, 16°); 1. Organizzare e formare poli di ricerca dove elaborare programmi di sviluppo da riproporre all’intorno (17°, 18°). Gli stendardi rappresentano nella seconda cerchia le 5 idee guida su tematiche come: 5. Apprendere l’arte del governare (19°, 20°); 4. Apprendere l’arte della condivisione del lavoro tra tutte le parti sociali come condizione primaria di vita,

sviluppo e progresso. Parità distributiva delle attività produttrici (21°, 22°); 3. Preservare i valori individuali che rappresentano la libertà di espressione (23°, 24°, 25°); 2. Diffondere i principi di solidarietà e altruismo con azioni disinteressate e programmi partecipativi (26°, 27°, 28°); 1. Impedire la formazione di centri di potere e di false ideologie devianti (29°, 30°). 33° grado. Come il Sovrano Grande Ispettore Generale ha la prerogativa di garantire l’applicazione dei criteri analizzati precedentemente con saggezza ai fini di contribuire allo sviluppo di un progresso di tipo universale, così gli amministratori della città potranno garantire l’applicazione: 1) Delle leggi naturali. 2) Del rispetto dei valori umani. 3) Dei principi di equità. “In questo luogo dell’informazione lo spazio dei flussi creativi (fig. 32) stabilisce un collegamento elettronico tra i luoghi fisicamente separati, creando un network interattivo di relazione tra attività e individui a prescindere dallo specifico contesto di riferimento. Lo spazio fisico invece organizza le esperienze nei limiti della collocazione geografica. La città moderna viene quindi contemporaneamente strutturata e destrutturata da queste due logiche config.33

trapposte” (Manuel Castells). La questione dell’integrazione sociale torna oggi in primissimo piano come ai tempi dell’era industriale perché le città diventeranno sempre di più incubatori multietnici e multiculturali. In mancanza di una cultura unificante il problema

Massoneria non sarà la condivisione di un immaginario, ma la comunicazione tra i diversi sistemi di valori.Questa nuova forma di connessione che passa attraverso il sistema operativo dei flussi garantirà una maggiore cooperazione all’interno delle reti e della città stessa. Gli spazi così strettamente interconnessi saranno la fig.32c chiave di pianificazione della nuova urbanità il cui significato è espresso dal disegno allegorico dell’accampamento. Il fattore che decreterà il successo della Eco–città come modello culturale è un contesto spaziale in cui architettura, design urbano e informazione condivisa saranno correttamente integrati. Il sistema dei valori tematici proposti dal 32° grado ne garantisce la possibilità di applicazione. La città è finalmente definita, il processo formativo dell’“azzurro, del rosso, del nero e del bianco” si sono trasformati in un tempio molto più ampio, gettando le basi per la realizzazione concreta di una realtà territoriale multietnica. Gli antichi rituali sono resi attuali da una reale possibilità di applicazione per favorire nuovi sentimenti di solidarietà, applicare il concetto di fraternità e di tolleranza per formare nuovi cittadini verso un sentimento di dovere condiviso e proiettarli verso uno sviluppo consapevole e sostenibile del loro destino. La “Catena d’Unione” trova in questa fusione di spazi, idee, uomini e natura che interagiscono in un unico processo evolutivo non soltanto la sua più reale applicazione, ma anche un autentico modello di vita e lo schema per la costruzione di una nuova urbanistica e architettura intesa come una partitura “cosmica” (George Crumb Makrokosmos 1972, fig. 33) in cui ognuno può trovare lo spazio per rafforzare la libertà degli altri.

P.52-63: Per tutte le figure si veda il testo dell’articolo; la figura a pag. 61 è di Paolo Del Freo.

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Filosof ia

Educare alla coscienza dei valori Gerardina Laudato

L’

atto dell’educare implica un processo ininterrotto ed attivo di confronto con la dimensione spirituale della coscienza. Alcuni versi, scritti da John Updike, possono esplicitare il senso di quello che andiamo dicendo: «Una terra senza coscienza è una terra vuota, una terra dannata, una terra deserta dove i bimbi hanno capelli rossi e ventri gonfi, dove gli adulti hanno sorrisi invidiosi e risate crudeli. Una coscienza è più indispensabile a una terra che non pozzi di petrolio, prestiti esteri e cooperative agricole; una coscienza raddrizza la schiena ai giovani e accende gli occhi delle donne». Bisogna, prima di tutto, imparare ad educare per insegnare ad educare ai valori della vita, ai valori della cultura della vita. Ove dovessero risultare prevalenti meccanismi educativi che conferiscono spessore alle culture delle ideologie, le società potranno solo aspettarsi di navigare senza punti di riferimento, dibattute fra onde di tempesta foriere di oscurità e di crisi. Nel secolo scorso Lewis Munford, scrivendo intorno alla condizione dell’uomo, si poneva una domanda; come, cioè, possa «prevalere la ragione se non si riesce ad insegnare agli uomini». In una società 64

Come può prevalere la ragione se non si riesce a insegnare agli uomini? Lewis Munford complessa, come la nostra, la crisi dell’uomo e delle società è crisi di identità ancor più lacerante perché alienata, ottenebrata dalla disperazione e dalla morte della coscienza. Bisognerà scavare in questa crisi alla ricerca del recupero della dimensione umana e reale dell’uomo. Bisognerà misurarsi con forze gigantesche e cieche per recuperare l’integrità dei significati di giustizia che sono vivi nella coscienza, anche nella coscienza della medesima alienazione. La crisi dell’uomo è anche ormeggiarsi all’inganno del presente spogliato del senso dei valori, all’hic et nunc vacillante nella corsa sfrenata verso l’ignoto che brucia i desideri , distrugge gli argini della charitas, uccide i ricordi. I valori della fede nella vita si configurano nei significati etici del tem-

po dell’uomo e si integrano nell’infinità dell’Essere. Educare significa, allora, fondare un progetto culturale su valori dal carattere universale: stabilire le coordinate ricercando una sorta di nuovo umanesimo capace di arginare i nihilismi, di trovare stimoli nella convivenza fatta di solidarietà, di esercizio del pensiero che organizza se stesso per illuminare orizzonti di senso gratificanti per la vita di ciascun essere sul pianeta. Educare non più retoricamente alla giustizia, ma alla coscienza dell’essere della vita della giustizia. Educare anche alla comprensione dei ruoli dell’essere dell’uomo. Ma bisognerà imparare ad educare per insegnare ad educare alla comprensione. Nello stesso scritto citato all’inizio, Munford afferma «più l’uomo comprende e più aumenta in lui il desiderio di comprendere». La comprensione apre all’empatia, misura la capacità di rispetto per l’altro, stabilisce i parametri dell’equità incanalando le forze titaniche nelle sponde della giustizia. In Das kapital Curzio Malaparte fa dire a Godson, in un dialogo con Marx: «L’uomo giusto deve avere il coraggio di stare dalla parte della carità più che dalla parte della giustizia». È ostico definire che cosa sia la giustizia. Ancora più ar-


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duo è riuscire a definire che cosa essa non sia. Se sia giusto vivere o sia giusto lasciarsi morire. Se la guerra sia un atto ingiusto o, piuttosto, l’atto finale di tante lotte per dare corpo e senso alla giustizia. Bisognerà trovare dei valori nei quali siano, fissati in modo inequivoco, sicuri punti di riferimento. Il travaglio della crisi dell’uomo, ferito dalla solitudine e che, pure, nella solitudine si rannicchia per restare solo e difendersi dal dolore di vivere con gli altri, ha bisogno di essere edulcorato attraverso la coscienza che, ficcando lo sguardo nei baratri dell’alienazione e dell’allontanamento, comprende il valore dell’identità e lo trasforma in cielo a cui ancorarsi. Solo attraverso la catarsi della comprensione si vince il silenzio del tempo e si riprende la rotta rafforzati contro le ansie del naufragio, si ricompongono in armonia i frammenti del pensiero sparpagliati dal dubbio orfano della ragione. I versi di Mumford dicevano «Una terra senza coscienza è una terra vuota…». Il dramma che, sempre, incombe sull’uomo, che, sempre, continua a creare straniamento, è scatenato dalla mancanza della dimensione della coscienza. B. Russel affermò: «Il nostro dramma presente è dovuto, più che a ogni altra cosa,

al fatto che abbiamo imparato a comprendere e a dominare, in proporzioni spaventose, le forze della natura fuori di noi, ma non quelle che si incarnano in noi stessi». Il punto essenziale cui ancorare i fondamenti di ogni prassi rimane l’apertura dell’uomo verso l’altro uomo. Su questa traccia sarà possibile portare alla luce la scoperta dell’uomo libero dalle scorie dei solipsismi disseccati dai deserti dell’angoscia o delle solitudini alimentate alle sorgenti degli egoismi della disperazione e dell’orgoglio. Bisognerà ricercare il senso dei nostri valori e, con essi, la speranza nelle coscienze. Solo così l’educazione alla vita può diventare educazione dell’uomo alla vita e, nello stesso tempo, ai significati della giustizia. Educare diventa recuperare l’uomo nella centralità del suo essere; diventa ripercorrere, seguendone le orme, l’esemplarità di figure come Ulisse ed Enea. Metafore dove la pietas del ritorno sa di bellezza e di morte, si purifica in speranza mai doma che è proiezione verso nuovi orizzonti. È il viaggio simbolico dell’iniziato che torna a rinnovarsi senza apparente termine del cammino esistenziale personale; un viaggio fatto di perenni rinascite fiorenti nel seno di consapevolez-

ze il cui senso più alto è dato dalla possibilità di tramutarsi in fasci di luce che rendono meno arduo il percorso e fortificano il coraggio dell’avventura umana. Molti anni fa mi capitò di leggere, presso i confini del parco del Gran Paradiso, una espressione che non ho mai cancellato dalla mente: «Ci vogliono molti fili d’erba per tessere un uomo». Il problema dell’uomo riemerge sul piano planetario e le varie ideologie si mostrano impotenti e prive di strumenti adeguati per tessere la tela dell’uomo nuovo. Alla pedagogia e all’educazione si impone la responsabilità di elaborazioni calibrate capaci di scommettere sulla qualità del futuro coniugando scienza e nuovo umanesimo, costruendo orizzonti di senso, liberando gli intelletti dalle forche dell’effimero, riconquistando in una parola il cuore dell’uomo incatenato alla sua fragilità, colto nel suo dolore e nelle sue esperienze. La civiltà può proiettarsi in futuri non disorientanti solo a condizione di preservare la memoria e, dal tronco antico, generare germogli roridi dei succhi di rinnovate civiltà. P.64-65: La Scuola di Atene, affresco di Raffaello Sanzio, 1510, Stanza della Segnatura, Roma.

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L’evoluzione dall’Apprendista: la ‘prova’ dell’Acqua Vincenzo Tartaglia

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a reciprocità tra uomini e dèi rientra nell’equilibrio dell’universo, nelle leggi dell’evoluzione: la necessità che un dio imperfetto ha di scendere e “umanizzarsi” si armonizza con quella che l’uomo ha di salire e “divinizzarsi”. Se è dunque vero che l’Apprendista ha bisogno del Maestro Libero Muratore, dobbiamo riconoscere che quest’ultimo necessita a sua volta dell’Apprendista. Essi sono apparentemente e temporaneamente due esseri distinti; in realtà formano, con il Compagno che per così dire tiene il mezzo, un essere unico a immagine del Grande Architetto: dunque le separazioni e le distinzioni sono illusorie, quanto l’Unità è reale. Non intuire nel corpo dell’Apprendista la Luce e il Fuoco del Maestro Venerabile è come non ammettere in un individuo lo Spirito del Grande Architetto (Padre e Creatore) e riconoscerlo unicamente quale presenza corporea nello spazio e nel tempo! Immaginare inoltre l’Apprendista e il Compagno come “figure” massoniche staccate, soltanto perché nel Tempio appaiono due persone distinte, è, secondo la visione spirituale, come vedere l’Apprendista senza anima e il Compagno senza corpo! Sicché il progenitore terrestre è massonicamente un ternario: Apprendista (corpo), Compagno (anima), Maestro (Spirito). Tale ternario si perfezionerà e completerà in un quaternario, quando il Venerabile (SPIRITO Universale) scenderà per illuminarlo direttamente: grazie a questa discesa si accenderà l’io, la divina Luce che farà dell’uomo un individuo libero, autocosciente, responsabile, in grado di evolvere grazie alle proprie forze spirituali, lasciandosi guidare dall’interiore Splendore. In un’avanzata fase dell’Iniziazione un Fratello è in grado di accogliere, senza l’intermediazione dei Maestri, la Luce del Venerabile: è come se, all’anima di quel Fratello, il Sacro Libro rivelasse direttamente la Sapienza di Hiram. Da questo momento, per quanto possibile, quell’illuminato Massone affiderà la sua vita al vero Sole che ormai risplende in lui, nel centro del suo essere, così come il sole fisico risplende al centro dell’universo solare: quando il Sole troneggia nell’anima, allora il Fratello si sente li-


bero e forte, altrettanto però umile e benevolmente disposto verso gli altri. Nel senso strettamente massonico, i Fratelli in grado di ricevere l’Iniziazione non li troviamo tra gli Apprendisti, i quali non sono assai liberi e coscienti, bensì tra i Compagni: sono dunque questi i veri discepoli dei Maestri Liberi Muratori. Ma il Compagno, prima di essere tale, fu Apprendista … Possiamo da ciò capire tutta l’importanza del passaggio dal 1° al 2° Grado: gli Apprendisti vengono, infatti, soltanto “preparati” ad accogliere la divina Sapienza di Hiram; i Compagni sono invece già interiormente capaci di accoglierla. Sicché nell’Iniziazione massonica entrano in reciprocità, come accomunati in un unico destino, il Maestro e il Compagno, due entità che vivono in funzione di una Cosa Unica: la Sapienza Immortale, attraverso la quale le creature sono purificate e ricondotte al Grande Architetto (l’UNO), da Cui si erano allontanate, perdendo la divina Pace, in seguito al primo movimento cosmico (Compasso che si apre). A questa primordiale condizione un Fratello può dunque ritornare grazie alla Luce iniziatica, quindi spiritualizzandosi, cogliendo cioè l’essenzialità e l’unitarietà della sua natura, Spirito da Spirito: via via riavvicinandosi ad esso, il Libero Muratore supera i dualismi che lo rendono incostante e infelice quaggiù. Il riavvicinamento altresì impone, all’iniziando Fratello, ritmi evolutivi sempre più accelerati man mano che la sua anima ascende dalla sfera materiale dell’Apprendista a quella altamente spirituale del Maestro Libero Muratore, passando per la sfera intermedia, quella animica che è propria del Compagno. Il cammino iniziatico dell’Apprendista è in effetti più lento rispetto a quello del Compagno, dato che la velocità evolutiva del corpo fisico è essa stessa inferiore a quella dell’anima: il corpo è infatti legato alle leggi fisiche terrene; invece l’anima alle leggi animiche che regolano i sentimenti, le sensazioni, le emozioni, insomma la vita e l’evoluzione del Cuore (inteso massonicamente, non cioè come organo fisico). Per il passaggio dal 1° al 2° Grado, che permette di entrare nell’eletta schiera dei discepoli degni della Luce e capaci di sopportar-

la, è pertanto necessario che l’Apprendista aumenti la sua velocità evolutiva, quindi l’energia prodotta e sprigionata invisibilmente dal corpo vitale: deve insomma accrescere la forza e lo splendore dell’interiore Luce attraverso la “prova” dell’Acqua. Il superamento di questa prova impone il passaggio da un elemento (terra) per così dire rigido e apparentemente morto a un elemento (acqua) dinamico, sfuggente, mobile e vivente: si tratta in un certo senso di lasciare la “certezza” inerente alla solidità e all’immobilità per l’incertezza che invece accompagna la fluidità, la mobilità e l’inafferrabilità. Da un altro punto di vista, e interpretando il simbolismo connesso all’Iniziazione al Grado di Compagno d’Arte, il superamento della prova dell’Acqua si configura come un navigare dal Settentrione al Meridione del Tempio: il simbolico “traghettatore” è in questo caso il 2° Sorvegliante, il quale, pur essendo al Meridione, “presiede la Colonna del Settentrione”. Ciò allude alla capacità dello stesso 2° Sorvegliante di proiettare la Luce ed esercitare la Forza fino alla sponda opposta (diciamo così), tramite però il Tesoriere che a sua volta è infatti un Maestro Libero Muratore, un Dignitario, ideale raggio e messaggero del Venerabile. Sicché la Luce, non arrivando nel Settentrione direttamente dal 2° Sorvegliante bensì dal Tesoriere, è troppo flebile per poter accendere nell’Apprendista l’io “massonico”, il potenziale vaso dell’esoterica Sapienza di Hiram. La tenebrosità del Settentrione, che rispecchia la Figura materiale del Tesoriere “metallico”, non potrà fare insomma di un Apprendista un autentico Massone. Se ci atteniamo al Rituale, all’aspetto puramente simbolico dell’Iniziazione, un Fratello è da considerare un vero Libero Muratore (e avrebbe egli stesso ragione di ritenersi tale) soltanto dopo aver superato la prova dell’Acqua. Superando infatti questa prova egli passa dalle tenebre alla prima Alba: ossia dal Settentrione al Meridione del Tempio, tra Compagni d’Arte illuminati, deiformi, a immagine del Venerabile. È al Meridione che nel Fratello si accende l’io, ossia la Luce “entro di noi” irradiata direttamente e con forza dal 2° Sorvegliante: grazie appunto a questa

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interiore Luce, un Apprendista (progenitore umano) diventa effettivamente un Compagno (vero uomo: Libero Muratore). In quanto Compagno, il Fratello è ormai in grado di pensare coscientemente e liberamente, diciamo massonicamente; sempre più coglierà l’affinità interiore con il 2° Sorvegliante; avvertirà prima o poi, durante lo spiritualizzante 5° anno muratorio, il desiderio crescente di tornare all’Io Celeste, nostro Grande Architetto. Con questo desiderio si accende, nell’anima di un Fratello, la prima Scintilla di religiosità: essendo affine al Sacro Fuoco (Amore divino) quella Scintilla tende infatti a tornare in alto per riabbracciare il suo Dio Creatore. Se Hiram fosse insensibile al richiamo dell’Eterno, non potrebbe conquistare l’Eternità; neppure rappresenterebbe un modello per l’iniziando Fratello. Invece Hiram è l’Eternità stessa che, assumendo una forma umana, veste gli illusori abiti della morte. In realtà è detto che la Sapienza di Hiram, dunque il suo Spirito, è immortale. Orbene ciò che è immortale è il vero e solo Reale: dunque la morte del corpo è un’illusione, quanto la sua resurrezione. Ciò che infatti è mutevole non è reale, anche se contiene invisibilmente la Realtà. Sappiamo che le possibilità dell’Apprendista sono limitate: è schiavo del corpo, della materia in genere; è nebuloso e non chiaro nella coscienza; non è ancora una individualità sufficientemente formata e responsabile, sicché dipende, per il suo percorso massonico (e non solo), dai Compagni e soprattutto dai Maestri. A causa di queste limitanti condizioni l’Apprendista non può e non deve ricevere la Sacra Luce, sfolgorata dai Maestri. La quale è invece sempre più sopportata e accolta dal Compagno d’Arte che trova, nella sua creatività, gli strumenti adatti per dare a quella Luce le migliori forme, le più belle e veritiere: insomma quelle che potremmo a ragione definire “massoniche”, in virtù dell’elevato contenuto umanitario. Intendo dire che l’Arte del Compagno non dev’essere fine a se stessa, quasi fosse uno sfogo istintivo e nulla più! Questo sfogo è pur ammissibile, ma in un artista profano, non già in un Artista secondo lo spirito massonico: questo spirito esige che l’Arte spiritualizzi

gli uomini, li renda più virtuosi, li elevi all’immortalità. Il Lavoro dei Maestri Muratori sul Compagno è particolarmente significativo verso la fine del 5° anno muratorio. In questa fase la necessità e il desiderio d’insegnare, da parte dei Maestri, incrociano la necessità e il desiderio che i Compagni hanno di apprendere. Se non sussistesse peraltro la reciprocità tra insegnamento e apprendimento, allora, sulla Terra, un maestro e un discepolo non s’incontrerebbero se non casualmente e, mi pare, inutilmente. Sennonché la necessità e il desiderio, accendendo nel maestro l’umiltà e nel discepolo il coraggio, fanno scoccare la scintilla dell’incontro… al quale seguirà il cammino iniziatico. Di certo un individuo non aspirerebbe all’ultraterreno, all’Ignoto, se si sentisse già libero ed appagato sulla Terra! In effetti la sua aspirazione è accesa dalla reminiscenza che l’anima serba dell’Origine, della perduta Pace: l’anima ricorda l’Uno, ma ne risente la lontananza. Appunto tramite l’Iniziazione essa è ricondotta alla Celeste Culla. Quel misterioso desiderio che si accende nell’uomo quando, in riva al mare, sogna di esplorare la lontana sponda, non nasce dal nulla: è suscitato, attraverso vie occulte, dalla duale Forza cosmica. Si tratta della Forza che inizialmente esce dall’Uno (come il Compasso esce dal Libro), ma che sulla Terra è suscettibile di attivarsi in maniera opposta, ossia come Riconversione e Riunione: in tal caso quella Forza, accendendo nell’anima eletta il ricordo del passato, la sospinge verso il Principio per riabbracciare fraternamente l’Uno dopo la Primordiale Separazione (apparente, poiché lo Spirito di ogni essere resta con Esso collegato). È come dire: la Forza che inizialmente proietta le anime fuori dall’Uno è la stessa Forza che, agendo questa volta al contrario, le ricondurrà ad Esso affinché godano finalmente dell’Eterna Pace. L’Apprendista che aspira al Trono del Venerabile è mosso da un sentimento, un impulso non dissimile da quello che spinge l’anima a tornare verso il Padre Celeste. L’anima inizia il Ritorno liberandosi della sua grezza natura in favore della natura divina, infusa di Luce; similmente l’Apprendista deve,


all’inizio, attivarsi e lavorare al fine di lasciare il Settentrione per il Meridione del Tempio. Questo spostamento, evocante la necessità del progenitore umano d’illuminarsi e perfezionarsi, è vissuto dall’anima dell’eletto Fratello come il passaggio da una sponda all’altra di una distesa di acqua! Un istinto inizialmente nebuloso, ma positivo e protettivo, sto per dire conservatore, sollecita l’anima a questa particolare traversata … verso un mondo migliore: una Sapienza antica, in essa dormente, a sua volta la guida. Perché in fondo camminiamo, avanziamo, affrontiamo pericoli non da poco? Dove crediamo di andare? A qual fine il Grande Architetto ci ha dotato delle gambe? Di certo affinché potessimo andarGli incontro, non però fisicamente ma avanzando nella conoscenza spirituale dell’Origine e di noi stessi: gli arti inferiori sono dunque al servizio dell’uomo; si lasciano umilmente comandare, dirigere dal Cuore e dalla Mente di lui … Per queste loro caratteristiche, quegli arti non sono davvero da considerare “inferiori”, al di sotto cioè delle più elevate facoltà umane! Anzi essi sopportano, reggono, conducono il corpo dell’uomo: rappresentano la base mobile della simbolica Piramide della Conoscenza, dell’Elevazione e della Vita! Le gambe sono pertanto esotericamente da vedere come l’espressione fisica dell’irrequietezza e della vitalità, dei desideri, sogni e ideali dell’individuo desideroso di colmare le proprie imperfezioni; quindi evocano l’innata inclinazione dell’anima a ricercare e imitare lo Spirito, suo Modello, Figura sintetica di ogni forma di vita. Possiamo anche proporre questa analogia: rispetto alla mente umana, le gambe rappresentano ciò che il Compasso è, simbolicamente, rispetto al Libro Sigillato. Il Compasso irradia e manifesta l’Occulta Luce del Grande Architetto; le gambe portano lontano e diffondono, per le contrade della Terra, quanto si cela all’interno degli uomini. È possibile che tu, pur essendo validamente assistito dallo stato di salute, ti senta impigrito a tal punto da non voler più camminare! Tale impedimento rivela la sfavorevole, infelice (temporanea?) tua condizione interiore: stai affogando nell’indifferenza e nella separati-

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vità; rifiuti te stesso e il mondo; giri le spalle alla conoscenza, soffocando ogni forma di vita sotto un unico sentimento di distacco! La tua anima è come solidificata, aggrovigliata: non arde… non brilla… non ricorda! Si è in essa spento il Sacro Fuoco? No: è solo temporaneamente ricoperto dal terriccio! Esso, ora, arde e vive invisibilmente: dorme! Quando si sveglierà, riprenderai il Cammino: allora gusterai intimamente una migliore Alba, poiché l’anima tua sarà essa stessa rinata e diversa. Cosa faceva allora il Fuoco, mentre si nascondeva e ti sembrava inattivo e morto? Continuava a vivere entro di te come una Scintilla di cui, però, tu non avvertivi il vivificante Calore immateriale: quella Scintilla è il tuo Eterno Desiderio di vivere … O forse sei convinto che, stecchito il corpo, sia in te per sempre estinto il Desiderio di Vita? … Dovresti, follemente, crederti più forte dell’Amore Onnipotente, Fuoco Spirituale che vive infinitamente attraverso Fiamme e Scintille infinite! Come l’acqua vive tra cielo e Terra, così l’anima evolve tra Spirito e corpo. Analogamente il Compagno è tra il Maestro e l’Apprendista, donando all’uno e all’altro, dall’uno e dall’altro pure ricevendo secondo le mirabili e complesse

proprietà del Ternario. Avendo superato la “prova” dell’Acqua ed essendo stata purificata, l’anima del Fratello è ormai più leggera e più simile allo Spirito, anziché al corpo. Tale metamorfosi evoca la capacità dell’anima eletta di sviluppare la sua divina natura; di provare ripugnanza e non solo attrazione verso il corpo; altresì di tenersi lontana dalle basse necessità materiali, tendendo e uniformandosi invece allo Spirito; di poter viaggiare sempre più velocemente nello Spazio. Se infatti la velocità evolutiva del corpo (e della materia) è superata dall’anima, è pur vero che la velocità dell’anima è ben superata dallo Spirito. Dunque l’anima, raggiungendo una determinata velocità interiore, si libera dall’attrazione del corpo e vola nel “suo” spazio astrale (Camera di Compagno). A sua volta lo Spirito, liberandosi dall’attrazione dell’anima, riconquista finalmente il suo mondo. E come idealmente, nel Tempio, l’anima liberata entra nel Meridione (Purgatorio), così il libero Spirito entra in quello spazio che unisce Occidente e Oriente (Paradiso), prima d’immergersi temporaneamente (“Sospensione dei Lavori”) nella Notte Infinita, oltre ogni Apice, Cielo, Condizione, Coscienza, Volontà (Troni), Sapienza (Cherubini), Amore 69


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(Serafini)… L’anima è dunque tanto più veloce, quanto più si allontana dalla Terra. Tuttavia la sua velocità di movimento e di purificazione è destinata a progredire fino a quando, essendo rientrata nello Spirito, assaporerà la Beatitudine dell’Immanenza: Velocità Estrema, ormai priva di movimento! In tale Condizione, il cosmico Cerchio è Quadrato; il movimento è Eterna Quiete: con questa divina Pace si conclude il percorso iniziatico tramite il quale l’Apprendista è ricondotto dalla Terra al Sole, attraverso la Luna. Metaforicamente diciamo: l’Apprendista ha i piedi per terra; il Compagno è sospeso (vapore…); il Maestro è nello Spazio, intorno al Sole; il Venerabile è fisso, nel centro del “suo” universo: è il Sole. Dov’è allora collocabile il Fratello Maestro delle Cerimonie? Ebbene la reale, eccelsa FIGURA che egli personifica supera invero ogni collocazione, poiché rappresenta lo Spirito di Dio Altissimo, il Suo “testimone” e messaggero: lo Spirito Divino non è nel Tutto, nell’illimitata Durata; è il Tutto e la Durata! Per quanto ti senta tu vinto e schiacciato dal male, debbono in te prevalere il sentimento e la convinzione che ogni vittoria è dell’Amore altruistico (Bene) e che al male sono soltanto concessi tempi limitati e briciole (anche se non sembra!). Quindi le sofferenze che i Fratelli patiscono lungo il cammino iniziatico hanno il principale scopo di purificarli e predisporli al pieno godimento della divina Pace. E del resto chi avanza, dalle tenebre della non-conoscenza verso la Sapienza dell’eterno Hiram, deve pur in qualche modo soffrire la potenza della sua Luce: infatti esattamente in questa sofferenza, è nascosta la vera Felicità. Potremmo anche dire: i dolori sono gli abiti effimeri della divina Beatitudine! Hiram si concede alla morte, perché la Sapienza non si oscuri nell’anima degli indegni! Ha sofferto per averla, come ogni iniziando deve soffrire … Come puoi dunque credere di avanzare verso la sua Luce ed abbracciare l’Eternità risparmiando a te stesso ogni pena e fatica? Sarebbe Hiram il tuo modello di gloria, ma per nulla di Lavoro?! Potrai considerarti un vero eletto soltanto quando vedrai ogni sofferenza come

una necessità e una prova: la prova del tuo amore verso l’Amore. Inizialmente guidato dai più evoluti Fratelli, l’Apprendista dovrà altresì via via mostrare di poter poggiare sulle proprie forze e capacità: in quale altra maniera farebbe emergere la vera identità, la spiritualità che gli occorre per ricevere degnamente la Luce richiesta? Egli supera invero la prova dell’Acqua, affidandosi sempre più (coscientemente) alle innate forze d’Amore: la sua anima deve insomma farsi alleata e “compagna”, non già avversaria delle anime consorelle. Se infatti nuoti o navighi su una distesa di acqua agitata, cosa ti è necessario fare se non seguire umilmente, pazientemente, saggiamente il suo capriccioso ondeggiare? Oppure credi che, in mezzo al mare, ti sia possibile contrastarlo arrogantemente, ciecamente aggredirlo? … Soccomberesti, Fratello! Una volta nell’acqua, devi umilmente essere “goccia” e unirti alle gocce: l’umiltà è pure il principio dell’affinità e della tolleranza. Se d’altra parte la Tolleranza, prima Virtù massonica, non si accenderà in te, come sarai pietra tra pietre, mattone tra mattoni? … In che modo riuscirai a lavorare massonicamente: umilmente, collettivamente, efficacemente? Superando la prova dell’Acqua è come se l’Apprendista approdasse su un luogo elevato, emergente, sicuro: diciamo un monte, particolarmente esposto all’Aria e alla Luce … Significa che l’Apprendista non è stato travolto dalla furia mortale dell’Acqua, ma ha saputo sfruttarne la positiva Forza: ossia la capacità di ascendere, “evaporare”, volgere al Cielo. Sicché l’Acqua iniziatica mostra una duplice natura: terrena e spaziale. La sua natura terrena, irrazionale e folle, freneticamente attiva e ciecamente travolgente, semina in abbondanza morte: in tal caso la forza, da essa sprigionata collabora con le leggi fisiche della distruzione. Invece la natura “ariosa”, immateriale, vorrei dire divinamente cosciente, tendente a evaporare, collabora con la Forza della Vita (Luce “intorno a noi”) e, sollevandoci dalla Terra, ci conduce all’Eternità. Quale è la vera finalità dell’Acqua immateriale, massonica e iniziatica? Deve spegnere il fuoco negativo dell’egoismo, affinché si risvegli e si attivi il


Fuoco d’Amore. Tutto ciò allude alla necessità, particolarmente avvertita dall’anima eletta, di resistere alle tentazioni della materia e di lasciarsi invece guidare dallo Spirito, verso l’alto. In realtà la forza fisica e la Forza iperfisica dell’Acqua, apparentemente contrastanti, concorrono unitamente alla purificazione e al perfezionamento dei mortali: il diminuire della forza determina l’accrescere della Forza. Sicché al tramontare della componente umana, corrisponde nell’anima l’albeggiare di divine facoltà. È come affermare: la morte dell’uomo è la vita di un dio. Poiché tra il corpo e l’anima è il “corpo animico” (Apprendista-Compagno: 3° anno muratorio), possiamo dire che un Fratello è sottoposto alla sua grezza natura materiale fino al 3° anno muratorio; oltre questa condizione comincia a prevalere la componente animica, ossia la vera natura del Compagno: in tal modo, la Luce vince e rischiara le tenebre. Per salvare l’umanità, il mitico Diluvio viene in soccorso di coloro che sono i più avanzati tra gli esseri primitivi, quindi suscettibili di svilupparsi e suscitare una migliore Razza umana. Massonicamente, ciò significa che gli Apprendisti più grezzi debbono attendere, prima di poter lasciare le tenebre per la Luce. Ai meno grezzi, più svegli e coscienti, i quali evolvono più velocemente, è invece data la possibilità di proseguire il cammino evolutivo passando dal Settentrione al Meridione del Tempio: da una sponda all’altra … Qui, ormai Compagno, illuminato e rivitalizzato dalla Luce del 2° Sorvegliante, un Fratello inizierà il volo verso il Cielo dei Costruttori divini. La Luce infatti dona, per l’Eternità, l’immortalità che il corpo toglie temporaneamente. Quando dunque pensiamo alla morte, pensiamo alla “polvere”, all’uomo fisico che non ha posto nel Cielo e resta alla Terra. Nell’Acqua del Diluvio ravvisiamo la divina Volontà che pervade la vita terrena, partecipando all’evoluzione dell’uomo: ciò, al fine di renderlo degno dell’immortalità. Tramite quindi l’Acqua, discendente-ascendente, la Terra entra essa stessa in rapporto con le Forze ultraterrene: in questo modo gli elementi naturali vengono placati, e le loro

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forze mortali messe al servizio dell’Eterno. Il vedere o non vedere, nell’evoluzione della Terra, una presenza divina ordinatrice e preservatrice, distingue il vero dal falso eletto Fratello. Secondo gli esoterici insegnamenti della Scienza Muratoria, possiamo affermare che nell’Apprendista tale “visione” è ancora crepuscolare e debole, inizialmente; nondimeno, essendo un eletto, è grazie a questa pur annebbiata facoltà che egli potrà, convenientemente preparato, intraprendere il cammino iniziatico. Invece nel Compagno d’Arte la divina presenza è avvertita per effetto di un’Intuizione chiara, cosciente e penetrante, la quale permetterà, via via illuminandosi, non soltanto di distinguere il bene dal male ma di percepire sempre più il Fuoco dell’Amore in ogni cosa, persino nel male! Avendo superato la prova dell’Acqua, il Fratello è ormai cosciente di essere un’anima nell’Anima: è dunque meritevole di lavorare massonicamente, tra i veri iniziandi destinati ad accogliere la divina Sapienza di Hiram. Non entriamo infatti degnamente nel Tempio massonico e non apparteniamo realmente agli eletti solo in quanto siamo gusci vuoti, materia e nulla più! Apparteniamo degnamente alla Famiglia, solamente se consideriamo l’uomo reale e non illusorio: non quindi l’uomo che sia in qualche modo speciale per il

suo corpo apparente, bensì l’entità spirituale-animica che abita nello Spazio invisibile. Solo fermamente credendo nell’ultraterreno, nella sopravvivenza e nell’oltretomba il Fratello si preoccuperà di vivere massonicamente, secondo Virtù, e considererà, con crescente convincimento, non più di un necessario passaggio questa tormentata vita terrena … Bisogna soffrire sulla Terra per gustare massimamente la Pace e la Felicità nell’Eterno Cielo, vera culla dell’anima nostra. Non riguardando allora te stesso come un’anima, un’entità discesa dall’Eterno e destinata all’Eternità, in qual modo credi di meritare, nel Tempio, un posto che non sia il tenebroso Settentrione? Nel Meridione è invece il nostro “Salvatore” illuminato: il 2° Sorvegliante che ci conduce idealmente verso il suo “tronetto”, così come Noè guida i prescelti verso le alture dell’Ararat. Troppi Massoni mostrano di non aver superato la “prova” dell’Acqua, di essere anzi ancora grezzi e legati alle cose materiali, alle apparenze, alle illusioni! Essi dormono di fronte agli eterni valori: nell’anima e nello Spirito sono mai entrati nel Tempio? … Eppure, Fratello, forse ti toccherà condurre, essendo tu stesso cieco nell’anima, i “bendati” che hanno chiesto e ancora aspettano l’Illuminazione! P.66-71: Acqua, 2013, collez. priv.

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Il labirinto Archetipo e segno di un percorso interiore Carlo Moscardi

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U

mberto Eco, nella sua prefazione all’interessante libro sui labirinti scritto da Paolo Santarcangeli¹ scrive che: “Un’esposizione sul labirinto non può che essere labirintica perché, al suo ingresso, implica numerosi livelli di lettura e di interpretazione. Aggiunge che:“essa è, come nel labirinto stesso, semplice da cominciare, così come è facile addentrarsi nell’argomento, ma dal quale è difficile uscirne con la convinzione di averlo trattato in modo perlomeno sufficiente”. Dunque un argomento arduo da trattare e da esporre per il forte richiamo che il mito labirintico ha sui tantissimi recessi, infinite emozioni e sulle più profonde e nascoste vie della psiche umana. Per questo ho preferito distinguere la parte principalmente architettonica, storica e religiosa dall’aspetto che riguarda la mente e il suo accostarsi al significato del simbolo stesso. Cenni storici Il labirinto, considerato nella sua edificazione architettonica, come nella sua rappresentazione pavimentale nelle chiese o nei disegni degli antichi manoscritti, può essere considerato di due tipi principali. Il primo è quello univiario, che ha un solo percorso, dall’esterno verso il centro e viceversa. In questo non ci sono

dubbi sulla progressione da fare: la difficoltà è data dalla lunghezza e dalle continue svolte che incidono sulla volontà del viandante nel proseguire e raggiungerne la fine. È quello rappresentato nelle chiese perché uno era il cammino del pellegrino verso un traguardo ben determinato e uno, rigorosamente uno, il percorso religioso del fedele per la salvezza dell’anima, ben indicato dalla gerarchia ecclesiastica. Il secondo tipo di labirinto è quello pluriviario che impone delle scelte perché presenta bivi, fughe e percorsi secondari. Ogni scelta sbagliata può portare a ripercorrere i passi già fatti oppure a un punto morto. Solo uno dei tanti corridoi e solo scelte giuste permettono di arrivare al

centro e a un preciso percorso a ritroso verso l’uscita all’aperto. Questo labirinto può svolgersi su un solo piano oppure su più piani, come lo sono i corridoi nelle piramidi egiziane, tesi a sviare il profanatore dalla camera del faraone. Sotto il profilo storico, il simbolo del labirinto appartiene all’uomo fino dall’alba dei tempi, archetipo segno dell’umanità, compreso, e compreso nello stesso modo, da tutte le popolazioni, qualsiasi sia stata e sia attualmente la loro cultura e civilizzazione. Così come archetipi sono i due triangoli contrapposti e sovrapposti, segno dell’equilibrio fra principio maschile e femminile, nell’uomo come nel cosmo, così come lo è la losanga², primigenio riferimento all’organo genitale 73


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femminile in omaggio alla Grande Dea, la Dea Madre e, come la spirale, forza generatrice di vita. Il labirinto è stato nel tempo disegnato, dipinto, inciso, edificato. Nei manoscritti ornati da disegni labirintici è chiaramente mostrata nei rigiri la preferenza per il sacro numero sette come vediamo nella successione dei cerchi che segue lo schema inciso sulle monete di Cnosso. È comparso in opere letterarie, proprio perché appartiene al nostro intimo sentire da sempre. Fra i tanti esempi, ricordo il più illustre: la Divina Commedia, che non è altro che una lunga peregrinazione del poeta che parte dalla Damnatio, passa alla Purgatio per arrivare, dopo un lungo cammino, al Summum Bonum. Ma l’intera letteratura medievale è piena di allegorie, di percorsi intricati e strade seminate d’inganni, così come di castelli fatati con lunga successione di sale dove è facile perdere il cammino. Anche la ‘cerca’ del Graal da parte dei Cavalieri della Tavola Rotonda può essere interpretata come percorso labirintico, cioè cammino di iniziazione. Un segno comune, dunque, e se non fosse così non si spiegherebbe la sua presenza in alcuni sigilli egizi, sulle rammentate monete di Cnosso, sulle tavole di argilla babilonesi, sulle incisioni rupestri di Old Bewych in Inghilterra, in Irlanda e Cornovaglia, in Messico e in India. Appare fin dai tempi antichi come disposizione di ciottoli sulle spiagge e scogliere del Nord Europa, dove è indicato come ‘cammino di Troia’³. In Italia sono conosciute le incisioni graffite nelle grotte della Val Camonica, dove, fra migliaia di altri segni, quello del labirinto è ben evidenziato. Molto conosciuta è la pittura nella casa detta appunto ‘del labirinto’ a Pompei, come i tanti pavimenti a mosaico delle ville romane. L’etnologo C. Shuster4 ha dimostrato che questo segno fece la sua prima comparsa in Europa sui petroglifi nel secondo millennio a. C. e che da qui si spostò verso Oriente, dal Caucaso all’India e Indonesia, per proseguire in Nuova Guinea, Melanesia e Polinesia. Esso fa parte delle tradizioni sacrali indiane degli stati occidentali degli USA e del nord Messico, principalmente per quelle dedicate ai riti di iniziazione all’età adulta. Si ha quindi un segno che non è limitato a un mito dell’antichità, ma

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qualcosa che indica, appunto ‘significa’, un messaggio a chi lo sa interpretare. Ciò fin dall’inizio della nostra civiltà. Il Rito del Sacrificio Nel Medioevo, principalmente nel XII/ XIII secolo, il labirinto è apparso dipinto o pavimentato nelle chiese. Uno per tutti: quello splendido della cattedrale di Chartres. Esso acquista la funzione di richiamo a un viaggio di pentimento, di purificazione sia spirituale che fisica, dato che a quel tempo i due piani, lo spirituale e il fisico, andavano in stretta simbiosi. Simbolo del faticoso e pericoloso viaggio per antonomasia, cioè del pellegrinaggio verso luoghi santi, sacrificio che dava la possibilità, esso solo, di cancellare i peccati e, insieme, anche le affezioni fisiche. Ogni labirinto ha un suo centro, difficile ma insieme desiderabile, per raggiungere il quale si impone un cammino che non deve essere facile perché rappresenta il progresso spirituale del penitente. Non si avanza se non con fatica e sacrifici e se il pellegrinaggio ai luoghi santi è difficile e pericoloso, l’incedere sul tracciato nella chiesa deve essere almeno lungo e penoso, in ginocchio, accompagnato dal recitare di salmi, giaculatorie, petto battuto per evidenziare il rimorso per la vita trascorsa, fino a raggiungere il centro, la Gerusalemme Celeste. Il richiamo al sacrificio come espiazione è qui particolarmente eviden-

te. Il labirinto non era soltanto simbolo del pellegrinaggio, ma anche epifania del continuo travagliare di ognuno nella quotidianità e che solo l’arrivo al centro, la morte fisica, ne consentiva la liberazione. Se nel centro del labirinto minoico stava la bestia e la difficoltà non era l’entrarci e il proseguire, ma il conflitto e l’uscita, nel centro di quello gotico stava il fine, il traguardo, la Gerusalemme, che per l’uomo medievale rappresentava la città religioso-mistica per eccellenza. Gerusalemme, santa e sacrale, centro dell’opera del Redentore, meta ultima del pellegrinaggio in Terra Santa e simbolo tangibile della Città Celeste, la Perfetta, più volte rappresentata in pitture e miniature nella sua idealizzazione. Due peregrinazioni ugualmente difficili e pericolose: quella fisica del viaggio fino alla città terrena e quella spirituale del cammino dell’anima, disseminato di tribolazioni e tentazioni, di fallimenti e vittorie fino a raggiungere, con la Grazia, la Gerusalemme ideale, la Pura, la Celeste. Molti labirinti che adornavano le chiese medievali sono andati distrutti, per incuria o integralismo religioso. Pochissimi ne rimangono in Italia, quasi nessuno in Germania e Inghilterra. Ne sono rimasti in numero maggiore, e splendidi, nelle cattedrali francesi, come quello di Chartres sopra ricordato, di Amiens, di Reims e di Saint Omer, tanto per ricor75


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dare i più famosi, ma anche altre piccole antiche chiese possono vantarne uno. L’uso di decorare le chiese con il segno del labirinto decadde, fu dimenticato. Cambiò veste e luogo spostandosi nell’architettura del giardino delle ville patrizie, perdendo la significazione di sacrificio espiatorio, mantenendo in alcuni casi quello di percorso iniziatico, come nel caso di quello di Bomarzo, ma nella gran parte mantenendo solo l’aspetto ludico di abbellimento del parco della villa, funzionale allo stupore degli ospiti e a favorire con l’intrico dei vialetti e siepi lo svolgersi di feste e galanti intrecci amorosi. Il suo centro, decaduto da traguardo di un cammino fisico e spirituale, diffici76

le e penoso, a meta di arrivo dopo svaghi profani. Cosa è rimasto oggi del segno del labirinto? Pochissimo o nulla nella decorazione di luoghi sacri dove ha perso la sua identificazione di percorso salvifico dell’anima, nulla nell’edificazione di percorsi ludici nei giardini moderni. Ha perso la sua contingenza temporale per riacquistare il suo significato arcaico di ricerca e iniziazione interiore. Che sia un viaggio pio, geografico e fisico, oppure una meditazione e un percorso interiore, esso non può essere dimenticato perché fa parte del più profondo inconscio dell’umanità. Il Viaggio e la Prova Storicamente è possibile che il termine

‘labirinto’ abbia la sua origine nella parola labrys che indica l’ascia bipenne, insegna e attributo del minos (re) di Creta. Il mito di Teseo e il Minotauro è molto conosciuto, quindi non è necessario qui ricordarlo. Su riti e credenze religiose particolari dell’isola si è innestata la leggenda dell’eroe greco che uccide il mostro, a significare la caduta del regno cretese per l’opera dei popoli della penisola ellenica che andavano estendendo i loro commerci e il dominio sul mare. Esso ha comunque mantenuto profondi legami con i rituali iniziatici precedenti e arcaici significati che, a un’attenta lettura, appaiono evidenti e mostrano legami, parentele e similitudini con quelle che da sem-


pre sono state le cerimonie di iniziazione o di ‘passaggio’. Come nell’iniziazione massonica, Teseo, l’eroe che entra nel labirinto costruito da Dedalo, è l’iniziando ‘qualificato’5 alla porta del suo cammino interiore, tortuoso e nascosto. Anche se difficile, il cammino è indicato, ma la difficoltà è raggiungere l’intimo centro per eliminare la materialità e tornare, cambiati, alla luce del sole. Non è tanto l’entrare e arrivare al centro, quanto trovare il lato oscuro e prenderne coscienza per poterlo vincere. Questo è il compito, questa la battaglia. Per vincerla non basta lo studio, la logica, la determinazione. Neanche la forza interiore bastano a indicare l’uscita. Queste prerogative possono abbattere la materialità, ma per rivedere ‘il sole e le altre stelle’ è necessaria la sottile preziosa intuizione femminile, il filo dall’innamorata Ariadne. Intuizione così preziosa che una volta abbandonata, come la principessa su un’isola lontana, non potrà evitare di cadere nell’oblio della mente: la tragedia delle vele nere e la morte di Egeo. Anche qui, come nella Divina Commedia, i momenti sono tre o, se si preferisce, tre i gradi di iniziazione successiva: la Purgazione (il cammino interiore), l’Illuminazione (il prevalere sul lato oscuro, il trovare la pietra nascosta), la Conquista della Luce (l’uscita). Non sarà però possibile arrivare alla vera Luce se non si tocca il centro, la piena coscienza del valore iniziatico del viaggio. Il centro del labirinto porta sempre a una mutazione del nostro senso della vita e della morte, al passaggio da una vita ad un’altra, dal mondo delle apparenze a quello dell’essenzialità, dalla carnalità bestiale all’umanità spiritualizzata6. Scrive René Guénon7 che il termine ‘qualificato’, per chi si appresta a varcare la soglia della Loggia è molto importante perché indica una selezione, un’ammissione all’iniziazione e l’accettazione del candidato al volerla fare. Sotto questo aspetto il percorso del labirinto non è altro che una rappresentazione simbolica delle prove iniziatiche. È facile pensare che, quando nell’antichità esso serviva effettivamente come mezzo di accesso a certi santuari, poteva essere disposto in modo che i riti e le prove fossero compiuti nel suo stesso percorso. Il viaggio

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come prova, concetto che la Massoneria ha mantenuto nei suoi Rituali. Il labirinto diviene segno concreto dei difficili passaggi che bisogna superare per penetrare in un mondo diverso, in uno stato diverso, arrivare a una nuova nascita. Appare quale segno segreto e misterioso nelle epoche maggiormente influenzate da un sentimento mistico-religioso, tra i popoli primitivi, nella civiltà minoica, nel Medioevo cristiano, diviene dissacrato ad abbellimento di giardini quando si è maggiormente rivolti al quotidiano. Perché il Minotauro è mezzo uomo e mezzo toro? Perché Teseo potrà vincer-

lo solo e solo se si identificherà con lui, solo se riuscirà a rendersi conto della propria materialità per poterla superare. Se nell’antico mito c’è una netta separazione fra l’eroe e il mostro per renderne più facile la lettura e la comprensione, in realtà c’è qualcosa di umano anche nell’animale, qualcosa di spirituale nella materialità di chi si presenta alla soglia. Questo è l’iniziando ed è ciò che lo rende qualificato per essere scelto alla cerimonia di iniziazione. È la ragione che lo spinge ad accettare di subirla. Ogni iniziando è un Teseo che deve uccidere il proprio Minotauro. L’uomo bestia, nell’oscurità, vuole erompere dal suo stato chiuso in se stes77


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so, uscire dalla sua essenza animale, dalle terribili strettezze della vita istintiva, bramoso di luce. Il mito non parla della sua lotta con Teseo, parla della sua morte. E non poteva essere altro l’esito della lotta, perché solo la morte può cancellare la parte taurina per dare completa identità umana. Negli antichi riti l’uccisore non solo toglieva la vita alla vittima, ma anche ne acquistava le peculiarità e le potenzialità. Per questo, in fondo colui che esce vittorioso dal labirinto non è solo l’iniziato Teseo, ma è, con lui, il simbolo dell’intera umanità liberata. Le vele nere del suo navigare nel ritorno forse indicano la morte dell’uomo e la nascita dell’iniziato. Egeo, che come padre rappresentava il passato, non poteva sopravvivere all’avvenuta mutazione. Il labirinto può avere un cammino centripeto, dall’esterno verso l’interno, conquista di un centro nascosto, come nelle rappresentazioni medievali, ma anche centrifugo con il ritorno alla luce e conquista di nuovi orizzonti come in quello minoico. Passare la soglia, iniziare il viaggio, è collocarsi in una solitudine volontaria, accettare i rigiri e i rigori ignoti del proprio inconscio. È voler toccare la meta fidando solo nelle proprie forze, con la speranza di po78

ter stringere fra le dita il prezioso filo di Ariadne. Ma, come dice Friedrich Hoelderlin, poeta tedesco, il pellegrino sarà in solitudine, non abbandonato. Un isolamento cercato, voluto e scelto quale via per spiegare a se stessi il proprio mistero, nel corso di una peregrinazione faticosa e impedita, compiuta con la massima attenzione, per arrivare alla liberazione. L’aver raggiunto il centro, per illuminazione iniziatica, per meditazione religiosa, averlo fatto anche per un attimo solo, cambia la coscienza per sempre8. Il Segno nella Massoneria Qual è la forma simbolica di labirinto che meglio si adatta a una rappresentazione della via iniziatica massonica? Se nel labirinto della cattedrale di Chartres le figure che vi erano incise sono andate perdute, rimanendo solo il fiore nel centro, in quello di Reims sono presenti, intagliati agli angoli, angeli di marmo, una figura di vescovo e tre maestri architetti con in mano ciascuno un regolo, una squadra e un compasso con livella. Nel labirinto di Saint Omer i maestri costruttori intagliati agli angoli sono quattro, con in mano gli utensili per la progettazione e la costruzione della chiesa. Al centro c’è la figura del vescovo com-

mittente. Queste figure incise portano a un sicuro collegamento con gli usi e i riti dei costruttori delle grandi cattedrali, i liberi muratori del tempo. Non credo però che la rappresentazione del labirinto nelle cattedrali, né di quello minoico così come è stato idealizzato, sia quella giusta. Un’unica via, pericolosa e faticosa, ma che non pone dubbi a chi la percorre. È la forma prediletta dalla Chiesa trionfante per la quale solo un percorso, seppure difficile, è quello giusto. Al di fuori non c’è possibilità di redenzione e salvezza. Più adatto alla rappresentazione e identificazione della via massonica è il labirinto pluriviario. Un percorso che solleva dubbi, impone scelte a chi si presenta alla sua porta, anche se una sola sarà la scelta giusta per poter fruttuosamente proseguire. Non solo difficoltà nel procedere, ma anche responsabilità nello scegliere. Maggiore impegno e forza nel proseguire, ma anche maggiore lucidità nelle decisioni. Rispetto alla via iniziatica delle cattedrali, questo labirinto aggiunge alla consapevolezza del fratello Libero Muratore, che idealmente si muove nel suo percorso, la coscienza di essere soggetto a errare, di dover recuperare gli errori fatti e di non ripeterli. La coscienza della possibilità di errore accresce in fin dei conti la sua libertà morale, etica e spirituale. Solo chi può sbagliare, ma ha la forza e la coscienza di riconoscere gli errori commessi perché ha toccato il centro del percorso, chi non ha altra guida che il suo essere iniziato, la sua ispirazione, questi può dirsi veramente e completamente libero. Scomparsi i percorsi iniziatici degli antichi santuari, persa la valenza salvifica di quei pochi rimasti nelle chiese, per il fratello Libero Muratore il labirinto è il mondo intero. E lì che deve muoversi e operare. Se in antico il percorrerlo era un’istanza morale, oggi non è più solo quella. Il labirinto mondano impone sì una ricerca di perfezionamento interiore ma a questa si aggiunge l’esigenza di un confronto con le nuove realtà sociali, con le sfide che giornalmente si pongono all’attenzione del fratello, con la necessità di operare in modo etico e sociale nella propria sfera di azione. Faticosamente deve proseguire per la strada che lui ha scelto, senza tuttavia trascurare di raggiungere il centro, la Loggia, dove rigenerarsi in una nuova battaglia con la


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bestia, per essere pronto a riuscirne vittorioso. Il pavimento massonico, nella sua alternanza bianca e nera, può essere pensato come estrema sintesi e astratta rappresentazione di un percorso labirintico, forse l’ultimo veramente iniziatico rimasto. Se il fedele medievale si muoveva su un’unica via segnata, circondato dagli insegnamenti religiosi, il Libero Muratore cammina sul pavimento del Tempio, rappresentazione del mondo, che a ogni passo chiede una scelta e solo un procedere rituale, con l’attenzione e lo studio ai segni presenti nella Loggia, lo rende consapevole del viaggio intrapreso e al tempo stesso fa di lui il massimo simbolo dell’iniziazione massonica. Conclusione È possibile concludere in modo definitivo uno studio sul labirinto? Io non credo. Come scritto all’inizio, l’argomento è troppo vasto e come il labirinto stesso pieno di trabocchetti, temi laterali, assunti che confermano e altri che contra-

stano quanto appena scritto. È vero che è dentro di noi, nella psiche di ognuno dall’alba dei tempi, come è vero che moltissime, una per ogni nato, sono state le strade tentate per esorcizzare la bestia. Da qui la difficoltà a trarne ferme indicazioni, stabili linee guida, perché il rischio rilevante è sempre quello di ritrovarsi in un vicolo cieco. Il mito era patrimonio delle antiche scuole iniziatiche. La Massoneria che ne è diretta erede non poteva trascurare questo aspetto, anzi ne ha fatto principale insegnamento per i Liberi Muratori. La ricerca della perfezione è il cammino nel proprio labirinto interiore, cammino difficile e impegnativo. Ma se fosse facile, che soddisfazione sarebbe? _______________

smus, Schuster Archivieren, Basel Museum der Kulturen. 5 - René Guénon, Simboli Fondamentali della Scienza Sacra. 6 - Paolo Santarcangeli, op. cit. 7 - René Guénon, op. cit. 8 - Paolo Santarcangeli, op. cit. Bibliografia: Marcel Brion, Hoffmannsthal e l’esperienza del labirinto, Cahiers du Sud. René Guénon, Simboli fondamentali della scienza sacra, Milano. Paolo Santarcangeli, Il libro dei labirinti Roland Bechmann, Le radici delle Cattedrali, Milano. Robert Lomas, Il Segreto dei Massoni, Milano.

Note: 1 – Paolo Santarcangeli, Il Libro dei labirinti. 2 – Robert Lomas, Il Segreto dei Massoni. 3 – Paolo Santarcangeli, op. cit. 4 - Carl Schuster (1904 – 1969), Sozial Symboli-

P.72-79: Labirinti; p.76: Minotauro e testa taurina, Museo di Atene; p.76 in alto a destra: Scultura da Pompei; p.77: Bipenne rituale da Cnosso, Creta e, in basso, moneta cretese; p.79: Londra, pavimento di un Tempio massonico la foto a pag. 75 è di Paolo Del Freo.

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5 Storia

Guardiamo la storia universale da Guardia Piemontese Aldo A. Mola 80

giugno 1561. Due Italie. Quel giorno, a Cavour, due passi da Pinerolo, che era in mano ai francesi, come la stessa Torino, Savigliano, e altre piazzeforti del Piemonte, venne fissata la “convenzione” tra il Duca di Savoia, Emanuele Filiberto, e la “chiesa” valdese. Quell’intesa ebbe molti padri. Vi concorsero la moglie del duca, Margherita di Valois, e Filippo di Racconigi, non ostili a Evangelici e Riformati. Non solo. Dal 1548 Francesco I di Francia si era impadronito del Marchesato di Saluzzo e teneva in pugno i valichi alpini più transitabili; oltralpe era in corso la guerra tra cattolici e ugonotti, ancora ad armi pari. Infine, malgrado la vocazione pacifista, i valdesi si difendevano valorosamente contro la repressione armata ordinata dal Duca per compiacere il re di Spagna, Filippo II, e il papa. Prometteva persino di liberare Ginevra dai seguaci di Giovanni Calvino, fautore della Riforma Evangelica, che contava su vasto seguito in Europa, inclusa l’Inghilterra. Dunque Emanuele Filiberto, “Testa di Ferro”, ebbe buoni motivi per “perdonare” ai valdesi “le cose commesse” e lasciarli liberi di professare la loro confessione in luoghi circoscritti, con assoluto divieto di fare proselitismo oltre gli steccati concessi. Tolleranza calcolata: per convenzione, forse, più che per convinzione. Può sembrare poco. Però quel 5 giugno 1561 il Ducato di Savoia risultò un’eccezione, quando in tutt’Europa i sudditi dovevano praticare la religione del loro sovrano, pena la morte o l’esilio. Filippo II di Spagna stava imponendo la “purezza” di sangue e di fede: false conversioni di moriscos (islamici) e marranos (ebrei), essendo impossibile quella etnica dopo sette secoli di dominio “arabo”. In quella stessa Europa i Principi fautori della Riforma di Martin Lutero sterminavano i cattolici mentre papisti e luterani annientarono gli anabattisti. Era un’Europa difficile, come imparò a proprie spese lo spagnolo Michele Serveto, che dopo varie peregrinazioni si rifugiò nella Ginevra di Giovanni Calvino ma vi venne condannato per eresia (negava la Trinità e il battesimo) e fu arso vivo nel 1553. Il 5 giugno 1561 almeno nel Ducato di Savoia la storia voltò pagina. Poco prima del ritorno di Testa di Ferro nei


domini della sua Casa, per effetto della pace di Cateau Cambrésis (1559), Torino visse la tragedia che è ricordata dalla lapide posta dal Comune il 21 ottobre 2000 sul selciato di Piazza Castello, “in memoria del pastore valdese Goffredo Varaglia, impiccato e arso sul rogo il 29 marzo 1558”. Qual era la sua colpa? Originario di Busca (1507?), sacerdote a ventun anni, mandato a predicare ai valdesi, anziché convertirli, ne rimase affascinato. Inquisito a Roma dal 1552, raggiunta Ginevra e nominato predicatore, nel 1557 visitò Busca ma mentre rientrava in Val d’Angrogna, fortilizio valdese, fu catturato a Barge e condannato al rogo. Perdonò al boia che stava per appiccare la pira. Pietoso, l’esecutore lo strozzò, risparmiandogli lo strazio delle fiamme. Andò peggio al dronerese Giacomo Bonello, che nel 1559 andò a predicare ai valdesi di Calabria. Arrestato venne arso vivo a Palermo il 18 febbraio 1560. Fu la sorte del cuneese Gian Luigi Pascale, che ebbe ruolo eminente a Ginevra come teologo ed editore. Fidanzato con Camilla Guarino, sorella di un pastore valdese nativo di Dronero, da Calvino venne mandato a predicare ai valdesi che nel Due-Trecento si erano trasferiti in Calabria per sottrarsi alle persecuzioni tra Provenza e Piemonte, ove imperversò la crociata sterminatrice contro gli albigesi, o càtari (cioè “puri”). Mentre i càtari (o “albigesi”) professavamo la contrapposizione radicale fra Luce e Tenebre, un dualismo assoluto che si risolveva nella rinuncia alla vita, in sé contaminante, i valdesi erano buoni cristiani che negavano il primato del papa, la transustanziazione, la confessione, il purgatorio, le indulgenze, il culto dei santi, il celibato dei preti e volevano una comunità fedele al Vangelo all’insegna della povertà, come altri movimenti dell’epoca, dai patarini agli stessi francescani, indignati per vizi e stravizi del clero (simoniaco, concubinario, colluso col potere). Catturato e processato, il 16 settembre 1560 il cuneese Pascale fu arso a Roma di fronte a Castel Sant’Angelo, previo strangolamento. Le ceneri vennero disperse. Tutti quegli “eretici” vennero condannati da “magistrati” spregevoli, mai chiamati a rendere conto della loro infamia. Luigi Pascale fu inserito tra i cuneesi illustri da Tancredi

Galimberti nel centenario della sua città, ma anziché a lui il comune di Cuneo gli preferì un omonimo innocuo giurista. La tragica sorte di “barba” Pascale fu triste presagio della spaventosa tragedia di San Sisto e di Guardia Piemontese. Come in tutti i domini del re di Spagna, anche in Calabria l’eresia venne combattuta con rigore assoluto. Strateghi della repressione furono il cardinale Antonio Michele Ghislieri, futuro papa Pio V, il domenicano Valerio Malvicino, i Caracciolo e Gesuiti che dettero le prime prove del loro Ordine. Già vessati da durissime misure repressive (per esempio il divieto per 25 anni di matrimoni all’interno della comunità, in modo da creare un vuoto generazionale), nel 1561 i valdesi di Calabria vennero spazzati via. A centinaia furono assassinati a San Sisto e a Guardia. Almeno mille e seicento furono imprigionati. Un centinaio vennero sgozzati come pecore, uno dopo l’altro. I loro cadaveri furono squartati e appesi a pali sulla strada. Bambini e donne vennero venduti come schiavi. Gli altri condannati alle galere. La crociata in Calabria volle cancellare non solo l’“eresia”, ma anche la lingua occitanica (incomprensibile e quindi sospetta) e l’etnia stessa. Fu un genocidio. Se oggi l’Italia e l’Europa sono un po’ più tolleranti, lo si deve alla scelta ragionevole di Emanuele Filiberto di Savoia, ripresa nello Statuto di Carlo Alberto (1848), base dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alle leggi, all’opposto del “metodo” di Filippo II e di “san” Pio V. Mentre giustamente vengono santificati i cattolici che preferirono il supplizio alla conversione forzata all’Islam, è lecito attendersi una parola del vescovo di Roma, Francesco, sugli errori riassunti nella formula “guerre di religione” che per secoli insanguinarono l’Europa. Quel tragico passato aiuta anche a capire le lotte in corso all’interno di una religione nata seicento anni dopo il cristianesimo: essa ancora deve smaltire conflitti arcaici. La strada verso la tolleranza è lunga e impervia. La meta forse è irraggiungibile. Però bisogna almeno provarci. p.80: Torino, Monumento a Emanuele Filiberto di Savoia, detto ‘Testa di Ferro’ (1528-1580); p.81: Stendardo valdese.

l 5 giugno 2013 Guardia Piemontese, su iniziativa congiunta del Comune, della Comunità Europea, della provincia di Cosenza e dell’Assessore alla Cultura della Regione Calabria, Mario Caligiuri, ha celebrato la VI Giornata della Memoria per ricordare l’orrendo massacro dei Valdesi che vi erano migrati quasi tre secoli prima per scampare alle persecuzioni in corso nelle loro terre d’origine: Linguadoca, Provenza, Piemonte…: regioni devastate dalla crociata contro gli Albigesi, proseguita con il metodico annientamento di tutti i sospetti di “eresia”. Ma che cos’è mai l’eresia? Chi detiene l’ortodossia? Chi possiede la Verità? Sono quesiti antichi e attualissimi, perché la pretesa del monopolio del Verbo muta di attori e di vesti ma rimane identica nel tempo. I Valdesi che dall’avito Piemonte raggiunsero il lembo di costa tirrenica, la “costa viola”, una terra paradisiaca, s’illusero di poter vivere in pace con sé e con gli altri: la propria confessione, la lingua, i costumi, le tradizioni domestiche. Liberi. D’improvviso vennero spazzati via. Guardia Piemontese è uno dei luoghi emblematici e simbolici della lunga storia d’Italia: come Triora, ove ancora guizzano le fiamme che vi bruciarono vive le “streghe”, l’Engadina, macchiata dal “sacro macello”, come Campo dei Fiori a Roma, vegliata dalla statua di Giordano Bruno eretta “ove il rogo arse”, come piazza Martiri a Napoli, teatro della decapitazione di Corradino di Svevia e dei “giacobini” del 1799 … La storia è impastata di sangue. Ma ha anche segnato passi avanti sulla via della tolleranza. Va conosciuta tutta, senza appiattimento sul presente per non ripetere gli errori di ieri. La vicenda dei valdesi di Guardia dei Piemontesi è documentata in “La Votz de la Gardia”. Un’ampia panoramica è in Francesco Samà, I segni della storia nei due centri religiosi di Guardia Piemontese (Torino, 2006). 81


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