Storia
Ettore Carafa, Conte di Ruvo L’eroe adombrato Antonella Orefice
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stata certamente avara di riconoscimenti Napoli verso Ettore Carafa. Fatta eccezione per una strada (Fig. 1) intitolata a un vago Conte di Ruvo, non esistono monumenti o lapidi di una certa rilevanza in sua memoria. Come se ciò non bastasse nel palazzo che fu dei Carafa d’Andria al Largo San Marcellino vi è stato ubicato un istituto scolastico intitolato alla regina Elena di Savoia. (Fig. 2) Grande protagonista della Repubblica Napoletana del 1799, Ettore Carafa nacque ad Andria (Puglia) il 29 dicembre del 1767 da Riccardo, Duca di Andria, e Margherita Pignatelli Monteleone (v. nella bibliografia la fede di battesimo). I primi dieci anni di vita li trascorse nel palazzo pugliese appartenuto secoli addietro ai Del Balzo, nobili feudatari andriesi. Secondo i ricordi del Senatore Riccardo Carafa, uno strano caso accompagnò la nascita di Ettore: un marmo del camino nell’appartamento abitato dalla duchessa madre si era spezzato come per incanto, proprio nel momento in cui il bambino veniva alla luce. Questo caso fu creduto il triste presagio di una fine infelice del nascituro. Primogenito di nove figli, il giovane conte di Ruvo ebbe come precettore Franco Laghezza di Trani, un insegnante dalle idee liberali, che prese in seguito una parte molto attiva nella rivoluzione napoletana del 1799. Nonostante gli ambiziosi disegni della madre Margherita Pignatelli di Monteleone, che desiderava vederlo investito da prestigiose cariche presso la corte borbonica, fin da giovane Ettore dimostrò di avere un’indole antimonarchica e del tutto incline alle nuove idee di libertà e uguaglianza che gli sarebbero arrivate dalla Rivoluzione francese. La corte di Napoli aveva ereditato dal Medioevo la superbia, non il valore, né la fede. L’indirizzo politico era tirannico e immorale e all’animo di Ettore, generoso e intollerante, si univa l’educazione del Laghezza che lo rendeva sempre più nemico di quell’ordine di cose. A dieci anni venne a vivere a Napoli nel palazzo Carafa d’Andria al largo S. Marcellino, ove in quegli anni viveva la nonna paterna, Maria Francesca de Guevara. Come ogni nobile del suo tempo, trascorse un decennio presso un collegio allora ubicato nel vicolo dei Bisi, l’attuale
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via Nilo. Ettore non amava la letteratura del mondo classico, ma la storia e fra tutti i libri continuò a essere il suo prediletto per la vita il capolavoro di Plutarco, Le Vite parallele. Cresceva nobile per indole oltre che per discendenza, era contrario alla violenza, tanto che aveva deciso di educare lui stesso il suo cavallo senza l’uso della frusta e in poco tempo non solo riuscì a renderlo docile e a cavalcarlo con dimestichezza, ma a insegnargli finanche a salire le scale del suo palazzo. Trascorso il periodo del collegio, con il maestro Laghezza e in armonia con le usanze dei nobili del tempo, partì per un lungo viaggio che, da culturale, si rivelò presto decisivo per il suo destino. Pur tenendolo nascosto alla famiglia, i cui genitori frequentavano assiduamente la corte borbonica e lo sapevano in giro per l’Italia con Laghezza, Ettore andò in Francia, fermandosi diversi mesi a Parigi, il tempo di vivere e respirare le nuove idee che la rivoluzione aveva generato. Seguiva con passione la lotta di quel popolo che a poco a poco si affermava nei suoi diritti; sentiva allargarsi l’animo lontano dalle grettezze e dalla tirannia che regnavano in Napoli, tanto che quanto ritornò a casa l’indignazione contro la tirannia aveva in lui acquistata l’intensi-
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tà dell’odio. Ma se era riuscito a tener segreta alla famiglia l’esperienza francese, la cosa non era certo sfuggita alla perfida regina Carolina, moglie di Ferdinando IV di Borbone, che aveva spie dappertutto. Ben presto fu da lei indicato come l’Altiero, il Fatale, l’Arrabiato. Siamo negli anni della prima congiura giacobina del 1794 e dei primi martiri 83
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della libertà: Emmanuele De Deo, Tommaso Amato, Vincenzo Galiani, Vincenzo Vitaliani. Nonostante le persecuzioni borboniche contro i sospettati filo-giacobini, Ettore non faceva grande mistero della sua inclinazione alle nuove idee, mosso anche da passione ed esuberanza giovanile; amava farsi vedere vestito alla francese, coi capelli corti, i calzoni lunghi e il panciotto rosso. Rifondò a Napoli la Loggia massonica dei Liberi Muratori con l’amico precettore Franco Laghezza e ne divenne Maestro Venerabile. Gli incontri con i fratelli massoni avvenivano nel suo palazzo al Largo S. Marcellino; si discuteva di politica, di libertà e tirannia, infierendo sui ritratti dei sovrani al suono della Marsigliese. Tra i suoi più intimi amici c’erano i nomi più accesi alla causa rivoluzionaria: Domenico Bisceglia, Mario Pagano e Ignazio Ciaja, oltre ai nobili suoi coetanei Giuliano Colonna, Mario Pignatelli e Gennaro Serra di Cassano, tutti uomini che sarebbero poi stati giustiziati nell’ecatombe del1799, sul patibolo di Piazza Mercato. L’accusa di cospirazione contro i sovrani borbonici non mancò ad arrivare. Nel 1795 il conte di Ruvo venne arrestato e detenuto nella prigione di Castel S. Elmo fino al 1798, anno in cui riuscì a evadere con degli aiuti esterni riportati dagli storici in maniera controversa. Secondo Carlo Botta, uno storico filo-borbonico, il conte fu aiutato da una giovane fanciulla di lui innamorata, per gli storici liberali, invece, fu aiutato da alcune guardie che si erano convertite alle nuove idee; per alcuni egli riuscì a scendere da una torre del castello tra84
mite una corda lunghissima, che gli pervenne nascosta in una chitarra costruita a tal scopo, per altri la corda fu messa per depistare la fuga che era avvenuta, invece, direttamente dalla porta principale, dopo aver corrotto la vigilanza di un custode con la somma di dodicimila ducati procurati dal fratello Carlo. In qualunque modo sia avvenuta la fuga, certo è che il nostro conte di Ruvo la notte del 17 aprile 1798 era tornato libero e da allora la sua vita altro scopo non ebbe se non quello di organizzare delle truppe con l’ausilio dei Francesi e di tornare a Napoli per liberarla dal sovrano tiranno. Sulla sua cattura fu messa una taglia di diecimila ducati e diffuso un dettagliato identikit: statura piuttosto bassa, corporatura delicata, capelli e ciglia castani e ricci, occhi cerulei, viso ingrugnato. Ma a poco servì. Dopo l’istituzione della Repubblica Napoletana proclamata dai patrioti in Castel S. Elmo il 23 gennaio 1799, Ettore tornò a Napoli da uomo libero e ottenne dal Governo Provvisorio l’incarico di recarsi in Puglia a sedare le lotte dei realisti. Furono due le ragioni del Governo: la conoscenza che egli aveva della località, poiché lì possedeva i suoi feudi, Andria, Casteldelmonte, Corato e Ruvo, e la possibilità di far aumentare di numero di legionari in quei luoghi valendosi del prestigio della sua persona. Nel giro di pochi giorni si costituì un esercito in buona parte composto da avanzi dell’esercito borbonico e da giovani di ogni ceto, fra i sedici e i venti anni, alcuni dei quali provenienti da collegi religiosi. Lui li chiamava prevetarielli. Tra i ricordi di famiglia riportati dal Senatore Riccardo Carafa nella sua monografia dedicata all’eroico antenato si narra che giorno Ettore vide presentarsi per l’ammissione all’esercito un giovanotto vestito da seminarista. Che vuoi prevetariello? gli chiese ironico Non mi riconoscete? - rispose il seminarista - Io sono de Siena, figlio di colui che vi ospitò in casa sua quando fuggiste da S. Elmo. Vengo per chiedervi di essere ammesso a far parte della legione che conducete nelle Puglie! - ed Ettore, scherzando - Ma lo sai che in guerra ci vogliono le palle? - E gli uomini per affrontarle! rispose fieramente il giovane. Il giorno dopo smise gli abiti di seminarista per indossare la glo-
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riosa divisa di soldato della Repubblica Napoletana. La legione del Generale Carafa, unita all’esercito francese, annoverò tante vittorie, dalla conquista di Andria fino a quella di Pescara. Ciononostante i controrivoluzionari avevano avuto il tempo di fortificarsi. Nelle province, sotto la spinta del Cardinale Fabrizio Ruffo, accorso in aiuto di Ferdinando IV che con la corte si era rifugiato in Sicilia dal 24 dicembre del 1798, erano state organizzate truppe di mercenari, capeggiati da noti avanzi di galera, tra cui Giuseppe Pronio, che per oltre quattordici anni era stato in carcere con l’accusa di svariati omicidi. Il Pronio aveva riunito e armato quattromila uomini, tra cui molti albanesi, disponendoli intorno Pescara. Sulle mura e sulle alture ci aveva messo cannoni e mortai e aveva chiuso la via del mare con una flotta di barche. Ettore e i suoi patrioti continuavano a resistere valorosamente, asserragliati nella piazza di Pescara. La resistenza durò finché i viveri furono sufficienti a garantire la sopravvivenza ed era ancora viva la speranza di ricevere aiuti da Napoli e da Roma. Ma il feroce Pronio, tra una sortita e l’altra e disparate trattative, gli intimava di arrendersi, facendogli giungere amare notizie da Napoli, ormai totalmente sottomessa alle armi regie. Valoroso e fedele alla causa rivoluzionaria, Ettore mai si arrese e resisté con un pugno di patrioti fino all’ultimo respiro. Assediato e catturato dalla truppe di Pronio, fu tradotto a Napoli in una gabbia di ferro. Il 13 giugno, dopo una estenuante
lotta da Castel Sant’Elmo, i patrioti napoletani si erano arresi alle truppe del Cardinale Fabrizio Ruffo che, appoggiato dai Lazzari, restituiva il regno delle due Sicilie nelle mani del re Borbone. Le capitolazioni promesse dal Ruffo in cambio della resa e negate poi dal monarca provocarono un’ecatombe. Centinaia furono le condanne a morte per forca e mannaia e Napoli vide soffocato nel sangue il primo seme gettato per il Risorgimento italiano. Fu per esso sacrificata la vita della migliore nobiltà napoletana e dei più benemeriti intellettuali che il Sud dell’Italia potesse vantare. Furono i Lazzari a vincere, il Sant’Antonio stampato sugli stendardi borbonici vinse sul San Gennaro detto anch’egli giacobino per aver fatto il miracolo sotto gli occhi del francese Championnet. Era il 19 di agosto quando Ettore, giunto a Napoli, fu rinchiuso nel castello del Carmine, luogo tristemente noto come l’anticamera della morte. Prigioniero eccellente fu sommariamente processato e l’istanza del giudice borbonico de Guidobaldi fu ferocissima. Lo voleva affocato, precedente lo strascino e le tenaglie, indi fatto a pezzi, bruciato e le ceneri sparse al vento. Di poi demolito il suo palazzo e in quel luogo erettavi una colonna per mettervi al di sopra la di lui testa. Quali siano state le torture che Ettore abbia subito in prigione prima di essere decollato senza pompa, ossia senza il privilegio di servitori di famiglia ad assisterlo in quel tragico momento, non vi
sono documenti a testimoniarlo, ma l’ostinazione abbattutasi sulla sua persona lasciano intuire che siano state crudelissime. Oltre alle catene, fu tenuto al muro da un collare di ferro che gli impedì di sdraiarsi e di dormire per oltre quindici giorni. Da lì febbre alta, ferite, allucinazioni, aceto invece che acqua. Ma non aveva paura di morire. È già da tanto che aspettava la morte. All’alba del 4 settembre le strade di Napoli erano percorse da numerose pattuglie di soldati e nella piazza del Mercato si elevava la ghigliottina dipinta di rosso. Dai Registri della Congregazione dei Bianchi (i monaci che avevano il triste compito di confortare e poi accompagnare i condannati a morte fino al patibolo) risulta che il conte di Ruvo sia morto in pace con la sua anima e che prima di essere condotto al patibolo, il 4 di settembre, abbia chiesto di vedere il confessore (quel giorno era preposto il padre Sersale) e che abbia pregato con lui a lungo prima di avviarsi alla morte (Fig. 3 4 - 5). Alle 21 uscì dal castello lacero, con la barba lunga, e fu condotto sul palco allestito nella piazza del Mercato, percorrendo la via del Carmine. Passò davanti alla chiesa dove da lì a poco sarebbe stato sepolto il suo cadavere martoriato. Giunse al patibolo a testa alta, con un sorriso di disprezzo sulle labbra e ancora vestito con la divisa da Generale della Repubblica ormai ridotta a brandelli. Intrepido salì sul palco, ascoltò la sentenza del boia Tommaso Paradiso con 85
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le braccia conserte, fissando il popolo lazzaro accorso a godere del macabro spettacolo. Era gente assetata di sangue, spietati cannibali pronti ad arrostire e mangiare i cadaveri di quei giacobini che avevano tradito il loro amato re. Finita la lettura il carnefice gli si appressò per spogliarlo. Il conte lo respinse con disprezzo. Dirai alla tua regina come seppe morire un Carafa! Furono le ultime sue immortali parole prima di porsi supino e sbendato sotto la lama assassina. (Fig. 6) Poi fissò gli occhi al cielo. Forse in quell’ultimo bagliore di vita intravide i compagni patrioti già trapassati che lo stavano lassù ad attendere. Un colpo secco e in un attimo vi ascese. (Fig.7) Hoc fac et vives (Fa questo e vivrai). Ettore realizzò in pieno il motto dei Carafa. Con la libertà nel cuore sacrificò per essa la vita e visse per sempre. Il cadavere venne seppellito la sera stessa del 4 settembre nei sacelli fangosi della chiesa del Carmine Maggiore, dove tuttora sta marcendo, nell’indifferenza di chi avrebbe il dovere di salvare la memoria storica di quei gloriosi uomini che per la libertà di un popolo ebbero troncata la vita. Con i resti di Ettore, marciscono in quei sacelli colmi di fango Mario Pagano, Domenico Cirillo, Luisa Sanfelice e altri 25 eroi della Repubblica Napoletana del 1799, molti dei quali Fratelli massoni della Loggia dei Liberi Muratori (Fig. 8). Quando furono raccontati al re Ferdinando i particolari della esecuzione del conte di Ruvo egli sorridendo escalmò –
O’ duchino a fatto o’ guappo fino all’ultemo! - Il fratello di Ettore, Carlo (Andria 1774 – Napoli 1856), riuscì a scappare in Francia mentre un altro fratello, Francesco (Andria 1772 - Portici 1844), che aveva militato nella Guardia Nazionale contro le bande del cardinale Ruffo, fu fatto prigioniero. I Lazzari avevano progettato di bruciarlo vivo, ma il Ruffo riuscì a impedirlo. Dal 1799 ereditò da Ettore il titolo di 17°Conte di Ruvo 14° Duca di Andria. Si sposò nel 1803 con Teresa Caracciolo, figlia del principe di Santobuono, ed ebbe 5 figli. A due di essi, offendendo la memoria e il sacrificio del fratello, pur di dimostrare la sua fedeltà ai Borbone, diede il nome di Ferdinando e Carolina. A distanza di due secoli e più dalla sua morte non conosciamo il vero volto di Ettore. Di lui esistono almeno tre ritratti profondamente diversi tra loro: due certo postumi e un altro pubblicato nel 2006 e di proprietà dell’attuale duca Riccardo Carafa d’Andria. Nel primo (Fig. 9), comparso nell’opera di Atto Vannucci, I martiri della libertà italiana, Livorno 1849, più che un conte, il nostro Ettore è stato raffigurato come un brigante e non esistono descrizioni fisiche documentate compatibili con l’immagine proposta. A meno che non si tratti di un fatale errore del Vannucci, il ritratto non presenta alcuna attendibilità. Nell’altro ritratto, invece (Fig.10), di provenienza e autore sconosciuti, Ettore è in divisa da Generale della Repubblica Napoletana, occhi turchini, capelli castano chiari, cicatri-
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ci su fronte e sopracciglio, aria spavalda, fascino da avventuriero. Si tratta di una raffigurazione molto vicina al personaggio dell’identikit divulgato dai Borboni nel 1798. Questa immagine è da ritenersi la più attendibile. Un clamoroso falso storico è invece da considerarsi un ritratto pubblicato di recente da una fotoreporter pugliese e che campeggia in numerosi siti internet, oltre che sulla copertina di una corposa biografia dai dati storici lungamente discutibili. Si tratta di un falso storico comprovato: in occasione delle celebrazioni per il 150 anni dell’Unità d’Italia, il Comune di Napoli, in collaborazione con la “Società Napoletana di Storia Patria” e la “Fondazione Biblioteca Benedetto Croce”, ha ristampato una riproduzione anastatica dell’edizione originale, quasi introvabile, del catalogo di una mostra storica curata da Salvatore Di Giacomo, che nel 1911 fu allestita nelle sale municipali della Galleria Umberto. (Fig. 11) Lo scopo della mostra fu quello di riunire in occasione dei cinquant’anni dell’Unità d’Italia ritratti, documenti e oggetti appartenuti ai protagonisti del Risorgimento italiano dal 1799 fino al 1861. A tal proposito Salvatore Di Giacomo si prese l’onere di acquistare a sue spese larga parte del materiale. Altri oggetti provennero, invece, da archivi e collezioni private. Ed è proprio dalla collezione privata dei Carafa D’Andria che proviene quel ritratto, riproposto nel 2008 dalla fotoreporter pugliese con la velleità d’essere inedito e attribuito ad Ettore Carafa.
(Fig. 12) Probabilmente chi ha divulgato questo falso storico non sapeva che quello stesso ritratto era stato presentato alla mostra del 1911 nella sua vera identità, ossia per il ritratto di Riccardo Carafa D’Andria, il padre del nostro patriota del 1799, rifondatore e Maestro Venerabile della Loggia dei Liberi Muratori. ______________ Bibliografia: A.Orefice, La Penna e La Spada, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli, 2009 R. Carafa d’Andria, Ettore Carafa Conte di Ruvo, Roma, 1886 N. Nicolini, Ettore Carafa Conte di Ruvo prima del 1799, Bologna, 1936 T.Pedio, La congiura giacobina del 1794 nel Regno di Napoli, Bari, 1976 G. Ceci., Ettore Carafa: con una cronaca e vari documenti, Trani, 1889 C. Botta, Storia d’Italia dal 1789 al 1814, Torino, 1834 M.D’Ayala, Vita degli italiani benemeriti della libertà, Roma, 1883 R. Sgarra, Omaggio ad Ettore Carafa martire andriese per la libertà, Andria, 1899 B. Croce, La rivoluzione Napoletana del 1799, Napoli, 1999 B.Maresca, Ettore Carafa, Conte di Ruvo, Relazione del suo cameriere Raffaele Finoia, Napoli,1885 A.Vannucci, I Martiri della libertà italiana, Livorno, 1849 Fondi archivistici: Archivio Storico Napoletano, anno V. Carteggio di M. Carolina col Ruffo Archivio Storico Diocesano di Napoli, Registri della Congregazione dei Bianchi della Giustizia, Scrivano Minutolo 1799/1800 vol. 241, pagg. 34 e segg.
Archivio di Stato di Napoli, Registro Fedi di Battesimo, Sedile del Nido, Vol. IV Fede di Battesimo di Ettore Carafa: Nos infrascriptus Archidiaconus et Archivarius Cathedralis unicaeque Parochialis Ecclesiae Civitatis Andriae testamur qualiter perquisitis Baptizatorum Libris qui penes nos osservantur in Archivio Parochiali dictae Ecclesiae in Libro anni millesimi septingentesimi sexagesimi septimi fol. 109 sequentem adnotationem inuenimus. Die vigesima nona mensis Decembris anni 1767 nos Franciscus Ferrante Patritius Rhaeginus Dei et Sanctae Apostolicae sedis gratia Episcopus Andriensis baptizavimus infantem nunc natum ex Exellentissimis Dominis D. Richardo Carafa et D.Margarita Pignatelli Duca et Ducissa huius Andriae Civitatis legitimis coniugibus cui imposita fuere nomina Ector Maria Franciscus de Paula Richardus Fabritius Gaspar Melchior Balthasar Gertrudus Camillus Vincentius Angelus Andreas Aloysius Thomas Dionjsius Raymondus: eumque de sacro fonte susceperunt admodum Reverendus Pater Frater Seraphinus a Barulo ex Provincialis Ordinis Minorum Cappuccinorum Sancti Francisci et Excellentissima Domina D.Constantia Medici Ducissa Montis Leonis. Et in fidem facimus presentem licet aliena manu a suo originali extractam nostro tamen charactere subscriptam ex soliti sigilli dictae Ecclesiae impressione munitam, dedimus Andriae ex Sacrario dictae Ecclesiae die Mense Februarii 1778. (adest sigillum) Michael Archidiaconus marchio Archivarus
P.82: Elsa di sciabola, XVIII sec.; p.83-87: Vd. testo articolo; p.87: Ghigliottina.
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Diario di bordo: Washington massonica Lidia Parentelli
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el maggio del 2013 di quest’anno, a 26 anni di distanza da una prima visita alla capitale degli USA e quasi in occasione di un nostro importante anniversario di matrimonio, ho accompagnato il mio consorte e fratello Roberto a un congresso di 5 giorni a Washington tenuto al National Press Club (il Circolo Nazionale della Stampa) in un contesto già di per sé incutente autorevolezza e solennità. Dopo la conclusione dei lavori abbiamo dunque fatto i turisti visitando un po’ il centro e c’è venuta la curiosità di seguire il percorso insolito della Washington massonica. Usando una guida sull’argomento comprata in Italia, Washington massonica di James Wasserman, ed. Gaffi (G.Trip), Roma 2011, siamo andati alla ricerca, mappa alla mano, di luoghi ed edifici ivi indicati come fra i più significativi. J.Wasserman definisce giustamente come “nascosto in piena luce” il simbolismo esoterico e occulto del sacro spazio di Washington, in quanto effettivamente presente in tanti punti della città, e visibile a tutti, ma ovviamente del tutto comprensibile solo da chi ne ha consapevolezza. Ovunque a Washington un Libero Muratore, usando righello, goniometro e compasso applicati alla mappa della città, potrebbe disegnarvi sopra pentagrammi, esagrammi, triangoli, croci, quadrati e cerchi; tutta una geometria sacra, che si individua facilmente e camminando per le strade. Seguendo un percorso preciso si entra così in un mondo popolato di archetipi di pietra, sculture, monumenti, statue, palazzi e iscrizioni che permettono di compiere un vero e proprio pellegrinaggio massonico. Noi abbiamo provato a farlo e vorrei darvene conto allo scopo di essere utile a chi, avendo la possibilità di andare a Washington, desiderasse compiere lo stesso percorso e perché ritengo comunque interessante per tutti i Fratelli e Sorelle conoscere quale ruolo importante ha avuto la Massoneria in questa città, sia dal punto di vista storico che architettonico. Varie sono in Europa e nei paesi extraeuropei le località con connotazioni massoniche evidenti e significative, ma certo Washington è la città massonica per eccellenza perchè è stata progettata nella sua parte centrale secondo intenti e
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modalità precise da architetti che volevano fare della capitale degli U.S.A. la città massonica ideale, che doveva esteriorizzare i principi della Costituzione del nuovo stato, ampiamente ispirati ai valori illuministici e massonici. Noi sappiamo l’importanza e l’influenza 90
che la Massoneria ebbe nella storia della formazione degli Stati Uniti, che vennero costituiti dopo la Guerra di Indipendenza contro l’Inghilterra. L’Inghilterra era contraria all’autonomia delle Colonie Americane e imponeva loro tasse pesanti sulle merci; l’ultima
iniqua imposizione sul tè (cui seguì l’affondamento di un carico di tale spezia) fu la miccia per lo scoppio della rivolta, la dichiarazione di indipendenza il 4 luglio 1776 e l’inizio della guerra. Questa non fu solo una lotta per l’autonomia, ma accese molti spiriti animati dagli ideali illuministi e massonici che si erano diffusi anche in America. La Massoneria in America era nata nel 1730, come filiazione diretta della Gran Loggia di Londra e si era diffusa fra i coloni inglesi. Un numero rilevante di importanti leader massonici sosteneva la causa della rivoluzione: la posizione patriottica era sostenuta dalla maggioranza dei cosiddetti “Antichi” che erano i Massoni che avevano preso il nome dalla Loggia chiamata “Antica”, sorta nel 1757 e derivata dal movimento che già dal 1740 era nato da confratelli irlandesi che avevano rifiutato l’autorità della Gran Loggia di Londra. Il movimento “Antico” era più democratico, cercò di colmare le differenze di classe che privilegiavano nelle logge una élite di estrazione altolocata a favore di una produttiva borghesia ed era favorevole all’indipendenza; la Massoneria “Antica” fu strumentale alla rivoluzione e alle trasformazioni nella società post-
rivoluzionaria, mentre i “Moderni” rimasero fedeli alla Gran Loggia d’Inghilterra e furono tendenzialmente lealisti. I rivoluzionari massoni volevano anche promulgare per il nuovo Stato una Costituzione che rispondesse ai principi esposti nella Dichiarazione di Indipendenza del 1776 a Philadelphia (non a caso etimologicamente “Città della Fratellanza”). La Dichiarazione rispecchiava infatti fedelmente il pensiero degli Illuministi, degli Enciclopedisti e dei Massoni europei. La rivoluzione e le idee americane riscossero grande consenso in Europa e specie in Francia, che aiutò gli Americani nella guerra contro l’Inghilterra. Molto merito in questa opera di convinzione ebbe Benjamin Franklin, che nelle capitali europee sostenne efficacemente la rivoluzione con conferenze che fruttarono molte adesioni sotto forma sia di denaro che di uomini, i quali andarono a combattere come volontari. Fra questi vi fu il marchese Lafayette che operò nel quartiere generale di Washington, combattendo insieme a lui. Nel nostro percorso massonico abbiamo attraversato la piazza dedicata al nobile eroe francese, che è posta proprio dietro
la Casa Bianca, il Lafayette Park. In Pennsylvania Avenue, invece, si trova la statua di B. Franklin davanti all’antico Palazzo della Posta, in quanto egli ebbe il primo incarico di Direttore Generale del Servizio Postale nel 1775, su nomina del Congresso Continentale. I Massoni avevano costituito una forte presenza nell’esercito e all’interno delle forze armate, ma furono anche molto attivi nell’amministrazione di vari stati, a cominciare dalla Virginia nel 1778, in quanto dopo le tensioni prima e la rottura poi con l’Inghilterra le logge americane avevano aumentato il loro impegno. La Confraternita crebbe ancora di più dopo la rivoluzione e “molti americani vedevano la Massoneria come un archetipo della società repubblicana basata sulla virtù e sul talento che stavano cercando di costruire”. Ecco il perché del successo della Massoneria che nel corso della storia ha portato ben 14 Presidenti al Congresso: G. Washington, J. Monroe, A. Jakson, J.K. Polk, J. Buchanan, A. Jonson, J. Garfield, W. McKinley, Theodore Roosevelt, W. Howard Taft, W. Harding, F. Delano Roosevelt, H. Truman, Gerald Ford. Steven Bullok riporta anche l’informa-
zione che 9 dei 56 firmatari della Dichiarazione di Indipendenza, 13 dei 39 firmatari della Costituzione, 33 dei 74 Generali dell’Esercito Continentale erano Massoni. Bullok riporta poi i nomi di tutti i Governatori e di altri membri dell’Amministrazione dal 1804 in avanti che era-
Massoneria no anch’essi dei Fratelli. Il primo Presidente fu George Washington, che era stato il comandante supremo delle forze armate e aveva portato i rivoluzionari americani alla vittoria. Nel 1787, elaborata la Costituzione, venne eletto dal Congresso, dopo che nel 1783 nel Trattato di pace di Versailles era stata riconosciuta l’indipendenza e la nascita degli Stati Uniti. Dopo avere organizzato il nuovo stato si doveva decidere per la capitale. In un primo momento avevano pensato a una Capitale itinerante da Philadelphia a Baltimora e a Lancaster, ma poi venne scelta la località dove sorgerà Washington, per creare una città ex novo, perché la Capitale doveva essere una chiara testimonianza degli ideali che avevano motivato i Padri Fondatori e perché i progettisti, fra cui molti era-
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no Massoni o comunque simpatizzanti, volevano esprimere i valori di libertà, fratellanza e uguaglianza, edificando un luogo-simbolo. Fu Washington stesso, che condivideva questi valori, a voler attuare questo progetto e a chiamare gli architetti che dovevano realizzarlo. G. Washington era infatti un Fratello massone: fu iniziato in Virginia nella Loggia “Frederickburg” nel 1752, poi nel 1778 era diventato Maestro Venerabile della Loggia “Alexandria” nel distretto di Columbia (la Bibbia sulla quale hanno poi giurato tutti i Presidenti all’atto di assumere la carica è proprio quella della Loggia “Alexandria”). Il distretto di Columbia (dove si trova Washington) fu così definito nel 1791; nel 1787 era stato donato dagli Stati del Maryland e della Virginia ed era un terreno assai paludoso posto alla confluenza di due rami del Potomac (che formano una Y, ricordando per l’appunto il triangolo massonico), dove già esistevano il porticciolo fluviale di George Town su un lato e la città di Alexandria sull’altro. Questo territorio (un tempo abitato dai nativi americani Algonchi92
ni) era in una posizione abbastanza centralizzata per potere essere il cuore della nuova Repubblica. Il Distretto era una area quadrata di 10 miglia quadrate con i vertici orientati secondo i quattro punti cardinali e lì fu progettata la città. A. Ellicott e B. Banneker fecero i rilievi topografici e i calcoli per ottenere un quadrato perfetto, con 40 cippi di confine: la prima pietra del Distretto Federale fu posata il 15 aprile 1791 a Jones Point dalla 22° Loggia “Alexandria” di cui Washington era stato M.V.. Poiché nell’ambito massonico il quadrato fa riferimento all’integrità morale, la geometria della capitale voleva rappresentare l’integrità e l’impegno dell’America a rispettare i valori professati. L’architetto Pierre Charles L’Enfant fu scelto come principale progettista, assistito da Washington stesso e poi anche da Jefferson. L’architetto L’Enfant aveva pianificato un percorso che doveva mettere in connessione la Casa Bianca e il palazzo del Congresso, cioè il Campidoglio, tramite l’arteria chiamata Pennsylvania Avenue, andando quindi da Est a Ovest; ma il
progetto subì modifiche e furono costruiti altri edifici statali che complicarono la pianificazione e fra i due edifici rimase a lungo un terreno paludoso non definito. Ci vollero anni per una definizione adeguata. A fine Ottocento si cercò un recupero dell’impostazione originaria e fu bonificata l’area intermedia e solo nel 1902 si ebbe un progetto della Commissione Mac Millan che definì l’area del cosiddetto Mall, una fascia di terreno a verde lunga 1 miglio e larga 300 piedi, bordata di olmi, dalla Casa Bianca fino al Lincoln Memorial (lungo l’asse est-ovest), attraversata da un’altra area dal Campidoglio al Jefferson Memorial (lungo l’asse nord-sud). All’incrocio delle due aree doveva esservi la stele dedicata a Washington. Alcuni guardando questa progettazione vi hanno visto la possibilità di sovrapporvi squadra e compasso, ma ciò non è poi del tutto stato realizzato come previsto per problemi tecnici. Il Mall, nel suo insieme, è il centro simbolico della città e il Campidoglio è considerato il punto centrale, perché a partire da lì la città è divisa in 4 sezioni (NW, NE, SW, SE). In realtà il centro topografico del quadrato della pianta della città è la Casa Bianca e il monumento a Washington, la stele o obelisco, doveva essere all’inizio posta al centro dei 2 assi. Esso fu cominciato solo nel 1848, poiché ebbe problemi di stabilità a causa del terreno paludoso instabile. E fu spostato di 370 piedi a est e 123 piedi a sud. La Casa Bianca è sull’asse della 16° strada e si chiamava inizialmente Casa del Presidente. Fu costruita su progetto dell’architetto massone James Hoban. Il 13 ottobre 1792 si svolse la cerimonia della posa della prima pietra officiata dal M.V. della Loggia n. 9 del Maryland Peter Ca-
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sanave. Dopo vi fu una grande agape alla locanda “Fountain Inn” di George Town. Il primo ad abitarvi fu il Presidente John Adams. Fu bruciata nel 1814 dalle truppe britanniche, ricostruita e dipinta di bianco per ricoprire le bruciature e per questo fu chiamata Casa Bianca. Nel 1948 il Presidente (massone) Truman fece ricercare la 1° pietra, che non fu trovata, ma si rinvennero altri segni massonici. L’edificio è di tipo neoclassico, ma piuttosto semplice per il ruolo che riveste.
Casa Bianca e Monumento di Washington non sono allineati come previsto, ma a indicare il preciso allineamento degli assi est-ovest / nord-sud. Nei pressi si trova la Jefferson pier stone posta nel1804. Davanti alla Casa Bianca c’è l’Elisse, una zona verde ellittica con fontana che commemora le forze armate americane. Di lato sulla 15° str. si erge il monumentale palazzo del Tesoro fatto costruire dal Presidente Andrew Jackson. Davanti si trova la statua di Alexander Hamilton,
anche lui massone, primo Segretario al Tesoro e Legislatore del Federal Paper. Dietro la Casa Bianca c’è Lafayette Park, che ricorda il marchese francese che venne in aiuto dei rivoluzionari combattendo al loro fianco in nome degli ideali comuni. Insieme a lui sono rappresentati ai quattro angoli della piazza altri tre eroi stranieri che prestarono il loro servizio come generali durante la rivoluzione: F.W. von Steuben, Tadeus Kosciuszko e J.B. de Ro93
Massoneria
chambeau, mentre al centro c’è la statua del Presidente A. Jackson. Alla base una figura femminile stringe due bandiere, che rappresentano l’alleanza francoamericana. Sempre proseguendo per la 16° str. a vari isolati più a nord si trova la cosiddetta House of the Temple, imponente quartier generale supremo della Giurisdizione massonica del Sud degli Stati Uniti e ora museo del Rito Scozzese Antico e Accettato, di cui tratteremo in un successivo articolo. L’edificio è stato progettato da J. Russel Pop e si ispira palesemente al Mausoleo di Alicarnasso, una delle sette meraviglie del mondo antico. Si tratta di un vero gioiello architettonico totalmente ricolmo all’interno di simbologia e di mistica massonica, visitabile su appuntamento. Tornando all’Elisse e proseguendo ci si trova davanti al Washington Monument: si tratta di un enorme obelisco in marmo alto 169 metri, su progetto di Robert Mill, che secondo il piano iniziale doveva essere il fulcro di tutta l’area 94
identificata come un tempio massonico a cielo aperto. Girando a sinistra al termine del Mall si apre l’edificio più importante: il Campidoglio. Iniziato nel 1793 ebbe varie modifiche e ampliamenti nell’800. Del 1855 è la cupola fatta edificare dall’architetto massone T.U. Walter, che poi fu in parte modificata nel 1863. In quell’anno vi fu posta sopra la statua della Libertà, opera del fratello Thomas Crawford, che era stata modellata in gesso a Roma e trasferita negli U.S.A. per la fusione in bronzo. Davanti alla facciata ci sono la Reflecting Pool e la statua del Presidente Garfield che incarnò i principi massonici di civismo e dedizione. Sul basamento figure simboliche chiare: un guerriero che tiene la spada all’ordine, un legislatore e un discepolo. Sull’altro lato del piazzale vi è il monumento alla Pace: una Vittoria con una corona di pace, Marte e Nettuno infanti con in mezzo una conchiglia e una donna in lacrime che assomiglia all’immagine massonica della Vergine dolente che
piange per la morte del maestro Hiram Abif. Sopra l’ingresso del Senato, sempre scolpite da T. Crawford nel 1860, si trovano altre due statue significative: la Giustizia (che ha in una mano un libro intitolato Giustizia, Legge e Ordine e nell’altra la Bilancia) e la Storia (con un rotolo che riporta le parole History e July 1776, cioè l’anno dell’Indipendenza). All’interno della cupola, sul soffitto, un affresco mostra l’ascesa al Paradiso di Washington (per gli Americani diventato un mito) in mezzo alla Libertà, alla Vittoria, alle 13 colonie e ad altre figure archetipe e mitologiche: Columbia, Minerva, Nettuno, Mercurio, Vulcano e Cerere. Queste sono le rappresentazioni più note e importanti, ma in tutto il Campidoglio vi sono statue e affreschi con figure che dimostrano la voluta impostazione esoterica del monumento. Quando il 18 settembre 1793 fu posata la prima pietra fu fatta una solenne cerimonia massonica di consacrazione; Wa-
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shington in persona con tutti i paramenti del grado allineò con squadra, livella e filo a piombo il blocco di circa 1 metro, poi fece l’offerta rituale di grano, vino e olio (salute, pace, abbondanza); parteciparono quattro Logge al rito, accompagnato da armonie musicali e alla fine da salve di artiglieria. Una grossa targa di argento con un’incisione per ricordo fu inserita nelle fondamenta. I giornali riportarono l’avvenimento con grande rilievo. Accanto al Campidoglio vi è un altro importante edificio: la Biblioteca del Congresso, tempio americano dell’IIluminismo. Qui particolarmente interessanti
sono i 3 portoni principali dell’ingresso ovest: il portone destro è dedicato alla Scrittura; c’è una figura con lo specchio della Riflessione in una mano e nell’altra il serpente della Saggezza, un’altra figura regge la torcia dell’Illuminazione e la pianta della Creatività. Il portone di sinistra rappresenta la Tradizione e l’altro la Scienza. Nella Great Hall sul pavimento si trova un grande Zodiaco e l’interno ha ancora immagini simboliche classiche. Dal Campidoglio parte la Pennsylvania Avenue con tutti gli edifici del Governo e gli Archivi Nazionali, il cosiddetto Triangolo Federale (c’è anche l’F.B.I.!).
Tutte sono costruzioni imponenti in stile neoclassico, come tutta l’architettura di Washington. Si ispirano al mondo grecoromano-egizio-mesopotamico-ebraico sia nella struttura, sia nelle decorazioni e nella statuaria, il tutto con figurazioni mitologico-simboliche che vogliono essere celebrative sia dei valori tradizionali che di quelli nazionali americani. Monumentale, con frontoni e statue, è il palazzo della Commissione Federale per il Commercio e assai particolare è il palazzo allungato, quasi un castello, detto della “Antica Posta”, che ha davanti la Statua di B. Franklin. Egli era stato iniziato nella Loggia “Saint John” di Phila95
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delphia nel 1731, fino a diventare Gran Maestro della Pennsylvania. E nel 1734 aveva fatto pubblicare la 1° edizione americana delle Costituzioni di Anderson. La “National Gallery of Art” fu fondata dal massone e finanziere Andrew W. Mellon, che fece costruire l’edificio suddetto con davanti una fontana con uno Zodiaco su bassorilievi. In esso il sole dell’equinozio di primavera dovrebbe illuminare la costellazione dell’Ariete. Risalendo da qui lateralmente si arriva al Municipal Center (vicino alla Corte di Giustizia); a fianco della scalinata stanno due bassorilievi interessanti: uno rappresenta la Vita Urbana con Mercurio, Esculapio e Maia e l’altro Columbia che versa l’acqua in un bacile e tiene in mano una lampada ed è denominato: Luce, Acqua e Transito. Da qui si arriva alla Judiciary Square al cui angolo è stata posta la statua dedicata ad Albert Pike, forse il più noto Massone moderno d’America. Il generale Pike (1809-1891) fu infatti Sovrano Gran Commendatore del Supremo Consiglio del Rito Scozzese Antico e Accettato della Giurisdizione Sud degli U.S.A. 96
e uno dei più importanti studiosi e rappresentanti della Massoneria Americana; è rappresentato con in mano il testo più noto che aveva scritto, intitolato Morals and Dogma. Sotto la statua vi è una dea che tiene lo stendardo del Rito Scozzese, che mostra l’aquila a due teste risalente all’antica città sumerica di Lagash. La dea tiene una spada da cui pende un cartiglio con il motto “Deus meumque jus” (Dio e il mio diritto) e sopra vi è una corona prussiana. La realizzazione della statua è stata finanziata dal Supremo Consiglio del Rito. Tornando nella Pennsylvania Avenue e prendendo la Louisiana Avenue, in fondo si arriva alla Union Station, la monumentale stazione ferroviaria al centro della piazza dove è anche collocata la Columbus Memorial Fountain dedicata alla celebrazione di Cristoforo Colombo. L’edificio, commissionato all’architetto Daniel Burnharn, con all’interno grandi padiglioni in stile liberty, ha una lunga facciata a tre corpi con aperture ad archi, secondo modelli classici. Il corpo centrale più avanzato e alto presenta sei enormi statue scolpite dal maestro Louis
St. Gaudens. Rappresentano: Prometeo con il fuoco, Talete con una saetta, Temi con l’ulivo e la spada, Apollo con un libro, Cerere con il grano e Archimede. Quest’ultimo è mostrato con un grande mazzuolo e un compasso in mano, come l’immagine classica del massone operativo medievale. Sulla facciata anche tre grandi aquile bicefale simbolo dell’America. Per andare al famoso Lincoln Memorial bisogna a questo punto tornare alla Constitution Avenue che fiancheggia il Mall. In fondo al grande parco verde si affaccia l’edificio a forma di tempio greco circondato da 36 colonne (come il numero degli Stati Uniti in quel periodo) posto al di sopra di una ampia scalinata. Nell’atrio troneggia la statua di Lincoln alta 6 metri; ai lati stanno pannelli con inciso il discorso del suo insediamento alla presidenza nel 1865. Anche al presidente F. Delano Roosevelt è dedicato un Memorial in Ohio Drive, non lontano dal Mall. Fiancheggiando la Reflecting Pool (un lungo bacino d’acqua davanti al Lincoln Memorial) fino al Memorial della 2° Guerra Mondiale e poi costeggiando
il bacino fluviale Tidal (un laghetto collegato al Potomac) si giunge al Thomas Jefferson Memorial progettato da J. Russell Pope ma inaugurato molti anni dopo (nel 1943). Ha la forma tipica di una rotonda palladiana e nell’atrio è posta la statua in bronzo del massone Thomas Jefferson, che fu il terzo Presidente degli Stati Uniti e l’autore principale della Dichiarazione di Indipendenza del 1776. A questo punto il lungo viaggio massonico è stato percorso nei suoi punti fondamentali, ma ci sono ancora luoghi meno noti che presentano aspetti interessanti. Uno si trova in Freedom Plaza: inserite nel marciapiede ci sono le riproduzioni dello stemma degli Stati Uniti, decisamente di ispirazione massonica, con il motto “E pluribus unum” su progetto di Jefferson, Franklin e Adams. Nel 1935 il vicepresidente (massone) H. Wallace propose (e il presidente Franklin Roosevelt fu d’accordo) di mettere questo simbolo nella banconota da 1 dollaro. Girando poi per la città abbiamo individuato altri edifici che furono in passato templi massonici. Uno si trova in New York Avenue e adesso ospita il Museo delle Arti Femminili, il “National Museum of Womwn in the Arts”. E’ riconoscibile anche dall’esterno perché gli architravi delle finestre portano tutte un bassorilievo con squadra e compasso e il motivo si ripete anche sui cornicioni del palazzo. Un altro tempio si trovava sempre in centro nella 901 F Street: iniziato nel 1868, aveva le officine al piano terreno e ai pieni superiori le stanze per le riunioni e ora, dopo essere rimasto inagibile per oltre 20 anni, ospita un centro commerciale in quello che è indicato come il Gallup Building. Questo lungo percorso massonico a Washington mi ha colpito moltissimo: non credevo infatti che i luoghi e le opere simboliche connesse all’Obbedienza fossero così numerose e palesi; in pratica tutta la città nella sua parte artistica ha una netta ispirazione massonica o comunque esoterica e si potrebbe definirla come caratterizzata da un’architettura di carattere sacrale. Lo scrittore Jeffrey Meyer afferma che c’è un messaggio implicito nella maggior parte degli edifici, dei monumenti e di tutta l’iconografia di Washington ed è la convinzione, espressa chiaramente dai Padri fondatori anche nella Costituzione, che
Massoneria
l’Onnipotente abbia sostenuto l’esperimento della nascita dell’America, cosicché più questi si uniformavano a un ordine naturale dell’Universo e alla volontà di Dio e più aumentava la loro capacità di creare una nazione libera. Si viene pertanto a delineare una religiosità fortemente nazionale di tipo deistico la quale alimenta un’ottimistica fiducia nell’uomo, che se integro e retto lo porterà sempre a trionfare sulle avversità e sul male, per cui chi governa deve dunque essere in armonia con le forze invisibili e profonde che sostengono l’Universo e deve essere così pure l’esecutore di questo disegno divino, garantendo i diritti naturali di tutti. Questo tipo di pensiero è in buona parte retto e in linea con la filosofia massonica, ma a mio parere col tempo ha anche
finito col portare gli Stati Uniti a sopravalutarsi a causa della propria pretesa superiorità morale e ha così condotto a forme di vera e propria devianza anche nel settore esoterico, prendendo strade ben lontane dalla corretta Tradizione, con la graduale creazione di organismi paramassonici a fini consociativistici dall’approccio sempre più profano e di potere e lungi dagli effettivi ideali della Libera Muratoria. P.88: Effigie di George Washington nel The G.W.Masonic National Memorial, Alexandria, Virginia, periferia di Washington D.C.; p.89: Washington D.C., The Washington Monument obelisco di 170 m eretto sul National Mall; 90-91: Washington D.C. - Esterni e interni della ‘House of the Temple’; p.9293: Washington D.C., Lincoln Memorial e fotografia d’epoca di Abraham Lincoln (1809–1865); p.94-95: Washington D.C., United States Capitol e dettaglio degli affreschi della cupola; p.96-97: Washington D.C., Thomas Jefferson Memorial e dettaglio della scultura interna; (foto pag. 88 e 95 Paolo Del Freo).
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I Misteri di Eleusi Il kikeon estratto dalla Claviceps purpurea Paolo Aldo Rossi
parte II
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fa parte … ma il ciceone non può essere banalizzato: o funziona o no! O è una bevanda semplicemente dissetante o è una potente sostanza psicotropa! L’acqua e la menta non hanno effetti allicinogeni, ma l’orzo infestato dalla Claviceps porpurea (una ascomiceta, fra una cinquantina circa, parassita delle graminacee) presenta proprietà psicoattive molto simili a quelle del LSD. E se fosse un composto “farmaceutico” con alla base uno psicofarmaco? E come doveva venire preparato per essere sedativo e narcotico? “Anche il ciceone si disgrega se [non] è agitato”2. Quali sono le reazioni degli iniziati all’ingestione di questo stupefacente? Vi sono vari tipi di
B) Quelle presenti naturalmente nei semi di talune varietà della comune pianta di Ipomoea messicana (ololiuiqui) o Convulvacee dell’Ipomoea: la Rivea Corymbosa, l’Ipomoea Violacea, la Stictocardia e l’Argyreia nervosa. I semi di queste piante contengono i vari alcaloidi della Claviceps,
ammidi dell’acido lisergico che provocano stati alterati di coscienza. A) I tipi semisintetico LSD 25 e l’ergonovina, partendo dall’acido lisegico naturale, vennero messi a punto per la prima volta nel 1937 da Stoll, un alcaloide idrosolubile propanolamede dell’acido lirsergico, la ergobasina, e il dietelamide dell’acido lirsergico le cui proprietà psicoattive furono poi scoperte nel 1943 da A. Hoffman. Va detto che nel 1920 Stoll estrasse dalla Segale cornuta ergotamina, mentre l’ergotossina fu poi cristallizzata da Smith e Timmis nel 1931.
appartenti alla famiglia delle fanerogame. C) Quello più antico, ma di cui s’erano perdute le tracce, solubile in acqua e molto attivo: l’ergonovina (accettato dalla Commissione Internazionale di Farmacopeia), mentre in Europa è stato fissato il nome di ergometrina (o ergobasina, ergotocina, ergostetrina). È il ciceone dei misteri di Eleusi e la Secalis luxurians di cui parlano i medici delle streghe. Dato che le fonti naturali furono conosciute solo più tardi, iniziamo questa storia dagli appunti di laboratorio di Albert Hofmann. «Mentre stavo facendo ricristallizzare il tartrato della dietilammide dell’acido d-lisergico, che avevo ottenuto dall’acido lisergico natu-
Mysterium e anche le “belle di giorno” (graziosissime campanule americane) comprendono come l’agente infestante delle gramianacce (cioè lo sclerozio in funzione di zolla germinante per i corpi fruttiferi) tutti gli alcaloidi di una pianta di tipo superiore
Che la morte non solo non è un male, anzi è un bene... Inscriptiones Grecæ II/III 3661, 6
S
appiamo che gli iniziati al più noto “mistero” dell’antichità (da mùo = taccio) quello su cui si deve mantenere il segreto (pena l’esecuzione capitale), lasciavano attoniti i mystai che compivano e portavano a termine stancanti vagabondaggi attraverso le perfette oscurità e le tenebre oscure (il confine della morte) con sgomenti, brividi, sudori, per poi raggiungere la visione di una luce mirabile quando lo ierofante si presentava alzando in alto una spiga d’orzo proclamando: “la Dea Signora ha generato il sacro fanciullo; da Brimò, Brimos fu generato!1 ed, inoltre, conosciamo il fatto che il kykeon (il ciceone), la bevanda sacra, dall’Inno Omerico a Demetra (VIII secolo avanti Cristo) era una parte determinante dei riti d’Eleusi e gli ingredienti di questa pozione sono riportati: orzo (alphi), acqua (ùdor) e menta (blechon). Come tutte le cerimonie e le liturgie di affiliazione e investitura sono descritte in modo banale - è, ovvio - da chi non ne 1 “... gli Ateniesi, nell’iniziazione di Eleusi, mostrano a coloro che sono ammessi al grado supremo il grande e mirabile e perfettissimo mistero visionario di là: la spiga di orzo mietuta in silenzio”. Ippolito, Confutazione, 58, 39-40.
2 22 B 125 DK; Teofrasto, Sulla vertigine, 9.
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rale e dalla dietilammina passando attraverso l’idrazide e l’azoturo dell’acido lisergico improvvisamente mi sentii preso da uno strano stato di ebbrezza. li mondo esterno mi appariva come un sogno. Gli oggetti sembravano crescere in rilievo e assumere delle insolite dimensioni; e anche i colori si facevano più brillanti. Perfino l’autopercezione e il senso dei tempo risultavano modificati. Quando gli occhi si chiusero, si levò su di me un flusso ininterrotto di immagini fantastiche, di una plasticità e di una vivezza straordinarie, in un intenso, caleidoscopico gioco di colori. Dopo due ore, questa ebbrezza non spiacevole, da me vissuta in pieno stato di coscienza, si dileguò. Il primo viaggio al mondo realmente compiuto con l’LSD-25. Da che cosa era stato provocato? «Probabilmente una goccia cadutami sulle dita doveva essere stata assorbita attraverso la pelle». Una piccola quantità?! Ma quanto piccola? La sostanza chimica più potente capace di suggestionare fortemente la mente conosciuta fino ad allora era la 100
mescalina, di cui sono necessari circa 250 milligrammi … qui bastò una goccia di 50 milionesimi di grammo (50 g) sulla pelle per mettere a disposizione di Hofmann un breve viaggio di appena due ore, ma notevole e intenso. Il lunedì 19 il chimico (oltrettutto svizzero) era deciso «ad approfondire la faccenda». La seconda esperienza della storia con l’LSD-25 ebbe inizio giusto dopo le 17,00 e venne descritta con meno di 50 parole. Ogni proposito di continuare a prendere degli appunti di laboratorio veniva comunque subito vanificato, perché «le ultime parole potevano scriversi solo con gran difficoltà». Pregai il mio assistente di laboratorio di accompagnarmi a casa, convinto di ricadere nello stesso stato di agitazione del venerdì precedente. Eravamo ancora in bicicletta sulla via di casa, allorché mi resi conto che i sintomi stavano insorgendo molto più forti della prima volta. Provavo una gran difficoltà a parlare con una certa coerenza, il mio campo visivo ondeggiava dinanzi a me e gli oggetti
mi apparivano distorti come immagini in uno specchio curvo. Avevo l’impressione di non riuscire a muovermi sebbene il mio assistente in seguito mi riferì che avevamo pedalato a una buona andatura... Ma adesso il problema era costituito dal fatto che non aveva provocato una breve «ebbrezza non spiacevole». Hofmann aveva scoperto che la quantità che egli aveva ingerito, per quanto estremamente piccola, costituiva, a suo dire, «una dose sostanzialmente eccessiva». Più tardi, a casa, egli descrisse l’intera faccenda in questo modo: … le facce dei presenti sembravano grottesche maschere colorate; una forte agitazione si alternava a uno stato di paresi; la testa, il corpo e le estremità erano talvolta fredde e intorpidite; un sapore metallico sulla lingua; la gola secca e bruciante; un senso di soffocamento; uno stato confusionale alternato a una chiara percezione della situazione. Persi ogni controllo del tempo; spazio e tempo diventarono sempre più scoordinati ed io fui sopraffatto dalla paura di diventare pazzo. L’aspetto peggiore della situazione consisteva nel fatto che io ero chiaramente conscio della mia condizione, sebbene fossi incapace di bloccarla. Qualche volta provavo la sensazione di trovarmi fuori del mio corpo. Pensai di essere morto. Il mio «Ego» era sospeso da qualche parte nello spazio ed io vedevo il mio corpo giacere morto sul divano. Riuscivo a vedere e a rendermi perfettamente conto che il mio «alter ego» se ne andava in giro per la stanza lamentandosi. Il materiale fondamentale impiegato nella fabbricazione dell’LSD-25 era costituito dalla segale attaccata dal fungo Claviceps purpurea (ottenendo cioè gli sclerozi di questo fungo filamentoso, la segale cornuta). Durante il Medio Evo e anche fin quasi ai giorni nostri si son verificati dei casi in cui la segale cornuta è stata inavvertitamente introdotta nella confezione del pane, provocando così le spiacevolissime conseguenze di un avvelenamento da ergotamina, denominate Fuoco di S. Antonio. La Claviceps purpurea è un fungo parassita che cresce nella spiga della Segale (una graminacea che cresce in tutta Europa e si sviluppa particolarmente in annate calde e piovose) e trasforma il chicco del cereale in un cornetto arquato, lo sclerozio, di colore nero-violaceo, di consistenza corneea, di odore nauseabondo e penetrante e sapore amarognolo. Tale sclerozio, la segale cornuta (kornmutter, blé cornu, cock
spur rye, cornezuelo de centeno...) fu l’agente patogeno delle endemiche intossicazioni croniche che percorsero l’Europa contadina dal X al XIX secolo e che solitamente vengono definite epidemie di ergotismo. La Claviceps era generalmente considerata una malattia del grano o delle graninacee. Il primo a nominarla sotto il nome di Clavus siliginis fu Leonicero (1565) che, nel suo Kräterbuch, accenna alle proprietà tossiche di questo fungo, indicando anche l’uso che ne facevano le donne “per produrre dolori all’utero, assumendolo alla dose di tre sclerozi, ripetuta varie volte”. Altri medici la chiamano Secalis mater o Secalis luxurians, il Linneo parla di un piccolo rafano silvestre il cui odore e sapore è comune a tutte le piante crucifere. Nel 1808 John Stearn pubblica quella che è la prima memoria scientifica sulla “pulvis parturiensis”. L’avvelenamento cronico (ergotismo) dovuto a farine provenienti da cereali infestati dallo sclerozio in questione è già rilevato fin dall’epoca altomedievale. Le prime notizie sicure di intossicazioni collettive risalgono all’857 e si trovano negli Annali dell’Abbazia di Xanten. Fra le numerose intossicazioni a tipo epidemico di cui si ha notizia, tristemente famose per la loro gravità ed estensione furono quelle che si verificarono nel X e XI secolo in Germania, in Inghilterra e in Francia. Durante una di queste epidemie si racconta che Ugo Capeto raccogliesse gli infermi nella chiesa di Notre Dame a Parigi e li nutrisse a sue spese e che un certo Gastone, gentiluomo del Delfinato, dopo l’insperata guarigione del figlio dal mal degli ardenti fondasse l’ordine dei Frati di Sant’Antonio incaricati di assistere e curare questi ammalati (l’Ordine venne confermato nel 1095 da papa Urbano II con lo scopo di soccorrere i colpiti da ergotismo). La vicenda epidemica in esame percorse l’Europa contadina fino agli inizi del XX secolo ed ebbe i momenti della sua massima letalità fra il X e il XVIII secolo. Le intossicazioni collettive da segale cornuta si sono storicamente presentate sotto due forme: una cronica e l’altra convulsiva. All’inizio esse offrono una sintomatologia comune: depressione, stanchezza, dolori lombari e alle estremità, specie al polpaccio, nausea, vomito, turbe mentali ed eccitazione sensoriale. Dopo un periodo di incubazione (variabile da alcuni giorni a tre settimane) l’ergotismo cangrenoso si manifesta con
infiammazione delle estremità, più frequentemente le inferiori, dolori lancinanti e senso di insopportabile bruciore di tipo caustico (da cui i suoi vari nomi: fuoco sacro, mal des ardens, fuoco di S. Antonio). Dopo l’insorgenza del fenomeno cangrenoso (che si svolge all’inizio con dolori acutissimi, da cui la necessità di un qualche analgesico) ne segue una quasi completa anestesia e la perdita degli arti inferiori (ma anche del naso e delle orecchie); la forma convulsiva si manifesta invece con sintomi di forte formicolio alle estremità, forti dolori, nausea, cecità, sordità, vertigini, cefalee, delirio, epilessia, indebolimento delle facoltà mentali, afonia e disturbi della visione. In questa forma la
morte può sopraggiungere dopo tre giorni, oppure può seguire la guarigione che lascia come postumi: emiplegia, epilessia, disturbi mentali. La presenza di turbe psichiche o sensoriali, che compaiono nelle forme convulsive dell’ergotismo, chiamano a responsabili non solo gli alcaloidi
Mysterium dei gruppi ergotaminici, ergotossinici e ergometrinici, ma anche le ammine biogene della Claviceps purpurea e, essenzialmente, un concomitante stato carenziale di vitamina A. Si noti comunque che, nel Medioevo, le patologie carenziali non erano conosciute come tali, anche quando i
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sintomi principali erano individuati correttamente. Al contrario i fattori dell’intossicazione dell’ergot de la siegle non poterono sfuggire a lungo all’osservazione, se non altro per il fatto che lo sclerozio veniva utilizzato espressamente come abortivo e, in numerosi casi, aveva come ulteriore effetto l’ergotismo. Mentre, quindi, non si conoscono gli agenti patogeni che hanno provocato la grande epidemia di epilessia del XVI secolo, conosciamo sia l’origine che gli esiti psicopatogenetici dell’ergotismo. Va notato che, nella storia dell’Occidente europeo, l’epilessia e l’ergotismo convulsivo rappresentarono vere e proprie forme epidemiche di malattie mentali a eziologia organica (diverse dalle patologie a carattere psicogeno). L’unica cura, a quei tempi, davvero efficiente contro lo squilibrio del sistema nervoso centrale e le distonie neurovegetative sarebbe stata (e in molti casi lo fu) l’uso 102
“omeopatico” della Claviceps porpurea associata all’Atropa belladonna (ancora oggi si usano, tra gli altri, farmaci a base di ergotamina e alcaloidi simpaticolitici della belladonna: atropina e scopolamina). La Segale cornuta, presa sia in grani che in polvere, è inoltre un potentissimo uterotonico (in passato veniva detta pulvis parturiensis, ma ancora oggi viene somministrata sotto forma di metilergobasina come facilitante del parto e come abortivo e serve a guarire varie forme di metro e menoraggia). Come abortivo essa veniva utilizzata fin dall’Alto Medioevo e di ciò fanno fede vari Penitenziali che ne contemplano l’uso da parte delle streghe ostetriche. In più di un processo per stregoneria, inoltre, gli Inquisitori danno segno di conoscere le attività di «procuratrici d’aborto» delle donne che, tra gli altri metodi meccanici, facevano uso del fungo della segale. Molte delle intossicazioni a sin-
tomatologia convulsiva furono provocate, molto probabilmente, da ingestione di forti dosi di segale cornuta, o suoi preparati galenici, a scopo abortivo. Come nel caso dei sedativi allucinogeni (atropinosimili), anche in questo caso non è irragionevole supporre che la terapia della strega si trasformi in preparazione di una nuova «sacerdotessa di Satana». Tipico esempio di epidemia a causa alimentare, l’ergotismo porta con sè tutta una serie di problematiche sociali che chiamano in gioco il “paese della fame”, i “territori della follia” e principalmente la “condizione della donna”. Io personalmente scrissi a Hofman verso la fine del 1978, dato ch’erano anni che mi occcupavo del famoso farmaco che induceva al volo verso il Sabba, avendo letto la sua risposta a Wasson inerente ad Eleusi; dopo un poco anche a me arrivò un’identica risposta: “Sapendo che la dose efficace di amide dell’acido lisergico oscilla
tra 1 e 2 mg per via orale, decisi pertanto di sperimentare personalmente una quantità simile di ergonovina: Ore 12.20: 2,0 mg di ergonovina maleato di idrogeno, contenente 1,5 mg di ergonovina base, ingerito in un bicchiere d’acqua. Ore 13.00: Leggera nausea, come sempre nei miei esperimenti con l’LSD o la psilocibina. Stanco, bisogno di sdraiarmi. A occhi chiusi figure colorate. Ore 13.30: Gli alberi nella vicina foresta sembrano animati, i loro rami si muovono in modo minaccioso. Ore 14.30: Forte desiderio di sognare, incapace di svolgere attività sistematiche, a occhi chiusi o aperti tormentato da sensazioni e figure simili a molluschi. Ore 16.00: I motivi e i colori sono più evidenti, ma celano tuttora pericoli invisibili. Ore 17.00: Dopo un breve sonno mi sono svegliato con una sorta di esplosione interiore di tutti sensi”. La sua potenza è di circa un ventesimo di quella dell’LSD e circa cinque volte maggiore di quella della psilocibina. Tra i tipi di ergot prodotti dalle varie specie del genere Claviceps che si trovano su cereali e erbe selvatiche ne esistono alcuni contenenti alcaloidi allucinogeni, soprattutto amide dell’acido lisergico, idrossietilamide dell’acido lisergico ed ergonovina e sono idrosolubili, al contrario di quelli non allucinogeni del tipo ergotamina ed ergotossina impiegati in medicina. Grazie alle tecniche e alle strumentazioni di cui disponeva l’antichità era quindi facile preparare un estratto allucinogeno a partire da determinati tipi di ergot. Ma quali erano questi tipi di ergot accessibili agli antichi greci? Là non cresceva la segale, ma grano e
orzo sì e sappiamo che la Claviceps purpurea ne è l’infestante per eccellenza e la pianura Riaria aveva dato ospitalità a Demetra e alle sue spighe d’orzo. Ma com’è è che le endemie di ergoismo non colpirono Eleusi come in Europa? Prima di tutto la farina veniva macinata in casa e la spiga si poteve pulire dagli sclerozi infestanti. L’orzo infestato era per i Greci il ricordo di Demetra che nega la morte e guarisce l’universo con l’ininterrotto, incessante e perpetuo ciclo di morte-rinascita. La bevanda preparata con la separazione degli agenti allucinogeni, mediante una semplice idrosoluzione, dagli alcaloidi non solubili ergotamina e ergotossina rientrava facilmente nel novero delle facoltà di cui disponevano i primi abitanti della Grecia: bastava mescolare a lungo e fortemente e poi usare come filtro una garza. Un metodo ancora più semplice – dice Hoffman - poteva esser quello di utilizzare una certa qualità di ergot come la specie che cresce sull’erba Paspalum distichum, contenente solo gli alcaloidi allucinogeni e pertanto impiegabili direttamente sotto forma di polvere … la P. distichum è diffusa in tutto il bacino mediterraneo. Non è improbabile che gli ierofanti di Eleusi abbiano esteso la loro conoscenza e migliorato le loro capacità nel corso dei molti secoli che videro i Misteri prosperare e affascinare l’antico mondo greco. Per l’antichità e per noi, essi sono associati a Demetra e Core, che insieme a Trittolemo rappresentano i famosi progenitori mitici della coltivazione del grano e dell’orzo. Nel corso del tempo gli ierofanti avrebbero potuto scoprire facilmente la Claviceps paspali che cresce sull’erba Paspalum distichum. Da qui avrebbero potuto estrarre il loro allucinogeno in maniera diretta e in forma pura. La conoscenza mistica, il cammino sapienziale basato sull’intuizione estatica, che tende alla comunicazione diretta con il divino come alternativa escludente la via della ricerca razionale, è sempre stato negato da taluni interpreti della civiltà greca che l’hanno studiata come se questa fosse una storia sperimentabile e misurabile, ossia una disciplina empirica. La “visione eleusina”, che rappresentava l’esperienza suprema nella vita di un greco e che avveniva durante la celebrazione dei Misteri, viene ridotta a un evento socio-politico in cui si vede e si sente quello che tutti vedono e sentono: gli oggetti sacri, le immagini degli dei, i rituali religiosi, le rappresenta-
zioni simboliche … Il verbo orào (vedere), presente in tutti i documenti eleusini, sta, infatti, per “comprendere, conoscere, capire”, ossia un cammino mistico. L’iniziazione avveniva intervenendo ai Piccoli Misteri (celebrati in primavera ad Agra) e, sei mesi dopo (in settembre), partecipan-
Mysterium do ai Grandi Misteri di Eleusi tramite tutta una serie di istruzioni rituali, astensioni, purificazioni, digiuni … tanto che l’accesso al telesterion (la sala di iniziazione del tempio) era proibito ai non iniziati, a costo di pene severissime, e l’epopteia, il più alto grado della visione eleusina, era possibile, ma un anno dopo, ai soli superstiti di questo processo di selezione. La rinascita dalla morte era il segreto di Eleusi. Demetra cerca di negare la morte, poi tenta di conferirle l’eternità e infine riesce a guarire l’universo con l’ininterrotto, incessante e perpetuo ciclo di morte-rinascita. Questo rito si compiva con l’assunzione del “ciceone” in un contesto contemplativo, visionario e mistico, ossia “il pascolo che si addice alla parte migliore dell’anima”. “Al momento della morte l’anima prova un’esperienza simile a quella di coloro che sono iniziati ai misteri ... All’inizio vagare smarriti, faticoso andare in cerchio, paurosi percorsi nel buio, che non conducono in alcun luogo. Prima della fine il timore, il brivido, il tremito, i sudori freddi e lo spavento sono al culmine. E poi una luce meravigliosa si offre agli occhi, si passa in luoghi puri e prati dove echeggiano suoni, dove si vedono danze; solenni sacre parole e visioni divine ispirano un rispetto religioso. E là l’iniziato, ormai perfettamente liberato e sciolto da ogni vincolo, si aggira, incoronato da una ghirlanda, celebrando la festa insieme agli altri consacrati e puri, e guarda dall’alto la folla non iniziata, non purificata nel fango e nelle tenebre, e, per timore della morte, attardarsi fra i mali invece di credere nella felicità dell’aldilà”. [Plutarco, Fragmenta 168 Sandbach = Stobeo 4, 52, 49]. P.98: Iniziando ai Misteri, bassorilievo in marmo, periodo Augustano ca.; p.99 in alto: Testa di filosofo, Atene; p.99: Pittura misterica vascolari, Atene; p.100 e 102: Copie romana di sculture greche, età imperiale; p.101: Disegno botanico del 1843 dell’Ololiuqui; p.102 in basso: Formule chimiche di composti psicotropi citati; p.102 in alto: Offerta del Ciceone, pittura vascolare; p.103: Demetra.
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Grande Opera, collezionismo e mitologia nordica Note e materiali sul danese Olaus Worm Davide Arecco
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I
l Necronomicon nella storia dell’esoterismo occidentale Nella Storia del Necronomicon (1927), vero laboratorio dei Miti di Cthulhu,1 Howard Phillips Lovecraft raccontò che l’Azif dell’arabo pazzo Abdul Alhazred raggiunse Bisanzio prima dell’anno Mille, tradotto in Occidente da Teodoro Fileta, di Costantinopoli, con il titolo di Necronomicon. Per circa un secolo il libro maledetto, secondo la ricostruzione fantastica di Lovecraft, spinse alcuni sperimentatori a compiere terribili esperienze, dopodichè venne bandito e fatto bruciare dal patriarca Michele. In seguito se ne è sentito parlare poco e segretamente, ma nel 1228 Olaus Wormius ne fece una traduzione in latino medievale e questa versione fu stampata due volte: una nel quindicesimo secolo in caratteri gotici (evidentemente in Germania) e l’altra nel diciassettesimo (probabilmente in Spagna). Entrambe le edizioni non hanno contrassegni di identificazione, ed è possibile stabilire una collocazione geografico-temporale solo in base alle caratteristiche tipografiche interne. Tanto la versione greca che quella latina furono messe all’indice nel 1232 da papa Gregorio IX: evidentemente la traduzione del Wormius, avvenuta poco prima, aveva richiamato l’attenzione della Chiesa. L’originale arabo era da considerarsi perduto già ai tempi di Wormius, come da lui indicato nell’introduzione all’opera; nessun esemplare della versione greca – che fu stampata in Italia fra il 1500 e il 1550 – è stato più visto dopo l’incendio di
una certa biblioteca privata a Salem, nel 1692.2 Il solitario di Providence immaginò – ed è la parola giusta, dato che il Necronomicon fu solo un frutto della sua fantasia letteraria – che, prima di finire all’Index Expurgatorius nel XIII secolo, la traduzione latina del grimorio fatta dal Wormius fosse stata pertanto mostrata al pontefice.3 Non mancò, si sa, chi prese (e prende, tuttora) molto sul serio la storia inventata da Lovecraft. Nel 1936, il suo corrispondente Willis Conover gli inviò il fascicolo di una rivista amatoriale, contenente una finta recensione – opera dell’appassionato Donald Wollheim,
divenuto poi un autore eminente nella narrativa fantascientifica – circa una versione in inglese moderno del famigerato Necronomicon, ad opera del dottor W.T. Faraday. Reagendo a questo primo calembour del suo libro, Lovecraft finse di stare al gioco, rispose facendo alcune puntualizzazioni e mostrandosi altresì interessato alla cosa, sia pure stigmatizzando profeticamente le leggende in continua crescita sul Necronomicon. Grande fu la sua meraviglia nello scoprire che l’unica traduzione esistente oltre a questa, destinata alla pubblicazione, è la rarissima opera in latino di un cer105
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to mago Olaus Wormius, che venne bruciato sul rogo per eresia diverse centinaia di anni orsono. La presente versione è una riduzione dell’originale. Questo libro non è destinato al pubblico. È stato stam106
pato principalmente per essere messo a disposizione di quegli studiosi dell’Occulto che ne stimano necessaria la consultazione per le loro ricerche. Si suppone che sia un trattato sulle sfere dell’Occulto e la
loro interazione con l’umanità fin dall’alba della storia. [...] Nel complesso questa pubblicazione rimarrà un contributo essenziale per la scienza dell’Occulto. È anche un’introduzione alla cosmogonia degli Antichi Dei che, secondo le opinioni dei mistici, vennero prima della nascita dei moderni demoni.4 Ancora, tra gli altri, il rimando al nome di Wormius, fatto entrare nella storia del libro che, più di tanti solo in apparenza analoghi, raccoglie gli inquietanti frammenti d’un sapere dimenticato.5 In effetti, quella di Olaus Worm, latinamente Wormius, è una delle più importanti e sconosciute figure dell’alchimia seicentesca. Nulla su di lui nelle più note storie dell’esoterismo e dell’occultismo,6 né in altrimenti pregevoli dizionari o repertori bibliografici.7 Ancora meno nelle storie della scienza, a cui peraltro il danese seppe fornire non irrilevanti contributi. Quello relativo a Worm – nato ad Arhus il 13 maggio 1588, morto a Copenhagen
il 31 agosto 1655 – rimane uno dei pochissimi errori di documentazione in cui sia mai caduto Lovecraft. Infatti, il medico, filologo ed alchimista danese non visse nel Duecento, ma in epoca barocca. In una data imprecisata, l’autore di Providence si accorse comunque dell’errore, dal momento che in una lettera del giugno 1936, a James Blish e William Miller, riportando le informazioni ‘editoriali’ riguardanti il Necronomicon, si corresse, datando la ‘traduzione’ di Worm al 1623.8 Del biologo e collezionista di cose antiche – concernenti in prevalenza il mondo nordico: Worm è ancora giustamente ritenuto il padre putativo degli studi di archeologia in Scandinavia – Lovecraft dovette leggere per la prima volta il nome in uno dei libri settecenteschi della biblioteca di famiglia, A Critical Dissertation on the Poems of Ossian, the Son of Fingal (1763) di Hugh Blair (1718-1800). Il testo include un’ampia sezione sulla poesia runica, definita anche gotica (in riferimento ai Goti), in cui si legge che i loro poeti erano distinti dal titolo di Scaldi, e le loro liriche erano chiamate Vyse. Saxo Grammaticus, storico danese di considerevole dottrina, che fiorì nel XIII secolo, ce ne parla. [...] Un più curioso monumento di vera poesia gotica è tramandato da Olaus Wormius, in un suo libro De Literatura Runica. In esso è contenuto un Epicedio, o canto funebre, composto da Regner Lodbrog, e che Olaus traduce in latino, parola per parola, dall’originale.9 Tradito, una volta tanto, dalla sua altrimenti proverbiale e formidabile memoria, Lovecraft per tanto confuse, al momento della stesura della History of Necronomicon, le due figure di Ole Worm e Saxo Grammaticus, retrodatando il primo ad inizio ‘200. Nel corso della gioventù, egli aveva pure tradotto in inglese l’Epicedio di Ragnar Lodbrog, il cui testo aveva trovato riportato (nella versione latina) nel libro di Blair.10 Nella prima metà del XVII secolo, Worm fu un’autorità indiscussa negli studi sulle letterature scandinave antiche e sulle lingue germaniche. Tra i primi fondatori e interpreti della runologia, a cui dedicò i celebri Fasti Danici – editi in Copenhagen nel 1626 e ristampati dal Moltkenius nel 1653 – di fatto una cronologia della Danimarca, che contiene i
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primi risultati delle ricerche condotte dal Worm sulla sapienza runica, scrisse la Runir seu Danica literatura antiquissima vulgo gothica dicta de prisca Danorum poesi dissertatio (pubblicata inizialmente a Amsterdam da Johann Jansonius nel 1636 e poi riedita a Copenhagen nel 1651, per i tipi di Melchior Martzan e Georg Holst), in assoluto la prima antologia nota di poesia runica, che interessò il Re di Danimarca e ne riscosse una calorosa approvazione. Worm collezionò diverse iscrizioni incise in alfabeto runico, molto rare già durante il Seicento e in alcuni casi oggi perdute nell’originale. Questo rende i suoi scritti – si occupò anche di calendario, con il Computus runicus – fonti del tutto pionieristiche e imprescindibili. Altre opere da lui consacrate alle antichità danesi e alla storia nordeuropea furono le Regum Daniae Series, edite a Copenhagen da Martzan nel 1642 (nuova ed aggiornata cronologia scandi-
nava, non senza ulteriori e preziose notizie su leggi, usanze dei popoli nordici e lingua runica) e i Danicorum monumentorum libri sex (Hafniae 1643, una storia antiquaria di Danimarca e Norvegia compilata attraverso raccolte d’immagini e iscrizioni runiche, conosciuta altresì come Monumenta Danica).11 Worm curò inoltre la pubblicazione nel 1650 nella capitale danese dello Specimen lexici runici dell’erudito ed umanista rinascimentale Olaus Magnus (14901588),12 colui che aveva aperto la via agli studi runologici nella prima età moderna. Worm scrisse anche a riguardo dei famosi corni d’oro di Gallehus.13 Il suo De aureo cornu Danico – indirizzato, nel 1641, all’aristotelico Fortunio Liceti, il medico ligure ed amico di Galileo – stimolò le Observationes novae de aureo cornu Olai VVormi eruditorum Iudicia (Padova 1645), dell’anatomista danese Thomas Bartholin (1616-1680), pure 107
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lui di Copenhagen e cognato dello stesso Worm.14 Il De aureo cornu venne poi ripubblicato, nel 1676, da Bartholin nel suo trattato De armillis veterum. L’operazione di recupero culturale intrapresa da Worm non fu senza conseguenze. In Svezia, nel corso del secolo XVII, si sviluppò – ad opera del linguista ed esoterista Johannes Bureus – una particolare forma di cabala influenzata da speculazioni runologiche. Si trattava di una cabala gotica, che ricomprendeva le leggende sui mitici Goti (i primevi abitanti della penisola scandinava), i miti greci e la ricerca runologica-iperborea avviata, tra ‘500 e ‘600, da Magnus e Worm. In questo caso, però, il fine malcelato era quello di esaltare la grande potenza politica svedese. Nella cabala gotica, le rune e le antiche divinità nordiche vennero unite da Bureus all’occultismo coevo, all’ermetismo e all’alchimia. Il mistico svedese pensava che le rune, al pari del lin108
guaggio cabalistico, possedessero in forma nascosta diversi livelli di magia operativa, accessibili al solo iniziato, durante un processo plurigraduale. Le rune si sarebbe così svelate nelle Adel-rune, le ‘rune nobili’, una rappresentazione macrocosmica della scintilla divina presente al fondo dell’animo umano, da riattivare e da riportare in luce mediante apposite pratiche esoteriche ad uso di pochi adepti meritevoli.15 Il goticismo di Bureus – antiquario di formazione, come Worm – s’ispirava dunque alla cabala e all’alchimia (segnatamente quella di Agrippa, Paracelso, Reuchlin e Agricola). Bureus denominò Adulrunor la dimensione segreta delle rune e disegnò un simbolo che la raffigurasse, davvero molto simile alla monade geroglifica dell’occultista inglese John Dee (il simbolo che contiene tutti i segni planetari). Il successo e gli impieghi del sistema gotico-runico di Bureus furono grandi in patria: le rune vennero utilizzate dagli ufficiali dell’esercito svedese, durante la Guerra dei Trent’anni (16181648), per decrittare le comunicazioni tra i reparti al fronte.16 Nel medesimo periodo, Bureus, molto colpito dalla lettura di manoscritti di magia medievale e in particolare dal messaggio neo-platonico dei manifesti Rosa-croce, ne stese nel 1616 un commento dal titolo FRC faMa e sCanzIa reDUX. Alchimia, medicina e geologia nella Danimarca del Seicento Anche Worm, come Bureus, fu un alchimista. A Rostock, “typis Mauritii Saxonis”, apparve, nel 1624, il suo Liber aureus philosophorum de mundi fabrica, un trattato sulla pietra filosofale. È neces-
sario ed importante soffermarsi brevemente sull’approccio alchemico di Worm. Il danese, nel praticare le trasmutazioni previste dall’arte reale, denota uno stile tutto suo particolare, quantitativo e sperimentale, vicino ai paradigmi della nuova filosofia naturale. Worm pesa, misura, quantifica e compie autentici esperimenti di alchimia. Rilegge, in altre parole, la tradizione ermetica in chiave ‘scientifica’. Un approccio non frequentissimo nella storia delle procedure alchimistiche (lo si può ritrovare quasi soltanto nel Newton delle carte private, per restare nel Seicento), che con una vena in apparenza ossimorica e paradossale lo storico potrebbe definire pre-illuministico, tale e tanto è – in Worm – il bisogno di ridefinire elementi e processi dell’alchimia in maniera chiara e rigorosa, senza incrostazioni o ciarlatanerie. È come se Worm, tramite la nuova scienza e i suoi metodi, purificasse l’alchimia dalle oscurità più fuorvianti, con il solo obiettivo di dimostrare scientificamente le verità della Grande Opera. Può darsi che a determinare tale forma mentis sia stata l’eredità epistemologica del suo più grande connazionale della generazione precedente, Tycho Brahe (1546-1601). Il grande astronomo danese, maestro a Praga di Keplero, aveva infatti insegnato a condurre studi di statica e dinamica sugli strumenti della scienza, convinto come Worm che il sapere si costruire in fabrica. Il Liber aureus fu il battesimo del fuoco di Worm nella Repubblica delle Lettere d’allora. Sino a quel momento aveva in pratica pubblicato solo la sua Tesi di Laurea.17 Figlio del borgomastro di Arhus e d’una luterana fuggita da Arnhem (Paesi Bassi) durante le persecuzioni cattoliche e riparata nella Danimarca protestante, aveva viaggiato a lungo, studiato a Marburgo (1605), a Padova (16081609), a Strasburgo (1610) ed a Basilea, dove nel 1611 si era laureato in Medicina. Sceso in Italia, a Bologna aveva potuto visitare l’orto botanico di Ulisse Aldrovandi – la cui monumentale Naturalis Historia sarebbe stata alla base di numerose sue successive ricerche – e Napoli si era incontrato con lo studioso di storia naturale ed alchimista Ferrante Imperato.18 Dopo avere esercitato come medico, anche in Inghilterra, dietro permesso del Royal College of Physicians di Londra, nel 1617
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Worm si era riportato in Danimarca ed aveva ottenuto una cattedra all’Università di Copenhagen. Dapprima, aveva insegnato Eloquenza greca e latina, in seguito Fisica e infine Medicina. Diventò professore di quest’ultima proprio nel 1624, mentre dava alle stampe il Liber aureus. Molto apprezzato alla corte dei Padernborn, venne altresì nominato medico personale del re Cristiano IV. In ambito accademico si rivelò ben presto un valente fisiologo e mostrò sempre dedizione al lavoro, rettitudine e senso del dovere: cosa rimarchevole per un medico di quegli anni, durante l’epidemia di Morte nera che colpì Copenhagen tra il 1654 e il 1655, Worm rimase al suo posto in qualità di ministro della salute. Morì così vittima del morbo che stava vanamente tentando di curare, prodigandosi per gli altri. Numerosi furono i libri di argomento medico e soprattutto embriologico scritti da Worm.19 Da lui prendono il nome le ossa del cranio dette, in suo omaggio,
‘wormiane’. Nel campo delle scienze della vita, inoltre, sempre sua è la prima descrizione circostanziata dei così detti uccelli del paradiso (che in precedenza erano stati erroneamente ritenuti privi di zampe) e l’inclusione del lemming nel novero dei roditori. Riguardo a quest’ultimo, Worm sfatò un tabù, dimostrando, attraverso puntuali investigazioni empiriche, che non era un frutto della generazione spontanea.20 In ambito medico, la metodologia di Worm fu pertanto schiettamente induttiva e baconiana. Riconsegnò l’esistenza degli unicorni alle favole e al folclore, fece ordine in diversi settori dello scibile medico e si occupò anche di venefici, la cui letteratura in merito principiava giusto allora – le Quaestiones medicolegales del felsineo Paolo Zacchia datano 1634 – e si sarebbe protratta almeno sino a Bleak House di Dickens. Vero enciclopedista barocco, dotato di profonda erudizione ed ottima preparazione filologica, Worm fu un grande collezionista di 109
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piante, animali e minerali (nella fattispecie del Nuovo Mondo), pietre e fossili – si interessò grandemente alla formazione delle rocce, vulcaniche e no – che ordinò in modo sistematico e organico nel Museum Wormianum, da lui creato a Copenhagen, grazie anche al munifico appoggio della monarchia danese, che gli concesse una lauta pensione reale, sul tipo di quelle elargite mezzo secolo dopo da Luigi XIV agli hommes de lettres di Francia.21 Nella storia della sistematizzazione museale Worm fa data. Eterogenea, abbondante, bella sul piano iconografico: la sua collezione di oggetti, strumenti, rariora et mirabilia, impressiona ancora oggi. Tra XVI e XVII secolo, gli exempla a cui richiamarsi erano davvero pochissimi. Worm scelse il gabinetto di curiosità impiantato da Aldrovandi, a Bologna. Nell’incisione del museo di Worm (ci si riferisce al frontespizio del suo catalogo a stampa) l’attenzione di chi guarda viene attirata dalla statua di un uomo con a fianco una giacca, un paio di stivali e degli speroni, come pure dal pesce – impa110
gliato – che pende dal soffitto, insieme a un piccolo orso e dalle corna di cervo appese al muro, assieme a corni per bere. Il catalogo rivela una gamma ancora più ricca di oggetti: mummie egizie, spille romane antiche, monete di Giava e manoscritti provenienti dal Giappone, oltre naturalmente a moltissimi reperti di area nordica. Tra questi, lance della Groenlandia, un arco lappone, embrionali sci finlandesi, nonché un antico scudo norvegese. La realtà della collezione ha, senz’altro, anche un valore allegorico. Osservando più attentamente, tuttavia, un’esposizione così stratificata palesa pure un pronunciato desiderio di classificazione razionale: il museo di Worm include scatole etichettate ‘metalli’, ‘pietre’, ‘legno’, ‘conchiglie’, ‘erbe’, ‘radici’ e via di seguito. I corni sono accostati per lo stesso materiale di fabbricazione. La descrizione della collezione wormiana è poi distinta in quattro libri, che trattano rispettivamente di pietre e metalli (ancora, ritorna l’alchimia), piante, animali ed artefatti (artificiosa). In quest’ultima catego-
ria, di fatto, possiamo far rientrare tanto gli strumenti di carattere tecnico-scientifico e matematico, quanto le produzioni ermetiche condotte con l’atanòr. I reperti del museo, detto altrimenti, sia che si trattasse di naturalia, sia che fossero artificiali, erano classificati non secondo il luogo o il periodo, ma in base alla sostanza di composizione. In tal modo, il museo assurge a microcosmo, a universo in miniatura. Il milanese Manfredo Settala, per rimanere nel XVII secolo, adottò la stessa classificazione di Worm.22 Indicativo e cifra dei mutati tempi è il fatto che Worm assegnasse a naturalia e artificialia la medesima dignità, lo stesso valore. Non si dà in lui – come in altri colleghi suoi anche più illustri: Mersenne, Cartesio, Beckmann, Bacon, Boyle, Hobbes – alcuna differenza qualitativa tra ciò appartiene alla natura e ciò che è prodotto dall’uomo (entrambi creati da Dio). Anche Worm, quindi, fornisce il suo personale contributo alla caduta di un tabù, vale a dire il divieto – prima aristotelico, poi scolastico – di considerare in maniera pa-
ritaria i fatti naturali e gli artifici umani. Questi ultimi vanno posti sullo stesso piano, senza discriminazioni di nessun genere: Worm ammira in eguale misura le vette montane e le invenzioni. Un mutamento di mentalità scientifica ragguardevole rispetto al vecchio e stantio dogmatismo peripatetico. Il collezionista danese dedicò, altresì, una particolare attenzione ai metodi esotici di scrittura: testi redatti in arabo, etiope, cinese e giapponese furono raccolti nel suo museo (come in quello del Settala, di poco successivo e da Worm ispirato).23 Va detto che, a differenza di quanto accadde con padre Kircher a Roma, Worm non si fece però ammaliare dalla fascinazione per il bizzarro a tutti i costi, né ridusse mai a pure occasioni di svago intellettuale le proprie collezioni. In esse, il medico e alchimista danese cercava semmai le prove tangibili d’antiche forme di saggezza, retaggio d’epoche storiche molto più lunghe di quanto la cronologia ebraico-cristiana allora in auge non fosse disposta ad ammettere. In definitiva, Worm si mosse, accorto e intelligente, fra erudizione classica e filosofia naturale, fra antico e moderno, fra scienza e alchimia. Negli studi di mitologia nordica e sulle lingue runico-scandinave Worm fa ancora testo: menzionando i suoi Danicorum Monumentorum, il grande Georges Dumézil lo ha definito un ‘seducente archeologo’.24
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Note: 1 A. Darleth, I miti di Cthulhu, Roma 1975. 2 H.P. Lovecraft, I miti dell’orrore, Milano 1989, pp. 214-215; H.P. Lovecraft, Necronomicon, Roma 1994, pp. 198-199. Si vedano anche i vari seguiti (H.P. Lovecraft – A. Darleth, La lampada di Alhazred, Roma 1977; H.P. Lovecraft, Il testo di R’lyeh, Roma 1996; H.P. Lovecraft, La tomba di Alhazred, Roma 1997), nonché i falsi (L. Carter, Lovecraft. A look behind the Cthulhu Mythos, New York 1972; L. Sprague de Camp, The Necronomicon, Philadelphia 1973; H.R. Giger, Necronomicon, Basilea 1977; C. Wilson, The Necronomicon. The book of dead names, Jersey 1978). Sul Necronomicon del mago elisabettiano John Dee, vedasi J. Bergier, I libri maledetti, Torino 2008, p. 85. La migliore monografia su Lovecraft, il ‘razionalista sognatore’ che scrisse di fantascienza orrorifica con gli occhi della mente rivolti ai Lumi del Settecento inglese, rimane quella di G. de Turris – S. Fusco, Lovecraft, Firenze 1979, ma può essere utile e interessante anche leggere il profilo, agile ma denso, scritto da M. Houellebecq, H.P. Lovecraft. Contro il
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mondo, contro la vita, Milano 2001. 3 A. Baker, Storia dei maghi, Milano 2005, pp. 173-224: 192. 4 H.P. Lovecraft, I racconti del Necronomicon, Roma 1993, p. 11. La finta recensione si chiude con il richiamo – ma questo è ricavato pari pari dalla storia e cronologia approntata per il Necronomicon da Lovecraft – al Re in giallo di
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Chambers e al Dizionario del Diavolo di Bierce, che si ispirarono entrambi all’autore dei Miti di Cthulhu. Su coloro i quali realmente credevano nell’esistenza materiale dell’Azif e sul Necronomicon in generale, Lovecraft tornò più volte in diverse lettere del suo ricco epistolario (S. Fusco, Storia del Necronomicon di H.P. Lovecraft, Roma 2007, pp. 119 e segg.). Natural-
mente, Worm non fu mai condannato: la sua fine per mano dell’Inquisizione è invenzione di Wollheim. 5 Rimarchevole, Worm a parte, fu l’erudizione lovecraftiana su temi di storia della magia. E molte, al riguardo, le fonti impiegate dal grande scrittore statunitense. Tra queste possiamo annoverare diverse opere d’età moderna: la Clavis alchemiae del rosa-crociano inglese Robert Fludd, la Daemonolatreia (1595) del francese Nicholas Remy, il De furtivis literarum notis (1563) del partenopeo Giambattista Della Porta (che fu anche accademico dei Lincei), numerosi trattati di crittografia rinascimentale, il Saducismus triumphatus (1666) del baconiano inglese – e membro della Royal Society – Joseph Glanvill (sul quale rimando, qui, alle belle pagine di R.F. Jones, Antichi e moderni. La nascita del movimento scientifico nell’Inghilterra del XVII secolo, Bologna 1980), il classico Paradise Lost (1667) di Milton, i Cryptomenysis patefacta (1685) di John Falconer, le puritane Wonders of the Invisible World (1693) del newtoniano americano Cotton Mather, la Bibliotheca chemica curiosa (1702) del Manget, le Witches di Lamb, il Vathek scritto in francese da William Beckford (1759-1844) nel 1782, nonché il Liber damnatus, un’edizione inglese del Grimorium Verum (la cui più antica versione a stampa data 1517 ma è probabilmente un falso di fine Settecento). Di antico Lovecraft utilizzò soprattutto le Vite parallele di Plutarco, di medievale invece: il Liber Investigationis di Geber, l’Image du Monde di Gauthier di Metz, lo Speculum alchimiae (1266 circa) di Roger Bacon (tra le fonti, nel tardo XVI secolo, in Londra, di Dee), l’Ars magna et ultima e il Thesaurus chemicus di Raimondo Lullo, che Lovecraft conobbe, altresì, nella più tarda edizione di Opera omnia pubblicata a Magonza, dal 1721 al 1742 (L. Spence, Encyclopedia of Occultism, New York 1920, ad vocem). Si veda, sull’argomento, Fusco, Storia del Necronomicon, cit., pp. 273 e segg. Altre informazioni ancora in G. de Turris, Il drago in bottiglia. Mito, fantasia, esoterismo, Empoli (FI) 2007, pp. 34-40; G. de Turris, Cronache del fantastico. Science fiction, fantasy, horror su “L’Eternauta”, Roma 2009, pp. 173-175. 6 J.Tondrian, Guida all’occultismo, Milano 1966; P.A. Riffard, Storia dell’esoterismo, Genova 1987. 7 H. Biedermann, Handlexicon der Magischen Künste, Graz 1968; AA. VV., Bibliotheca magica, Firenze 1985; AA. VV., Bibliotheca esoterica, Paris 1996. 8 H.P. Lovecraft, Selected Letters, V, 1934-1937, Sauk City 1976; H.P. Lovecraft, Uncollected Letters, West Warwick 1986; H.P. Lovecraft, Lord of a Visible World. An Autobiography in Letters, Cleveland 2000. 9 Fusco, Storia del Necronomicon, cit., p. 34. 10 H.P. Lovecraft, Il vento delle stelle, a cura di S. Fusco, Roma 1998, pp. 179-181. 11 Per una lettura ario-sofica, vedasi il classico e discusso G. von List, Il segreto delle rune, Mi-
lano 1994. 12 L’autore della Carta marina (1539) e della Historia de gentibus septentrionalis (1555), fratello di Johannes (il fondatore del Goticismo svedese a metà del secolo XVI, estensore della celebre Historia de omnibus Gothorum Regibus nel 1554). I due videro nelle pietre runiche, collezionate e interpretate poi da Worm, la prova dell’antichità della cultura scandinava, convinti che le grandi pietre runiche dovessero essere state trasportate nel Nord Europa da giganti, vissuti in ere primordiali, con buona probabilità assai prima del Diluvio biblico. Scopo comune dei due Magnus era naturalmente anche quello di descrivere e far conoscere i paesi nordici, con la loro geografia ed etnografia, ai dotti continentali. Nella Carta marina, compare il mitico guerriero Starkader (G. Chiesa Isnardi, I miti nordici, Milano 1991, pp. 254 e segg.), con una tavoletta runica sotto braccio. Queste rune erano analoghe a quelle che i fratelli avrebbero pubblicato tre lustri dopo, nel loro alfabeto gotico, dove lettere latine si ritrovano associate ai caratteri runici, in ordine progressivo. Olaus Magnus era sicuro che i popoli nordici possedevano il loro antico linguaggio da tempi immemorabili, che si perdevano nella leggenda. A conti fatti, onorò la sua terra, ne preservò antichi monumenti e fece conoscere la storia delle nazioni settentrionali presso una più larga schiera del ceto colto di allora. Il passo successivo, ossia il collegamento fra Goti e Iperborei, venne compiuto prima dall’opera di Jacob Ziegler – Schondia è del 1532 – e poi nel Seicento dal grande Olof Rudbeck. Questi, influenzato dall’Edda di Snorri Sturleson (L. Lun, Mitologia nordica, Roma 1987, pp. 49 e segg., 193 e segg.), identificò nella sua Svezia l’Atlantide di Platone. Amico di Celsius e di altri membri della comunità scientifica svedese, stimato e influente sino al Settecento di Linneo, Rudbeck diffuse la convinzione che l’idioma dei Goti fosse la lingua parlata prima della confusione linguistica, causata dalla Torre di Babele (T. Karlsson, Le rune e la Kabbala, Roma 2007, pp. 29 e segg.). 13 Si tratta di due corni fabbricati in oro, uno più corto dell’altro, scoperti a Gallehus, a nord di Thander, nello Jutland meridionale, in Danimarca. Il più lungo dei due – quello la discussione sul quale coinvolge per l’appunto Worm, Liceti e Bartholin – venne ritrovato nel 1639, mentre il secondo nel 1734, a quindici-venti metri dal luogo della prima scoperta. La datazione risale al V secolo, circa. Vi sono raffigurate figure mitologiche ed il più piccolo dei due contiene un’iscrizione in proto-norreno. 14 J. Benediktssom, Ole Worm’s correspondence with Icelanders, Copenhagen 1948. 15 T. Karlsson, La Kabbala e la magia goetica, Roma 2005. 16 N. Pennick, Secrets of the Runes, London 1998. 17 O.Worm, Laurea philosophica summa, Hafniae 1619. Il tipografo è Henricus Waldkirchius.
Esoterismo
18 M. Marra, Il Pulicinella filosofo chimico di Severino Scipione (1681). Uomini e idee dell’alchimia a Napoli nel periodo del Viceregno, Milano 2000, pp. 91 e segg.; D. Arecco, Una storia sociale della verità. La scienza anglo-italiana dal XVI al XVIII secolo, Roma 2012, pp. 23-31. 19 La Controversiarum medicarum exercitatio (Hafniae 1624-1652), stampata da Solomon Sartorius, raggruppa più testi, incluse alcune dissertazioni anatomiche del 1630. Il medesimo tipografo fece uscire dai propri torchi (Hafniae 1638) il trattato De artis medicae et corporis sani conservatione, parte dei più voluminosi Medicarum institutionum libri (Hafniae 16361639) e comprendente anche il De corporis aegri dignotione. La Synopsis methodica, un catalogo di rarità naturali e artificiali messe assieme da Worm, fu edita infine a Copenhagen da Petrus Hakius nel 1653. Worm si occupò anche di zoologia: la sua Historia animalis, compendio di fauna norvegese dal titolo pseudo-aristotelico – ma le analogie si fermano qui – venne impresso nella capitale del Regno danese da Georg Lamprecht, nel 1653, e fu l’ultima opera di rilievo composta dal biologo nordico. Postuma, vide la luce – a Helmstadt, per i tipi di David Muller, nel 1679 – la De duello dissertatio, silloge di scritti (di Worm e Camerarius, tra gli altri), curata da Johann Joachim Mader (1626-1680). 20 O. Worm, Museum Wormianum, Leiden 1655, p. 327. A completare tale catalogo, stampato dagli Elzeviri, fu il figlio del da poco scomparso Worm, Willum. Il significato culturale e il valore scientifico dell’opera non sfuggirono ai migliori spiriti seicenteschi. Il museo wormiano divenne così un precoce modello di raccolta
e catalogazione: ancora il gesuita tedesco Athanasius Kircher (1602-1680) lo prese ad esempio, nel Collegio romano, per le sue collezioni (F. Buonanni, Musaeum Kircherianum, Roma 1709; D. Arecco, Il sogno di Minerva. La scienza fantastica di Athanasius Kircher, Padova 2002). 21 Il catalogo completo è stato riedito da H.D. Schepelern, Museum Wormianum, Copenhagen 1971. Una parte di quelle collezioni si trova oggi presso il Museo di Stato storico-naturale di Copenhagen. 22 P. Burke, Storia sociale della conoscenza. Da Gutenberg a Diderot, Bologna 2002, pp. 140142. 23 Ivi, p. 253. Worm si tenne poi sempre informato circa le novità che, dall’Oriente, recavano con sé i missionari gesuiti. I suoi molteplici interessi abbracciavano difatti anche la Cina e per questo motivo chiese espressamente al figlio Willum, allora in Olanda, di ragguagliarlo riguardo agli spostamenti di padre Martini – uno dei fondatori della sinologia moderna – nel porto d’Anversa (ivi, p. 77). 24 G. Dumézil, La saga di Hadingus. Dal mito al romanzo, Roma 2001, p. 203. P.98, 108 e 109: Frontespizio e pagine a colori dell’‘Edda’, raccolta di racconti epici di mitologica nordica; p.105 a sin.: H.P.Lovecraft; p.105 a destra: Holaus Worm; p. 106, 107, 110 e 113: Dipinti di varie epoche raffiguranti ‘Wunderkammer’; p.106 in alto: Stampa da un’edizione della ‘Musei Wormiani Historia’, 1655; p.108 in basso: Manoscritto in caratteri runici; p.111 e 112: Materiali da attuali collezioni di ‘mirabilia’.
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L’ Massoneria
Massoneria e lega anti-massonica nella storia americana Nico Perrone
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invito di “Annales” a ricostruire una vicenda intricata e quasi sconosciuta di lotta politica negli Stati Uniti, fra l’Anti-Masonic Party (detto anche Anti-Masonic Movement) e le logge che avevano assunto un grande peso al vertice della Confederazione, mi è giunto molto gradito e ringrazio Aldo Alessandro Mola che ne è stato il promotore. Avrò così modo di dimostrare il peso che la Massoneria esercitò ai vertici politici americani. Lo farò laicamente, perché non sono massone, ma su queste vicende ho fatto ricerche e ho scritto più diffusamente nel mio libro appena pubblicato, Progetto di un impero. 1823. L’annuncio dell’egemonia americana infiamma la borsa (Napoli, 2013). Negli Stati Uniti, dopo le elezioni del 1824, la nomina di John Quincy Adams (1767-1848) alla presidenza fu il risultato di un’avventura burocratica inverosimile. Presentatosi come indipendente, egli era stato sconfitto nelle votazioni, avendo ottenuto soltanto 113.122 voti popolari (30,9 per cento) contro i 151.271 (41,3 per cento) andati all’altro candidato, Andrew Jackson (1767-1845). Il più suffragato alla votazione era stato dunque Jackson, ma il regolamento elettorale conteneva delle disposizioni particolari, che Adams seppe utilizzare molto bene. Jackson dalla sua parte aveva avuto i voti e un passato di valoroso combattente nella guerra del 1812. Adams possedeva invece il potere della sua famiglia, che aveva già dato un Presidente e finì perciò con l’essere insediato alla Casa Bianca. Adams aveva ottenuto anche 84 electoral votes contro i 99 andati a Jackson (Partito democratico-repubblicano). Gli altri voti si dispersero, andandone 41 a William H. Crawford (1772-1834) e 37 a Henry Clay, Sr. (1777–1852). In base alle norme elettorali del tempo e al XII emendamento della Costituzione americana, non avendo nessun candidato ottenuto i 131 electoral votes necessari, la decisione dovette essere presa dalla Camera. Qui il cognome Adams poteva contare su un peso storico. Ma ci fu un altro fattore. Clay, anch’egli sconfitto in quell’elezione, orchestrò alla Camera l’appoggio di Adams, che avrebbe sbarrato la strada al suo avversario Jackson. All’operazione contribuì, con la sua autorità, anche James Monroe (1758– 1831) e alla fine Adams, senza aver vinto le
elezioni, venne proclamato d’ufficio presidente, prescindendo dal risultato elettorale. Nella prima votazione di quel consesso, il 9 febbraio 1825, la vittoria venne attribuita a John Quincy Adams, senza bisogno di ulteriori procedure. Monroe, per calcolo politico o per mirata generosità, fu determinante nel favorire quella soluzione. L’assegnazione della presidenza al candidato che alle elezioni aveva ottenuto meno voti – da qualunque punto di vista si fossero analizzati i risultati – non si verificò più, perché dopo quell’episodio le regole elettorali ebbero dei cambiamenti. La nomina di Adams a presidente non fu il risultato del voto democratico, ma l’effetto di una decisione di palazzo, resa possibile da una legge che consentiva una procedura veramente singolare. Quella procedura aveva avuto però un precedente anche nel 1801, con la nomina di Thomas Jefferson (1743-1826) alla Casa Bianca. Una spiegazione della inverosimile forzatura della regola democratica fondamentale a favore di Adams – dietro lo schermo di una copertura puramente formale – poteva cercarsi probabilmente nel timore di consistenti ambienti politici, intenzionati a non consentire che avvenisse un nuovo insediamento della Massoneria al vertice dello stato. Quella era una organizzazione molto presente nella élite americana, che rispondeva a proprie regole interne, le quali potevano superare la trasparenza democratica. Questo dovette essere all’origine sia della nascita di un partito anti-massonico, sia dell’appoggio decisivo dato a esso nell’insediare Adams alla presidenza. Nella durezza della lotta politica si dovette ritenere che il superamento delle regole sostanziali della democrazia potesse essere utile per arginare, nella fase iniziale dell’organizzazione dello stato americano, il consolidarsi del potere massonico che suscitava forti preoccupazioni. Adams cercò di rabbonire il rivale messo fuori gioco assecondando sulle prime la proposta di Monroe di offrirgli la Segreteria di stato, ma quella soluzione venne respinta da Henry Clay, Senior (17771852), e perciò segretario di stato per tutto il mandato presidenziale venne nominato lo stesso Clay. Nel suo ruolo di Speaker of the House, Clay era stato determinante per far decidere a favore di Adams. Sistemata la nomina alla presidenza, per la
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completa definizione della faccenda restava da ricompensare Clay per il peso che aveva esercitato. Adams, appena insediato, nominò perciò Henry Clay segretario di stato. L’intera vicenda sarà ricordata come “The Corrupt Bargain”, un affare di corruzione. Jackson, che era stato battuto mediante quella macchinazione, fece pesare in diversi modi il suo risentimento durante l’intero mandato di Adams, e inoltre riuscì a sbarrare la strada alla rielezione di Adams dopo il primo mandato. Clay invece sarà eletto presidente nel 1829. Adams aveva fatto una campagna elettorale imperniata su un forte patriottismo e soprattutto sulla lotta contro la Massoneria (Jackson era notoriamente massone).
In tal modo aveva impressionato favorevolmente diversi esponenti del potere. Egli tentò di farsi rieleggere alla presidenza e nel 1828 si presentò col National Republican Party. Ottenne 83 electoral votes e 642.553 popular votes (43,6 per cento). Vinse invece Jackson, con 178 electoral votes e 500.897 (56 per cento) popular votes. La Massoneria ha avuto grande peso fin dal principio nella storia politica degli stati Uniti, attraverso propri esponenti insediati nelle massime cariche. Per meglio dire, nella storia americana la Massoneria è apparsa perfino dominante in momenti decisivi. Si trattò di una presenza che trovò delle analogie anche nei vertici dei paesi europei, ma negli Stati Uniti essa 115
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fu chiaramente visibile, per le caratteristiche di non segretezza che i massoni generalmente avevano voluto darsi in America. Ne è conseguito che taluni caratteri ed emblemi massonici sono stati inseriti anche nei disegni urbanistici e architettonici della capitale federale degli Stati Uniti. Tutto questo era incominciato, anche simbolicamente, con George Washington (1732-1799), primo Presidente (17891797) della Confederazione statunitense. Egli era stato iniziato in una loggia massonica il 4 novembre 1752. Quella loggia è stata trasformata in seguito nel George Washington Masonic Museum di Fredericksburg City, Virginia. Washington era passato al 2° grado di Compagno (passed) il 3 marzo 1753 ed era stato elevato (raised) al 3° grado (Maestro) il 4 agosto 1753: era avvenuto tutto alla Fredericksburg Lodge (divenuta poi la loggia No. 4) di Fredericksburg, Virginia. Il 28 aprile 1788 egli fu Maestro Venerabile alla fondazione (Charter Master) della loggia Alexandria Lodge No. 22 di Alexandria, Virginia, e venne rieletto in quella carica il 20 dicembre 1788. Egli appartenne inoltre ai Knights Templar, i cavalieri templari. Fu insignito (I maggio 1776) di The Most Noble Order of the Garter, l’ordine cavalleresco britannico che risaliva al Medioevo. Dopo il nome di Washington, negli incartamenti massonici si è ritrovato quel116
lo del quinto Presidente, James Monroe. Egli era stato iniziato il 9 novembre 1775 alla Williamsburg lodge No. 6 di Williamsburg, Virginia. Il suo nome si è trovato anche nei documenti della Cumberland Lodge No. 8, del Tennessee, sotto la data dell’8 giugno 1819, ove egli veniva definito “a Brother of the Craft”, ossia un Fratello Massone. L’appartenenza alla Massoneria è documentata pure per diversi altri. Andrew Jackson (1767-1845), settimo Presidente (1829-1837), fu Gran Maestro del Tennessee dal 1822 al 1823. Tracce della sua presenza sono rimaste nella Clover Bottom Lodge, dipendente dalla Grand Lodge of Kentucky. Si sono rinvenute anche indicazioni della sua presenza in loggia a Greeneville, Tennessee, nel 1801; egli esercitò temporaneamente la carica di Primo Sorvegliante (Senior Warden). Gli incartamenti della St. Rammany Lodge No. 29 di Nashville, Tennessee (divenuta poi Harmony Lodge No. 1, nella giurisdizione della Grand Lodge of Tennessee) hanno attestato la sua appartenenza. James Knox Polk (1795-1849), undicesimo Presidente (1845-1849), era stato iniziato, portato al 2° grado di Compagno ed elevato a Maestro di 3° grado nella Columbia Lodge No. 31 di Columbia, Tennessee. Passato dal 3° grado massonico (exalted) a Royal Arch. Mason alla Fayette Chapter No. 4 di Columbia, nel 1825. Ja-
mes Buchanan (1791–1868), quindicesimo Presidente (1857-1861), fu iniziato invece l’11 dicembre 1816 alla loggia 43 di Lancaster, California. Passò dal 2° grado di Compagno e venne elevato a Maestro nel 1817, secondo sorvegliante (Junior Warden) nel 1821 e nel 1822; ancora Maestro nel 1825, infine Gran Maestro della Grand Lodge of Pennsylvania. Andrew Johnson (1808-1875), diciassettesimo Presidente (1865-1869), fu iniziato, passato al 2° grado di Compagno ed elevato a Maestro al 3° grado alla Greeneville lodge No. 119 (divenuta poi la loggia No. 3 di Greeneville, Tennessee) nel 1851. Probabilmente fu membro del Greeneville Chapter No. 82. Fu Royal Arch Masons fin da quando visse a Nashville, Tennessee. Nel 1859 fu Commandery (ruolo generalmente amministrativo, che ebbe origine nella Massoneria Scozzese) del Knights Templar No. 1. Infine, dev’essere ricordato un altro fatto simbolico molto importante: nel 1867 egli volle ospitare nella sede presidenziale della White House una riunione dei gradi più elevati della Massoneria dello Scottish Rite. James Abram Garfield (1831-1881), ventesimo Presidente (1881), fu iniziato, passato al 2° grado di Compagno alla Magnolia Lodge No. 20 di Columbus, Ohio. Nel 1864 venne elevato a Maestro del 3° grado alla Columbus Lodge No. 30. Fu affiliato nel 1866 alla Garrettsville Lodge No. 246. Nel 1869 fu fra i fondatori (Charter Member) della Pentalpha Lodge No. 23 di Washington. Nel 1866 passò dal 2° grado di Compagno al Columbus Royal Arch Chapter e divenne anche Knight Templar; nel 1872 fu 14° grado dello Scottish Rite. Sul totale dei venti Presidenti del periodo che va dal 1789 al 1881, sette risultano massoni con un curriculum documentato. In termini statistici – escludendo i templari e altre osservanze che pure furono presenti fra i Presidenti – si deve concludere che più di un terzo della massima carica degli Stati Uniti di quel periodo appartenne alla Massoneria. Si è trattato dunque di un fenomeno di ampie dimensioni, che può fare riflettere sulla impostazione delle linee portanti della politica interna e internazionale degli Stati Uniti, che vennero a definirsi proprio in quel periodo. A proposito di altri Presidenti di quel periodo, per Thomas Jefferson, presidente dal 1801 al 1809, si è notato che nella hall del George Washington Masonic Me-
morial di Alexandria, Virginia, edificato negli anni Venti del XX secolo, è stato collocato un grande quadro che lo ritrae in visita da George Washington. È stato notato che quel quadro, in quel luogo, avesse qualche significato: ma non si trattava di una prova di appartenenza massonica. Jefferson fu membro invece della Collins Family of Satanists, un gruppo che teneva riti di occultismo e di carattere sessuali. Per altri quattro Presidenti, si è parlato – ma senza una inoppugnabile documentazione – di appartenenza massonica. Essi furono Martin Van Buren (1782-1862), ottavo Presidente (1837- 1841), contro il quale nella campagna elettorale si era inutilmente attivato lo Anti-Masonic Party; John Tyler (1790-1862), decimo Presidente (1841-1845); Zachary Taylor (1784-1850), dodicesimo Presidente (1849-1850); e infine Franklin Pierce (1804- 1869), quattordicesimo Presidente (1853-1857). Anche per Abraham Lincoln (1809-1865), Presidente dal 1861 al 1865, si è parlato di una filiazione massonica, ma non se ne trovarono mai le prove. Per restare alle cariche più elevate della Confederazione, si potrebbe ricordare che George Washington, per la Supreme Court of the United States scelse nove massoni sugli undici giudici da lui nominati. Nella politica americana delle origini decideva una élite ristretta: erano tutti bianchi, abbienti e di sesso maschile. In tutti gli Stati Uniti, il voto allora veniva espresso da circa 300 mila persone (per un termine di raffronto: la popolazione americana, nel 1820, era di 9.638.453 abitanti, dei quali i bianchi erano 7.866.797; nel 1830, 12.860.702, bianchi 10.532.060). L’America politica era stata costruita risolvendo enormi problemi e superando complesse difficoltà internazionali. Protagonista di tale processo era stato un gruppo di immigrati europei, i quali vollero contare su strutture di governo che fossero espressione della classe dominante. La necessità immediata era quella di tenere il paese unito intorno agli interessi di un numero facilmente controllabile di elettori. Tale condizione era necessaria anche per dare alla Confederazione una grande forza politica, che servisse alla difesa verso l’esterno. Questa esigenza do-
Massoneria vette essere talmente sentita in quella élite, che la Massoneria venne ad assumere presto, quasi per necessità - data la sua capacità di forte coesione - una rilevante presenza al vertice del potere, forse con maggiore incidenza, e minore segretezza, di quanto non fosse avvenuto in Europa. Il fenomeno non poteva mancare di determinare, all’interno della stessa élite americana, delle reazioni di senso opposto e molto pugnaci: naturalmente nelle forme politiche del tempo, con contrapposte analogie. Negli stati Uniti si dovette annoverare perciò anche il menzionato Anti-Masonic Party, formalmente costituito a New York nel 1828 ma attivo da qualche tempo prima, operante anche a Washington e in altre importanti località. Esso aveva nei suoi programmi la conquista di diverse cariche dello stato, compresa quella massima, organizzandosi per tali finalità come il terzo partito americano. Partecipava perciò a tutte le competizioni elettorali. Si faceva conoscere attraverso veri e propri congressi nei quali designava i candidati. Questo partito – pur essendo laico nella sua ispirazione – trovava dei sostegni nelle chiese, preoccupate anch’esse per il peso che la Massoneria stava sempre più assumendo nella vita americana, e non solo nella politica. Ispirato da questo partito, intorno al 1827 si era affermato, specialmente a New York, un movimento d’opinione di considerevoli dimensioni, che organizzava pubbliche riunioni per contrastare l’avanzata della Massoneria. I partecipanti a quei raduni chiedevano di sostenere nelle cariche politiche soltanto i candidati che non fossero massoni e che s’impegnassero a opporsi alla Massoneria. A New York, i sostenitori di Adams – detti Adams Men o Anti-Jackson Faction – non erano molto forti e andavano per-
ciò alla ricerca di motivazioni ideali per sostenere la loro causa. Le cercarono anche attraverso il partito anti-massonico, che così crebbe di dimensioni. In questa organizzazione si vide una struttura molto forte che servisse a contenere l’ascesa della Jacksonian Democracy. Era proprio quello che serviva a John Quincy Adams. Ed egli – uomo politico molto abile, che sapeva precorrere i tempi – se ne servì con successo, incominciando a cavalcare quegli stati d’animo ancor prima che essi si articolassero in un partito. Questa operazione politica di Adams fu agevolata dalla notorietà dell’appartenenza massonica di Jackson e dalle sue aperte prese di posizione a favore della Massoneria. Nelle elezioni del 1828 il partito anti-massonico si rivelò molto forte, specialmente a New York. Dal 1829 esso riuscì a interpretare sentimenti molto diffusi nell’elettorato. Ma non si limitò a questo, perché fu anche promotore di campagne a sostegno di opere pubbliche e di tariffe doganali protezioniste, auspicate dall’economia americana. Questo partito pubblicò numerosi periodici locali, e uno che ebbe una diffusione molto più ampia, “The Albany Evening Journal”. Esso fu diretto da Thurlow Weed (1797–1882), un giornalista d’attacco molto noto. “The Albany Evening Journal” era particolarmente diffuso a New York, ove divenne sempre più influente. Esso fu un sostegno assai significativo per l’affermazione politica di Adams. Nei suoi articoli utilizzava un linguaggio esplicito e duro, che allora non era frequente nel dibattito politico. P. 114: John Quincy Adams (1767-1848), sesto Presidente degli Stati Uniti; p.115: Libello antimassonico d’epoca; p.116 e 117: Presidenti americani su banconote statunitensi.
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Antimassoneria Luca Bagatin
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a persecuzione antimassonica, chissà mai perché, non fa gran che notizia. Sarà perché ci hanno voluto far credere che la Massoneria è un centro di “poteri occulti”, centro segreto di chissà quali nefandezze mafiose e criminali. E dunque, pertanto, i massoni meritano di essere perseguitati. È antica la persecuzione antimassonica ed è stata costruita ad arte, sin dai tempi più antichi. Pensiamo al Medioevo, ove le varie confraternite gnostiche, catare, esoteriche saranno perseguitate dalla Chiesa cattolica in quanto considerate “eretiche”, poiché ritenevano che la Divinità andasse ricercata anche in sé stessi, senza l’ausilio di sacerdoti o di Papi. Pensiamo al Settecento, ove le prime Logge massoniche, le quali recuperavano proprio le tradizioni delle antiche confraternite, erano guardate con sospetto da Trono ed Altare, ovvero dai Re e dai Papi, i quali ritenevano che in esse potessero annidarsi pericolose sette rivoluzionarie e sarà così per tutto l’Ottocento, al punto che vi saranno anche massoni farlocchi come Léo Taxil che faranno soldi a palate inventandosi di rituali orgiastici in seno alle Logge massoniche e della presenza dello stesso Belzebù a capo dei lavori. Il Novecento, invece, sarà il secolo delle dittature, le quali non mancheranno di imprigionare i massoni nei lager, nei gulag, di mandarli al confino, come in Italia, ove saranno bruciati gli arredi dei Templi e distrutte le Logge. Ed anche nella solo formalmente democratica Italia di trent’anni dopo la liberazione dal fascismo, ecco rispuntate pericolose leggi e tendenze antimassoniche. Dal 1975 al 2000, infatti, la Massoneria italiana subirà le più grandi persecuzioni mai avvenute. Ce lo raccontarono e ce lo raccontano diversi studiosi, fra cui Pier Carpi, il prof. Luigi Pruneti, il prof. Aldo A. Mola, ma c’è un bel libretto, patrocinato dalla Gran Loggia d’Italia degli ALAM ed edito da Arktos nel 1998, che merita particolare attenzione e dal quale ho avuto modo di attingere ulteriori informazioni. È scritto da Donatello Viglongo, già Gran Segretario Aggiunto del Grande Oriente d’Italia dal 1976 al 1981 ed ha il titolo significativo di Roghi di Stato. Veri e propri roghi, quelli raccontati da
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Viglongo, che ebbero inizio con il falso scandalo P2, sollevato inizialmente da presunti “massoni democratici”, proseguito con la sottrazione e la pubblicazione degli elenchi di gran parte dei massoni d’Italia e di un presunto elenco di affiliati alla Loggia Propaganda nr.2, gettati così in pasto alla gogna mediatica e conclusosi il tutto con assoluzioni piene con sentenze definitive del 1994 e del 1996. In effetti che cosa era la Loggia P2, se non una Loggia particolare, fondata alla fine dell’800, al fine di raccogliere personalità importanti del mondo della cultura, della politica, delle forze armate, dell’industria del Paese che, per ragioni di particolare
riservatezza avevano necessità di tenere nascosta la loro appartenenza all’Ordine massonico? Erano costoro dei criminali? Erano criminali Giosue Carducci, Ernesto Nathan, Menotti Garibaldi (primogenito dell’Eroe dei due Mondi e di Anita), Aurelio Saffi, Agostino Bertani e, in tempi più recenti, il repubblicano Emanuele Terrana, il comico Alighiero Noschese, il cantante Claudio Villa, lo scrittore Roberto Gervaso, il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa? Difficile da credere. Tanto più che, costoro, non si riunirono mai tutti assieme. E, pertanto, ma complottarono contro alcunché, come invece scrissero i media e raccontò la Commissione parlamentare presiedu119
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ta dall’On. Tina Anselmi e da altri parlamentari, i quali nulla o quasi nulla conoscevano di ritualità massonica. Fu, ad ogni modo, quella del falso scandalo P2, occasione ghiotta per la politica di allora e per i mass media di gettare un po’ di fumo negli occhi nei confronti dei cittadini-elettori. Ricordiamoci che eravamo in pieno fermento terroristico e di lì a poco la gran parte della classe politica di allora avrebbe lasciato morire Aldo Moro per mano delle Brigate Rosse, in nome di una presunta “fermezza” (sic !). Ed allora, come un tempo Hitler in Germania dette la colpa della crisi economica agli ebrei, ecco che i politici, i magistrati, i “massoni democratici” in odor di potere ed i mass media a caccia di gossip, si inventarono la tesi golpista ordita dai massoni della P2 e, via via, dall’intera Massoneria, vi120
sto che anche l’altra grande Obbedienza italiana, la Gran Loggia d’Italia, subì inchieste e controinchieste ignominiose. Ed a nulla servì il documento conclusivo stilato dalla Federazione Internazionale dei Diritti Umani (FIDH), nel quale fu chiaramente scritto che “La Delegazione ha, infine, ravvisato in tutta la vicenda speciosamente montata, oltre i limiti tollerabili del buon gusto e del buon senso comune, qualcosa che va al di là del fatto specifico in questione. Per motivi occulti, ma facilmente intuibili sia il “Raggruppamento Gelli, sia la Massoneria italiana del GOI, sono stati usati e dati in pasto all’opinione pubblica per galvanizzarla e sviarla da altri importanti problemi che da troppo tempo assillano la società italiana”. Di tale documento, infatti, per anni non ne abbiamo mai sentito par-
lare. Ce lo riporta integralmente Donatello Viglongo, nel suo prezioso saggio. Curioso poi, che, allorquando i massoni della P2 e tutta la Massoneria italiana sarà assolta con sentenze definitive da ogni capo di imputazione di “complotto ai danni dello Stato” (sic !), il Grande Oriente d’Italia non abbia mai speso una parola, tanto da ritenere tutt’oggi i cosiddetti “piduisti”, ancora dei criminali (sic !). Per carità, le pecore nere sono d’appertutto ed alcune erano annidate anche nella Loggia Propaganda nr. 2, ma per il resto i suoi componenti erano tutti dei galantuomini, fra i quali possiamo annoverare anche il Generale in pensione Umberto Granati, che è un caro amico e che alcuni hanni fa ha raccontato la sua triste vicenda, fortunatamente finita bene, in Diario di un piduista (Verona, 2009) e che, chi scrive, ha avuto il piacere di recensire. Come se la prima persecuzione antimassonica non avesse danneggiato già abbastanza l’immagine della Massoneria, ecco, negli anni ‘90, spuntarne subito un’altra. Pochissimi infatti sanno o ricordano che, negli anni ‘90, un’inchiesta senza alcun fondamento, introdusse in Italia una nuova Santa Inquisizione. Una Santa Inquisizione guidata dall’allora magistrato di Palmi Agostino Cordova, il quale scatenò una vera e propria battaglia inquisitoria contro cittadini onesti, rei unicamente di appartenere alla Massoneria. Di tutto ciò nessuno ricorda pressoché nulla, oppure si continua ancora a nascondere la verità, nonostante ci siano state sentenze definitive che hanno stabilito che Cordova aveva torto marcio. Ma, oramai, molte famiglie e molte carriere erano state distrutte. Storia di ordinaria ingiustizia in un Paese nel quale il magistrato sembra avere ragione anche quando ha torto. Ad ogni modo, ancora una volta, questa inchiesta faceva guadagnare fior fior di quattrini a certa stampa scandalistica, con particolare riferimento alle solite “La Repubblica” e l’“L’Unità” che sulla caccia al massone avevano costruito la loro presunta credibilità. E a poco, anche allora, servirono gli interventi e le aperture di Gran Maestri quali Renzo Canova di Piazza del Gesù, il quale, come il suo predecessore Giovanni Ghinazzi, aveva ben pensato di
aprire i Templi massonici e di garantire la massima trasparenza. Agostino Cordova, magistrato, evidentemente completamente digiuno di Massoneria e con nessuna voglia di informarsi, ipotizzò infatti un “teorema” totalmente privo di qualsiasi fondamento e disse: poichè qui in Calabria c’è la ‘ndrangheta ed in Sicilia la mafia che tramano contro la stabilità dello Stato, allora dietro a loro c’è la Massoneria che trama nel segreto. Ma quale arguzia, per un servitore dello Stato ! Tutto ciò è più che evidente che rimanesse un teorema astratto ed un magistrato non può certo basarsi su congetture, bensì dovrebbe farlo per mezzo di prove concrete, indizi, magari raccolti da Polizia e Carabinieri, prima di lanciare accuse ed inchieste. Ma il Cordova aveva già stabilito che i massoni italiani erano tutti colpevoli e, dunque, da inquisire. Fu così che si attivò per acquisire tutti gli elenchi dei massoni italiani, alcuni dei quali finiranno anche in pasto ai media, come se fossero una lista di proscrizione, fatta di delinquenti abituali. Inutile dire che le più colpite furono le due maggiori Obbedienze massoniche italiane: Grande Oriente d’Italia e Gran Loggia d’Italia, con il maggior numero di iscritti. Persone comuni, liberi professionisti, pensionati, operai. Cittadini italiani paganti le tasse come tanti altri. Con la sola “abitudine” di frequentare Logge massoniche per la loro evoluzione spirituale ed interiore! Fatto sta che, tutto ciò, dopo aver fatto spendere alle casse dello Stato fior fior di quattrini per l’inchiesta ed aver rovinato numerose famiglie e carriere, non portò a nulla. Nessun reato era stato commesso. Come volevasi dimostrare: un teorema senza prove è e rimane una congettura. E fu così che la Suprema Corte di Cassazione stabilì che Agostino Cordova aveva palesemente violato la Costituzione della Repubblica Italiana agli Articoli 13 e 14, che stabiliscono che la libertà personale ed il domicilio sono inviolabili e non sono ammesse forme di detenzione, ispezione e perquisizione se non per atto motivato. Inoltre il Cordova aveva violato gli articoli 247 e 253 del codice di procedura penale. Purtroppo, però, il danno economi-
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co per le casse dello Stato era ormai stato fatto e così il danno morale per i cittadini ingiustamente coinvolti. Il 23 settembre del 2003, il magistrato Cordova sarà peraltro allontanato dal Tribunale di Napoli e giudicato inadeguato. Ancora in tempi recenti si è tentato, in alcune amministrazioni pubbliche, di reintrodurre la legislazione fascista che impone ai dipendenti statali di dichiarare la propria appartenenza ad associazioni quali la Massoneria, ciò in palese violazione della Costituzione. Fortunatamente gli organismi internazionali e democratici hanno sempre bocciato tali legislazioni liberticide.
Sarebbe interessante, anziché raccogliare un elenco degli affiliati alle varie Obbedienze massoniche italiane, raccogliere un elenco dei politici, magistrati, giornalisti ed amministratori pubblici che hanno fatto della persecuzione alla Massoneria il loro cavallo di battaglia e la loro principale fonte di guadagno. Tale elenco andrebbe ricordato e diffuso al fine di avere contezza di chi sono i veri nemici della libertà e della democrazia nel nostro Paese. P.118 e 119: Vignette satiriche di Achille Lemot del 1902; p.120: Copertina a colori di una ristampa del libello di Leo Taxil; p.121: Pamphlet sull’occultismo.
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Le chiavi del linguaggio simbolico Giovanni Pelosini 122
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ercezioni e interpretazioni della realtà Ciò che gli antichi testi vedici, i mistici orientali e gli iniziati occidentali hanno sempre affermato con i linguaggi adatti ai loro tempi e alle loro culture sta solo oggi cominciando a essere evidente anche grazie ai progressi degli studi nel campo della fisica quantistica. Sta diventando sempre più accettabile il concetto olistico di un universo costituito da particelle elementari subatomiche che si aggregano e si disaggregano in una danza eterna secondo le leggi della Materia, le quali attualmente sono soltanto parzialmente conosciute. A rendere dinamici quelli che un tempo erano chiamati Elementi consentendo che la vita si sviluppi nel cosmo è il principio conoscitivo: la Coscienza, che quindi sperimenta le innumerevoli possibilità di usare i sensi per percepire la grandezza e la complessità della realtà fenomenica. La Coscienza possiede vari modi per conoscere il mondo e infine avere consapevolezza della propria stessa esistenza: con i sensi ordinari dei corpi viventi raccoglie informazioni dall’esterno, con la mente le elabora e le compone in ordini funzionali, con la sua parte più profonda accede a una dimensione superiore, dove tutto è Uno, dove spazio e tempo sono relativi, dove le strutture razionali sono inutili, dove si può comprendere la realtà degli archetipi soltanto secondo la lingua universale dei simboli. La mente umana si trova ogni giorno a dover gestire innumerevoli pensieri, parole e gesti. I soli cinque ordinari sensi sono chiamati a registrare miriadi di stimoli diversi che la mente dovrà coordinare ed elaborare al fine di interpretare la realtà e crearne una propria personale visione. In particolare la vista è interessata da un numero incredibile di immagini, forme e colori, trasmettendo al sistema nervoso centrale le percezioni di energie, tonalità e soggettivi gradimenti: figure e segni trasmettono in questo modo messaggi che possono essere compresi, ovvero ignorati, a più livelli di coscienza; e i simboli agiscono in modo analogo. I simboli ci circondano e ci parlano continuamente nel loro linguaggio; viviamo in mezzo a essi ed essi vivono in noi,
anche se non ne siamo sempre consapevoli. Osservare tali simboli come messaggi dell’inconscio, o come oniriche ierofanie, può essere un’operazione cosciente di crescita personale, di gnostica condivisione dell’unica grande realtà di cui facciamo parte come esseri umani.
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‘In linea di massima, è proprio di ogni interpretazione veramente iniziatica di non essere mai esclusiva ma, al contrario, di abbracciare sistematicamente tutte le altre interpretazioni possibili; è per questa ragione inoltre che il simbolismo, con i suoi significati molteplici e sovrapposti, è il mezzo di espressione normale di ogni vero insegnamento iniziatico’ René Guénon Simboli della Scienza sacra
Ma, anche in assenza di questa azione cosciente, comunque i simboli possono rivelarsi a noi nell’ordinario quotidiano e nelle esperienze straordinarie, talvolta mimetizzandosi tra le immagini consuete che ci circondano. I simboli, infatti, sono ovunque, fuori e dentro di noi, sono eterni nella loro essenza e mutevoli nell’aspetto, come gli archetipi che rappresentano. I simboli talvolta sono “verità nascoste esposte in evidenza”, come direbbe Elémire Zolla, trovandosi nell’arte sublime e nella apparentemente più banale pubblicità, nelle religioni e nella politica, nella realtà fisica e in quella che ancora chiamiamo metafisica. Si trovano naturalmente nei sogni, perché utilizzano lo stesso linguaggio, e negli antichi miti, che furono narrati per generazioni prima ancora che la scrittura fosse codificata. Ancora oggi i simboli sono il fondamento della psicologia moderna, vivendo nell’immaginario individuale e in quello collettivo, in cui, come intuì Carl Gustav Jung, generano le forme del mito, gettano le basi delle civiltà, ispirano gli esseri sensibili a indagare nell’affascinante campo dell’ignoto. Per gli stessi motivi i simboli sono alla base delle creazioni artistiche di chi, mediamente più sensibile alle percezioni delle energie sottili, riesce a tradurli concretamente in opere che sono poi fruibili da tutti gli altri. Questo era forse il profondo senso del verso di Ovidio: “Et ignotas animum dimittit in artes” 1. E proprio in virtù di questa loro natura astratta e occulta, del fatto che, come affermava Jung, sono plurivoci, del loro presentarsi nei più oscuri sogni, “i simboli, con ogni evidenza, non sono fatti per tradurre quelle che siamo soliti definire ‘verità scientifiche’; restano elastici, vaghi e ambigui per natura, come le sentenze degli oracoli, in quanto la loro funzione essenziale consiste nello svelare i misteri, lasciando allo spirito tutta la sua 123
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libertà”2. Eppure, nonostante l’apparente vaghezza dei significati dei simboli, essi non sono inutili dal punto di vista cognitivo, come afferma anche Mircea Eliade: “Le immagini, i simboli, i miti non sono creazioni irresponsabili della psiche. Essi rispondono a una necessità e adempio124
no una funzione importante: mettere a nudo le modalità più segrete dell’essere. Ne consegue che il loro studio ci permette di conoscere meglio l’uomo”. La lingua dei simboli Naturalmente i simboli sono anche alla base codificata delle argomentazio-
ni astrologiche, così come in quelle tarologiche, offrendo a chi li conosce validi strumenti di interpretazione della realtà, un arricchimento cognitivo e formativo continuo e profondo, una grande libertà di pensiero, e diversi punti di vista, numerosi almeno quanto gli archetipi che vivono e si manifestano in noi e intorno a noi. Johann Wolfgang von Goethe affermava che il particolare rappresenta l’universale. Nello stesso modo i simboli possono richiamare significati che vanno oltre la loro stessa essenza, oltre la drammatizzazione mitologica, oltre la stessa ordinaria capacità cognitiva umana degli archetipi. Ciò è possibile in quanto i simboli usano un linguaggio che non è mediato dalle barriere mentali di ciò che chiamiamo comunemente intelletto e pertanto parlano direttamente alla parte più profonda e autentica dell’uomo senza filtri e senza censure. La parola “simbolo” deriva dal greco Symbàllein, che anticamente significava “mettere insieme”, quindi “unire”. Da ciò si deduce che in origine il simbolo era inteso come un ponte capace di unire la Materia e l’Anima attraversando il fiume della mente. Gli iniziati dell’antichità usavano come segreto se-
gno di riconoscimento cocci dello stesso vaso rotto che, una volta riuniti, combaciavano perfettamente: in questo caso l’etimologia fa ben comprendere come il “ponte” simbolico “metta insieme”, cioè riunisca ciò che era solo apparentemente separato. Il mezzo che usano i simboli per parlare al nostro profondo Sé è simile al linguaggio onirico che, per sua natura, si rivolge direttamente all’inconscio. Pertanto i simboli non necessitano di parole né di una lingua strutturata, che anzi appaiono essere ostacoli alla piena comprensione dei significati. L’inconscio non è in grado di confrontarsi con un approccio analitico o razionale come fa la mente: all’inconscio è sufficiente un’immagine, un colore, un simbolo, un tarocco che racchiuda in modo sintetico un intero mondo di significati e il messaggio è già arrivato al cuore. Nel sistema olistico organizzato chiamato cosmo, i simboli sono le chiavi della porta che permette il passaggio dalla visione convenzionale e parziale della realtà dicotomica e separata alla dimensione superiore della Matrice che la contiene e la genera. Operare consapevolmente con i simboli permette di sperimentare che la casualità puramente accidentale non esiste; permette di comprendere che esiste invece una finalità oggettiva oltre il limite spazio-temporale, il quale è comunemente accettato come assoluto dalla mente egoica. Come nei miti e nei sogni, così nelle immagini dei Tarocchi, i simboli non possono essere definiti perfettamente con le parole, perché è nella loro natura rivelare senza spiegare. Se potessimo completamente spiegarli e tradurli con il linguaggio verbale, essi diverrebbero semplici segni, vuoti di senso sacro e privi di contenuto emotivo come i convenzionali strumenti comunicativi e informativi, mentre i simboli sono ontologicamente formativi. È forse per questo motivo che lo scientismo li ignora e la ragione non li comprende, mentre l’arte li utilizza proficuamente come ponti fra la realtà percepita e il mondo non ordinario delle idee, delle energie, dello Spirito e di tutto ciò che è sacro. Funzioni dei simboli I simboli hanno altresì sviluppato un’esistenza autonoma sia come significanti che come significati, racchiudendo
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tutta l’energia degli esseri che li hanno per primi sognati, narrati ed eletti fra gli archetipi sacri e riportandoci ai tempi lontani in cui astrologia, magia, mito, religione, arte, scienza e poesia erano ancora un’unica monade. I simboli contengono tutta l’energia del pensiero cosmico e umano di millenni e di ere, e
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anche per questo possiamo immaginarli come “viventi”. Alle origini del senso dell’Unus Mundus, i simboli vivono nell’Anima e aprono le porte della Coscienza, al di là dei limiti personali o culturali e delle limitanti strutture mentali, oltre le pericolose abitudini, oltre le convenzionali e arbitrarie categorie. I simboli sono un
grande patrimonio dell’umanità e dimostrano la loro universalità operando, pur con alcune differenze culturali, nei più diversi contesti etnici di ogni latitudine e longitudine e di ogni tempo. Scrive Dion Fortune che “la presenza dei simboli, segni enigmatici e di significato misterioso, nelle tradizioni religiose, nel-
le opere d’arte, nei racconti e nei costumi folcloristici, attesta l’esistenza di un linguaggio universalmente diffuso in Oriente come in Occidente e il cui significato metastorico sembra collocarsi alla radice stessa della nostra esistenza, delle nostre conoscenze e dei nostri valori”. Tutte le culture e le tradizioni umane hanno utilizzato i simboli per elaborare codici meditativi strutturati, mediante i quali le idee a questi associate potevano essere accessibili anche a distanza di tempo e di spazio: “Ai mistici è ben noto che se un uomo medita su un simbolo attorno al quale sono state associate mediante la passata meditazione determinate idee, egli otterrà accesso a quelle idee…”4. Esiste dunque un linguaggio universale, non verbale né analitico, che non è pienamente comprensibile dagli emisferi cerebrali disgiunti, ma è perfettamente chiaro al profondo Sé contribuendo all’affrancamento del pensiero e dal pensiero. Tutto ciò che esiste e tutto ciò che accade, mai casualmente, può essere interpretato come significativa epifania di corrispondenze in realtà dimensionali diverse da quella comunemente accettata. Tale linguaggio universale degli archetipi, in un tempo lontano conosciuto e usato da tutti, fu codificato nei racconti mitici e trasmesso come “scienza” e patrimonio culturale nelle più antiche comunità umane. Oggi questa lingua universale è in gran parte dimenticata, ma ne possediamo ancora le chiavi di lettura e le capacità interpretative. Ancora oggi i simboli ci parlano continuamente e noi possiamo ancora comprenderli, soprattutto grazie ai codici che ci sono stati tramandati nei secoli. Il codice dei Tarocchi I Tarocchi sono gli eredi di uno di questi codici universali che si strutturò alla fine del Medio Evo come espressione figurativa degli antichi ed eterni archetipi che da sempre fanno parte della storia dell’umanità. La creatività artistica e culturale fiorente in Italia durante il Rinascimento ridette loro una forma e un nome dopo un lungo oblio, attingendo sincretisticamente alla simbologia alchemica, alle tradizioni pagane, ai miti classici e germanici, alla Cabala, alle mistiche islamica e cristiana, allo gnosticismo, all’ermetismo neoplatonico, al neopitagorismo, all’umanesimo. Il genio
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italico elaborò un gioco da tutta questa complessa e articolata commistione culturale umanistica, trasformando così l’antica e riscoperta sacralità dell’Uomo in manifestazioni creative, artistiche, meditative e narrative ispirate. Si forma-
rono così i 22 Trionfi da unire alle restanti 56 carte, eredi degli antichi Naibi importati dall’Oriente, ormai consolidate nella classificazione dei quattro semi Coppe, Bastoni, Denari e Spade, emblemi degli Elementi e di ogni altra quadri127
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partizione fisica e metafisica del mondo. Nel tempo presero la forma, l’ordine e la struttura attuali le 78 immagini dei Tarocchi, che furono espressione della sensibilità artistica e narrativa di innumerevoli mistici, pittori e letterati, prima 128
ancora che raffinato gioco didattico morale nelle corti rinascimentali, macchina filosofica per gli iniziati e strumento ludico e divinatorio nelle mani del volgo. “Serviamoci dei vizi, delle passioni dell’uomo per preservare il patrimonio
dei nostri sacri misteri. Esprimiamo la nostra dottrina esoterica simbolicamente con delle figure apparentemente innocenti che possano essere duplicate all’infinito e appagare la passione per il gioco. Quasi tutti useranno le figure solo per giocare, altri per la divinazione, e solo alcuni sapranno interpretarne il significato segreto”. Così, secondo una leggenda russa riportata da Van Rijnberk5, i saggi ierofanti di un’antichissima e perduta civiltà decisero di trasmettere ai posteri tutta la conoscenza segreta, la sapienza degli iniziati, la tradizione esoterica e l’arte di indagare il mistero e il senso della Vita con le figure simboliche dei Tarocchi. Secondo questa leggenda i Tarocchi sarebbero un “libro” di sole figure: un libro senza parole che si esprime nel linguaggio universale dei simboli, l’unica lingua che parla direttamente al cuore, senza codici, senza sovrastrutture, senza schemi mentali, senza spiegazioni; una traccia di un passato dimenticato, un messaggio per l’umanità che proviene dalla notte dei tempi grazie all’innata passione umana per il gioco. Il messaggio di conoscenza, saggezza e amore, che ci viene così tramandato da tempi immemorabili è arrivato fino a noi attraverso molte vicissitudini: i simboli dei Tarocchi sono sopravvissuti ai volumi bruciati nelle biblioteche, alle incisioni sulle tavole d’oro fuse dall’ingordigia umana, ai molti monumenti rovinati, alle tradizioni orali disperse, perfino ai roghi delle stesse carte da gioco imposti dall’integralismo ante litteram di Bernardino da Siena nel 1423. Alcuni simboli hanno visto sorgere e tramontare imperi, scomparire interi popoli con la loro lingua e i loro costumi, estinguersi religioni, trasformarsi e succedersi credenze, mode e morali e ancora sono in grado di parlare alla nostra parte più profonda, aiutandoci a comprendere e a ricordare chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando, perché il mondo illusorio, virtuale e dualistico che ci appare come realtà e che essi raffigurano così perfettamente ci sia evidente in tutta la sua relatività e separazione. I simboli dei Tarocchi sono la rappresentazione della storia del mondo e della vita, del gioco delle trasformazioni in cui tutto scorre, tutto si trasforma, tutto
è effimero, ogni cosa nasce e muore nelle dimensioni a noi concesse dai sensi ordinari come indistinta proiezione della realtà. Sottovalutare i Tarocchi usandoli solo per giocare o come strumento mantico è riduttivo e superficiale, quasi una profanazione del loro senso più sacro. Archetipi e sincronicità Eppure non a caso gli archetipi si esprimono in noi come sogni, miti, lievi pensieri, intuizioni, colori, numeri, azioni, suoni, qualità, e si manifestano come simboli che la coscienza può far emergere dal profondo e rendere vivi, quasi come se fossero entità senzienti, esseri spirituali o guide superiori. Per chi ne conosce il linguaggio, i simboli sono autentiche chiavi interpretative dell’Anima. Non a caso i simboli, e così i Tarocchi, sollecitati a farlo, si mostrano alla nostra attenzione, poiché, secondo la legge della causa e dell’effetto, in questo universo non si muove neanche una foglia senza che tale movimento abbia un preciso significato: tutto è ordinato, ogni cosa segue le leggi naturali, ogni essere vibra secondo i ritmi che gli sono propri e tali ritmi sono in armonia con il cosmo. Il caso non esiste: ogni cosa ha motivo di esistere e ha un senso, anche quando alla nostra mente appare il contrario. Le abitudini e gli automatismi, ancor più dei nostri sensi, ci condizionano e ci limitano nello spazio-tempo ordinario, così che di fronte all’epifania di un simbolo significativo siamo portati a interpretarlo come un semplice e insignificante caso, o tutt’al più una curiosa coincidenza, un evento comunque fortuito. Nonostante i simboli siano da sempre in noi e intorno a noi, siamo portati a usare la parola “caso” ogni volta che non siamo in grado di capire il senso, la causa o lo scopo di un’esperienza che la vita ci propone; ogni volta che le nostre illusorie certezze rischiano di incrinarsi di fronte al mistero e al dubbio che ne deriva. Anche quando siamo testimoni di eventi che assumono un senso e un valore particolari solo in una prospettiva più ampia, l’occhio impigrito dall’abitudine non li vede perché non li vuole vedere e la mente logica non li registra perché non li comprende né li spiega razionalmente e l’ego non li accetta perché la loro
giungere la coscienza di ciascuno, oltre i limiti individuali e collettivi, oltre le illusorie barriere dello spazio e del tempo7. I simboli trovano così la strada, attraverso i Tarocchi, per vibrare dentro ciascuno di noi, secondo diverse lunghezze
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esistenza mette in crisi la sua 6. Nel secolo scorso Carl Gustav Jung e Wolfgang Ernst Pauli diedero finalmente una prima convincente spiegazione scientifica di tali fenomeni collegati agli archetipi e le loro teorie sulla sincronicità permisero finalmente anche le attività speculative e dialettiche della parte più razionale della mente. Mentre gli studi sulle cosiddette coincidenze significative riempirono un vuoto filosofico nella psicologia del profondo. Anche grazie a questa lunga e non sempre facile evoluzione del pensiero, oggi ci troviamo in possesso di una straordinaria e funzionale macchina filosofica, meravigliosamente flessibile secondo le infinite combinazioni delle nostre inclinazioni, dei nostri talenti e perfino delle nostre credenze e dei limiti della nostra mente. Gli archetipi sono eterni e universali: essi non sono legati al tempo, né allo spazio, né alla cultura, né alla morale dei popoli. I simboli fondamentali sono eternamente viventi perché trovano sempre nuove e diverse modalità espressive per farsi comprendere nei diversi contesti umani. Da alcuni secoli si declinano docilmente nella forma visiva e iconica dei Tarocchi di ogni tipo e seguono naturalmente il sentiero più adeguato per rag-
d’onda, stimolano sintonie e risvegliano sottili sensi sopiti e ricordi atavici. Anche così si può perseguire la conoscenza di noi stessi secondo il sempiterno motto delfico e si può percorrere un sentiero di crescita e di ricerca spirituale. Chi è spinto dal dubbio e dalla curiosità, chi è alla ricerca di una maggiore consapevolezza, chi desidera l’espansione della sfera della coscienza oltre i limiti spesso imposti solo dalle convenzioni e dai pregiudizi, chi vuole conoscersi, chi ambisce all’ampliamento dei confini delle proprie esperienze, chi sente di utilizzare solo in piccola parte le potenzialità umane può trovare nei simboli i mezzi per uscire da se stesso e squarciare il velo di Maya che offusca la vista dell’uomo su questo pianeta, fortemente caratterizzato dalle contrapposizioni dualistiche e dalla separazione apparente. Per coloro che si riconoscono consapevolmente sul Sentiero dei Tarocchi nella cosmica ragnatela di strade che tutti e tutto avvolge i simboli possono rimettere insieme i cocci di tale separazione e ricondurre all’unità primordiale favorendo il processo formativo di individuazione, prodromo di una matura e armonica umanità e di una sua auspicabile presa di coscienza collettiva. ________________ Note: Ovidio, Metamorfosi, VIII, 187. Piotr Demianovic Ouspensky, Il simbolismo dei Tarocchi, A new model of universe. 3 Dion Fortune, La Cabala mistica, I, 1, 15. 4 René Alleau, De la nature des Symboles. 5 Van Rijnberk Gerard, I Tarocchi. 6 Giovanni Pelosini, I Tarocchi Aurei. 7 Giovanni Pelosini, Le Voci degli Arcani. 1 2
P.112 e 119: Rito egizio, olio di J.R.Weguelin, XIX sec.; p.123: Renée Guenon; p.124 e 125: Sculture di divinità egizie; p.126129: Tarocchi: Trionfi e Arcani minori.
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Lajos Kossuth Giuseppe Ivan Lantos
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i sono personaggi la cui memoria, nonostante abbiano diritto di vedere il proprio nome iscritto a lettere d’oro nel libro della storia, viene relegata negli archivi dell’oblio. È, tra i tanti, il destino del magiaro Kossuth Lajos, protagonista di quella stagione, incominciata nel 1848, conosciuta come la “primavera dei popoli” e che vide, dopo la Restaurazione sancita dal Congresso di Vienna del 1815, le nazioni europee oppresse dal giogo di dominazioni straniere lottare per la pro-
pria indipendenza. Così l’Ungheria che, al pari con il Lombardo-Veneto, cercò di affrancarsi dal potere degli Asburgo. La parabola esistenziale di Kossuth, che qualche storico, riferendosi al suo mondo ideale, ha voluto definire il “Mazzini ungherese”, ma che, come Garibaldi, fu anche attivo sui campi di battaglia, si dipanò tra la Patria natia, l’esilio in Bulgaria, in Asia Minore, in Inghilterra e negli Stati Uniti, per terminare in Italia, a Torino, dove si era stabilito nel 1860 e dove morì il 20 marzo 1894. Fu, dunque, uomo d’intelletto e d’azione e anche convinto Massone, come avremo modo di ricordare, quasi a riparazione del sudario di silenzio che ne avvolge la vicenda umana e politica. Kossuth Lajos, Luigi in italiano, ebbe i natali a Monok, nella Contea di Zemplén, il 19 settembre 1802, discendente di una famiglia di funzionari pubblici l’origine della quale risaliva al 1263. I Kossuth erano di religione protestante evangelica. Il padre di Lajos, László (Ladislao), dopo essere stato archivista della Contea, divenne procuratore legale delle proprietà dei conti Andrássy. Sua madre, Karolina
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Weber, era figlia di un direttore delle Poste. Dopo Lajos, i coniugi Kossuth ebbero quattro figlie: Karolina, Emília, Lujza e Zsuzsanna. Il curriculum studiorum del giovane Kossuth, iniziato nel 1807, si svolse tra la scuola elementare pubblica, il ginnasio dei Padri Scolopi, il liceo nei collegi protestanti di Eperjesen e Sárospatak e la facoltà di Giurisprudenza dell’univer-
sità di Pest nella quale conseguì la laurea nel settembre 1823. Avvocato, ritornò nella città natale dove incominciò a esercitare la professione forense. Uno storico ungherese scrive: “Né la posizione sociale né il censo gli furono d’aiuto a muovere i primi passi nel mondo del lavoro, ma neppure gli impedirono di maturare la consapevolezza della situazione politica della 131
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Patria costretta sotto un giogo feudale dal quale egli doveva in qualche modo contribuire ad affrancarsi”. La prima occasione gli si presentò come membro dell’opposizione riformista nell’Assemblea regionale. Nell’estate 1831, nel nord dell’Ungheria, scoppiò una violenta epidemia di colera che colpì, in particolare, la zona di Monok e mieté la maggior parte delle vittime tra le famiglie dei contadini più poveri già esasperati da un sistema fiscale a dir poco famelico. Quella che appariva come una vera e propria strage di uomini e donne di ogni età e di bambini provocò una rivolta che minacciava di diventare più cruenta della stessa epidemia. Kossuth, nominato Commissario per la salute pubblica, riuscì a contenere la violenza dei rivoltosi convincendoli a evitare un bagno di sangue. Per comprendere quali fossero i presupposti che motivarono l’impegno politico di Kossuth è opportuno aprire una parentesi sulla situazione dell’Ungheria all’epoca. Dopo il dominio turco durato oltre un secolo e mezzo, l’Ungheria cadde sot132
to l’impero degli Asburgo che cercarono di imporre il loro potere assoluto al popolo magiaro, ma la rivolta di Francesco II Rákóczi, tra il 1703 e il 1711, segno di una mai sopita insofferenza e aspirazione all’indipendenza, indusse gli Asburgo a riconoscere al regno i diritti costituzionali e alla nobiltà magiara i suoi privilegi. L’imperatrice Maria Teresa (1740-80), succeduta nel 1740 al padre, l’imbelle Carlo VI, e il di lei figlio, Giuseppe II (1780-90), ripresero il tentativo di costruire una monarchia forte, unitaria e centralizzata, che si scontrò con l’energica opposizione alla Dieta, il Parlamento, magiara del 1790. Dopo il periodo napoleonico, durante il quale la nobiltà ungherese si mantenne fedele agli Asburgo, crebbe un movimento riformistico, al cui interno emersero posizioni indipendentiste destinate a prosperare. Gli ideali mutuati dall’Illuminismo avevano contagiato sia una parte degli aristocratici, sia la borghesia colta le quali, quasi inevitabilmente, identificarono nella Massoneria il “metodo” per
la realizzazione di quegli ideali. L’imperatrice Maria Teresa, fervente cattolica, non vedeva di buon occhio la Libera Muratoria, ma aveva adottato un comportamento ispirato all’accondiscendenza per non dispiacere al marito, Francesco Stefano di Lorena, iniziato nella Loggia viennese Ai tre cannoni fondata nel 1742. Sul suo esempio, alcuni aristocratici ungheresi presenti a Corte aderirono alla Massoneria. Nel 1784 fu fondata la Gran Loggia d’Austria, forte di sessantuno logge di cui sei nella sola Vienna. La prima Loggia ungherese vide la luce nel 1749 a Brasso, città della Transilvania, alla quale seguirono molte altre. Giuseppe II, uno dei sedici figli di Maria Teresa e suo successore, cercò di asservire la Massoneria agli interessi dell’impero disciplinandone per legge l’attività. Lo scoppio delle guerre continentali, durante il periodo rivoluzionario e napoleonico, portarono, nel 1795, alla proibizione, da parte del sovrano Francesco I, delle attività massoniche in tutto l’impero austriaco, prima con la parziale eccezione dell’Ungheria, poi dappertutto. Le iniziative legislative potevano impedire alle Logge di lavorare, ma non furono in grado di espropriare il patrimonio ideale del movimento latomistico. La Massoneria sembrò sparire, ma come un fiume carsico continuò, pur invisibile, a fecondare il cuore e la mente di coloro i quali ispiravano la propria azione civile, politica e intellettuale al paradigma “libertà, uguaglianza, fratellanza” contro ogni forma di tirannide. Le circostanze impedirono al giovane Kossuth di aderire alla Massoneria, ma non di apprenderne i principi, un seme destinato a germogliare più tardi. Avvenne, invece, la sua iniziazione politica quando, nel 1832, fu inviato alla Dieta, la Camera bassa, che si riuniva a Pozsony, l’odierna slovacca Bratislava. Per dare visibilità alle attività dell’opposizione, pubblicò le Országgyűlési Tudásítások, Cronache della Dieta, che divulgavano informazioni sulle sedute, diffuse sotto forma di lettere private, al fine di eludere la censura. Scomparso l’imperatore Francesco I, il 2 marzo 1835 gli successe il figlio Ferdinando V, nato idrocefalo e affetto dall’epilessia. Le sue precarie condizioni fisiche e mentali finirono per consegnare il potere nelle mani di parenti e, soprattutto, in quelle del potentissimo ministro Klemens von Metternich, un tetragono conserva-
tore. Nel maggio 1835, pochi giorni dopo la chiusura della sessione di lavori della Dieta, i giovani esponenti dell’opposizione furono arrestati e condannati a lunghe pene detentive. Kossuth, nonostante l’interdizione formale, continuò a pubblicare le sue Törvény-hatósági Tudásítások, Informazioni Municipali, che diffondevano notizie sulle attività politiche degli organi amministrativi, impegno che gli valse l’attenzione dell’occhiuta polizia segreta e, nel 1837, un processo e una condanna a quattro anni di carcere. In prigione, Kossuth, subito dopo il suo arresto, aveva chiesto alla madre di fargli avere dei libri e cercò di mantenere il contatto con il mondo esterno con la lettura di giornali ungheresi e tedeschi. Migliorò la conoscenza della lingua inglese, tradusse e rielaborò in tedesco l’opera del pedagogista inglese Samuel Wilderspin, The infant system, for developing the physical, intellectual and moral powers off all children from one to seven years of age, sulla tutela della prima infanzia e iniziò la traduzione del Macbeth di William Shakespeare. Le lettere scritte ai genitori durante gli anni della prigionia costituiscono i migliori brani dell’opera letteraria di Kossuth. Egli non dovette scontare per intero la pena. Infatti, la battaglia condotta dall’opposizione per la liberazione dei prigionieri politici fu vincente e, il 18 maggio 1840, Kossuth uscì dal carcere; destino volle che divenisse guida dell’opposizione poiché, durante la detenzione, Wesselényi Miklós, il leader, aveva perduto la vista e il suo vice, Lovassy László, la ragione. Nel frattempo si erano verificati cambiamenti nella vita privata di Kossuth Laios. Il 13 giugno 1839 era morto suo padre e lui si era dovuto far carico del mantenimento della famiglia; poco dopo la liberazione, nell’estate 1840, conobbe Meszlényi Terézia, cattolica, che sposò il 9 gennaio 1841 e dalla quale avrebbe avuto due figli e una figlia: Ferenc Lajos Ákos (1841-1914), Vilma (18431862) e Lajos Tódor Károly (1844-1918). Dopo la scarcerazione, Kossuth non si ritirò dalla vita politica. A Vienna si pensava fosse meglio tenerlo d’occhio, perciò concessero che il tipografo Landerer Lajos proponesse a Kossuth la direzione di un nuovo giornale, il Pesti Hírlap, Notiziario di Pest; il primo periodico politico moderno della storia ungherese iniziò le pubblicazioni il 2 gennaio 1841. L’elemento di
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novità del Pesti Hírlap fu che, per la prima volta nella stampa ungherese, il direttore scriveva degli editoriali. Alla redazione contribuivano diversi membri dell’opposizione che diffusero le idee riformistiche e illustrarono l’insostenibilità delle condizioni feudali nelle quali, all’epoca, versava la nazione magiara. All’epoca, il Pesti Hírlap fu il giornale più diffuso dell’impero austro-ungarico; le copie vendute, dalle iniziali sessanta, raggiunsero le cinquemila. Il lavoro giornalistico consolidò la situazione economica di Kossuth e della sua famiglia. Gli articoli pubblicati sul Pesti Hírlap provocarono un aspro conflitto d’idee con 134
Széchenyi István, esponente moderato dei riformisti. Széchenyi sosteneva l’opportunità di non entrare in urto con il governo di Vienna; la posizione di Kossuth era, invece, più radicale e la maggioranza dell’opposizione era solidale con lui. Le sue opinioni finirono per irritare il regime che fece pressione su Landerer perché licenziasse Kossuth. Il tipografo provocò un litigio per motivi economici che, concomitante con la sconfitta dell’opposizione in Parlamento, indusse il direttore a dimettersi: Kossuth firmò il suo ultimo editoriale sul Pesti Hírlap il 30 giugno 1843. Chiese la licenza per un nuovo giornale, ma non gli fu concessa, si dedicò,
quindi, a tempo pieno all’attività politica. Tra le sue iniziative, importante fu quella legata all’Unione Nazionale di Protezione, del 1844, la quale, attraverso una politica di protezione doganale, cercò di promuovere lo sviluppo dell’industria e del commercio nazionali. Kossuth temeva, infatti, che se l’Austria si fosse associata all’Unione Doganale Tedesca, l’industria e il commercio ungheresi non avrebbero retto la concorrenza con i prodotti tedeschi, che erano di qualità superiore. Kossuth, perciò, pur essendo idealmente favorevole al libero commercio, provvisoriamente appoggiò una politica di protezione doganale. Egli fece molto anche per collegare la rete ferroviaria con l’unico grande porto marittimo ungherese, Fiume, in modo che i cereali ungheresi potessero giungere al mercato mondiale. La stragrande maggioranza delle iniziative economiche di Kossuth ebbero un discreto successo, servirono a diffondere le idee riformistiche e svilupparono un’opposizione strutturata a livello nazionale. Quando i conservatori ungheresi, per salvaguardare una parte dei loro privilegi feudali, costituirono un proprio partito, Kossuth sollecitò l’organizzazione di un partito unitario di opposizione, con un proprio manifesto. Nella formulazione di questo programma, oltre a Deák Ferenc (1803-1876), il ruolo più importante fu svolto da Kossuth. A capo del nuovo partito di opposizione fu eletto il conte Lajos Batthyany (1806-1849). Alla Dieta del 1847-1848 Kossuth partecipò rappresentando la Contea di Pest. Il Governo fece di tutto pur di osteggiare la sua ele-
zione, ma senza successo. Nella Camera Bassa, l’opposizione ebbe la maggioranza, ma questo vantaggio non poté essere sfruttato a causa della reazione della Camera Alta. Il fattore decisivo della vittoria dell’opposizione fu l’allargamento, in seguito allo sviluppo economico degli anni Quaranta dell’Ottocento, della base sociale che reclamava la modernizzazione dello stato e della società. La comunione d’interessi riuniva sulle medesime posizioni i signori di campagna alle prese con le difficoltà materiali, gli intellettuali, la piccola borghesia urbana e rurale, i salariati dell’agricoltura e della nascente industria e la borghesia ebraica emergente, insomma, gli elementi più diversi della società ungherese che erano tutti minacciati nella loro esistenza o nella loro ascesa sociale dalla sclerosi del regime feudale e dall’assolutismo. L’attesa impaziente di cambiamenti radicali influenzava la letteratura, la musica, le belle arti, grazie al movimento letterario Fiatal Magyarország, Giovane Ungheria, promosso dal poeta rivoluzionario Petőfi Sándor, destinato a morire, appena ventiseienne, combattendo per l’indipendenza contro gli Austro-russi il 31 luglio 1849. “Sparì come un bel dio della Grecia”, scrisse di lui Giosuè Carducci, e la morte del poeta sul campo di battaglia “è quasi un tratto artistico della sua meravigliosa individualità, della sua straordinaria carriera; questo mistero lo solleva dalla sfera degli umani, per mantenerlo eternamente vivo, eternamente giovane”. In un clima di disordine economico e malcontento sociale, il Parlamento ungherese si riunì per l’ultima volta a Pozsony nell’autunno del1847. La situazione cambiò completamente nel marzo del 1848. Dopo avere sommerso mezza Europa, l’ondata rivoluzionaria investì l’impero degli Asburgo e raggiunse Vienna il 13 marzo. Il 14 marzo fu approvato il manifesto dei proclami di Kossuth, portato il giorno prima a Vienna da una delegazione della Dieta. L’Imperatore, insieme a una ristrettissima cerchia di fedeli, dapprima tentò di resistere, ma poi cedette: il 17 marzo, infatti, Ferdinando V diede il proprio consenso alla nomina a primo ministro di Batthyany Lajos. L’approvazione della nomina e l’appagamento delle pretese ungheresi furono influenzate dal fatto che nel frattempo, il 15 marzo, anche a Pest scoppiò la rivoluzione.
In poche settimane, vennero formulate le leggi per la trasformazione dell’Ungheria da paese feudale in uno Stato borghese. Kossuth ebbe un ruolo importante nella stesura delle “leggi d’Aprile”, attraverso le quali s’insediarono un Governo responsabile e un’Assemblea nazionale a rappresentanza popolare, mentre l’economia di mercato e la società civile si avviarono verso il libero sviluppo. Kossuth, nella sua veste di ministro delle Finanze nel governo Batthyany, svolse un ruolo chiave nella predisposizione della finanza ungherese indipendente. Sembrava che il sogno di un’Ungheria libera e indipendente fosse sul punto di realizzarsi. Tuttavia, il progetto si scontrò con le preoccupazioni delle minoranze, in particolare quelle dei Croati e del Romeni che vedevano una minaccia nella rivendicazione di una spiccata identità magiara del nuovo Stato al quale si prevedeva l’annessione della Croazia e della Transilvania. Su questo giocò la politica di Vienna, che, ringalluzzita dalla vittoria contro i Piemontesi nella battaglia di Custoza del 23 e 25 luglio 1848, dichiarò sciolto il Parlamento e nominò luogotenente il bano di Croazia Josip Jelačić. Proprio in questo periodo, il patriota d’origine tedesca Thoma Mihály Ágoston, sull’onda degli entusiasmi indipendentisti, tentò di resuscitare la Massoneria magiara e offrì a Kossuth di farne parte. Tuttavia, quando questi seppe che la nuo-
va Loggia avrebbe avuto il nome distintivo di “Kossuth Lajos della gloriosa luce dell’alba” declinò l’offerta a maggior ragione perché si profilava la possibilità di un intervento diretto dell’esercito austriaco. Con l’abdicazione dell’imperatore Ferdinando I a favore di Francesco Giusep-
Massoneria pe, salito al trono il 2 dicembre 1848, non riconosciuto dagli Ungheresi, avvenne la rottura. Mentre Budapest veniva occupata da Alfred Windisch-Graetz e Jelačić, da Debrecen Kossuth, il 14 aprile 1849, fece proclamare dall’Assemblea l’indipendenza dell’Ungheria e la decadenza degli Asburgo, difendendo il proprio paese con l’aiuto di legioni polacche e di volontari italiani. Ma la rivoluzione ungherese non aveva ormai che qualche settimana di vita. Dopo alcune sconfitte subìte nella primavera del 1849, il governo di Vienna capì che l’Austria non era in grado di sottomettere da sola l’Ungheria. Nonostante le attese della nobiltà liberale, il governo, invece di cercare una pace fondata su concessioni reciproche, decise di chiedere soccorso all’armata russa, “gendarme d’Europa”. Su richiesta di Francesco Giuseppe, l’esercito del principe Ivan Fëdorovič Paskevič, forte di duecentomila uomini, penetrò in Ungheria nel giugno del 1849 per aiutare gli imperiali, il cui comando era stato affidato al gene-
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rale Julius Jakob von Haynau, che aveva represso nel sangue la rivolta delle Dieci Giornate di Brescia. Due mesi più tardi, il 13 agosto 1849, il principe, liquidata l’ultima resistenza dei patrioti a Világos, iniziò il rapporto redatto per lo zar Nicola I con le seguenti parole: “L’Ungheria è ai piedi di Vostra Maestà”. Il generale Haynau strumento della vendetta della corte di Vienna proclamò: «Voglio fare impiccare i capi della rivolta; voglio far fucilare gli ufficiali passati agli ungheresi; voglio estirpare il male dalle radici, per mostrare all’Europa come bisogna punire i ribelli, come far regnare l’ordine, la calma e la pace per un secolo…». Fu di parola. Il conte Lajos Batthyány, capo del primo governo ungherese, venne fucilato a Pest il 6 ottobre 1849; lo stesso giorno, tredici generali, Aulich Lajos, Damjanich János, Dessewffy Arisztid, Kiss Ernő, Knezich Károly, Vilmos Lázár, Lahner György, Leiningen-Westenburg Károly, NagySándor József, Pöltenber, Ernő, Schweidel József, Török Ignác, Vécsey Károly, furono giustiziati ad Arad (oggi in Romania). I Magiari avrebbero ottenuto l’indipendenza da Vienna soltanto nel 1918. Dopo la sconfitta, Kossuth e parecchie migliaia di patrioti trovarono rifugio presso l’Impero ottomano. L’asilo del quale godevano, tuttavia, traeva origine da ragioni personali piuttosto che da motivi politici. Inizialmente, Kossuth si stabilì con i suoi collaboratori più vicini a Šumen, in Bulgaria, e quindi, nella primavera del 1850, fu trasferito a Kütahya, in Asia Minore, dove lo avevano raggiunto la moglie, sul capo della quale era stata messa una taglia dopo la rocambolesca fuga da Pozsony, e più tardi dai figli. La Sublime Porta non poteva ignorare l’irritazione del governo austriaco e di quello russo che insistevano nel richiedere la sua estradizione. Nell’isolamento più totale, Kossuth preparava, per l’Ungheria, i progetti per un’ulteriore insurrezione armata e per una nuova costituzione democratica. Kossuth tolse il disturbo agli Ottomani grazie al Congresso americano che, a testimonianza del consenso presso l’opinione pubblica internazionale, gli concesse di trasferirsi negli Stati Uniti. Il 1 settembre 1851, nel porto di Izmir (Smirne) l’esule s’imbarcò sulla corazzata Mississippi con la famiglia e una cinquantina di seguaci. Attraccata la nave a Marsiglia, Kossuth avrebbe
voluto recarsi in Inghilterra passando attraverso la Francia, scenario di quella Rivoluzione che considerava la sua ispiratrice, ma il presidente della Repubblica, Luigi Napoleone, che non voleva irritare l’Austria, gli negò il permesso. Sbarcato a Southampton, in Inghilterra, fu accolto trionfalmente a Londra, Manchester, Birmingham e in altre città del Regno Unito. Trascorse tre settimane, Kossuth proseguì il viaggio per gli Stati Uniti dove fu ricevuto come un eroe. Agli occhi degli Americani, Kossuth rappresentava lo spirito di libertà del Vecchio Continente, alla stessa stregua di ciò che George Washington era stato nel Nuovo Mondo. Nei primi giorni di gennaio del 1852, primo straniero dopo il francese marchese di La Fayette, fu ricevuto dal Senato e dalla Camera dei rappresentanti. Kossuth si rivolse alle due Camere del Congresso chiedendo l’aiuto attivo degli Stati Uniti per la riconquista della libertà e dell’indipendenza ungherese. Il presidente Millard Fillmore lo ricevette alla Casa Bianca, ma gli riservò soltanto parole di circostanza. Abramo Lincoln, politico del Partito repubblicano, incontrò Kossuth a Springfield, in Massachusetts, in occasione di una festa organizzata in onore dell’ospite magiaro. Il futuro presidente lo presentò come il “più degno e illustre rappresentante della causa della libertà civile e religiosa del continente europeo”. Finalmente era venuto il momento per quell’iniziazione massonica che Kossuth attendeva da tempo. Nel dicembre 1851 aveva indirizzato una lettera a Ferdinand Bodmann, Maestro Venerabile della Loggia n° 133 di Cincinnati, Ohio. “Per il Maestro Venerabile, i Sorveglianti e i Fratelli della Loggia n° 133 di Cincinnati dei Massoni Liberi e Accettati”, scriveva Kossuth come bussante. “Con la presente istanza, il sottoscritto, dopo aver a lungo apprezzato la vostra antica istituzione, rispettosamente esprime il desiderio di esservi ammesso, se ritenuto degno. Esule per amore della libertà, il sottoscritto non ha fissa dimora ma, in questo periodo, si trova a Cincinnati. La sua età è di 49 anni. La sua occupazione è ristabilire l’indipendenza nazionale della sua terra natale, l’Ungheria, e di conseguire, in comunità d’azione con le altre nazioni, la libertà civile e religiosa in Europa”. Firmato: Louis Kossuth. Il 19 febbraio 1852, Kossuth, insieme con
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quattro membri del suo gruppo di esuli, il conte Bethlen Gregor, Nagy Péter, Hajnik Pál e Utasy Strasser Gyula, fu iniziato Apprendista Libero Muratore della Loggia n° 133 di Cincinnati (poi incorporata nella Loggia n° 483 Walnut Hills), subito passato al Grado di Compagno e, il giorno dopo, a quello di Maestro. Durante il suo soggiorno negli Stati Uniti, il Fratello Kossuth visitò diverse Logge, a Indianapolis, la Loggia St. John a Newark (New Jersey) e la Gran Loggia del Massachusetts nella quale tenne un’allocuzione nel corso della quale disse tra l’altro: «Saranno lo sco-
po e lo sforzo della mia esistenza vivere in modo di essere degno del mio essere Massone, e di adempiere i doveri massonici che mi sono assunto nei confronti di ogni membro della nostra nobile istituzione, secondo le mie capacità e il mio grado». Nel luglio 1852, Kossuth si trasferì a Londra dove entrò in contatto con i protagonisti delle rivoluzioni europee e, in particolare, riprese i suoi rapporti con Giuseppe Mazzini, iniziati durante l’esilio in Turchia, dei quali dà testimonianza un nutrito carteggio (pubblicato a cura di Mario Menghini dall’Editore Vecchioni 137
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nel 1921). La sua attività s’indirizzò all’organizzazione di società segrete in Ungheria, ma non si rese conto del fatto che l’epoca delle rivoluzioni era terminata e che per realizzare i suoi progetti avrebbe dovuto attendere la disgregazione dell’assolutismo asburgico. L’occasione si presentò alla fine degli anni ‘50, quando scoppiò la guerra fra l’Austria e l’Italia. La notizia della guerra diede nuovo vigore agli esuli che erano già sul punto di disperdere le loro forze. Nel 1859 essi crearono la Direzione nazionale ungherese, una sorta di governo in esilio. Kossuth concluse un accordo con l’imperatore Napoleone III in base al quale fu istituita, in Italia, una Legione ungherese, ma si decise che si sarebbe dato il segnale 138
della rivolta nazionale solo nel caso in cui fossero arrivati alle frontiere eserciti italiani o francesi. Dopo la rapida vittoria dei Francesi e degli Italiani, però, la guerra si avviò rapidamente a conclusione, senza, comunque, che l’Unità d’Italia fosse completata, né che si fosse venuti in aiuto degli Ungheresi. Nel 1860, Kossuth si trasferì a Genova e poi a Torino al fine di poter seguire da vicino il corso degli avvenimenti. Andò ad abitare in un appartamento di via dei Mille. Nell’estate, Kossuth e Cavour stipularono un accordo segreto per la liberazione dell’Ungheria e poiché l’opposizione interna stava rafforzando le sue posizioni, sembrava possibile un intervento dall’esterno che risolvesse la questione unghe-
rese. Ma le speranze svanirono negli anni seguenti: la guerra contro l’Austria non ebbe più luogo, Cavour morì 6 giugno 1861 e la Legione ungherese fu sciolta. Il soggiorno torinese di Kossuth fu profondamente segnato dalla ripresa della sua attività massonica. L’8 ottobre 1859, otto Fratelli, il colonnello dell’esercito Livio Zambeccari, lo stenografo della Camera dei deputati, Filippo Delpino, l’avvocato Carlo Flori, il medico Sisto Anfossi, il professore universitario Celestino Peroglio, l’operaio litografo Francesco Cordey, i commercianti Giuseppe Tolini e Vittorio Murano avevano fondato la Loggia Ausonia destinata a dar vita, il 20 dicembre, al Grande Oriente Italiano, la prima organizzazione libero muratoria nazionale dipendente dai Supremi Consigli stranieri. Kossuth fu regolarizzato poco dopo e, insieme con lui, il suo compatriota Türr István, conosciuto durante l’esilio londinese, che aveva partecipato alla seconda guerra di Indipendenza e alla spedizione dei Mille con Giuseppe Garibaldi. Kossuth, pur consapevole che in Loggia fosse proibito “intrattenersi in questioni di politica e di religione”, confidava che la Massoneria avrebbe potuto contribuire alla realizzazione dei progetti per la sua Patria. La seppur parziale realizzazione dell’Unità d’Italia aveva prodotto una vivace lievitazione della vita massonica; il 7 febbraio 1862 era stata costituita a Torino la Loggia Dante Alighieri, che si era posta all’obbedienza del Grande Oriente Italiano seppure con qualche tormento. La Dante, infatti, aveva scelto di conformarsi al Rito Scozzese Antico ed Accettato, mentre il Grande Oriente Italiano praticava il Rito Simbolico. Tuttavia, quantomeno inizialmente, questa dicotomia parve non rappresentare un problema insanabile. La svolta si verificò con l’arrivo di Lodovico Frapolli, nato il 23 marzo 1815 da una famiglia dell’alta borghesia lombarda. Ricevuto in Loggia il 10 dicembre 1862, alla fine del mese, con procedura inconsueta, aveva già salito tutti i gradini della scala Scozzese fino a raggiungere il 33º grado. Di lì a poco diventò Maestro Venerabile della loggia Dante Alighieri e avrebbe dato vita alla scissione che portò alla costituzione del Grande Oriente d’Italia. Personaggio di esperienza cosmopolita, durante una missione diplomatica a Parigi Frapolli aveva conosciuto un gran nume-
ro di esuli soprattutto ungheresi dei quali aveva abbracciato la causa. Non fu dunque un caso che, dalla fine del 1862 fino a metà del 1865, fecero parte dell’Officina trentatré magiari. Ma non Kossuth con il quale Frapolli aveva iniziato una corrispondenza nel 1852. A mano a mano che cresceva l’amicizia tra il Maestro Venerabile della Dante e un altro fuoruscito ungherese, famoso quanto Kossuth, Klapka Györg, il quale aveva firmato il brevetto del 31° grado di Frapolli, s’affievoliva quella con Kossuth. Klapka, che pur aveva collaborato con Kossuth nel 1849, o forse proprio per questo, non lo amava e, verosimilmente, aveva contagiato dei suoi sentimenti Frapolli. Nel 1862, Kossuth aveva proposto l’idea di una Confederazione danubiana della Romania, della Serbia, della Croazia e dell’Ungheria. Il progetto era stato pubblicato anche dal supplemento n° 140 del Movimento di Genova. Frapolli aveva commentato lapidariamente: “Progetto di Confederazione Danubiana, essenza delle idee di Klapka, rubato da Kossuth”. Di più. Türr e Kossut tentarono di creare in Italia un Grande Oriente Ungarico, del quale il primo sarebbe stato Gran Maestro, il secondo Gran Maestro Onorario. L’esperimento fallì se non per l’ostilità di Klapka e Frapolli, probabilmente, per la mancanza di sostegno di quest’ultimo. Non è certamente una prova, ma ingenera qualche sospetto il fatto che, subito dopo, Klapka, trasferitosi per lavoro a Ginevra, fondasse la Loggia ungherese Ister, dall’antico nome del Danubio, che però ebbe vita breve. Le speranze dell’indipendenza ungherese, nutrite e perseguite da Kossuth per un trentennio, si infransero definitivamente contro l’Ausgleich, il compromesso, che sanciva la riforma costituzionale operata in Austria e Ungheria nel 1867 dall’imperatore Francesco Giuseppe, con la quale si concedeva all’Ungheria una condizione di parità con l’Austria. Con il nome di Monarchia austro-ungarica furono creati due Stati distinti ma uniti dal vincolo dinastico e da tre ministeri: Esteri, Esercito e Marina e Finanze. Una soluzione che fu salutata con favore dall’aristocrazia magiara e dall’ala moderata dei riformisti. Kossuth, amareggiato, si ritirò progressivamente dall’attività politica. Si occupò di botanica, d’astronomia e del riordino dei
intitolata una delle due reti radiofoniche nazionali e una popolare marca di sigarette. I rivoluzionari del 1956 adottarono come stemma quello disegnato da Kossuth nel 1848. Una lapide dedicata a lui fu collocata dalla Municipalità, nel 1895, sul fron-
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suoi scritti, cercando consolazione nei libri di storia. Nel frattempo, lo avevano colpito due tragedie familiari: nel 1862 la morte della figlia Vilma ventenne e, nel 1865, quella della moglie Terézia, entrambe sepolte nel cimitero Staglieno di Genova. Gli ultimi anni della vita di Kossuth furono segnati dall’indigenza che lo costrinse a vendere i volumi della sua imponente biblioteca. Ai primi di marzo 1894 Kossuth fu colpito dall’influenza che lo costrinse a letto, le sue condizioni s’aggravarono progressivamente e il 20, alle dieci e cinquantacinque della sera, morì assistito dai figli, da una delle sorelle e dal suo medico. La camera ardente venne allestita nella Chiesa valdese di Torino. Dieci giorni dopo, un treno speciale sul quale erano state disposte anche le urne cinerarie della moglie Terézia e della figlia Vilma, mosse da Torino per riportare in patria, dopo un esilio durato quarantacinque anni, le spoglie mortali dell’eroe dell’Indipendenza. Al confine ungherese, nonostante la proibizione dettata personalmente dall’imperatore Francesco Giuseppe di qualsiasi manifestazione di pubblico omaggio, una folla plaudente accolse il convoglio e lo accompagnò fino alla sepoltura a Budapest. Della sua immagine dopo l’indipendenza dell’Ungheria conseguita nel 1918, così come avvenne in Italia per Garibaldi, s’impadronirono tutte le forze politiche di destra e di sinistra. Gli furono dedicate vie e piazze e, finché la dittatura fascista del reggente Horty Miklós sciolse la Gran Loggia Simbolica, diverse Logge massoniche. Negli anni Cinquanta del secolo scorso il regime comunista si mostrò tiepido verso la sua memoria anche se gli fu
te del palazzo in via dei Mille in cui soggiornò come esule sino alla morte. Nel 1936, a Torino fu inaugurato un busto di Kossuth, eseguito dallo scultore Jòzsef Damkò, dono di Monok, città natale di Kossuth. L’opera fu collocata, all’ombra di un acero, nel Giardino dei Ripari, poi ribattezzata Aiuola Balbo, in piazza Cavour, nei pressi della residenza del patriota. Né la lapide, né l’iscrizione posta sotto la statua ricordano la sua appartenenza alla Massoneria. Negli Stati Uniti, diverse cittadine e villaggi portano il nome dell’eroe ungherese e a New York lavorano due Logge Kossuth. Una si trova anche a Buenos Ayres, in Argentina. Nel suo ultimo e importante scritto Kossuth si collocò con estrema precisione nella storia ungherese del XIX secolo: “Le lancette dell’orologio non regolano il trascorrere del tempo, ma lo segnano”, scrisse. “Il mio nome è come una lancetta: segna il tempo che verrà, che dovrà venire, se per la nazione ungherese la sorte ha in serbo ancora un futuro che porterà il nome dell’indipendenza nazionale: una patria libera ai liberi cittadini d’Ungheria”. ________________ Bibliografia Hermann Róbert, Kossuth Lajos, a magyarok Mózese, Osiris kiadó, Budapest 2006. Koltay-Kastner Jenõ, A Kossuth-emigráció Olaszországban, Krvina, Budapest 1960. Peter Hanák, Storia dell’Ungheria, Franco Angeli, Milano 1996. Aldo A. Mola, Storia della Massoneria Italiana dalle origini ai giorni nostri, Bompiani, Milano 1992. Luigi Polo Friz, La Massoneria italiana nel decennio post unitario-Lodovico Frapolli, Franco Angeli, Milano 1997. P.112 e 119: Rito egizio, olio di J.R.Weguelin, XIX sec.; p.123: Renée Guenon; p.130, 131, 134, 135 e 136: Effigi di L. Kossuth in scultura, fotografia, filatelia ecc; p.137: Il Generale Julius Jakob von Haynau; p.138: Annullo filatelico massonico e documento autografo di L.Kossuth; p.139: Sigarette ‘Kossuth’.
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Esoterismo
Extraterrestri, Angeli e Tradizione esoterica Roberto Pinotti
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on la fine del 1992, con un budget di oltre 100 milioni di dollari, era stata varata la fase operativa del progetto S.E.T.I. (Search for Extra-Terrestrial Intelligence), ricerca scientifica internazionale con capofila la NASA (l’ente spaziale americano), che mira al rilevamento di segnali intelligenti dall’universo attraverso la radio-astronomia, a conferma della da tempo supposta esistenza di altre civiltà nel cosmo. Tale ricerca, allora sponsorizzata dal presidente Ronald Reagan, fu poi osteggiata dall’Intelligence statunitense e bloccata a livello di finanziamenti dal Parlamento USA, che la ritenne dagli sviluppi incontrollabili e troppo onerosa, ed oggi si fonda solo su apporti economici privati. E attualmente, oltre ogni top secret o insabbiamento (cover up) ufficiale delle Autorità di Washington timorose di compromettere la loro leadership mondiale, finora applicati in nome della sicurezza nazionale e dell’ordine pubblico, sempre di più si dibatte il controverso e persistente enigma degli UFO (sigla di Unidentified Flying Qbjects ovvero Oggetti Volanti non Identificati, coniata dall’Aeronautica Militare degli Stati Uniti). Velivoli supertecnologici pilotati da esseri dalla morfologia concordemente indicata dai testimoni attendibili come umana o umanoide, atti a viaggiare nello spaziotempo curvandolo in modo da bypassare il limite fisico della velocità della luce, e in grado di procedere indifferentemente nel vuoto cosmico, in qualsivoglia atmosfera come pure in un fluido più denso come l’acqua (trasformandosi allora in USO ovvero Unidentified Submerged Objects). E costituenti un problema concreto, documentato, attuale, inquietante e ormai ufficialmente riconosciuto da molteplici governi in Europa, America Latina ed Asia, ed apparente indizio di effettive e costanti visite alla Terra da altri mondi da parte di intelligenze evidentemente intenzionate a non interagire direttamente con noi (altrimenti una “guerra dei mondi” ci sarebbe già stata da tempo); e che nel contempo vede svilupparsi l’ipotesi che tale fenomeno, indubbiamente manifestatosi anche nel passato, finisca col confondersi negli stessi miti delle nostre origini. Fantasie? Tutt’altro. Ai margini dei convenzionali
studi di genealogia sussiste, nelle diverse culture, la tradizione comune della cosiddetta teogamia, termine di derivazione greca indicarne l’unione biologica fra gli dei e gli uomini. La cultura greco-romana, com’è noto, è letteralmente traboccante di miti a contenuto teogamico, e sarebbe ozioso indugiare in esempi. Basti ricordare che alla base della mitologia classica rimane il concetto che gli dei si sono più volte uniti carnalmente a donne o uomini della Terra, procreando schiatte sovrumane di semidei ed eroi di cui la mitologia ellenica fornisce molteplici casi. In epoca storica, vale la pena di ricordare che ad uomini come Alessandro Magno e Giulio Cesare furono in effetti - anche a posteriori - attribuite
paternità ovvero genealogia divina. Miti pagani e null’altro? Superstizioni pure e semplici? Questo lasciamolo dire ai parroci di campagna di ieri o a certi neo-integralisti cattolici odierni di bassa lega. Qualsiasi teologo e cristiano degno di
Esoterismo tale nome (di qualunque confessione), al contrario, dovrà ammettere che, nel contesto giudaico-cristiano, la teogamia è un dato ugualmente ricorrente. E ciò non tanto o solamente in relazione alla figura di Gesù Cristo, per i cristiani figlio di Dio partorito da una vergine (e onorato dagli islamici come il più gran-
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de profeta prima di Maometto, indiscutibile punto nodale dell’Ebraismo che pure lo ha rifiutato come Messia). Al riguardo l’Antico Testamento ci riserva infatti non poche sorprese. Lo scontro nei cieli È un dato di fatto che il culto dei messaggeri del Cielo sia presente in tutte le antiche civiltà. Chiamati Deva dagli indoariani, Paris dai persiani, Daimonoi dai greci, Maleakim dagli ebrei. questi “inviati” celesti presentano tutti, presso le varie religioni dall’antichità, dei caratteri indiscutibilmente comuni e, in certi casi, addirittura identici. Caratteri che sono stati successivamente trasferiti, attraverso l’ebraismo, negli Angeli (dal greco anghelos, cioè “messaggero”) del Cristiane142
simo e dell’Islamismo. Esaminiamo, ad esempio, le tradizioni cristiane, che sono le più vicine a noi. La Bibbia non parla della creazione degli Angeli, com’è noto. Solo nell’Apocalisse (Cap. 12, 7-9) si dice espressamente che “… ci fu una gran guerra nel Cielo, Mikael e i suoi Angeli guerreggiarono col Drago. E il Drago guerreggiò insieme con lui e i suoi Angeli. Ma non prevalsero, e non si trovò più posto per loro nel Cielo. E fu precipitato giù il Gran Drago, il Serpente Antico che è chiamato Diavolo e Satana, il seduttore di tutta la Terra, fu precipitato sulla Terra e tutti i suoi Angeli furono precipitati con lui…”. Ecco, dunque, la famosa “Caduta degli Angeli” seguita ad una situazione da “guerre stellari” per
così dire ante litteram. La Terra sarebbe diventata dunque il rifugio o il luogo di contenzione degli Angeli Caduti sconfitti. Una sorta di pianeta-penitenziario isolato seppur monitorato dagli Angeli vittoriosi? Lo stesso “Gran Drago”, d’altronde, identificato nel biblico Leviathan (mitico serpente celeste ed acquatico ad un tempo), sembrerebbe riferirsi (dalla descrizione che ne dà la Bibbia) non ad un mostro ma ad un qualcosa di diverso. Del Leviathan leggiamo infatti nella Bibbia che «il suo corpo è costituito come di scudi fusi insieme, composto di squame che combaciano: l’una con l’altra è congiunta, neppure un soffio passa fra loro; l’una all’altra aderisce, e si tengono in guisa da non separarsi. Il suo starnuto è uno splendor di fuoco, e gli occhi suoi come le ciglia dell’aurora; dalla sua bocca escono faci, come fiaccole di vivo fuoco; dalle sue froge vien fuori fumo, come da caldaia accesa e bollente: il suo soffio accende tizzoni, e una vampa esce dalla sua bocca. Le membra delle sue carni sono compatte... Quand’esso si rizza tremano gli Angeli... Fa bollire come caldaia il profondo mare, lo riduce come un vaso d’unguento che spuma: dietro a lui risplende il sentiero...». Concludere, alla luce della odierna fenomenologia UFO, che il Leviathan costituisca una mitica ma fedele raffigurazione di una macchina («è costituito come di scudi fusi insieme») di forma cilindrica operante in cielo come un apparecchio-madre atto al lancio di ordigni più piccoli («dalla sua bocca escono faci») e in acqua come un mezzo anfibio («fa bollire come caldaia il profondo mare») potrebbe essere tutt’altro che azzardato, a questo punto. La scia lasciata dagli odierni UFO («dietro a lui risplende il sentiero»), la loro luminosità («il suo starnuto è uno splendor di fuoco»), la nebulosità che talvolta li avvolge («dalle sue froge vien fuori fumo»), i loro effetti termici («il suo soffio accende tizzoni»), gli «oblò luminosi» talvolta segnalati su di essi («gli occhi suoi come le ciglia dell’aurora») potrebbero effettivamente identificarsi con la fedele descrizione biblica. A quanto sopra esposto si ricollega poi, significativamente, l’episodio biblico del profeta Giona, chiamato da Dio in una missione presso i Niniviti, che dovrà invitare alla conversione. Egli, sottrattosi all’ufficio cui è stato designa-
to, si imbarca a Jaffa per fuggire a Tarsis. Ma Dio scatena una tremenda tempesta, della quale Giona viene indicato dall’equipaggio, a mezzo di estrazione di sorti, come responsabile. Offertosi volontariamente per riparare ai danni provocati, Giona viene gettato in mare, dove un enorme pesce lo accoglie naufrago nel suo ventre, trattenendovelo per tre giorni e tre notti, al cui termine verrà rigettato in prossimità di una spiaggia. Secondo la tradizione giudaica, il «pesce» che accoglie Giona ha una bocca tanto grande che Giona vi passa come per il portale di una sinagoga: i suoi «occhi» sono in realtà finestre, e nel suo interno grandi lampade sono sospese… Dunque, il Leviathan con i suoi Angeli fu abbattuto sulla Terra. Ma su questi ultimi Genesi ci dice anche di più. “... Or quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla faccia della Terra e furono loro nate delle figliuole, i Figli di Dio (“Ben-Elohim” nel testo originale ebraico; e cioè, letteralmente - essendo Elohim il plurale del termine Eloha – “i Figli degli Dei”) videro che le figliuole degli uomini erano belle, e presero perciò per loro mogli quelle che si scelsero fra tutte...» (Genesi 6, 1-2). E nel versetto 4 dello stesso capitolo si specifica: ”... In quel tempo c’erano sulla Terra i Giganti (in realtà nel testo originale ebraico troviamo il termine Nephilim, collegabile al verbo “n-ph-l”, “cadere” e dunque, letteralmente, “i caduti” ovvero alla parola “Nephilà” che indica specificamente nel cielo la regione stellare della Costellazione di Orione: forse il loro luogo di provenienza?) e ci furono anche dopo, quando i Figli di Dio si accostarono alle figliuole degli uomini e queste generando loro dei figli. Essi sono quegli uomini potenti che, fino dai tempi più antichi sono stati famosi. I figli degli dei Chi erano questi enigmatici Figli degli Dei? Chi erano, nella tradizione ebraica, i padri dei mitici “Giganti”, i personaggi, cioè, che presso tutti gli antichi popoli sarebbero poi diventati i semidei e gli eroi delle varie mitologie? Perché, la parola che, in ebraico, sta ad indicare questi misteriosi personaggi e la loro progenie (una razza di alta statura, secondo la tradizione) significa, etimologicamente, “i caduti”? La risposta a tali interrogativi è in realtà meno complessa di quanto
si potrebbe supporre. Alcuni superficiali commentatori dei Sacri Testi, in passato, identificarono i Figli di Dio con i discendenti del pio Seth, che così sarebbero stati chiamati per contrapporsi ai Cainiti, i figli di Caino; oggi, però, numerosi teologi cristiani delle varie confessioni convengono che con tale termine gli Ebrei vollero indicare, esplicitamente, gli Angeli. Numerosi sono infatti i testi pseudoepigrafi (o apocrifi) che, trattando dettagliatamente degli eventi cui si accenna nel Cap. 6 di Genesi, possono farci comprendere quali fossero, in realtà, le amiche tradizioni popolari ebraiche sugli Angeli. Non resta che constatare l’evidenza. «...Fu in quei giorni» leggiamo nel Cap. 4 dell’apocrifo Libro dei Giubilei «che gli Angeli del Signore discesero
sulla Terra, gli Angeli che vengono chiamati “i Veglianti” , al fine di istruire i figli degli uomini e di insegnare loro il senno e la rettitudine sulla Terra. Enoch fu il primo, fra i nati sulla Terra, ad apprendere la scrittura, la scienza e la saggezza dei Veglianti, e che descrisse in un
Esoterismo libro le costellazioni del Cielo secondo l’ordine dei mesi loro propri. affinché gli uomini potessero conoscere le stagioni dell’anno secondo l’ordine dei diversi mesi». Enoch, come molti ricorderanno, è nominato in Genesi con altri patriarchi: «...Egli camminò con Dio (Elohim) e poi disparve, perché Dio (Elohim) lo prese con se…» (Cap. 5, 24). Il che con-
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ferma, appunto, quanto è scritto nel sopraccitato Libro dei Giubilei: «...Egli fu per lo più presso gli Angeli di Dio che gli fecero vedere tutto ciò che è sulla Terra e nei Cieli; ed egli scrisse tutto ciò che vide…». Il peccato dei veglianti «Egli recò testimonianza anche ai Ve-
Esoterismo glianti che avevano prevaricato con le Figlie degli uomini, giacchè avevano comincialo ad unirsi alle figlie degli uomini e si erano in tal modo contaminati» (Cap. 4, 21-22). L’unione degli Angeli con le donne della Terra, comunque, non è riferita soltanto nel testo apocrifo che abbiamo appena citato: anche i famosi rotoli di Qumran, i manoscritti antichissimi risalenti alla setta giudaica pre-cristiana degli Esseni, casualmente scoperti in una grotta del deserto lungo la costa occidentale del Mar Morto, avvalorano questa millenaria tradizione. “... I Custodi del Cielo caddero camminando nella ribellione dei loro cuori…” leggiamo infatti nel 3° capitolo dell’ormai noto Documento di Damasco “... Vi vennero presi quando non osservarono il comandamento di Dio; e i loro figli, la cui statura era come l’altezza dei cedri, e i cui corpi come le montagne, essi pure caddero…”. D’altronde, in un altro dei rotoli di Qumran, e cioè nel manoscritto noto come Le Memorie dei Patriarchi, possiamo leggere: “... Sospettando che il bambino fosse stato concepito da uno dei Veglianti del Cielo e appartenesse dunque alla stirpe dei Giganti, io, Lamech, inquieto nel profondo del mio cuore, così mi rivolsi a mia moglie BatEnosh: “Giurami per l’Altissimo, il Reggitore dei Mondi, il Supremo Signore degli Esseri del Cielo che mi dirai la verità”…». «...“Per l’Altissimo, Signore del Cielo e della Terra” è la rassicurarne risposta della donna “ti giuro che il seme che è in me è il tuo, che il frutto suo è stato da te concepito, e che esso e stato piantato in me da te e non da uno straniero o da uno dei Custodi del Cielo”…» (Cap. 2, 1-26). I brani da noi citati sono, evidentemente, fin troppo espliciti. A questo punto, però, è bene tenere presente che sia il Libro dei Giubilei che i vari rotoli del Mar Morto si riferiscono 144
solo superficialmente agli eventi sintetizzati nei versetti di Genesi che abbiamo preso in esame. Per maggiori particolari, dunque, dovremo rifarci alla fonte più autorevole e citare il famoso Libro di Enoch, risalente al II o al III secolo avanti Cristo, e che fa parte integrante delle Scritture Sacre della Chiesa Cristiano-Copta. «… Ora, allorché i figli degli uomini si furono moltiplicati» leggiamo nel testo etiopico «nacquero loro in quei giorni delle figlie belle e graziose; e gli Angeli, figli del Cielo, le videro e le desiderarono e dissero tra loro: « Andiamo, scegliamoci delle donne fra i figli degli uomini, e generiamoci dei figli…” (Cap. 6, 1-2). «... Or costoro (I Veglianti) erano duecento, e discesero al tempo di Jared sulla cima (Ardis) del Monte Hermon (posto al confine fra la Siria ed il Libano)...» (Cap. 6, 6). Quindi il Libro di Enoch ci fornisce addirittura i nomi di alcuni di questi Angeli, il cui capo si chiamava Semyaza; la versione del Charles riporta i seguenii; Arakiba, Rameel, Kokabiel, Tamiel, Ramiel, Danel, Ezeqee1, Baraqijal, Aseel. Armaros, Batarel, Ananel, Zaqiel, Samsapeel, Satarel, Turel, JomjaeL Sariel. Altre traduzioni, comunque, citano altri nomi, tra cui Arazeal. A puro titolo di curiosità ricordiamo che con tale nome gli antichi Armeni, e sembra anche altre popolazioni della Mesopotamia, erano soliti indicare il pianeta Venere. “... Or costoro, e tutti gli altri che erano con loro, si presero delle donne, ciascuno ne scelse una e cominciarono a volgersi verso di esse, ed insegnarono loro le magie e gli incantesimi e l’arte di tagliare le radici, e i segreti delle piante. Ed esse diventarono gravide, e generarono i Giganti…”. Questi ultimi, prosegue il testo, “finirono col dare fondo ai frutti del lavoro degli uomini, e quando questi non poterono più soddisfarli si rivolsero contro di loro…”. “... Essi” prosegue il Libro di Enoch «cominciarono a peccare contro gli uccelli, gli animali, i rettili e i pesci, divorandone la carne ed assaporandone il sangue (si tenga presente a questo proposito che l’uomo avrebbe dovuto essere, nelle intenzioni divine, una creatura esclusivamente vegetariana; vedasi infatti Genesi 1, 29-30). Allora la Terra accusò i violenti..”. (Cap. 7,1-6). Al peccato degli Angeli, dunque, si ag-
giungeva la prepotenza e la violenza dei loro figli, tesi ad imporre la loro autorità sugli uomini con la forza. I negativi insegnamenti degli angeli caduti Ma non è tutto. Giacchè «...Azazel insegnò agli uomini a fabbricare spade e gladi, scudi e corazze, e mostrò loro i metalli e l’arte di lavorarli, e i braccialetti e gli ornamenti, e l’antimonio e come abbellire con esso le palpebre, e le pietre più belle e più preziose, e le tinture di tutti i colori, e la rivoluzione del mondo. L’empietà fu grande e generale; essi fornicarono, errarono, e tutte le loro azioni furono corrotte… » (Cap. 8, 1-2). Il versetto seguente specifica che «...Semyaza insegnò agli uomini gli incantesimi, Armaros spiegò loro come scioglierli, Baraqijal fece loro conoscere l’astrologia, Kokabiel fece loro comprendere il significato dell’aspetto delle costellazioni, Ezeqeel la natura delle nuvole...» e così via, mostrandoci come l’improvviso, quasi brutale contatto con esseri infinitamente più evoluti abbia contribuito a sconvolgere e a corrompere la mite semplicità dell’umanità primitiva, del tutto impreparata ad un evento di tale portata. Veri e propri Conquistadores ante litteram. Infatti, i Veglianti e la loro progenie imposero agli uomini la loro autorità e ciò probabilmente senza troppa fatica, valendosi delle conoscente superiori che certo possedevano e del superstizioso timore che sicuramente dovevano incutere all’umanità di quell’epoca lontana, Fantasie? Potrebbe anche darsi. I re divini Eppure, nella millenaria tradizione che vuole identificare con gli Angeli Caduti i mitici Re Divini che, provenienti dal Cielo, avrebbero governalo l’umanità nella notte dei tempi, e che non è d’altronde presente solo nelle mitologie dell’antico Oriente, scopriamo tracce più che evidenti nello stesso ebraico antico; in questa lingua, infatti, Melek (= re) e Maleak = angelo, inviato) altro non sono, appunto, che due forme diverse di una medesima parola. Anche da un punto di vista etimologico ciò conferma, appunto, che gli Ebrei ritenevano che gli Angeli Caduti fossero effettivamente stati i primi re delle popolazioni mesopotamiche. Re assoluti e dispotici, evidentemente, e che certo non contri-
buirono a lasciare un ricordo piacevole presso le genti semitiche, a differenza di altri Re Divini scesi dai Cieli per governare la Terra di cui ci parlano le tradizioni e lo mitologie di vari popoli: dai miti egizi a quelli protoellenici, da quelli dell’India e dell’Estremo Oriente a quelli mesoamericani, dalle leggendo celtiche e protoitaliche a quelle dell’Oceania. La guerra degli angeli «Nel loro annichilimento gli uomini gridarono» continua il Libro di Enoch «e il loro clamore salì fino al Cielo. Allora Mikael, Uriel, Raphael e Gabriel volsero il loro sguardo dall’alto dei Cieli e videro il sangue sparso in abbondanza sulla Terra e tutte le ingiustizie che sulla Terra erano state commesse...» (Cap, 8, 4 e Cap. 9, 1). Per sintetizzare quel che poi accadde sarà però più opportuno, a questo punto, lasciare il testo etiopico (che tratta fin troppi nei dettagli dell’intervento degli altri Veglianti inviati da Dio contro gli Angeli Caduti e della parte avuta da Enoch in tale vicenda) per rifarci al più succinto Libro dei Giubilei: “… Dio si adirò profondamente contro gli Angeli che Egli aveva inviato sulla Terra e diede ordine che essi fossero spogliati d’ogni loro autorità e li fece imprigionare... Ed Egli mandò la sua spada in mezzo ai loro figli, sì che ciascuno uccidesse il suo vicino e si mettessero a uccidersi gli uni con gli altri sin a cader tutti morti di spada e fossero così cancellati dalla faccia della Terra...” (Cap. 5, 6-9) Semplici leggende? Forse. Quel che è certo è che, contravvenendo a disposizioni generali che non prevedevano rapporti con i nativi di una cultura inferiore, gli Angeli Caduti avrebbero importato sulla Terra comportamenti riprovevoli che avrebbero stravolto in negativo la specie umana. E noi ne staremmo ancora pagando le conseguenze… Quale possa essere la nostra opinione su quanto affermano i testi sopra citati, è un fatto che la progenie dei Figli degli Dei di cui parla Genesi, e cioè degli Angeli Caduti delle più antiche tradizioni ebraiche, è nominata ben altre quindici volte nel Vecchio Testamento, e che gli ultimi discendenti di queste razze di alta statura (il Libro di Enoch li chiama bastardi; la Bibbia li chiama, oltre a Nephilim, Refaim o Rafaim, Enacim, Enim, etc. ),
Esoterismo
secondo il II Libro dei Re e il I Libro delle Cronache, furono definitivamente annientati dagli Israeliti nel decimo secolo prima dell’era volgare. Può anche essere una coincidenza. Ma forse non è un caso che il Dio degli Eserciti, con spietate disposizioni ai limiti del genocidio, raccomandasse la soppressione sistematica dei vari monarchi (e dei popoli) loro discendenti a Mosè prima e a Giosuè poi. Israele fu dunque anche l’esecutore di una sentenza divina di annientamento della razza di bastardi Nephilim pronunciata da Jahvè al tempo del patriarca Enoch? Questo, direbbe Werner Keller, l’autore di La Bibbia aveva ragione, è storia. Non mitologia. Ed è del pari una realtà il fat-
to che la discesa di divinità sulla Terra, la loro unione con l’umanità e la conseguente comparsa di una razza di alta statura dagli attributi semi-divini in seguito estintasi costituiscano un insieme di tradizioni comuni a tutti gli antichi popoli. Dobbiamo ignorare tutto questo? O non dovremmo, piuttosto, cercare di stabilire che cosa può nascondersi dietro il velo del mito e della leggenda? A nostro avviso è questa la via da seguire, anche se ciò potrà comportare la necessaria revisione di concetti e di valori finora considerati assoluti. P.140-145: La caduta degli angeli ribelli, olio su tela di Luca Giordano, XVII sec. (particolari ed intero).
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Comunicare con la Conoscenza La presenza della Gran Loggia D’Italia alla Fiera Internazionale del Libro di Torino è giunta al suo terzo anno. Sabrina Conti
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e la prima partecipazione è stata vissuta con forte curiosità, la seconda edizione è risultata positivamente dirompente. I media hanno dedicato vario spazio ad interviste col Gran Maestro Luigi Pruneti. Quest’anno, forse, i più curiosi siamo stati proprio noi. Il successo dell’avere rinnovato questa scelta si è dedotto dalla normalità con cui la presenza della Gran Loggia D’Italia in Fiera del Libro è stata vissuta dagli “appassionati” di questa manifestazione. Le conferenze si sono susseguite a ritmo incalzante, riempiendo la sala, non più di curiosi ma di persone interessate all’argomento trattato. La nostra soddisfazione è andata oltre, nel constatare la partecipazione di un pubblico profano di età variegata. Anche i titoli dei libri proposti sono stati portati a casa da molti profani: insomma la voglia di capire e conoscerci attraverso la cultura è stata vincente. Un palcoscenico di questo tipo ha permesso di far conoscere l’Obbedienza nella sua più profonda ideologia; la partecipazione di oratori apparte146
nenti a uomini del mondo della cultura e dell’intellighenzia, ha apportato un valido contributo alla divulgazione del nostro pensiero, un pensiero condiviso da molti, seppur non iscritti alla Massoneria. La Massoneria è, al suo interno, ricca di sfaccettature, con peculiarità spesso a carattere esoterico iniziatico, ma il senso di appartenenza massonica si realizza, in primis, nella condivisione di valori che dovrebbero essere quelli fondanti di qualsiasi Uomo che – quotidianamente – è obbligato a confrontarsi con i suoi simili: la tolleranza, l’umiltà e l’amore, inteso come sentimento di apertura e condivisione. Il viaggio proposto, in questa edizione del Salone di Torino, si può sintetizzare con la parola Conoscenza (leghein). Le immagini rappresentate sui pannelli unite alle parole dei relatori ed alla musica – di volta in volta armonizzata agli argomenti trattati – hanno coinvolto e, possiamo dirlo, convinto un pubblico esigente e conoscitore delle materie esposte; il risultato dei molti interventi è che le conferenze hanno sforato tutti
i tempi prefissati, alcune di un’ora! Giuliano Boaretto, ha invitato Hobbit e Saruman a danzare, tra il bianco ed il nero, con celtiche sonorità eseguite dal chitarrista Jo Chies, dalla violinista Chiara Cesano, dal percussionista Vito Micolis e intonate dalla suadente voce di Fiorella Mondo. Il mondo delle Streghe, tra leggende e mito affascina sempre, soprattutto se narrate con slancio da Massimo Centini. Non si può davvero fare una statistica del successo delle varie conferenze, quando personaggi come Gabriele La Porta, Aldo Alessandro Mola, il Rabbino capo di Ferrara Rav Luciano Meir Caro ed ancora Antonio Binni, Ivan Jurlo, Franco Cuomo, Nazzareno Venturi prendono la parola. Abbiamo volato alto, tra le profondità dell’Anima, lo spirito dei Sufi e le magnificenze del Mondo Egizio, a noi tanto caro, trattato da Federico Bottigliengo e da Ilaria Monfardini, non dimenticando un po’ di sana autoironia attraverso i tratteggi del Maestro Sergio Sarri. I temerari che si sono avventurati malgrado la pioggia al Circolo dei Giornalisti,
Eventi
hanno vissuto un “Fuori Fiera” sulle note di diverse culture: un unione tra Occidente ed Oriente, espressione del sogno massonico. Come interpreti: la mezzosoprano Ginevra Zotti di Nicola, il Maestro Piotr Lachert al pianoforte, il Maestro Dario Destefano al Violoncello, il Maestro Maurizio Redegoso Karithian alla Viola ed il Compositore Antonio Cericola. Con musiche di W.A.Mozart, Gioachino Rossini, Komitas e G.I.Gurdjieff, B.Bartok, G.Castagnoli, Piotr Lachert, Davide Remigio … per forgiare nuovi mattoni utili alla riedificazione della “Torre di Babele”. P.146-147: Alcuni momenti dell’evento torinese: Giuliano Boaretto accompagnato dalla voce di Fiorella Mondo; Il mezzosoprano Ginevra Zotti di Nicola e il Maestro Piotr Lachert al ‘Circolo dei Giornalisti’; il piccolo stand aggiuntivo della G.L.D.I. per la vendita diretta di libri e riviste. (Il progetto dello Stand per la Fiera di Torino è stato ideato e allestito da Sabrina Conti; fotografie di S.Conti e P.Del Freo).
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Attualità
Pascal Vesin sospeso da parroco: massone o...
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l 23 maggio 2013 don Pascal Vesin è stato sospeso da parroco di Sant’Anna di Megève (Alta Savoia) dal vescovo di Annecy, Yves Boivineau. Ordinato prete della chiesa cattolica apostolica romana il 30 giugno 1996, l’oggi quarantatreenne don Vesin ha dichiarato di essere stato avvicinato “de manière interessée” da massoni della Gran Loggia Nazionale Francese ma di aver poi deciso di farsi iniziare nel 2001 in una loggia del Grande Oriente di Francia, “L’Avenir du Chablais” all’Oriente di Ginevra-Thonon. Sollecitante o sollecitato, varcò la soglia del Tempio senza informare l’ordinario ecclesiastico al quale era vincolato per gerarchia apostolica e amministrativa. Giocò insomma due partite, sapendo bene di farlo (o così è lecito supporre per benevolenza nei confronti suoi e di suoi eventuali apologeti). Secondo informazioni da lui non smentite, don Pascal si spese anche su temi sensibili per la “sua” chiesa: contro il celibato degli ecclesiastici, a favore del matrimonio tra persone dello stesso genere, per l’uso dei profilattici nelle relazioni sessuali e altri argomenti sui quali la sua chiesa propugna dottrine e norme diverse da quelle 148
da lui professate. Libero di farlo, ma a condizione di uscire, propria sponte, dall’Ordine di cui era ministro. Don Vesin non è stato imprigionato, torturato, condannato al rogo… Non è neppure stato sospeso a divinis. Informato da una lettera anonima nel 2010, il vescovo lo ha convocato, ascoltato, ammonito. In primo tempo negò di essere entrato in Massoneria. Sconfessato dall’annuncio per internet della sua partecipazione a una tenuta massonica a Ginevra, per due anni è stato richiesto di lasciare la loggia. Il suo caso è stato infine sottoposto al vaglio della Congregazione per la dottrina della fede, che il 7 marzo gli ha dato un mese di tempo per rompere in modo netto e chiaro con l’“Avenir du Chablais”. Al suo rifiuto, l’ordinario ecclesiastico non ha avuto più margini: lo ha sollevato dall’incarico pastorale e lo ha privato dei benefìci connessi (l’alloggio e la congrua). Sarebbe improprio farne una vittima dell’intolleranza o del fanatismo della Chiesa cattolica, le cui gerarchie hanno applicato la legislazione ecclesiastica vigente, di cui è unica fonte e interprete. Quando si gioca a bocce si mira al pallino, non ai piedi dei concorrenti né degli
spettatori. Ogni Istituzione ha diritto di fissare le proprie norme e di esigerne il rispetto da chi accetta di farne parte. Pascal Vesin non è un quisque de populo, è un sacerdote: ordinato, e quindi tenuto ai canoni che (si suppone) conosceva prima della sua iniziazione, che accettò o scelse o subì. Se ebbe la forza di superare una certa soglia doveva poi avere quella di valicarne un’altra. Non solo. È da credere che abbia preferito una loggia del Grande Oriente (“liberale” e a-dogmatico) a quella della Gran Loggia Nazionale (all’epoca incardinata sui capisaldi di legittimità e regolarità proclamati dalla Gran Loggia Unita d’Inghilterra) sulla base di studio e di matura cognizione delle loro diverse storie e identità. Il “caso Pascal Vesin”, dunque, è davvero “un caso”. Rimane da chiarire se e perché la Chiesa cattolica apostolica romana ancora vieti ai propri ministri l’iniziazione massonica. È una questione sua. Nel 1974 il prefetto della congregazione per la dottrina della fede, Ferenc Seper, scrisse che i cattolici possono far parte di logge massoniche che non cospirano contro la Chiesa ma ribadì il divieto di iniziazione massonica per gli ecclesiastici. La promulgazione del nuovo Codice di Diritto Canonico (1980) è poi stata accompagnata nel merito da una Dichiarazione che ha ribadito il giudizio negativo della Chiesa cattolica sulla Massoneria e ha affermato che i massoni sono “in colpa grave”: non ha però ribadito la “scomunica”. Veduti questi precedenti normativi e storici si può concludere che il vescovo di Annecy si è condotto con pacata moderazione: don Vesin è stato sollevato dall’incarico, ma niente affatto escluso dalla chiesa. Farne un “caso” e alimentare polemiche costringerebbe alla difensiva chi invece si sta aprendo e vive (forse con qualche sofferenza) al proprio interno mutamenti rapidi e rapinosi. Come ha recentemente dichiarato il Gran Maestro Luigi Pruneti la Massoneria, in specie la Gran Loggia d’Italia, “non ha muri precostituiti verso nessuno, tanto meno verso il Vaticano, contro cui la Massoneria non si pone in alcun modo”. Il Tempo propizia la Verità. Aldo A.Mola
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l quotidiano “La Repubblica” il 18 ottobre dello scorso anno ha pubblicato la classifica relativa ai primi mesi del 2012 che vede in testa alla lista degli oggetti maggiormente rubati i libri antichi (oltre 5 mila 500 su 10 mila 248 oggetti rubati), oggetti che se vengono molto rubati, sono anche frequentemente recuperati. Stando ai dati forniti dai carabinieri nel 2009 sono stati ritrovati oltre sedicimila volumi, diecimila in più rispetto all’anno precedente. Il furto di libri antichi è balzato recentemente agli onori delle cronache con l’episodio della meravigliosa Biblioteca dei Gerolamini di Napoli depredata proprio dal suo direttore con la complicità del Padre Conservatore della Biblioteca stessa. Pone1 serram, cohibe, sed quis custodiet ipsos custodes? diceva Giovenale! Un fatto gravissimo che ha sconcertato sia chi riveste responsabilità nella conservazione e valorizzazione dei beni librari, innanzitutto i funzionari del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, che si prodigano anche in situazioni lo1 Decimus I.Iuvenalis, Satire, VI, vv. 362-363.
gistiche difficoltose per la tutela del patrimonio bibliografico, sia quanti sanno che un libro, per quanto possa essere pregevole, non è solo un’opera d’arte ma circolazione d’idee, di cultura, di conoscenza. Il possesso di un’edizione pregevole o di un manoscritto raro ha sempre attratto l’attenzione dei bibliofili e degli antiquari e di tutte le persone senza scrupoli che non esitano di ricorrere al furto, in proprio o su commissione, per impadronirsene. I ladri di libri sono sempre esistiti, uno di essi in America in vent’anni è arrivato a rubare 28.000 libri e dall’altra parte si è sempre cercato di evitare i furti in questione. Come giustamente asserisce Carlo Revelli2, il conflitto fra la necessità di custodire il materiale e quella di informare è acuto e le maledizioni in uso nell’antichità contro chi avesse osato rubare o mutilare libri non sono più di sicura efficacia. Revelli cita quella della biblioteca abbaziale di Arnstein, nell’Assia, dedicata alla Vergine 2 C. Revelli, Furti, vandalismi e cose affini, in Biblioteche oggi, gennaio-febbraio 2000, pp. 58-62.
e a S. Nicola: “Se qualcuno la deruba, possa egli morire la morte, possa esser bollito in un pentolone, che l’epilessia e la febbre lo colgano, sia spezzato sulla ruota ed impiccato. Amen”. In Spagna si ricorreva alla scomunica (Foto n. 1), ma anche gli ex libris avevano come funzione primaria quella di distinguere i propri libri e preservarli così dai furti. Ovviamente per tutelare la sicurezza negli archivi e nelle biblioteche adesso esistono ricercati sistemi che spaziano dai metal detector per sincerarsi che l’utente non abbia con sé materiale metallico per tagliar via fogli dai libri, ai microchip e comunque è cogente la necessità di adottare moderne e sofisticate tecnologie di allarme e protezione dai furti, procedure antintrusione e antidanneggiamento, piani di sicurezza ed evacuazione degli stabili. Negli USA per prevenire la criminalità connessa ai furti e agli atti di vandalismo contro libri antichi, manoscritti e altri manufatti di pregio sono stati attivati appositi corpi di vigilanza specializzati, con agenti FBI coinvolti nelle operazioni di recupero delle opere sottratte. La preoccupazione per la sorte delle collezioni è alla base di una cura scientifica nella predisposizione di piani d’intervento e azioni preventive volte a preservare le testimonianze del sapere umano; d’altra parte le collezioni librarie, archivistiche o di opere d’arte sono beni da tutelare adeguatamente non solo per il contenuto informativo, storico e culturale, ma anche per il loro non trascurabile valore economico. L’immagine delle istituzioni va inoltre tutelata per favorire la generosità dei privati e degli enti nelle donazioni e nell’accrescimento delle collezioni. Gli ex libris che in questa puntata ho deciso di presentare sono quelli di alcuni fratelli della Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. di Palazzo Vitelleschi a cominciare da quello di uno dei suoi nomi più importanti, Antonio Binni. 149
Ex Libris
Il suo ex libris è un’acquaforte del 1989 di Victor Schapiel (Austria), 139x87, numerato e firmato dall’autore. Raffigura un nobile in costume cinquecentesco, sotto un sole al suo Zenith, che si trasfigura in un uomo nudo che configge la sua spada in un cespuglio di rose, sullo sfondo di una nordica città accanto a un corso d’acqua, raffigurazione del viaggio di un Principe Rosa+Croce. I Rosacroce, confraternita esoterica attiva in particolare nel XVII e XVIII secolo, basavano la loro attività sulla carità e sull’amore fraterno e affermavano di perseguire specialmente la purezza e la saggezza, non tenendo in alcun conto i beni mondani e le ricchezze. Quello di Rosa+Croce è il diciottesimo di una serie di trentatré gradi che nel 1801 hanno costituito il Rito Scozzese Antico e Accettato della Massoneria. La nascita del 150
Rosacrocianesimo è fatta risalire però fra il XVI e il XVII secolo, cioè al periodo nel quale l’Europa subisce una serie di assestamenti religiosi derivanti dalla Riforma protestante, dallo scisma anglicano e dai provvedimenti controriformisti del Concilio di Trento. Secondo l’opinione più diffusa il movimento fu fondato dal monaco luterano Johannes Valentinus Andreä nel 1614 a Kassel, in Germania, e al suo blasone, composto da una croce di Sant’Andrea con quattro rose poste agli angoli, è fatta risalire l’immagine di questa Società. Anche lo stemma di Martin Lutero però raffigura delle rose intorno a una croce, non dimenticando però che per gli alchimisti la rosa simboleggiava i quattro elementi naturali. Il rifiorire in questo particolare momento storico dell’alchimia, intesa come tramite per aprire la por-
ta della conoscenza a pochi eletti, era un mezzo per ricordare che la sapienza era per i pochi che si dimostrassero degni di possedere superiori ricchezze spirituali. La diffusione avvenne oltre che in Germania, nella quale era sorta, anche in Francia, Inghilterra e Russia. Il fatto che il nobile indossi un costume di foggia elisabettiana sta a indicarci che Schapiel fa riferimento a questo preciso momento storico e la scelta stessa dell’abito, cioè un corto soprabito, chiamato cloak, lungo fino a mezza gamba e portato su una sola spalla, costruito con un prezioso tessuto rigido realizzato unendo una serie di strisce per simulare i tagli delle uniformi dei soldati, ci suggerisce l’appartenenza del cavaliere alla più alta società. Il cloak era, infatti, un capo prezioso indossato dai nobili in occasioni speciali e mette in risalto il concetto della “great chain of being”, cioè “la grande catena dell’essere” alla cui base erano i poveri e i contadini e all’apice, più importante dello stesso Dio, la regina, e gli abiti dovevano rigidamente rappresentare lo stato sociale. Abbiamo allora un nobile, ricco di denari e di sapere che, partendo dalla città di Kassel, sul fiume Fulda, nell’Assia settentrionale, perché proprio questa è la città raffigurata nell’ex libris, è trasformato dalla sua stessa filosofia e dai suoi viaggi, alla ricerca del bene e della conoscenza, in un uomo nudo davanti alla spada divenuta una croce che nasce da un cespuglio di rose, simbolo qui della più alta pienezza che un essere umano possa raggiungere. La nudità in questo caso simboleggia semplicità e povertà, ma anche virtù e innocenza. La figura del titolare dell’ex libris, Antonio Binni, è a tutti nota, sia in campo professionale sia massonico. Laureatosi giovanissimo in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Bologna, con il massimo dei voti e la lode, ha approfondito i suoi studi nelle Università di Gottinga e di Berlino. Titolare nella città di Bologna di un affermato studio legale che opera sia in campo nazionale che internazionale, è presidente del consiglio di amministrazione d’importanti società, docente, autore di saggi e articoli giuridici pubblicati in qualificate riviste ed enciclopedie, relatore in moltissimi convegni regionali e nazionali, severo studioso di filosofia e storia delle religioni, nonché autore di numerosi studi e pubblicazioni mas-
soniche. È stato iniziato nella Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. di Palazzo Vitelleschi nel 1976 alla loggia “Ugo Bassi” all’Oriente di Bologna e tanto nell’Ordine quanto nel Rito ha ricoperto tutte le cariche massoniche in ambito cittadino, provinciale e regionale fra le quali, nell’Ordine, quella di Grande Oratore, Primo Gran Sorvegliante, Gran Maestro Aggiunto, Gran Maestro Aggiunto Vicario. Nel Rito ha ricoperto le cariche di Membro effettivo del Supremo Consiglio, Gran Cancelliere del Supremo Consiglio, Gran Ministro di Stato, Luogotenente Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro Aggiunto vicario della Gran Loggia d’Italia e del Supremo Consiglio d’Italia. Attualmente è Gran Priore del Supremo Consiglio, oltre che Sovrano Grande Ispettore gene-
rale per la Regione Massonica Emilia-Romagna. Credo che Schapiel sia riuscito in questa interessantissima opera a compiere un’approfondita analisi psicologica, nonché un importante studio storico e artistico sul movimento rosacrociano. Paolo Masieri, noto massone fiorentino e collezionista di documenti massonici, è stato iniziato il 12 dicembre 1978 all’Officina “Aristotele” di Firenze; fra i fondatori nel 1981 della loggia “Socrate” appartiene tuttora al suo piè di lista. Ora è viceispettore dell’Oriente di Firenze, città nella quale è ben conosciuto e rispettato per la sua decennale professione di assicuratore. Il suo ex libris è una composizione tipografica, 60x85, che risale alla fine degli anni ’80, caratterizzata da una serie di elementi che
lo rendono tutt’altro che convenzionale. Il riquadro che contiene i simboli ricorda in parte un grembiule, in parte la mantovana dentellata, detta nappa a frastagli, che circonda il quadro di loggia. Un sole raggiante delimita un orizzonte che è anche ara, dove, assieme alle tre Grandi Luci, Li-
Ex Libris bro Sacro, Squadra e Compasso, appare un poderoso tomo, intitolato Art-usi, usi all’arte? Oppure semplicemente l’Artusi? Certo è che Masieri è anche un buongustaio! Il noto libro di cucina di Pellegrino Artusi, mercante e critico letterario più che cuoco, intitolato La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene, edito nel 1891, nell’ancor molto variegata Italia post risorgimentale darà un’italianità anche ai fornelli, anche se in realtà le ricette sono tosco-umbro-emiliane. Questo ricco borghese anticlericale con una simpatica famiglia allargata ai gatti Sibillone e Biancani, ai quali dedicò la prima edizione della sua famosissima opera, probabilmente non era estraneo alla Massoneria in quanto a stretto contatto con l’ambiente postunitario fiorentino e prova ne è la prefazione del noto massone Olindo Guerrini, in arte Lorenzo Stecchetti, che fra l’altro commenta che “[…] una discussione sul cucinare l’anguilla, vale una dissertazione sul sorriso di Beatrice”. Questo testo che ha venduto oltre un milione di copie ed è giunto alla centocinquantesima edizione è stato tradotto in tutte le lingue principali ed è stato ristampato in anastatica della prima edizione nel 2011 per celebrare il centenario della morte di Pellegrino Artusi assieme ai festeggiamenti dell’unità d’Italia della quale è stato un simbolo. Un’acquaforte, arricchita all’acquatinta, 65x80, realizzata da Leonardo Scarfò, numerata e firmata dall’autore è uno degli ex libris di Annalisa Santini, medico, massone e appassionata exlibrista. Scarfò, nato a Firenze nel 1974, laureato in Filosofia, studia dal vero gli antichi maestri, con particolare predilezione per i grandi incisori del Cinquecento europeo. Esordisce con successo alla Fiera Internazionale di Arte Contemporanea di Bolzano “KunstArt 2009” accanto ai nomi storici del ‘900. Inizia quindi un rapporto di collaborazione con una delle più importanti 151
gallerie milanesi, la Miniaci Art Gallery di Via Brera. Nel 2011, attorno al suo ciclo di sei acqueforti sulla “Civiltà Italiana”, inaugura in anteprima, ancora a Monaco di Baviera, un ciclo di mostre dedicate alla rappresentazione fantastica delle tappe fondamentali della nostra civiltà artisti-
Ex Libris ca. Realizza per numerosi comuni italiani, fra i quali Montalcino, Positano, Sabbioneta, tirature di acqueforti raffiguranti in chiave allegorica la storia, le tradizioni, le peculiarità artistiche e antropologiche del territorio. Questo ex libris rappresenta l’ineffabile sinergia tra Mercurio e Minerva, divine, dunque supreme, personificazioni esoteriche delle due componenti essenziali della nostra capacità di conoscere comprendendo e comprendere conoscendo, cioè la nostra parte intuitiva e quella razionale; presenta una particolare suggestione e, con essa, inscindibilmente, una particolare difficoltà. La suggestione consiste nell’alludere a quella compiutezza, a quella completa compenetrazione con l’oggetto della nostra inesausta ricerca che costituisce il fine supremo di ogni ricercare. La difficoltà consiste nel fatto che tale assoluta compenetrazione rappresenta soprattutto un fine, la forma di un metodo, il movente spirituale piuttosto che la realtà di un possibile, definitivo compimento per la nostra conoscenza. Minerva è statica e altera, virginale e feroce nella sua maestà algida e severa; la immaginiamo troneggiante, coronata di luce nitida e piena, filtrata a malapena dalla rigorosa geometria di colonne che sorreggono la sacrale geometria del Tempio. Mercurio non sa sostare, è per eccellenza ambiguo, obliquo, oscuro e tuttavia indispensabile ponte tra mondi; messaggero, psicopompo, abitatore dei limiti e traghettatore oltre i limiti. Sensuale, fecondatore, irrefrenabile. Minerva è Scienza, Mercurio è Alchimia. Una piena convergenza tra Scienza e Alchimia, supremo, solare traguardo, è forse quanto questo ex libris vuole alludere con maggiore sottigliezza. La lancia incrociata con il caduceo, l’intreccio delle braccia divine, il comune sostegno dato alla città di Siena, nella quale è nata e vive la titolare, come a dire a uno spazio architettonicamente ordinato, allegoria dell’anima spiritualmente educata, non sono che variazio152
ni sul tema unico di tale sinergia. Il motto, enfasi tutt’altro che superflua, traduce con lirismo quanto l’immagine ambisce a significare nell’immediatezza: l’universalità della bellezza della conoscenza. Il motto lucet omnibus è inciso nel sigillo della loggia “Salomone III” che Annalisa Santini ha contribuito a fondare e della quale è membro attivo e sottende la parola Sol, il sole che è raffigurato nel sigillo della Loggia e queste parole, tratte dal Satyricon3, vogliono indicare l’assoluta imparzialità che deve esistere in una Loggia, così come imparziali sono i raggi del sole che illuminano ugualmente tutti. Le allusioni alla Massoneria non sono però finite perché sopra le lance incrociate brilla il Delta che racchiude l’Occhio divino che allude sul piano fisico al Sole visibile dal quale emanano Vita e Luce, sul piano astrale al Logos e sul piano divino al Grande Architetto dell’Universo. Un’ulteriore richiamo latomistico è rintracciabile nei tre puntini 3 Titus Petronius Niger, Satyricon, 100, 3.
che separano la parola “ex libris” dal nome della titolare; essi4 sono una rappresentazione del Triangolo e risalgono verosimilmente al 12 agosto 1774 quando vennero usati nella circolare inviata dal Grande Oriente alle Logge, come asserisce Ragon. Questo ex libris del famoso attore Ettore Petrolini, zincotipia 37x45, è stato disegnato da lui stesso mostrandosi come la maschera teatrale che interpretava e ricopre la sua funzione primaria, cioè è incollato in un libro a indicarne il suo proprietario. Addirittura in questo volume, Il sostituto, abbiamo la dedica a Petrolini dell’autore, Ossip Félyne, nom de plume di Osip Abramovi Blinderman, nato a Odessa 29 dicembre 1882, ingegnere, scrittore e drammaturgo che, colto dagli avvenimenti rivoluzionari a Parigi, non rientrerà in Russia, scegliendo come rifugio e residenza l’Italia e più precisamente 4 J. Boucher, La simbologia massonica, Parigi, 1948, p. 61.
Bordighera, sulla costa ligure, dedicandosi alla scrittura di romanzi e opere teatrali. Vivrà a Roma, Napoli e Milano come giornalista, direttore dell’Impresa metropolitana di Napoli e traduttore dal russo. Otterrà la cittadinanza italiana, poi revocata nel 1939 perché di origine ebraica. Ettore Petrolini (Roma, 13 gennaio 1884 – Roma, 29 giugno 1936) è stato un attore, drammaturgo, scrittore e sceneggiatore italiano, specializzato nel genere comico. È considerato uno dei massimi esponenti di quelle forme di spettacolo a lungo considerate teatro minore, termine con il quale si identificavano il Teatro di varietà, la Rivista e l’Avanspettacolo. La sua importanza nel panorama del Teatro italiano è oggi pienamente riconosciuta. Riassumendo in sé l’attore e l’autore, Petrolini ha inventato un repertorio e una maniera che hanno profondamente influenzato il teatro comico italiano del Novecento. Sicuramente il suo modo di fare teatro è stato al fuori di ogni schema e pur se i suoi legami con il futurismo di Marinetti sono innegabili, anche di lui ama ridere: “[…] Marinetti è quella cosa / Che facendo il futurista / Ogni sera fa provvista / Di carciofi e di patat … Petrolini è quella cosa / Che ti burla in ton garbato, / Poi ti dice: ti ha piaciato? / Se ti offendi se ne freg […]”5. Nel 1923 fu iniziato alla Massoneria in una Loggia all’Obbedienza di Piazza del Gesù6 7. Necessariamente il suo passaggio nella nostra Obbedienza è stato breve perché il suo ingresso nel 1923 in una loggia di artisti è stato rapidamente seguito dalla messa al bando della Massoneria da parte del regime fascista e un attore, sia pur celebre quale lui era, doveva avere l’appoggio del potere costituito e anzi il suo rapporto con Mussolini fu estremamente cordiale, anche se è rimasto immortale il ringraziamento per la medaglia conferitagli: “E io me ne fregio!”.
Ex Libris
5 E. Petrolini, Stornelli Maltusiani, così chiamati perché interrompevano l’ultima parola dell’ultimo verso, secondo la moda dei futuristi che gravitavano attorno alla rivista “Lacerba”. 6 R. Palmirani, Ex libris massonici, Roma, 2000, p. 91. 7 G. Gamberini, Mille volti di massoni, Roma, 1975, p. 228.
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l’Orphelinat maçonnique de la GLDF”. Massimo Marra
La Massoneria rivelata. Storie, leggende e segreti
Luigi Pruneti e Marco Dolcetta, Mondadori, Milano 2013, pp. 216, illustrato, €. 24,90.
I Le temple perdu. Histoire de laFranc-Maçonnerieitalienne... et de l’atimaçonnerie... des 1725
L. Pruneti. Traduit de l’italien et enrichi par A. Gallego, Les Edictions Ixcéa, Toulouse, 2013, rilegato, pp. 339, €. 42,00.
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uesto libro risponde alla necessità di far conoscere in Francia la storia della Massoneria italiana, dalle sue origini fino al terzo millennio. Inoltre, il testo, tratto in gran parte dalla Sinagoga di Satana che l’autore pubblicò nel 2002, illustra in modo dettagliato la campagna diffamatoria e spesso persecutoria alla quale la Libera Muratoria fu ed è oggetto nella Penisola. L’opera che si articola in nove capitoli, è stata tradotta e attata ai lettori francesi da Andre Gallego che ha provveduto anche a implementare alcuni argomenti e il ricco apparato bibliografico. Il volume è, pertanto, un importante saggio sulla Massoneria peninsulare le cui vicende sono poco note Oltralpe. Uno dei pregi del presente volume è, comunque, quello di avere un fine solidaristico; ogni provente ottenuto dalla vendita della pubblicazione, a iniziare dai diritti d’autore, andranno infatti a beneficio dell’Orfanotrofio massonico della Gran Loggia di Francia, come è esplicitato dallo stesso curatore: “Toutes les bénéfices de la vente de cette ouvrage comme les droits de l’auteur et du traducteur seron reversés à
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l volume non vuole solo demistificare le false leggende sulla libera muratoria ma, ripercorrendo tre secoli di storia, descrive aspetti poco noti di alcuni dei suoi protagonisti, analizza i miti creati dagli stessi massoni, rivela la parte che ebbero in alcune vicende importanti del passato più o meno recente; individua, inoltre, gli elementi simbolici che gli adepti della squadra e del compasso disseminarono nell’architettura, nell’arte e nella letteratura, spiega i motivi dell’astio verso la confraternita e passa in rassegna i suoi più famosi nemici, svelandone i fini e le metodiche. Tanti e diversi argomenti, veri e presunti, sui misteri della Massoneria, fanno sì che il libro si presenti come una galleria di quadri dove i ritratti di personaggi come Barruel, Garibaldi, Racovski, Franco, Carducci, Lenin si stagliano sullo sfondo di epoche e di ambienti diversi: dalla Rivoluzione francese a quella americana, dall’Italia Umbertina alla Germania di Hitler e all’Unione Sovietica. Non mancano, inoltre, note di colore e l’esplorazione dei nuovi orizzonti dell’immaginario collettivo condizionato dalla rete globale, la più possente creatrice di miti nella storia dell’umanità.
Termoli e Casacalenda nel 1799, stragi dimenticate
Antonella Orefice, con interventi di Luigi Pruneti e Mario Zarrelli (Arte Tipografica Editrice, Napoli 2013, pp. 101, € 12.00)
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uovi frammenti di verità riaffiorano dal passato grazie all’opera di Antonella Orefice, nota studiosa napoletana, che da anni si
dedica con passione alla ricostruzione dei sei mesi della Repubblica del 1799. Non studi teorici, ma riproduzioni in anastatica dei documenti. È questa la peculiarità delle pubblicazioni della Orefice che, anche in quest’ultimo lavoro, non ha mancato di trascrivere ed offrire dagli originali, due manoscritti inediti, ritrovati nel fondo Mariano D’Ayala, presso l’archivio della Società Napoletana di Storia Patria, ente prestigioso che, dal 1875,
riunisce intorno a sé studiosi di fama europea ed offre con la sua biblioteca e l’archivio un patrimonio culturale di inestimabile valore. I manoscritti pubblicati da Antonella Orefice in questa sua ultima fatica letteraria, narrano le vicende che sconvolsero due centri molisani, Termoli e Casacalenda, durante il febbraio del 1799, epoca durante la quale il re Borbone, Ferdinando IV, era scappato in Sicilia per sfuggire all’esercito francese che avanzava, lasciando Napoli e le province in balia della miseria e dell’anarchia. Con dovizia di particolari, gli autori dei manoscritti, Teodosio Campolieti e P. Giuseppe La Macchia hanno lasciato ai posteri una cronaca vivida delle esecuzioni dei fratelli Brigida a Termoli e di Domenico De Gennaro a Casacalenda, per mano delle truppe mercenarie reclutate dal Cardinale Ruffo, da cui emergono intatte atmosfere e verità storiche che, come sottolinea nel suo intervento Luigi Pruneti, rappresentano una riposta decisa al recente revisionismo storico d’accatto. Non parole, non luoghi comuni, non ipotesi, ma documenti veri, quelli che il re Borbone Ferdinando IV non riuscì a dare alle fiamme con l’intento di far sparire dalla storia fatti e protagonisti dei sei gloriosi mesi della Repubblica Napoletana, un momento durante il quale Napoli riuscì a dare di sé un’immagine diversa: non più lazzari, maccheroni e frivolezze monarchiche, ma un governo gestito dalle migliori menti illuminate del ‘700. L’intervento dell’avv. Mario Zarrelli contribuisce a dare all’opera una lettura giuridica, ma anche umana sia dei manoscritti che dell’indignazione che traspare dalle parole di Antonella Orefice nell’introdurre l’opera, sentimento motivato e giustificato dall’efferatezza di quelle stragi che seminarono vittime innocenti che combatterono per un futuro migliore: i patrioti. Forsan et haec olim meminisse iuvabit (E forse un giorno sarà un bene ricordare tutto questo). Chi cerca la verità e lavora per restituire luce e giustizia a quegli innocenti morti per mano del carnefice porta nel cuore queste ultime parole pronunciate sul patibolo da Eleonora de Fonseca Pimentel Fonseca. Chi ama la libertà non può non sentirsi avverso a quella monarchia dispotica, e profondamente indignato di fronte a certe affermazioni prive di fondamento, che mirano a svilire fatti e protagonisti di quel nostro glorioso pezzetto di storia che fece eco in tutta l’Europa. Altro che traditori del Regno! I martiri della libertà del 1799 sono stati eroi che meriterebbero un monumento nel cuore di tutti coloro che amano Napoli, terra natia di menti eccelse e rare. Nessun perdono per gli assassini, ma la sola ed esclusiva intenzione di
restituire alla nostra storia patria un ulteriore pezzetto di verità, in risposta all’ondata controrivoluzionaria che tende a relegare i sei mesi delle Repubblica Napoletana ad un dissacrante quanto vergognoso oblio.” (Antonella Orefice - Termoli e Casacalenda nel 1799, stragi dimenticate. Con interventi di Luigi Pruneti e Mario Zarrelli, Arte Tipografica Editrice, Napoli 2013, p. 24). Antonio Cangiano
Vita e pensiero dei momenti ultimi
A cura di R, Ariano e P. A.Rossi, Genova, 2013, pp 224 Euro 15
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el corso di queste pagine si affronta, si dibatte e si riflette un tema di grande attualità e interesse pubblico: il fine vita, il morire e la morte, passaggi obbligati per tutti gli esseri umani. Il nostro vivere è vita per la morte e fin da quando l’uomo nasce egli condivide la fine della sua esistenza Soleva ripetere il filosofo danese Sören Kierkegaard: “Nella vita l’uni-
ca cosa certa è la morte, però è l’unica cosa di cui non si può sapere nulla con certezza!.” Nel saluto di benvenuto Franca Barbetti Celetto ricorda che “su queste tematiche ci troviamo immersi in una Società che appare scissa su due ordinamenti fondamentali che rispecchiano, di fatto, i due aspetti della moderna bioetica (laica e cattolica-romana) ma intrisa da una cultura dominante che scarta i concetti di sofferenza, di dolore, di rassegnazione, rimuove gli argomenti relativi alle criticità esistenti sul morire … mentre esalta la salute
come valore assoluto”. Renato Ariano definisce il chiaranente il problema “Il tema del fine vita non è mai solo un semplice tecnico-scientifico ma è in definitiva un problema della società che non accetta la morte e non comprende che la morte è l’altra faccia della vita”. Giuliano Boaretto lascia che siano le parole dei poe-
Recensioni ti sognatori dove nell’arte poetica il vocabolo da segno diviene simbolo. Il kairos – concetto qualtativo “il momento opportuno o misura giusta” che i Greci opponevano al quantitativo chronos il tempo logico e sequenziale (c’era anche l’aiòn, il latino aevum, cioé un tempo tanto lungo che può designare un tempo che non ha fine, un tempo senza tempo … ma ai Greci non piacevano le contraddizioni). E termina citando Jung: “quello che avviene dopo la morte è così indescrivibilmente glorioso che la nostra immaginazione e i nostri sentimenti non sono sufficienti a darcene un’idea approssimata”. E Vittorio Gallo ribadisce “Nulla di prestabilito né di standardizzato fideisticamente, per il liberomuratore, ma ciò che forse potrà identificarsi come proseguimento del continuo sperimentare la morte stessa in vita, il che equivale ad imparare continuamente a morire che è ancora come dire fare esperienza di un eterno presente, secondo un principio per il quale l’eternità non viene dopo il tempo e la vita eterna non ha una durata”. E cita ad es. M. Heidegger (Essere-per-la-morte) assumendo ab inizio la propria mortalità o R. Panikkar non vivo ora la mia rinascita non vivrò mai e V. Jankélevitch l’aver vissuto è il suo viatico per l’eternità, La visione culturale e psicologica della morte, che da liberi muratori possiamo sentirci di condividere, è quella “continuista”, quella che vede la morte come parte intrinseca della vita. Il Massone porta in sé e coltiva il principio di “essere nel Creato” in relazione ad un preciso disegno “architettonico” dal quale dipendono in parte o in tutto gli eventi che caratterizzano la nostra vita e quella dell’Universo. Detto in termini gnostici, portiamo in noi la scintilla divina. Il trattamento riduzionistico – sostiene nel suo intervento Andrea Di Massa - del paziente cronico, che appunta precipua attenzione su organi ed apparati, non è sufficiente poiché trascura l’esperienza di malattia. Se la malattia conduce il paziente alle soglie della vita, lo scenario si complica. Dolore e sofferenza possono dominare la scena. In ogni caso la realtà che il paziente conosceva prima della malattia si sgretola e si ristruttura nuovamente. Se sono presenti turbe delle coscienza la realtà, già sgreto155
lata, può rimanere definitivamente destrutturata e non assumere nessuna forma. Nei casi estremi si invoca la limitazione della terapia; se il paziente è cosciente può chiedere egli stesso di interrompere la storia naturale di malattia. La nostra legge ed il codice di deontologia medica non consentono la interruzione volonta-
Recensioni ria della vita. In attesa del momento che consentirà di sintonizzare legge e scienza, abbiamo il dovere di prenderci cura dei pazienti a fine vita, coinvolgendo tutti gli attori del trattamento, ovvero medici non medici, terzo settore, comunità locali ed Istituzioni. Attenzione e cure (to care) accompagneranno un numero sempre maggiore di pazienti lungo i sentieri della evoluzione naturale delle patologie che conducono a fine vita. In ogni caso occorre ricordare che il progresso scientifico è ritenuto tale solo se pone le basi per ulteriori nuove conoscenze. Queste possono sintonizzare i dubbi che Morale, Scienza e Diritto pongono, ma sono inevitabilmente destinate ad aprire la porta a nuovi interrogativi. Allorché la nostra incertezza viene trasformata in dubbio abbiamo fatto un passo in avanti”. Il “quando morire” e il “come morire” sono problemi oggi essenziali, poiché il potere dei saperi medici ha definitivamente svincolato la vita dalle regole rigide della natura. Il dibattito bioetico, che considera la controversa questione tra il lasciar morire/aiutare a morire e rispondere alla richiesta di morte (suicidio razionale), ha imboccato dagli anni Novanta la via del confronto tra principi di valore e di diritto e si è prevalentemente focalizzato intorno alla questione delle malattie terminali per la gestione del suicidio assistito, dell’eutanasia e della sospensione della cura. Ma come osserva Mario Abrate in Eutanasia: delitto o diritto? la condizione per ammettere la liceità e la legalità dell’eutanasia è l’affermazione di un diritto assoluto dell’uomo a disporre della propria vita e a chiederne la soppressione una volta che questa sia “senza valore”. Il problema è però quello non solo di identificare chi abbia il diritto e l’onere di stabilire quando la vita diventa “senza valore”, ma soprattutto quello di chiarire il concetto di “qualità della vita”, ovvero se una vita sia degna di essere vissuta in quanto dotata di criteri minimi di accettabilità fisico-psichica secondo una valutazione soggettiva o dei più o se comunque sempre sia degna in nome e della sacralità, inviolabilità e indisponibilità della vita umana indipendentemente dalle circostanze di debolezza, di malattia, di handicap. Se si sta agli attuali esiti del dibattito sull’eutanasia 156
la frattura è fra quanti rivendicano come criterio sommo di valutazione morale l’autonomia del singolo, eventualmente bilanciata con le esigenze della collettività, e quanti ribadiscono l’esistenza di leggi universali e immutabili della natura umana, che occorre individuare e seguire per promuovere il bene dell’uomo in quanto “persona”, quello di ciascuno così come il bene comune. L’unica soluzione sarebbe quella di pervenire a una bioetica autenticamente laica, rispettosa delle scelte individuali e consapevole dei rischi insiti nel lasciare solo alla medicina l’onere delle scelte. Roberto Navone nel suo Bioetica Medica dopo avere data una definizione del termine come “riformulazione dei contenuti tradizionali dell’etica adattati alla necessità di instaurare un nuovo rapporto tra medico e paziente” cerca i cambiamenti positivi (luci) indotti dalla bioetica: i medici si sentirono chiedere anche cose che non rientravano nella loro etica professionale tradizionale e nei loro codici deontologici addirittara intervenire non per guarire una malattia, salvare una vita o guadagnare tempo rispetto alla morte, ma per interrompere un trattamento e rischi (ombre) della bioetica: per es, Jonathan Baron nel libro Against Bioethics: “la bioetica ha finito per creare un sistema decisionale che favorisce scelte irragionevoli. E, lungi dal ridurre i rischi di abusi nella ricerca e nella pratica medica, ne ha creato dei nuovi… I bioeticisti sono diventati dei “preti laici” a cui i governi e le istituzioni guardano come a delle guide morali… la bioetica ha sostituito la medicina come fonte di un nuovo paternalismo”. La bioetica appare oggi a un bivio: o continuare ad applicare principi che non possono essere messi in discussione, perché fondati sulla tradizione o sulla fede (oltre che, come abbiamo visto, sull’intuizione e sull’istinto); oppure, provare ad applicare, nei singoli casi, decisioni fondate unicamente sulla forza della ragione, in base all’analisi matematica e probabilistica che definiscano con un buon grado di certezza l’utilitarismo (nel senso di beneficialità) di certe scelte. I rischi di una medicina che accetta di snaturarsi, dimentica della propria incontestabile natura umanista, per farsi portavoce e attuatrice di presunte certezze scientifiche, senza vagliarne i tragici risvolti umani vengono affrontati in prospettiva storica nell’intervento Il medico e la storia: la deriva eugenetica. Assumendo quale campo di indagine quello offerto dall’applicazione delle teorie degenerazioniste ed eugenetiche al problema sociale del controllo dei “diversi” e in particolare dei malati di mente Ida Li Vigni mostra i rischi di una medicina che non solo si allea con il potere politico, ma si arroga il compito di diagnosticare e di marchiare quanti sono “vite non degne di es-
sere vissute”, spingendosi ad avallare e a mettere in atto pratiche come la sterilizzazione forzata e l’eutanasia che nulla hanno a che vedere con l’etica medica. Roberto La Rocca asserisce in primis le due visioni estreme: una religiosa e dogmatica, fondata sull’etica della sacralità della vita, per la quale essa e dono di Dio e l’altra laica ed a-dogmatica, fondata sull’etica della qualità della vita e sull’affermazione del diritto individuale. Tra queste si sono inserite nel tempo ulteriori posizioni intermedie, frutto di valutazioni di ordine giuridico, deontologico, bioetico che sembrano aver contribuito alla ricerca di un accettabile punto di incontro, al fine di consentire al Parlamento l’approvazione di una legge. A tutt’oggi, infatti, nel nostro Paese non è presente l’istituto giuridico del “Testamento biologico”, a differenza della maggior parte dei paesi occidentali, europei e nord-americani, ove esso è accettato nella prassi o è stato addirittura oggetto di normativa. I temi su cui il Parlamento è chiamato a emanare nuove leggi sono quindi quelli riguardanti: l’alleanza terapeutica, il consenso informato, le dichiarazioni anticipate di trattamento (D.A.T., definizione preferibile per evitare sovrapposizioni interpretative con il termine propriamente giuridico di “testamento”. Al pari di ogni cittadino, che ha la facoltà costituzionalmente riconosciuta di contribuire alla formazione delle leggi dello Stato, anche la G.L.D.I. può fornire il proprio contributo nel campo della Bioetica, e le varie iniziative finora intraprese ne sono chiara testimonianza. Il percorso di fine vita tra bioetica ed economia. “L’economia sanitaria - di Luisa Cusina - ha il compito di fornire al decisore politico informazioni per favorire la più razionale allocazione delle risorse pubbliche in tale ambito. I principali strumenti di valutazione dei programmi sanitari non sono adatti al caso del trattamento delle malattie terminali, in quanto si fondano su logiche di aspettativa di guarigione e non considerano “utile” la vita senza speranza di vita. La metodologia più sofisticata tra quelle presenti in letteratura è l’ACU (Analisi Costi Utilità), che misura l’efficacia di un programma sanitario con i QALY (Quality Adjusted Life Years), cioè gli anni di vita guadagnati grazie al trattamento ricevuto, ponderati per la qualità degli stessi. Benché anche nelle logiche dell’ACU, la morte o le gravi invalidità siano considerate ad utilità zero, in questo studio si esamina la possibilità di adattare questa metodologia, formulando una scala di valori dell’”utilità” compatibile con una diagnosi infausta. Il lavoro si concentra sull’assistenza ai minori affetti da malattie terminali e ne esamina le ricadute in termini economici e di benessere sociale. Una disamina degli aspetti giuri-
dici propri della realtà italiana inerenti il testamento biologico e in particolare il ruolo del tutore nel caso il paziente non sia in grado di esprimere coscientemente la propria volontà viene affrontata da Ivan Iurlo in Il testamento biologico. Profili comparativi e ordinamenti giuridici a confronto. L’autore mette a confronto le leggi in materia approvate in Germania, in Canada e negli Stati Uniti con le ambigue e contraddittorie proposte di legge italiane, evidenziando in conclusione come nei Paesi nordamericani e in Germania sia stato introdotto, teorizzato e adottato il sistema di advance care planning, per mezzo del quale vengono meglio definite le opzioni del paziente in materia sanitaria per far sì che, al subentrare di uno stato di incapacità, sia possibile per il medico seguire un percorso comportamentale assolutamente concordante con le volontà precedentemente espresse dal soggetto, laddove in Italia ancora si è lontani dalla conciliazione tra le norme che legittimano il rifiuto delle cure salva-vita con il principio, sancito dall’ordinamento italiano, dell’indisponibilità del bene della vita. In Bioetica fra Medicina e Scienze Umane, Paolo Aldo Rossi afferma che la scienza e la medicina sono agli antipodi: la scienza della vita e la pratica sanitaria sono cose profondamente diverse sia dal punto di vista storico ed epistemologico che a livello del fare e dall’agire. La differenza in tutto questo è chiara: la scienza della vita è neutrale, la medicina sanitaria non può e non deve esserlo, così come è diversa l’oggettività dalla soggettività A differenza delle diverse “scienze” (sia formali, che naturali e umane), il cui fine è istituzionalmente noetico (la conoscenza di ...), la medicina sembra avere finalità eminentemente pratiche (la cura della salute e della malattia); generalmente, essa viene considerata un’arte fortemente connotata dalla perizia dell’artista (il medico), il quale attinge nozioni dall’emporio del sapere storico e del sapere scientifico e abilità pragmatiche dal bagaglio delle tecnologie, raggiungendo i propri obiettivi con una irreprensibile applicazione della scienza (umanistica e sperimentale) e un corretto uso della tecnologia. La “scienza della cura” è un sapere storico per l’attività anamnestica e diagnostica e le loro sindromi, una scienza naturale per l’attività prognostica-predittiva e una tecnologia per l’attività terapeutica La medicina, come d’altronde fanno le cosiddette scienze umane, ricorre a metodi e ad impianti epistemologici più simili a quelli della storiografia che a quelli della fisica o della chimica non sono quasi mai distinguibili il contesto della scoperta dal contesto della giustificazione anche perché non è possibile fare a meno dell’individuo non solo come corpo sottoposto alle leggi fisiche, ma
come individuo considerato come persona Il medico, poi, come lo storico, ricorre quasi sempre alla forma narrativa) e non a catene di deduzioni. La costruzione di un concetto analogico di scienza, con il conseguente riconoscimento che il problema della spiegazione (il livello della theory construction) è subordinato al problema della costruzione dell’universo d’oggetti proprio della teoria, consente di poter accettare che “in linea di diritto” anche le scienze umane possano entrare a far parte del novero delle scienze (essere cioè costruite sul paradigma della razionalità scientifica). Questo passo è possibile se dopo aver riconosciuto nella prospettiva del rigore e dell’oggettività la caratteristica costitutiva del concetto di scienza si riesce a far vedere che tale concetto non è né univoco né equivoco, ma si predica in modo analogo sia alle scienze empiriche che alle scienze umane, quando queste siano costruite nel rispetto dello schema epistemologico suddetto. E la bioetica? Secondo l’autore non è una scienza cognitiva, ma un sapere di conferimento di senso (Sinngebung) che è necessario attribuire a quel che si conosce; mentre la scienza sta nell’ambito gnoseologico e non in quello valutativo. Il problema del finis vitae non può esulare da quello della fase terminale della malattia, condizionando questa fase anche le scelte a priori del testamento biologico e la possibile scelta della morte assistita. Come sottolinea Francesco Buda in Paràdeigma tra comunicazione, bisogni, desideri e assistenza del paziente nella fase terminale di malattia il rapporto tra fine vita e morte è il paradigma di una condizione di assoluta rilevanza socio-sanitaria sia i pazienti coinvolti, sia per la quantità e la complessità dei problemi che essi e le loro famiglie devono affrontare, sia ancora per le evoluzioni scientifico-tecnologiche che hanno mutato le “tradizionali” condizioni di vita e di morte, rendendo il carattere dell’una e dell’altra. In tale contesto c’è il concreto pericolo della scomparsa della persona dietro il concetto di terminalità mentre in essa continua ad essere presente, integralmente, il valore proprio della persona umana, valore che alcuni vorrebbero modificare proprio per il fatto che il paziente “è terminale”, mentre bisogna riconsegnare il morire e la dignità del morire al morente. Bisogna quindi ascoltare i bisogni del malato terminale, dare sollievo alla sofferenza non togliendo la speranza ma senza illudere, informare il paziente e i famigliari sulle cure palliative, allievare il dolore, ma soprattutto accompagnarlo nel viaggio che lo avvicina alla morte. Il problema del benessere del paziente e della sua interrelazione con l’ambiente di cura viene affrontato da Mauro Baracetti in Tecnologie, forme, colori nei luoghi di cura. Verso un
nuovo umanesimo secondo l’ottica di un architetto chiamato a riflettere e progettare gli spazi di ospedeli, cliniche e centri di riabilitazione alla luce soprattutto delle esigenze dell’uomo “paziente”, ovvero di porlo al centro del tutto per salvaguardare la sua dignità di essere umano. Si tratta quindi di ripensare il luo-
Recensioni go di cura come luogo di conforto e di contatto umano, dove i principi del green thinking e della sostenibilità diventano un linguaggio architettonico formale, integrato con accorgimenti di tipo funzionale e gestionale che riguardino l’analisi dell’utenza, la definizione delle unità necessarie e la valutazione delle condizioni ambientali, di lavoro del personale e di degenza del paziente. Ma soprattutto si tratta di costruire uno spazio sfruttando non solo i suggerimenti della tecnologia più avanzata in rapporto con l’ecosostenibilità, ma anche i principi formali e cromatici, dato che se la struttura architettonica e l’arredo delle stanze sono fondamentali per riportare il quotidiano nel luogo di cura, ancor più importante è il colore che ha un potere terapeutico aggiuntivo, potendo favorire e accelerare il recupero della salute, combattere la depressione e lo sconforto, poichè aiuta a spostare l’attenzione dalla malattia e dal disagio interiore. Il tema del finis vitae non può non esulare dall’affrontare anche quello del suicidio ed è quanto fa Claudio Lucas in Del suicidio. Si tratta di una disamina della natura di un gesto che da sempre ha colpito l’uomo e a cui le diverse culture hanno dato e continuano a dare diverse spiegazioni e valenze, ora proclamando l’inviolabilità della vita e quindi garantendo giuridicamente l’intangibilità della vita con il divieto di uccidere/uccidersi, ora sostenendo il diritto di disporre liberamente del proprio corpo in base al principio di autodeterminazione. Comunque lo si valuti resta il fatto – come argomenta l’autore – che il suicidio è l’espressione estrema di un disagio esistenziale e di una profonda angoscia psicologica che non trovano spazi di comunicazione e che finiscono con il distruggere l’autostima del soggetto. Da qui la necessità di non sottovalutare i segnali che ci vengono inviati, soprattutto dagli adolescenti. Occorre ricordarsi che raramente il suicidio è un impulso dovuto ad una decisione immediata e che durante i giorni e le ore precedenti al gesto generalmente appaiono indizi e segnali di allarme. Ma soprattutto occorre riaprire gli spazi della comunicazione, guardare all’altro con gli occhi del cuore. Il problema delle complesse interazioni e delle mutue implicazioni tra la sfera della po-
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litica e quella della vita, tra polis e bios viene approfondito in Il diritto di morire con dignità. Le dichiarazioni anticipate di trattamento nel dibattito bioetico alla luce del più ampio dibattito bioeticista sui diritti umani in campo medico. Seguendo un ideale fil rouge che collega il discusso significato del biotestamento alla libertà
Recensioni di scelta della cura e si conclude con l’affermazione del valore dell’autonomia del paziente il quale stringe un patto di alleanza terapeutica con il medico in base al quale il diritto individuale a disporre della propria vita non confligge con l’obbligo istituzionale a favorire tutte le cure necessarie alla persona malata, Luisella Battaglia mette in guardia non solo dalle pericolose conseguenze dello scontro ideologico in atto in Italia tra sostenitori di opposte visioni, ma altresì dal sostituirsi alla bioetica di una biopolitica autoritaria, quella cioè con cui lo stato vìola la privacy dell’individuo, entrando nelle decisioni più intime e dolorose relative al nascere e al morire. Conclude Sergio Cianella, Luogotenente Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro della Gran Loggia d’Italia. La sinergia di sensibilità e intelligenze ha dato vita ad un evento che, travalicando i confini scientifici del Convegno, si è tradotto in vera e propria esperienza, arricchita dai forti stimoli di riflessione che sono riusciti ad offrire i relatori. La Gran Loggia d’Italia che ha avuto l’onore di patrocinare l’evento nella certezza dei suoi risultati positivi e la Consulta, dopo cinque anni di intenso lavoro, ha raggiunto un grado di competenza e prestigio che la rende pronta a partecipare al dibattito nazionale su temi di particolare impegno scientifico e morale e a fornire alla collettività orientamenti utili e condivisibili, perché maturati all’insegna della più assoluta indipendenza e libertà di coscienza. Nel suo insieme il convegno ha fornito tre livelli di lettura della complessa tematica in discussione, legati tra di loro in una progressione che parte dalla disamina dei problemi concreti della malattia e del dolore che accompagnano la fase del declino fisico, per approdare alle complesse questioni etiche e giuridiche che si agitano intorno alla condizione del malato terminale, ed infine agli interrogativi di natura metafisica ai quali conduce naturalmente l’approfondimento di questi temi. Al centro della riflessione del primo livello di interventi, i bisogni materiali e morali di chi è prossimo alla fine. Sul piano legislativo viene denunciata la mancata attuazione della legge sul dolore Di fronte al dramma personale di chi vede ormai prossima la fine dell’esistenza in vita, nessuno può farsi maestro e pretendere
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d’imporre una morale, occorre invece un grande sforzo di immedesimazione per capire ciò che desidera realmente il malato in relazione al suo vissuto, alla sua personalità, alla sua esperienza etica e religiosa. E’ giusto difendere a tutti i costi la vita? O è più giusto assecondare la scelta di morire? E se la scelta dipende da altri a quali principi morali e giuridici occorre rifarsi? Si va verso la ricerca di valori condivisi in rapporto alla realtà dell’esistenza umana, che possano mettere d’accordo scienza, morale, religione, nell’interesse primario dell’individuo e solo in maniera indiretta della collettività Questa ricerca non mira alla elaborazione di un sistema morale, si propone soltanto di individuare i sistemi più adatti ad interpretare i bisogni umani, nel rispetto della libertà e di proporre azioni benefiche in nome di una filantropia che non ammette imposizioni, ma si esprime attraverso la cura amorevole del prossimo, con intelligenza e discrezione, senza invadere quella sfera intima e privata che rappresenta il sancta sanctorum di ogni essere umano. La scienza procede in maniera decisa, senza porre limiti alla ricerca, sta invece al diritto interpretare i bisogni del malato sofferente, secondo i paramenti di una sensibilità generale, non esclusiva di una ideologia o di una religione, e garantire una tutela adeguata alle sue effettive necessità. Una Bioetica interpretata in chiave massonica proporrà come morale anzitutto il rispetto della stessa morale di ciascuno, in applicazione del principio-cardine della Massoneria, che è la tolleranza. A fronte della generale tendenza a rimuovere l’idea della morte come male assoluto, tipica della cultura occidentale che negli ultimi secoli ha formato una società tecnologica ed edonista, sopravvive una linea di pensiero opposta, che fa capo ad una minoranza di cultori di dottrine esoteriche, che in questa area geografica trova la sua massima espressione nella Massoneria. La rimozione della morte equivale perciò in un certo senso alla rimozione della stessa vita. In questa ottica si può azzardare l’ipotesi che si nasce per morire e si muore per nascere! Questa visione rende la morte non solo accettabile, ma anche sacrale, degna cioè di un rispetto che la sua rimozione ha portato nei fatti a negare. Dott. Renato ARIANO - Primario di Medicina Interna e Direttore del Dipartimento di Gestione Clinica dell’Ospedale di Bordighera (ASL 1 Imperiese). Avv. Giuliano BOARETTO - Delegato Magistrale della Regione Lombardia della G.L.D.I. Avvocato civilista, studioso di esoterismo. Prof. Vittorio GALLO - Docente di Medicina Interna e Chirurgia - Dipartimento di Medicina e Oncologia Sperimentale - Università degli Studi di Torino.
Prof. Andrea DI MASSA - Docente S.M.I.P.I.,Unità Operativa Anestesiologia in Odontostomatologia AOUS Senese; insegnamento di Anestesiologia e Rianimazione OPD Università dell’Università di Siena. Dott. Mario ABRATE - Medico chirurgo presso il reparto di Anatomia Patologica dell’Ospedale di Savigliano. Prof. Roberto NAVONE - Medico Chirurgo Specialista in Anatomia Patologica Professore Ordinario presso l’Università di Medicina e Chirurgia di Torino. Prof.ssa Ida LI VIGNI - Dottorato in Filosofia presso l’Università di Genova. Membro del Consiglio Direttivo dell’Istituto Italiano di Bioetica, segretaria della AISPES Dott. Roberto LA ROCCA - Medico Chirurgo, specialista in Chirurgia Generale e in malattie del tubo digerente, del sangue e del ricambio Da anni cultore di Medicina legale, in particolare in tema di responsabilità professionale medica. Prof.ssa Luisa CUSINA - Docente di Economia delle Aziende Pubbliche presso la Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Trieste. Prof. Ivan IURLO - Docente di Diritto Penale e Direttore del Dipartimento di Bioetica e Diritti Umani dell’Università degli Studi di LSW Varsavia. Prof. Paolo Aldo ROSSI - Ordinario di Storia del Pensiero Scientifico e Storia del Pensiero Medico e Biologico presso l’Università di Genova. Presidente della Associazione Scientifica Internazionale per la Ricerca, lo Studio e le Sviluppo delle Medicine Antropologiche, Accademico di storia dell’arte sanitaria, presidente della AISPES Arch. Mauro BARACETTI - Progettista e gestore di contratti pubblici per la realizzazione di ospedali. Prof. Francesco BUDA - Specialista in Oncologia Medica. Assistente di chimica fisica e teorica presso l’Istituto di Chimica della “Leiden University Medical Center” in Olanda. Dott. Claudio LUCAS - Già dirigente medico ospedaliero di Medicina Interna, specialista in scienza dell’alimentazione. Prof.ssa Luisella BATTAGLIA - Ordinaria di Filosofia Morale al l’Università Genova e membro del Comitato Nazionale per la Bìoetica e dell’Istituto Italiano di Bioetica. Prof. Sergio CIANNELLA - Luogotenente Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro della Gran Loggia d’Italia, docente di diritto della previdenza sociale presso la Scuola di Specializzazione delle professioni legali presso la Facoltà di Giurisprudenza dell´Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.
R.L. Ulisse Oriente di Bergamo
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l gioiello ha forma circolare. Lungo la circonferenza del recto reca la scritta “GRAN LOGGIA D’ITALIA DEGLI A.L.A.M. - OR. DI BERGAMO - R.L. ULISSE”. Al centro, in rilievo, è raffigurata la testa di un uomo barbuto – Odisseo, appunto – come tramandata da una vasta tradizione iconografica. Sul verso il gioiello raffigura due colonne, una Ionica ed una Dorica, divise da stilizzate onde di mare agitato e solcate da una vela nell’atto di attraversarle. Su questa, di forma trapezoidale, è raffigurato il simbolo della Squadra e del Compasso in grado di Apprendista.
R.L. Fenice Oriente di Massa Marittima
dere e interiorizzare il mito della Fenice nel suo andamento ciclico di morte e rinascita, perenne e mai casuale.
R.L. Herodom Oriente di Torino
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a simbologia del Gioiello della R.L. Herodom, Or. di Torino, è incentrata sulla figura della montagna che rappresenta un riferimento a quella che la tradizione colloca nei pressi di Kilwinning (in Scozia), dove un gruppo di Templari, fuggiti dalla Francia, avrebbe fondato una Loggia insieme ad alcuni nobili scozzesi tra i quali un Sintclair che ne sarebbe stato nominato primo M.V. La montagna è chiamata sia Herodom che Hereddom. Esiste nella Gran Loggia di Scozia un “Ordine di Herodom of Kilwinning”. Ovviamente la simbologia del Gioiello di Loggia in questione richiama anche quella della “Montagna Sacra”, concetto rafforzato dalle tre stelle che ne contornano la vetta, con palese riferimento alla Volta Stellata ed all’unione di Terra e Cielo.
R.L. Fratelli d’Italia Oriente di Piombino
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l sigillo di forma circolare riporta agli estremi la scritta GLDI degli Antichi Liberi Accettati Muratori e la scritta R.L. Fenice Oriente di Massa Marittima. Nel centro, dall’incrociarsi della Squadra con il Compasso, si propone una Fenice Fiammeggiante che risorge dalle proprie ceneri. Per quanto riguarda il simbolo della Fenice, due sono le tematiche fondamentali da prendere in considerazione: il decondizionamento, che corrisponde alla distruzione per mezzo del fuoco e la rinascita, ossia la presa di coscienza della nostra realtà. Il Libero Muratore trova nella Tradizione e nei suoi riposti insegnamenti, nei suoi simboli e nella ritualità con cui ad essi ci si avvicina, la guida sicura per meglio inten-
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iene consacrato il nome della R.L. Fratelli d’Italia attraverso il suo sigillo, mutuando la bandiera dalla vecchia Repubblica Cispadana con i colori classici del tricolore ma posti in posizione orizzontale, con il rosso che prende la scena per primo, per dare seguito al bianco e in ultimo il verde. Nella bandiera originale l’insieme è racchiuso tra due rami di alloro, al cui centro è dipinto una faretra con quattro frecce, a simboleggiare l’Unione delle quattro popolazioni di Bolo-
gna, Ferrara, Modena e Reggio Emilia. Nasceva così il Tricolore il 7 gennaio 1797 come Vessillo Nazionale, simbolo dell’unità indissolubile della Nazione. Nel sigillo al centro della storica bandiera, spiccano due tralci di acacia, tanto cari all’Istituzione, quali patrimonio arboreo iniziatico, che racchiudono il più classico dei simboli massonici, la squadra e il compasso, posti in grado di Apprendista. All’orizzonte si erge la Piramide, così come raffigurata nel sigillo ufficiale dell’Obbedienza. Nel drappo rosso è inserita la dicitura “Fratelli d’Italia”. Infine, appare sia nel sigillo, che nel labaro, la cifra “...è la celebrazione del centocinquatesimo anniversario della Unità d’Italia, che la sorte ha voluto cadere nell’anno della costituzione della nostra Loggia”. Il fine prefissato è chiaro: uno rispecchiamento assoluto e sincero con i simboli della nostra Patria, alla quale giurammo fedeltà già nel nostro primo Tempio che fu il Gabinetto di riflessione.
R.L. Federico II Oriente di Catania
S
ul recto della medaglia compare al bordo il nome della Loggia e l’Oriente di appartenenza. Al centro vi è la riproduzione del Castello che Federico II ordinò a Riccardo da Lentini nel 1139 e del quale, nonostante la Costruzione durasse solo 16 anni, non vide la fine. Il Castello nella sua storia ha superato sia la colata lavica del 1663 che il terremoto del 1693, e rappresenta insieme all’Elefante uno dei simboli della Città. Federico II lo volle su una altura in contrapposizione con il Duomo, simbolo del Potere ecclesiastico del vescovo Maurizio. Notevole la simbologia esoterica riprodotta nella costruzione, dalla Kabbalah con i numeri 3, 5, 7 e i loro multipli, alla pianta quadrata, alla posizione geo-grafica con i propri lati in asse con i punti cardinali. Le molte maestranze della polietnica Catania lasciarono simboli della loro cultura tra cui un pentalfa, simbolo legato all’Imperatore. La scelta del Castello come sigillo sta ad indicare la tetragona volontà della Loggia che ha come motto Per aspera ad astra. La seconda faccia del fregio riproduce il sigillo della GLdI degli ALAM.
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R.L. Lux Solis, Oriente di Cosenza
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l simbolo è caratterizzato da un sole raggiante con al centro un cerchio di color rosso, con ivi iscritti una squadra ed un compasso uniti e sovrapposti in grado di Maestro, il Tetragramma sacro e la scritta circolare: “R. L. Lux Solis-Oriente di Cosenza”. Il Sole si associa ad una numerosa serie di valenze simboliche, fra cui quella dinamica-as-
siale, secondo la corrispondenza Sole-Spirito-Fuoco; quella amorosa e intellettiva, in quanto il Sole è analogo al calore come la verità alla luce; quella purificatrice; quella eroica e mediatrice, poiché il Sole adempie in molte tradizioni alle funzioni di “eroe” e di guida dell’anima umana nell’aldilà. Più in generale, il Sole rimanda al Maschile, al principio attivo, ed è quindi simbolo dell’Origine, del principio, della ragione che rischiara le tenebre ed illumina le intelligenze. Il
Sole, adorato da tutti i popoli, simboleggia la saggezza, l’amore e l’intelletto. Il filo d’oro rappresenta il Ramo d’Oro dell’acacia, albero dal legno duro, dai fiori profumati e dalle spine pericolose, legato a valori religiosi. Nella leggenda di Hiram, questa pianta permette la scoperta della tomba del Signore, detentore della tradizione perduta. Essa corrisponde al ‘Ramo d’oro’ delle tradizioni antiche. Conoscere l’acacia significa possedere le nozioni iniziatiche che consentono di scoprire segreti. Per assimilare questi segreti l’adepto deve far rivivere in sè la saggezza morta.
R.L. Fedeli d’Amore, Oriente di Torino (Errata corrige)
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causa di un refuso, sul numero scorso (n.1, Marzo 2013) la Rispettabile Loggia ‘Fedeli d’Amore’ all’Oriente di Torino era stata erroneamente denominata R.L. ‘Aleph’. La Redazione si scusa pertanto con tutte le Sorelle e i Fratelli della Loggia ‘Fedeli d’Amore’ e rettifica l’errore pubblicando que-
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14 Juillet Or di Savona 4 Giugno 1270 R.G. Or di Viterbo Ab Initio Or di Portoferraio Ad Justitiam Or di Lucca Aetruria Nova Or di Versilia Alef Or di Viareggio Aleph Or di Lecce Alma Mater Or di Arezzo Anita Garibaldi Or di Firenze A.Garibaldi/A.Giulie Or di Livorno Antares Or di Firenze A.Toscano Or di Corigliano Calabro Antropos Or di Forlì Archita Or di Taranto Aristotele II Or di Bologna Astrolabio Or di Grosseto Athanor Or di Brescia Athanor Or di Cosenza Athanor Or di Pinerolo Athanor Or di Rovigo Athena Or di Pinerolo Atlantide Or di Pinerolo Audere Semper Or di Firenze Augusta Or di Torino Aurora Or di Genova Ausonia Or di Siena Ausonia Or di Torino Bereshit Or di Sanremo C. B.Conte di Cavour Or di Arezzo C. Rosen Kreutz Or di Siena Carlo Fajani Or di Ancona Cartesio Or di Firenze Cattaneo Or di Firenze Cavour Or di Prato Cavour Or di Vercelli Chevaliers d’Orient Or di Beirut Cidnea Or di Brescia Clara Vallis Or di Como Concordia Or di Asti Corona Ferrea Or di Monza Cosmo Or di Argentario Albinia Costantino Nigra Or di Torino D.Di Marco Or di Piedim.Matese Dei Trecento Or di Treviso Delta Or di Bologna Eleuteria Or di Catania Eleuteria Or di Pietra Ligure Emanuele De Deo Or di Bari Enrico Fermi Or di Milano
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EOS Or di Bari Erasmo Or di Torino Ermete Or di Bologna Etruria Or di Siena Excalibur Or di Trieste Falesia Or di Piombino Fargnoli Or di Viterbo Fedeli d’Amore Or di Torino Fedeli d’Amore Or di Vicenza Federico II Or di Catania Federico II Or di Firenze Federico II Or di Jesi Fenice Or di Massa Marittima Fenice Or di Spotorno F.Rodriguez y Baena Or di Milano Fidelitas Or di Firenze Fra Pantaleo Or di Castelvetrano Fratelli Cairoli Or di Pavia Fratelli d’Italia Or di Piombino Galahad Or di Roma G.Ghinazzi Or di Roma G.Mazzini Or di Livorno G.Mazzini Or di Parma G.Biancheri Or di Ventimiglia G.Bruno - S.La Torre Or di Roma G.Papini Or di Roma Garibaldi Or di Castiglione Garibaldi Or di Cosenza Garibaldi Or di Mazara del Vallo Garibaldi Or di Toronto Gaspare Spontini Or di Jesi Giordano Bruno Or di Catanzaro Gianni Cazzani Or di Pavia Giordano Bruno Or di Firenze Giordano Bruno Or di R.Calabria Giosue Carducci Or di Follonica Giosue Carducci Or di Partanna Giovanni Bovio Or di Bari Giovanni Pascoli Or di Forlì Giovanni Risi Or di Firenze Giustizia e Libertà Or di Roma Goldoni Or di Londra Graal Or di Livorno Herdonea Or di Foggia Heredom Or di Torino Hiram Or di Bologna Hiram Or di Sanremo Hispaniola Or di Santo Domingo Horus Or di Padova
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sta correzione. Tutto regolare – e quindi invariato – per quanto invece riguarda il testo descrittivo del Gioiello già pubblicato sul numero in questione. La sequenza dei Fregi è in ordine alfabetico per denominazione di Loggia e successivamente per Oriente.
Horus Or di Pinerolo Horus Or di R.Calabria Humanitas Or di Pistoia Humanitas Or di Treviso Ibis Or di Torino Il Cenacolo Or di Pescara Il Nuovo Pensiero Or di Catanzaro Internazionale Or di Sanremo Iter Virtutis Or di Pisa Jakin e Boaz Or di Milano Kipling Or di Firenze La Fenice Or di Bari La Fenice Or di Chieti La Fenice Or di Forlì La Fenice Or di Livorno La Fenice Or di Pieve a Nievole La Fenice Or di Rovato La Prealpina Or di Biella La Silenceuse Or di Cuneo Le Melagrane Or di Padova Leonardo da Vinci Or di Taranto Les 9 Soeurs Or di Pinerolo Libertà e Progresso Or di Livorno Liguria Or di Orspedaletti Logos Or di Milano Luce e Libertà Or di Potenza Luigi Alberotanza Or di Bari Luigi Spadini Or di Macerata Lux Or di Firenze Lux Solis Or di Cosenza M’’aat Or di Barletta Magistri Comacini Or di Como Manfredi Or di Taranto Melagrana Or di Cosenza Melagrana Or di Torino Minerva Or di Cosenza Minerva Or di Torino Monviso Or di Torino Mozart Or di Castelvetrano Mozart Or di Genova Mozart Or di Roma Mozart Or di Torino Navenna Or di Ravenna Nazario Sauro Or di Piombino Nigredo Or di Torino Nino Bixio Or di Trieste Oltre il Cielo Or di Lecco Omnium Matrix Or di Milano Orione Or di Torino
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Palermo Or di Palermo Per Aspera ad Astra Or di Lucca Petrarca Or di Abano Terme Pietro Micca Or di Torino Pisacane Or di Udine Pitagora Or di Cosenza Pitagora Or di Guidonia Polaris Or di Livorno Polaris Or di Reggio Calabria Principe A.DeCurtis Or di Rovato Principi RosaCroce Or di Milano Prometeo Or di Lecce Re Salomone /F.Nuove Or di Milano Risorgimento Or di Milano Ros Tau Or di Verona S.Giovanni Or di Bass.d.Grappa Sagittario Or di Prato Salomone Or di Catanzaro Salomone III Or di Siena San Giorgio Or di Genova San Giorgio Or di Milano Saverio Friscia Or di Sciacca Scaligera Or di Verona Sibelius Or di Vercelli Sile Or di Treviso Silentium et Opus Or di Val Bormida SmiDe Or di Stra Stupor Mundi Or di Taranto Teodorico Or di Bologna Themis Or di Verona Trilussa Or di Bordighera Triplice Alleanza Or di Roma Ugo Bassi Or di Bologna Ulisse Or di Bergamo Ulisse Or di Forlì Umanità e Progresso Or di Sanremo Uroboros Or di Milano Valli di Susa Or di Susa Venetia Or di Venezia Vincenzo Sessa Or di Lecce Virgilio Or di Mantova Virgo Or di Roma Vittoria Or di Savona Voltaire Or di Torino XI Settembre Or di Pesaro XX Settembre Or di Torino Zenith Or di Cosenza Zodiaco Or di Pinerolo
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