Officinae Giugno 2013

Page 1

Trimestrale internazionale di attualità , storia e cultura esoterica — Anno XXV - Giugno 2013 - n.2


Trimestrale internazionale di attualità, storia e cultura esoterica Anno XXV - n.2 - Giugno 2013 Direttore Editoriale e Responsabile LUIGI PRUNETI Direttore ANNA GIACOMINI Segreteria di Redazione ROBERTO PINOTTI SIMONE TADDEI Comitato di Redazione LINA ROTONDI LUISA CERAVOLO SABRINA CONTI VALERIA DI PACE STEFANO MOMENTÉ FEDERICA POZZI GIANCARLO GUERRERI MATTEO BARTOLETTI RENATA SALERNO Comitato Scientifico VINCENZO CIANCIO ALDO ALESSANDRO MOLA PAOLO ALDO ROSSI IDA LI VIGNI RAFFAELE MARRŸ PAOLO MAGGI Renato ARIANO BARBARA NARDACCI Consulente Legale PIERPAOLA MELEDANDRI hanno collaborato a questo numero Davide Arecco Luca Bagatin Valter Bencini Sabrina Conti GIUSEPPE IVAN LANTOS Gerardina Laudato IDA LI VIGNI ALDO ALESSANDRO MOLA Carlo Moscardi ANTONELLA OREFICE Lidia Parentelli Giovanni Pelosini Nico Perrone Roberto Pinotti LUIGI PRUNETI Marco Quadrelli PAOLO ALDO ROSSI ANNALISA SANTINI JEAN mARC SCHIVO Vincenzo Tartaglia progetto e realizzazione PAOLO DEL FREO


L.Pruneti - Per Renata — 2 L.Pruneti - In una notte di maggio — 4 L.Pruneti - Quis contra nos? — 6 A.A.Mola - Garibaldi contro il ‘pericolo turco’ — 18 V.Bencini - l’Iniziazione femminile — 28 M.Quadrelli - La Fonte di Narciso — 40 I.Li Vigni - Gli angeli e le “sante” — 42 G.Laudato - La “Consolazione della Filosofia — 48 J.M.Schivo - La città massonica — 52 G.Laudato - Educare alla coscienza dei valori — 64 V.Tartaglia - La ‘prova’ dell’Acqua — 66 C.Moscardi - Il labirinto — 72 A.A.Mola - Guardiamo la storia universale... — 80 A.Orefice - Ettore Carafa, Conte di Ruvo — 82 L.Parentelli - Diario di Bordo: Washington massonica — 88

Sommario

P.A.Rossi - I Misteri di Eleusi — 98 D.Arecco - Il danese Olaus Worm... — 104

N.Perrone - Massoneria e lega anti-massonica... — 114 L.Bagatin - Antimassoneria — 118 G.Pelosini - Le chiavi del linguaggio simbolico — 122 G.I.Lantos - Lajos Kossuth — 130 R.Pinotti - Extraterrestri, Angeli e Tradizione esoterica — 140 S.Conti - Comunicare con la Conoscenza — 146 A.A.Mola - Pascal Vesin sospeso da parroco: massone o... — 148 Ex Libris — 149 In Biblioteca — 154 Fregi di Loggia — 159


Oriente Eterno

Per Renata... i ero svegliato da poco e come sempre la tazzina fumante del caffè mi mise di buon umore. Poi un trillo del cellulare cambiò ogni cosa: ore 7.37 “Renata è passata all’Oriente Eterno, Giuseppe”. Il mondo iniziò a girarmi intorno, il giorno si spense e nel silenzio un solo grido echeggiò dentro di me: “Non è possibile … è uno scherzo, un macabro scherzo idiota”, poi una voce soffocata dal pianto mi confermò tutto … Renata se ne era andata, se ne era andata per sempre. L’ho conosciuta tanto tempo fa, eravamo seduti ad un tavolino insieme a Giuseppe e a Caterina; allora era un’adolescente che si affacciava stupita sul complicato e spesso incomprensibile universo degli adulti. È stato quello l’inizio di un’amicizia profonda e fraterna, di un rapporto di collaborazione via via sempre più intenso. Con lei e con Giuseppe ho condiviso progetti e speranze, sogni e realtà. Insieme abbiamo vissuto delusioni e successi, abbiamo assapora2

to ambrosia e fiele, abbiamo spartito il pane e il vino della fratellanza. Tutto questo se n’è andato per sempre … Le rondini torneranno a garrire nei cieli azzurri di Bari ed ogni mattina il sole illuminerà la bianca pietra di Trani, risveglierà gli enigmi di pietra di San Nicola, calerà nei vicoli della città vecchia per rianimare la vita … ma lei non ci sarà. Le dita svelte del tempo faranno scorrere il rosario dei mesi e verrà l’autunno, con le sue piogge piangenti e il mare s’adornerà di lame d’acciaio e di arabeschi di onde … ma lei non ci sarà. La sua dipartita ci condannerà a una solitudine amara, a un vuoto che non potrà essere colmato, giacché Renata era una persona rara che sapeva coniugare cuore e mente, volontà ed equilibrio, intelligenza e sentimento. Era schiva e silenziosa, accorta e prudente, ma determinata e lungimirante, pronta a sacrificarsi per il bene degli altri, per la nostra Comunione. Fu Ispettore,

Delegato Magistrale, Secondo Gran Sorvegliante, fu una risorsa eccezionale per Officinae e da sola si occupò, di Palazzo Vitelleschi, la nostra rassegna semestrale. Tanti incarichi, tanti impegni, nessuna ambizione se non quella di far sempre più bella, grande, accogliente la casa comune. Sono certo che ora si trovi in una dimensione felice, priva d’invidia e di egoismo, d’indifferenza e di falsità, in una dimensione avvolta di comprensione e di amore, di serenità e di unione. Voglio pensare che da quelle valli celesti, dove la gazzella gioca col leopardo e il fuoco sorride all’acqua, ci guardi con i suoi occhi colmi di bontà, indicandoci la giusta via in questo oscuro labirinto che si chiama vita. Ciao Renata, cara sorella e amica … non scordarti di noi, sarai in ogni momento fiamma che arde nei nostri cuori, luce che rischiara le nostre menti. Luigi Pruneti p.2-3: Renata Salerno, 2011 (foto P.Del Freo).


Oriente Eterno

... La pietra è una fronte dove i sogni gemono senz’avere acqua curva né cipressi ghiacciati. La pietra è una spalla per portare il tempo con alberi di lacrime e nastri di pianeti. Ho visto piogge grigie correre verso le onde alzando le tenere braccia crivellate per non essere prese dalla pietra stesa che scioglie le loro membra senza bere il sangue. Perché la pietra coglie semenze e nuvole, scheletri d’allodole e lupi di penombre, ma non dà suoni, né cristalli, né fuoco, ma arene e arene e un’altra arena senza muri ... Federico Garcìa Lorca, Lamento per Ignacio Sanchez Majias 3


S

aranno state le 22.30, ero a letto in una camera al secondo e ultimo piano di una vecchia casa di campagna. Nonostante fosse maggio il clima era inclemente, il vento fischiava rabbioso e la pioggia tambureggiava sulle tegole sbiadite dal tempo. Sotto una provvida coperta di lana, mi godevo il momento che precede il sonno, sfogliando un paio di quotidiani: la lettura era al tempo stesso divertente e imbarazzante, giacché l’uno affermava il contrario dell’altro. Morfeo, intanto, lavorava sulle mie palpebre che diventavano sempre più pesanti e il giornale mi era già caduto di mano quando, all’improvviso, colsi nonostante la pioggia un insolito rumore. Veniva dall’alto, dalla soffitta, era uno strano trambusto, uno scalpiccio leggero, interrotto da brevi pause. Pensai a qualche topolino di campagna, ma ero così stanco che la cosa non mi preoccupò più di tanto e di lì a poco caddi in un sonno profondo. Mi risvegliai nel profondo della notte, con il cuore che mi sobbalzava: il mio sesto senso mi diceva che non ero più solo. L’acquazzone era cessato e intorno a me regnava il silenzio. Rimanendo immobile mi guardai intorno, il buio era impenetrabile, però, mettendo a fuoco la vista, mi parve di scorgere, proprio di fronte a me, due puntini rossi. Piano, piano allungai la mano e accesi la luce e fu così che vidi un enorme topo ai piedi del letto. Se ne stava in posizione eretta, fissandomi e sarebbe sembrato una statua se di tanto in tanto non avesse arricciato il naso. Quando mi fui ripreso dallo stupore, gli dissi con un fil di voce: “Vattene subito, animale immondo, non ho timore della tua stazza abnorme, ritorna nei cunicoli sotterranei dove dimori … dovrò disinfettare questa stanza, giacché è noto che la tua genìa è vettore di gravi malattie”. L’enorme roditore non si scompose, si limitò ad arricciare di nuovo il naso e quindi rispose: “Prima di tutto io non sono un “immondo animale” ma il Gran Topo e amministro una felice comunità di attenti apprendisti, di solerti compagni e di saggi maestri, in secondo luogo, finitela voi umani con il discorso delle pandemie dovute ai topi. Che colpa ne abbiamo se vivete nella sporcizia, se le vostre città sono pattumiere e se non rispettate le più elementari norme igieniche”. “Non raccontare favole – replicai – da sempre la tua specie è nemica della mia, tanto è vero che il topo è diventato simbolo del male e dell’oscurità”. Il Gran Topo mise allora in mostra la sua dentatura, forse voleva sorridere, e rispose: “Non è sempre così. In Estremo oriente il topo è elemento yin per eccellenza e dona la seconda vista, in India Muskaka è la cavalcatura del grande Ganesha e in quella vasta regione, nel Rajastan, vi è il tempio di Desmoke, dedicato a Karniji la dea dei bardi e dei topi; questi ultimi sono considerati l’emblema dell’energia vitale che vince anche Yana il dio della morte. Anche

4

da voi in Occidente, i topi erano sacri ad Apollo Sminteo e rappresentavano il tramite tra il trascendente e l’immanente”. Era incredibile, mi ero imbattuto in un topo sapiente e mentre ero lì ammutolito di fronte a tanto sapere, quell’ospite imprevisto riprese la sua lezione: “Voi uomini dovreste imparare dai topi. Noi viviamo per gli altri, per la comunità, non operiamo per interessi personali, per manie di protagonismo, per intrallazzi di fazione … per noi la Comunione topesca è tutto. Noi non azzoppiamo i migliori perché temiamo che un giorno possano superarci nella corsa, noi non abbiamo il vizietto di disconoscere i meriti altrui, noi non conosciamo né l’idolatria del potere, né la sindrome di Narciso. Per noi la diffamazione, la calunnia, l’ottusa vanità, il pregiudizio, il vaniloquio sono fole che le madri amorevoli narrano ai topolini per metterli in guarda sul regno degli uomini. Tanto è vero che nei momenti di crisi, quando precipitate nella disperazione, ci prendete ad esempio. Cosa fai? Aggrotti la fronte? Non credi alle mie parole? Allora sei ignorante fratello … ascolta e rifletti. Si narra che nel 1928, negli Stati Uniti vi fosse un povero disegnatore, era così mal messo in quattrini da aver preso in affitto un abbaino di pochi metri quadrati. Quell’uomo si chiamava Walt Elias Disney e aveva come unico amico un topolino, fu lui a ispirargli il personaggio di Mickey Mouse che divenne immediatamente una celebrità. Pensa che più tardi Topolino fu candidato al premio Nobel per la pace e la Società delle Nazioni lo insignì di un riconoscimento internazionale quale “simbolo di buona volontà”. Durante la grande depressione Mickey Mouse fu l’emblema della ripresa, della lotta contro le avversità, l’archetipo dell’eroe borghese che crede profondamente nei valori, che è coraggioso senza essere temerario, che coniuga istinto e ragione, astuzia e buon cuore. Egli è il simbolo della luce capace di aver ragione sulle tenebre più fitte”. Terminata la predica, il Grande Topo scomparve ed io ripiombai nel sonno; mi ridestai il mattino seguente, pronto a cimentarmi con un nuovo giorno e a scrivere il redazionale per Officinae; davanti a me vi erano i nuovi numeri dei quotidiani che da anni leggo, anche questa volta l’uno affermava il contrario dell’altro e al tempo stesso contraddiceva ciò che aveva attestato il giorno precedente. Mi resi conto, allora, che il Gran Topo aveva non una, ma tante ragioni, per questo ho deciso di citarlo in questo numero solstiziale del nostro periodico. Il giorno del sole che culmina sul tropico del Cancro, indica una tappa e induce alla meditazione, orbene, se continueremo a pensare solo a noi stessi e non al bene comune, faremo il percorso a ritroso dello schiavo di Platone, ritorneremo nella caverna delle ombre e delle illusioni, lasciando al Gran Topo e ai suoi seguaci gli spazi aprichi, cari alla luce della saggezza e della conoscenza. P.4-5: Tegole a San Gimignano, 2012, (fotografia P.Del Freo).


In una notte di maggio ... Luigi Pruneti

5


Storia

Per i centocinquanta dalla nascita di Gabriele d’Annunzio

‘Quis contra nos?’ Gabriele d’Annunzio, la Massoneria e la Reggenza del Carnaro Luigi Pruneti

6


Storia

N

el 1918 era evidente la volontà dei Fiumani di diventare sudditi del Regno d’Italia, anche Gramsci aveva scritto che “Fiume doveva andare dove voleva, e cioè all’Italia”1. D’altra parte la maggioranza di loro parlava la lingua del “bel paese” e fin dal 1905 era nata l’associazione irredentista “Giovane Fiume” nella quale erano confluiti tanti fratelli della loggia “Syrius”, “vero e proprio cenacolo d’italianità”2. La predominanza dell’elemento peninsulare su quello croato, sloveno, ungherese e tedesco era stato verificato dal censimento del 1910 e da quello del 1918 che aveva attribuito l’italianità al 62% della popolazione. È vero che molti Croati, abitando soprattutto nelle campagne, non avevano partecipato al censimento, ma anche tenendo presente questo aspetto la componente italiana era predominante. Nell’autunno del 1918 la situazione precipitò per la costituzione di un “Consiglio Nazionale Fiumano”, presieduto da Antonio Gros-

1 In “L’Ordine Nuovo” 20 – 27 settembre 1919. 2 L. Pruneti, Per non dimenticare, in “Officinae”, a. XXV, n. 1, marzo 2013, p. 84.

Arditi! Alla cote di Fiume avete riaffilato il doppio taglio dei vostri pugnali e bene riaguzzato la punta. Il ferro non parla. Se parla è laconico. L’arma corta ha una sola parola: piuttosto che una parola, un guizzo. E il resto è silenzio. Fiume 1919, G. d’Annunzio

sich che, il 19 ottobre del 1918, proclamò l’annessione della città al Regno sabaudo. Alla dichiarazione di unione seguirono torbidi e scontri fra gli irredentisti e le truppe croate, fino a quando, grazie all’intervento di Attilio Prodam3, il 4 novembre, una squadra della Regia Marina, per evitare ulteriori problemi, sbarcò un contingente di truppe. La situazione rimase, tuttavia, critica con continui alti e bassi: a momenti di relativa calma s’alternavano altri di tensione e di violenza. Nell’anno successivo, mentre le pretese italiane erano disattese dalla Conferenza di pace di Parigi, Giovanni Host-Venturi e Giovanni Giuriati crearono una “Legione fiumana”, in funzione anti francese, giacché le truppe transalpine erano palesemente filo jugoslave. Contemporaneamente Gabriele d’Annunzio pronunciava infuocati comizi per la causa di Fiume, ostaggio incolpevole di un “complotto internazionale” volto a vanificare la vittoria italiana sugli Imperi centrali. Il Poeta Soldato ebbe un seguito via via crescente e le sue appassionanti orazio3 Cfr. A Prodam, Gli Argonauti del Carnaro, Milano 1939.

7


Storia

ni incisero notevolmente sull’opinione pubblica. Egli aveva capito “che la questione decisiva era quella di trovare un modo per affascinare le masse, colpire la loro fantasia […]. Gli strumenti di questo coinvolgimento erano […] il gesto e la parola nella loro suggestiva combinazione. Ma in definitiva a giocare erano il fascino e la fama del personaggio”4. La lezione di d’Annunzio sarebbe stata poi appresa da Mussolini che imitò il Poeta in tutto e per tutto, giungendo a plagiarne “saluti, uniformi, milizie, squadre, gridi di guerra, gagliardetti, col “me

ne frego”, riti e liturgie”5. In quel momento, comunque, l’ex direttore de “L’Avanti” era solo un comprimario, chi monopolizzava le piazze era solo lui, il Vate, l’Eroe della Beffa di Buccari e del Volo su Vienna. I suoi discorsi esaltavano gli animi: Fiume, la “Città olocausta”, l’Italianissima perla dell’Adriatico doveva tornare alla madre, il sangue versato per questa causa sarebbe stato sacro e santo come quello degli Spartani alle Termopili e quello dei Garibaldini a Milazzo. Tali affermazioni gettarono benzina sul fuoco e il 19 luglio 1919, vi furono nuovi incidenti fra gli irredentisti e le trup-

4 A. Gibelli, La grande guerra degli italiani 1915 – 1918, Milano 2009, p. 60.

5 D. Biondi, La fabbrica del duce, Firenze 1973, p. 50.

8

pe d’occupazione interalleate. Il livello della preoccupazione crebbe al punto che la Conferenza di pace a Parigi, decise di sciogliere sia il “Consiglio Nazionale” che la “Legione dei volontari fiumani”; inoltre si stabilì di allontanare dalla città i Granatieri di Sardegna, considerati fomentatori di discordie e pericolose teste calde. Questi il 25 agosto, al comando del generale Mario Grazioli, lasciarono obtorto collo Fiume e si acquartierarono a Ronchi, fra di loro aleggiavano venti di rivolta, si parlava senza mezzi termini di tradimento imposto, di orgoglio ferito, di pavida sottomissione alla volontà straniera. Sette ufficiali del reperto scrissero a quel punto a d’Annunzio, l’unico che mostrasse di avere attributi, chiedendogli di mettersi alla loro testa e di occupare la città. Nello stesso momento anche la massoneria si stava muovendo con fini pressoché identici. Era, soprattutto, il Grande Oriente a tirare le fila. Vi era una vecchia e consolidata amicizia fra Domizio Torrigiani e il Poeta, i loro contatti risalivano al 1901, ai tempi dell’Università popolare, da allora i rapporti non si erano mai interrotti e nel 1919 si rinsaldarono: ambedue desideravano forzare la mano ai “politici inetti” e riportare Fiume nell’alveo della Patria. Con la benedizione del Gran Maestro Domizio Torrigiani il 6 settembre del 1919 la loggia “Guglielmo Oberdan” di Trieste accolse una delegazione di fratelli fiumani; era presente il sindaco Antonio Vio, il segretario del municipio e i rappresentanti della loggia “Syrius”6, da sempre in prima linea nella battaglia per il ritorno di 6 G.Tirotti, Fiume l’Olocausta, l’impresa di Gabriele d’Annunzio e la Massoneria, in “Fiume. Rivista di Studi Fiumani”, nuova serie, n. 8, ottobre 1984, p. 43.


Storia

Fiume all’Italia. Nel corso della riunione si pianificò il colpo di mano e il giorno dopo il fratello Giacomo Treves incontrò a Venezia l’Immaginifico per prendere gli ultimi accordi. L’11 d’Annunzio scrisse a Mussolini per comunicargli che la decisione era stata presa: “Mio caro compagno, il dado è tratto. Parto ora. Domattina prenderò Fiume con le armi”. In realtà le operazioni iniziarono solo il 12, in tutto i legionari erano circa 2.600, in massima parte Granatieri di Sardegna, al comando del maggiore Carlo Reina. Si aggiunsero poi altri militari, fra i quali alcuni reparti di bersaglieri che in teoria avrebbero dovuto impedire la spedizione; giunte alla periferia della città, le file dannunziane furono ulteriormente ingrossate dai legionari di Host-Ventura, armati di tutto punto. Poco più tardi vi fu il trionfale ingresso dei combattenti a Fiume, dopo una marcia che per la presenza di molti massoni, Mola definì “un corteo libero muratorio”7. D’Annunzio da abile comunicatore quale era, ribattezzò l’arrivo dei legionari nella città dalmata la “Santa Entrata”, in memoria 7 A. A. Mola, Storia della Massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni, Milano 1992, p. 454.

di quando i rappresentanti della Serenissima giunsero a Zara, acquistata da Ladislao, re di Napoli e d’Ungheria. Era il 1409 e i Veneziani arrivarono in Dalmazia, recando la “Bolla d’oro” che garantiva agli Zaratini la cittadinanza de intus, essi pertanto venivano non come conquistatori, ma come concittadini e fratelli8. La coreografia dell’evento fu ben curata; il Comandante, indossava un’elegante uniforme di Tenente colonnello dei Lancieri di Novara, intorno a lui vi era il suo stato maggiore: volti duri, sguardi feroci di chi la morte l’aveva vista più volte in faccia; i Fiumani potevano essere certi, sarebbero stati italiani ora e sempre. Di fronte al capo sfilarono i legionari, era un piccolo esercito raccogliticcio e composito, ma l’entusiasmo era alle stelle, come racconta Giacomo Treves: “Drappelli di Arditi, Fanti, Granatieri, tutti quasi di corsa, scorgendoci lanciano al nostro passaggio il grido Fiume o morte”9. Quando questa armata sui generis entrò in città fu subito festa: “Ar8 G. Distefano, Atlante storico della Serenissima, vol. III, 1400 – 1599, Venezia 2010, p. 530. 9 G. Tirotti, Fiume l’Olocausta, l’impresa di Gabriele d’Annunzio e la Massoneria … cit, p. 45.

riviamo alle prime case di Fiume. Ogni finestra è un grappolo umano; sventolano mille bandiere, è tutto un inno ai liberatori. Poi, più avanti, è il popolo: è la marea che ci assale, che ci investe da ogni parte che ci impedisce di proseguire: in ogni volto è un sorriso e noi anneghiamo nella gioia ogni nostro pensiero”10. 10 Ivi.

9


Storia

D’Annunzio raggiante, fra il tripudio generale, proclamò l’annessione di Fiume all’Italia e anche nei giorni successivi le cose sembrarono andare per il verso giusto: il numero dei legionari cresceva di momento in momento, grazie soprattutto ad altri militari che abbandonavano i reparti per unirsi al Poeta Soldato. Il 20 settembre, data sacra all’Unificazione d’Italia e alla massoneria, vi fu di nuovo festa, con l’Immaginifico vi erano ormai 9 ufficiali superiori, 276 ufficiali inferiori e 4467 militari di truppa. Questi ultimi sfilano per le vie del centro, cantando a squarcia gola: “Se non ci conoscete / guardateci sul petto / noi sia10

mo i disertori / ma non di Caporetto”11. Ad aumentare l’euforia collettiva ci pensò l’ex incrociatore “Marco Polo”, ribattezzato “Cortellazzo” che il 22 settembre, entrò nella rada a sirene spiegate, mentre i marinai dai ponti della nave gridavano “Fiume o morte!”: Ora il Vate aveva anche una flotta. Di fronte al precipitare degli eventi il presidente del Consiglio, Francesco Saverio Nitti, si mostrava indeciso ed incerto. Egli, in pratica, si limitò a nominare il generale Pietro Badoglio commissario straordinario per la Venezia Giulia, con il compito di risolvere la faccenda con meno clamore possibile. Badoglio si stabilì a Trieste e cercò in un primo momento di ottenere qualche risultato con le minacce. Su Fiume furono lanciati dei volantini che intimavano 11 Elia Rossi Passavanti Dragone ed eroe di guerra. Raccolta di documenti e lettere, a. c. di G. Pesce, Terni 2012, p. 84.

ai militari di abbandonare l’impresa e di ritornare ai loro reggimenti, altrimenti sarebbero stati processati quali disertori. Fu meno di un fuoco di paglia, l’iniziativa non riscosse alcun successo, anzi, il 25 settembre, tre battaglioni di bersaglieri, raggiunsero la città per dar manforte ai legionari. A Badoglio, che in un primo momento sembrava volersi dimettere, non rimane altro che cercare di prendere la città per fame, attraverso il blocco dei rifornimenti. Per d’Annunzio quello degli aiuti era il problema più grosso. La città rischiava di essere strangolata dall’inedia, occorrevano derrate alimentari, armi, carburante e soprattutto soldi, tanti soldi. Il Comandante reagì al pericolo usando la sua arma preferita, la propaganda. Scrisse, scrisse e ancora scrisse; in primis si scagliò contro il nemico del momento, Francesco Saverio Nitti, il Presidente del consiglio, che ribattezzò per l’occasione, “Cagoja”, chiocciola in


dialetto friulano. In quell’epiteto ingiurioso era sintetizzato tutto il disprezzo per l’uomo politico, considerato un essere strisciante, viscido, pavido, capace solo di colpire gli inermi. “Sua indecenza – Scrisse il Poeta - la degenerazione adiposa, si propone di affamare i bambini e le donne che con le bocche santificate gridano Viva l’Italia”. “Cagoja”, tacque e ingozzò, replicò all’Immaginifico solo nel 1948, quando, in una sua opera autobiografica, scrisse: “[D’Annunzio] Aveva inventato per me il nomignolo di Cagoja, mi faceva ripetutamente bruciare in effigie con riti pagliacceschi. Tutte queste cose, conoscendo io bene la teatralità di d’Annunzio mi facevano ridere e non davo loro nessuna importanza”12. Fu una vendetta fuori tempo massimo, il Poeta era morto da più di un decennio e non poteva replicare all’ex primo ministro che, bramoso di rivincita, giunse a negare il valore letterario dell’avversario, profetizzando che di lì a poco tutti si sarebbero dimenticati di lui: “non ho mai contribuito alla gloria letteraria di d’Annunzio perché sono sicuro che essa è soltanto effimera e che dell’opera di d’Annunzio rimarrà ben poco e tra non molto si riderà della più gran parte delle manifestazioni in versi e in prosa”13. Si sbagliava, d’Annunzio, sarebbe rimasto per sempre nelle pagine della letteratura italiana come un autore di fondamentale importanza, mentre Nitti/Cagoja sarebbe stato ricordato per l’inconsistenza del suo governo e per gli anni di esilio durante il ventennio. Il Vate, comunque, non faceva sconti a nessuno, scagliava strali a destra e a sinistra, non risparmiò nemmeno Mussolini, il “caro compagno”, di pochi giorni prima, al quale il 16 settembre scrisse una lettera di fuoco: “Mio caro Mussolini – affermava - mi stupisco di voi e del popolo italiano […] voi tremate di paura! Voi che lasciate mettere sul collo il piede porcino del più abietto truffatore che abbia mai illustrato la storia del canagliume universale. Qualunque altro paese – anche la Lapponia – avrebbe rovesciato quell’uomo, quegli uomini. E voi state lì a cianciare, mentre noi lottiamo […] svegliatevi e vergognatevi anche […] altrimenti verrò io quando 12 F. S. Nitti, Rivelazioni. Dramatis personae, Napoli 1948, p. 339. 13 Ibidem, p. 353.

Storia

avrò consolidato qui il mio potere”. Mussolini corse subito ai ripari, il 20 settembre, pubblicò la missiva di d’Annunzio sul “Popolo d’Italia” emendandola sapientemente e contemporaneamente aprì una sottoscrizione che raccolse quasi 3.000.000 di lire; 857.842 furono consegnate al Poeta fin dal mese di ottobre, altre furono versate in seguito, ma una parte consistente sparì nelle casse del Partito Fascista, cosa che l’Immaginifico ricordò per un lungo periodo di tempo14, tanto che, nel momento della “marcia su 14 A. A. Mola, Giolitti. Lo statista della nuova Italia, Milano 2012, p. 24.

Roma”, definita “fetida ruina”15, chiamò il duce “beccaio”16 e i suoi estimatori “goffi turiferai”17. Si dice, inoltre, che più tardi il Poeta si prese sull’uomo di Predappio una rivincita del tutto particolare. Quando questi andò a trovarlo al Vittoriale lo costrinse ad una lunga anticamera; alcuni ben informati riferirono ridacchiando che Mussolini fu costretto a passare oltre mezz’ora scomodamente allocato in una stanzuccia, ammorba15 D. Biondi, La fabbrica del duce … cit, p. 121. 16 Ibidem, p. 70. 17 Ibidem, p. 101.

11


Storia

ta da incensi18, il Romagnolo non la prese bene, bestemmiando come un turco, espresse più volte l’idea che il luogo più consono al Poeta sarebbe stato il manicomio. La Massoneria, a differenza di Mussolini, si dimostrò assai più affidabile nel foraggiare l’impresa. Abbiamo già visto come le logge avessero spianato la via dell’avventura fiumana e l’importanza che giocò nella spedizione il fratello Giacomo Treves e le logge triestine del G.O.I19. La Comunione, che aveva la propria sede centrale in Palazzo Giusti-

niani, aprì un credito di 2.000.000 di lire a favore della città dalmata20, mentre rifornimenti di ogni genere giungevano nel Golfo del Carnaro tramite la Croce Rossa Italiana, il cui Presidente era il fratello Giovanni Ceraiolo, esponente di spicco del Rito Simbolico Italiano21. Inoltre, i legionari liberi muratori erano numerosissimi22, tanto che lo stesso d’Annunzio, riconobbe in seguito che “senza l’appoggio incondizionato della massoneria l’impresa di Ronchi non avrebbe potuto raggiungere il suo obiettivo”23. In quei

18 E. Caviglia, Diario 1925 – 1945, Roma 1952, p. 4. 19 A. A. Mola, Storia della Massoneria italiana … cit, p. 452; A. A. Mola, L’ultima impresa del Risorgimento: La Massoneria per d’Annunzio a Fiume (dalle carte di Giacomo Treves) in AA. VV, La liberazione d’Italia nell’opera della Massoneria, a. c. di A. A. Mola, Foggia 1990, pp. 261 – 304.

20 A. A. Mola, Giolitti. Lo statista della nuova Italia … cit, p. 394. 21 A. A. Mola, Storia della Massoneria italiana … cit, p. 455. 22 F. Conti, Storia della Massoneria italiana, dal Risorgimento al fascismo, Bologna 2003, p. 267. 23 G. Leti, Carboneria e Massoneria nel

12

giorni di entusiasmo, di speranza e di timori, i rapporti fra d’Annunzio e i vertici del Grande Oriente furono strettissimi, egli era in contatto continuo col Gran Maestro, Domizio Torrigiani24 che giornalmente s’informava di come procedessero le cose e si preoccupava di venire incontro con ogni mezzo ai legionari; poi qualche mese più tardi qualcosa s’incrinò25. I motivi della frattura furono dovuti, in parte, a un avvicinamento del Poeta a esponenti della Serenissima Gran Loggia26 che sicuramente gli consegnarono honoris causa la sciarpa del 33° ed ultimo Grado del Rito Scozzese Antico ed Accettato27 e forse lo iniziarono nella loggia “XXX Ottobre”28. Il venerabile di questa officina fiumana era il fratello Attilio Prodam, noto esponente della massoneria scozzese e intermediario fra d’Annunzio e il Gran Maestro di Piazza del Gesù Vittorio Raoul Palermi. Anche questo discusso personaggio si era mosso in favore dell’impresa in Dalmazia, costituendo a Roma un Comitato per la raccolta di fondi pro Fiume; l’entità delle somme che riuscì a veicolare a d’Annunzio è ignota, ma è certo che un appoggio consistente vi fu. Si sa, ad esempio, che quando il legionario massone Tommaso Ceraiolo si recò a Milano alla ricerca di apparecchi per rafforzare l’aviazione fiumana, raccolse da una loggia palermiana la consistente somma di 72.000 lire29. Il principale motivo della rottura fu, però, essenzialmente politico: Domizio Torrigiani temeva Risorgimento italiano, Bologna 1925, p. 392. 24 F. Conti, Storia della Massoneria italiana … cit, p. 267; G. Padulo, La Massoneria italiana nel XX secolo. Dall’interventismo al fascismo, in Storia d’Italia, Annali XXI, La Massoneria, a. c. di G. M. Cazzaniga, Torino 2006, p. 666. 25 F. Conti, Storia della Massoneria italiana … cit, p. 269. 26 L. Pruneti, La Tradizione massonica scozzese in Italia, Roma 1994, p. 103; A. A. Mola, L’ultima impresa del Risorgimento … cit, p. 300. 27 L. Pruneti, Gabriele d’Annunzio la massoneria e l’occulto”, in “Archeomisteri”, a. IV, n. 35, settembre – ottobre 2007, p. 53; C. Gentile, L’altro d’Annunzio, Foggia 1982, p. 8. 28 G. Vannoni, Massoneria Fascismo e Chiesa cattolica, Bari 1980, p. 52, nota 133. 29 G. Tirotti, Fiume, l’Olocausta, l’impresa di Gabriele d’Annunzio e la Massoneria … cit, p. 52.


Storia

possibili derive avventuristiche di d’Annunzio. Già il 14 novembre 1919, il Poeta aveva effettuato la “Spedizione su Zara”. Si era trattato di un atto dimostrativo, ma significativo da un punto di vista simbolico. Il Comandante, insieme a Guido Keller, Giovanni Host-Venturi, Luigi Rizzo e Elia Rossi Passavanti, si era imbarcato sulla “Nullo” e aveva raggiunto Zara dove fu accolto benevolmente dal comandante della Piazza l’ammiraglio massone30 Enrico Millo, odiato da Nitti31. L’alto ufficiale, al termine dell’incontro, gli promise solennemente che non avrebbe abbandonato la Dalmazia fino a quando non fosse diventata italiana. Si era trattato dell’ennesima operazione di propaganda, atta a mobilitare i giornali dell’epoca; ma ora il Comandante sembrava volesse alzare la posta, si mormorava che favoleggiasse, addirittura, due raid arerei sulla Penisola e uno sbarco sulla costa marchigiana per innescare un’insurrezione contro Nitti32. Appurata questa tendenza, Domizio Torrigiani 30 F. S. Nitti, Rivelazioni … cit, p. 336. 31 Ivi. 32 A. A. Mola, Giolitti. Lo statista della nuova Italia … cit, p. 395.

decise di prendere le distanze dal Pescarese, col quale, nel volgere di pochi mesi cessò ogni contatto. Ad Ancona non fu effettuato nessuno sbarco, ma il 24 giugno del 1920 la città fu teatro di una vera e propria sommossa popolare. Tutto ebbe origine dalla ribellione dell’XI Reggimento bersaglieri, acquartierato nella caserma Villarej che, alla notizia di essere stato destinato in Albania, si ammutinò, occupando la caserma. Ne seguirono scontri con le guardie regie e uno sciope-

ro generale che si trasformò in una vera e propria sommossa, con gli insorti che occuparono alcuni quartieri popolari. La calma ritornò solo dopo alcuni giorni di guerra civile, un bombardamento dal mare e un notevole tributo di sangue: le vittime furono venticinque e i feriti numerosissimi33. Nella sommossa di An33 L.Pruneti, Aquile e corone. L’Italia il Montenegro e la massoneria dalle nozze di Vittorio Emanuele III ed Elena al governo Mussolini, Firenze 2012, pp. 57 – 58.

13


Storia

cona giocarono un ruolo determinante alcuni agitatori professionisti, venuti da fuori; diversi di loro erano anarchici ma altri erano legionari fiumani34. La Fiume di d’Annunzio era, infatti, un particolare crogiuolo dove si mischiavano e convivevano elementi più disparati. Forse non era la “signoria rinascimentale, truccata da repubblica sovietica”, indicata da Sergio Romano35, né tantomeno, il “miscuglio eteroclito d’idealisti, di scioperati 34 M. A. Zingaretti, Popolari e sovversivi, i moti popolari di Ancona nei ricordi di un sindacalista (1909 – 1924), a.c. di P. R. Farnesi e M. Papini, Ancona 1992, pp. 49 e segg. E. Santarelli, Le Marche dall’Unità al fascismo. Democrazia repubblicana e movimento socialista, Roma 1964, pp. 258 e segg. 35 S. Romano, Storia d’Italia dal Risorgimento ai nostri giorni, Milano 1998, p. 221.

14

e di bricconi”36 di Angelo Tasca, ma sicuramente fu un “gesto di romanticismo politico” che coagulò sindacalisti rivoluzionari, nazionalisti, ex arditi e anarchici, in un brodo di cultura tendenzialmente di massa, capace di saldare insieme destra e sinistra, demagogia sociale, utopismi massonici e aspirazioni libertarie37, in dispregio a una classe borghese rappresenta dai vari “Cagoja” e “Labbrone”. Un siffatto humus socio – politico si articolava intorno all’Immaginifico, la cui capacità di stupire non conosceva alcun declino, tanto che a Randolfo Vel36 A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo. L’Italia dal 1919 al 1922, Bari 1971, p. 78. Cfr. F. Cordova, Arditi e legionari dannunziani, Padova 1969. 37 E. Ragionieri, Storia d’Italia, vol. IV, Dall’Unità a oggi, t. III, La storia politica e sociale, Torino 1976, pp. 2090 – 2091.

la, inviato di “Umanità nuova”, dichiarò: “Tutta la mia cultura è anarchica […]. È mia intenzione di fare questa città un’isola spirituale dalla quale possa irradiare, un’azione eminentemente comunista verso tutte le nazioni oppresse. Io ho bisogno di non essere calunniato da voi sovversivi; poi vedrete che la mia opera non è nazionalista”38. Alla sua corte, accanto a monarchici e a borghesi, a Figli della vedova e a ex combattenti, sedevano personaggi come Mario Carli direttore di “Testa di Ferro”, futurista, capitano degli arditi e simpatizzante della rivoluzione bolscevica o Guido Keller animatore dell’Associazione Yoga, prima libertario e poi fascista, o ancora Renato Cigarini, ex ardito e comunista che si recò a Fiume portando sul bavero la stella rossa dei soviet39. I legionari immaginavano la vita come “una favola bella”, che non fosse gravata da ammorbanti convinzioni sociali, né da gravami moralistici, il gusto per la trasgressione e il ribellismo imperavano, pertanto ogni comportamento era lecito a iniziare dalla libertà sessuale; questo vitalismo esondante aveva bisogno di una coreografia, di cui il Vate era maestro; la festa, la parata, esemplificazioni di una gioia collettiva, imperavano nella sua Fiume ed esprimevano il valore edonistico dell’esistenza che andava modellata come un’opera d’arte; Andrea Sperelli, nella “Città Olocausta” aveva dismesso gli eleganti abiti romani per indossare la divisa di ardito40. Tutto ciò faceva sì che i benpensanti indicassero i legionari come la quintessenza dell’immoralità e della perversione; ad esempio Filippo Turati scriveva: “Fiume è diventata un postribolo, ricetto di malavita e di prostitute high-life. Nitti mi parlò di una marchesa Incisa, che vi sta vestita da ardita con tanto di pugnale. Purtroppo non può dire alla Camera tutte queste cose, per l’onore d’Italia”. Il celebre esponente del Socialismo italiano si riferiva alla marchesa Margherita Incisa di Camerana, compagna del grande invalido di guerra Elia Rossi Passavanti, comandante della “disperata”, la guardia persona38 “Umanità Nova” 9 giugno 1920. 39 In “La Repubblica” 13 agosto 2005. 40 L. Pruneti, Il sentiero del bosco incantato. Appunti sull’esoterico nella letteratura, Bari 2009, p. 162.


Storia

le del poeta di cui la nobildonna divenne madrina41. Cosa combinò la “marchesa Incisa”, oltre a usare un look poco femminile, è difficile saperlo; fatto sta che divenne un emblema dei comportamenti e delle abitudini “indecenti” dei legionari, denunciati all’opinione pubblica da stampa e uomini politici. Quando la Reggenza del Carnaro era ormai finita, Gramsci sulle colonne di “Ordine Nuovo” difese d’Annunzio, lamentando il linciaggio mediatico del quale era stato oggetto: “L’onorevole Giolitti […] ha più di una volta con estrema violenza, caratterizzato l’avventura fiumana. I legionari sono stati presentati come un’orda di briganti, gente senza arte né parte, assetata solo di soddisfare le passioni elementari della bestialità umana: la prepotenza, i quattrini, il possesso di molte donne. D’Annunzio, il capo dei legionari, è stato presentato come un pazzo, come un istrione, come un nemico della patria, come un seminatore di guerra civile, come un nemico di ogni legge umana e civile. Ai fini del governo sono stati scatenati i sentimenti più intimi e profondi della coscienza collettiva: la santità della famiglia violata, il sangue fraterno sparso freddamente, la integrità e la libertà delle persone lasciate in balia di una soldataglia folle di vino e di lussuria, la fanciullezza contaminata dalla più sfrenata libidine. Su questi motivi il governo è riuscito a ottenere un accordo quasi perfetto: l’opinione pubblica fu modellata con una 41  Elia Rossi Passavanti Dragone ed eroe di guerra … cit, p. 85.

plasticità senza precedenti”42. A molti il valore eversivo dell’Impresa Fiumana sembrò ancor più evidente quando il 12 agosto del 1920 d’Annunzio proclamò la Reggenza del Carnaro, attribuendosi tutti i poteri politici e militari. La Costituzione del nuovo stato fu scritta da Alceste De Ambris che dal mese di gennaio aveva sostituito Giovanni Giurati come Capo gabinetto. De Ambris, già sindacalista rivoluzionario43, elaborò la così detta Carta del Carnaro un documento, assai avanzato, con carat42 In “L’Ordine Nuovo”, 6 gennaio 1921. 43 Alceste De Ambris venne così definito da Francesco Saverio Nitti: “uomo esuberante ma non privo d’intelligenza, benché del tutto privo di studi economici e sociali”. F. S. Nitti, Rivelazioni … cit, p. 333.

teristiche massonico - corporative44 che per certi versi desiderava “confrontarsi con le esperienze bolsceviche e a misurarsi con l’immagine che in Occidente si aveva di Lenin e Trockij, ai quali molti attribuivano non dimenticate esperienze liberomuratorie”45. L’articolo 2 del documento, ad esempio, affermava: “La Repubblica del Carnaro è una democrazia diretta”, [basata sulla …] “sovranità collettiva di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di classe e di religione; […] e decentra, per quanto è possibile, i poteri dello Stato, onde assicurare l’armonica convivenza degli elementi che la compongono”. L’articolo 5, poi, garantiva “a tutti i cittadini, senza distinzio44 A. A. Mola, Giolitti. Lo statista della nuova Italia … cit, p. 399. 45 Ibidem, p. 463.

15


Storia

ne di sesso, l’istruzione primaria, il lavoro compensato con un minimo di salario sufficiente alla vita, l’assistenza in caso di malattia o d’involontaria disoccupazione, la pensione per la vecchiaia, l’uso dei beni legittimamente acquistati, l’inviolabilità del domicilio, l’habeans corpus, il risarcimento dei danni in caso di errore giudiziario o abuso di potere”. Lo stato doveva essere assolutamente laico: “Ogni culto religioso – si leggeva - è ammesso e rispettato e può edificare il suo tempio. Ma nessun cittadino invochi la credenza o i suoi diritti per sottrarsi all’adempimento dei doveri prescritti dalla legge”46. Concetto ulteriormente sottolineato nel titolo riguardante la pubblica istruzione: “Alle chiare pareti delle scuole […] non convengono emblemi di religione né figure di parte politica. Le scuole pubbliche accolgono i seguaci di tutte le confessioni religiose, i credenti di tutte le fedi, e quelli che possono vivere senza altare e senza Dio. Perfettamente rispettata è la libertà di coscienza. E ciascuno può fare la sua preghiera tacita”47. Erano, infine, garantiti a tutti i cittadini la libertà di stampa, di riunione, di associazione, i diritti politici e civili, identici per gli uomini e le donne, era contemplato il divorzio, la parità salariale fra i sessi; in tempo di pace non vi era esercito, ma in caso di guerra sussisteva l’obbligo del servizio militare ai quali erano chiamati uomini e donne in età compresa fra i 17 ai 52 anni. La struttura dell’apparato militare presentava, inoltre aspetti interessanti con orga46 C. Gentile, L’altro d’Annunzio … cit, p. 137. 47 La Carta del Carnaro fu considerata da Nitti “ridicolissima e stupidissima […] un documento d’ignoranza e di fatuità, degna solo di una riunione di mattoidi”. F. S. Nitti, Rivelazioni … cit, p. 333,

16

ni collegiali simili ai soviet; era previsto, ad esempio, che gli ufficiali di ogni ordine e grado avessero lo stesso peso nelle decisioni; ciò comportò le dimissioni di numerosi ufficiali, fra questi il generale Sante Ceccherini che il 20 novembre del 1920 se ne andò dichiarando: “la sistematica inversione dei valori disciplinari è troppo grave […] venimmo qui chiamati da V.S. come generale e come tali ce ne andiamo”. Altri ufficiali seguirono il suo esempio quando il governo fiumano riconobbe la Russia Sovietica, un atto che parve a molti una provocazione insopportabile e una manifesta dimostrazione del carattere sovversivo della Reggenza. Fece molto discutere pure il complesso vessillo che questa adottò. Sembra che sia stato lo stesso d’Annunzio ad idearlo. Il Poeta avrebbe, infatti, tracciato un bozzetto che poi fu elaborato da Adolfo de Carolis. L’emblema presentava in alto, ai lati, i tricolori d’Italia e di Fiume, al centro, su campo rosso, era disegnato l’uroboros, il serpente che si morde la coda e nel cerchio da questi disegnato vi erano le sette stelle dell’Orsa. Completava il tutto un cartiglio con il motto “Quis contra nos?”48, la scritta era mutuata dall’Epistola di San Paolo ai Romani: “Si spiritus pro nobis, quis contra nos?”. Il vessillo aveva una chiara valenza esoterica se non massonica; il serpente che si morde la coda indica “Un ciclo di evoluzione chiusa su se stesso. Questo simbolo racchiude – si legge in una nota opera di simbologia - […] le idee di movimento, 48 Su i motti dannunziani cfr. D. L. Massagrande, d’Annunzio e Fiume. Autografi dannunziani nell’archivio della Società di Studi fiumani, Roma 2009.

di continuità, di autofecondazione”49. E’ il tempo ciclico, l’eterno ritorno della Libera muratoria, scandito dall’alternarsi dei solstizi e degli equinozi. La costellazione dell’Orsa maggiore con le sette stelle potrebbe indicare i legionari che a Ronchi giurarono “O Fiume o morte”, ma anche le virtù guerriere, o la saggezza di cui è depositaria quella tradizione primordiale, illustrata da René Guénon50. Anche il labaro fiumano potrebbe, dunque, accennare a quel distillato dell’alambicco massonico del quale parla Aldo Alessandro Mola nella sua nota opera sulla storia della Massoneria italiana51. La Reggenza del Carnaro ebbe vita breve, il 12 novembre del 1920, Giolitti, subentrato a Nitti, stipulò con il Regno di Jugoslavia il Trattato di Rapallo52 che stabilì la costituzione di uno stato libero di Fiume. L’accordo fu bene accolto dalla maggior parte dei partiti politici, pure Mussolini, nemico giurato di “Labbrone”, lo considerò in modo positivo. Identica fu l’analisi di Alceste De Ambris conscio che i Fiumani desideravano uscire dal cul de sac dove si erano infilati per ritornare alla normalità. D’Annunzio invece lo rifiutò, cosicché quando il Regno d’Italia ratificò il trattato, il generale Caviglia, succeduto a Badoglio, inviò al Vate un ultimatum: i legionari avevano 48 ore di tempo per abbandonare la città. Al silenzio di d’Annunzio il 24 dicembre le truppe si mossero, ebbe così inizio il “Natale di sangue” che, dopo una breve tregua, chiamò in causa anche la Regia Marina con l’Andrea Doria che bombardò l’edificio dove si era insediata la reggenza53. La capitolazione fu pressoché immediata; nel gennaio i legionari lasciarono Fiume e il 18 dello stesso mese furono seguiti da Gabriele d’Annunzio che lasciò la “Città olocausta” per ritirarsi a Venezia. Terminò così la breve vita della Reggenza del 49 J. Chevalier A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli. Miti sogni costumi gesti forme figure colori numeri, vol. II, Milano 1997, pp. 526 – 527. 50 R. Guenon, Forme tradizionali e riti cosmici, Roma 1981; R. Guenon, Simboli della Scienza sacra, Milano 1994. 51 A. A. Mola, Storia della Massoneria italiana … cit, p. 463. 52 L. Pruneti, Aquile e corone … cit, pp. 67 – 68. 53 A. A. Mola, Giolitti. Lo statista della nuova Italia … cit, p. 405.


Storia

Carnaro, una pagina di storia estremamente interessante, nella quale la Libera Muratoria giocò un ruolo fondamentale che ancora non è del tutto chiaro. _____________

mani, Roma 2009.

A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo. L’Italia dal

A. A. Mola, Giolitti. Lo statista della nuova Italia, Milano 2012.

1919 al 1922, Bari 1971.

Bibliografia:

A. A. Mola, L’ultima impresa del Risorgimento: La Massoneria per d’Annunzio a Fiume (dalle carte di Giacomo Treves) in AA. VV, La liberazione d’Italia nell’opera della Massoneria, a. c. di A. A. Mola, Foggia 1990.

D. Biondi, La fabbrica del duce, Firenze 1973.

A. A. Mola, Storia della Massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni, Milano 1992.

E. Caviglia, Diario 1925 – 1945, Roma 1952. J. Chevalier A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli. Miti sogni costumi gesti forme figure colori numeri, vol. II, Milano 1997F. Conti, Storia della Massoneria italiana, dal Risorgimento al fascismo, Bologna 2003. F. Cordova, Arditi e legionari dannunziani, Padova 1969. G. Distefano, Atlante storico della Serenissima, vol III, 1400 – 1599, Venezia 2010. Elia Rossi Passavanti Dragone ed eroe di guerra. Raccolta di documenti e lettere, a. c. di G. Pesce, Terni 2012A. Gibelli, La grande guerra degli italiani 1915 – 1918, Milano 2009. C. Gentile, L’altro d’Annunzio, Foggia 1982. R. Guenon, Forme tradizionali e riti cosmici, Roma 1981. R. Guenon, Simboli della Scienza sacra, Milano 1994. G. Leti, Carboneria e Massoneria nel Risorgimento italiano, Bologna 1925. D. L. Massagrande, d’Annunzio e Fiume. Autografi dannunziani nell’archivio della Società di Studi fiu-

F. S. Nitti, Rivelazioni. Drammatis personae, Napoli 1948.

G. Vannoni, Massoneria Fascismo e Chiesa cattolica, Bari 1980. M. A. Zingaretti, Popolari e sovversivi, i moti popolari di Ancona nei ricordi di un sindacalista (1909 – 1924), a.c. di P. R. Farnesi e M. Papini, Ancona 1992. Periodici:

G. Padulo, La Massoneria italiana nel XX secolo. Dall’interventismo al fascismo, in Storia d’Italia, Annali XXI, La Massoneria, a. c. di G. M. Cazzaniga, Torino 2006.

L’Ordine Nuovo” 20 – 27 settembre 1919.

A. Prodam, Gli Argonauti del Carnaro, Milano 1939.

L. Pruneti, Gabriele d’Annunzio la massoneria e l’occulto”, in “Archeomisteri”, a. IV, n. 35, settembre – ottobre 2007

L. Pruneti, Aquile e corone. L’Italia il Montenegro e la massoneria dalle nozze di Vittorio Emanuele III ed Elena al governo Mussolini, Firenze 2012. L. Pruneti, Il sentiero del bosco incantato. Appunti sull’esoterico nella letteratura, Bari 2009. L. Pruneti, La Tradizione massonica scozzese in Italia, Roma 1994.

L. Pruneti, Per non dimenticare, in “Officinae”, a. XXV, n. 1, marzo 2013. E. Ragionieri, Storia d’Italia, vol. IV, Dall’Unità a oggi, t. III, La storia politica e sociale, Torino 1976. S. Romano, Storia d’Italia dal Risorgimento ai nostri giorni, Milano 1998. E. Santarelli, Le Marche dall’Unità al fascismo. Democrazia repubblicana e movimento socialista, Roma 1964.

L’Ordine Nuovo”, 6 gennaio 1921. La Repubblica” 13 agosto 2005.

G. Tirotti, Fiume l’Olocausta, l’impresa di Gabriele d’Annunzio e la Massoneria, in “Fiume. Rivista di Studi Fiumani”, nuova serie, n. 8, ottobre 1984. “Umanità Nova” 9 giugno 1920.

P.6: d’Annunzio su una cartolina d’epoca; p.7: d’Annunzio e lo stemma della Legione Fiumana; p.7 in Basso: pugnale da Ardito (reperto I Guerra mondiale); p.8 a sin: d’Annunzio entra a Fiume; p.8 a destra: Fregio Arditi appartenuto a d’Annunzio; p.9 in basso: la famosa lettera di d’Annunzio (vd. testo); p.9 in alto: Arditi fiumani nel 1919; p.10 e 11: Memorabilia fiumani; p.10 in basso: Stemma dell’ ’Irriducibile’; p.10 in basso: Ordine autografo del ‘Comandante’; p.12-17: Foto d’epoca e reperti di cronaca del 1919.

17


Storia

Garibaldi contro il ‘pericolo turco’

Garibaldi massone contro la dominazione turca sull’Europa e il fanatismo islamico Aldo A. Mola

18


G

aribaldi nel 1864 fu per pochi mesi Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia. Due anni prima, sconfitto da Filippo Cordova nella elezione alla suprema carica, fregiato di medaglia d’oro e del titolo di Primo massone d’Italia e di Gran Maestro Onorario ad vitam, quando la carica era esclusiva, Garibaldi fu campione di tolleranza e fratellanza, senza mai rinunciare a impugnare la spada e a imbracciare il fucile quando lo riteneva necessario. Non perché fosse avido di sangue, ma per la libertà. È il Garibaldi che tanti conoscono. È l’Uomo Universale che brandisce la spada fiammeggiante come l’Arcangelo Michele per spezzare le catene che avvincono l’umanità e purificare il mondo dalla cancrena dell’ignoranza e della superstizione. È il Garibaldi caro al fratello Giosue Carducci, che lo immortalò a capo della lunga asperrima lotta contro “Cesare e Piero”, la tenaglia infuocata del potere politico (e militare) sommato a quello della chiesa cattolica, o meglio dell’imperatore d’Austria e di Pio IX. Pacifista, Garibaldi

le “celebrazioni” del bicentenario della sua nascita (2007) e del 150° dell’impresa dei Mille (2010), della costituzione del Regno d’Italia (2011) e della spedizione “Roma o Morte”. Quest’ultimo centocinquantesimo è filato via come acqua sulla pietra perché il Garibaldi del luglio-agosto 1862 non è affatto riducibile al “rivoluzionario disciplinato” di Mario Isnenghi, comodo per celebrazioni retoriche, e avrebbe costretto a fare i conti con il suo grembiulino di Gran Maestro della Massoneria, con la sua irriducibile avversione contro il papa– re, restaurato l’11 febbraio 1929. Dipendesse dall’Edizione Nazionale dell’Epistolario (dal 2009 ferma al carteggio garibaldino d’inizio 1871) e dalla generalità delle biografie anche recenti, l’ultimo Garibaldi (1871-1882), il più maturo e lungimirante, quello del bilancio politico di un secolo di lotte per la liberazione dei popoli oppressi, rimarrebbe sotto traccia per chissà quanto tempo. Le altre maggiori raccolte di lettere del generale (a cominciare da quelle curate da Ximenes e da Ciampoli) risalgono infatti a fine Ottocento- inizio

fu anche generale del re di Sardegna. L’eroe anticlericale celebrò nuovi riti o quanto meno non sconfessò la pratica di battezzare e unire in matrimonio nel nome suo, non per egotismo ma per liberare dalla superstizione verso altre divinità. Contraddizioni? Il discorso è più complesso. Va meglio articolato. E non solo a tale riguardo. Vi è infatti un altro Garibaldi pressoché sconosciuto. È rimasto ai margini del-

Novecento e le si trova solo nelle sale di lettura delle biblioteche più attrezzate o specializzate. Nel corposo libro Tra squadra e compasso e il Sol dell’avvenire Marco Novarino si è sforzato di addomesticare Garibaldi in subordine alle “influenze massoniche sulla nascita del socialismo italiano”. Non ricorda, però, che Garibaldi condannò “i scioperi” (sic!), rifiutò nettamente il socialismo marxista, l’anarchia e tanti altri

Storia

N

ell’ultimo decennio di vita Giuseppe Garibaldi scrisse le Memorie e sintetizzò la sua visione su problemi politici di ampio respiro. Nel 1860 aveva vaticinato gli Stati Uniti d’Europa. Dal 1870, dopo la feroce guerra francogermanica, quasi una profezia della Grande Guerra, e a cospetto della “Commune” di Parigi, che contenne in nuce il nazionalcomunismo, Garibaldi predicò la debellatio dell’Impero turco che impediva la liberazione dei popoli oppressi dell’Europa orientale. Non aveva alcuna animosità contro i Turchi come individui né come etnia. Però li sapeva succubi di un regime fondato sul fanatismo religioso. Equanime, dopo l’annessione di Roma all’Italia, che eliminò il papare e la disuguaglianza dinnanzi alle leggi, Garibaldi spostò il tiro sull’altro bastione di una dominazione insopportabile: la Sublime Porta…: non perché fosse un potere politico, ma perché (come tutti i “preti”) entrava nelle coscienze, nella vita intima di ogni persona, con fanatismo letale. Garibaldi non volle l’incontro tra le religioni. Volle la liberazione dalle superstizioni. 19


Storia

massimalismi. È curioso che nel suo vasto libro Novarino non ricordi che Garibaldi morì deputato del regno d’Italia, generale dell’Esercito e che nella scheda di parlamentare scrisse “Agricoltore”. Pertanto qui evochiamo un Garibaldi pressoché sconosciuto: alfiere della fratellanza universale ma al tempo stesso strenuo fautore della lotta per sottrarre ogni lembo d’Europa all’Impero dei Turchi perché fondato sul fanatismo del clero islamico. Per Garibaldi il confine tra l’Europa e l’Asia non era un tratto di penna sulla carta geografica: era segnato dalla natura, dagli Stretti. Come quello dell’Italia, che va dal Carnaro al Varo. Garibaldi ne scrisse ripetutamente nel suo ultimo decennio di vita, quello più fecondo ma, al tempo stesso, il meno studiato e quindi poco noto e compreso. Per esempio, Andrea Possieri gli dedica poche pagine del suo Garibaldi (Bologna, 2010), come se nell’ultimo decennio di vita il Generale fosse ormai un pupazzo di cartapesta da esibire in giro per l’Italia come una Ma20

donna pellegrina della rivoluzione mancata. La maggior parte delle sue biografie, compresa quella di Alfonso Scirocco (la più nota, elogiata e ristampata), prendono la rincorsa da lontano, si attardano sugli anni in cui fu corsaro, guerrigliero, generale tra Brasile ed Uruguay, arrivano stanche agli anni 1871-1882, dopo tanti capitoli sul quarantennio dalla cospirazione mazziniana di Genova (1834) alla Repubblica Romana (1849), dal secondo esilio ai Cacciatori delle Alpi (1859) e all’impresa dei Mille (1860), dal successo di Bezzecca sugli Austriaci (1866) a Mentana (1867) e alla vittoria di Digione sui Prussiani (1871), ove si batté in difesa della Repubblica francese che spocchiosamente lo ripagò dichiarandolo ineleggibile all’Assemblea costituente della novella Marianne. Si direbbe che, agognando la fine del lavoro, molti autori abbiano avuto fretta di liberarsene, nel presupposto che quel che aveva da dire Garibaldi lo disse sui campi di battaglia o nelle Memorie. Così quel decennio conclusivo e concludente dal Generale in gran

parte dedicato alla rifondazione della pace universale (o almeno euro-mediterranea) sulla libertà dei popoli e sul progresso economico e civile, troppo spesso sfuma in poche pagine sbrigative, talora in poche righe di congedo. Il tema qui accennato – la netta, aspra, coerente avversione di Garibaldi contro il dominio turco su qualunque tratto di Europa e contro il monoteismo islamico: una religione che sconta sei secoli di arretratezza rispetto al cristianesimo e non ha mai fatto i conti, se non per negarne l’identità, né con la filosofia greco-latina, né con la Rivoluzione francese – rischia di rimanere ignorato. Certo questo è un Garibaldi scomodo. Vi sono però almeno tre buone ragioni per parlarne. In primo luogo il Generale (o Eroe dei due Mondi o Gran Maestro o comunque lo si voglia appellare) ebbe e mostrò senno politico superiore a quello che di rado e avaramente gli viene riconosciuto da chi lascia tra parentesi (non letti o non capiti) gli scritti dei suoi ultimi anni. Inoltre occorre fare i conti con le


Storia

motivazioni profonde e con l’intero ventaglio del suo anticlericalismo radicale, che non si circoscrisse alla sola chiesa cattolica ma investì ogni forma di intrusione del clero di qualsiasi chiesa o religione come pretesa normativa nella vita civile, di poteri arcani nella libertà delle persone. Infine (ed è questo un aspetto importante della sua cultura politico-militare-diplomatica) la sua lotta per la liberazione dello spazio euro-mediterraneo dai “turchi”, dall’impero della Sublime Porta, andò molto oltre la questione religiosa: fu politica e si legò alla valutazione positiva dell’espansione degli Europei Oltremare e della colonizzazione dell’Africa settentrionale da parte della civiltà del suo tempo, razionale, positiva, fondata sulle scienze, la produzione, il mercato, il progresso civile: un viluppo di questioni che nella sua mente non erano affatto un groviglio confuso e indistricabile, anzi gli erano lucidamente presenti nella loro intima connessione. A ben vedere il vero Garibaldi non è molto diverso dal Karl Marx vero: per il quale la co-

lonizzazione degli spazi extraeuropei era indispensabile per il capitalismo, fondamento necessario del superamento delle classi non verso il pauperismo ma in direzione del benessere, della “felicità”. Garibaldi non ingabbiava il Libero Pensiero in pochi meridiani e paralleli, non ne faceva un primato da celebrare nel recinto europeo o “occidentale”: anche per lui la liberazione dal clericalismo era (doveva essere) conquista universale. E considerava sua missione propugnarla ovunque. Anche per quel suo impegno egli fu effettivamente “eroe dei due mondi”, un’etichetta altrimenti futile, da manualetto scolastico e retorica patriottarda. Nelle Memorie Garibaldi ricordò la sua lunga dimora a Costantinopoli, una pagina per molti aspetti tuttora pressoché oscura. Ammalatosi nel corso di uno dei tanti viaggi in Oriente (di quale morbo? Non ne scrisse e non se ne sa nulla), vi rimase più del previsto e si trovò alle strette: “La guerra accesa tra la Russia e la Porta (cioè l’Impero turco, detto Sublime Porta

dalla residenza del Sultano, NdA) contribuì a prolungare il mio soggiorno. In tale periodo mi successe per la prima volta di impiegarmi a precettore di ragazzi, offertomi dal signor Diego, dottore in medicina, e che mi presentò alla vedova Timoni, che ne abbisognava. Entrai in quella casa maestro di tre ragazzi, e profittai di tale periodo per studiare un po’di greco, dimenticato poi, siccome il latino che avevo imparato nei prim’anni”. I maligni imbastirono molte insinuazioni su quella lunga stagione e sui suoi rapporti con la vedova. Garibaldi tornò sulle sue disavventure di Costantinopoli molti decenni dopo. In una pagina di appunti fustigò “Il prete”: “Si chiami egli prete, Ministro, dervista, Calogero, Bonzo, Papas, qualunque nome egli abbia, a qualunque religione egli appartenga, il prete è un impostore, il prete è la più nociva di tutte le creature, perché egli più di nessun altro è un ostacolo al progresso umano, alla fratellanza degli uomini e dei popoli. Egli è un ministro di Dio? Dimandate che vi faccia un uccel21


Storia

lino, una mosca, una formica. Come! Un ministro di colui che seminò di Mondi l’Infinito non sarà capace di fare un insetto? Io ho percorso la superficie del globo. In Turchia fui obbligato di fuggire davanti ad una folla di ragazzi e di donne, perché i preti dicevan loro ch’ io era un maledetto! In Cina mi successe lo stesso, e voi giunti a Canton, la più frequentata e commerciale delle città Chinesi non potete visitarla perché sareste lapidato dalla moltitudine suscitata dai preti”. L’avversione di Garibaldi nei confronti dell’islamismo non è dunque una cappella laterale della vastissima basilica dell’anticlericalsimo da lui disegnata. Non è solo dottrinale. È propriamente politica. Dall’infanzia egli aveva appreso, e non solo per racconti popolari ma per esperienze vissute, il pericolo dei “pirati”, delle incursioni “saracene”. Nizza, la sua città, ricordava le devastanti imprese delle flotte turche nel Cinquecento, propiziate dall’alleanza tra Parigi e Istanbul (dal 1453 soggiogata da Maometto II) contro il Sacro Romano Impero di Carlo V, la Spagna di Filippo II e la Repubblica di Venezia: un gioco diplomatico continuato sino a Luigi XIV e a Napoleone III (alleato con Londra e l’Impero turco contro la Russia di Nicola 22

I: la “guerra di Crimea”, per la quale ha straveduto la storiografia italocentrica che la celebra per l’ingresso del regno di Sardegna a fianco di Francia e Gran Bretagna, ma tace che essa ebbe per posta anche l’avallo del Sultano, durato per altri settant’anni, sino alla Grande Guerra). Nei primi decenni dell’Ottocento la pirateria barbaresca rimaneva così minacciosa e dannosa che la Francia di Carlo X, il Piemonte di Carlo Felice e le Due Sicilie di Francesco I di Borbone decisero una spedizione navale comune per metterle fine. Vi si distinse Carlo Mameli dei Mannelli, padre di Goffredo. Nel 1827, ricorda Maurice Mauviel, sagace esploratore di archivi e autore di molti saggi sul versante mazziniano e garibaldino della storia d’Italia, il “Cortese”, cioè il brigantino sul quale viaggiava il ventenne Garibaldi, fu assalito da corsari greci. Il comandante, Semeria, ordinò all’equipaggio di non opporre resistenza per scampare al peggio. In seguito il giovane nizzardo subì due altri assalti pirateschi, con esiti mortificanti e umilianti, mai descritti analiticamente. Subì la sorte di Lawrence d’Arabia? Certo rimasero fissi nella memoria. Ne evocò uno in Manlio, il romanzo contemporaneo, al quale lavorò

nell’ultimo decennio di vita, sino agli ultimi giorni. Vi descrisse i Riffegni (abitanti del Riff, sull’Atlante marocchino, da lui ben conosciuto nel secondo esilio 1849, quando andava a caccia di conigli non potendo sparare agli zuavi mandati da Luigi Napoleone in soccorso di Pio IX) e l’Assalto di pirati alla nave “Libertà” che, al comando del capitano Schiaffino, eroe della Repubblica Romana, recava il suo eroe eponimo, Manlio, di soli cinque anni, costeggiando il Marocco verso lo stretto di Gibilterra alla volta dell’America meridionale. In quelle pagine Garibaldi non parla né di “arabi”, né di “turchi”. Vi scrisse: “Come il leone, il Riffegno è bello e forte. Non so se, figlio dell’Atlas, egli si debba chiamare di stirpe caucasea, ma certamente il Caucaseo di qualunque parte non è più bello del Riffegno, più bruno per il clima, ma perciò con una fisionomia più fiera e più marziale. (…) Ignorante, fiero, feroce, e considerando tutto ciò che non è mussulmano, eretico e niente più d’un cane, il Riffegno è naturalmente pirata; e molti furono gli equipagi (sic) di legni mercantili sgozzati quando trattenuti dalle calme presso coteste coste inospitali”. A differenza di quanto solitamente si è detto e si


reputa, Manlio non è un romanzetto qualunque, una sorta di passatempo al quale il Generale ormai al crepuscolo dedicava la lunghe giornate nell’isolamento di Caprera, appena lenito dalla solerte Francesca Armosino (finalmente sposata con rito civile nel 1880) e dai figlioletti, Clelia e Manlio. Quel “Romanzo” è il suo “testa-

mento politico”. Scoperto tardi, venne pubblicato in edizioni pressoché clandestine, prima da Anthony Campanella (1981), poi a cura di Marziano Guglielminetti (1982), ma fu subito dimenticato. Troppo scomodo. Il Generale-Eroe lo scrisse quando tirava le difficili somme della sua vita pubblica e privata. Lì, appunto, fece i conti anche con l’Islam e con i Turchi. Valgano di saggio alcune frasi del capitolo vi, Assalto di pirati: “Da poppa il capitan Schiaffino, con Attilio a fianco, pugnava con varia fortuna (…) Marcello, che bruciava di menar le mani (…) si lanciò colla sua riserva alla riscossa del suo comandante con tanta furia che, lasciandolo indietro, menò tali colpi sui Musulmani invasori da obligarli di gettarsi (in mare, NdA), quei che non caddero nelle loro barche, più velocemente

che non eran saliti…”. Il capitolo è un susseguirsi di colpi e di grida, culminanti in una sorta di seconda Lepanto liberopensatrice: “ ‘Marsala! Marsala’! rispondeva un garibaldino all’ ‘Allah Urrah’ degli Ottomani e si lanciava seguito dai suoi alla riscossa dei difensori della prora”. Lo scontro viene infine risolto da Vero, che,

precedentemente ferito e curato dal piccolo Manlio, lascia febbricitante la cabina ove è ricoverato al grido “All’armi…Qui non si tratta di bende ma della pele (sic, NdA). Avanti fratelli!” e a colpi di revolver e di “un coltellaccio che teneva in cintura fece strage orrenda tra i barbareschi, e così i compagni, spinti dall’esempio del valoroso capo e per la propria conservazione”. Ma quale ferita aveva riportato Vero (nella cui maschia figura di quando in quando Garibaldi si identifica) nel combattimento contro i pirati? L’Eroe lo dice un paio di pagine prima: “Vero, assalito da un collosso, che era il capo d’assalto dei Riffegni, avea ricevuto un fendente tale che, se lo colpiva sul cranio, glielo avrebbe spaccato come una cipolla; per fortuna sua, l’atagan (cioè la scimitarra barbaresca NdA) scivolò sulla

sua sinistra e ne portò via intieramente l’orecchio, come se fosse stato tagliato da un rasoio”. A quel modo forse Garibaldi fornì la spiegazione della menomazione (l’orecchio troncato, mascherato con i capelli alla nazarena) che tante chiacchiere e insinuazioni suscitò nel tempo e parrebbe invece

Storia risalire a uno scontro degli anni giovanili con i pirati dai quali, come si è detto, più volte venne assalito mentre andava per mare in un Mediterraneo niente affatto sicuro. Sarebbe però meschino ridurre il pensiero di Garibaldi sull’insanabile incompatibilità fra Impero turco ed Europa e tra islamismo e Occidente a mero riflesso di vicissitudini personali o all’insofferenza nei confronti del clero di qualsivoglia religione. Esso rispose a una visione geopolitica di ampio orizzonte, alla “percezione progressiva del Mediterraneo”, come acutamente osserva Maurice Mauviel, che staglia la figura del Generale in uno scenario plurisecolare, a partire dalla “Prima guerra mondiale” tra Cristianità e Islam: quella di metà Cinquecento, tra l’Europa cattolica, sotto assedio, e l’offensiva dell’Impero turco otto secoli dopo il duello tra la Francia dei Capetingi e gli Arabi avanzati sino a Poitiers. Prosatore esondante, Garibaldi sapeva controllare la penna quando necessario. Perciò i suoi scritti vanno centellinati e capiti più e meglio di quanto sinora sia stato fatto da critici frettolosi o attenti ad aspetti estetici anziché al fulcro sostanziale. Il Generale-Eroe scandiva le parole. Il 5 maggio 1873 scrisse al fido Timoteo Riboli, medico, massone, fondatore della lega per la protezione degli animali: “Mentre l’Europa progredisce (…) che fa l’Italia? Non accenneremo ai miserabili suoi governanti già condannati dal disgusto universale, ma bensì alla parte virile e generosa che forma la sua democrazia, prodotto delle cento chiesuole in cui la dividono i suoi Archimandriti, Massoni, Mazziniani, Internazionalisti, sono egualmente fautori dell’indolenza democratica in Italia, e quindi del trionfo effimero ma reale dell’oppressione e della menzogna…”. Pigiava su tasti suonati da tempo: riforme per guarire la gran piaga della miseria, rifiuto del programma dell’Internazionale esplosa nella Commune di Parigi (abolizione della proprietà privata, dei diritti eredi23


Storia

tari…), condanna della scioperomania, che avrebbe precipitato l’Italia nel disastro. Non parlava per interesse personale. Viveva in povertà ma continuava a rifiutare il “dono nazionale” deliberato a suo favore dal governo. Accettava invece l’obolo che gli veniva da amministrazioni civiche, da amici (anche dall’estero) e persino da popolani (le cinque lire donategli una tantum da un cittadino bisognoso come lui e come lui generoso). D’altronde, rieletto alla Camera nel 1874, nella scheda informativa di deputato della Nazione, alla voce “titoli, professione, impieghi all’epoca dell’elezione” Garibaldi scrisse orgogliosamente: “Agricoltore”. Era e si sentiva un onesto “proprietario”, grato agli Inglesi che avevano acquistato e gli avevano donato la metà di Caprera che non aveva pagato di tasca propria. Andava fiero del suo “lavoro” di contadino e di allevatore di bestiame, dedito a colture sperimentali, in linea con l’Europa delle scienze e del pro24

gresso fondato anche sull’incremento della produzione di alimenti per una società libera da pregiudizi e quindi anche da costumanze e superstizioni nella consumazione di animali e di prodotti marini. A Garibaldi, pagano onnivoro, i “precetti della chiesa” cattolica non parevano più astrusi e nocivi rispetto a quelli imposti da altri religioni; li sapeva, anzi, di gran lunga meno vincolanti di quelli islamici. Garibaldi, insomma, era una filosofia politica in azione. Era, si sentiva, campione di una guerra di liberazione culturale e politica. Per lui l’Occidente era contrapposto alla Turchia in un conflitto incomponibile, non solo politico-militare ma di civiltà. Lo scrisse il 4 marzo1876 a Dobelli, rispondendo all’appello della gioventù slava: “La diplomazia del ventre fu incapace di prevenire l’iniziativa del macello umano. I preti nel connubio dei turchi e satolli del loro oro, hanno lanciato l’anatema contro i se-

guaci della croce. Ed i settari del palo (corsivo nostro), dopo d’aver lottato per tenerlo in piedi, devono oggi conformarsi allo slancio degli schiavi che preferirono la morte al servaggio. (…) E voi, concittadini di Botzaris, ricordatevi di tutti gli oltraggi ricevuti dai feroci ed osceni discendenti di Maometto (…). Il turco deve passare il Bosforo (…) e solo alcuni ottomani, senza preti, potranno convivere, se onesti, coi loro antichi schiavi. E voi, discendenti dei famosi legionari di Traiano, abitatori del Pindo e delle ubertose pianure del Danubio, non abbandonate i fratelli in servaggio, e non ascoltate l’oscura voce dell’egoismo diplomatico, che vi consiglia di stare indifferenti alla più santa delle lotte. Invalido, io invio un saluto del cuore ai fieri campioni della libertà orientale”. Contro la pax dettata dal Congresso di Vienna, ribadita da quello di Parigi del 1856 e dal concerto delle grandi potenze, che di conflitto in conflitto riportava l’Europa ai


Storia

confini e alle logiche della Restaurazione del 1814-1815, Garibaldi rivendicò con forza l’emancipazione delle nazioni senza stato, dei popoli inchiodati alle tavole della spartizione delle genti tra le grandi potenze. In lui vibrava il Risorgimento, la memoria dei Profughi di Parga cantati da Giuseppe Berchet, lo spirito che aveva fatto nascere l’Italia a stato indipendente, unica nazione emersa per somma di fortune dalle catene imposte all’Europa postnapoleonica nel 1814-15 e dalla repressione della primavera dei popoli (1848-1849). Agli occhi di Garibaldi la presenza della Turchia in Europa era una cappa di piombo sulla storia. Bisognava liberarsene.

L’occasione sembrò profilarsi dal 18741875 con le rivolte antiturche dalla Bosnia alla Bulgaria, represse dalla Sublime Porta grazie al sostegno della Gran Bretagna, che solo nelle leggende è “campione di libertà”. Nel 1874 anche i Montenegrini di Nicola Petrovic insorsero e iniziarono la lunga guerra che condusse la loro terra da Principato a Regno del Montenegro (1910), come documenta Luigi Pruneti in Aquile e Corone. L’Italia il Montenegro e la massoneria dalle nozze di Vittorio Emanuele III ed Elena al governo Mussolini (Firenze, 2012). Londra aveva vari buoni motivi per reggere le dande dell’Impero turco. In primo luogo la Sublime Porta dichiarò la bancarotta

finanziaria. Per recuperare i prestiti i banchieri inglesi dovevano tenerlo in piedi, a costo di reprimere le aspirazioni indipendentistiche di Romeni, Bulgari, Montenegrini, Macedoni, … Inoltre Londra temeva l’avanzata della Russia nell’Europa centrale. Ne sarebbe risultato indebolito l’Impero austro-ungarico, pilastro dell’equilibrio continentale, a tutto vantaggio della Germania. Infine il crollo dell’Impero turco, che ancora andava dalla Tripolitania alla Persia, avrebbe aperto un vuoto nel Mediterraneo orientale. Con la medesima penna acuminata Garibaldi ribadì il suo pensiero nelle lettere ai suoi fidi seguaci e nelle pagine del Manlio. Il 17 luglio 1877 scrisse al marchese 25


Storia

Filippo Villani: “Mandare i Turchi in Asia, ecco il provvedimento efficace per gli schiavi dell’Europa Orientale; ogni altra misura sarà una tappa di guerra”. Per raggiungere la meta occorreva superare gli intralci della diplomazia, come ruvidamente vergò nel Romanzo contemporaneo: “In questi ultimi tempi, massime per la questione orientale, si è manifestato nel mondo quanto di lurido esiste ancora nell’umana famiglia. L’Austria ha fatto il suo dovere di aquila o piuttosto d’avvoltoio, sostenendo sordamente la causa dell’oppressore e accatastando ogni specie d’ostacoli all’Europa Orientale. Essenzialmente tiranna essa ha fatto quanto doveva. Ma l’Inghilterra, la terra universale d’asilo, l’emancipatrice degli schiavi, non doveva, guidata da un Ebreo (Benjamin Disraeli, Lord di Beaconsfield, di famiglia israelita dalle origini veneziane, primo ministro dal 1874 al 1880, NdA) lasciarsi condurre all’esterminio dei poveri servi ed al sostegno di tiranni esecrabili. No! Ed io racapricio pensandovi! (…) E i preti? Peste dell’umana famiglia, hanno fatto causa comune coi massacratori degli innocenti”. Di capitolo in capitolo, nel Manlio Garibaldi passò dalle staffilate contro il clero di qualunque religione a quelle specifiche contro i Turchi. Riecheggiate le sue esperienze di 26

perseguitato dagli “astuti impostori, vestiti in diversa foggia, sotto diverse denominazioni”, ricordò i due sacerdoti “da me veduti in una chiesa di Lima, ubbriachi e pugnando come cani, dopo d’aver giuocato a carte, il guiderdone di un battesimo di cui ero il padrino” e rapidamente trascorse a marchiare a fuoco i Turchi: “come si può, pensando al prete, non ricorrere colla mente alle carneficine dei Turchi nella Bulgaria e dei Russi nel Turkestan? Il Turco, che più cristiani uccide e più titoli acquista ai godimenti ed alla gloria dell’immorale suo paradiso e, codardo come sono generalmente gli uomini sanguinari, si diverte a impalare, mutilare, squartare uomini inermi, donne, bambini!!!”. Il prete e il Turco divennero quasi un’endiadi nella sua penna. Se ne ricordò aprendo, in Manlio, il capitolo sulla cremazione: “Il motivo per cui gli animali d’ogni specie brulicano sulla terra non si sa. I migliori godimenti sfumano come la nebbia al vento e le torture, i patimenti, non minori e non può essere presto cadavere…”. Sospinto dall’orrore per quelle visioni, il Solitario (come Garibaldi si autodefinì in Clelia) sognò allora una guerra di liberazione del Mediterraneo dal dominio turco, a cominciare dall’isola di Creta: “Giunta la flotta italiana sulla rada di Canea, v’incontrò la

turca, composta di cinque corazzate e se ne impadronì. Mi si chiederà con quale diritto. Ed io risponderò: collo stesso diritto con cui Maometto Secondo si impadroniva di Costantinopoli ed i pirati turchi delle nostre donne, bambini, uomini, etc., per farne degli schiavi…”. Non erano sfoghi letterari ma ragionamento politici. Al marchese Villani il 15 marzo 1878 da Caprera scrisse: “Dunque dopo tanto sangue versato risulterà nell’Europa Orientale uno di quei mostruosi pasticci di cui la diplomazia va famosa. Cosa è questa lunga Turchia che dal Bosforo si estenderà all’Adriatico, passando sul corpo della Bulgaria quasi indipendente, o tra questa e la Serbia da una parte, la Macedonia e la Tessalia dall’altra, le di cui popolazioni se hanno un’ombra di dignità dovranno mantenersi in uno stato perenne d’insurrezione? Quando io dissi al principio di questa guerra: i Turchi dover passare il Bosforo per poter ottenere una pace durevole, e tale è pure la mia opinione d’oggi, ma i turchi che intendano ciò solo: il sultano, le sue odalische, i suoi eunuchi e l’immensa caterva di preti ottomani, non già la popolazione turca onesta e laboriosa che di quanti popoli abitatori del Levante è la migliore. Tale emigrazione sarebbe impossibile, converrebbe però non lasciar in Europa un solo prete turco, che basterebbe a seminar la zizzania in tutta la confederazione; e le moschee cambiar in scuole, ove s’insegnerebbe la religione del vero”. Garibaldi sperava in un Areopago che esercitasse l’arbitrato sovrannazionale, la ricerca di una soluzione pattizia dei conflitti tra gli Stati nel rispetto della libertà dei popoli, che avrebbe comportato con sé la libera navi-


gazione nel Mar Nero (rumeno perché daco-romano) e negli Stretti. La pace di Santo Stefano e il congresso di Berlino del 1878 dettero tutt’altri risultati: la Gran Bretagna s’accaparrò Cipro e ne fece l’isola della divisione, del conflitto permanente, quale ancora rimane, mezza staterello indipendente (finanziariamente allo stremo), mezza sotto sovranità turca: un equivoco nel bel mezzo del Mediterraneo orientale. Membro di una Unione Europea che da lì mostrò le rughe di adolescente precocemente avvizzita. E il gran Malato d’Oriente divenne sempre più la polveriera della futura conflagrazione europea, esplosa nell’estate 1914 dopo la guerra italo-turca per la sovranità sulla Libia e tre guerre balcaniche in due anni: groviglio inestricabile, letto di Procuste sul quale la diplomazia inetta inchiodò l’area balcanica sino all’esasperazione delle genti. Il Solitario aveva intuito e suggerito la soluzione, ma non ne vide l’approdo ultimo. Nel 1897 Creta insorse ma l’Europa fu solidale con la Sublime Porta nella repressione, come deplorò Giosue Carducci in La mietitura del Turco, versi staffilanti contro il primo genocidio degli Armeni (vd. Aldo A. Mola, Giosue Carducci, scrittore, politico, massone Milano, 2006). La Grande guerra si concluse con la pace di Sèvres (1920) che lasciò gli Stretti ad Ataturk in cambio dell’adozione dell’alfabeto latino e di una parvenza di laicizzazione. La Seconda guerra mondiale lasciò le cose com’erano, per una somma di errori e nefandezze (frutto di egoismi mal ripagati) delle diplomazie degli Stati Uniti e ancor più della Gran Bretagna. Così le ha ereditate l’Unione Europea, a sua volta incapace di politica estera unitaria, lungimirante e di vasto respiro. Aveva ragione Garibaldi. Il cui pensiero perciò venne lasciato chiuso in carte dimenticate: troppo scomodo. Tempo è venuto di scoprirlo, anche per superare l’equivoco antico e perdurante: fu anticlericale non già per promuovere il dialogo tra le religioni (capriccio di massoni che non hanno letto le Costituzioni di Anderson o poco ne hanno appreso), ma perché a-clericale.

Storia

P.18: Costantinopoli; p.19: Roma o Morte! p.19 in alto: Ritratto marmoreo di G.Garibaldi; p.20: Moschea Laleli, ca. 1890, Istanbul; p.21: Istanbul, la dinastia Ottomana da Osman I a Mehmed V (al centro), stampa turco-tedesca della I Guerra Mondiale; p.22: Istanbul, veduta sulla Moschea Blu dalla Moschea di santa Sofia; p.23: Pranzo turco/occidentale, Istanbul, ca. 1920; p.24: Carta settecentesca dell’Impero Turco; p.25: Turchi in abiti tradizionali, ca. 1885; p.26: G.Garibaldi; p.27: Istanbul, Moschea di santa Sofia.

27


Massoneria

l’Iniziazione femminile

Valter Bencini

28


I

niziamo l’uomo, la donna o l’essere umano? Il Grande Oriente di Francia, che conta 50.000 adepti, ha deciso di ammettere recentemente al suo interno membri di sesso femminile. Da circa un decennio ormai i membri del Grande Oriente di Francia discutevano se ammettere le donne nell’Istituzione. L’8 aprile del 2010 la Camera Suprema di Giustizia Massonica, convocata dal Gran Maestro Lambicchi, ha emesso la «sentenza» sostenendo che non vi era nei regolamenti alcun espresso divieto che impediva alle donne di far parte dell’associazione. Nel 2009, poi, un gruppo di logge ribelli aveva clandestinamente «iniziato» alla massoneria transalpina ben sei donne. Il vero casus belli, però è stato rappresentato dal fatto che il 21 gennaio 2010 la transessuale Olivia Chaumont è stata proclamata «sorella» della federazione massonica1. Iniziata come uomo, il suo percorso psicobiologico l’ha portata alla scelta di essere donna a tutti gli effetti. E il Gran Maestro non ha che potuto che concludere: “Questa è la sua casa”. Un caso umano come questo potrebbe benissimo capitare in ognuna delle Comunioni Maschili o Femminili presenti in Italia. E allora come verrebbe risolto? Con l’umana lungimiranza francese o con una fredda scelta di convenienza politica? Ragioni sociali o tradizionali? Direi che le ragioni dell’esclusione delle donne all’iniziazione femminile sono state trattate spesso con sufficienza e superficialità, concentrandosi spesso sugli aspetti sociologici, morali, umanistici come nel caso di Marie Deraismes, di “Diritto umano”, che pure era una donna. Le sue istanze egualitarie sulla donna sono lodevoli sul piano delle concezioni attinenti all’evoluzione sociale, ma c’è una mancanza di una conoscenza approfondita delle motivazioni esoteriche sul tema della esclusione massonica. Il fatto inspiegabile è che, non solo gli oppositori come la Deraismes, ma anche chi queste regole le propugnava e le attuava non ha saputo fornire almeno per lunghi periodi una spiegazione logica di questa esclusione. Come è pensabile che una Massoneria “regolare” che pratica tolleranza ed eguaglianza non ammetta le donne tra le sue fila e che tale divieto

sia persino un Landmark (letteralmente “traccia nella terra”, confine)? L’art 3 degli Old Charges, quando si parla delle Logge, recita testualmente: “Le persone ammesse come membri di una Loggia devono essere buoni e sinceri, nati liberi e di età matura, non schiavi, non donne, non uomini

Massoneria

Ma egli [il Sé] non provava gioia. Perché chi è solo non prova gioia. Desiderò la presenza di un altro da sé. Egli aveva le dimensioni di un uomo ed una donna strettamente allacciati. Si divise in due e da ciò sorsero un marito ed una moglie. Perciò, come disse Yajnavalkya, “ciascuno è simile alla metà di un intero”. Ora il vuoto era riempito da una donna. Upanisad

immorali o scandalosi, ma di buona reputazione” 2. Fino al 1858 né Anderson, né nessun altro spiegava e codificava però il perché di tale esclusione; in qualche modo la possiamo intuire noi e ricavarla esaminando le condizioni sociali della donna in quell’epoca. La donna inglese del 1700 era, piaccia o no, in una posizione subordinata all’uomo, quasi assimilabile in qualche misura all’altro termine che compare nel capitolo: “schiavi”. Dunque esclusivamente un motivo sociale, in quanto le donne erano sempre dipendenti da un uomo, fosse il marito, il padre, lo zio o un fratello, tanto da non poter disporre liberamente neppure di diritti banali come quello ereditario, per non parlare poi del diritto di voto. Nel 1858 il Mackey invece affermò che l’esclusione poteva rifarsi a un costume operativo precedente, rifacendosi finalmente all’unico parametro effettivo, quello della validità iniziatica e della tradizione esoterica. Il Mackey, nel commentare il XVIII dei suoi Landmarks, afferma: “Fin dalla nostra entrata nell’Ordine abbiamo trovato certi decreti che stabiliscono che potessero entrarvi solo uomini capaci di affrontare fatiche o di adempire al dovere dei massoni speculativi. Noi abbiamo preso l’impegno solenne di non alterare questi regolamenti che non potrebbero esser cambiati senza una completa disorganizzazione del sistema intero della Massoneria speculativa”. Vedremo però quanto questa affermazione potrà essere smentita da alcuni documenti incontestabili. Non mi riferisco al caso di Elizabeth Aldworth3, irlandese, che comunque, a mio avviso fa testo come una sentenza della giurisprudenza, anche se viene presentato da chi nega l’iniziabilità delle donne come fatto occasionale e non rilevante. La storia ci dice che la ragazza avrebbe assistito di nascosto a una funzione massonica nella casa del padre nella prima metà del secolo XVIII. Quando fu scoperta, gli 29


Massoneria

adepti si riunirono e decisero di cooptarla all’interno della Loggia. Mi riferisco piuttosto a costumi della Massoneria Operativa che sono stati volutamente nascosti, distorti e probabilmente in alcuni casi distrutti. Massoneria operativa e speculativa Da parte di molti studiosi, soprattutto anglosassoni come Jones4 e Gould5 e francesi come Ambelain6, sull’opera dei quali mi baserò, sono state perciò avanzate varie riserve sul rispetto del patrimonio spirituale e iniziatico dell’antica Massoneria nella formazione della Gran Loggia di Londra e nelle Costituzioni di Ander30

son. Sappiamo che Desaguliers e Anderson, pastore anglicano, operarono a un riassetto dell’Ordine e a una codificazione per scritto di quanto fino a quel momento fosse affidato alla Tradizione Orale ma, in questa operazione, gli antichi usi e rituali della massoneria operativa risultarono profondamente trasformati tanto da nascondere le origini cattoliche e probabilmente, come effetto collaterale, si perse anche traccia dell’ammissione delle donne nella Massoneria Operativa. Le ricerche dei Fratelli C.E.Stretton e T. Carr, citate da Vanni7, provarono quanto segue: James Anderson, che era Cappellano di Loggia, nel 1714 inizia delle Con-

versazioni sulla Massoneria con dei gentiluomini e li riceve in Loggia, rifiutando però l’accesso a dei Massoni Operativi. Tra questi gentiluomini: G. Payne, futuro G.M., il pastore di origine ugonotta J.T. Desaguliers, A. Sayer, primo Gran Maestro, il Duca di Montagu, che succederà a Payne come G.M., Johnson, un medico che prendeva onorari per l’esame fisico dei profani, Entick e Stuart, un avvocato. È da notarsi che i Cappellani nella Massoneria Operativa officiavano su richiesta su questioni puramente religiose e appartenevano alle Logge solo esternamente. A essi non si richiedeva altro che una promessa di discrezione e non c’erano motivi di comunicargli i segreti del mestiere e le parole di passo. Solo più tardi si crearono le Logge di Jakin in cui si istruivano i Cappellani che non potevano comunque superare il 2° Grado. Non essendo Maestro non poteva ricevere Massoni e fondare una Loggia. Le attività ambigue di Anderson attirarono l’attenzione degli Operativi. Alcuni di loro gli chiesero la parola di passo che avrebbe permesso loro di frequentare i lavori della sua Loggia “alla taverna dell’Oca” ma Anderson la rifiutò. A quel punto Anderson e gli altri 7 irregolari fondarono la Lodge of Antiquity, che fondò altre Logge ovviamente irregolari come la prima. Sir C. Wren, il grande architetto inglese autore della grandiosa cattedrale di San Paolo, che nel 1716 era Gran Maestro annuale dell’”Antichissima e Onorabile confraternita dei Liberi Muratori”, si rifiutò di riconoscere la Lodge of antiquity e la sua discendenza. Oltre a queste irregolarità iniziatiche gli Operativi contestarono ad Anderson le seguenti alterazioni della Massoneria Primitiva: Aver ridotto a due gli antichi gradi operativi che erano sette. / Aver iniziato un’Apprendista senza il noviziato di sette anni, minimo cinque, passandolo poi al grado di Compagno un mese dopo. / Aver rimosso i due Sorveglianti della Loggia scegliendo altri senza le caratteristiche dovute. / Aver cambiato l’orientamento della Loggia e aver messo il Venerabile all’Oriente mentre la tradizione Operativa lo metteva all’Occidente. / Aver introdotto nel 1730 il grado di Maestro Massone con il rituale della morte di Hiram, che gli operativi non conoscevano per niente e ai loro occhi appariva come rituale negromantico. / Aver


introdotto il grado di ex-venerabile, di cui non si vedeva l’utilità e che poteva mettere in dubbio l’autorità del 1° Sorvegliante. Stretton afferma che questi avvenimenti furono registrati nella Guild Minute Book of Lodge Saint Paul, detenuti negli scantinati della loro sede sociale e che tali archivi erano accessibili solo ai detentori del 7° grado della Massoneria Operativa. Dice in proposito G. Ponte (in “Rivista di Studi Tradizionali”, Torino): “In realtà, un esame approfondito dei fatti ha condotto a togliere valore alle famose “Costituzioni” di Anderson del 1723, che alterarono gli antichi “Old Charges” della Massoneria operativa”. D’altra parte, avverte in varie occasioni René Guénon, non si trattò soltanto del “prodotto della fantasia di un individuo senza mandato: l’innovazione a cui si dava vita comportava anche una frode su vasta scala, con la distruzione dei documenti che avrebbero offerto la prova della alterazioni volute, e persino, a quanto pare, con l’incendio doloso degli archivi della Loggia di San Paolo” 8. Come curiosità c’è da segnalare che lo sconcerto provato dalle numerose Logge operative rimaste fu tale che per molti anni non accettarono tra i propri membri neofiti il cui cognome fosse Anderson. Così come il ritrovamento negli anni del Poema Regius, del Manoscritto Cooke, Plot, Gran Loggia 1, Tew, Sloane, Roberts, Spencer hanno contribuito a togliere qualche velo su cosa potesse essere la Massoneria Operativa, altrettanto valore possono avere questi documenti relativamente all’Iniziazione Femminile: - In Francia il Livre des Metiers di Etienne Boileau (1268) prevedeva l’accesso alle donne nelle Corporazioni Artigiane e la loro elevazione al grado di Maestro, anche in mestieri manuali tradizionalmente maschili. - Gli statuti della Gilda dei Carpentieri di Norwich (1375) sono indirizzati “ai Fratelli ed alle Sorelle”. - Lo statuto della Loggia di York (1693) riporta che “Colui e Colei che deve essere fatto Massone pone le mani sul Libro (la Bibbia) ed allora le istruzioni sono date”. In ogni caso anche negli anni in cui la Massoneria Speculativa era già più consolidata si trova un verbale datato 1756 della “Old King’s Arms Lodge” (n. 28) che riporta: “Che la Loggia sia rivestita di grembiuli una volta l’anno e all’inizio

Massoneria

dell’anno di guanti per le sorelle”. Cosa accade dunque negli anni andersoniani e post-andersoniani che tenne lontano le donne dalla Massoneria? Indubbiamente il completo decadere della componente operativa o “d’impresa” nell’economia delle Logge ha avuto il suo peso, ma soprattutto l’influsso del puritanesimo, che incise sulla morale fino ad arrivare alle ridicole esasperazioni della società vittoriana, ben diversa da quella così libera e gioiosa espressa dai Canterbury Tales o, due secoli più tardi, dalle Allegre Comari di Windsor 9. È evidente che l’ammissione delle donne nella Massoneria Corporativa rispettava la necessità economica di trasmettere in linea familiare il patrimo-

nio d’impresa. Sicuramente un’iniziazione non “operativa” in senso stretto, se si eccettua la corporazione francese che prevedeva anche questo tipo di adesione. Certamente posso concludere al riguardo di queste origini che non esistono motivi storici o tradizionali che impediscano l’iniziazione massonica alle donne. È solo con l’avvento della Massoneria Moderna o Speculativa, caratterizzata da dolose elisioni e innovazioni che viene impedita alle donne l’iniziazione. Del resto, andando oltre alla mera apparenza del costume operativo, questa è l’opinione di alcuni eminenti studiosi come il Naudon: “… non vediamo alcuna ragione di rifiutare l’iniziazione massonica alle donne. 31


Massoneria

Diremo pure che le fondamenta del metodo iniziatico - in quanto mettono l’accento sulla via interiore, quella del cuore e dell’intuizione - ci sembrano, al contrario, mete adatte alla natura femminile” 10. Riconoscimenti e cambiamento delle prospettive massoniche Le Regole internazionali per il riconoscimento non sono di epoca lontanissima. La UGLE le pubblica nel 1929, le tre Grandi Logge britanniche nel 1938 e le Gran Logge degli Stati Uniti nel 1952. Al punto 4 dei Principi Fondamentali per il Riconoscimento di una Gran Loggia si legge che “la Gran Loggia o le singole Logge siano costituite esclusivamente da uomini e che la Gran Loggia non abbia rapporti massonici di alcun genere con Logge Miste o Corpi che ammettono donne” 11. Perché queste norme e in particolare questa si snodano in un periodo che va dal 1929 al 1952? A mio avviso è indubbio che l’ascesa delle donne alla parificazione con gli uomini era ormai inarresta32

bile, per trovare poi concreta attuazione con il femminismo degli anni 70/80. Il panorama massonico internazionale ricco di intrecci, di legami anche con realtà federative impone a mio modesto avviso una revisione dei concetti di riconoscimento che non possono essere più mantenuti se non in maniera obsoleta e con una fedeltà, per chi li osserva, non dico acritica ma quantomeno discutibile alla UGLE, facendo finta di non vedere realtà presenti ed esistenti. Ci sono situazioni che definire borderline è il minimo. La Gran Loggia Unita d’Inghilterra riconosce infatti Grandi Logge, che a loro volta hanno trattati e riconoscimenti con Comunioni Femminili o Maschili non riconosciute; valga per tutte l’esempio del riconoscimento di molte Gran Logge degli Stati Uniti, che a loro volta sono in amicizia, promuovono e proteggono l’Order of the eastern star costituito da donne nel 1850. Siamo di fronte quando si parla di “regolarità” a una gigantesca messinsce-

na in cui conta soltanto la convenienza e la geopolitica massonica? Se le donne entrassero nelle varie famiglie Massoniche a impronta maschile non è che verrebbero messi in serio imbarazzo proprio quegli elementi di frammentazione che non avrebbero più senso di esistere? Rimossi gli ostacoli, non sarebbe postulabile una Massoneria finalmente unita e perciò in grado di essere credibile e incisiva nel tessuto sociale del rispettivo Paese d’appartenenza? Non sarebbe ipotizzabile forse la realizzazione di quella Massoneria Universale che invochiamo all’apertura dei nostri lavori e che viene puntualmente disattesa, almeno qui in Italia, da continue divisioni e frammentazioni? Scrive R. Ambelain: “A forza di distribuire dei certificati di regolarità o di rifiutarli la Gran Loggia Unita d’Inghilterra, derivata dalla Gran Loggia di Londra e di Westminster, che era inizialmente la Gran Loggia di Londra ha finito di far credere che solo lei sia regolare” 12. Dopo 22 anni di Massoneria credo di aver compreso che ci sia una regolarità e un riconoscimento, ovviamente se l’iniziazione e i passaggi sono stati condotti nell’alveo di regole e rituali aderenti realmente alla Tradizione, che conta al di là dei Principi che ogni Comunione possa legittimamente adottare nei propri Statuti e/o Regolamenti. Si tratta della Regolarità e del Riconoscimento del Cuore e dell’amore fraterno: ovvero il rispetto del Trinomio, la tolleranza, la generosità, la lealtà, l’altruismo, l’amore ... con il cuore posso riconoscere un vero fratello o una vera sorella! Del resto certi punti sulla Regolarità, che parevano fermi e bloccati, mi pare che lentamente comincino a manife-


Massoneria

stare qualche “crepa” proprio a casa di chi certi principi li aveva codificati, lasciando aperte Vie che prima o poi, mi auguro, faranno prevalere il buon senso e l’amore fraterno sulle logiche geopolitiche attualmente in essere. In Inghilterra esistono attualmente associazioni iniziatiche femminili che si basano sul “compagnonico” ordine della tessitura e l’Order of Woman Freemasons, che conta più di 300 Logge, e pur non essendo riconosciute dalla UGLE sono molto stimate. Un documento della UGLE del 10 Marzo 1999 ha dichiarato a firma del Gran Segretario che “esistono in Inghilterra e nel Galles almeno due Grandi Logge per sole donne. Eccetto per il fatto che questi corpi ammettono le donne, queste sono, da quanto finora accertato, assolutamente regolari nella loro pratica. C’è n’è anche una che ammette uomini e donne. Queste non sono riconosciute da questa Grande Loggia e lo scambio di visite non può avere luogo. Ci sono a volte comunque, discussioni con le Grandi Logge femminili sulle questioni di reciproco riconoscimento. I Fratelli sono perciò liberi di spiegare a non-muratori, se interpellati sull’argomento, che la Massoneria non è riservata agli uomini (sebbene questa Grande Loggia non ammetta donne). Ulteriori informazioni su questi corpi possono essere ottenute scrivendo al Grande Segretario”. In sostanza le Comunioni femminili e miste vanno considerate “regolari nella pratica”, pur non essendo ufficialmente riconoscibili da parte di una gran loggia “regolare”. Questo perché la presenza femmini-

le viola i “Principi per il riconoscimento di una Gran Loggia” pubblicati dalla stessa UGLE13. In pratica siamo all’assurdo di Gran Logge considerate Regolari che non possono essere riconosciute da un’altra Gran Loggia Regolare senza che siano violati i principi per il Riconoscimento, che agiscono come un blocco-autoimposto. Nel 2008 il World Award destinato per il miglior lavoro massonico di un Massone non appartenente alla UGLE non è andato a un esponente di una Obbedienza riconosciuta ma a Karen Kidd, una donna appartenente all’“Onorevole Ordine della Massoneria Mista Americana”, “Shemesh Lodge n.13”, Seattle, che ha presentato una tavola dal titolo “Io sono regolare”. Logge d’adozione Il ritorno delle donne nelle Logge avven-

ne nel Continente e, più precisamente, nella galante terra francese. I Clavel14 accennano che verso il 1730 si crearono delle società androgine, che usavano forme para-rituali imitanti quelle massoniche. Più tardi, si crearono ufficialmente delle Logge d’Adozione, d’effettiva origine massonica, “come un mezzo onesto di far partecipare le mogli e le figlie dei Massoni ai piaceri che essi provavano nelle loro feste misteriose”. Il Findel15, nonostante la mole enciclopedica della sua opera, non accenna in alcun modo alle “Logge d’Adozione” e alla Massoneria Femminile. L’unica opera sull’argomento è quella del Le Forestier 16. Anche quest’autore si sofferma sulla nascita di società androgine imitanti la Massoneria per fini di divertimento. Ma è evidente che è solo per una sorta di ma33


Massoneria

liziosità o per pignoleria erudita che lo storico sopracitato ha parlato di società quali l’Ordine dei Cavalieri e delle Ninfe, della Rosa, dei Mopses, ecc., come origine prima delle Logge d’Adozione. Il Le Forestier riporta, in nome di questa maliziosità, alcune notizie su una Confrérie de Figues che voleva “far rivivere l’età dell’oro praticando la comunità dei beni ed estendendola a quella dei corpi”. Le Soeurs de la Figue Noire dovevano accordare, con una docilità e una compiacenza senza riserve, tutti i favori che avrebbero chiesto i “Frères du Chapeau Noir”. Quest’imitazione sensualistica dei misteri framassonici, la cui riservatezza era cagione d’estrema curiosità nel mondo profano e soprattutto in quello femminile, non può aver certo preformato le “Logge d’Adozio34

ne”, sottoposte d’altro canto a un rigido codice, ove erano accolte soltanto le mogli e le figlie dei Massoni e dove si trasmetteva un simbolismo ultra-virtuoso e moralistico, certamente desiderato e voluto dai Fratelli e imposto alle “Sorelle”. Questa modalità di appartenenza alla Massoneria caratterizza ancora oggi in alcune Comunioni un certo tipo di presenza femminile. Per molti autori, tra cui V. Vanni, il rituale d’adozione non ha niente a che vedere con l’iniziazione femminile. La definisce una necessità più sociale e familiare e comunque subalterna all’uomo, compiuta obtorto collo, al di là dell’epoca in cui si sviluppa, piuttosto che una derivazione da una convinzione iniziatica17. C’è una falsa magnanimità, una superiorità in chi

concede, in chi tollera, in chi regala generosamente. Ovviamente, specie nell’antico, non si inizia mai la donna nubile, sola, libera, senza padrini e protettori. I rituali d’adozione insistono sulle virtù femminili quale quello della fedeltà; non a caso il simbolo dell’Ordine delle Mopses è il cane Carlino, emblema di assoluta fedeltà. “Ma quali sono questi doveri, queste presunte virtù”, si chiede il Vanni: “la fedeltà coniugale, i propri doveri di madre e di moglie, casalinga o squisita padrona di casa? Quindi la virtù consisterebbe nell’adorante sottomissione, nell’obbedienza, qualità prescritte anche ai bambini e agli schiavi. Ma esiste ancora oggi questa virtù femminile, per la quale gli uomini dovrebbero cadere in ginocchio offrendo fiori, cioccolatini e stipendi?… o forse, non vogliamo prendere consapevolezza entrambi di quanto sia si diversa la nostra natura in senso biologico ma uguale in fatto di debolezze, di seduzioni interessate, d’inganni…situazioni che sono spesso fonte di dolore,umiliazioni, a volte tragedie” e di cui, aggiungo, conseguentemente si riempiono talvolta gli studi degli avvocati e degli psicoterapeuti individuali e di coppia. Tornando al piano strettamente massonico credo che sarebbe più corretto per il ruolo subordinato nei confronti dell’uomo in questo tipo di adesione adottare la dizione “Tornata d’Adozione femminile” anziché quella di “Loggia d’Adozione” 18. Garibaldi e le donne In Italia una apertura alle donne si ebbe con l’“eroe dei due mondi” Giuseppe Garibaldi. E Stolper19 in una sua ricerca parla di un documento, successivo a un viaggio in Inghilterra del Generale, datato 15 Maggio 1864 e redatto a Caprera in cui al punto 4 Garibaldi parla della necessità di creare delle Logge di donne. Alcuni autori20 lasciano adombrare che non si trattò soltanto di Logge di Adozione, ma che vennero fatte importanti probabili eccezioni e cita tra tutte la Contessa Leonilda Fimiani, tesoriere della Vessillo e Carità ed Annita, le contesse Milbitz e Altems iniziate alla Ausonia, la sig.ra De Atanasio, moglie del Capo dell’approvvigionatore dei foraggi del Re, alla Cavour, alla Dante la figlia di Francesco Gaggione, maggiore di artiglieria originario di Monteleone Calabro. Nel 1871 anche a Livorno nella Garibaldi-Avvenire si iniziò una donna con grande scandalo! Non


mancano segnalazioni in Lombardia (Cristina Trivulzio detta Belgioioso), Veneto (Fua Fusinato) e Lazio (Damo, Iezzi, Terigi e Persiani), ma in queste tre regioni si tratta di Logge d’Adozione. Nella Loggia Romana fu animatrice la Livornese Mengozzi, moglie di Ettore, uomo di fiducia di Angherà. Oltre ad avere il titolo di “Gran Principessa della Corona” ottenne il titolo di “Principessa Rosa-croce”, grado allora squisitamente maschile. Un’altra donna soltanto, una certa Cigala, ebbe il medesimo riconoscimento. Dopo la presa di Roma viene descritta da Luigi Parascandolo21 una Loggia di “Massonesse” impiantate in Firenze. Recentemente la Gran Loggia D’Italia ha esibito un documento molto importante di una elevazione a Maestra di Luigia Candia, di Pisa, di anni 27, di Giovanni, maritata all’ill.mo fratello 33 Paolo De Michelis, datato 20 Maggio 1867 firmato da Giuseppe Garibaldi e rilasciato dal Supremo Consiglio del Grande Oriente d’Italia sedente in Palermo22. Un analogo documento di tal Susanna Elena Carruthers, sempre residente in Pisa, rilasciato il 28 Giugno del 1867, di anni 36, nata a Edinburgo e figlia di William, è visionabile sul web23. La cosa incontestabile e importante è che in entrambi i documenti si dice che esistevano altre Sorelle, segno evidente che il proposito del 1864 di Giuseppe Garibaldi era divenuto realtà: “Preghiamo in conseguenza tutte le Sor.Mas. di riconoscerla ed ammetterla ai loro Trav.” si legge infatti nel documento di Luigia Candia.

Massoneria

La Grande madre I primi graffiti preistorici furono scoperti alla fine del XIX secolo e se ne negò all’inizio l’autenticità accusando ingiustamente uno degli scopritori, il De Sautola, di averli falsificati. La società darwinista non poteva accettare che ci fossero manifestazioni artistiche in uomini vicini alla rozzezza antropoide. Oltre ai dipinti famosi con le scene di caccia, l’altra raffigurazione numerosa e abituale è la Venere Steatopigica (dai grandi glutei). Alcuni esemplari riproducono anche un foro. È una donna obesa e sfiancata dalle maternità, grandi seni cadenti e addome enorme. In taluni esemplari ha un corno, simbolo di fertilità in mano (i corni venivano usati come contenitori di vivande – Cornucopia dell’abbondanza). Ma perché il genere umano

sceglie come prima divinità archetipica una entità femminile come questa? Meraviglia per l’allattamento. Nutrizione. Meraviglia per il parto, non collegato, secondo alcuni antropologi, dai primitivi all’atto sessuale ma visto come evento quasi magico. Osservazione della natura e coincidenza tra le fasi lunari (ciclo, parto) e le prime forme di agricoltura primitiva. Uomo cacciatore aveva vita aspra, violenta, materiale. Alle donne era affidata la mediazione tra materia e spirito. Emerge anche un primo concetto di eguaglianza sociale con riferimento all’eguaglianza dei figli di fronte all’amore materno. Madre vista anche come distributrice di generosità. È infatti produttrice di semi e frutti che offre generosa al mondo. È il mito che poi è stato trasposto in Gea o Maia la terra. 35


Massoneria

Simbologia del Sole e della Luna Nel mito successivo di Dioniso il sole che nasce ad Oriente (ex Oriente Lux) porta un fuoco che può essere domato solo nella brezza della sera, nel crepuscolo che porta la notte e la luna, nelle acque, così tipiche del femminile e delle grandi dee. Non vi è opposizione tra principio solare e lunare, ma complementarietà. Nella simbologia del sole e della luna, simbolo rispettivamente del maschile e femminile, questi astri sono sottoposti nelle nostre Logge alla stella fiammeggiante. Nel Rebis alchemico, figura ermetica riportata da molti autori quali Basilio Valentino nel 1659 e più tardi dal Wirth, diviene simbolo di una congiunzione, di un doppio, che esprime complementarietà ed esaltazione delle caratteristiche maschili e femminili 24. Nell’astrologia esoterica25 il domicilio notturno del sole è nel regno delle madri, nel grembo e nelle acque dell’utero quando il feto ha ancora gli attributi potenziali di ambo i sessi, che come vedremo in realtà sono dimostrabili anche da alcune evidenze scientifiche. Il domicilio diurno della luna è al centro 36

stesso dell’astro solare. L’essere umano colma questa nostalgia infinita dell’Uomo Luna e della Donna Sole nella via lunisolare dell’iniziazione. Proclo,26 la cui opera si può considerare esprimente gli assiomi fondamentali dell’esoterismo, che è una visione arcaica e futuristica assieme del mondo, afferma, parlando dell’affinità micro-macrocosmica del simbolismo del Sole e della Luna, che: …non è forse questo il motivo per cui il girasole si muove in sintonia con il sole e il seletrópion [pianta a segnatura lunare] in sintonia con la luna, compiendo la propria rivoluzione, nei limiti delle proprie possibilità, insieme con le lampade del mondo?… Una curiosità riguardo alla pretesa iniziazione solare sostenuta in alcune Comunioni Maschili. Nei rituali del Grande Oriente d’Italia, tuttora in uso, il Vanni fa presente che si legge: “essendo la nostra iniziazione solare, le donne non possono essere ammesse ai nostri misteri”. 27 Questa frase in realtà non è patrimonio di una Tradizione antica ma risale al 1969. Il rituale poi continua così: ”Tuttavia, noi le rispettiamo e le onoriamo. Questi guanti sono destinati a colei che rappresenta la tua perfetta polari-

tà contraria, cioè quella lunare”. Lo stesso Autore ha interpellato I F.lli Drake e Renato Caporali, allora nella Commissione Rituali, che gli hanno confermato che, dopo il fisiologico ripristino della consegna dei guanti per la compagna, giustamente reintegrata e mancante nei rituali del 1949 e del 1955, la frase relativa all’iniziazione solare, contrapposta a una polarità lunare, era stata “inserita” al fine di dare una motivazione plausibile all’esclusione, altrimenti non evidenziabile. In sostanza, la consegna dei guanti da donna è tradizionale, la giustificazione invece è posteriore e non legata ad alcun riferimento di ordine rituale. Andando infatti a vedere attentamente cosa recita il rituale francese da cui il Farina ha attinto per la compilazione dei rituali scozzesi28 si legge: ”Ceux-ci sont destinés pour celle que vous aimez le plus, persuadé qu’un macon ne sauriet faire un choix indigne de lui”, praticamente “Questi sono destinati a colei che più amate, persuaso che un Massone non potrebbe fare una scelta indegna di lui’. Non ci sono riferimenti né all’iniziazione solare né all’esclusione delle donne. Tantrismo


Nell’iniziazione Tantrica, legata inizialmente alla società matriarcale degli Harappei29 (2000 a.C.), la donna era estremamente più generosa di noi. Non ci precludeva all’iniziazione ma ci faceva salire e lo fa, ancora oggi, per chi pratica il tantra, fine alle soglie superiori della conoscenza col Divino. Attraverso il Maithuna, il Rituale della grande unione, uomo e donna nella posizione in cui la donna è seduta sopra l’uomo, lo sguardo uno nell’altro, le spine dorsali entrambe erette, a ripetere l’accoppiamento universale di Shiva e Shakti, con l’energia dell’uomo che viene spostata dal 5° chakra, la gola, centro energetico della comunicazione a cui arriverebbe con le sue sole forze, fino a quello del 6° dell’intuizione, in pratica il terzo occhio, un chakra a cui la donna giunge naturalmente e spontaneamente e che l’uomo, senza l’amore della donna, difficilmente raggiungerebbe, e da lì progrediscono singolarmente verso il settimo, posto alla sommità della testa (il contatto con il Divino) Ebraismo e Kabbalah Siamo in un mondo che sta indubbiamente cambiando a velocità supersonica. Viviamo in una epoca particolare dove l’uomo deve fare i conti con una società che, per scelte medico-economiche, sta mettendo sempre più in dubbio il suo ruolo di maschio. In America da anni, cioè dal post-Vietnam, e recentemente in Europa si sta affermando una figura di “maschio tenero”30 poco in contatto con la sua forza, demonizzata dalla società che la equipara ingiustamente ad aggressività. L’osservazione stessa della normale e naturale fisiologia ci porta inevitabilmente a considerare quanto scarso sia l’apporto maschile nella trasmissione della più importante delle Iniziazioni, quella che sta alla base di tutte le successive: l’Iniziazione alla vita. Eppure c’è anche chi fa sottili distinguo che, comunque, conducono sempre alla solita conclusione dell’esclusione della donna dalla via massonica: ovvero che la donna potrebbe essere al limite iniziata, ma non essere in grado di trasmettere. Le evidenze scientifiche dicono ben altro. L’apporto del maschio è oggi facilmente sostituibile con tecniche divenute ormai di relativamente semplice applicazione, mentre l’apporto della femmina non è altrettanto facilmente surrogabile: il forno

alchemico in cui avvengono la fusione e poi tutto il successivo processo della trasmutazione, con il finale trapasso dal buio alla luce, è esclusivamente femminile. Noi tutti sappiamo di essere figli di una prima e unica Femmina mitocondriale - una Madre primordiale – necessaria perché il maschio non è in grado di trasmettere elementi cellulari fondamentali per la vita: i mitocondri appunto, batteri mutati che si sono adattati a vivere all’interno delle nostre cellule e che “respirano” per noi, rendendo possibile la vita stessa. Già solo questo sarebbe sufficiente per sostenere che la Donna è la detentrice prima del diritto e del potere di trasferire l’Iniziazione. Eva, Chawwàh, che rappresenta letteralmente “colei che dà la vita”, possiede poi alcune caratteristiche fondamentali per essere iniziata e trasmettere l’Iniziazione: secondo Genesi 3,6 è lei a comprendere che il frutto dell’albero della conoscenza “è buono da mangiare … piacevole agli occhi … e desiderabile perché rende sapienti”. Eva cioè possiede, prima ancora di Adamo, tre attributi: facoltà di discernere, capacità di godere della bellezza estetica e desiderio di conoscenza. Non sono forse tre degli attributi che in Massoneria vengono cercati nell’Uomo di desiderio, cioè in colui che dovrebbe essere candidato all’iniziazione? La stessa tradizione Kabbalista riconosce nella Shekinà (presenza di Dio, simboleggiata dalla luce lunare), la personificazione della sposa capace di bellezza (tiferet), amore (besed) e conoscenza (da’at), stabilendo così una successione di anelli associativi che uniscono: Donna → Luce → Bellezza → Amore → Conoscenza. Inoltre, contrariamente a ciò che spesso si pensa e afferma, l’ebraicità che viene trasmessa con l’atto del concepimento e della nascita non è un concetto razziale: per essere ebrei infatti è sufficiente avere una madre ebrea; il padre non conta. Eppure non si può certo dire che l’Ebraismo non sia la religione dei Patriarchi! Dunque non la purezza della razza o del sangue fanno l’ebreo ma l’essere stato concepito e l’avere avviato la propria Iniziazione alla vita in un “ forno alchemico”, cioè in un “utero” ebreo. La madre, e solo la madre, trasmette l’essenza dell’ebraismo: perché essa nutre, conserva, protegge, educa, fa crescere … in una parola fa “respirare” l’ebraicità sin dai primi momenti della vita: il feto vive e

respira del sangue della madre, ne avverte le emozioni, i sussulti, ne ascolta la voce, la sente parlare, ridere e piangere e attraverso queste sensazioni, trasmesse con l’immediatezza irripetibile di una “Iniziazione fisiologica”, si costruisce l’ebraicità.31 Ciò che pare essere la credenza o l’intuizione

Massoneria di una religione, trova oggi riscontro negli studi più moderni sul periodo prenatale (Bowlby, Winnicott, Rispoli)32. La donna quindi risulta sicuramente essere detentrice della capacità e del potere di Iniziare, di trasmettere cioè un’essenza unica, se mai ci fosse stato bisogno di dimostrarlo. In Massoneria la Donna che, a buon titolo naturale, ha la prerogativa di donare la vita, dovrebbe godere, in questo ambito, di ovvie e dovute condizioni paritetiche, senza che neppure vengano messe in dubbio. La detentrice per diritto naturale della capacità di Iniziare alla vita non può essere privata della possibilità di trasmettere altre Iniziazioni che sono razionalmente definite, comprese e condivise. La Gran Loggia d’Italia ha fatto suo questo concetto fin dal lontano 1955. Psicologia, tao ed alcuni elementi sulla sessualità Nell’inconscio collettivo l’intuizione è femminile e si oppone all’eccesso di razionalità maschile. L’uomo nel corso dei millenni ha costruito dolorosamente uno iato che separa la coscienza razionale dalla coscienza intuitiva naturale dell’animalità da cui deriva. Jung33, fratello della Loggia Modestia cum Libertate di Rito Scozzese Rettificato all’Oriente di Zurigo, in L’io e l’inconscio parla di Anima, la parte femminile dell’inconscio maschile, e Animus, il maschile di quello femminile34. L’obiezione potrebbe essere quella che si tratta solo di un modello, che funziona anche bene, ma soltanto un modello utile per la terapia. Anche il simbolo taoista dello Ying e dello Yang, principi femminile e maschile, che hanno nel massimo della loro estrinsecazione caratteristica un punto che ricorda il sesso opposto, potrebbero essere a una prima e superficiale vista essere equiparati a un modello o un emblema, senza riscontro negli aspetti psico-fisici dell’essere umano. Ciò che l’analisi junghiana e il taoismo postulano trova però riscontro in 37


Massoneria

alcune nozioni embriologiche. La scienza dice che in noi residuano vestigia atrofiche dell’altro sesso, residuo e “ricordo” di un caos da cui si avvierà lo sviluppo definitivo che poi si differenzierà per il sesso a noi corrispondente. In questo caso non si tratta solo di un modello, perché le conquiste recenti della fisiologia in ambito di sessualità paiono proprio portarci in altra direzione; infatti il Punto P (prostatico) nell’uomo ed il Punto G nella donna, oltre a essere costituiti da tessuto embrionario tipico dell’altro sesso, sono da considerare zone attive, delle vere e proprie zone erogene, connesse fortemente con il piacere35. Conclusioni Ogni Comunione esprime con toni lieve38

mente diversi più o meno il seguente concetto: “che può nell’interesse dell’antica fratellanza, fare nuove norme o modificarne delle vecchie”; Anderson aggiungeva “purché siano mantenuti scrupolosamente gli Antichi Landmarks”. In questo articolo credo di aver dimostrato, tramite autori vari, tra cui alcuni anglosassoni che hanno dato lustro alla Quator Coronati, quanto risulti paradossale la frase del Pastore Anglicano, che aveva probabilmente eliso, occultato se non addirittura incendiato questi Landmarks. Abbiamo altresì visto che, pur non essendo la consuetudine, nella Massoneria Operativa l’iniziazione alle donne era concessa. Nei prossimi anni a

venire, d’accordo o no, la richiesta d’Iniziazione femminile in ogni Massoneria sarà sempre più presente. Se verrà accolta sarà bene che avvenga nel rispetto di parametri esoterici, che sono presenti e reali, piuttosto che per delle motivazioni etico sociali, che sarebbero l’ennesima forma degenerativa della Tradizione Massonica. Siamo indietro anche rispetto alla Chiesa, che talvolta viene citata ad esempio di arretratezza; parlo ovviamente di Massoneria in generale e non della nostra Comunione che, ricordo con orgoglio, ha fatto scelte importanti e coraggiose al riguardo, come detto, già dal lontano 1955. Al concilio di Trento svoltosi tra il 1545 ed il 1563 si attribuisce la concessione dell’anima alle donne, ma già nel sinodo di Macon del 585 d.c il tema era stato affrontato. A quel sinodo partecipò anche il vescovo dì Tours, il futuro san Gregorio, il quale, al libro ottavo della sua Historia Francorum, ci lasciò la descrizione dei lavori. In una pausa un Vescovo pose ai fratelli un quiz filologico: il termine latino Homo può essere allargato nel senso di persona umana comprendente entrambi i sessi o è da intendersi nel senso ristretto di Vir (maschio)? Gli altri Vescovi lo rinviarono alla traduzione latina della Genesi, secondo cui Dio Creò l’essere umano (homo) come maschio e femmina. Negli Stati Uniti si ripropone oggi il solito problema e non si dice più il termine Chairman, a meno che non si voglia passare per maschilisti, ma Chairperson. Noi Massoni a volte siamo spesso a lamentarci che nella società non siamo abbastanza credibili. Vogliamo parlare della Pace e siamo divisi in molte famiglie. Parliamo di tolleranza ed uguaglianza e ci sono Comunioni che tengono le donne fuori dalle logge, siamo propugnatori della libertà ma i neri americani per seguire la via Massonica hanno costituito le Logge Prince Hall. Abbiamo paura della diversità che è invece sempre fonte di arricchimento e miglioramento individuale. Uguaglianza sociale e diversità sessuale sono forse problemi all’Iniziazione? Non possiamo estendere il concetto di diversità in senso più ampio al singolo, visto che ognuno di noi è unico nella sua irripetibilità, nella sua diversificazione del prossimo, in poche parole nella sua diversità dall’altro. Allora quale è il concetto che impedisce


Massoneria

a una persona diversa per sesso, religione o colore della pelle di essere iniziata? Vogliamo fare peccato di presunzione, dimostrando di conoscere le caratteristiche dell’animo umano e sostituirci al GADU, di fronte al quale bianchi e neri, gialli e rossi, uomini e donne siamo tutti uguali? Ancora una volta, emerge di nuovo domanda posta all’inizio: “Iniziamo l’uomo, la donna, o l’essere umano?”. Concludo, facendo mie le parole di Giorgio Gaber, tratte dal monologo “Secondo me la donna”, che dopo aver introdotto i motivi di uguaglianza sul piano sociale, così si esprime sulla diversità: “Sì secondo me la donna e l’uomo sono destinati a rimanere assolutamente differenti e contrariamente a molti io credo che sia necessario mantenere certe differenze se non addirittura esaltarle queste differenze perché è proprio da questo scontro incontro tra un uomo ed una donna che si muove l’universo intero. All’universo non gliene importa niente dei popoli e delle nazioni, l’universo sa soltanto che senza due corpi differenti e due pensieri differenti non c’è futuro” 36. ________________ Note: 1 “Corriere della sera”, 10 Aprile 2010, Tortora F., Svolta in Francia. Donne nella Massoneria. 2 Traduzione da Costituzione e Regolamenti della U.G.L.E / Gran Loggia Regolare d’Italia – Statuti e regolamenti, 2003.

3 Ritorto R., Tavole Massoniche. 4 Jones B.E., Guida e Compendio per Liberi Muratori. 5 Gould R.F, The History of Freemasonry. 6 Ambelain R., La Franc-Maconerie oubliè. 7 Vanni V., Esoterismo e rivoluzione, scritto inedito. 8 Guénon R., Studi sulla Massoneria. 9 Vanni V., Iniziazione femminile e Massoneria da Zenit e http://www.zen-it.com/mason/studi/ inizfemm&mas.htm 10 Naudon P., Le origini della Massoneria. 11 Traduzione da Costituzione e R egolamenti della U.G.L.E / Gran Loggia Regolare d’Italia – Statuti e regolamenti, 2003. 12 Ambelain R., La Franc-Maconerie oubliè.

24 Urzì Brancati A., Androginia - http://www. memphismisraim.it/id74.htm 25 Vanni V., L’iniziazione femminile – metamorfosi e trascendenza. 26 Proclo, I Manuali. Testi Magico teurgici. 27 V. Vanni, Iniziazione femminile e Massoneria da Zenit http://www.zen-it.com/mason/studi/inizfemm&mas.htm 28 Farina S., Rituali dei lavori del rito scozzese antico e accettato. 29 Zadra E&M., Tantra la via dell’estasi sessuale. 30 Bly R., Per diventare uomini. 31 Biglino M., Tavola Architettonica Mixité: fisiologia e razionalità dell’Iniziazione.

13 Gerli F., La Massoneria e le donne http://loggia-andreadoria.com/documenti/donne.htm

32 Rispoli L., Esperienze basilari del sé.

14 Clavel B., Clavel F.T., Storia della Massoneria e delle società segrete.

34 Jung K.G., L’io e l’inconscio.

15 Proclo, I Manuali. Testi Magico teurgici. 16 Le Forestier R., Maçonnerie feminines et Loges Academiques. 17 Vanni V., L’iniziazione femminile – metamorfosi e trascendenza.

33 Jung K.G., L’uomo e i suoi simboli. 35 Zadra E&M, Il punto G. Una guida tantrica al mistero della sessualità femminile. 36 Gaber G., Monologo Secondo me la donna dallo spettacolo Un’Idiozia conquistata a fatica.

18 Vanni V., Iniziazione femminile e Massoneria da Zenit e http://www.zen-it.com/mason/studi/ iniz-femm&mas.htm 19 Stolper E., Garibaldi Massone. 20 Polo Fritz L., La massoneria italiana nel decennio post-unitario: Ludovico Frapolli. 21 Parascandolo L., La frammassoneria figlia ed erede del manicheismo. 22 Pruneti L., www.luigipruneti.it 23 Neri M., Principi e ordinamenti iniziatici femminili. http://www.ritosimbolico.net/studi2/ studi2_03.html

P.28: Grande Madre, reperto di area iranica; p.29: Coppia di amanti, avorio, scultura di area indiana; p.30-31: Documenti massonici di Marie Deraismes; p.32: Ritratto con insegne di Marie Deraismes; p.33: Ritratto con insegne di Marie Bonnevial, Gran Maestro dal 1914 al 1918; p.34-35: Marie Georges Martin, 33: . p.36: Parigi, la sede centrale de ‘LE DROIT HUMAN’; p.38: 1771, stampa sulla ‘donna Massone’ (vd. foto); p39: ‘Anch’io libero/a’, stampa Rivoluzionaria, XVIII sec.

39


Mito

La Fonte di Narciso Riflessioni Esoteriche sul Mito Marco Quadrelli

N

el Settecento e nell’Ottocento erano di moda i giardini simbolici che, in taluni casi, si presentavano come veri e propri percorsi iniziatici. Ne è un esempio il Parco delle Cascine a Firenze che, nel tempo, si è andato via via arricchendosi di statue e monumenti con significati anche esoterici. È il caso del fonte di Narciso ubicato nell’omonimo vialetto; questo monumento è costituito da una piramide tronca (figura già di per sé ricca di valenze simbolico-esoteriche) sulla quale sono incisi questi versi: ‘Eterno monumento in questo luogo/ generosa pietà fonda a Narciso/ che vagheggiando al fonte il proprio viso/ morì consunto d’amoroso fuoco”. Il mito di Narciso, contenuto nel III libro delle Metamorfosi di Ovidio, si snoda - com’è noto - col racconto dell’efebico giovane che, specchiandosi nell’acqua della fonte, vede la sua bellissima immagine riflessa; e qui mi è subito venuto da pensare alla valenza allegorica di ciò: Narciso (l’Uomo) vede il suo involucro esteriore, materiale e, restandone affascinato, 40

se ne innamora anche se talora l’immagine risulta distorta da una seppur lieve increspatura dell’acqua. Tuttavia se ne innamora perché - inconsciamente direi - percepisce, intuisce l’emanazione divina della sua immagine (si veda il celeberrimo motto della Tavola Smeraldina di Ermete Trismegisto), ma è ancora fermo all’esteriorità, all’apparenza ingannevole. Cionondimeno, Narciso è attratto irresistibilmente da quella immagine stupenda, la vuole toccare e baciare, vuole procedere oltre lo specchio delle apparenze; così si protende verso di essa fino a cadere nello stagno, scendendo giù, a toccarne il fondo fino alle profondità più oscure (dell’interiore); e muore. In quel preciso istante - quello della Morte simbolica, della Iniziazione Finale - si rende conto di tutto, trova la occultam lapidem, conosce la Verità. E alla sua morte fa seguito la nascita di una nuova vita: sul ciglio dello stagno, infatti, sboccia un fiore bianco (un narciso, appunto, al quale per gli antichi greci erano collegate le idee del sonno, della morte, dell’Ade) dando inizio, così, a

un nuovo ciclo esistenziale. Narciso viola lo specchio d’acqua (elemento indispensabile a ogni forma di vita, componente maggioritaria del nostro corpo materiale e nella quale noi esseri umani siamo a lungo immersi prima di venire al mondo), penetra la fonte e, giunto a scoprire la Verità, si trasmuta rigenerandosi. A questo punto, scartabellando nei meandri della mia memoria scolastica, è emerso un altro mito di un certo interesse a questo riguardo: quello di Dioniso bambino, figlio preferito di Zeus; egli, contemplando la sua immagine riflessa in uno specchio, si gettò a creare tutta l’umanità. L’immagine che il Dio bambino pone nello specchio si rovescia, promana nell’immagine globale del mondo mediante un atto creativo compiuto dal Dio stesso. Daniela Diana – operatrice sociale in favore di soggetti svantaggiati – scrive al riguardo: ‘‘La verità della creazione è un dio che si specchia: nell’istante di quell’azione passiva accade la divisione dell’identità divina nella pluralità delle parti. Ecco dunque che il momento della dispersione


Mito

creativa non può non richiamarci simbolicamente all’identità tra il dio ed il mondo, atto che si rinnova continuamente nel momento della riflessione (soggettiv. del verbo riflettere) ”. E non a caso il dio Dioniso è ‘‘bambino’’; sempre Daniela Diana: ‘‘La meraviglia di fronte alle cose, lo stupore di fronte al creato sono la sfida che i bambini lanciano ogni giorno nei confronti della natura. Il loro fare disinteressato, sciolto dai legami con le cose, rivela la capacità di condividere una medesima esperienza con soggetti diversi, riuscendo anche a conferirle un senso, cioè di poterla dire, pensare e rappresentare perché la si è percepita in modo non prevenuto ”. Quanto sopra per agganciarmi alla sofferenza esistenziale tipica di questa nostra epoca, accecata da un progresso unicamente scientifico, materiale e quindi fuorviante e illusorio. Al contrario di quello del bambino, il nostro sguardo è stanco e disincantato; è lo sguardo di chi ha barattato la sorpresa, lo stupore, la meraviglia, in distanza, estraneità, amarezza. Siamo di fronte a uno specchio che ci riman-

da un’immagine che non riusciamo più a riconoscere e assistiamo, così, alla metamorfosi dell’epoca moderna e contemporanea: la trasformazione del riflesso del ‘‘sé’’ che riteniamo così familiare in un portatore estraneo di turbamenti e dolori. Narciso ha finito di riconoscersi nello specchio d’acqua, così come la più parte di noi oggi non riesce più a riconoscersi nello specchio del mondo - meglio, dell’universo -. Ecco dunque il disagio dell’individuo moderno e ancor più di quello contemporaneo, inserito in uno scenario di cui gli sfugge la comprensione, assillato dal desiderio-esigenza di orientarsi in un mondo il cui senso si sta facendo sempre più recondito e nascosto e di cui non ha gli strumenti adatti per cercare e trovare. In questo scenario nel quale al posto della dimora comune troviamo il luogo dell’estraneo, l’avversario, si rende necessaria una formazione, una guida che ci insegni a disvelare le false e vuote apparenze e ci affratelli nella ricerca del Vero, del Bello e del Giusto, il che significa conoscere le cose senza impedimenti, dogmi, né attac-

camenti moralistici, perché sciolti dal legame verso la materialità. ‘‘Noi non ci meravigliamo che tu pianga tanto Narciso, perché era davvero bellissimo - Ma era bello Narciso? – disse lo stagno. Chi potrebbe saperlo meglio di te? – risposero le Oreadi. Ci passava sempre davanti, ma cercava te e si stendeva sulle tue rive e guardava dentro di te e nello specchio delle tue acque specchiava la propria bellezza. - Allora lo stagno rispose: Ma io amavo Narciso perché, mentre egli se ne stava Disteso sulle mie rive e mi guardava, nello specchio dei suoi occhi io vedevo sempre specchiata la mia bellezza’’. Oscar Wilde _______________ Bibliografia e Spunti vari: L. Pruneti – R. Pinotti, Stradario magico-insolito di Firenze, Le Lettere, 2008. Daniela Diana, Lo specchio di Narciso, Soc. Coop. a.r.l. “A.R.C.A.” ONLUS.

P.40-41: Echo e Narcissus, J.W.Waterhouse, olio su tela, 1903.

41


Mistica

Gli angeli e le “sante” Ida Li Vigni 42


E

ssere inafferrabile come il guizzo di luce che lo manifesta, l’angelo sembra appartenere più che all’umanissimo bestiario dell’immaginario collettivo all’astratto e lontano mondo del lo­gos. Pura presenza e pura essenza che si manifesta agli uomini in un bagliore accecante o in un’armoniosa onda di suono, voce che “mostra ciò che deve accadere” (per parafrasare un noto versetto dell’Apocalisse) e che disvela a coloro che sanno ascoltarla i mi­steri del Divino, esso appartiene a un’oltranza così inattingibile che solo chi è toccato dalla Grazia può accostarvisi e parteci­parvi. Ormai estraneo ai pagani messaggeri degli dèi che non di­ sdegnavano assumere sembianze e comportamenti umanissimi, l’angelo rimane sempre e comunque estraneo al mondo degli uomini con i quali pure dovrebbe interagire, a differenza del suo “fratello” malvagio che vi si trova fin troppo a suo agio, tanto da confondersi disinvoltamente con il naturale e il terreno. E’ forse per questo suo essere sfuggente, per questo suo non avere corpo pur potendo partecipare al corporeo (se dobbiamo prestare fede ai teologi secenteschi che dissertarono disinvolta­ mente sulle funzioni “biologiche” degli angeli), che nella lettera­tura - fatta la debita eccezione delle agiografie o dei trattati di teo­logia l’angelo trova raramente ospitalità. Creatura troppo per­fetta, egli non possiede quella vis esistenziale indispensabile a costruire un vero personaggio, ovvero una persona in senso tea­trale. Se proprio lo si vuole cogliere fra gli uomini, spoglio per un istante della sua intollerabile numinosità, bisogna spiarne il suo manifestarsi alle sante, quasi che dinnanzi alla donna, soprattutto se priva delle armi del sapere teologico, l’angelo ritrovi la sua originaria veste di Messaggero e si conceda qualche atteggia­mento umano, da buon angelo custode quale dev’essere. Non a caso, dunque, egli compare a quelle sante e “possibili sante”, quasi sempre di origini umili, che a lungo hanno dovuto combat­tere per accettare la loro misteriosa “diversità” e per farsi accet­tare nella loro straordinaria esperienza. Costretto a scendere sulla terra dalla forza dell’immaginario femminile, l’angelo abbandona la sua veste di luce per indossare i prosaici tratti di un bellissimo giovane,

Mistica

forse realmente incontrato, forse soltanto disegnato dal desiderio che si sforza di diventare visione spirituale. Tre casi (ma infiniti altri potremmo citare) sono sufficienti a raccontare questa stupefacente investitura umana dell’angelo; e sono tre casi particolarmente emblematici, in quanto lasciano in­travvedere un sostrato di cultura popolare difficilmente afferra­bile nell’iconologia e iconografia tradizionali, confermando l’ipotesi di un sussistere umano della creatura di luce solo nell’ambiente non dotto o nella sfera del desiderio. Il primo caso è quello notissimo di Giovanna d’Arco che, tredicenne, viene folgorata dalla visita dall’arcangelo Michele (l’angelo-guerriero), venuto a imporle una missione non pro­priamente femminile (e dunque scandalosa): guidare la guerra che avrebbe riscattato le sorti del-

la Francia. Un primo dato indi­ cativo dell’humus popolare che contraddistingue l’esperienza di Giovanna è ricavabile da un elemento temporale: questa prima apparizione ha luogo nel meriggio, nell’ora in cui Pan (e le sue successive incarnazioni) appare ai pastori o a chi si avventura nei boschi per apportare visioni. Vediamo come Giovanna, nel corso del processo, rievoca quel primo incontro: [...] Sono ora sette anni che le voci m’apparvero per la prima volta. Era un giorno d’estate, verso l’ora del mezzodì. Io avea presso a poco tredici anni ed era nell’orto di mio padre: udii la voce a destra, dal lato della Chiesa, e vidi al tempo stesso un’apparizione tutta risplendente. Ella avea l’esteriore di un one­sto e bellissimo uomo, avea le ali, ed era d’ogni lato intorniata da molti lumi ed accompagnata dagli angeli. Perché gli angeli ven­gono spesso tra i cri43


Mistica

44


stiani, senza che questi li notino: io stessa li ho veduti spesso fra loro. Quello era l’arcangelo Michele [...] egli m’insegnò e mi mostrò tante cose [...] All’ingenua fanciulla, educata dalle prediche e forse anche dalle gesta cavalleresche che ancora si raccontavano nelle campa­gne, l’esperienza delle “voci” che appaiono (ovvero si manife­stano e non si ascoltano, con uno slittamento semantico denso di significati inconsci, quasi che la voce, per sottrarsi allo statuto di allucinazione, debba accompagnarsi al corporeo) appare subito quale evento celeste, miracoloso. Non a caso, dunque, le voci s’incarnano nelle sembianze umane dell’arcangelo Michele (la cui natura angelica è appena accennata dal fin troppo scontato motivo delle ali) e delle sante Caterina e Margherita, dove però è l’angelo-guerriero a guidare la pulzella, a consigliarla (anche e soprattutto militarmente) e a confortarla, con un’emblematica ri­mozione dell’elemento femminile che la dice lunga sulla fin troppo “virile” volontà di autoaffermazione della Pulzella d’Orleans. Che l’immaginario di Giovanna sia decisamente poco orto­dosso e fin troppo legato ai topoi cavallereschi (basti pensare al ritrovamento della “spada santa” e all’investitura militare rap­presentata dalle vesti maschili che l’arcangelo Michele le fa in­dossare) appare indubitabilmente chiaro ai giudici che la interro­gano: questa scandalosa virago di umili origini, che pretende di indossare l’armatura e di impugnare la spada per volontà divina e che dichiara tranquillamente di colloquiare con angeli e sante, non sa nulla di quelle essenze angeliche su cui dissertano elegan­temente i teologi e risponde con il buon senso, troppo terreno e quindi demoniaco, degli uomini comuni. Le si chiede se l’arcangelo le sia apparso nudo e come abbia i capelli ed ella re­plica indignata che Dio veste gli angeli e non taglia loro le chiome. Ma dove scivola è allorché descrive l’investitura ange­lica di quell’Orleans tanto ingrato da prendere le distanze da qu­anto Giovanna dichiara. I giudici chiedono: [...] In che modo l’angelo portò la corona? [...] veniva dall’alto o toccava terra? [...] avanzò toccando terra? [...] C’erano altri con lui? [...] Ed ella replica: [...] Egli entrò dall’alto, passò dalla porta e

Mistica

toccando terra avanzò verso il re [...] Era accompagnato da molti altri angeli, che non tutti potevano vedere [ma il re, sì, e non lo dice], e nella schiera v’erano anche santa Catterina e santa Margherita [...] Un angelo che cammina toccando terra e che varca la soglia come un semplice mortale è veramente troppo per i giudici di Giovanna, abituati a presenze angeliche ortodosse che volano o levitano e che comunque mai si sognerebbero di consegnare spade e vesti maschili ad una fanciulla veramente timorata di Dio. Se l’arcangelo della Pulzella sembra uscito da un poema caval­leresco e assomiglia fin troppo a Parsifal o a Lancillotto, l’angelo custode di santa Francesca Bussi (1384-1436) non di­sdegna le manieri forti di un burbero pater familiae pur di avviare verso la Grazia la sua protetta. Come i santi di Jacopo da Varagine puniscono duramente i recalcitranti pagani, l’angelo di Francesca non esita a picchiar-

la ogni qualvolta commette una mancanza. Così, per citare un passo della biografia della santa: [...] Una volta, mentre faceva la sua confessione, dimenti­cando di raccontare di una grazia poco tempo prima ricevuta, fu colpita dall’angelo in modo sì violento, che la sua testa fu piegata infino a terra [...] A quest’angelo indubbiamente manesco ma efficace si sovrapporrà, allorché Francesca perderà via via i figli e il marito (ovvero quei legami terreni che le impediscono l’ascesi mistica e da cui prende le distanze quasi con un sospiro di sollievo) un an­gelo-guida più mansueto e affettuoso che la introdurrà ai misteri delle gerarchie angeliche e dei regni ultraterreni. Né è l’unico, dal momento che questa santa sembra avere un rapporto privilegiato con le gerarchie angeliche, addirittura impegnate a illuminarne le fatiche domestiche. Vediamo altri passi della sua biografia: 45


Mistica

[...] Oltre il suo angiolo custode [quello manesco] Francesca aveva altresì [...] un arcangelo ad assistente perpetuo. Esso lo vedeva giorno e notte sotto la forma umana di un giovane, ve­stito di una tunica bianca al paro della neve. Il suo volto raggiava più che il sole, a tal ch’ella poteva vederne lo splendore ma non tener fissi gli sguardi a lui. In due sole occasioni poteva con­templare la sua figura [...]: quando parlava dell’arcangelo al suo padre spirituale, allora ella poteva ben considerare i suoi capelli, i suoi occhi e le altre sue membra; indi, allorché era travagliata dagli spiriti maligni, ella guardava senza alcuna difficoltà l’arcangelo [...]. [...] Era tale lo splendore che mandava l’arcangelo, che al suo lume Francesca faceva la notte tutti gli esercizi necessari nella casa, senza bisogno di alcun lume materiale [...] Grazie a questo gentile angelo domestico Francesca appren­derà il destino generale degli angeli buoni e cattivi e diventerà esperta nello smascherare quegli “spiriti aerei” ingannatori che tormentano gli 46

uomini con malattie, tentazioni e calamità di ogni genere, mentre ad accompagnarla nel suo viaggio oltremondano sarà l’arcangelo Raffaele, assai più luminoso e splendente dei suoi predecessori. Il destino di Francesca sembra consumarsi tutto all’insegna dell’angelologia, anche se non poche perplessità dovette susci­tare questo via vai di angeli nel padre confessore della santa. Sparito l’arcangelo Raffaele, ecco al suo fianco un arcangelo di ancor più luminosa bellezza. E’ il momento tanto atteso della tardiva consacrazione a Dio: accolta fra le Benedettine, Francesca ha subito una visione: [...] Ella era stata ammessa al Tempio celeste, davanti al trono luminoso di Dio, il cui sguardo, dopo aver percorso l’insieme della sua corte, si era arrestato sul quarto coro e si era fissato su uno dei più sublimi spiriti [...] Assai più grande e incomparabile era la bellezza del nuovo Custode [...] Sarà quest’ultimo Custode a presentare Francesca allo Sposo mistico, per poi sparire in un guizzo di luce, lasciando la santa, ormai giunta all’ultima tappa del

suo viaggio mistico, in sereno colloquio con Dio. Se si analizza la biografia di Francesca Bussi ci si rende conto del ruolo particolare che l’angelo viene ad assumere nella vita delle sante che hanno conosciuto l’inferno della condizione co­niugale. Come nel caso di Angela da Foligno o, più tardi, di Caterina Fieschi Adorno, l’angelo svolge una funzione media­trice, di correttore e di guida ad un tempo, quasi che l’esperienza laica di sofferente soggezione all’universo maschile vissuta da queste sante inibisca l’ascesi mistica e renda necessario un lungo percorso di affrancamento dai legami e dai ruoli terreni. Di questo bisogno interiore di autoaffermazione mediato dal messaggero di Dio è perfettamente consapevole Jeanne des Anges, splendido caso di santa “mancata”. Nota più per la spettacolare possessione demoniaca di cui fu protagonista indiscussa a Loudun che per i suoi successivi tenta­tivi di “costruirsi” quale santa, suor Jeanne des Anges chiude emblematicamente questo breve excursus sulle visitazioni angeli­che. Creatura votata agli angeli, Jeanne reca nel nome scelto all’atto della monacazione la cifra oscura di un destino ambiguo, di una predestinazione destinata a rimanere incompiuta perché inficiata fin dalle origini da un eccesso di superbia: legarsi agli angeli per affermarsi come santa in terra. Sarà proprio questo desiderio così forte e caparbio a condannare Jeanne alla dispera­zione e al paradossale risultato di confondere gli spiriti maligni con quelli angelici, ovvero di farsi possedere dai nomi sbagliati. Ma poiché è il regime del nome che domina, Jeanne saprà supe­rare l’esperienza demoniaca per ritornare a Dio, ricollocando il proprio destino nell’area numinosa di quella purezza angelica cui si era consegnata attraverso l’investitura di un appellativo: la suora degli Angeli. Guarita, Jeanne si vota dunque agli angeli e, con la stessa forza con cui si era identificata nella parte dell’ossessa, si applica alla via della santità, tanto da sfiorare il successo. Alle sue spalle ha ormai lasciato l’unica guida terrena che ha saputo leggere nel suo animo tormentato e che ha pagato di persona, con una lunga sofferenza corporale e spirituale, la battaglia contro i nomi di Jeanne: quel padre Surin, esorcista e geniale conoscitore delle anime tor-


Mistica

mentate, che in una lettera alla monaca di Loudun aveva scritto: [...] Vi prego di porre le basi dell’autentica vita spirituale nella sincerità del cuore. Intendo dire che in voi sottigliezze e astuzie sono così numerose, che è difficile rintracciarvi uno spi­rito di verità [...] Ben altre sono le guide di cui ha bisogno per accedere alla santità, custodi divini come San Giuseppe (che, guarda caso, richiama il nome di padre Jean-Joseph Surin) e un an­gelo così affascinante e terreno da rivelarsi subito all’occhio at­ tento del saggio esorcista come la proiezione angelicata di quel giovane Duca di Beaufort che più volte aveva presenziato agli esorcismi pubblici di Loudun e che di certo aveva colpito la fan­tasia di Jeanne. Ma vediamo come la monaca descrive l’apparizione angelica in un passo delle sue memorie: [...] Era di una strana bellezza, simile a un giovine di di­ciott’anni, con una lunga chioma bionda e rilucente, che ricadeva sulla spalla sinistra [...] Quest’angelo indossava una veste can­dida come la neve e reggeva in mano un cero bianco, molto lungo, molto grosso e molto fiammeggiante [...]. Questa presenza angelica (e poco conta,

tutto sommato, quali materiali siano stati utilizzati dalla monaca per dare corpo al suo desiderio) accompagnerà Jeanne des Anges lungo la via della santità, rinnovandole periodicamente i nomi sacri impressi sulla mano sinistra e ponendosi quale garante assoluto dei segni (ancora una volta dei nomi) che orientano senza più esitazioni e confusioni la suora degli Angeli verso Dio. Sotto la guida del suo angelo “buono”, Jeanne non conoscerà più smarrimenti o, per lo meno, non sembrerà avvertire il drammatico paradosso cui s’era consegnata, in gioventù, fermando la sua volontà su quella semplice apparenza che è un nome. Invertito il segno del suo cammino ma per nulla mutata nell’animo, ella continuerà a esi­ birsi, anche se stavolta si tratta di una folla riverente che ne vuole vedere le misteriose lettere impresse sulla mano e non della folla che un tempo accorreva a contemplare intimorita le contorsioni di ossessa. Non è certo il caso di assimilare Jeanne alle autentiche sante, anche se la ferrea coerenza del suo desiderio ci spingerebbe a suggerire straordinarie analogie (e, d’altra parte, tanto incerto è il confine fra santità e perdizione che solo agli uomini di Dio è dato pronunciarsi); piutto-

sto, occorre collocare la sua esperienza in una dimensione altra, tutta racchiusa nel dominio assoluto dei segni e delle loro infinite significanze. Come dichiara Saussure: “... Tutto accade al di fuori dello spirito, nella sfera dei mutamenti di suoni ...”. A differenza di Giovanna d’Arco, di Francesca Bussi e delle altre sante per le quali gli angeli sono tangibili manifestazioni del numinoso che aprono la via alla conoscenza e alla Grazia, per Jeanne des Anges essi non sono altro che “segni” che attendono invano di fermarsi in una forma, in un suono, anche in un inaf­ferrabile guizzo di luce. Confondendo significato e significante, essenza e forma, Jeanne si condanna al mondo disperante del desiderio, all’universo caotico e disviante dei poteri del nome. Con lei gli angeli si allontanano definitivamente dall’umano per fermare il loro battito d’ala nei gessi dei rosoni delle chiese, nelle buie tele o nel freddo marmo delle statue di un Barocco che tutto congela in vuota forma, in nome. P.42: Jeanne d’Arc, église Saint-Pierre, Le Mont-Saint-Michel; p.43: Vetrata dipinta, Notre Dame, Paris; p.44: Jeanne d’Arc, pastello di P.Dubois, 1873; p.45: Roma, ponte Sant’Angelo; p46-47: Santa Teresa, G.L.Bernini, San Pietro, Roma.

47


Letteratura

La “Consolazione della Filosofia� Un modello di scrittura poetica Gerardina Laudato

48


Letteratura

D

ue terzine che Dante dedicò alla memoria di Anicio Manlio Torquato Severino Boezio ricordando la sua sepoltura nella basilica pavese di San Pietro in Ciel d’Oro. Patrizio di nobiltà romana visse fra il 480 e il 524 anno in cui, essendo caduto in disgrazia presso Teodorico, fu incarcerato e messo a morte. Incarnava il patrizio illuminato imbevuto di poliedriche conoscenze (prevalentemente retorica e filosofia) distillate al fuoco costante degli studi iniziati a Roma e completati ad Atene. Era il normale percorso da praticarsi per chiunque volesse far carriera nel campo della politica e dell’amministrazione. Già all’età di trent’anni lo vediamo attivo politicamente in veste di console a Roma. Non dismise il suo impegno diplomatico vivendo alla corte del re ostrogoto fino a ricevere la nomina di Maestro di Palazzo nel 523, anno precedente alla sua incarcerazione e messa a morte, ordinata da Teodorico dimentico della lealtà di Boezio e ossessionato dal terrore del tradimento. La fine della vita del filosofo fu determinata da trame perverse ordite dalle feroci gelosie dei nobili ostrogoti che mal tolle-

Per vedere ogni ben , dentro vi gode l’anima santa, che il mondo fallace fa manifesta a chi di lei ben ode; lo corpo ond’ella fu cacciata giace giuso in Cieldauro; ed essa da martirio e da esilio venne a questa pace. (Paradiso, X, 124-129) ravano la presenza del patriziato romano nella gestione del potere. I molteplici impegni diplomatici non gli impedirono di dedicare costantemente parte delle sue energie alla stesura di trattati e commenti alle opere logiche

(Analitici I e II, Introduzione al sillogismo categorico, Il sillogismo categorico, I sillogismi ipotetici, Sulla divisione, un commentario alla versione di Mario Vittorino dell’Isagoge di Porfirio, De interpretazione). Gli scrittori medievali debbono a Cicerone, quanto a Boezio, le conoscenze sulla logica stoica. Egli gestì, infatti, le sue riflessioni sul sillogismo ipotetico, articolandole nell’ottica di innesto della logica stoica sul ceppo della logica aristotelica. Nel velocissimo iter che nomina, solo in parte, la sua messe di scritti, merita di essere citato il commento alle Categorie di Aristotele, da considerarsi pilastro portante della tradizione logica medievale. Aveva progettato di tradurre e interpretare tutte le opere di Platone e Aristotele con l’obiettivo di dimostrarne la fondamentale concordanza. Ci piace pensare che, se la sua vita non fosse stata stroncata, avrebbe portato a compimento un lavoro che si interruppe al solo Organon aristotelico e all’Isagoge di Porfirio. E non avremmo conosciuto uno dei modelli più alti di scrittura poetica, concepita in quell’età di mezzo della storia occidentale squarciata dai conflitti esi49


Letteratura

50

stenziali di una società brancolante alla ricerca di identità: il De Consolatione Philosophiae. Cinque libri di prosa e versi (39 poesie) permeati di spirito neoplatonico, di spunti che attingono a fonti diverse, fra cui sembrano prevalere accenti del Protrettico di Aristotele, allegorie che marcano l’eco di una solitudine dolente affranta dalle oscurità dell’ingiustizia, che evolvono amplificandosi in un dialogo totalmente interiore capace di purificarsi nell’ispirazione delle Muse, addolcirsi negli accenti della fede e della ragione, nobilitarsi in una ricostruzione dell’io che sa valicare le vette del tempo e amplificarsi in una norma cosmica delle “cose” terrene. Accostiamoci insieme alla lettura di alcuni passaggi per assaporarne la magica intensità lirica. «Mi sembrò che sopra il mio capo fosse apparsa una donna di aspetto venerando, dagli occhi sfolgoranti e penetranti oltre la comune capacità degli uomini. Il suo colorito era vivo e integro il suo vigore, benché ella fosse tanto carica d’anni da non potersi credere in alcun modo appartenente al tempo nostro.» Una nobile Donna si presenta a Boezio nella tenebra gelida che pervade, allo stesso modo plumbeo, la cella e l’anima del filosofo. È Filosofia, venuta per dargli conforto, rispondere ai suoi dubbi e ricordargli che tanti altri, prima di lui, amanti della conoscenza, subirono medesime ingiustizie. Non per sua colpa Boezio è avvinto in catene ma per non essersi discostato dal seguire la via della verità e della giustizia. «Ahimé, in qual profondo abisso sommerso lo spirito langue e, dispersa la propria luce. S’avvia incontro alle tenebre che lo circondano…» La felicità che il possesso dei beni della fortuna, sovente instabili e caduchi, sembra comportare è per sua stessa natura precaria. Sia l’uomo sufficiente a se stesso nel distacco sereno dalle contingenze e nell’equilibrio, che misura nelle eque dimensioni il valore delle cose annullando il timore della loro perdita. Le vicende avverse della fortuna, tuttavia, non gettano il mon-

do nel disordine degli avvenimenti accidentali. Una volontà provvidenziale governa gli eventi e, anche se il contingente appare stravolto dalla presenza del male, anche se sembra vittoriosa la prosperità dei malvagi, la Sapienza di un Ente altissimo conduce tutto verso il Bene per costituire l’armonia del Tutto: «... se il mare sconfinato trattiene entro un preciso limite i suoi flutti. Perché a questi, invadendo la terraferma, non sia permesso di allargare i propri confini. è l’amore che concatena questa serie di elementi, l’amore che governa la terra e il mare ed esercita il suo comando sul cielo.» Nulla accade per caso. Il vero Bene travalica le urgenze di perseguire i beni passeggeri dell’esistenza, rigetta la deturpazione del costante timore della perdita, pacifica nella certezza di aver superato il bisogno dei beni finiti per un Bene che non perisce: «Chi intende seminare un campo non ancora dissodato libera prima il terreno dagli sterpi, e con la falce taglia via rovi e felci, perché la dea delle messi faccia ricco il nuovo raccolto. […] Voi non andate a cercar oro su un albero verde e non pretendete di coglier pietre preziose dalla vite, non disponete reti nascoste sugli alti monti per catturare pesci da servire a mensa… Ciechi gli uomini si rassegnano a ignorare il bene, cui pure aspirano, e, immersi come sono nella terra, vi ricercano valori che stanno oltre il cielo stellato.»


Letteratura

Questo Supremo Bene, l’Intelligenza somma, regge il mondo disponendolo in un piano ordinato: «Ogni razza di uomini che è sulla terra nasce da comuni origini; uno solo è il padre di tutti gli esseri, uno solo li governa tutti. […] La provvidenza è la stessa ratio divina che, costituita nel supremo Principe di tutto, dispone tutte le cose; il fato è la disposizione inerente alle cose mutevoli, disposizione per la quale la provvidenza assegna ogni cosa al suo ordine proprio.» Ed è una provvidenza libera dalla “necessità”, fato che non priva l’uomo della libertà che gli è data per esercitare la ra-

gione, metro cui commisurarsi per giudicare e operare scelte: «In Lui non esiste né il passato né il futuro e la sua scienza è la conoscenza totale e simultanea di tutti gli eventi che si verificano successivamente nel tempo […] In Lui sono presenti anche gli eventi, ma sono presenti nel modo stesso del loro accadimento: e quelli che dipendono dal libero arbitrio sono presenti appunto nella loro contingenza.» Lo spirito di Anicio Manlio Torquato Severino Boezio è pacificato. La Libertà dell’intelletto e dello spirito sono sangue vivo che circola nelle vene, la metamorfosi dello stato fisico e mentale e il superamento del tempo mortale sono com-

piuti. Filosofia canta: «O tu che governi il mondo con stabile norma, creatore della terra e del cielo, che dai primordi fai scorrere il tempo e, restando immoto, imprimi il moto a tutte le cose, […] tu sei infatti il sereno, tu sei il riposo e la pace per i giusti, contemplare te è il nostro fine tu sei insieme principio, stimolo, guida, via, mèta.» P.48 e 50: Dittico Barberini, Parigi; p.49: Lapide a Pavia, San Pietro in Ciel d’Oro; p.5o a destra: Frontespizio di una ediz. secentesca del ‘De Consolatione’ di Boezio, collez. priv.; p.51: Ravenna, mosaico.

51


Massoneria

parte II

La cittĂ massonica Un metodo per lo sviluppo ecosostenibile di questo nuovo secolo Jean Marc Schivo

52


Massoneria

L

a città del Sale di Chaux (1775) (fig.14), progettata da ClaudeNicolas Ledoux, è stata costruita solo per metà ed è stata inserita nel 1982 nel Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Primo tentativo concreto di utopia sociale, organizzato in un sistema aperto capace di espandersi per fasi successive, rappresenta una visione illuministica del mondo del lavoro e realizza nel contempo anche un’opera vicina al concetto alchemico della trasformazione del sale e di Arte Regia nell’uso delle proporzioni con evidenti rimandi alla Città del

Sole di Campanella. Nella scia di Ledoux Charles Fourier (fig.15) con i trattati Teoria dei quattro movimenti e Teoria dell’unità universale pone le basi del socialismo utopico codificando un nuovo sviluppo della società e di conseguenza dell’architettura. Il “Falansterio” è di fatto un brano di città caratterizzato da molteplici funzioni produttive, sociali, residenziali, culturali che rappresenta il nuovo mondo della partecipazione e della condivisione rappresentato da un’unica entità architettonica proporzionata e armonica. In questo ribollire di vitalità la “strada galleria”,

sulla falsariga delle proporzioni delle gallerie del Louvre, diventa elemento di raccordo dell’intera città insieme a un sistema di verde distribuito su tutto il complesso, vera struttura bioclimatica, che anticipa di molti anni le attuali tendenze progettuali. Jean–Baptiste André Godin (fig. 16) (membro della Loggia “Thelem”) con il progetto del Familistère (1859) a Guise in Belgio e successivamente Victor Considerant rappresentano l’applicazione pratica delle idee di Fourier. È infine nel Nuovo Mondo che l’ideologia massonica si concretizzerà in una serie di

53


fig.14

Massoneria

fig.15

pianificazioni urbanistiche di ampie proporzioni territoriali. È compito dell’architetto francese Pierre-Charles L’Enfant (1754) (fig. 17) di tracciare il piano simbo-

fig.16

54

lico della nuova capitale degli USA e di definirne l’urbanistica. Dietro indicazione di G. Washington, esperto e appassionato di topografia fin dall’infanzia, L’Enfant

traccerà la pianta del District of Columbia (un rombo di 10 miglia di lato) rifacendosi agli antichi landmarks che ne delimiteranno i confini tra la Virginia e il Maryland. La nuova capitale nasce sotto il segno sacro del “10”, la mistica Tetraktys pitagorica, ed esprime insieme l’idea della totalità e della legge divina. Caratterizzato da unità, dualità, triade e quaternario, l’impianto sarà anche riconducibile al diagramma degli oroscopi, diventando di fatto una fondazione astrologica. La nuova capitale, come dice Marcello Fagiolo, “costituisce il disegno vivente della nazione e del mondo massonico”. È interessante scoprire nei punti più significativi alcuni riferimenti massonici: il grembiule, la squadra, il compasso, la scacchiera, il triangolo sacro, raccordo tra il Capitol, la futura White House, e il monumento a G.Washington, le piazze stellari e altri ancora. La simbologia diventa così elemento conformante il territorio, si integra con la natura e diventa fruibile anche per i profani. Alla capitale seguiranno altri interventi che applicheranno la stessa filosofia tra cui la città di Sandusky (1818) nell’Ohio, progettata da Hector Kilbourne, e Chicago (1909) (fig. 18) progettata da Daniel H. Burnham e Edward P. Bennet. In Argentina il progetto per la nuova capitale della provincia di Buenos Aires, La Plata (1882), eseguito da tre architetti massoni Burgos, Grade e Benoit, presenta uno schema a scacchiera arricchito da un sistema di diagonali, un macro pattern triangolare dall’evidente contenuto simbolico, che consente di ottimizzare la viabilità della città. Anche New Delhi (1900), progettata da Edwin Lutyens, e Camberra (1913), progetta da Walter Burley Griffin, trovano nello schema radiocentrico il loro modello organizzativo basato sul triangolo equilatero su cui si attestano i tre poli fondamentali “commerciale, civico e politico”. Dopo questa parentesi di felici realizzazioni riprende il periodo delle utopie. Etienne Cabet (1788) nel suo romanzo Voyage en Icarie descrive l’immaginaria capitale di un nuovo mondo come una città ideale di impianto circolare attraversata da un fiume e suddivisa in 60 quartieri, espressione architettonica di stili e modi di vita delle 60 principali nazioni. Sostenuto da Robert Owen (1771) tentò invano di realizzare il suo sogno nel Nuovo Continente. Anche Ebenezer Howard


fig.18

Massoneria

fig.19

(1850) (fig. 19), estimatore delle idee massoniche, rappresenta con la “Città Giardino” l’ultima visione utopica ottocentesca in una fusione ideale tra città e campagna. Jules Verne (1828), iniziato e grande iniziatore, in tutta la sua opera affronta il tema della società e della sua organizzazione, questa volta con uno spirito molto più aperto e già con una precisa visione tecnologica. Nel romanzo I 500 milioni della Begum, la città ideale di France-ville si contrappone alla città dell’acciaio. 10 punti fondamentali ne definiscono gli aspetti architettonici, tecnici, urbanistici e organizzativi “… chiunque può vivere a France-ville, le industrie e il commercio sono liberi, la gestione politica è di competenza di tutti i suoi cittadini che si riuniscono in consiglio per dibattere e condividere tutti le decisioni da intraprendere per la città stessa” e ancora: “... l’ambiente è pienamente rispettato e la natura ha un posto prioritario nello sviluppo della città,

fig.17

la scelta del luogo di costruzione non avviene per caso, ma segue dei principi scientifici al fine di assicurare un quadro di vita ideale …”. Anche in questo caso Jules Verne anticipa la visione degli eco quartieri o di quello che oggi noi chiamiamo Eco–città o sistema ecosostenibile. In questo filone immaginato da J. Verne si inseriscono F.LL.Wright e Walt E.Disney. Il primo (fig. 20) con il suo

scritto “La città vivente“ una città/campagna, Broadacre city, che rappresenta l’immagine di una mondo libero caratterizzato da uno schema espandibile basato sul concetto di sovranità dell’individuo. Qui: “I caratteri architettonici di questa pianta democratica del terreno per la libertà umana sorgono naturalmente per e dalla topografia”. Non a caso l’architetto, forse il più grande dello scor55


fig.20

Massoneria

fig.22

fig.21

so secolo, cita Paracelso nell’introduzione del suo libro per meglio descrivere l’uomo come centro di questo nuovo saper costruire: “Questo corpo fisico... è la vera pietra rifiutata dai costruttori, ma che deve diventare la pietra angolare del Tempio...” Questo corpo fisico non è soltanto uno strumento per il potere divino, 56

ma è anche il suolo da cui quel che nell’uomo è immortale attinge la propria forza” . Walt E.Disney (fig. 21) con il progetto del 1936 di epcot: Experimental Prototipe Comunity of Tomorrow, una città utopica, ma anche uno spazio reale in cui concretizzare immaginazione e visioni, dove il visitatore può immaginare nuovi mo-

delli urbani e sperimentare le meraviglie del futuro, dell’energia, dell’agricoltura sostenibile, della creatività e della comunicazione senza limiti. Nel modello circolare voluto da Walt E. Disney riaffiorano non a caso gli schemi delle cattedrali, con proporzioni e immagini di luce e colore, ma anche tecnologie, avveniristiche per l’epoca, basate sui semplici rapporti universali di un linguaggio inteso come unicum. A questi esempi se ne potrebbero aggiungere altri, ma l’obbiettivo non è quello effettuare una sistematica analisi storica quanto di prendere atto dell’interruzione di un processo di ricerca e di cercare di rilanciarlo concretamente. Il mes-


saggio di Verne da un lato e i fondamenti presenti nei vari Gradi dall’altro rappresentano, con il loro simbolismo, i valori indispensabili per realizzare uno sviluppo territoriale ecosostenibile e un modello di città in linea con le aspettative attuali. I fortissimi squilibri che si avvertono ormai a livello planetario sono originati principalmente da tre fattori: economici, con la crisi iniziata nel 2007, ambientali ed energetici. La loro influenza è ancora più devastante data la mancanza di accordi internazionali realmente validi riguardo al contenimento delle emissioni di co2, alla corretta gestione delle risorse planetarie, al rispetto dei valori di libertà, tolleranza e fratellanza. “Lo sviluppo sostenibile è lo sviluppo che fornisce elementi ecologici, sociali ed opportunità economiche a tutti gli abitanti di una comunità senza creare una minaccia alla vitalità del sistema naturale, urbano e sociale che da queste opportunità dipendono”. Niente più chiaramente di questa frase enunciata dalla “wced World Commission on Environment and development” dell’ONU nel 1987 potrebbe indicare il ruolo fondamentale di una corretta sinergia fra economia, energia ed ambiente nella pianificazione e organizzazione del territorio e delle città. E ancora: “Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che garantisce i bisogni delle generazioni attuali senza compromettere la possibilità che le generazioni future riescano a soddisfare le proprie”. Infine nel 2001 l’unesco introduce il concetto di diversità culturale, necessaria per l’umanità quanto la biodiversità per la natura. La diversità culturale diventa quindi il quarto pilastro dello sviluppo sostenibile accanto al tradizionale equilibrio delle 3 E: Ecologia–Economia–Equità (fig. 22). In questo schema troviamo immediati collegamenti con i differenti punti del pensiero massonico generale. La reale entità della sfida da affrontare è ben esemplificata dalle cifre relative alla popolazione mondiale: gli attuali 7 miliardi di persone secondo una proiezione onu potranno diventare 9 mld nel 2040. È quindi evidente che in un mondo sempre più globalizzato e collegato da reti di comunicazione sempre più capillarmente diffuse, quindi più efficienti, qualsiasi squilibrio fra questi tre fattori viene evidenziato con una velocità e incisività che in altri

fig.23

Massoneria

fig.24

tempi sarebbero state inimmaginabili. Oggi infatti la comunicazione è parte integrante di qualsiasi avvenimento. Le recenti rivoluzioni arabe dei paesi Nord Africani iniziate nel 2010 sono state caratterizzate da un’impressionante ricerca della comunicazione trasversale resa possibile soprattutto grazie a Internet che ha di fatto dato origine ad una sorta di città virtuale costituita da una rete di flussi informativi senza precedenti. Oggi il 50% della popolazione mondiale è concentrato in aree con la maggior produzione di gas serra. Gli indicatori internazionali indicano che si è raggiunto un punto critico in termini di effetti collaterali. La grande sfida è quindi intraprendere un processo

di inversione di marcia e un’accelerazione verso una prospettiva di sviluppo sostenibile del pianeta. In quali termini la Massoneria attraverso il suo patrimonio di contributi e la sua filosofia operativa può essere di supporto alla concezione di un nuovo modo di abitare e di nuove città e realtà territoriali? La risposta potrebbe essere quella d’immaginare la città come uno spazio per la trasformazione evolutiva dell’uomo di cui la gestione dell’energia sia lo strumento organizzativo. Questo modello non più solo ideale, ma pratico si dovrebbe fondare su due azioni fondamentali che rispecchiano alcuni dei fondamenti massonici: a) Fondazione del distretto e applicazione dei suoi landmar57


fig.27

Massoneria

fig.25 fig.25

fig.26

ks; b) Realizzazione di un modello architettonico in cui lo svolgimento delle attività viene interpretato come strumento dell’apprendere e della trasformazione individuale e il cui sviluppo non sia inteso come semplice espansione territoriale, ma come esaltazione della qualità della vita, delle idee e della condivisione. L’energia Elemento organizzativo della città In questa ottica i quattro elementi (fig. 23) rappresentano i principi attivi che mantengono in equilibrio dinamico la 58

materia elementare e i fondamenti su cui poggia la città. La Terra ne costituisce il legame con il paesaggio circostante e la sua morfologia. L’Acqua ne garantisce la vita, la comunicazione, la qualità degli spazi. L’Aria ne anima il funzionamento, regola il micro clima, è fondamento della struttura degli esseri viventi . Il Fuoco rappresenta l’armonia dei primi tre e la loro corretta sinergia. L’organizzazione alchemica simboleggia

la parte non visibile che regola l’evoluzione e la trasformazione di un territorio in cui tutte le forze trovano spazio. Lo zolfo, energia espansiva che scaturisce dal centro di ogni essere, e il mercurio, forza di penetrazione che influenza dall’esterno, ritrovano l’elemento del loro equilibrio nel sale che rappresenta il principio di cristallizzazione e tutto ciò che dal punto di vista intellettuale, fisico e morale costituisce l’essenza stessa della personalità. È quindi un uomo trasformato e in equilibrio con gli elementi che avrà l’opportunità di sviluppare le attività della città intesa come luogo della trasformazione e della ricerca. In questa visione trova ampio spazio il concetto di energia rinnovabile inserendosi in un processo di continua trasformazione sempre più coinvolgente. Saggezza, Forza, Bellezza (fig. 24), i tre pilastri all’interno del Tem-


pio, rappresentano i cardini dello sviluppo delle attività urbane, evidenziando qui il loro legame con i concetti di sostenibilità espressi dall’onu. La Saggezza rappresenta l’intelligenza che sa concepire, realizzare e rendere stabile il progetto nella sua interezza accentuandone il dinamismo collettivo, generatore di spazi e funzioni per una cultura multietnica e globale. La Forza è la capacità di concretizzare i concetti, di costruire controllando tutte le energie e di generare spazi tecnologicamente avanzati in cui sviluppare idee e ricerca. La Bellezza fa amare la vita trasformandone gli aspetti negativi, nutre la terra che genera fiori, verde, cibo e stabilisce un nuovo rapporto tra le molteplici funzioni del tessuto urbano. La struttura astrologica Le città che in passato hanno sempre avuto una fondazione astrologica, spesso in anticipo su quella urbanistica, hanno ormai completamente perso il rapporto con la volta celeste e le forze che ci governano. Spesso in passato i punti cardinali corrispondevano a uno degli elementi o a una data stagione. La suddivisione dello spazio in quattro quarti, o quartieri, determinava l’organizzazione della città, la sua suddivisione in caste e gli spazi di lavoro. La forma circolare o quadrata era dunque dettata dall’orientamento. Il Solstizio d’inverno, corrispondente al Nord, e l’Equinozio di primavera, corrispondente all’Est, formavano i quadranti ognuno dei quali comprendeva altre tre suddivisioni per un totale di 12 in corrispondenza con i segni zodiacali. Se la gamma umana è espressione delle influenze planetarie, rappresentate dal Settenario che contiene le fondamentali caratteristiche dei diversi individui - il sognatore, il pacifico, il realizzatore, il conquistatore, l’egoista, l’altruista e l’equilibrato - risulta evidente come i pianeti abbiano un’influenza non solo sull’uomo, ma su tutto il mondo ad esso collegato. Siti, paesaggi, architetture, perfino le occupazioni, risultano fare parte di questo antico linguaggio universale, alternativo a quello convenzionalmente adottato, di cui i segni zodiacali sono le parole. La struttura geometrica e le divine proporzioni Nella formazione del Massone la com-

fig.28

Massoneria

prensione e l’uso della geometria (fig. 25) lo accompagnano durante tutta la sua fase di ricerca “Azzurra, Rossa, Nera e Bianca”. La geometria filosofale diventa il compagno silenzioso e costruttivo per la comprensione di realtà che progressivamente si manifestano durante il suo percorso. La Sezione Aurea, il Rettangolo Aureo, il Triangolo Sublime, caratterizzati da quel numero d’oro così caro a Pitagora, rappresentano la base del costruire armonico. Oltre al pentagono, all’ottagono, al cerchio e alle altre molteplici figure geometriche, la sua applicazione diventa Arte reale della costruzione dove la semplicità dei numeri primi riesce a esprimere e riproporre le forme più complesse pensate dall’uomo e presenti in natura. “Du mâle et de la femme, fais-toi un cercle unique d’où surgit le carré aux côtés bien égaux. Con-

fig.29

struis-en un triangle, à son tour transformé en sphère toute ronde. La Pierre alors est née. Si ton esprit est lent à saisir ce mystère. Comprends l’œuvre du géomètre et tu sauras” (Michel Maier). Ritroviamo in questa spirale evolutiva le antiche piramidi, i templi greci, le cattedrali, l’arte 59


fig.30a

Massoneria

dei castelli, le proporzioni rinascimentali, il dinamismo del barocco, la ricchezza dell’ingegneria illuminista, le basi dell’architettura moderna e oggi le forme organiche delle future Eco–città e della nuova ingegneria. Una grande spirale dinamica come quella di Leonardo Fibonacci (1170, fig. 26 e 27), la cui “sequenza” scandisce la crescita di ogni sistema e forma, anticipa le proporzioni costruttive delle più complesse architetture attuali. La geometria e la matematica, basilari nella costruzione dell’urbanistica del XXI secolo, si integrano nei processi di calcolo strutturale e architettonico, nella progettazione della domanda energetica, nella conservazione e analisi delle risorse, formulando finalmente un unico linguaggio costruttivo. Esse colgono sempre di più gli aspetti infinitesimali di un codice alchemico universale riuscendo a collegare, come nello zodiaco, aspetti della realtà fino ad ora privi di connessione e verifica scientifica. Infatti più la ricerca scientifica si perfeziona più trovano conferma le intuizioni dell’Opera Massonica. La città come via iniziatica L’Apprendista L’Eco–città getta le basi per una nuova comunicazione e diventa il mezzo per superare con l’aiuto della collettività le difficoltà che il singolo non riesce ad affrontare. Diventa filtro tra il disordine delle periferie e uno spazio di nuova concezione, partecipativo. Il proporzionato rapporto tra natura e costruito che la contraddistingue è di supporto allo sviluppo delle peculiarità dei suoi abitanti median60

fig.30b

te un processo iniziatico in cui i tre viaggi dedicati all’aria, all’acqua e al fuoco trovano spazi e spunti per la riflessione in una quotidianità che segue ritmi diversi. L’uomo si sposta a piedi o con mezzi elettrici condivisi, poiché le distanze sono ottimizzate rispetto alla popolazione e alla produttività economica dell’intera città. Non più gestiti dalle macchine e con tempi difficilmente controllabili, i suoi spostamenti lo aiutano invece a gestire meglio il suo tempo, a comprendere il valore dell’Unità, il senso del Binario e del dualismo tra dare o ricevere, tra movimento e riposo e il valore del Ternario. La riconquista di un nuovo ruolo dei cinque sensi nell’approccio alla ricerca Il Compagno In questo (fig. 28) nuovo panorama urbano costruito armonicamente finalmente l’uomo riscopre se stesso, la sua fisiologia, la natura, la bellezza dell’architettura

e dei suoi stili, l’importanza delle forme in relazione con l’evoluzione interiore, le Arti Liberali pubblicamente codificate negli spazi cittadini, come quando la scrittura era padrona delle cattedrali e la pietra era incisa in modo ermetico, comprensibile solo per chi voleva capirne il linguaggio. Finalmente l’uomo riesce ad applicare queste nuove conoscenze a una nuova quotidianità. La città come via di perfezionamento Il Maestro L’Eco–città è nella sua definizione di principio: “una città costruita e sviluppata in equilibrio con l’ambiente naturale, è dotata di un chiaro limite, di un rapporto ottimale tra densità e spazi pubblici composta da una federazione organica di quartieri e distretti a destinazione mista”. L’obbiettivo principale è quello di creare un ambiente urbano che ottimizzi l’uso delle risorse naturali e riduca drasticamente l’inquinamento dell’aria e del paesaggio naturale. L’Eco–città permette ai suoi abitanti di vivere all’interno di un ambiente ad alta accessibilità pedonale. Un luogo dove efficacia economica, equità sociale e qualità ambientale interagiscono tra loro. La configurazione urbana risponde a una serie di indicatori di sviluppo che possono suddividersi in primari: fonti di inquinamento, qualità dell’aria, clima, verde, spazi pubblici e privati, integrazione, energia, gestione dell’acqua, riciclaggio rifiuti, qualità dell’architettura, gestione del cantiere, flessibilità, mobilità, e 21 strategici secondari fra cui: educazione e formazione, integrazione, partecipazione e solidarietà, che rappresentano fattori determinanti per lo sviluppo umano. Se uno degli scopi della Massoneria è quello di promuovere una società fatta di equità, tolleranza e fratellanza attraverso un sistema evolutivo di partecipazione di idee e condivisione globale, allora si può affermare che questa sia una città massonica e che la ricerca che è sottesa a questo concetto urbanistico sia parte integrante di un nuovo modo di immaginare il XXI secolo. Parallelamente scopriamo che alcuni Gradi di Perfezionamento riflettono in maniera sia allegorica sia concreta alcuni aspetti indispensabili per il corretto funzionamento del territorio urbano contribuendo a definirne in maniera più preci-


fig.31

Massoneria

sa la gestione e lo sviluppo. 5° grado. Come il Maestro Perfetto ha la prerogativa di studiare l’intelligenza umana relativa sia alla vita materiale sia a quella immateriale, così verranno previsti sia spazi adatti a favorire il dialogo e la socialità, sia spazi più appartati, intimi, per sviluppare riflessioni sugli elementi immateriali che compongono i differenti aspetti del linguaggio universale. La quadratura del cerchio caratteristica del grado è di organizzare lo spazio e renderlo conforme alle differenti forme che la natura manifesta in quel luogo e a mettere in relazione la materia con lo spirito. Il

rapporto con l’uomo è evidente. Gli antichi costruttori con l’aiuto dell’intuito, utilizzavano più codici e applicavano differenti sistemi di proporzioni. Queste direttrici consentiranno di strutturare le nuove geometrie urbane. 6° grado. Come il Segretario Intimo ha la prerogativa di ricercare e stimolare la curiosità e l’intelligenza in un continuo processo creativo, così le aree, gli spazi culturali e i laboratori urbani mobili permetteranno ai cittadini di esprimersi utilizzando un sistema globale di comunicazione di cui la rete sarà il principale veicolo.

9° grado. Come il Maestro o Cavaliere Eletto ha la prerogativa di difendere la verità, mantenere integra la propria libertà, combattere i dogmi e le forme di condizionamento, così il cittadino avrà il diritto di conoscere i dati energetici e produttivi della propria città tramite la corresponsabilità collettiva e un sistema trasparente di comunicazione dei dati. La città creerà così un autentico movimento sociale capace di difendere la comunità locale, tutelandone la qualità produttiva inserita in una logica di mercato ecosostenibile. 18° grado. Come il Cavaliere Rosa Croce 61


fig.32a

Massoneria

ha la prerogativa di studiare le leggi naturali e di ricercare l’emancipazione attraverso lo studio dello gnosticismo per esprimere una libera cultura in sintonia con la comprensione delle leggi naturali, così un’urbanistica fatta da spazi sensibili alle esigenze umane in cui il negativo e il positivo, i pieni e vuoti vengono programmati in maniera scientifica con proporzioni e distanze ottimizzate su criteri energetici, permettendo al cittadino di essere costantemente in contatto con tutti, crea uno stimolo perfetto per la comprensione dei meccanismi universali. Il diritto alla ricerca diventa allora valore primario per stimolare un dialogo di crescita. 28° grado. Come il Cavaliere del Sole ha la prerogativa di essere un grado filosofico, dedito allo studio delle leggi che rappresentano l’energia universale e i suoi meccanismi applicativi, il grado afferma che esistono 7 verità, così senz’altro tre di queste trovano applicazione nello sviluppo della città: 3° punto: i concetti che regolano l’armonia universale diventano modello di costruzione dello schema della città; 5° punto: il visibile è la manifestazione dell’invisibile, così spesso oggi tecnologia e architettura prendono forma grazie alla comprensione di modelli infinitamente piccoli presenti in organismi naturali; 7° punto: l’analogia è l’unica chiave di interpretazione della natura. Ciò che finora era solo intuizione diventa ora espressione architettonica e tecnologica condivisibile. 30° grado. Come il Grande Eletto Cavaliere Kadosch rappresenta lo studio e la comprensione delle metodologie finaliz62

zate al ripristino dell’armonia e dell’unità universale del rapporto costante tra terra e cielo, così occorre realizzare un sistema di costruzione e gestione della città integrato e dinamico che sia in grado di liberarci da qualsiasi forma di condizionamento temporale e spirituale. I temi rivelati nella Scala misteriosa (fig. 29) rappresentano in sequenza ascendente matematica, astronomia, fisica, fisiologia, psicologia, sociologia, e discendente sincerità, pazienza, coraggio, prudenza, giustizia, tolleranza e devozione. Ognuno di questi ideali gradini è un punto imprescindibile del processo progettuale e ha riflessi di enorme portata sugli individui: La matematica: studio dei fenomeni e delle metodologie di sviluppo alla base della costruzione; L’astronomia: conoscenza dei corpi celesti e delle forze cosmiche per il corretto orientamento degli spazi e dell’architettura inseriti in uno specifico contesto territoriale e climatico. La fisica: conoscenza dei materiali, delle forze e delle dinamiche costruttive e la loro applicazione e flessibilità; La chimica: analisi dei componenti che costituiscono la materia e l’energia, l’applicabilità al sistema energetico globale e la scelta dei materiali da costruzione; La fisiologia: studio e condivisione di un sistema unico della materia vivente nel rispetto dei criteri di uguaglianza e tolleranza; La psicologia: studio che aiuta il corretto sviluppo dell’uomo sia dal punto di vista intellettuale sia emotivo e volitivo; La sociologia: studio delle necessità che la città presenta nella sua evoluzione per elaborare un sistema di partecipazione globale condivisa in tutti i suoi aspetti sociali, energe-

tici, ambientali, economici e morali. La città diventa quindi un sistema dinamico in cui idee e correnti di pensiero trovano applicazione nel mondo civile per stimolare nuovi comportamenti e costruire una comunità di persone più sincere, pazienti, coraggiose, responsabilizzate verso una giustizia condivisa e trasparente, tolleranti e impegnate con maggior dedizione nello svolgimento delle proprie attività quotidiane. 31° grado. Come il Grande Ispettore Inquisitore Commendatore opera per organizzare una giustizia adeguata, imparziale ed indipendente, primo requisito di una società pluralista, così la struttura dell’Eco–città ne rappresenta il pertinente campo di applicazione. 32° grado. Come il Sublime Principe del Real Segreto (fig. 30) ha la finalità di istruire e illuminare gli uomini nelle scelte finalizzate a garantire felicità e libertà, così il modello di governance della città deve garantire equità e sviluppo sostenibile del territorio in uno spirito globale. Al di la dell’allegoria che lo schema dell’accampamento (fig. 31) vuole proporre, le 9 tende rappresentano spazi dove vengono appresi i fondamenti etici della struttura della città, le sue necessità presenti e future e il rapporto tra le sue componenti sociali. L’accampamento è modello per lo sviluppo di un sistema che sia garante dell’applicazione di insegnamenti e metodologie, delle libertà acquisite e dello sviluppo sostenibile. Nella geometria esterna dell’ennagono ritroviamo le 9 tende che, rifacentesi all’iter massonico, possono essere rappresentate nella realtà con 9 sistemi in relazione fra


loro in cui: 9. Sviluppare l’arte dell’associazionismo, raggruppare la diversità degli interessi (1°, 2°, 3°); 8. Sviluppare l’arte di educare se stessi prima di concorrere alla rigenerazione della società (4°, 5°); 7. Imparare a giudicare gli altri allo stesso modo in cui vorremmo essere giudicati (6°, 7°); 6. Sviluppare i valori del concetto di pace ed uguaglianza tra tutte le classi (8°); 5. Apprendere che tutto è passeggero mentre le istituzioni restano. Fondare la città su rapporti sociali ed etici (9°, 10°, 11°); 4. Apprendere che ogni programma di gestione deve essere sviluppato con una visione unitaria e globale (12°, 13°); 3. Diffondere con il massimo impegno le conoscenze acquisite nei settori sensibili della città (14°); 2. Preservare i sistemi dinamici di “produzione - sviluppo“, ricchezza produttiva della città, garantendone il corretto controllo gestionale (15°, 16°); 1. Organizzare e formare poli di ricerca dove elaborare programmi di sviluppo da riproporre all’intorno (17°, 18°). Gli stendardi rappresentano nella seconda cerchia le 5 idee guida su tematiche come: 5. Apprendere l’arte del governare (19°, 20°); 4. Apprendere l’arte della condivisione del lavoro tra tutte le parti sociali come condizione primaria di vita,

sviluppo e progresso. Parità distributiva delle attività produttrici (21°, 22°); 3. Preservare i valori individuali che rappresentano la libertà di espressione (23°, 24°, 25°); 2. Diffondere i principi di solidarietà e altruismo con azioni disinteressate e programmi partecipativi (26°, 27°, 28°); 1. Impedire la formazione di centri di potere e di false ideologie devianti (29°, 30°). 33° grado. Come il Sovrano Grande Ispettore Generale ha la prerogativa di garantire l’applicazione dei criteri analizzati precedentemente con saggezza ai fini di contribuire allo sviluppo di un progresso di tipo universale, così gli amministratori della città potranno garantire l’applicazione: 1) Delle leggi naturali. 2) Del rispetto dei valori umani. 3) Dei principi di equità. “In questo luogo dell’informazione lo spazio dei flussi creativi (fig. 32) stabilisce un collegamento elettronico tra i luoghi fisicamente separati, creando un network interattivo di relazione tra attività e individui a prescindere dallo specifico contesto di riferimento. Lo spazio fisico invece organizza le esperienze nei limiti della collocazione geografica. La città moderna viene quindi contemporaneamente strutturata e destrutturata da queste due logiche config.33

trapposte” (Manuel Castells). La questione dell’integrazione sociale torna oggi in primissimo piano come ai tempi dell’era industriale perché le città diventeranno sempre di più incubatori multietnici e multiculturali. In mancanza di una cultura unificante il problema

Massoneria non sarà la condivisione di un immaginario, ma la comunicazione tra i diversi sistemi di valori.Questa nuova forma di connessione che passa attraverso il sistema operativo dei flussi garantirà una maggiore cooperazione all’interno delle reti e della città stessa. Gli spazi così strettamente interconnessi saranno la fig.32c chiave di pianificazione della nuova urbanità il cui significato è espresso dal disegno allegorico dell’accampamento. Il fattore che decreterà il successo della Eco–città come modello culturale è un contesto spaziale in cui architettura, design urbano e informazione condivisa saranno correttamente integrati. Il sistema dei valori tematici proposti dal 32° grado ne garantisce la possibilità di applicazione. La città è finalmente definita, il processo formativo dell’“azzurro, del rosso, del nero e del bianco” si sono trasformati in un tempio molto più ampio, gettando le basi per la realizzazione concreta di una realtà territoriale multietnica. Gli antichi rituali sono resi attuali da una reale possibilità di applicazione per favorire nuovi sentimenti di solidarietà, applicare il concetto di fraternità e di tolleranza per formare nuovi cittadini verso un sentimento di dovere condiviso e proiettarli verso uno sviluppo consapevole e sostenibile del loro destino. La “Catena d’Unione” trova in questa fusione di spazi, idee, uomini e natura che interagiscono in un unico processo evolutivo non soltanto la sua più reale applicazione, ma anche un autentico modello di vita e lo schema per la costruzione di una nuova urbanistica e architettura intesa come una partitura “cosmica” (George Crumb Makrokosmos 1972, fig. 33) in cui ognuno può trovare lo spazio per rafforzare la libertà degli altri.

P.52-63: Per tutte le figure si veda il testo dell’articolo; la figura a pag. 61 è di Paolo Del Freo.

63


Filosof ia

Educare alla coscienza dei valori Gerardina Laudato

L’

atto dell’educare implica un processo ininterrotto ed attivo di confronto con la dimensione spirituale della coscienza. Alcuni versi, scritti da John Updike, possono esplicitare il senso di quello che andiamo dicendo: «Una terra senza coscienza è una terra vuota, una terra dannata, una terra deserta dove i bimbi hanno capelli rossi e ventri gonfi, dove gli adulti hanno sorrisi invidiosi e risate crudeli. Una coscienza è più indispensabile a una terra che non pozzi di petrolio, prestiti esteri e cooperative agricole; una coscienza raddrizza la schiena ai giovani e accende gli occhi delle donne». Bisogna, prima di tutto, imparare ad educare per insegnare ad educare ai valori della vita, ai valori della cultura della vita. Ove dovessero risultare prevalenti meccanismi educativi che conferiscono spessore alle culture delle ideologie, le società potranno solo aspettarsi di navigare senza punti di riferimento, dibattute fra onde di tempesta foriere di oscurità e di crisi. Nel secolo scorso Lewis Munford, scrivendo intorno alla condizione dell’uomo, si poneva una domanda; come, cioè, possa «prevalere la ragione se non si riesce ad insegnare agli uomini». In una società 64

Come può prevalere la ragione se non si riesce a insegnare agli uomini? Lewis Munford complessa, come la nostra, la crisi dell’uomo e delle società è crisi di identità ancor più lacerante perché alienata, ottenebrata dalla disperazione e dalla morte della coscienza. Bisognerà scavare in questa crisi alla ricerca del recupero della dimensione umana e reale dell’uomo. Bisognerà misurarsi con forze gigantesche e cieche per recuperare l’integrità dei significati di giustizia che sono vivi nella coscienza, anche nella coscienza della medesima alienazione. La crisi dell’uomo è anche ormeggiarsi all’inganno del presente spogliato del senso dei valori, all’hic et nunc vacillante nella corsa sfrenata verso l’ignoto che brucia i desideri , distrugge gli argini della charitas, uccide i ricordi. I valori della fede nella vita si configurano nei significati etici del tem-

po dell’uomo e si integrano nell’infinità dell’Essere. Educare significa, allora, fondare un progetto culturale su valori dal carattere universale: stabilire le coordinate ricercando una sorta di nuovo umanesimo capace di arginare i nihilismi, di trovare stimoli nella convivenza fatta di solidarietà, di esercizio del pensiero che organizza se stesso per illuminare orizzonti di senso gratificanti per la vita di ciascun essere sul pianeta. Educare non più retoricamente alla giustizia, ma alla coscienza dell’essere della vita della giustizia. Educare anche alla comprensione dei ruoli dell’essere dell’uomo. Ma bisognerà imparare ad educare per insegnare ad educare alla comprensione. Nello stesso scritto citato all’inizio, Munford afferma «più l’uomo comprende e più aumenta in lui il desiderio di comprendere». La comprensione apre all’empatia, misura la capacità di rispetto per l’altro, stabilisce i parametri dell’equità incanalando le forze titaniche nelle sponde della giustizia. In Das kapital Curzio Malaparte fa dire a Godson, in un dialogo con Marx: «L’uomo giusto deve avere il coraggio di stare dalla parte della carità più che dalla parte della giustizia». È ostico definire che cosa sia la giustizia. Ancora più ar-


Filosof ia

duo è riuscire a definire che cosa essa non sia. Se sia giusto vivere o sia giusto lasciarsi morire. Se la guerra sia un atto ingiusto o, piuttosto, l’atto finale di tante lotte per dare corpo e senso alla giustizia. Bisognerà trovare dei valori nei quali siano, fissati in modo inequivoco, sicuri punti di riferimento. Il travaglio della crisi dell’uomo, ferito dalla solitudine e che, pure, nella solitudine si rannicchia per restare solo e difendersi dal dolore di vivere con gli altri, ha bisogno di essere edulcorato attraverso la coscienza che, ficcando lo sguardo nei baratri dell’alienazione e dell’allontanamento, comprende il valore dell’identità e lo trasforma in cielo a cui ancorarsi. Solo attraverso la catarsi della comprensione si vince il silenzio del tempo e si riprende la rotta rafforzati contro le ansie del naufragio, si ricompongono in armonia i frammenti del pensiero sparpagliati dal dubbio orfano della ragione. I versi di Mumford dicevano «Una terra senza coscienza è una terra vuota…». Il dramma che, sempre, incombe sull’uomo, che, sempre, continua a creare straniamento, è scatenato dalla mancanza della dimensione della coscienza. B. Russel affermò: «Il nostro dramma presente è dovuto, più che a ogni altra cosa,

al fatto che abbiamo imparato a comprendere e a dominare, in proporzioni spaventose, le forze della natura fuori di noi, ma non quelle che si incarnano in noi stessi». Il punto essenziale cui ancorare i fondamenti di ogni prassi rimane l’apertura dell’uomo verso l’altro uomo. Su questa traccia sarà possibile portare alla luce la scoperta dell’uomo libero dalle scorie dei solipsismi disseccati dai deserti dell’angoscia o delle solitudini alimentate alle sorgenti degli egoismi della disperazione e dell’orgoglio. Bisognerà ricercare il senso dei nostri valori e, con essi, la speranza nelle coscienze. Solo così l’educazione alla vita può diventare educazione dell’uomo alla vita e, nello stesso tempo, ai significati della giustizia. Educare diventa recuperare l’uomo nella centralità del suo essere; diventa ripercorrere, seguendone le orme, l’esemplarità di figure come Ulisse ed Enea. Metafore dove la pietas del ritorno sa di bellezza e di morte, si purifica in speranza mai doma che è proiezione verso nuovi orizzonti. È il viaggio simbolico dell’iniziato che torna a rinnovarsi senza apparente termine del cammino esistenziale personale; un viaggio fatto di perenni rinascite fiorenti nel seno di consapevolez-

ze il cui senso più alto è dato dalla possibilità di tramutarsi in fasci di luce che rendono meno arduo il percorso e fortificano il coraggio dell’avventura umana. Molti anni fa mi capitò di leggere, presso i confini del parco del Gran Paradiso, una espressione che non ho mai cancellato dalla mente: «Ci vogliono molti fili d’erba per tessere un uomo». Il problema dell’uomo riemerge sul piano planetario e le varie ideologie si mostrano impotenti e prive di strumenti adeguati per tessere la tela dell’uomo nuovo. Alla pedagogia e all’educazione si impone la responsabilità di elaborazioni calibrate capaci di scommettere sulla qualità del futuro coniugando scienza e nuovo umanesimo, costruendo orizzonti di senso, liberando gli intelletti dalle forche dell’effimero, riconquistando in una parola il cuore dell’uomo incatenato alla sua fragilità, colto nel suo dolore e nelle sue esperienze. La civiltà può proiettarsi in futuri non disorientanti solo a condizione di preservare la memoria e, dal tronco antico, generare germogli roridi dei succhi di rinnovate civiltà. P.64-65: La Scuola di Atene, affresco di Raffaello Sanzio, 1510, Stanza della Segnatura, Roma.

65


L Massoneria

L’evoluzione dall’Apprendista: la ‘prova’ dell’Acqua Vincenzo Tartaglia

66

a reciprocità tra uomini e dèi rientra nell’equilibrio dell’universo, nelle leggi dell’evoluzione: la necessità che un dio imperfetto ha di scendere e “umanizzarsi” si armonizza con quella che l’uomo ha di salire e “divinizzarsi”. Se è dunque vero che l’Apprendista ha bisogno del Maestro Libero Muratore, dobbiamo riconoscere che quest’ultimo necessita a sua volta dell’Apprendista. Essi sono apparentemente e temporaneamente due esseri distinti; in realtà formano, con il Compagno che per così dire tiene il mezzo, un essere unico a immagine del Grande Architetto: dunque le separazioni e le distinzioni sono illusorie, quanto l’Unità è reale. Non intuire nel corpo dell’Apprendista la Luce e il Fuoco del Maestro Venerabile è come non ammettere in un individuo lo Spirito del Grande Architetto (Padre e Creatore) e riconoscerlo unicamente quale presenza corporea nello spazio e nel tempo! Immaginare inoltre l’Apprendista e il Compagno come “figure” massoniche staccate, soltanto perché nel Tempio appaiono due persone distinte, è, secondo la visione spirituale, come vedere l’Apprendista senza anima e il Compagno senza corpo! Sicché il progenitore terrestre è massonicamente un ternario: Apprendista (corpo), Compagno (anima), Maestro (Spirito). Tale ternario si perfezionerà e completerà in un quaternario, quando il Venerabile (SPIRITO Universale) scenderà per illuminarlo direttamente: grazie a questa discesa si accenderà l’io, la divina Luce che farà dell’uomo un individuo libero, autocosciente, responsabile, in grado di evolvere grazie alle proprie forze spirituali, lasciandosi guidare dall’interiore Splendore. In un’avanzata fase dell’Iniziazione un Fratello è in grado di accogliere, senza l’intermediazione dei Maestri, la Luce del Venerabile: è come se, all’anima di quel Fratello, il Sacro Libro rivelasse direttamente la Sapienza di Hiram. Da questo momento, per quanto possibile, quell’illuminato Massone affiderà la sua vita al vero Sole che ormai risplende in lui, nel centro del suo essere, così come il sole fisico risplende al centro dell’universo solare: quando il Sole troneggia nell’anima, allora il Fratello si sente li-


bero e forte, altrettanto però umile e benevolmente disposto verso gli altri. Nel senso strettamente massonico, i Fratelli in grado di ricevere l’Iniziazione non li troviamo tra gli Apprendisti, i quali non sono assai liberi e coscienti, bensì tra i Compagni: sono dunque questi i veri discepoli dei Maestri Liberi Muratori. Ma il Compagno, prima di essere tale, fu Apprendista … Possiamo da ciò capire tutta l’importanza del passaggio dal 1° al 2° Grado: gli Apprendisti vengono, infatti, soltanto “preparati” ad accogliere la divina Sapienza di Hiram; i Compagni sono invece già interiormente capaci di accoglierla. Sicché nell’Iniziazione massonica entrano in reciprocità, come accomunati in un unico destino, il Maestro e il Compagno, due entità che vivono in funzione di una Cosa Unica: la Sapienza Immortale, attraverso la quale le creature sono purificate e ricondotte al Grande Architetto (l’UNO), da Cui si erano allontanate, perdendo la divina Pace, in seguito al primo movimento cosmico (Compasso che si apre). A questa primordiale condizione un Fratello può dunque ritornare grazie alla Luce iniziatica, quindi spiritualizzandosi, cogliendo cioè l’essenzialità e l’unitarietà della sua natura, Spirito da Spirito: via via riavvicinandosi ad esso, il Libero Muratore supera i dualismi che lo rendono incostante e infelice quaggiù. Il riavvicinamento altresì impone, all’iniziando Fratello, ritmi evolutivi sempre più accelerati man mano che la sua anima ascende dalla sfera materiale dell’Apprendista a quella altamente spirituale del Maestro Libero Muratore, passando per la sfera intermedia, quella animica che è propria del Compagno. Il cammino iniziatico dell’Apprendista è in effetti più lento rispetto a quello del Compagno, dato che la velocità evolutiva del corpo fisico è essa stessa inferiore a quella dell’anima: il corpo è infatti legato alle leggi fisiche terrene; invece l’anima alle leggi animiche che regolano i sentimenti, le sensazioni, le emozioni, insomma la vita e l’evoluzione del Cuore (inteso massonicamente, non cioè come organo fisico). Per il passaggio dal 1° al 2° Grado, che permette di entrare nell’eletta schiera dei discepoli degni della Luce e capaci di sopportar-

la, è pertanto necessario che l’Apprendista aumenti la sua velocità evolutiva, quindi l’energia prodotta e sprigionata invisibilmente dal corpo vitale: deve insomma accrescere la forza e lo splendore dell’interiore Luce attraverso la “prova” dell’Acqua. Il superamento di questa prova impone il passaggio da un elemento (terra) per così dire rigido e apparentemente morto a un elemento (acqua) dinamico, sfuggente, mobile e vivente: si tratta in un certo senso di lasciare la “certezza” inerente alla solidità e all’immobilità per l’incertezza che invece accompagna la fluidità, la mobilità e l’inafferrabilità. Da un altro punto di vista, e interpretando il simbolismo connesso all’Iniziazione al Grado di Compagno d’Arte, il superamento della prova dell’Acqua si configura come un navigare dal Settentrione al Meridione del Tempio: il simbolico “traghettatore” è in questo caso il 2° Sorvegliante, il quale, pur essendo al Meridione, “presiede la Colonna del Settentrione”. Ciò allude alla capacità dello stesso 2° Sorvegliante di proiettare la Luce ed esercitare la Forza fino alla sponda opposta (diciamo così), tramite però il Tesoriere che a sua volta è infatti un Maestro Libero Muratore, un Dignitario, ideale raggio e messaggero del Venerabile. Sicché la Luce, non arrivando nel Settentrione direttamente dal 2° Sorvegliante bensì dal Tesoriere, è troppo flebile per poter accendere nell’Apprendista l’io “massonico”, il potenziale vaso dell’esoterica Sapienza di Hiram. La tenebrosità del Settentrione, che rispecchia la Figura materiale del Tesoriere “metallico”, non potrà fare insomma di un Apprendista un autentico Massone. Se ci atteniamo al Rituale, all’aspetto puramente simbolico dell’Iniziazione, un Fratello è da considerare un vero Libero Muratore (e avrebbe egli stesso ragione di ritenersi tale) soltanto dopo aver superato la prova dell’Acqua. Superando infatti questa prova egli passa dalle tenebre alla prima Alba: ossia dal Settentrione al Meridione del Tempio, tra Compagni d’Arte illuminati, deiformi, a immagine del Venerabile. È al Meridione che nel Fratello si accende l’io, ossia la Luce “entro di noi” irradiata direttamente e con forza dal 2° Sorvegliante: grazie appunto a questa

Massoneria

67


Massoneria

68

interiore Luce, un Apprendista (progenitore umano) diventa effettivamente un Compagno (vero uomo: Libero Muratore). In quanto Compagno, il Fratello è ormai in grado di pensare coscientemente e liberamente, diciamo massonicamente; sempre più coglierà l’affinità interiore con il 2° Sorvegliante; avvertirà prima o poi, durante lo spiritualizzante 5° anno muratorio, il desiderio crescente di tornare all’Io Celeste, nostro Grande Architetto. Con questo desiderio si accende, nell’anima di un Fratello, la prima Scintilla di religiosità: essendo affine al Sacro Fuoco (Amore divino) quella Scintilla tende infatti a tornare in alto per riabbracciare il suo Dio Creatore. Se Hiram fosse insensibile al richiamo dell’Eterno, non potrebbe conquistare l’Eternità; neppure rappresenterebbe un modello per l’iniziando Fratello. Invece Hiram è l’Eternità stessa che, assumendo una forma umana, veste gli illusori abiti della morte. In realtà è detto che la Sapienza di Hiram, dunque il suo Spirito, è immortale. Orbene ciò che è immortale è il vero e solo Reale: dunque la morte del corpo è un’illusione, quanto la sua resurrezione. Ciò che infatti è mutevole non è reale, anche se contiene invisibilmente la Realtà. Sappiamo che le possibilità dell’Apprendista sono limitate: è schiavo del corpo, della materia in genere; è nebuloso e non chiaro nella coscienza; non è ancora una individualità sufficientemente formata e responsabile, sicché dipende, per il suo percorso massonico (e non solo), dai Compagni e soprattutto dai Maestri. A causa di queste limitanti condizioni l’Apprendista non può e non deve ricevere la Sacra Luce, sfolgorata dai Maestri. La quale è invece sempre più sopportata e accolta dal Compagno d’Arte che trova, nella sua creatività, gli strumenti adatti per dare a quella Luce le migliori forme, le più belle e veritiere: insomma quelle che potremmo a ragione definire “massoniche”, in virtù dell’elevato contenuto umanitario. Intendo dire che l’Arte del Compagno non dev’essere fine a se stessa, quasi fosse uno sfogo istintivo e nulla più! Questo sfogo è pur ammissibile, ma in un artista profano, non già in un Artista secondo lo spirito massonico: questo spirito esige che l’Arte spiritualizzi

gli uomini, li renda più virtuosi, li elevi all’immortalità. Il Lavoro dei Maestri Muratori sul Compagno è particolarmente significativo verso la fine del 5° anno muratorio. In questa fase la necessità e il desiderio d’insegnare, da parte dei Maestri, incrociano la necessità e il desiderio che i Compagni hanno di apprendere. Se non sussistesse peraltro la reciprocità tra insegnamento e apprendimento, allora, sulla Terra, un maestro e un discepolo non s’incontrerebbero se non casualmente e, mi pare, inutilmente. Sennonché la necessità e il desiderio, accendendo nel maestro l’umiltà e nel discepolo il coraggio, fanno scoccare la scintilla dell’incontro… al quale seguirà il cammino iniziatico. Di certo un individuo non aspirerebbe all’ultraterreno, all’Ignoto, se si sentisse già libero ed appagato sulla Terra! In effetti la sua aspirazione è accesa dalla reminiscenza che l’anima serba dell’Origine, della perduta Pace: l’anima ricorda l’Uno, ma ne risente la lontananza. Appunto tramite l’Iniziazione essa è ricondotta alla Celeste Culla. Quel misterioso desiderio che si accende nell’uomo quando, in riva al mare, sogna di esplorare la lontana sponda, non nasce dal nulla: è suscitato, attraverso vie occulte, dalla duale Forza cosmica. Si tratta della Forza che inizialmente esce dall’Uno (come il Compasso esce dal Libro), ma che sulla Terra è suscettibile di attivarsi in maniera opposta, ossia come Riconversione e Riunione: in tal caso quella Forza, accendendo nell’anima eletta il ricordo del passato, la sospinge verso il Principio per riabbracciare fraternamente l’Uno dopo la Primordiale Separazione (apparente, poiché lo Spirito di ogni essere resta con Esso collegato). È come dire: la Forza che inizialmente proietta le anime fuori dall’Uno è la stessa Forza che, agendo questa volta al contrario, le ricondurrà ad Esso affinché godano finalmente dell’Eterna Pace. L’Apprendista che aspira al Trono del Venerabile è mosso da un sentimento, un impulso non dissimile da quello che spinge l’anima a tornare verso il Padre Celeste. L’anima inizia il Ritorno liberandosi della sua grezza natura in favore della natura divina, infusa di Luce; similmente l’Apprendista deve,


all’inizio, attivarsi e lavorare al fine di lasciare il Settentrione per il Meridione del Tempio. Questo spostamento, evocante la necessità del progenitore umano d’illuminarsi e perfezionarsi, è vissuto dall’anima dell’eletto Fratello come il passaggio da una sponda all’altra di una distesa di acqua! Un istinto inizialmente nebuloso, ma positivo e protettivo, sto per dire conservatore, sollecita l’anima a questa particolare traversata … verso un mondo migliore: una Sapienza antica, in essa dormente, a sua volta la guida. Perché in fondo camminiamo, avanziamo, affrontiamo pericoli non da poco? Dove crediamo di andare? A qual fine il Grande Architetto ci ha dotato delle gambe? Di certo affinché potessimo andarGli incontro, non però fisicamente ma avanzando nella conoscenza spirituale dell’Origine e di noi stessi: gli arti inferiori sono dunque al servizio dell’uomo; si lasciano umilmente comandare, dirigere dal Cuore e dalla Mente di lui … Per queste loro caratteristiche, quegli arti non sono davvero da considerare “inferiori”, al di sotto cioè delle più elevate facoltà umane! Anzi essi sopportano, reggono, conducono il corpo dell’uomo: rappresentano la base mobile della simbolica Piramide della Conoscenza, dell’Elevazione e della Vita! Le gambe sono pertanto esotericamente da vedere come l’espressione fisica dell’irrequietezza e della vitalità, dei desideri, sogni e ideali dell’individuo desideroso di colmare le proprie imperfezioni; quindi evocano l’innata inclinazione dell’anima a ricercare e imitare lo Spirito, suo Modello, Figura sintetica di ogni forma di vita. Possiamo anche proporre questa analogia: rispetto alla mente umana, le gambe rappresentano ciò che il Compasso è, simbolicamente, rispetto al Libro Sigillato. Il Compasso irradia e manifesta l’Occulta Luce del Grande Architetto; le gambe portano lontano e diffondono, per le contrade della Terra, quanto si cela all’interno degli uomini. È possibile che tu, pur essendo validamente assistito dallo stato di salute, ti senta impigrito a tal punto da non voler più camminare! Tale impedimento rivela la sfavorevole, infelice (temporanea?) tua condizione interiore: stai affogando nell’indifferenza e nella separati-

Massoneria

vità; rifiuti te stesso e il mondo; giri le spalle alla conoscenza, soffocando ogni forma di vita sotto un unico sentimento di distacco! La tua anima è come solidificata, aggrovigliata: non arde… non brilla… non ricorda! Si è in essa spento il Sacro Fuoco? No: è solo temporaneamente ricoperto dal terriccio! Esso, ora, arde e vive invisibilmente: dorme! Quando si sveglierà, riprenderai il Cammino: allora gusterai intimamente una migliore Alba, poiché l’anima tua sarà essa stessa rinata e diversa. Cosa faceva allora il Fuoco, mentre si nascondeva e ti sembrava inattivo e morto? Continuava a vivere entro di te come una Scintilla di cui, però, tu non avvertivi il vivificante Calore immateriale: quella Scintilla è il tuo Eterno Desiderio di vivere … O forse sei convinto che, stecchito il corpo, sia in te per sempre estinto il Desiderio di Vita? … Dovresti, follemente, crederti più forte dell’Amore Onnipotente, Fuoco Spirituale che vive infinitamente attraverso Fiamme e Scintille infinite! Come l’acqua vive tra cielo e Terra, così l’anima evolve tra Spirito e corpo. Analogamente il Compagno è tra il Maestro e l’Apprendista, donando all’uno e all’altro, dall’uno e dall’altro pure ricevendo secondo le mirabili e complesse

proprietà del Ternario. Avendo superato la “prova” dell’Acqua ed essendo stata purificata, l’anima del Fratello è ormai più leggera e più simile allo Spirito, anziché al corpo. Tale metamorfosi evoca la capacità dell’anima eletta di sviluppare la sua divina natura; di provare ripugnanza e non solo attrazione verso il corpo; altresì di tenersi lontana dalle basse necessità materiali, tendendo e uniformandosi invece allo Spirito; di poter viaggiare sempre più velocemente nello Spazio. Se infatti la velocità evolutiva del corpo (e della materia) è superata dall’anima, è pur vero che la velocità dell’anima è ben superata dallo Spirito. Dunque l’anima, raggiungendo una determinata velocità interiore, si libera dall’attrazione del corpo e vola nel “suo” spazio astrale (Camera di Compagno). A sua volta lo Spirito, liberandosi dall’attrazione dell’anima, riconquista finalmente il suo mondo. E come idealmente, nel Tempio, l’anima liberata entra nel Meridione (Purgatorio), così il libero Spirito entra in quello spazio che unisce Occidente e Oriente (Paradiso), prima d’immergersi temporaneamente (“Sospensione dei Lavori”) nella Notte Infinita, oltre ogni Apice, Cielo, Condizione, Coscienza, Volontà (Troni), Sapienza (Cherubini), Amore 69


Massoneria

70

(Serafini)… L’anima è dunque tanto più veloce, quanto più si allontana dalla Terra. Tuttavia la sua velocità di movimento e di purificazione è destinata a progredire fino a quando, essendo rientrata nello Spirito, assaporerà la Beatitudine dell’Immanenza: Velocità Estrema, ormai priva di movimento! In tale Condizione, il cosmico Cerchio è Quadrato; il movimento è Eterna Quiete: con questa divina Pace si conclude il percorso iniziatico tramite il quale l’Apprendista è ricondotto dalla Terra al Sole, attraverso la Luna. Metaforicamente diciamo: l’Apprendista ha i piedi per terra; il Compagno è sospeso (vapore…); il Maestro è nello Spazio, intorno al Sole; il Venerabile è fisso, nel centro del “suo” universo: è il Sole. Dov’è allora collocabile il Fratello Maestro delle Cerimonie? Ebbene la reale, eccelsa FIGURA che egli personifica supera invero ogni collocazione, poiché rappresenta lo Spirito di Dio Altissimo, il Suo “testimone” e messaggero: lo Spirito Divino non è nel Tutto, nell’illimitata Durata; è il Tutto e la Durata! Per quanto ti senta tu vinto e schiacciato dal male, debbono in te prevalere il sentimento e la convinzione che ogni vittoria è dell’Amore altruistico (Bene) e che al male sono soltanto concessi tempi limitati e briciole (anche se non sembra!). Quindi le sofferenze che i Fratelli patiscono lungo il cammino iniziatico hanno il principale scopo di purificarli e predisporli al pieno godimento della divina Pace. E del resto chi avanza, dalle tenebre della non-conoscenza verso la Sapienza dell’eterno Hiram, deve pur in qualche modo soffrire la potenza della sua Luce: infatti esattamente in questa sofferenza, è nascosta la vera Felicità. Potremmo anche dire: i dolori sono gli abiti effimeri della divina Beatitudine! Hiram si concede alla morte, perché la Sapienza non si oscuri nell’anima degli indegni! Ha sofferto per averla, come ogni iniziando deve soffrire … Come puoi dunque credere di avanzare verso la sua Luce ed abbracciare l’Eternità risparmiando a te stesso ogni pena e fatica? Sarebbe Hiram il tuo modello di gloria, ma per nulla di Lavoro?! Potrai considerarti un vero eletto soltanto quando vedrai ogni sofferenza come

una necessità e una prova: la prova del tuo amore verso l’Amore. Inizialmente guidato dai più evoluti Fratelli, l’Apprendista dovrà altresì via via mostrare di poter poggiare sulle proprie forze e capacità: in quale altra maniera farebbe emergere la vera identità, la spiritualità che gli occorre per ricevere degnamente la Luce richiesta? Egli supera invero la prova dell’Acqua, affidandosi sempre più (coscientemente) alle innate forze d’Amore: la sua anima deve insomma farsi alleata e “compagna”, non già avversaria delle anime consorelle. Se infatti nuoti o navighi su una distesa di acqua agitata, cosa ti è necessario fare se non seguire umilmente, pazientemente, saggiamente il suo capriccioso ondeggiare? Oppure credi che, in mezzo al mare, ti sia possibile contrastarlo arrogantemente, ciecamente aggredirlo? … Soccomberesti, Fratello! Una volta nell’acqua, devi umilmente essere “goccia” e unirti alle gocce: l’umiltà è pure il principio dell’affinità e della tolleranza. Se d’altra parte la Tolleranza, prima Virtù massonica, non si accenderà in te, come sarai pietra tra pietre, mattone tra mattoni? … In che modo riuscirai a lavorare massonicamente: umilmente, collettivamente, efficacemente? Superando la prova dell’Acqua è come se l’Apprendista approdasse su un luogo elevato, emergente, sicuro: diciamo un monte, particolarmente esposto all’Aria e alla Luce … Significa che l’Apprendista non è stato travolto dalla furia mortale dell’Acqua, ma ha saputo sfruttarne la positiva Forza: ossia la capacità di ascendere, “evaporare”, volgere al Cielo. Sicché l’Acqua iniziatica mostra una duplice natura: terrena e spaziale. La sua natura terrena, irrazionale e folle, freneticamente attiva e ciecamente travolgente, semina in abbondanza morte: in tal caso la forza, da essa sprigionata collabora con le leggi fisiche della distruzione. Invece la natura “ariosa”, immateriale, vorrei dire divinamente cosciente, tendente a evaporare, collabora con la Forza della Vita (Luce “intorno a noi”) e, sollevandoci dalla Terra, ci conduce all’Eternità. Quale è la vera finalità dell’Acqua immateriale, massonica e iniziatica? Deve spegnere il fuoco negativo dell’egoismo, affinché si risvegli e si attivi il


Fuoco d’Amore. Tutto ciò allude alla necessità, particolarmente avvertita dall’anima eletta, di resistere alle tentazioni della materia e di lasciarsi invece guidare dallo Spirito, verso l’alto. In realtà la forza fisica e la Forza iperfisica dell’Acqua, apparentemente contrastanti, concorrono unitamente alla purificazione e al perfezionamento dei mortali: il diminuire della forza determina l’accrescere della Forza. Sicché al tramontare della componente umana, corrisponde nell’anima l’albeggiare di divine facoltà. È come affermare: la morte dell’uomo è la vita di un dio. Poiché tra il corpo e l’anima è il “corpo animico” (Apprendista-Compagno: 3° anno muratorio), possiamo dire che un Fratello è sottoposto alla sua grezza natura materiale fino al 3° anno muratorio; oltre questa condizione comincia a prevalere la componente animica, ossia la vera natura del Compagno: in tal modo, la Luce vince e rischiara le tenebre. Per salvare l’umanità, il mitico Diluvio viene in soccorso di coloro che sono i più avanzati tra gli esseri primitivi, quindi suscettibili di svilupparsi e suscitare una migliore Razza umana. Massonicamente, ciò significa che gli Apprendisti più grezzi debbono attendere, prima di poter lasciare le tenebre per la Luce. Ai meno grezzi, più svegli e coscienti, i quali evolvono più velocemente, è invece data la possibilità di proseguire il cammino evolutivo passando dal Settentrione al Meridione del Tempio: da una sponda all’altra … Qui, ormai Compagno, illuminato e rivitalizzato dalla Luce del 2° Sorvegliante, un Fratello inizierà il volo verso il Cielo dei Costruttori divini. La Luce infatti dona, per l’Eternità, l’immortalità che il corpo toglie temporaneamente. Quando dunque pensiamo alla morte, pensiamo alla “polvere”, all’uomo fisico che non ha posto nel Cielo e resta alla Terra. Nell’Acqua del Diluvio ravvisiamo la divina Volontà che pervade la vita terrena, partecipando all’evoluzione dell’uomo: ciò, al fine di renderlo degno dell’immortalità. Tramite quindi l’Acqua, discendente-ascendente, la Terra entra essa stessa in rapporto con le Forze ultraterrene: in questo modo gli elementi naturali vengono placati, e le loro

Massoneria

forze mortali messe al servizio dell’Eterno. Il vedere o non vedere, nell’evoluzione della Terra, una presenza divina ordinatrice e preservatrice, distingue il vero dal falso eletto Fratello. Secondo gli esoterici insegnamenti della Scienza Muratoria, possiamo affermare che nell’Apprendista tale “visione” è ancora crepuscolare e debole, inizialmente; nondimeno, essendo un eletto, è grazie a questa pur annebbiata facoltà che egli potrà, convenientemente preparato, intraprendere il cammino iniziatico. Invece nel Compagno d’Arte la divina presenza è avvertita per effetto di un’Intuizione chiara, cosciente e penetrante, la quale permetterà, via via illuminandosi, non soltanto di distinguere il bene dal male ma di percepire sempre più il Fuoco dell’Amore in ogni cosa, persino nel male! Avendo superato la prova dell’Acqua, il Fratello è ormai cosciente di essere un’anima nell’Anima: è dunque meritevole di lavorare massonicamente, tra i veri iniziandi destinati ad accogliere la divina Sapienza di Hiram. Non entriamo infatti degnamente nel Tempio massonico e non apparteniamo realmente agli eletti solo in quanto siamo gusci vuoti, materia e nulla più! Apparteniamo degnamente alla Famiglia, solamente se consideriamo l’uomo reale e non illusorio: non quindi l’uomo che sia in qualche modo speciale per il

suo corpo apparente, bensì l’entità spirituale-animica che abita nello Spazio invisibile. Solo fermamente credendo nell’ultraterreno, nella sopravvivenza e nell’oltretomba il Fratello si preoccuperà di vivere massonicamente, secondo Virtù, e considererà, con crescente convincimento, non più di un necessario passaggio questa tormentata vita terrena … Bisogna soffrire sulla Terra per gustare massimamente la Pace e la Felicità nell’Eterno Cielo, vera culla dell’anima nostra. Non riguardando allora te stesso come un’anima, un’entità discesa dall’Eterno e destinata all’Eternità, in qual modo credi di meritare, nel Tempio, un posto che non sia il tenebroso Settentrione? Nel Meridione è invece il nostro “Salvatore” illuminato: il 2° Sorvegliante che ci conduce idealmente verso il suo “tronetto”, così come Noè guida i prescelti verso le alture dell’Ararat. Troppi Massoni mostrano di non aver superato la “prova” dell’Acqua, di essere anzi ancora grezzi e legati alle cose materiali, alle apparenze, alle illusioni! Essi dormono di fronte agli eterni valori: nell’anima e nello Spirito sono mai entrati nel Tempio? … Eppure, Fratello, forse ti toccherà condurre, essendo tu stesso cieco nell’anima, i “bendati” che hanno chiesto e ancora aspettano l’Illuminazione! P.66-71: Acqua, 2013, collez. priv.

71


Simbolismo

Il labirinto Archetipo e segno di un percorso interiore Carlo Moscardi

72


Simbolismo

U

mberto Eco, nella sua prefazione all’interessante libro sui labirinti scritto da Paolo Santarcangeli¹ scrive che: “Un’esposizione sul labirinto non può che essere labirintica perché, al suo ingresso, implica numerosi livelli di lettura e di interpretazione. Aggiunge che:“essa è, come nel labirinto stesso, semplice da cominciare, così come è facile addentrarsi nell’argomento, ma dal quale è difficile uscirne con la convinzione di averlo trattato in modo perlomeno sufficiente”. Dunque un argomento arduo da trattare e da esporre per il forte richiamo che il mito labirintico ha sui tantissimi recessi, infinite emozioni e sulle più profonde e nascoste vie della psiche umana. Per questo ho preferito distinguere la parte principalmente architettonica, storica e religiosa dall’aspetto che riguarda la mente e il suo accostarsi al significato del simbolo stesso. Cenni storici Il labirinto, considerato nella sua edificazione architettonica, come nella sua rappresentazione pavimentale nelle chiese o nei disegni degli antichi manoscritti, può essere considerato di due tipi principali. Il primo è quello univiario, che ha un solo percorso, dall’esterno verso il centro e viceversa. In questo non ci sono

dubbi sulla progressione da fare: la difficoltà è data dalla lunghezza e dalle continue svolte che incidono sulla volontà del viandante nel proseguire e raggiungerne la fine. È quello rappresentato nelle chiese perché uno era il cammino del pellegrino verso un traguardo ben determinato e uno, rigorosamente uno, il percorso religioso del fedele per la salvezza dell’anima, ben indicato dalla gerarchia ecclesiastica. Il secondo tipo di labirinto è quello pluriviario che impone delle scelte perché presenta bivi, fughe e percorsi secondari. Ogni scelta sbagliata può portare a ripercorrere i passi già fatti oppure a un punto morto. Solo uno dei tanti corridoi e solo scelte giuste permettono di arrivare al

centro e a un preciso percorso a ritroso verso l’uscita all’aperto. Questo labirinto può svolgersi su un solo piano oppure su più piani, come lo sono i corridoi nelle piramidi egiziane, tesi a sviare il profanatore dalla camera del faraone. Sotto il profilo storico, il simbolo del labirinto appartiene all’uomo fino dall’alba dei tempi, archetipo segno dell’umanità, compreso, e compreso nello stesso modo, da tutte le popolazioni, qualsiasi sia stata e sia attualmente la loro cultura e civilizzazione. Così come archetipi sono i due triangoli contrapposti e sovrapposti, segno dell’equilibrio fra principio maschile e femminile, nell’uomo come nel cosmo, così come lo è la losanga², primigenio riferimento all’organo genitale 73


Simbolismo

74


femminile in omaggio alla Grande Dea, la Dea Madre e, come la spirale, forza generatrice di vita. Il labirinto è stato nel tempo disegnato, dipinto, inciso, edificato. Nei manoscritti ornati da disegni labirintici è chiaramente mostrata nei rigiri la preferenza per il sacro numero sette come vediamo nella successione dei cerchi che segue lo schema inciso sulle monete di Cnosso. È comparso in opere letterarie, proprio perché appartiene al nostro intimo sentire da sempre. Fra i tanti esempi, ricordo il più illustre: la Divina Commedia, che non è altro che una lunga peregrinazione del poeta che parte dalla Damnatio, passa alla Purgatio per arrivare, dopo un lungo cammino, al Summum Bonum. Ma l’intera letteratura medievale è piena di allegorie, di percorsi intricati e strade seminate d’inganni, così come di castelli fatati con lunga successione di sale dove è facile perdere il cammino. Anche la ‘cerca’ del Graal da parte dei Cavalieri della Tavola Rotonda può essere interpretata come percorso labirintico, cioè cammino di iniziazione. Un segno comune, dunque, e se non fosse così non si spiegherebbe la sua presenza in alcuni sigilli egizi, sulle rammentate monete di Cnosso, sulle tavole di argilla babilonesi, sulle incisioni rupestri di Old Bewych in Inghilterra, in Irlanda e Cornovaglia, in Messico e in India. Appare fin dai tempi antichi come disposizione di ciottoli sulle spiagge e scogliere del Nord Europa, dove è indicato come ‘cammino di Troia’³. In Italia sono conosciute le incisioni graffite nelle grotte della Val Camonica, dove, fra migliaia di altri segni, quello del labirinto è ben evidenziato. Molto conosciuta è la pittura nella casa detta appunto ‘del labirinto’ a Pompei, come i tanti pavimenti a mosaico delle ville romane. L’etnologo C. Shuster4 ha dimostrato che questo segno fece la sua prima comparsa in Europa sui petroglifi nel secondo millennio a. C. e che da qui si spostò verso Oriente, dal Caucaso all’India e Indonesia, per proseguire in Nuova Guinea, Melanesia e Polinesia. Esso fa parte delle tradizioni sacrali indiane degli stati occidentali degli USA e del nord Messico, principalmente per quelle dedicate ai riti di iniziazione all’età adulta. Si ha quindi un segno che non è limitato a un mito dell’antichità, ma

Simbolismo

qualcosa che indica, appunto ‘significa’, un messaggio a chi lo sa interpretare. Ciò fin dall’inizio della nostra civiltà. Il Rito del Sacrificio Nel Medioevo, principalmente nel XII/ XIII secolo, il labirinto è apparso dipinto o pavimentato nelle chiese. Uno per tutti: quello splendido della cattedrale di Chartres. Esso acquista la funzione di richiamo a un viaggio di pentimento, di purificazione sia spirituale che fisica, dato che a quel tempo i due piani, lo spirituale e il fisico, andavano in stretta simbiosi. Simbolo del faticoso e pericoloso viaggio per antonomasia, cioè del pellegrinaggio verso luoghi santi, sacrificio che dava la possibilità, esso solo, di cancellare i peccati e, insieme, anche le affezioni fisiche. Ogni labirinto ha un suo centro, difficile ma insieme desiderabile, per raggiungere il quale si impone un cammino che non deve essere facile perché rappresenta il progresso spirituale del penitente. Non si avanza se non con fatica e sacrifici e se il pellegrinaggio ai luoghi santi è difficile e pericoloso, l’incedere sul tracciato nella chiesa deve essere almeno lungo e penoso, in ginocchio, accompagnato dal recitare di salmi, giaculatorie, petto battuto per evidenziare il rimorso per la vita trascorsa, fino a raggiungere il centro, la Gerusalemme Celeste. Il richiamo al sacrificio come espiazione è qui particolarmente eviden-

te. Il labirinto non era soltanto simbolo del pellegrinaggio, ma anche epifania del continuo travagliare di ognuno nella quotidianità e che solo l’arrivo al centro, la morte fisica, ne consentiva la liberazione. Se nel centro del labirinto minoico stava la bestia e la difficoltà non era l’entrarci e il proseguire, ma il conflitto e l’uscita, nel centro di quello gotico stava il fine, il traguardo, la Gerusalemme, che per l’uomo medievale rappresentava la città religioso-mistica per eccellenza. Gerusalemme, santa e sacrale, centro dell’opera del Redentore, meta ultima del pellegrinaggio in Terra Santa e simbolo tangibile della Città Celeste, la Perfetta, più volte rappresentata in pitture e miniature nella sua idealizzazione. Due peregrinazioni ugualmente difficili e pericolose: quella fisica del viaggio fino alla città terrena e quella spirituale del cammino dell’anima, disseminato di tribolazioni e tentazioni, di fallimenti e vittorie fino a raggiungere, con la Grazia, la Gerusalemme ideale, la Pura, la Celeste. Molti labirinti che adornavano le chiese medievali sono andati distrutti, per incuria o integralismo religioso. Pochissimi ne rimangono in Italia, quasi nessuno in Germania e Inghilterra. Ne sono rimasti in numero maggiore, e splendidi, nelle cattedrali francesi, come quello di Chartres sopra ricordato, di Amiens, di Reims e di Saint Omer, tanto per ricor75


Simbolismo

dare i più famosi, ma anche altre piccole antiche chiese possono vantarne uno. L’uso di decorare le chiese con il segno del labirinto decadde, fu dimenticato. Cambiò veste e luogo spostandosi nell’architettura del giardino delle ville patrizie, perdendo la significazione di sacrificio espiatorio, mantenendo in alcuni casi quello di percorso iniziatico, come nel caso di quello di Bomarzo, ma nella gran parte mantenendo solo l’aspetto ludico di abbellimento del parco della villa, funzionale allo stupore degli ospiti e a favorire con l’intrico dei vialetti e siepi lo svolgersi di feste e galanti intrecci amorosi. Il suo centro, decaduto da traguardo di un cammino fisico e spirituale, diffici76

le e penoso, a meta di arrivo dopo svaghi profani. Cosa è rimasto oggi del segno del labirinto? Pochissimo o nulla nella decorazione di luoghi sacri dove ha perso la sua identificazione di percorso salvifico dell’anima, nulla nell’edificazione di percorsi ludici nei giardini moderni. Ha perso la sua contingenza temporale per riacquistare il suo significato arcaico di ricerca e iniziazione interiore. Che sia un viaggio pio, geografico e fisico, oppure una meditazione e un percorso interiore, esso non può essere dimenticato perché fa parte del più profondo inconscio dell’umanità. Il Viaggio e la Prova Storicamente è possibile che il termine

‘labirinto’ abbia la sua origine nella parola labrys che indica l’ascia bipenne, insegna e attributo del minos (re) di Creta. Il mito di Teseo e il Minotauro è molto conosciuto, quindi non è necessario qui ricordarlo. Su riti e credenze religiose particolari dell’isola si è innestata la leggenda dell’eroe greco che uccide il mostro, a significare la caduta del regno cretese per l’opera dei popoli della penisola ellenica che andavano estendendo i loro commerci e il dominio sul mare. Esso ha comunque mantenuto profondi legami con i rituali iniziatici precedenti e arcaici significati che, a un’attenta lettura, appaiono evidenti e mostrano legami, parentele e similitudini con quelle che da sem-


pre sono state le cerimonie di iniziazione o di ‘passaggio’. Come nell’iniziazione massonica, Teseo, l’eroe che entra nel labirinto costruito da Dedalo, è l’iniziando ‘qualificato’5 alla porta del suo cammino interiore, tortuoso e nascosto. Anche se difficile, il cammino è indicato, ma la difficoltà è raggiungere l’intimo centro per eliminare la materialità e tornare, cambiati, alla luce del sole. Non è tanto l’entrare e arrivare al centro, quanto trovare il lato oscuro e prenderne coscienza per poterlo vincere. Questo è il compito, questa la battaglia. Per vincerla non basta lo studio, la logica, la determinazione. Neanche la forza interiore bastano a indicare l’uscita. Queste prerogative possono abbattere la materialità, ma per rivedere ‘il sole e le altre stelle’ è necessaria la sottile preziosa intuizione femminile, il filo dall’innamorata Ariadne. Intuizione così preziosa che una volta abbandonata, come la principessa su un’isola lontana, non potrà evitare di cadere nell’oblio della mente: la tragedia delle vele nere e la morte di Egeo. Anche qui, come nella Divina Commedia, i momenti sono tre o, se si preferisce, tre i gradi di iniziazione successiva: la Purgazione (il cammino interiore), l’Illuminazione (il prevalere sul lato oscuro, il trovare la pietra nascosta), la Conquista della Luce (l’uscita). Non sarà però possibile arrivare alla vera Luce se non si tocca il centro, la piena coscienza del valore iniziatico del viaggio. Il centro del labirinto porta sempre a una mutazione del nostro senso della vita e della morte, al passaggio da una vita ad un’altra, dal mondo delle apparenze a quello dell’essenzialità, dalla carnalità bestiale all’umanità spiritualizzata6. Scrive René Guénon7 che il termine ‘qualificato’, per chi si appresta a varcare la soglia della Loggia è molto importante perché indica una selezione, un’ammissione all’iniziazione e l’accettazione del candidato al volerla fare. Sotto questo aspetto il percorso del labirinto non è altro che una rappresentazione simbolica delle prove iniziatiche. È facile pensare che, quando nell’antichità esso serviva effettivamente come mezzo di accesso a certi santuari, poteva essere disposto in modo che i riti e le prove fossero compiuti nel suo stesso percorso. Il viaggio

Simbolismo

come prova, concetto che la Massoneria ha mantenuto nei suoi Rituali. Il labirinto diviene segno concreto dei difficili passaggi che bisogna superare per penetrare in un mondo diverso, in uno stato diverso, arrivare a una nuova nascita. Appare quale segno segreto e misterioso nelle epoche maggiormente influenzate da un sentimento mistico-religioso, tra i popoli primitivi, nella civiltà minoica, nel Medioevo cristiano, diviene dissacrato ad abbellimento di giardini quando si è maggiormente rivolti al quotidiano. Perché il Minotauro è mezzo uomo e mezzo toro? Perché Teseo potrà vincer-

lo solo e solo se si identificherà con lui, solo se riuscirà a rendersi conto della propria materialità per poterla superare. Se nell’antico mito c’è una netta separazione fra l’eroe e il mostro per renderne più facile la lettura e la comprensione, in realtà c’è qualcosa di umano anche nell’animale, qualcosa di spirituale nella materialità di chi si presenta alla soglia. Questo è l’iniziando ed è ciò che lo rende qualificato per essere scelto alla cerimonia di iniziazione. È la ragione che lo spinge ad accettare di subirla. Ogni iniziando è un Teseo che deve uccidere il proprio Minotauro. L’uomo bestia, nell’oscurità, vuole erompere dal suo stato chiuso in se stes77


Simbolismo

so, uscire dalla sua essenza animale, dalle terribili strettezze della vita istintiva, bramoso di luce. Il mito non parla della sua lotta con Teseo, parla della sua morte. E non poteva essere altro l’esito della lotta, perché solo la morte può cancellare la parte taurina per dare completa identità umana. Negli antichi riti l’uccisore non solo toglieva la vita alla vittima, ma anche ne acquistava le peculiarità e le potenzialità. Per questo, in fondo colui che esce vittorioso dal labirinto non è solo l’iniziato Teseo, ma è, con lui, il simbolo dell’intera umanità liberata. Le vele nere del suo navigare nel ritorno forse indicano la morte dell’uomo e la nascita dell’iniziato. Egeo, che come padre rappresentava il passato, non poteva sopravvivere all’avvenuta mutazione. Il labirinto può avere un cammino centripeto, dall’esterno verso l’interno, conquista di un centro nascosto, come nelle rappresentazioni medievali, ma anche centrifugo con il ritorno alla luce e conquista di nuovi orizzonti come in quello minoico. Passare la soglia, iniziare il viaggio, è collocarsi in una solitudine volontaria, accettare i rigiri e i rigori ignoti del proprio inconscio. È voler toccare la meta fidando solo nelle proprie forze, con la speranza di po78

ter stringere fra le dita il prezioso filo di Ariadne. Ma, come dice Friedrich Hoelderlin, poeta tedesco, il pellegrino sarà in solitudine, non abbandonato. Un isolamento cercato, voluto e scelto quale via per spiegare a se stessi il proprio mistero, nel corso di una peregrinazione faticosa e impedita, compiuta con la massima attenzione, per arrivare alla liberazione. L’aver raggiunto il centro, per illuminazione iniziatica, per meditazione religiosa, averlo fatto anche per un attimo solo, cambia la coscienza per sempre8. Il Segno nella Massoneria Qual è la forma simbolica di labirinto che meglio si adatta a una rappresentazione della via iniziatica massonica? Se nel labirinto della cattedrale di Chartres le figure che vi erano incise sono andate perdute, rimanendo solo il fiore nel centro, in quello di Reims sono presenti, intagliati agli angoli, angeli di marmo, una figura di vescovo e tre maestri architetti con in mano ciascuno un regolo, una squadra e un compasso con livella. Nel labirinto di Saint Omer i maestri costruttori intagliati agli angoli sono quattro, con in mano gli utensili per la progettazione e la costruzione della chiesa. Al centro c’è la figura del vescovo com-

mittente. Queste figure incise portano a un sicuro collegamento con gli usi e i riti dei costruttori delle grandi cattedrali, i liberi muratori del tempo. Non credo però che la rappresentazione del labirinto nelle cattedrali, né di quello minoico così come è stato idealizzato, sia quella giusta. Un’unica via, pericolosa e faticosa, ma che non pone dubbi a chi la percorre. È la forma prediletta dalla Chiesa trionfante per la quale solo un percorso, seppure difficile, è quello giusto. Al di fuori non c’è possibilità di redenzione e salvezza. Più adatto alla rappresentazione e identificazione della via massonica è il labirinto pluriviario. Un percorso che solleva dubbi, impone scelte a chi si presenta alla sua porta, anche se una sola sarà la scelta giusta per poter fruttuosamente proseguire. Non solo difficoltà nel procedere, ma anche responsabilità nello scegliere. Maggiore impegno e forza nel proseguire, ma anche maggiore lucidità nelle decisioni. Rispetto alla via iniziatica delle cattedrali, questo labirinto aggiunge alla consapevolezza del fratello Libero Muratore, che idealmente si muove nel suo percorso, la coscienza di essere soggetto a errare, di dover recuperare gli errori fatti e di non ripeterli. La coscienza della possibilità di errore accresce in fin dei conti la sua libertà morale, etica e spirituale. Solo chi può sbagliare, ma ha la forza e la coscienza di riconoscere gli errori commessi perché ha toccato il centro del percorso, chi non ha altra guida che il suo essere iniziato, la sua ispirazione, questi può dirsi veramente e completamente libero. Scomparsi i percorsi iniziatici degli antichi santuari, persa la valenza salvifica di quei pochi rimasti nelle chiese, per il fratello Libero Muratore il labirinto è il mondo intero. E lì che deve muoversi e operare. Se in antico il percorrerlo era un’istanza morale, oggi non è più solo quella. Il labirinto mondano impone sì una ricerca di perfezionamento interiore ma a questa si aggiunge l’esigenza di un confronto con le nuove realtà sociali, con le sfide che giornalmente si pongono all’attenzione del fratello, con la necessità di operare in modo etico e sociale nella propria sfera di azione. Faticosamente deve proseguire per la strada che lui ha scelto, senza tuttavia trascurare di raggiungere il centro, la Loggia, dove rigenerarsi in una nuova battaglia con la


Simbolismo

bestia, per essere pronto a riuscirne vittorioso. Il pavimento massonico, nella sua alternanza bianca e nera, può essere pensato come estrema sintesi e astratta rappresentazione di un percorso labirintico, forse l’ultimo veramente iniziatico rimasto. Se il fedele medievale si muoveva su un’unica via segnata, circondato dagli insegnamenti religiosi, il Libero Muratore cammina sul pavimento del Tempio, rappresentazione del mondo, che a ogni passo chiede una scelta e solo un procedere rituale, con l’attenzione e lo studio ai segni presenti nella Loggia, lo rende consapevole del viaggio intrapreso e al tempo stesso fa di lui il massimo simbolo dell’iniziazione massonica. Conclusione È possibile concludere in modo definitivo uno studio sul labirinto? Io non credo. Come scritto all’inizio, l’argomento è troppo vasto e come il labirinto stesso pieno di trabocchetti, temi laterali, assunti che confermano e altri che contra-

stano quanto appena scritto. È vero che è dentro di noi, nella psiche di ognuno dall’alba dei tempi, come è vero che moltissime, una per ogni nato, sono state le strade tentate per esorcizzare la bestia. Da qui la difficoltà a trarne ferme indicazioni, stabili linee guida, perché il rischio rilevante è sempre quello di ritrovarsi in un vicolo cieco. Il mito era patrimonio delle antiche scuole iniziatiche. La Massoneria che ne è diretta erede non poteva trascurare questo aspetto, anzi ne ha fatto principale insegnamento per i Liberi Muratori. La ricerca della perfezione è il cammino nel proprio labirinto interiore, cammino difficile e impegnativo. Ma se fosse facile, che soddisfazione sarebbe? _______________

smus, Schuster Archivieren, Basel Museum der Kulturen. 5 - René Guénon, Simboli Fondamentali della Scienza Sacra. 6 - Paolo Santarcangeli, op. cit. 7 - René Guénon, op. cit. 8 - Paolo Santarcangeli, op. cit. Bibliografia: Marcel Brion, Hoffmannsthal e l’esperienza del labirinto, Cahiers du Sud. René Guénon, Simboli fondamentali della scienza sacra, Milano. Paolo Santarcangeli, Il libro dei labirinti Roland Bechmann, Le radici delle Cattedrali, Milano. Robert Lomas, Il Segreto dei Massoni, Milano.

Note: 1 – Paolo Santarcangeli, Il Libro dei labirinti. 2 – Robert Lomas, Il Segreto dei Massoni. 3 – Paolo Santarcangeli, op. cit. 4 - Carl Schuster (1904 – 1969), Sozial Symboli-

P.72-79: Labirinti; p.76: Minotauro e testa taurina, Museo di Atene; p.76 in alto a destra: Scultura da Pompei; p.77: Bipenne rituale da Cnosso, Creta e, in basso, moneta cretese; p.79: Londra, pavimento di un Tempio massonico la foto a pag. 75 è di Paolo Del Freo.

79


5 Storia

Guardiamo la storia universale da Guardia Piemontese Aldo A. Mola 80

giugno 1561. Due Italie. Quel giorno, a Cavour, due passi da Pinerolo, che era in mano ai francesi, come la stessa Torino, Savigliano, e altre piazzeforti del Piemonte, venne fissata la “convenzione” tra il Duca di Savoia, Emanuele Filiberto, e la “chiesa” valdese. Quell’intesa ebbe molti padri. Vi concorsero la moglie del duca, Margherita di Valois, e Filippo di Racconigi, non ostili a Evangelici e Riformati. Non solo. Dal 1548 Francesco I di Francia si era impadronito del Marchesato di Saluzzo e teneva in pugno i valichi alpini più transitabili; oltralpe era in corso la guerra tra cattolici e ugonotti, ancora ad armi pari. Infine, malgrado la vocazione pacifista, i valdesi si difendevano valorosamente contro la repressione armata ordinata dal Duca per compiacere il re di Spagna, Filippo II, e il papa. Prometteva persino di liberare Ginevra dai seguaci di Giovanni Calvino, fautore della Riforma Evangelica, che contava su vasto seguito in Europa, inclusa l’Inghilterra. Dunque Emanuele Filiberto, “Testa di Ferro”, ebbe buoni motivi per “perdonare” ai valdesi “le cose commesse” e lasciarli liberi di professare la loro confessione in luoghi circoscritti, con assoluto divieto di fare proselitismo oltre gli steccati concessi. Tolleranza calcolata: per convenzione, forse, più che per convinzione. Può sembrare poco. Però quel 5 giugno 1561 il Ducato di Savoia risultò un’eccezione, quando in tutt’Europa i sudditi dovevano praticare la religione del loro sovrano, pena la morte o l’esilio. Filippo II di Spagna stava imponendo la “purezza” di sangue e di fede: false conversioni di moriscos (islamici) e marranos (ebrei), essendo impossibile quella etnica dopo sette secoli di dominio “arabo”. In quella stessa Europa i Principi fautori della Riforma di Martin Lutero sterminavano i cattolici mentre papisti e luterani annientarono gli anabattisti. Era un’Europa difficile, come imparò a proprie spese lo spagnolo Michele Serveto, che dopo varie peregrinazioni si rifugiò nella Ginevra di Giovanni Calvino ma vi venne condannato per eresia (negava la Trinità e il battesimo) e fu arso vivo nel 1553. Il 5 giugno 1561 almeno nel Ducato di Savoia la storia voltò pagina. Poco prima del ritorno di Testa di Ferro nei


domini della sua Casa, per effetto della pace di Cateau Cambrésis (1559), Torino visse la tragedia che è ricordata dalla lapide posta dal Comune il 21 ottobre 2000 sul selciato di Piazza Castello, “in memoria del pastore valdese Goffredo Varaglia, impiccato e arso sul rogo il 29 marzo 1558”. Qual era la sua colpa? Originario di Busca (1507?), sacerdote a ventun anni, mandato a predicare ai valdesi, anziché convertirli, ne rimase affascinato. Inquisito a Roma dal 1552, raggiunta Ginevra e nominato predicatore, nel 1557 visitò Busca ma mentre rientrava in Val d’Angrogna, fortilizio valdese, fu catturato a Barge e condannato al rogo. Perdonò al boia che stava per appiccare la pira. Pietoso, l’esecutore lo strozzò, risparmiandogli lo strazio delle fiamme. Andò peggio al dronerese Giacomo Bonello, che nel 1559 andò a predicare ai valdesi di Calabria. Arrestato venne arso vivo a Palermo il 18 febbraio 1560. Fu la sorte del cuneese Gian Luigi Pascale, che ebbe ruolo eminente a Ginevra come teologo ed editore. Fidanzato con Camilla Guarino, sorella di un pastore valdese nativo di Dronero, da Calvino venne mandato a predicare ai valdesi che nel Due-Trecento si erano trasferiti in Calabria per sottrarsi alle persecuzioni tra Provenza e Piemonte, ove imperversò la crociata sterminatrice contro gli albigesi, o càtari (cioè “puri”). Mentre i càtari (o “albigesi”) professavamo la contrapposizione radicale fra Luce e Tenebre, un dualismo assoluto che si risolveva nella rinuncia alla vita, in sé contaminante, i valdesi erano buoni cristiani che negavano il primato del papa, la transustanziazione, la confessione, il purgatorio, le indulgenze, il culto dei santi, il celibato dei preti e volevano una comunità fedele al Vangelo all’insegna della povertà, come altri movimenti dell’epoca, dai patarini agli stessi francescani, indignati per vizi e stravizi del clero (simoniaco, concubinario, colluso col potere). Catturato e processato, il 16 settembre 1560 il cuneese Pascale fu arso a Roma di fronte a Castel Sant’Angelo, previo strangolamento. Le ceneri vennero disperse. Tutti quegli “eretici” vennero condannati da “magistrati” spregevoli, mai chiamati a rendere conto della loro infamia. Luigi Pascale fu inserito tra i cuneesi illustri da Tancredi

Galimberti nel centenario della sua città, ma anziché a lui il comune di Cuneo gli preferì un omonimo innocuo giurista. La tragica sorte di “barba” Pascale fu triste presagio della spaventosa tragedia di San Sisto e di Guardia Piemontese. Come in tutti i domini del re di Spagna, anche in Calabria l’eresia venne combattuta con rigore assoluto. Strateghi della repressione furono il cardinale Antonio Michele Ghislieri, futuro papa Pio V, il domenicano Valerio Malvicino, i Caracciolo e Gesuiti che dettero le prime prove del loro Ordine. Già vessati da durissime misure repressive (per esempio il divieto per 25 anni di matrimoni all’interno della comunità, in modo da creare un vuoto generazionale), nel 1561 i valdesi di Calabria vennero spazzati via. A centinaia furono assassinati a San Sisto e a Guardia. Almeno mille e seicento furono imprigionati. Un centinaio vennero sgozzati come pecore, uno dopo l’altro. I loro cadaveri furono squartati e appesi a pali sulla strada. Bambini e donne vennero venduti come schiavi. Gli altri condannati alle galere. La crociata in Calabria volle cancellare non solo l’“eresia”, ma anche la lingua occitanica (incomprensibile e quindi sospetta) e l’etnia stessa. Fu un genocidio. Se oggi l’Italia e l’Europa sono un po’ più tolleranti, lo si deve alla scelta ragionevole di Emanuele Filiberto di Savoia, ripresa nello Statuto di Carlo Alberto (1848), base dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alle leggi, all’opposto del “metodo” di Filippo II e di “san” Pio V. Mentre giustamente vengono santificati i cattolici che preferirono il supplizio alla conversione forzata all’Islam, è lecito attendersi una parola del vescovo di Roma, Francesco, sugli errori riassunti nella formula “guerre di religione” che per secoli insanguinarono l’Europa. Quel tragico passato aiuta anche a capire le lotte in corso all’interno di una religione nata seicento anni dopo il cristianesimo: essa ancora deve smaltire conflitti arcaici. La strada verso la tolleranza è lunga e impervia. La meta forse è irraggiungibile. Però bisogna almeno provarci. p.80: Torino, Monumento a Emanuele Filiberto di Savoia, detto ‘Testa di Ferro’ (1528-1580); p.81: Stendardo valdese.

l 5 giugno 2013 Guardia Piemontese, su iniziativa congiunta del Comune, della Comunità Europea, della provincia di Cosenza e dell’Assessore alla Cultura della Regione Calabria, Mario Caligiuri, ha celebrato la VI Giornata della Memoria per ricordare l’orrendo massacro dei Valdesi che vi erano migrati quasi tre secoli prima per scampare alle persecuzioni in corso nelle loro terre d’origine: Linguadoca, Provenza, Piemonte…: regioni devastate dalla crociata contro gli Albigesi, proseguita con il metodico annientamento di tutti i sospetti di “eresia”. Ma che cos’è mai l’eresia? Chi detiene l’ortodossia? Chi possiede la Verità? Sono quesiti antichi e attualissimi, perché la pretesa del monopolio del Verbo muta di attori e di vesti ma rimane identica nel tempo. I Valdesi che dall’avito Piemonte raggiunsero il lembo di costa tirrenica, la “costa viola”, una terra paradisiaca, s’illusero di poter vivere in pace con sé e con gli altri: la propria confessione, la lingua, i costumi, le tradizioni domestiche. Liberi. D’improvviso vennero spazzati via. Guardia Piemontese è uno dei luoghi emblematici e simbolici della lunga storia d’Italia: come Triora, ove ancora guizzano le fiamme che vi bruciarono vive le “streghe”, l’Engadina, macchiata dal “sacro macello”, come Campo dei Fiori a Roma, vegliata dalla statua di Giordano Bruno eretta “ove il rogo arse”, come piazza Martiri a Napoli, teatro della decapitazione di Corradino di Svevia e dei “giacobini” del 1799 … La storia è impastata di sangue. Ma ha anche segnato passi avanti sulla via della tolleranza. Va conosciuta tutta, senza appiattimento sul presente per non ripetere gli errori di ieri. La vicenda dei valdesi di Guardia dei Piemontesi è documentata in “La Votz de la Gardia”. Un’ampia panoramica è in Francesco Samà, I segni della storia nei due centri religiosi di Guardia Piemontese (Torino, 2006). 81


Storia

Ettore Carafa, Conte di Ruvo L’eroe adombrato Antonella Orefice

82


È

stata certamente avara di riconoscimenti Napoli verso Ettore Carafa. Fatta eccezione per una strada (Fig. 1) intitolata a un vago Conte di Ruvo, non esistono monumenti o lapidi di una certa rilevanza in sua memoria. Come se ciò non bastasse nel palazzo che fu dei Carafa d’Andria al Largo San Marcellino vi è stato ubicato un istituto scolastico intitolato alla regina Elena di Savoia. (Fig. 2) Grande protagonista della Repubblica Napoletana del 1799, Ettore Carafa nacque ad Andria (Puglia) il 29 dicembre del 1767 da Riccardo, Duca di Andria, e Margherita Pignatelli Monteleone (v. nella bibliografia la fede di battesimo). I primi dieci anni di vita li trascorse nel palazzo pugliese appartenuto secoli addietro ai Del Balzo, nobili feudatari andriesi. Secondo i ricordi del Senatore Riccardo Carafa, uno strano caso accompagnò la nascita di Ettore: un marmo del camino nell’appartamento abitato dalla duchessa madre si era spezzato come per incanto, proprio nel momento in cui il bambino veniva alla luce. Questo caso fu creduto il triste presagio di una fine infelice del nascituro. Primogenito di nove figli, il giovane conte di Ruvo ebbe come precettore Franco Laghezza di Trani, un insegnante dalle idee liberali, che prese in seguito una parte molto attiva nella rivoluzione napoletana del 1799. Nonostante gli ambiziosi disegni della madre Margherita Pignatelli di Monteleone, che desiderava vederlo investito da prestigiose cariche presso la corte borbonica, fin da giovane Ettore dimostrò di avere un’indole antimonarchica e del tutto incline alle nuove idee di libertà e uguaglianza che gli sarebbero arrivate dalla Rivoluzione francese. La corte di Napoli aveva ereditato dal Medioevo la superbia, non il valore, né la fede. L’indirizzo politico era tirannico e immorale e all’animo di Ettore, generoso e intollerante, si univa l’educazione del Laghezza che lo rendeva sempre più nemico di quell’ordine di cose. A dieci anni venne a vivere a Napoli nel palazzo Carafa d’Andria al largo S. Marcellino, ove in quegli anni viveva la nonna paterna, Maria Francesca de Guevara. Come ogni nobile del suo tempo, trascorse un decennio presso un collegio allora ubicato nel vicolo dei Bisi, l’attuale

fig.7

Storia

via Nilo. Ettore non amava la letteratura del mondo classico, ma la storia e fra tutti i libri continuò a essere il suo prediletto per la vita il capolavoro di Plutarco, Le Vite parallele. Cresceva nobile per indole oltre che per discendenza, era contrario alla violenza, tanto che aveva deciso di educare lui stesso il suo cavallo senza l’uso della frusta e in poco tempo non solo riuscì a renderlo docile e a cavalcarlo con dimestichezza, ma a insegnargli finanche a salire le scale del suo palazzo. Trascorso il periodo del collegio, con il maestro Laghezza e in armonia con le usanze dei nobili del tempo, partì per un lungo viaggio che, da culturale, si rivelò presto decisivo per il suo destino. Pur tenendolo nascosto alla famiglia, i cui genitori frequentavano assiduamente la corte borbonica e lo sapevano in giro per l’Italia con Laghezza, Ettore andò in Francia, fermandosi diversi mesi a Parigi, il tempo di vivere e respirare le nuove idee che la rivoluzione aveva generato. Seguiva con passione la lotta di quel popolo che a poco a poco si affermava nei suoi diritti; sentiva allargarsi l’animo lontano dalle grettezze e dalla tirannia che regnavano in Napoli, tanto che quanto ritornò a casa l’indignazione contro la tirannia aveva in lui acquistata l’intensi-

fig.2

fig.1

tà dell’odio. Ma se era riuscito a tener segreta alla famiglia l’esperienza francese, la cosa non era certo sfuggita alla perfida regina Carolina, moglie di Ferdinando IV di Borbone, che aveva spie dappertutto. Ben presto fu da lei indicato come l’Altiero, il Fatale, l’Arrabiato. Siamo negli anni della prima congiura giacobina del 1794 e dei primi martiri 83


Storia

della libertà: Emmanuele De Deo, Tommaso Amato, Vincenzo Galiani, Vincenzo Vitaliani. Nonostante le persecuzioni borboniche contro i sospettati filo-giacobini, Ettore non faceva grande mistero della sua inclinazione alle nuove idee, mosso anche da passione ed esuberanza giovanile; amava farsi vedere vestito alla francese, coi capelli corti, i calzoni lunghi e il panciotto rosso. Rifondò a Napoli la Loggia massonica dei Liberi Muratori con l’amico precettore Franco Laghezza e ne divenne Maestro Venerabile. Gli incontri con i fratelli massoni avvenivano nel suo palazzo al Largo S. Marcellino; si discuteva di politica, di libertà e tirannia, infierendo sui ritratti dei sovrani al suono della Marsigliese. Tra i suoi più intimi amici c’erano i nomi più accesi alla causa rivoluzionaria: Domenico Bisceglia, Mario Pagano e Ignazio Ciaja, oltre ai nobili suoi coetanei Giuliano Colonna, Mario Pignatelli e Gennaro Serra di Cassano, tutti uomini che sarebbero poi stati giustiziati nell’ecatombe del1799, sul patibolo di Piazza Mercato. L’accusa di cospirazione contro i sovrani borbonici non mancò ad arrivare. Nel 1795 il conte di Ruvo venne arrestato e detenuto nella prigione di Castel S. Elmo fino al 1798, anno in cui riuscì a evadere con degli aiuti esterni riportati dagli storici in maniera controversa. Secondo Carlo Botta, uno storico filo-borbonico, il conte fu aiutato da una giovane fanciulla di lui innamorata, per gli storici liberali, invece, fu aiutato da alcune guardie che si erano convertite alle nuove idee; per alcuni egli riuscì a scendere da una torre del castello tra84

mite una corda lunghissima, che gli pervenne nascosta in una chitarra costruita a tal scopo, per altri la corda fu messa per depistare la fuga che era avvenuta, invece, direttamente dalla porta principale, dopo aver corrotto la vigilanza di un custode con la somma di dodicimila ducati procurati dal fratello Carlo. In qualunque modo sia avvenuta la fuga, certo è che il nostro conte di Ruvo la notte del 17 aprile 1798 era tornato libero e da allora la sua vita altro scopo non ebbe se non quello di organizzare delle truppe con l’ausilio dei Francesi e di tornare a Napoli per liberarla dal sovrano tiranno. Sulla sua cattura fu messa una taglia di diecimila ducati e diffuso un dettagliato identikit: statura piuttosto bassa, corporatura delicata, capelli e ciglia castani e ricci, occhi cerulei, viso ingrugnato. Ma a poco servì. Dopo l’istituzione della Repubblica Napoletana proclamata dai patrioti in Castel S. Elmo il 23 gennaio 1799, Ettore tornò a Napoli da uomo libero e ottenne dal Governo Provvisorio l’incarico di recarsi in Puglia a sedare le lotte dei realisti. Furono due le ragioni del Governo: la conoscenza che egli aveva della località, poiché lì possedeva i suoi feudi, Andria, Casteldelmonte, Corato e Ruvo, e la possibilità di far aumentare di numero di legionari in quei luoghi valendosi del prestigio della sua persona. Nel giro di pochi giorni si costituì un esercito in buona parte composto da avanzi dell’esercito borbonico e da giovani di ogni ceto, fra i sedici e i venti anni, alcuni dei quali provenienti da collegi religiosi. Lui li chiamava prevetarielli. Tra i ricordi di famiglia riportati dal Senatore Riccardo Carafa nella sua monografia dedicata all’eroico antenato si narra che giorno Ettore vide presentarsi per l’ammissione all’esercito un giovanotto vestito da seminarista. Che vuoi prevetariello? gli chiese ironico Non mi riconoscete? - rispose il seminarista - Io sono de Siena, figlio di colui che vi ospitò in casa sua quando fuggiste da S. Elmo. Vengo per chiedervi di essere ammesso a far parte della legione che conducete nelle Puglie! - ed Ettore, scherzando - Ma lo sai che in guerra ci vogliono le palle? - E gli uomini per affrontarle! rispose fieramente il giovane. Il giorno dopo smise gli abiti di seminarista per indossare la glo-


fig.10

fig.12

fig.9

Storia

riosa divisa di soldato della Repubblica Napoletana. La legione del Generale Carafa, unita all’esercito francese, annoverò tante vittorie, dalla conquista di Andria fino a quella di Pescara. Ciononostante i controrivoluzionari avevano avuto il tempo di fortificarsi. Nelle province, sotto la spinta del Cardinale Fabrizio Ruffo, accorso in aiuto di Ferdinando IV che con la corte si era rifugiato in Sicilia dal 24 dicembre del 1798, erano state organizzate truppe di mercenari, capeggiati da noti avanzi di galera, tra cui Giuseppe Pronio, che per oltre quattordici anni era stato in carcere con l’accusa di svariati omicidi. Il Pronio aveva riunito e armato quattromila uomini, tra cui molti albanesi, disponendoli intorno Pescara. Sulle mura e sulle alture ci aveva messo cannoni e mortai e aveva chiuso la via del mare con una flotta di barche. Ettore e i suoi patrioti continuavano a resistere valorosamente, asserragliati nella piazza di Pescara. La resistenza durò finché i viveri furono sufficienti a garantire la sopravvivenza ed era ancora viva la speranza di ricevere aiuti da Napoli e da Roma. Ma il feroce Pronio, tra una sortita e l’altra e disparate trattative, gli intimava di arrendersi, facendogli giungere amare notizie da Napoli, ormai totalmente sottomessa alle armi regie. Valoroso e fedele alla causa rivoluzionaria, Ettore mai si arrese e resisté con un pugno di patrioti fino all’ultimo respiro. Assediato e catturato dalla truppe di Pronio, fu tradotto a Napoli in una gabbia di ferro. Il 13 giugno, dopo una estenuante

lotta da Castel Sant’Elmo, i patrioti napoletani si erano arresi alle truppe del Cardinale Fabrizio Ruffo che, appoggiato dai Lazzari, restituiva il regno delle due Sicilie nelle mani del re Borbone. Le capitolazioni promesse dal Ruffo in cambio della resa e negate poi dal monarca provocarono un’ecatombe. Centinaia furono le condanne a morte per forca e mannaia e Napoli vide soffocato nel sangue il primo seme gettato per il Risorgimento italiano. Fu per esso sacrificata la vita della migliore nobiltà napoletana e dei più benemeriti intellettuali che il Sud dell’Italia potesse vantare. Furono i Lazzari a vincere, il Sant’Antonio stampato sugli stendardi borbonici vinse sul San Gennaro detto anch’egli giacobino per aver fatto il miracolo sotto gli occhi del francese Championnet. Era il 19 di agosto quando Ettore, giunto a Napoli, fu rinchiuso nel castello del Carmine, luogo tristemente noto come l’anticamera della morte. Prigioniero eccellente fu sommariamente processato e l’istanza del giudice borbonico de Guidobaldi fu ferocissima. Lo voleva affocato, precedente lo strascino e le tenaglie, indi fatto a pezzi, bruciato e le ceneri sparse al vento. Di poi demolito il suo palazzo e in quel luogo erettavi una colonna per mettervi al di sopra la di lui testa. Quali siano state le torture che Ettore abbia subito in prigione prima di essere decollato senza pompa, ossia senza il privilegio di servitori di famiglia ad assisterlo in quel tragico momento, non vi

sono documenti a testimoniarlo, ma l’ostinazione abbattutasi sulla sua persona lasciano intuire che siano state crudelissime. Oltre alle catene, fu tenuto al muro da un collare di ferro che gli impedì di sdraiarsi e di dormire per oltre quindici giorni. Da lì febbre alta, ferite, allucinazioni, aceto invece che acqua. Ma non aveva paura di morire. È già da tanto che aspettava la morte. All’alba del 4 settembre le strade di Napoli erano percorse da numerose pattuglie di soldati e nella piazza del Mercato si elevava la ghigliottina dipinta di rosso. Dai Registri della Congregazione dei Bianchi (i monaci che avevano il triste compito di confortare e poi accompagnare i condannati a morte fino al patibolo) risulta che il conte di Ruvo sia morto in pace con la sua anima e che prima di essere condotto al patibolo, il 4 di settembre, abbia chiesto di vedere il confessore (quel giorno era preposto il padre Sersale) e che abbia pregato con lui a lungo prima di avviarsi alla morte (Fig. 3 4 - 5). Alle 21 uscì dal castello lacero, con la barba lunga, e fu condotto sul palco allestito nella piazza del Mercato, percorrendo la via del Carmine. Passò davanti alla chiesa dove da lì a poco sarebbe stato sepolto il suo cadavere martoriato. Giunse al patibolo a testa alta, con un sorriso di disprezzo sulle labbra e ancora vestito con la divisa da Generale della Repubblica ormai ridotta a brandelli. Intrepido salì sul palco, ascoltò la sentenza del boia Tommaso Paradiso con 85


fig.6

Storia

fig.8

86

le braccia conserte, fissando il popolo lazzaro accorso a godere del macabro spettacolo. Era gente assetata di sangue, spietati cannibali pronti ad arrostire e mangiare i cadaveri di quei giacobini che avevano tradito il loro amato re. Finita la lettura il carnefice gli si appressò per spogliarlo. Il conte lo respinse con disprezzo. Dirai alla tua regina come seppe morire un Carafa! Furono le ultime sue immortali parole prima di porsi supino e sbendato sotto la lama assassina. (Fig. 6) Poi fissò gli occhi al cielo. Forse in quell’ultimo bagliore di vita intravide i compagni patrioti già trapassati che lo stavano lassù ad attendere. Un colpo secco e in un attimo vi ascese. (Fig.7) Hoc fac et vives (Fa questo e vivrai). Ettore realizzò in pieno il motto dei Carafa. Con la libertà nel cuore sacrificò per essa la vita e visse per sempre. Il cadavere venne seppellito la sera stessa del 4 settembre nei sacelli fangosi della chiesa del Carmine Maggiore, dove tuttora sta marcendo, nell’indifferenza di chi avrebbe il dovere di salvare la memoria storica di quei gloriosi uomini che per la libertà di un popolo ebbero troncata la vita. Con i resti di Ettore, marciscono in quei sacelli colmi di fango Mario Pagano, Domenico Cirillo, Luisa Sanfelice e altri 25 eroi della Repubblica Napoletana del 1799, molti dei quali Fratelli massoni della Loggia dei Liberi Muratori (Fig. 8). Quando furono raccontati al re Ferdinando i particolari della esecuzione del conte di Ruvo egli sorridendo escalmò –

O’ duchino a fatto o’ guappo fino all’ultemo! - Il fratello di Ettore, Carlo (Andria 1774 – Napoli 1856), riuscì a scappare in Francia mentre un altro fratello, Francesco (Andria 1772 - Portici 1844), che aveva militato nella Guardia Nazionale contro le bande del cardinale Ruffo, fu fatto prigioniero. I Lazzari avevano progettato di bruciarlo vivo, ma il Ruffo riuscì a impedirlo. Dal 1799 ereditò da Ettore il titolo di 17°Conte di Ruvo 14° Duca di Andria. Si sposò nel 1803 con Teresa Caracciolo, figlia del principe di Santobuono, ed ebbe 5 figli. A due di essi, offendendo la memoria e il sacrificio del fratello, pur di dimostrare la sua fedeltà ai Borbone, diede il nome di Ferdinando e Carolina. A distanza di due secoli e più dalla sua morte non conosciamo il vero volto di Ettore. Di lui esistono almeno tre ritratti profondamente diversi tra loro: due certo postumi e un altro pubblicato nel 2006 e di proprietà dell’attuale duca Riccardo Carafa d’Andria. Nel primo (Fig. 9), comparso nell’opera di Atto Vannucci, I martiri della libertà italiana, Livorno 1849, più che un conte, il nostro Ettore è stato raffigurato come un brigante e non esistono descrizioni fisiche documentate compatibili con l’immagine proposta. A meno che non si tratti di un fatale errore del Vannucci, il ritratto non presenta alcuna attendibilità. Nell’altro ritratto, invece (Fig.10), di provenienza e autore sconosciuti, Ettore è in divisa da Generale della Repubblica Napoletana, occhi turchini, capelli castano chiari, cicatri-


fig.11

Storia

ci su fronte e sopracciglio, aria spavalda, fascino da avventuriero. Si tratta di una raffigurazione molto vicina al personaggio dell’identikit divulgato dai Borboni nel 1798. Questa immagine è da ritenersi la più attendibile. Un clamoroso falso storico è invece da considerarsi un ritratto pubblicato di recente da una fotoreporter pugliese e che campeggia in numerosi siti internet, oltre che sulla copertina di una corposa biografia dai dati storici lungamente discutibili. Si tratta di un falso storico comprovato: in occasione delle celebrazioni per il 150 anni dell’Unità d’Italia, il Comune di Napoli, in collaborazione con la “Società Napoletana di Storia Patria” e la “Fondazione Biblioteca Benedetto Croce”, ha ristampato una riproduzione anastatica dell’edizione originale, quasi introvabile, del catalogo di una mostra storica curata da Salvatore Di Giacomo, che nel 1911 fu allestita nelle sale municipali della Galleria Umberto. (Fig. 11) Lo scopo della mostra fu quello di riunire in occasione dei cinquant’anni dell’Unità d’Italia ritratti, documenti e oggetti appartenuti ai protagonisti del Risorgimento italiano dal 1799 fino al 1861. A tal proposito Salvatore Di Giacomo si prese l’onere di acquistare a sue spese larga parte del materiale. Altri oggetti provennero, invece, da archivi e collezioni private. Ed è proprio dalla collezione privata dei Carafa D’Andria che proviene quel ritratto, riproposto nel 2008 dalla fotoreporter pugliese con la velleità d’essere inedito e attribuito ad Ettore Carafa.

(Fig. 12) Probabilmente chi ha divulgato questo falso storico non sapeva che quello stesso ritratto era stato presentato alla mostra del 1911 nella sua vera identità, ossia per il ritratto di Riccardo Carafa D’Andria, il padre del nostro patriota del 1799, rifondatore e Maestro Venerabile della Loggia dei Liberi Muratori. ______________ Bibliografia: A.Orefice, La Penna e La Spada, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli, 2009 R. Carafa d’Andria, Ettore Carafa Conte di Ruvo, Roma, 1886 N. Nicolini, Ettore Carafa Conte di Ruvo prima del 1799, Bologna, 1936 T.Pedio, La congiura giacobina del 1794 nel Regno di Napoli, Bari, 1976 G. Ceci., Ettore Carafa: con una cronaca e vari documenti, Trani, 1889 C. Botta, Storia d’Italia dal 1789 al 1814, Torino, 1834 M.D’Ayala, Vita degli italiani benemeriti della libertà, Roma, 1883 R. Sgarra, Omaggio ad Ettore Carafa martire andriese per la libertà, Andria, 1899 B. Croce, La rivoluzione Napoletana del 1799, Napoli, 1999 B.Maresca, Ettore Carafa, Conte di Ruvo, Relazione del suo cameriere Raffaele Finoia, Napoli,1885 A.Vannucci, I Martiri della libertà italiana, Livorno, 1849 Fondi archivistici: Archivio Storico Napoletano, anno V. Carteggio di M. Carolina col Ruffo Archivio Storico Diocesano di Napoli, Registri della Congregazione dei Bianchi della Giustizia, Scrivano Minutolo 1799/1800 vol. 241, pagg. 34 e segg.

Archivio di Stato di Napoli, Registro Fedi di Battesimo, Sedile del Nido, Vol. IV Fede di Battesimo di Ettore Carafa: Nos infrascriptus Archidiaconus et Archivarius Cathedralis unicaeque Parochialis Ecclesiae Civitatis Andriae testamur qualiter perquisitis Baptizatorum Libris qui penes nos osservantur in Archivio Parochiali dictae Ecclesiae in Libro anni millesimi septingentesimi sexagesimi septimi fol. 109 sequentem adnotationem inuenimus. Die vigesima nona mensis Decembris anni 1767 nos Franciscus Ferrante Patritius Rhaeginus Dei et Sanctae Apostolicae sedis gratia Episcopus Andriensis baptizavimus infantem nunc natum ex Exellentissimis Dominis D. Richardo Carafa et D.Margarita Pignatelli Duca et Ducissa huius Andriae Civitatis legitimis coniugibus cui imposita fuere nomina Ector Maria Franciscus de Paula Richardus Fabritius Gaspar Melchior Balthasar Gertrudus Camillus Vincentius Angelus Andreas Aloysius Thomas Dionjsius Raymondus: eumque de sacro fonte susceperunt admodum Reverendus Pater Frater Seraphinus a Barulo ex Provincialis Ordinis Minorum Cappuccinorum Sancti Francisci et Excellentissima Domina D.Constantia Medici Ducissa Montis Leonis. Et in fidem facimus presentem licet aliena manu a suo originali extractam nostro tamen charactere subscriptam ex soliti sigilli dictae Ecclesiae impressione munitam, dedimus Andriae ex Sacrario dictae Ecclesiae die Mense Februarii 1778. (adest sigillum) Michael Archidiaconus marchio Archivarus

P.82: Elsa di sciabola, XVIII sec.; p.83-87: Vd. testo articolo; p.87: Ghigliottina.

87


Massoneria

Diario di bordo: Washington massonica Lidia Parentelli

parte I

88


N

el maggio del 2013 di quest’anno, a 26 anni di distanza da una prima visita alla capitale degli USA e quasi in occasione di un nostro importante anniversario di matrimonio, ho accompagnato il mio consorte e fratello Roberto a un congresso di 5 giorni a Washington tenuto al National Press Club (il Circolo Nazionale della Stampa) in un contesto già di per sé incutente autorevolezza e solennità. Dopo la conclusione dei lavori abbiamo dunque fatto i turisti visitando un po’ il centro e c’è venuta la curiosità di seguire il percorso insolito della Washington massonica. Usando una guida sull’argomento comprata in Italia, Washington massonica di James Wasserman, ed. Gaffi (G.Trip), Roma 2011, siamo andati alla ricerca, mappa alla mano, di luoghi ed edifici ivi indicati come fra i più significativi. J.Wasserman definisce giustamente come “nascosto in piena luce” il simbolismo esoterico e occulto del sacro spazio di Washington, in quanto effettivamente presente in tanti punti della città, e visibile a tutti, ma ovviamente del tutto comprensibile solo da chi ne ha consapevolezza. Ovunque a Washington un Libero Muratore, usando righello, goniometro e compasso applicati alla mappa della città, potrebbe disegnarvi sopra pentagrammi, esagrammi, triangoli, croci, quadrati e cerchi; tutta una geometria sacra, che si individua facilmente e camminando per le strade. Seguendo un percorso preciso si entra così in un mondo popolato di archetipi di pietra, sculture, monumenti, statue, palazzi e iscrizioni che permettono di compiere un vero e proprio pellegrinaggio massonico. Noi abbiamo provato a farlo e vorrei darvene conto allo scopo di essere utile a chi, avendo la possibilità di andare a Washington, desiderasse compiere lo stesso percorso e perché ritengo comunque interessante per tutti i Fratelli e Sorelle conoscere quale ruolo importante ha avuto la Massoneria in questa città, sia dal punto di vista storico che architettonico. Varie sono in Europa e nei paesi extraeuropei le località con connotazioni massoniche evidenti e significative, ma certo Washington è la città massonica per eccellenza perchè è stata progettata nella sua parte centrale secondo intenti e

Massoneria

89


Massoneria

modalità precise da architetti che volevano fare della capitale degli U.S.A. la città massonica ideale, che doveva esteriorizzare i principi della Costituzione del nuovo stato, ampiamente ispirati ai valori illuministici e massonici. Noi sappiamo l’importanza e l’influenza 90

che la Massoneria ebbe nella storia della formazione degli Stati Uniti, che vennero costituiti dopo la Guerra di Indipendenza contro l’Inghilterra. L’Inghilterra era contraria all’autonomia delle Colonie Americane e imponeva loro tasse pesanti sulle merci; l’ultima

iniqua imposizione sul tè (cui seguì l’affondamento di un carico di tale spezia) fu la miccia per lo scoppio della rivolta, la dichiarazione di indipendenza il 4 luglio 1776 e l’inizio della guerra. Questa non fu solo una lotta per l’autonomia, ma accese molti spiriti animati dagli ideali illuministi e massonici che si erano diffusi anche in America. La Massoneria in America era nata nel 1730, come filiazione diretta della Gran Loggia di Londra e si era diffusa fra i coloni inglesi. Un numero rilevante di importanti leader massonici sosteneva la causa della rivoluzione: la posizione patriottica era sostenuta dalla maggioranza dei cosiddetti “Antichi” che erano i Massoni che avevano preso il nome dalla Loggia chiamata “Antica”, sorta nel 1757 e derivata dal movimento che già dal 1740 era nato da confratelli irlandesi che avevano rifiutato l’autorità della Gran Loggia di Londra. Il movimento “Antico” era più democratico, cercò di colmare le differenze di classe che privilegiavano nelle logge una élite di estrazione altolocata a favore di una produttiva borghesia ed era favorevole all’indipendenza; la Massoneria “Antica” fu strumentale alla rivoluzione e alle trasformazioni nella società post-


rivoluzionaria, mentre i “Moderni” rimasero fedeli alla Gran Loggia d’Inghilterra e furono tendenzialmente lealisti. I rivoluzionari massoni volevano anche promulgare per il nuovo Stato una Costituzione che rispondesse ai principi esposti nella Dichiarazione di Indipendenza del 1776 a Philadelphia (non a caso etimologicamente “Città della Fratellanza”). La Dichiarazione rispecchiava infatti fedelmente il pensiero degli Illuministi, degli Enciclopedisti e dei Massoni europei. La rivoluzione e le idee americane riscossero grande consenso in Europa e specie in Francia, che aiutò gli Americani nella guerra contro l’Inghilterra. Molto merito in questa opera di convinzione ebbe Benjamin Franklin, che nelle capitali europee sostenne efficacemente la rivoluzione con conferenze che fruttarono molte adesioni sotto forma sia di denaro che di uomini, i quali andarono a combattere come volontari. Fra questi vi fu il marchese Lafayette che operò nel quartiere generale di Washington, combattendo insieme a lui. Nel nostro percorso massonico abbiamo attraversato la piazza dedicata al nobile eroe francese, che è posta proprio dietro

la Casa Bianca, il Lafayette Park. In Pennsylvania Avenue, invece, si trova la statua di B. Franklin davanti all’antico Palazzo della Posta, in quanto egli ebbe il primo incarico di Direttore Generale del Servizio Postale nel 1775, su nomina del Congresso Continentale. I Massoni avevano costituito una forte presenza nell’esercito e all’interno delle forze armate, ma furono anche molto attivi nell’amministrazione di vari stati, a cominciare dalla Virginia nel 1778, in quanto dopo le tensioni prima e la rottura poi con l’Inghilterra le logge americane avevano aumentato il loro impegno. La Confraternita crebbe ancora di più dopo la rivoluzione e “molti americani vedevano la Massoneria come un archetipo della società repubblicana basata sulla virtù e sul talento che stavano cercando di costruire”. Ecco il perché del successo della Massoneria che nel corso della storia ha portato ben 14 Presidenti al Congresso: G. Washington, J. Monroe, A. Jakson, J.K. Polk, J. Buchanan, A. Jonson, J. Garfield, W. McKinley, Theodore Roosevelt, W. Howard Taft, W. Harding, F. Delano Roosevelt, H. Truman, Gerald Ford. Steven Bullok riporta anche l’informa-

zione che 9 dei 56 firmatari della Dichiarazione di Indipendenza, 13 dei 39 firmatari della Costituzione, 33 dei 74 Generali dell’Esercito Continentale erano Massoni. Bullok riporta poi i nomi di tutti i Governatori e di altri membri dell’Amministrazione dal 1804 in avanti che era-

Massoneria no anch’essi dei Fratelli. Il primo Presidente fu George Washington, che era stato il comandante supremo delle forze armate e aveva portato i rivoluzionari americani alla vittoria. Nel 1787, elaborata la Costituzione, venne eletto dal Congresso, dopo che nel 1783 nel Trattato di pace di Versailles era stata riconosciuta l’indipendenza e la nascita degli Stati Uniti. Dopo avere organizzato il nuovo stato si doveva decidere per la capitale. In un primo momento avevano pensato a una Capitale itinerante da Philadelphia a Baltimora e a Lancaster, ma poi venne scelta la località dove sorgerà Washington, per creare una città ex novo, perché la Capitale doveva essere una chiara testimonianza degli ideali che avevano motivato i Padri Fondatori e perché i progettisti, fra cui molti era-

91


Massoneria

no Massoni o comunque simpatizzanti, volevano esprimere i valori di libertà, fratellanza e uguaglianza, edificando un luogo-simbolo. Fu Washington stesso, che condivideva questi valori, a voler attuare questo progetto e a chiamare gli architetti che dovevano realizzarlo. G. Washington era infatti un Fratello massone: fu iniziato in Virginia nella Loggia “Frederickburg” nel 1752, poi nel 1778 era diventato Maestro Venerabile della Loggia “Alexandria” nel distretto di Columbia (la Bibbia sulla quale hanno poi giurato tutti i Presidenti all’atto di assumere la carica è proprio quella della Loggia “Alexandria”). Il distretto di Columbia (dove si trova Washington) fu così definito nel 1791; nel 1787 era stato donato dagli Stati del Maryland e della Virginia ed era un terreno assai paludoso posto alla confluenza di due rami del Potomac (che formano una Y, ricordando per l’appunto il triangolo massonico), dove già esistevano il porticciolo fluviale di George Town su un lato e la città di Alexandria sull’altro. Questo territorio (un tempo abitato dai nativi americani Algonchi92

ni) era in una posizione abbastanza centralizzata per potere essere il cuore della nuova Repubblica. Il Distretto era una area quadrata di 10 miglia quadrate con i vertici orientati secondo i quattro punti cardinali e lì fu progettata la città. A. Ellicott e B. Banneker fecero i rilievi topografici e i calcoli per ottenere un quadrato perfetto, con 40 cippi di confine: la prima pietra del Distretto Federale fu posata il 15 aprile 1791 a Jones Point dalla 22° Loggia “Alexandria” di cui Washington era stato M.V.. Poiché nell’ambito massonico il quadrato fa riferimento all’integrità morale, la geometria della capitale voleva rappresentare l’integrità e l’impegno dell’America a rispettare i valori professati. L’architetto Pierre Charles L’Enfant fu scelto come principale progettista, assistito da Washington stesso e poi anche da Jefferson. L’architetto L’Enfant aveva pianificato un percorso che doveva mettere in connessione la Casa Bianca e il palazzo del Congresso, cioè il Campidoglio, tramite l’arteria chiamata Pennsylvania Avenue, andando quindi da Est a Ovest; ma il

progetto subì modifiche e furono costruiti altri edifici statali che complicarono la pianificazione e fra i due edifici rimase a lungo un terreno paludoso non definito. Ci vollero anni per una definizione adeguata. A fine Ottocento si cercò un recupero dell’impostazione originaria e fu bonificata l’area intermedia e solo nel 1902 si ebbe un progetto della Commissione Mac Millan che definì l’area del cosiddetto Mall, una fascia di terreno a verde lunga 1 miglio e larga 300 piedi, bordata di olmi, dalla Casa Bianca fino al Lincoln Memorial (lungo l’asse est-ovest), attraversata da un’altra area dal Campidoglio al Jefferson Memorial (lungo l’asse nord-sud). All’incrocio delle due aree doveva esservi la stele dedicata a Washington. Alcuni guardando questa progettazione vi hanno visto la possibilità di sovrapporvi squadra e compasso, ma ciò non è poi del tutto stato realizzato come previsto per problemi tecnici. Il Mall, nel suo insieme, è il centro simbolico della città e il Campidoglio è considerato il punto centrale, perché a partire da lì la città è divisa in 4 sezioni (NW, NE, SW, SE). In realtà il centro topografico del quadrato della pianta della città è la Casa Bianca e il monumento a Washington, la stele o obelisco, doveva essere all’inizio posta al centro dei 2 assi. Esso fu cominciato solo nel 1848, poiché ebbe problemi di stabilità a causa del terreno paludoso instabile. E fu spostato di 370 piedi a est e 123 piedi a sud. La Casa Bianca è sull’asse della 16° strada e si chiamava inizialmente Casa del Presidente. Fu costruita su progetto dell’architetto massone James Hoban. Il 13 ottobre 1792 si svolse la cerimonia della posa della prima pietra officiata dal M.V. della Loggia n. 9 del Maryland Peter Ca-


Massoneria

sanave. Dopo vi fu una grande agape alla locanda “Fountain Inn” di George Town. Il primo ad abitarvi fu il Presidente John Adams. Fu bruciata nel 1814 dalle truppe britanniche, ricostruita e dipinta di bianco per ricoprire le bruciature e per questo fu chiamata Casa Bianca. Nel 1948 il Presidente (massone) Truman fece ricercare la 1° pietra, che non fu trovata, ma si rinvennero altri segni massonici. L’edificio è di tipo neoclassico, ma piuttosto semplice per il ruolo che riveste.

Casa Bianca e Monumento di Washington non sono allineati come previsto, ma a indicare il preciso allineamento degli assi est-ovest / nord-sud. Nei pressi si trova la Jefferson pier stone posta nel1804. Davanti alla Casa Bianca c’è l’Elisse, una zona verde ellittica con fontana che commemora le forze armate americane. Di lato sulla 15° str. si erge il monumentale palazzo del Tesoro fatto costruire dal Presidente Andrew Jackson. Davanti si trova la statua di Alexander Hamilton,

anche lui massone, primo Segretario al Tesoro e Legislatore del Federal Paper. Dietro la Casa Bianca c’è Lafayette Park, che ricorda il marchese francese che venne in aiuto dei rivoluzionari combattendo al loro fianco in nome degli ideali comuni. Insieme a lui sono rappresentati ai quattro angoli della piazza altri tre eroi stranieri che prestarono il loro servizio come generali durante la rivoluzione: F.W. von Steuben, Tadeus Kosciuszko e J.B. de Ro93


Massoneria

chambeau, mentre al centro c’è la statua del Presidente A. Jackson. Alla base una figura femminile stringe due bandiere, che rappresentano l’alleanza francoamericana. Sempre proseguendo per la 16° str. a vari isolati più a nord si trova la cosiddetta House of the Temple, imponente quartier generale supremo della Giurisdizione massonica del Sud degli Stati Uniti e ora museo del Rito Scozzese Antico e Accettato, di cui tratteremo in un successivo articolo. L’edificio è stato progettato da J. Russel Pop e si ispira palesemente al Mausoleo di Alicarnasso, una delle sette meraviglie del mondo antico. Si tratta di un vero gioiello architettonico totalmente ricolmo all’interno di simbologia e di mistica massonica, visitabile su appuntamento. Tornando all’Elisse e proseguendo ci si trova davanti al Washington Monument: si tratta di un enorme obelisco in marmo alto 169 metri, su progetto di Robert Mill, che secondo il piano iniziale doveva essere il fulcro di tutta l’area 94

identificata come un tempio massonico a cielo aperto. Girando a sinistra al termine del Mall si apre l’edificio più importante: il Campidoglio. Iniziato nel 1793 ebbe varie modifiche e ampliamenti nell’800. Del 1855 è la cupola fatta edificare dall’architetto massone T.U. Walter, che poi fu in parte modificata nel 1863. In quell’anno vi fu posta sopra la statua della Libertà, opera del fratello Thomas Crawford, che era stata modellata in gesso a Roma e trasferita negli U.S.A. per la fusione in bronzo. Davanti alla facciata ci sono la Reflecting Pool e la statua del Presidente Garfield che incarnò i principi massonici di civismo e dedizione. Sul basamento figure simboliche chiare: un guerriero che tiene la spada all’ordine, un legislatore e un discepolo. Sull’altro lato del piazzale vi è il monumento alla Pace: una Vittoria con una corona di pace, Marte e Nettuno infanti con in mezzo una conchiglia e una donna in lacrime che assomiglia all’immagine massonica della Vergine dolente che

piange per la morte del maestro Hiram Abif. Sopra l’ingresso del Senato, sempre scolpite da T. Crawford nel 1860, si trovano altre due statue significative: la Giustizia (che ha in una mano un libro intitolato Giustizia, Legge e Ordine e nell’altra la Bilancia) e la Storia (con un rotolo che riporta le parole History e July 1776, cioè l’anno dell’Indipendenza). All’interno della cupola, sul soffitto, un affresco mostra l’ascesa al Paradiso di Washington (per gli Americani diventato un mito) in mezzo alla Libertà, alla Vittoria, alle 13 colonie e ad altre figure archetipe e mitologiche: Columbia, Minerva, Nettuno, Mercurio, Vulcano e Cerere. Queste sono le rappresentazioni più note e importanti, ma in tutto il Campidoglio vi sono statue e affreschi con figure che dimostrano la voluta impostazione esoterica del monumento. Quando il 18 settembre 1793 fu posata la prima pietra fu fatta una solenne cerimonia massonica di consacrazione; Wa-


Massoneria

shington in persona con tutti i paramenti del grado allineò con squadra, livella e filo a piombo il blocco di circa 1 metro, poi fece l’offerta rituale di grano, vino e olio (salute, pace, abbondanza); parteciparono quattro Logge al rito, accompagnato da armonie musicali e alla fine da salve di artiglieria. Una grossa targa di argento con un’incisione per ricordo fu inserita nelle fondamenta. I giornali riportarono l’avvenimento con grande rilievo. Accanto al Campidoglio vi è un altro importante edificio: la Biblioteca del Congresso, tempio americano dell’IIluminismo. Qui particolarmente interessanti

sono i 3 portoni principali dell’ingresso ovest: il portone destro è dedicato alla Scrittura; c’è una figura con lo specchio della Riflessione in una mano e nell’altra il serpente della Saggezza, un’altra figura regge la torcia dell’Illuminazione e la pianta della Creatività. Il portone di sinistra rappresenta la Tradizione e l’altro la Scienza. Nella Great Hall sul pavimento si trova un grande Zodiaco e l’interno ha ancora immagini simboliche classiche. Dal Campidoglio parte la Pennsylvania Avenue con tutti gli edifici del Governo e gli Archivi Nazionali, il cosiddetto Triangolo Federale (c’è anche l’F.B.I.!).

Tutte sono costruzioni imponenti in stile neoclassico, come tutta l’architettura di Washington. Si ispirano al mondo grecoromano-egizio-mesopotamico-ebraico sia nella struttura, sia nelle decorazioni e nella statuaria, il tutto con figurazioni mitologico-simboliche che vogliono essere celebrative sia dei valori tradizionali che di quelli nazionali americani. Monumentale, con frontoni e statue, è il palazzo della Commissione Federale per il Commercio e assai particolare è il palazzo allungato, quasi un castello, detto della “Antica Posta”, che ha davanti la Statua di B. Franklin. Egli era stato iniziato nella Loggia “Saint John” di Phila95


Massoneria

delphia nel 1731, fino a diventare Gran Maestro della Pennsylvania. E nel 1734 aveva fatto pubblicare la 1° edizione americana delle Costituzioni di Anderson. La “National Gallery of Art” fu fondata dal massone e finanziere Andrew W. Mellon, che fece costruire l’edificio suddetto con davanti una fontana con uno Zodiaco su bassorilievi. In esso il sole dell’equinozio di primavera dovrebbe illuminare la costellazione dell’Ariete. Risalendo da qui lateralmente si arriva al Municipal Center (vicino alla Corte di Giustizia); a fianco della scalinata stanno due bassorilievi interessanti: uno rappresenta la Vita Urbana con Mercurio, Esculapio e Maia e l’altro Columbia che versa l’acqua in un bacile e tiene in mano una lampada ed è denominato: Luce, Acqua e Transito. Da qui si arriva alla Judiciary Square al cui angolo è stata posta la statua dedicata ad Albert Pike, forse il più noto Massone moderno d’America. Il generale Pike (1809-1891) fu infatti Sovrano Gran Commendatore del Supremo Consiglio del Rito Scozzese Antico e Accettato della Giurisdizione Sud degli U.S.A. 96

e uno dei più importanti studiosi e rappresentanti della Massoneria Americana; è rappresentato con in mano il testo più noto che aveva scritto, intitolato Morals and Dogma. Sotto la statua vi è una dea che tiene lo stendardo del Rito Scozzese, che mostra l’aquila a due teste risalente all’antica città sumerica di Lagash. La dea tiene una spada da cui pende un cartiglio con il motto “Deus meumque jus” (Dio e il mio diritto) e sopra vi è una corona prussiana. La realizzazione della statua è stata finanziata dal Supremo Consiglio del Rito. Tornando nella Pennsylvania Avenue e prendendo la Louisiana Avenue, in fondo si arriva alla Union Station, la monumentale stazione ferroviaria al centro della piazza dove è anche collocata la Columbus Memorial Fountain dedicata alla celebrazione di Cristoforo Colombo. L’edificio, commissionato all’architetto Daniel Burnharn, con all’interno grandi padiglioni in stile liberty, ha una lunga facciata a tre corpi con aperture ad archi, secondo modelli classici. Il corpo centrale più avanzato e alto presenta sei enormi statue scolpite dal maestro Louis

St. Gaudens. Rappresentano: Prometeo con il fuoco, Talete con una saetta, Temi con l’ulivo e la spada, Apollo con un libro, Cerere con il grano e Archimede. Quest’ultimo è mostrato con un grande mazzuolo e un compasso in mano, come l’immagine classica del massone operativo medievale. Sulla facciata anche tre grandi aquile bicefale simbolo dell’America. Per andare al famoso Lincoln Memorial bisogna a questo punto tornare alla Constitution Avenue che fiancheggia il Mall. In fondo al grande parco verde si affaccia l’edificio a forma di tempio greco circondato da 36 colonne (come il numero degli Stati Uniti in quel periodo) posto al di sopra di una ampia scalinata. Nell’atrio troneggia la statua di Lincoln alta 6 metri; ai lati stanno pannelli con inciso il discorso del suo insediamento alla presidenza nel 1865. Anche al presidente F. Delano Roosevelt è dedicato un Memorial in Ohio Drive, non lontano dal Mall. Fiancheggiando la Reflecting Pool (un lungo bacino d’acqua davanti al Lincoln Memorial) fino al Memorial della 2° Guerra Mondiale e poi costeggiando


il bacino fluviale Tidal (un laghetto collegato al Potomac) si giunge al Thomas Jefferson Memorial progettato da J. Russell Pope ma inaugurato molti anni dopo (nel 1943). Ha la forma tipica di una rotonda palladiana e nell’atrio è posta la statua in bronzo del massone Thomas Jefferson, che fu il terzo Presidente degli Stati Uniti e l’autore principale della Dichiarazione di Indipendenza del 1776. A questo punto il lungo viaggio massonico è stato percorso nei suoi punti fondamentali, ma ci sono ancora luoghi meno noti che presentano aspetti interessanti. Uno si trova in Freedom Plaza: inserite nel marciapiede ci sono le riproduzioni dello stemma degli Stati Uniti, decisamente di ispirazione massonica, con il motto “E pluribus unum” su progetto di Jefferson, Franklin e Adams. Nel 1935 il vicepresidente (massone) H. Wallace propose (e il presidente Franklin Roosevelt fu d’accordo) di mettere questo simbolo nella banconota da 1 dollaro. Girando poi per la città abbiamo individuato altri edifici che furono in passato templi massonici. Uno si trova in New York Avenue e adesso ospita il Museo delle Arti Femminili, il “National Museum of Womwn in the Arts”. E’ riconoscibile anche dall’esterno perché gli architravi delle finestre portano tutte un bassorilievo con squadra e compasso e il motivo si ripete anche sui cornicioni del palazzo. Un altro tempio si trovava sempre in centro nella 901 F Street: iniziato nel 1868, aveva le officine al piano terreno e ai pieni superiori le stanze per le riunioni e ora, dopo essere rimasto inagibile per oltre 20 anni, ospita un centro commerciale in quello che è indicato come il Gallup Building. Questo lungo percorso massonico a Washington mi ha colpito moltissimo: non credevo infatti che i luoghi e le opere simboliche connesse all’Obbedienza fossero così numerose e palesi; in pratica tutta la città nella sua parte artistica ha una netta ispirazione massonica o comunque esoterica e si potrebbe definirla come caratterizzata da un’architettura di carattere sacrale. Lo scrittore Jeffrey Meyer afferma che c’è un messaggio implicito nella maggior parte degli edifici, dei monumenti e di tutta l’iconografia di Washington ed è la convinzione, espressa chiaramente dai Padri fondatori anche nella Costituzione, che

Massoneria

l’Onnipotente abbia sostenuto l’esperimento della nascita dell’America, cosicché più questi si uniformavano a un ordine naturale dell’Universo e alla volontà di Dio e più aumentava la loro capacità di creare una nazione libera. Si viene pertanto a delineare una religiosità fortemente nazionale di tipo deistico la quale alimenta un’ottimistica fiducia nell’uomo, che se integro e retto lo porterà sempre a trionfare sulle avversità e sul male, per cui chi governa deve dunque essere in armonia con le forze invisibili e profonde che sostengono l’Universo e deve essere così pure l’esecutore di questo disegno divino, garantendo i diritti naturali di tutti. Questo tipo di pensiero è in buona parte retto e in linea con la filosofia massonica, ma a mio parere col tempo ha anche

finito col portare gli Stati Uniti a sopravalutarsi a causa della propria pretesa superiorità morale e ha così condotto a forme di vera e propria devianza anche nel settore esoterico, prendendo strade ben lontane dalla corretta Tradizione, con la graduale creazione di organismi paramassonici a fini consociativistici dall’approccio sempre più profano e di potere e lungi dagli effettivi ideali della Libera Muratoria. P.88: Effigie di George Washington nel The G.W.Masonic National Memorial, Alexandria, Virginia, periferia di Washington D.C.; p.89: Washington D.C., The Washington Monument obelisco di 170 m eretto sul National Mall; 90-91: Washington D.C. - Esterni e interni della ‘House of the Temple’; p.9293: Washington D.C., Lincoln Memorial e fotografia d’epoca di Abraham Lincoln (1809–1865); p.94-95: Washington D.C., United States Capitol e dettaglio degli affreschi della cupola; p.96-97: Washington D.C., Thomas Jefferson Memorial e dettaglio della scultura interna; (foto pag. 88 e 95 Paolo Del Freo).

97


Mysterium

I Misteri di Eleusi Il kikeon estratto dalla Claviceps purpurea Paolo Aldo Rossi

parte II

98


fa parte … ma il ciceone non può essere banalizzato: o funziona o no! O è una bevanda semplicemente dissetante o è una potente sostanza psicotropa! L’acqua e la menta non hanno effetti allicinogeni, ma l’orzo infestato dalla Claviceps porpurea (una ascomiceta, fra una cinquantina circa, parassita delle graminacee) presenta proprietà psicoattive molto simili a quelle del LSD. E se fosse un composto “farmaceutico” con alla base uno psicofarmaco? E come doveva venire preparato per essere sedativo e narcotico? “Anche il ciceone si disgrega se [non] è agitato”2. Quali sono le reazioni degli iniziati all’ingestione di questo stupefacente? Vi sono vari tipi di

B) Quelle presenti naturalmente nei semi di talune varietà della comune pianta di Ipomoea messicana (ololiuiqui) o Convulvacee dell’Ipomoea: la Rivea Corymbosa, l’Ipomoea Violacea, la Stictocardia e l’Argyreia nervosa. I semi di queste piante contengono i vari alcaloidi della Claviceps,

ammidi dell’acido lisergico che provocano stati alterati di coscienza. A) I tipi semisintetico LSD 25 e l’ergonovina, partendo dall’acido lisegico naturale, vennero messi a punto per la prima volta nel 1937 da Stoll, un alcaloide idrosolubile propanolamede dell’acido lirsergico, la ergobasina, e il dietelamide dell’acido lirsergico le cui proprietà psicoattive furono poi scoperte nel 1943 da A. Hoffman. Va detto che nel 1920 Stoll estrasse dalla Segale cornuta ergotamina, mentre l’ergotossina fu poi cristallizzata da Smith e Timmis nel 1931.

appartenti alla famiglia delle fanerogame. C) Quello più antico, ma di cui s’erano perdute le tracce, solubile in acqua e molto attivo: l’ergonovina (accettato dalla Commissione Internazionale di Farmacopeia), mentre in Europa è stato fissato il nome di ergometrina (o ergobasina, ergotocina, ergostetrina). È il ciceone dei misteri di Eleusi e la Secalis luxurians di cui parlano i medici delle streghe. Dato che le fonti naturali furono conosciute solo più tardi, iniziamo questa storia dagli appunti di laboratorio di Albert Hofmann. «Mentre stavo facendo ricristallizzare il tartrato della dietilammide dell’acido d‑lisergico, che avevo ottenuto dall’acido lisergico natu-

Mysterium e anche le “belle di giorno” (graziosissime campanule americane) comprendono come l’agente infestante delle gramianacce (cioè lo sclerozio in funzione di zolla germinante per i corpi fruttiferi) tutti gli alcaloidi di una pianta di tipo superiore

Che la morte non solo non è un male, anzi è un bene... Inscriptiones Grecæ II/III 3661, 6

S

appiamo che gli iniziati al più noto “mistero” dell’antichità (da mùo = taccio) quello su cui si deve mantenere il segreto (pena l’esecuzione capitale), lasciavano attoniti i mystai che compivano e portavano a termine stancanti vagabondaggi attraverso le perfette oscurità e le tenebre oscure (il confine della morte) con sgomenti, brividi, sudori, per poi raggiungere la visione di una luce mirabile quando lo ierofante si presentava alzando in alto una spiga d’orzo proclamando: “la Dea Signora ha generato il sacro fanciullo; da Brimò, Brimos fu generato!1 ed, inoltre, conosciamo il fatto che il kykeon (il ciceone), la bevanda sacra, dall’Inno Omerico a Demetra (VIII secolo avanti Cristo) era una parte determinante dei riti d’Eleusi e gli ingredienti di questa pozione sono riportati: orzo (alphi), acqua (ùdor) e menta (blechon). Come tutte le cerimonie e le liturgie di affiliazione e investitura sono descritte in modo banale - è, ovvio - da chi non ne 1 “... gli Ateniesi, nell’iniziazione di Eleusi, mostrano a coloro che sono ammessi al grado supremo il grande e mirabile e perfettissimo mistero visionario di là: la spiga di orzo mietuta in silenzio”. Ippolito, Confutazione, 58, 39-40.

2 22 B 125 DK; Teofrasto, Sulla vertigine, 9.

99


Mysterium

rale e dalla dietilammina passando attraverso l’idrazide e l’azoturo dell’acido lisergico improvvisamente mi sentii preso da uno strano stato di ebbrezza. li mondo esterno mi appariva come un sogno. Gli oggetti sembravano crescere in rilievo e assumere delle insolite dimensioni; e anche i colori si facevano più brillanti. Perfino l’autopercezione e il senso dei tempo risultavano modificati. Quando gli occhi si chiusero, si levò su di me un flusso ininterrotto di immagini fantastiche, di una plasticità e di una vivezza straordinarie, in un intenso, caleidoscopico gioco di colori. Dopo due ore, questa ebbrezza non spiacevole, da me vissuta in pieno stato di coscienza, si dileguò. Il primo viaggio al mondo realmente compiuto con l’LSD‑25. Da che cosa era stato provocato? «Probabilmente una goccia cadutami sulle dita doveva essere stata assorbita attraverso la pelle». Una piccola quantità?! Ma quanto piccola? La sostanza chimica più potente capace di suggestionare fortemente la mente conosciuta fino ad allora era la 100

mescalina, di cui sono necessari circa 250 milligrammi … qui bastò una goccia di 50 milionesimi di grammo (50 µg) sulla pelle per mettere a disposizione di Hofmann un breve viaggio di appena due ore, ma notevole e intenso. Il lunedì 19 il chimico (oltrettutto svizzero) era deciso «ad approfondire la faccenda». La seconda esperienza della storia con l’LSD‑25 ebbe inizio giusto dopo le 17,00 e venne descritta con meno di 50 parole. Ogni proposito di continuare a prendere degli appunti di laboratorio veniva comunque subito vanificato, perché «le ultime parole potevano scriversi solo con gran difficoltà». Pregai il mio assistente di laboratorio di accompagnarmi a casa, convinto di ricadere nello stesso stato di agitazione del venerdì precedente. Eravamo ancora in bicicletta sulla via di casa, allorché mi resi conto che i sintomi stavano insorgendo molto più forti della prima volta. Provavo una gran difficoltà a parlare con una certa coerenza, il mio campo visivo ondeggiava dinanzi a me e gli oggetti

mi apparivano distorti come immagini in uno specchio curvo. Avevo l’impressione di non riuscire a muovermi sebbene il mio assistente in seguito mi riferì che avevamo pedalato a una buona andatura... Ma adesso il problema era costituito dal fatto che non aveva provocato una breve «ebbrezza non spiacevole». Hofmann aveva scoperto che la quantità che egli aveva ingerito, per quanto estremamente piccola, costituiva, a suo dire, «una dose sostanzialmente eccessiva». Più tardi, a casa, egli descrisse l’intera faccenda in questo modo: … le facce dei presenti sembravano grottesche maschere colorate; una forte agitazione si alternava a uno stato di paresi; la testa, il corpo e le estremità erano talvolta fredde e intorpidite; un sapore metallico sulla lingua; la gola secca e bruciante; un senso di soffocamento; uno stato confusionale alternato a una chiara percezione della situazione. Persi ogni controllo del tempo; spazio e tempo diventarono sempre più scoordinati ed io fui sopraffatto dalla paura di diventare pazzo. L’aspetto peggiore della situazione consisteva nel fatto che io ero chiaramente conscio della mia condizione, sebbene fossi incapace di bloccarla. Qualche volta provavo la sensazione di trovarmi fuori del mio corpo. Pensai di essere morto. Il mio «Ego» era sospeso da qualche parte nello spazio ed io vedevo il mio corpo giacere morto sul divano. Riuscivo a vedere e a rendermi perfettamente conto che il mio «alter ego» se ne andava in giro per la stanza lamentandosi. Il materiale fondamentale impiegato nella fabbricazione dell’LSD‑25 era costituito dalla segale attaccata dal fungo Claviceps purpurea (ottenendo cioè gli sclerozi di questo fungo filamentoso, la segale cornuta). Durante il Medio Evo e anche fin quasi ai giorni nostri si son verificati dei casi in cui la segale cornuta è stata inavvertitamente introdotta nella confezione del pane, provocando così le spiacevolissime conseguenze di un avvelenamento da ergotamina, denominate Fuoco di S. Antonio. La Claviceps purpurea è un fungo parassita che cresce nella spiga della Segale (una graminacea che cresce in tutta Europa e si sviluppa particolarmente in annate calde e piovose) e trasforma il chicco del ce­reale in un cornetto arquato, lo sclerozio, di co­lore nero-violaceo, di consistenza corneea, di odore nauseabondo e penetrante e sapore ama­rognolo. Tale sclerozio, la segale cornuta (kornmutter, blé cornu, cock


spur rye, cornezuelo de centeno...) fu l’agente patogeno delle endemi­che intossicazioni croniche che percorsero l’Europa contadina dal X al XIX secolo e che solitamente vengono de­finite epi­demie di ergotismo. La Claviceps era generalmente considerata una malattia del grano o delle graninacee. Il primo a nominarla sotto il nome di Clavus siliginis fu Leonicero (1565) che, nel suo Kräterbuch, accenna alle proprietà tossiche di questo fungo, indicando anche l’uso che ne facevano le donne “per produrre dolori all’utero, assumendolo alla dose di tre sclerozi, ripetuta varie volte”. Altri medici la chiamano Secalis mater o Secalis luxurians, il Linneo parla di un piccolo rafano silvestre il cui odore e sapore è comune a tutte le piante crucifere. Nel 1808 John Stearn pubblica quella che è la prima memoria scientifica sulla “pulvis parturiensis”. L’avvelenamento cronico (ergotismo) dovuto a farine provenienti da cereali infestati dallo sclerozio in questione è già rilevato fin dall’epoca altomedie­vale. Le prime notizie sicure di intossicazioni collet­ tive risal­gono all’857 e si trovano negli Annali dell’Abbazia di Xanten. Fra le numerose intossica­zioni a tipo epidemico di cui si ha notizia, triste­mente famose per la loro gravità ed estensione fu­rono quelle che si verifica­rono nel X e XI secolo in Germania, in Inghilterra e in Francia. Du­rante una di queste epidemie si racconta che Ugo Capeto raccogliesse gli infermi nella chiesa di Notre Dame a Parigi e li nutrisse a sue spese e che un certo Ga­stone, gentiluomo del Delfinato, dopo l’insperata guari­gione del figlio dal mal degli ardenti fondasse l’ordine dei Frati di Sant’Antonio incaricati di assi­stere e curare questi ammalati (l’Ordine venne con­ fer­ mato nel 1095 da papa Urbano II con lo scopo di soccor­rere i colpiti da ergotismo). La vicenda epi­demica in esame percorse l’Europa contadina fino agli inizi del XX secolo ed ebbe i momenti della sua massima letalità fra il X e il XVIII secolo. Le intossicazioni collettive da segale cornuta si sono storicamente presentate sotto due forme: una cronica e l’altra convulsiva. All’inizio esse offrono una sintomatologia comune: depressione, stan­chezza, do­lori lombari e alle estremità, specie al polpaccio, nausea, vomito, turbe mentali ed eccita­zione sensoriale. Dopo un periodo di incuba­zione (variabile da alcuni giorni a tre settimane) l’ergoti­smo cangrenoso si manifesta con

zione delle estremità, più freinfiamma­ quentemente le in­fe­riori, do­lori lancinanti e senso di insopportabile bruciore di tipo cau­stico (da cui i suoi vari nomi: fuoco sacro, mal des ardens, fuoco di S. An­tonio). Dopo l’in­sorgenza del fenomeno cangrenoso (che si svolge all’inizio con dolori acutissimi, da cui la ne­cessità di un qualche analge­sico) ne segue una quasi completa anestesia e la perdita degli arti infe­ riori (ma anche del naso e delle orecchie); la forma con­vulsiva si mani­festa invece con sintomi di forte formicolio alle estremità, forti dolori, nausea, ce­cità, sordità, vertigini, cefalee, delirio, epilessia, in­ deboli­mento delle facoltà mentali, afonia e disturbi della visione. In questa forma la

morte può soprag­giungere dopo tre giorni, oppure può seguire la gu­arigione che la­scia come postumi: emiplegia, epi­lessia, disturbi mentali. La presenza di turbe psichi­che o sensoriali, che compaiono nelle forme con­vulsive dell’ergoti­smo, chiamano a responsabili non solo gli alcaloidi

Mysterium dei gruppi ergotaminici, ergotos­ sinici e ergometri­nici, ma anche le ammine biogene della Claviceps purpurea e, essenzialmente, un con­comi­tante stato carenziale di vitamina A. Si noti comunque che, nel Medioevo, le pato­lo­gie carenziali non erano conosciute come tali, an­che quando i

101


Mysterium

sintomi principali erano in­ dividuati corret­ tamente. Al contrario i fattori dell’intossicazione dell’ergot de la siegle non pote­rono sfuggire a lungo all’osservazione, se non al­tro per il fatto che lo scle­ rozio veniva utilizzato espressamente come abortivo e, in numerosi casi, aveva come ulteriore effetto l’ergotismo. Mentre, quindi, non si cono­scono gli agenti patogeni che hanno provocato la grande epidemia di epilessia del XVI secolo, cono­ sciamo sia l’origine che gli esiti psicopa­ togenetici dell’ergotismo. Va notato che, nella storia dell’Oc­cidente eu­ropeo, l’epilessia e l’ergotismo convul­sivo rappresenta­ rono vere e pro­prie forme epidemi­che di malattie mentali a ezio­logia organica (di­ verse dalle patologie a carattere psicogeno). L’unica cura, a quei tempi, davvero efficiente contro lo squilibrio del sistema ner­ voso centrale e le distonie neurovegetative sarebbe stata (e in molti casi lo fu) l’uso 102

“omeopatico” della Claviceps por­purea asso­ciata all’Atropa belladonna (ancora oggi si usano, tra gli altri, farmaci a base di ergotamina e alcaloidi simpaticolitici della bella­donna: atropina e scopolamina). La Segale cornuta, presa sia in grani che in pol­vere, è inoltre un po­tentissimo utero­ tonico (in pas­sato veniva detta pulvis parturiensis, ma ancora oggi viene sommini­ strata sotto forma di metilergo­ basina come facilitante del parto e come abortivo e serve a guarire varie forme di me­tro e menoraggia). Come abortivo essa veniva utilizzata fin dall’Alto Medioevo e di ciò fanno fede vari Penitenziali che ne contemplano l’uso da parte delle streghe ostetri­che. In più di un processo per strego­ neria, inoltre, gli Inquisi­tori danno segno di conoscere le attività di «procuratrici d’aborto» delle donne che, tra gli altri metodi meccanici, facevano uso del fungo della segale. Molte delle intossica­ zioni a sin­

tomatologia convulsiva furono provocate, molto probabilmente, da in­ge­stione di forti dosi di segale cornuta, o suoi preparati galenici, a scopo abortivo. Come nel caso dei sedativi allucinogeni (atropinosi­mili), anche in questo caso non è irragio­nevole supporre che la te­rapia della strega si trasformi in preparazione di una nuova «sacerdotessa di Satana». Tipico esempio di epidemia a causa alimentare, l’ergotismo porta con sè tutta una serie di problema­ tiche sociali che chiamano in gioco il “paese della fame”, i “territori della follia” e principalmente la “condizione della donna”. Io personalmente scrissi a Hofman verso la fine del 1978, dato ch’erano anni che mi occcupavo del famoso farmaco che induceva al volo verso il Sabba, avendo letto la sua risposta a Wasson inerente ad Eleusi; dopo un poco anche a me arrivò un’identica risposta: “Sapendo che la dose efficace di amide dell’acido lisergico oscilla


tra 1 e 2 mg per via orale, decisi pertanto di sperimentare personalmente una quantità simile di ergonovina: Ore 12.20: 2,0 mg di ergonovina maleato di idrogeno, contenente 1,5 mg di ergonovina base, ingerito in un bicchiere d’acqua. Ore 13.00: Leggera nausea, come sempre nei miei esperimenti con l’LSD o la psilocibina. Stanco, bisogno di sdraiarmi. A occhi chiusi figure colorate. Ore 13.30: Gli alberi nella vicina foresta sembrano animati, i loro rami si muovono in modo minaccioso. Ore 14.30: Forte desiderio di sognare, incapace di svolgere attività sistematiche, a occhi chiusi o aperti tormentato da sensazioni e figure simili a molluschi. Ore 16.00: I motivi e i colori sono più evidenti, ma celano tuttora pericoli invisibili. Ore 17.00: Dopo un breve sonno mi sono svegliato con una sorta di esplosione interiore di tutti sensi”. La sua potenza è di circa un ventesimo di quella dell’LSD e circa cinque volte maggiore di quella della psilocibina. Tra i tipi di ergot prodotti dalle varie specie del genere Claviceps che si trovano su cereali e erbe selvatiche ne esistono alcuni contenenti alcaloidi allucinogeni, soprattutto amide dell’acido lisergico, idrossietilamide dell’acido lisergico ed ergonovina e sono idrosolubili, al contrario di quelli non allucinogeni del tipo ergotamina ed ergotossina impiegati in medicina. Grazie alle tecniche e alle strumentazioni di cui disponeva l’antichità era quindi facile preparare un estratto allucinogeno a partire da determinati tipi di ergot. Ma quali erano questi tipi di ergot accessibili agli antichi greci? Là non cresceva la segale, ma grano e

orzo sì e sappiamo che la Claviceps purpurea ne è l’infestante per eccellenza e la pianura Riaria aveva dato ospitalità a Demetra e alle sue spighe d’orzo. Ma com’è è che le endemie di ergoismo non colpirono Eleusi come in Europa? Prima di tutto la farina veniva macinata in casa e la spiga si poteve pulire dagli sclerozi infestanti. L’orzo infestato era per i Greci il ricordo di Demetra che nega la morte e guarisce l’universo con l’ininterrotto, incessante e perpetuo ciclo di morte-rinascita. La bevanda preparata con la separazione degli agenti allucinogeni, mediante una semplice idrosoluzione, dagli alcaloidi non solubili ergotamina e ergotossina rientrava facilmente nel novero delle facoltà di cui disponevano i primi abitanti della Grecia: bastava mescolare a lungo e fortemente e poi usare come filtro una garza. Un metodo ancora più semplice – dice Hoffman - poteva esser quello di utilizzare una certa qualità di ergot come la specie che cresce sull’erba Paspalum distichum, contenente solo gli alcaloidi allucinogeni e pertanto impiegabili direttamente sotto forma di polvere … la P. distichum è diffusa in tutto il bacino mediterraneo. Non è improbabile che gli ierofanti di Eleusi abbiano esteso la loro conoscenza e migliorato le loro capacità nel corso dei molti secoli che videro i Misteri prosperare e affascinare l’antico mondo greco. Per l’antichità e per noi, essi sono associati a Demetra e Core, che insieme a Trittolemo rappresentano i famosi progenitori mitici della coltivazione del grano e dell’orzo. Nel corso del tempo gli ierofanti avrebbero potuto scoprire facilmente la Claviceps paspali che cresce sull’erba Paspalum distichum. Da qui avrebbero potuto estrarre il loro allucinogeno in maniera diretta e in forma pura. La conoscenza mistica, il cammino sapienziale basato sull’intuizione estatica, che tende alla comunicazione diretta con il divino come alternativa escludente la via della ricerca razionale, è sempre stato negato da taluni interpreti della civiltà greca che l’hanno studiata come se questa fosse una storia sperimentabile e misurabile, ossia una disciplina empirica. La “visione eleusina”, che rappresentava l’esperienza suprema nella vita di un greco e che avveniva durante la celebrazione dei Misteri, viene ridotta a un evento socio-politico in cui si vede e si sente quello che tutti vedono e sentono: gli oggetti sacri, le immagini degli dei, i rituali religiosi, le rappresenta-

zioni simboliche … Il verbo orào (vedere), presente in tutti i documenti eleusini, sta, infatti, per “comprendere, conoscere, capire”, ossia un cammino mistico. L’iniziazione avveniva intervenendo ai Piccoli Misteri (celebrati in primavera ad Agra) e, sei mesi dopo (in settembre), partecipan-

Mysterium do ai Grandi Misteri di Eleusi tramite tutta una serie di istruzioni rituali, astensioni, purificazioni, digiuni … tanto che l’accesso al telesterion (la sala di iniziazione del tempio) era proibito ai non iniziati, a costo di pene severissime, e l’epopteia, il più alto grado della visione eleusina, era possibile, ma un anno dopo, ai soli superstiti di questo processo di selezione. La rinascita dalla morte era il segreto di Eleusi. Demetra cerca di negare la morte, poi tenta di conferirle l’eternità e infine riesce a guarire l’universo con l’ininterrotto, incessante e perpetuo ciclo di morte-rinascita. Questo rito si compiva con l’assunzione del “ciceone” in un contesto contemplativo, visionario e mistico, ossia “il pascolo che si addice alla parte migliore dell’anima”. “Al momento della morte l’anima prova un’esperienza simile a quella di coloro che sono iniziati ai misteri ... All’inizio vagare smarriti, faticoso andare in cerchio, paurosi percorsi nel buio, che non conducono in alcun luogo. Prima della fine il timore, il brivido, il tremito, i sudori freddi e lo spavento sono al culmine. E poi una luce meravigliosa si offre agli occhi, si passa in luoghi puri e prati dove echeggiano suoni, dove si vedono danze; solenni sacre parole e visioni divine ispirano un rispetto religioso. E là l’iniziato, ormai perfettamente liberato e sciolto da ogni vincolo, si aggira, incoronato da una ghirlanda, celebrando la festa insieme agli altri consacrati e puri, e guarda dall’alto la folla non iniziata, non purificata nel fango e nelle tenebre, e, per timore della morte, attardarsi fra i mali invece di credere nella felicità dell’aldilà”. [Plutarco, Fragmenta 168 Sandbach = Stobeo 4, 52, 49]. P.98: Iniziando ai Misteri, bassorilievo in marmo, periodo Augustano ca.; p.99 in alto: Testa di filosofo, Atene; p.99: Pittura misterica vascolari, Atene; p.100 e 102: Copie romana di sculture greche, età imperiale; p.101: Disegno botanico del 1843 dell’Ololiuqui; p.102 in basso: Formule chimiche di composti psicotropi citati; p.102 in alto: Offerta del Ciceone, pittura vascolare; p.103: Demetra.

103


Esoterismo

Grande Opera, collezionismo e mitologia nordica Note e materiali sul danese Olaus Worm Davide Arecco

104


Esoterismo

I

l Necronomicon nella storia dell’esoterismo occidentale Nella Storia del Necronomicon (1927), vero laboratorio dei Miti di Cthulhu,1 Howard Phillips Lovecraft raccontò che l’Azif dell’arabo pazzo Abdul Alhazred raggiunse Bisanzio prima dell’anno Mille, tradotto in Occidente da Teodoro Fileta, di Costantinopoli, con il titolo di Necronomicon. Per circa un secolo il libro maledetto, secondo la ricostruzione fantastica di Lovecraft, spinse alcuni sperimentatori a compiere terribili esperienze, dopodichè venne bandito e fatto bruciare dal patriarca Michele. In seguito se ne è sentito parlare poco e segretamente, ma nel 1228 Olaus Wormius ne fece una traduzione in latino medievale e questa versione fu stampata due volte: una nel quindicesimo secolo in caratteri gotici (evidentemente in Germania) e l’altra nel diciassettesimo (probabilmente in Spagna). Entrambe le edizioni non hanno contrassegni di identificazione, ed è possibile stabilire una collocazione geografico-temporale solo in base alle caratteristiche tipografiche interne. Tanto la versione greca che quella latina furono messe all’indice nel 1232 da papa Gregorio IX: evidentemente la traduzione del Wormius, avvenuta poco prima, aveva richiamato l’attenzione della Chiesa. L’originale arabo era da considerarsi perduto già ai tempi di Wormius, come da lui indicato nell’introduzione all’opera; nessun esemplare della versione greca – che fu stampata in Italia fra il 1500 e il 1550 – è stato più visto dopo l’incendio di

una certa biblioteca privata a Salem, nel 1692.2 Il solitario di Providence immaginò – ed è la parola giusta, dato che il Necronomicon fu solo un frutto della sua fantasia letteraria – che, prima di finire all’Index Expurgatorius nel XIII secolo, la traduzione latina del grimorio fatta dal Wormius fosse stata pertanto mostrata al pontefice.3 Non mancò, si sa, chi prese (e prende, tuttora) molto sul serio la storia inventata da Lovecraft. Nel 1936, il suo corrispondente Willis Conover gli inviò il fascicolo di una rivista amatoriale, contenente una finta recensione – opera dell’appassionato Donald Wollheim,

divenuto poi un autore eminente nella narrativa fantascientifica – circa una versione in inglese moderno del famigerato Necronomicon, ad opera del dottor W.T. Faraday. Reagendo a questo primo calembour del suo libro, Lovecraft finse di stare al gioco, rispose facendo alcune puntualizzazioni e mostrandosi altresì interessato alla cosa, sia pure stigmatizzando profeticamente le leggende in continua crescita sul Necronomicon. Grande fu la sua meraviglia nello scoprire che l’unica traduzione esistente oltre a questa, destinata alla pubblicazione, è la rarissima opera in latino di un cer105


Esoterismo

to mago Olaus Wormius, che venne bruciato sul rogo per eresia diverse centinaia di anni orsono. La presente versione è una riduzione dell’originale. Questo libro non è destinato al pubblico. È stato stam106

pato principalmente per essere messo a disposizione di quegli studiosi dell’Occulto che ne stimano necessaria la consultazione per le loro ricerche. Si suppone che sia un trattato sulle sfere dell’Occulto e la

loro interazione con l’umanità fin dall’alba della storia. [...] Nel complesso questa pubblicazione rimarrà un contributo essenziale per la scienza dell’Occulto. È anche un’introduzione alla cosmogonia degli Antichi Dei che, secondo le opinioni dei mistici, vennero prima della nascita dei moderni demoni.4 Ancora, tra gli altri, il rimando al nome di Wormius, fatto entrare nella storia del libro che, più di tanti solo in apparenza analoghi, raccoglie gli inquietanti frammenti d’un sapere dimenticato.5 In effetti, quella di Olaus Worm, latinamente Wormius, è una delle più importanti e sconosciute figure dell’alchimia seicentesca. Nulla su di lui nelle più note storie dell’esoterismo e dell’occultismo,6 né in altrimenti pregevoli dizionari o repertori bibliografici.7 Ancora meno nelle storie della scienza, a cui peraltro il danese seppe fornire non irrilevanti contributi. Quello relativo a Worm – nato ad Arhus il 13 maggio 1588, morto a Copenhagen


il 31 agosto 1655 – rimane uno dei pochissimi errori di documentazione in cui sia mai caduto Lovecraft. Infatti, il medico, filologo ed alchimista danese non visse nel Duecento, ma in epoca barocca. In una data imprecisata, l’autore di Providence si accorse comunque dell’errore, dal momento che in una lettera del giugno 1936, a James Blish e William Miller, riportando le informazioni ‘editoriali’ riguardanti il Necronomicon, si corresse, datando la ‘traduzione’ di Worm al 1623.8 Del biologo e collezionista di cose antiche – concernenti in prevalenza il mondo nordico: Worm è ancora giustamente ritenuto il padre putativo degli studi di archeologia in Scandinavia – Lovecraft dovette leggere per la prima volta il nome in uno dei libri settecenteschi della biblioteca di famiglia, A Critical Dissertation on the Poems of Ossian, the Son of Fingal (1763) di Hugh Blair (1718-1800). Il testo include un’ampia sezione sulla poesia runica, definita anche gotica (in riferimento ai Goti), in cui si legge che i loro poeti erano distinti dal titolo di Scaldi, e le loro liriche erano chiamate Vyse. Saxo Grammaticus, storico danese di considerevole dottrina, che fiorì nel XIII secolo, ce ne parla. [...] Un più curioso monumento di vera poesia gotica è tramandato da Olaus Wormius, in un suo libro De Literatura Runica. In esso è contenuto un Epicedio, o canto funebre, composto da Regner Lodbrog, e che Olaus traduce in latino, parola per parola, dall’originale.9 Tradito, una volta tanto, dalla sua altrimenti proverbiale e formidabile memoria, Lovecraft per tanto confuse, al momento della stesura della History of Necronomicon, le due figure di Ole Worm e Saxo Grammaticus, retrodatando il primo ad inizio ‘200. Nel corso della gioventù, egli aveva pure tradotto in inglese l’Epicedio di Ragnar Lodbrog, il cui testo aveva trovato riportato (nella versione latina) nel libro di Blair.10 Nella prima metà del XVII secolo, Worm fu un’autorità indiscussa negli studi sulle letterature scandinave antiche e sulle lingue germaniche. Tra i primi fondatori e interpreti della runologia, a cui dedicò i celebri Fasti Danici – editi in Copenhagen nel 1626 e ristampati dal Moltkenius nel 1653 – di fatto una cronologia della Danimarca, che contiene i

Esoterismo

primi risultati delle ricerche condotte dal Worm sulla sapienza runica, scrisse la Runir seu Danica literatura antiquissima vulgo gothica dicta de prisca Danorum poesi dissertatio (pubblicata inizialmente a Amsterdam da Johann Jansonius nel 1636 e poi riedita a Copenhagen nel 1651, per i tipi di Melchior Martzan e Georg Holst), in assoluto la prima antologia nota di poesia runica, che interessò il Re di Danimarca e ne riscosse una calorosa approvazione. Worm collezionò diverse iscrizioni incise in alfabeto runico, molto rare già durante il Seicento e in alcuni casi oggi perdute nell’originale. Questo rende i suoi scritti – si occupò anche di calendario, con il Computus runicus – fonti del tutto pionieristiche e imprescindibili. Altre opere da lui consacrate alle antichità danesi e alla storia nordeuropea furono le Regum Daniae Series, edite a Copenhagen da Martzan nel 1642 (nuova ed aggiornata cronologia scandi-

nava, non senza ulteriori e preziose notizie su leggi, usanze dei popoli nordici e lingua runica) e i Danicorum monumentorum libri sex (Hafniae 1643, una storia antiquaria di Danimarca e Norvegia compilata attraverso raccolte d’immagini e iscrizioni runiche, conosciuta altresì come Monumenta Danica).11 Worm curò inoltre la pubblicazione nel 1650 nella capitale danese dello Specimen lexici runici dell’erudito ed umanista rinascimentale Olaus Magnus (14901588),12 colui che aveva aperto la via agli studi runologici nella prima età moderna. Worm scrisse anche a riguardo dei famosi corni d’oro di Gallehus.13 Il suo De aureo cornu Danico – indirizzato, nel 1641, all’aristotelico Fortunio Liceti, il medico ligure ed amico di Galileo – stimolò le Observationes novae de aureo cornu Olai VVormi eruditorum Iudicia (Padova 1645), dell’anatomista danese Thomas Bartholin (1616-1680), pure 107


Esoterismo

lui di Copenhagen e cognato dello stesso Worm.14 Il De aureo cornu venne poi ripubblicato, nel 1676, da Bartholin nel suo trattato De armillis veterum. L’operazione di recupero culturale intrapresa da Worm non fu senza conseguenze. In Svezia, nel corso del secolo XVII, si sviluppò – ad opera del linguista ed esoterista Johannes Bureus – una particolare forma di cabala influenzata da speculazioni runologiche. Si trattava di una cabala gotica, che ricomprendeva le leggende sui mitici Goti (i primevi abitanti della penisola scandinava), i miti greci e la ricerca runologica-iperborea avviata, tra ‘500 e ‘600, da Magnus e Worm. In questo caso, però, il fine malcelato era quello di esaltare la grande potenza politica svedese. Nella cabala gotica, le rune e le antiche divinità nordiche vennero unite da Bureus all’occultismo coevo, all’ermetismo e all’alchimia. Il mistico svedese pensava che le rune, al pari del lin108

guaggio cabalistico, possedessero in forma nascosta diversi livelli di magia operativa, accessibili al solo iniziato, durante un processo plurigraduale. Le rune si sarebbe così svelate nelle Adel-rune, le ‘rune nobili’, una rappresentazione macrocosmica della scintilla divina presente al fondo dell’animo umano, da riattivare e da riportare in luce mediante apposite pratiche esoteriche ad uso di pochi adepti meritevoli.15 Il goticismo di Bureus – antiquario di formazione, come Worm – s’ispirava dunque alla cabala e all’alchimia (segnatamente quella di Agrippa, Paracelso, Reuchlin e Agricola). Bureus denominò Adulrunor la dimensione segreta delle rune e disegnò un simbolo che la raffigurasse, davvero molto simile alla monade geroglifica dell’occultista inglese John Dee (il simbolo che contiene tutti i segni planetari). Il successo e gli impieghi del sistema gotico-runico di Bureus furono grandi in patria: le rune vennero utilizzate dagli ufficiali dell’esercito svedese, durante la Guerra dei Trent’anni (16181648), per decrittare le comunicazioni tra i reparti al fronte.16 Nel medesimo periodo, Bureus, molto colpito dalla lettura di manoscritti di magia medievale e in particolare dal messaggio neo-platonico dei manifesti Rosa-croce, ne stese nel 1616 un commento dal titolo FRC faMa e sCanzIa reDUX. Alchimia, medicina e geologia nella Danimarca del Seicento Anche Worm, come Bureus, fu un alchimista. A Rostock, “typis Mauritii Saxonis”, apparve, nel 1624, il suo Liber aureus philosophorum de mundi fabrica, un trattato sulla pietra filosofale. È neces-


sario ed importante soffermarsi brevemente sull’approccio alchemico di Worm. Il danese, nel praticare le trasmutazioni previste dall’arte reale, denota uno stile tutto suo particolare, quantitativo e sperimentale, vicino ai paradigmi della nuova filosofia naturale. Worm pesa, misura, quantifica e compie autentici esperimenti di alchimia. Rilegge, in altre parole, la tradizione ermetica in chiave ‘scientifica’. Un approccio non frequentissimo nella storia delle procedure alchimistiche (lo si può ritrovare quasi soltanto nel Newton delle carte private, per restare nel Seicento), che con una vena in apparenza ossimorica e paradossale lo storico potrebbe definire pre-illuministico, tale e tanto è – in Worm – il bisogno di ridefinire elementi e processi dell’alchimia in maniera chiara e rigorosa, senza incrostazioni o ciarlatanerie. È come se Worm, tramite la nuova scienza e i suoi metodi, purificasse l’alchimia dalle oscurità più fuorvianti, con il solo obiettivo di dimostrare scientificamente le verità della Grande Opera. Può darsi che a determinare tale forma mentis sia stata l’eredità epistemologica del suo più grande connazionale della generazione precedente, Tycho Brahe (1546-1601). Il grande astronomo danese, maestro a Praga di Keplero, aveva infatti insegnato a condurre studi di statica e dinamica sugli strumenti della scienza, convinto come Worm che il sapere si costruire in fabrica. Il Liber aureus fu il battesimo del fuoco di Worm nella Repubblica delle Lettere d’allora. Sino a quel momento aveva in pratica pubblicato solo la sua Tesi di Laurea.17 Figlio del borgomastro di Arhus e d’una luterana fuggita da Arnhem (Paesi Bassi) durante le persecuzioni cattoliche e riparata nella Danimarca protestante, aveva viaggiato a lungo, studiato a Marburgo (1605), a Padova (16081609), a Strasburgo (1610) ed a Basilea, dove nel 1611 si era laureato in Medicina. Sceso in Italia, a Bologna aveva potuto visitare l’orto botanico di Ulisse Aldrovandi – la cui monumentale Naturalis Historia sarebbe stata alla base di numerose sue successive ricerche – e Napoli si era incontrato con lo studioso di storia naturale ed alchimista Ferrante Imperato.18 Dopo avere esercitato come medico, anche in Inghilterra, dietro permesso del Royal College of Physicians di Londra, nel 1617

Esoterismo

Worm si era riportato in Danimarca ed aveva ottenuto una cattedra all’Università di Copenhagen. Dapprima, aveva insegnato Eloquenza greca e latina, in seguito Fisica e infine Medicina. Diventò professore di quest’ultima proprio nel 1624, mentre dava alle stampe il Liber aureus. Molto apprezzato alla corte dei Padernborn, venne altresì nominato medico personale del re Cristiano IV. In ambito accademico si rivelò ben presto un valente fisiologo e mostrò sempre dedizione al lavoro, rettitudine e senso del dovere: cosa rimarchevole per un medico di quegli anni, durante l’epidemia di Morte nera che colpì Copenhagen tra il 1654 e il 1655, Worm rimase al suo posto in qualità di ministro della salute. Morì così vittima del morbo che stava vanamente tentando di curare, prodigandosi per gli altri. Numerosi furono i libri di argomento medico e soprattutto embriologico scritti da Worm.19 Da lui prendono il nome le ossa del cranio dette, in suo omaggio,

‘wormiane’. Nel campo delle scienze della vita, inoltre, sempre sua è la prima descrizione circostanziata dei così detti uccelli del paradiso (che in precedenza erano stati erroneamente ritenuti privi di zampe) e l’inclusione del lemming nel novero dei roditori. Riguardo a quest’ultimo, Worm sfatò un tabù, dimostrando, attraverso puntuali investigazioni empiriche, che non era un frutto della generazione spontanea.20 In ambito medico, la metodologia di Worm fu pertanto schiettamente induttiva e baconiana. Riconsegnò l’esistenza degli unicorni alle favole e al folclore, fece ordine in diversi settori dello scibile medico e si occupò anche di venefici, la cui letteratura in merito principiava giusto allora – le Quaestiones medicolegales del felsineo Paolo Zacchia datano 1634 – e si sarebbe protratta almeno sino a Bleak House di Dickens. Vero enciclopedista barocco, dotato di profonda erudizione ed ottima preparazione filologica, Worm fu un grande collezionista di 109


Esoterismo

piante, animali e minerali (nella fattispecie del Nuovo Mondo), pietre e fossili – si interessò grandemente alla formazione delle rocce, vulcaniche e no – che ordinò in modo sistematico e organico nel Museum Wormianum, da lui creato a Copenhagen, grazie anche al munifico appoggio della monarchia danese, che gli concesse una lauta pensione reale, sul tipo di quelle elargite mezzo secolo dopo da Luigi XIV agli hommes de lettres di Francia.21 Nella storia della sistematizzazione museale Worm fa data. Eterogenea, abbondante, bella sul piano iconografico: la sua collezione di oggetti, strumenti, rariora et mirabilia, impressiona ancora oggi. Tra XVI e XVII secolo, gli exempla a cui richiamarsi erano davvero pochissimi. Worm scelse il gabinetto di curiosità impiantato da Aldrovandi, a Bologna. Nell’incisione del museo di Worm (ci si riferisce al frontespizio del suo catalogo a stampa) l’attenzione di chi guarda viene attirata dalla statua di un uomo con a fianco una giacca, un paio di stivali e degli speroni, come pure dal pesce – impa110

gliato – che pende dal soffitto, insieme a un piccolo orso e dalle corna di cervo appese al muro, assieme a corni per bere. Il catalogo rivela una gamma ancora più ricca di oggetti: mummie egizie, spille romane antiche, monete di Giava e manoscritti provenienti dal Giappone, oltre naturalmente a moltissimi reperti di area nordica. Tra questi, lance della Groenlandia, un arco lappone, embrionali sci finlandesi, nonché un antico scudo norvegese. La realtà della collezione ha, senz’altro, anche un valore allegorico. Osservando più attentamente, tuttavia, un’esposizione così stratificata palesa pure un pronunciato desiderio di classificazione razionale: il museo di Worm include scatole etichettate ‘metalli’, ‘pietre’, ‘legno’, ‘conchiglie’, ‘erbe’, ‘radici’ e via di seguito. I corni sono accostati per lo stesso materiale di fabbricazione. La descrizione della collezione wormiana è poi distinta in quattro libri, che trattano rispettivamente di pietre e metalli (ancora, ritorna l’alchimia), piante, animali ed artefatti (artificiosa). In quest’ultima catego-

ria, di fatto, possiamo far rientrare tanto gli strumenti di carattere tecnico-scientifico e matematico, quanto le produzioni ermetiche condotte con l’atanòr. I reperti del museo, detto altrimenti, sia che si trattasse di naturalia, sia che fossero artificiali, erano classificati non secondo il luogo o il periodo, ma in base alla sostanza di composizione. In tal modo, il museo assurge a microcosmo, a universo in miniatura. Il milanese Manfredo Settala, per rimanere nel XVII secolo, adottò la stessa classificazione di Worm.22 Indicativo e cifra dei mutati tempi è il fatto che Worm assegnasse a naturalia e artificialia la medesima dignità, lo stesso valore. Non si dà in lui – come in altri colleghi suoi anche più illustri: Mersenne, Cartesio, Beckmann, Bacon, Boyle, Hobbes – alcuna differenza qualitativa tra ciò appartiene alla natura e ciò che è prodotto dall’uomo (entrambi creati da Dio). Anche Worm, quindi, fornisce il suo personale contributo alla caduta di un tabù, vale a dire il divieto – prima aristotelico, poi scolastico – di considerare in maniera pa-


ritaria i fatti naturali e gli artifici umani. Questi ultimi vanno posti sullo stesso piano, senza discriminazioni di nessun genere: Worm ammira in eguale misura le vette montane e le invenzioni. Un mutamento di mentalità scientifica ragguardevole rispetto al vecchio e stantio dogmatismo peripatetico. Il collezionista danese dedicò, altresì, una particolare attenzione ai metodi esotici di scrittura: testi redatti in arabo, etiope, cinese e giapponese furono raccolti nel suo museo (come in quello del Settala, di poco successivo e da Worm ispirato).23 Va detto che, a differenza di quanto accadde con padre Kircher a Roma, Worm non si fece però ammaliare dalla fascinazione per il bizzarro a tutti i costi, né ridusse mai a pure occasioni di svago intellettuale le proprie collezioni. In esse, il medico e alchimista danese cercava semmai le prove tangibili d’antiche forme di saggezza, retaggio d’epoche storiche molto più lunghe di quanto la cronologia ebraico-cristiana allora in auge non fosse disposta ad ammettere. In definitiva, Worm si mosse, accorto e intelligente, fra erudizione classica e filosofia naturale, fra antico e moderno, fra scienza e alchimia. Negli studi di mitologia nordica e sulle lingue runico-scandinave Worm fa ancora testo: menzionando i suoi Danicorum Monumentorum, il grande Georges Dumézil lo ha definito un ‘seducente archeologo’.24

Esoterismo

______________________

Note: 1 A. Darleth, I miti di Cthulhu, Roma 1975. 2 H.P. Lovecraft, I miti dell’orrore, Milano 1989, pp. 214-215; H.P. Lovecraft, Necronomicon, Roma 1994, pp. 198-199. Si vedano anche i vari seguiti (H.P. Lovecraft – A. Darleth, La lampada di Alhazred, Roma 1977; H.P. Lovecraft, Il testo di R’lyeh, Roma 1996; H.P. Lovecraft, La tomba di Alhazred, Roma 1997), nonché i falsi (L. Carter, Lovecraft. A look behind the Cthulhu Mythos, New York 1972; L. Sprague de Camp, The Necronomicon, Philadelphia 1973; H.R. Giger, Necronomicon, Basilea 1977; C. Wilson, The Necronomicon. The book of dead names, Jersey 1978). Sul Necronomicon del mago elisabettiano John Dee, vedasi J. Bergier, I libri maledetti, Torino 2008, p. 85. La migliore monografia su Lovecraft, il ‘razionalista sognatore’ che scrisse di fantascienza orrorifica con gli occhi della mente rivolti ai Lumi del Settecento inglese, rimane quella di G. de Turris – S. Fusco, Lovecraft, Firenze 1979, ma può essere utile e interessante anche leggere il profilo, agile ma denso, scritto da M. Houellebecq, H.P. Lovecraft. Contro il

111


Esoterismo

mondo, contro la vita, Milano 2001. 3 A. Baker, Storia dei maghi, Milano 2005, pp. 173-224: 192. 4 H.P. Lovecraft, I racconti del Necronomicon, Roma 1993, p. 11. La finta recensione si chiude con il richiamo – ma questo è ricavato pari pari dalla storia e cronologia approntata per il Necronomicon da Lovecraft – al Re in giallo di

112

Chambers e al Dizionario del Diavolo di Bierce, che si ispirarono entrambi all’autore dei Miti di Cthulhu. Su coloro i quali realmente credevano nell’esistenza materiale dell’Azif e sul Necronomicon in generale, Lovecraft tornò più volte in diverse lettere del suo ricco epistolario (S. Fusco, Storia del Necronomicon di H.P. Lovecraft, Roma 2007, pp. 119 e segg.). Natural-

mente, Worm non fu mai condannato: la sua fine per mano dell’Inquisizione è invenzione di Wollheim. 5 Rimarchevole, Worm a parte, fu l’erudizione lovecraftiana su temi di storia della magia. E molte, al riguardo, le fonti impiegate dal grande scrittore statunitense. Tra queste possiamo annoverare diverse opere d’età moderna: la Clavis alchemiae del rosa-crociano inglese Robert Fludd, la Daemonolatreia (1595) del francese Nicholas Remy, il De furtivis literarum notis (1563) del partenopeo Giambattista Della Porta (che fu anche accademico dei Lincei), numerosi trattati di crittografia rinascimentale, il Saducismus triumphatus (1666) del baconiano inglese – e membro della Royal Society – Joseph Glanvill (sul quale rimando, qui, alle belle pagine di R.F. Jones, Antichi e moderni. La nascita del movimento scientifico nell’Inghilterra del XVII secolo, Bologna 1980), il classico Paradise Lost (1667) di Milton, i Cryptomenysis patefacta (1685) di John Falconer, le puritane Wonders of the Invisible World (1693) del newtoniano americano Cotton Mather, la Bibliotheca chemica curiosa (1702) del Manget, le Witches di Lamb, il Vathek scritto in francese da William Beckford (1759-1844) nel 1782, nonché il Liber damnatus, un’edizione inglese del Grimorium Verum (la cui più antica versione a stampa data 1517 ma è probabilmente un falso di fine Settecento). Di antico Lovecraft utilizzò soprattutto le Vite parallele di Plutarco, di medievale invece: il Liber Investigationis di Geber, l’Image du Monde di Gauthier di Metz, lo Speculum alchimiae (1266 circa) di Roger Bacon (tra le fonti, nel tardo XVI secolo, in Londra, di Dee), l’Ars magna et ultima e il Thesaurus chemicus di Raimondo Lullo, che Lovecraft conobbe, altresì, nella più tarda edizione di Opera omnia pubblicata a Magonza, dal 1721 al 1742 (L. Spence, Encyclopedia of Occultism, New York 1920, ad vocem). Si veda, sull’argomento, Fusco, Storia del Necronomicon, cit., pp. 273 e segg. Altre informazioni ancora in G. de Turris, Il drago in bottiglia. Mito, fantasia, esoterismo, Empoli (FI) 2007, pp. 34-40; G. de Turris, Cronache del fantastico. Science fiction, fantasy, horror su “L’Eternauta”, Roma 2009, pp. 173-175. 6 J.Tondrian, Guida all’occultismo, Milano 1966; P.A. Riffard, Storia dell’esoterismo, Genova 1987. 7 H. Biedermann, Handlexicon der Magischen Künste, Graz 1968; AA. VV., Bibliotheca magica, Firenze 1985; AA. VV., Bibliotheca esoterica, Paris 1996. 8 H.P. Lovecraft, Selected Letters, V, 1934-1937, Sauk City 1976; H.P. Lovecraft, Uncollected Letters, West Warwick 1986; H.P. Lovecraft, Lord of a Visible World. An Autobiography in Letters, Cleveland 2000. 9 Fusco, Storia del Necronomicon, cit., p. 34. 10 H.P. Lovecraft, Il vento delle stelle, a cura di S. Fusco, Roma 1998, pp. 179-181. 11 Per una lettura ario-sofica, vedasi il classico e discusso G. von List, Il segreto delle rune, Mi-


lano 1994. 12 L’autore della Carta marina (1539) e della Historia de gentibus septentrionalis (1555), fratello di Johannes (il fondatore del Goticismo svedese a metà del secolo XVI, estensore della celebre Historia de omnibus Gothorum Regibus nel 1554). I due videro nelle pietre runiche, collezionate e interpretate poi da Worm, la prova dell’antichità della cultura scandinava, convinti che le grandi pietre runiche dovessero essere state trasportate nel Nord Europa da giganti, vissuti in ere primordiali, con buona probabilità assai prima del Diluvio biblico. Scopo comune dei due Magnus era naturalmente anche quello di descrivere e far conoscere i paesi nordici, con la loro geografia ed etnografia, ai dotti continentali. Nella Carta marina, compare il mitico guerriero Starkader (G. Chiesa Isnardi, I miti nordici, Milano 1991, pp. 254 e segg.), con una tavoletta runica sotto braccio. Queste rune erano analoghe a quelle che i fratelli avrebbero pubblicato tre lustri dopo, nel loro alfabeto gotico, dove lettere latine si ritrovano associate ai caratteri runici, in ordine progressivo. Olaus Magnus era sicuro che i popoli nordici possedevano il loro antico linguaggio da tempi immemorabili, che si perdevano nella leggenda. A conti fatti, onorò la sua terra, ne preservò antichi monumenti e fece conoscere la storia delle nazioni settentrionali presso una più larga schiera del ceto colto di allora. Il passo successivo, ossia il collegamento fra Goti e Iperborei, venne compiuto prima dall’opera di Jacob Ziegler – Schondia è del 1532 – e poi nel Seicento dal grande Olof Rudbeck. Questi, influenzato dall’Edda di Snorri Sturleson (L. Lun, Mitologia nordica, Roma 1987, pp. 49 e segg., 193 e segg.), identificò nella sua Svezia l’Atlantide di Platone. Amico di Celsius e di altri membri della comunità scientifica svedese, stimato e influente sino al Settecento di Linneo, Rudbeck diffuse la convinzione che l’idioma dei Goti fosse la lingua parlata prima della confusione linguistica, causata dalla Torre di Babele (T. Karlsson, Le rune e la Kabbala, Roma 2007, pp. 29 e segg.). 13 Si tratta di due corni fabbricati in oro, uno più corto dell’altro, scoperti a Gallehus, a nord di Thander, nello Jutland meridionale, in Danimarca. Il più lungo dei due – quello la discussione sul quale coinvolge per l’appunto Worm, Liceti e Bartholin – venne ritrovato nel 1639, mentre il secondo nel 1734, a quindici-venti metri dal luogo della prima scoperta. La datazione risale al V secolo, circa. Vi sono raffigurate figure mitologiche ed il più piccolo dei due contiene un’iscrizione in proto-norreno. 14 J. Benediktssom, Ole Worm’s correspondence with Icelanders, Copenhagen 1948. 15 T. Karlsson, La Kabbala e la magia goetica, Roma 2005. 16 N. Pennick, Secrets of the Runes, London 1998. 17 O.Worm, Laurea philosophica summa, Hafniae 1619. Il tipografo è Henricus Waldkirchius.

Esoterismo

18 M. Marra, Il Pulicinella filosofo chimico di Severino Scipione (1681). Uomini e idee dell’alchimia a Napoli nel periodo del Viceregno, Milano 2000, pp. 91 e segg.; D. Arecco, Una storia sociale della verità. La scienza anglo-italiana dal XVI al XVIII secolo, Roma 2012, pp. 23-31. 19 La Controversiarum medicarum exercitatio (Hafniae 1624-1652), stampata da Solomon Sartorius, raggruppa più testi, incluse alcune dissertazioni anatomiche del 1630. Il medesimo tipografo fece uscire dai propri torchi (Hafniae 1638) il trattato De artis medicae et corporis sani conservatione, parte dei più voluminosi Medicarum institutionum libri (Hafniae 16361639) e comprendente anche il De corporis aegri dignotione. La Synopsis methodica, un catalogo di rarità naturali e artificiali messe assieme da Worm, fu edita infine a Copenhagen da Petrus Hakius nel 1653. Worm si occupò anche di zoologia: la sua Historia animalis, compendio di fauna norvegese dal titolo pseudo-aristotelico – ma le analogie si fermano qui – venne impresso nella capitale del Regno danese da Georg Lamprecht, nel 1653, e fu l’ultima opera di rilievo composta dal biologo nordico. Postuma, vide la luce – a Helmstadt, per i tipi di David Muller, nel 1679 – la De duello dissertatio, silloge di scritti (di Worm e Camerarius, tra gli altri), curata da Johann Joachim Mader (1626-1680). 20 O. Worm, Museum Wormianum, Leiden 1655, p. 327. A completare tale catalogo, stampato dagli Elzeviri, fu il figlio del da poco scomparso Worm, Willum. Il significato culturale e il valore scientifico dell’opera non sfuggirono ai migliori spiriti seicenteschi. Il museo wormiano divenne così un precoce modello di raccolta

e catalogazione: ancora il gesuita tedesco Athanasius Kircher (1602-1680) lo prese ad esempio, nel Collegio romano, per le sue collezioni (F. Buonanni, Musaeum Kircherianum, Roma 1709; D. Arecco, Il sogno di Minerva. La scienza fantastica di Athanasius Kircher, Padova 2002). 21 Il catalogo completo è stato riedito da H.D. Schepelern, Museum Wormianum, Copenhagen 1971. Una parte di quelle collezioni si trova oggi presso il Museo di Stato storico-naturale di Copenhagen. 22 P. Burke, Storia sociale della conoscenza. Da Gutenberg a Diderot, Bologna 2002, pp. 140142. 23 Ivi, p. 253. Worm si tenne poi sempre informato circa le novità che, dall’Oriente, recavano con sé i missionari gesuiti. I suoi molteplici interessi abbracciavano difatti anche la Cina e per questo motivo chiese espressamente al figlio Willum, allora in Olanda, di ragguagliarlo riguardo agli spostamenti di padre Martini – uno dei fondatori della sinologia moderna – nel porto d’Anversa (ivi, p. 77). 24 G. Dumézil, La saga di Hadingus. Dal mito al romanzo, Roma 2001, p. 203. P.98, 108 e 109: Frontespizio e pagine a colori dell’‘Edda’, raccolta di racconti epici di mitologica nordica; p.105 a sin.: H.P.Lovecraft; p.105 a destra: Holaus Worm; p. 106, 107, 110 e 113: Dipinti di varie epoche raffiguranti ‘Wunderkammer’; p.106 in alto: Stampa da un’edizione della ‘Musei Wormiani Historia’, 1655; p.108 in basso: Manoscritto in caratteri runici; p.111 e 112: Materiali da attuali collezioni di ‘mirabilia’.

113


L’ Massoneria

Massoneria e lega anti-massonica nella storia americana Nico Perrone

114

invito di “Annales” a ricostruire una vicenda intricata e quasi sconosciuta di lotta politica negli Stati Uniti, fra l’Anti-Masonic Party (detto anche Anti-Masonic Movement) e le logge che avevano assunto un grande peso al vertice della Confederazione, mi è giunto molto gradito e ringrazio Aldo Alessandro Mola che ne è stato il promotore. Avrò così modo di dimostrare il peso che la Massoneria esercitò ai vertici politici americani. Lo farò laicamente, perché non sono massone, ma su queste vicende ho fatto ricerche e ho scritto più diffusamente nel mio libro appena pubblicato, Progetto di un impero. 1823. L’annuncio dell’egemonia americana infiamma la borsa (Napoli, 2013). Negli Stati Uniti, dopo le elezioni del 1824, la nomina di John Quincy Adams (1767-1848) alla presidenza fu il risultato di un’avventura burocratica inverosimile. Presentatosi come indipendente, egli era stato sconfitto nelle votazioni, avendo ottenuto soltanto 113.122 voti popolari (30,9 per cento) contro i 151.271 (41,3 per cento) andati all’altro candidato, Andrew Jackson (1767-1845). Il più suffragato alla votazione era stato dunque Jackson, ma il regolamento elettorale conteneva delle disposizioni particolari, che Adams seppe utilizzare molto bene. Jackson dalla sua parte aveva avuto i voti e un passato di valoroso combattente nella guerra del 1812. Adams possedeva invece il potere della sua famiglia, che aveva già dato un Presidente e finì perciò con l’essere insediato alla Casa Bianca. Adams aveva ottenuto anche 84 electoral votes contro i 99 andati a Jackson (Partito democratico-repubblicano). Gli altri voti si dispersero, andandone 41 a William H. Crawford (1772-1834) e 37 a Henry Clay, Sr. (1777–1852). In base alle norme elettorali del tempo e al XII emendamento della Costituzione americana, non avendo nessun candidato ottenuto i 131 electoral votes necessari, la decisione dovette essere presa dalla Camera. Qui il cognome Adams poteva contare su un peso storico. Ma ci fu un altro fattore. Clay, anch’egli sconfitto in quell’elezione, orchestrò alla Camera l’appoggio di Adams, che avrebbe sbarrato la strada al suo avversario Jackson. All’operazione contribuì, con la sua autorità, anche James Monroe (1758– 1831) e alla fine Adams, senza aver vinto le


elezioni, venne proclamato d’ufficio presidente, prescindendo dal risultato elettorale. Nella prima votazione di quel consesso, il 9 febbraio 1825, la vittoria venne attribuita a John Quincy Adams, senza bisogno di ulteriori procedure. Monroe, per calcolo politico o per mirata generosità, fu determinante nel favorire quella soluzione. L’assegnazione della presidenza al candidato che alle elezioni aveva ottenuto meno voti – da qualunque punto di vista si fossero analizzati i risultati – non si verificò più, perché dopo quell’episodio le regole elettorali ebbero dei cambiamenti. La nomina di Adams a presidente non fu il risultato del voto democratico, ma l’effetto di una decisione di palazzo, resa possibile da una legge che consentiva una procedura veramente singolare. Quella procedura aveva avuto però un precedente anche nel 1801, con la nomina di Thomas Jefferson (1743-1826) alla Casa Bianca. Una spiegazione della inverosimile forzatura della regola democratica fondamentale a favore di Adams – dietro lo schermo di una copertura puramente formale – poteva cercarsi probabilmente nel timore di consistenti ambienti politici, intenzionati a non consentire che avvenisse un nuovo insediamento della Massoneria al vertice dello stato. Quella era una organizzazione molto presente nella élite americana, che rispondeva a proprie regole interne, le quali potevano superare la trasparenza democratica. Questo dovette essere all’origine sia della nascita di un partito anti-massonico, sia dell’appoggio decisivo dato a esso nell’insediare Adams alla presidenza. Nella durezza della lotta politica si dovette ritenere che il superamento delle regole sostanziali della democrazia potesse essere utile per arginare, nella fase iniziale dell’organizzazione dello stato americano, il consolidarsi del potere massonico che suscitava forti preoccupazioni. Adams cercò di rabbonire il rivale messo fuori gioco assecondando sulle prime la proposta di Monroe di offrirgli la Segreteria di stato, ma quella soluzione venne respinta da Henry Clay, Senior (17771852), e perciò segretario di stato per tutto il mandato presidenziale venne nominato lo stesso Clay. Nel suo ruolo di Speaker of the House, Clay era stato determinante per far decidere a favore di Adams. Sistemata la nomina alla presidenza, per la

Massoneria

completa definizione della faccenda restava da ricompensare Clay per il peso che aveva esercitato. Adams, appena insediato, nominò perciò Henry Clay segretario di stato. L’intera vicenda sarà ricordata come “The Corrupt Bargain”, un affare di corruzione. Jackson, che era stato battuto mediante quella macchinazione, fece pesare in diversi modi il suo risentimento durante l’intero mandato di Adams, e inoltre riuscì a sbarrare la strada alla rielezione di Adams dopo il primo mandato. Clay invece sarà eletto presidente nel 1829. Adams aveva fatto una campagna elettorale imperniata su un forte patriottismo e soprattutto sulla lotta contro la Massoneria (Jackson era notoriamente massone).

In tal modo aveva impressionato favorevolmente diversi esponenti del potere. Egli tentò di farsi rieleggere alla presidenza e nel 1828 si presentò col National Republican Party. Ottenne 83 electoral votes e 642.553 popular votes (43,6 per cento). Vinse invece Jackson, con 178 electoral votes e 500.897 (56 per cento) popular votes. La Massoneria ha avuto grande peso fin dal principio nella storia politica degli stati Uniti, attraverso propri esponenti insediati nelle massime cariche. Per meglio dire, nella storia americana la Massoneria è apparsa perfino dominante in momenti decisivi. Si trattò di una presenza che trovò delle analogie anche nei vertici dei paesi europei, ma negli Stati Uniti essa 115


Massoneria

fu chiaramente visibile, per le caratteristiche di non segretezza che i massoni generalmente avevano voluto darsi in America. Ne è conseguito che taluni caratteri ed emblemi massonici sono stati inseriti anche nei disegni urbanistici e architettonici della capitale federale degli Stati Uniti. Tutto questo era incominciato, anche simbolicamente, con George Washington (1732-1799), primo Presidente (17891797) della Confederazione statunitense. Egli era stato iniziato in una loggia massonica il 4 novembre 1752. Quella loggia è stata trasformata in seguito nel George Washington Masonic Museum di Fredericksburg City, Virginia. Washington era passato al 2° grado di Compagno (passed) il 3 marzo 1753 ed era stato elevato (raised) al 3° grado (Maestro) il 4 agosto 1753: era avvenuto tutto alla Fredericksburg Lodge (divenuta poi la loggia No. 4) di Fredericksburg, Virginia. Il 28 aprile 1788 egli fu Maestro Venerabile alla fondazione (Charter Master) della loggia Alexandria Lodge No. 22 di Alexandria, Virginia, e venne rieletto in quella carica il 20 dicembre 1788. Egli appartenne inoltre ai Knights Templar, i cavalieri templari. Fu insignito (I maggio 1776) di The Most Noble Order of the Garter, l’ordine cavalleresco britannico che risaliva al Medioevo. Dopo il nome di Washington, negli incartamenti massonici si è ritrovato quel116

lo del quinto Presidente, James Monroe. Egli era stato iniziato il 9 novembre 1775 alla Williamsburg lodge No. 6 di Williamsburg, Virginia. Il suo nome si è trovato anche nei documenti della Cumberland Lodge No. 8, del Tennessee, sotto la data dell’8 giugno 1819, ove egli veniva definito “a Brother of the Craft”, ossia un Fratello Massone. L’appartenenza alla Massoneria è documentata pure per diversi altri. Andrew Jackson (1767-1845), settimo Presidente (1829-1837), fu Gran Maestro del Tennessee dal 1822 al 1823. Tracce della sua presenza sono rimaste nella Clover Bottom Lodge, dipendente dalla Grand Lodge of Kentucky. Si sono rinvenute anche indicazioni della sua presenza in loggia a Greeneville, Tennessee, nel 1801; egli esercitò temporaneamente la carica di Primo Sorvegliante (Senior Warden). Gli incartamenti della St. Rammany Lodge No. 29 di Nashville, Tennessee (divenuta poi Harmony Lodge No. 1, nella giurisdizione della Grand Lodge of Tennessee) hanno attestato la sua appartenenza. James Knox Polk (1795-1849), undicesimo Presidente (1845-1849), era stato iniziato, portato al 2° grado di Compagno ed elevato a Maestro di 3° grado nella Columbia Lodge No. 31 di Columbia, Tennessee. Passato dal 3° grado massonico (exalted) a Royal Arch. Mason alla Fayette Chapter No. 4 di Columbia, nel 1825. Ja-

mes Buchanan (1791–1868), quindicesimo Presidente (1857-1861), fu iniziato invece l’11 dicembre 1816 alla loggia 43 di Lancaster, California. Passò dal 2° grado di Compagno e venne elevato a Maestro nel 1817, secondo sorvegliante (Junior Warden) nel 1821 e nel 1822; ancora Maestro nel 1825, infine Gran Maestro della Grand Lodge of Pennsylvania. Andrew Johnson (1808-1875), diciassettesimo Presidente (1865-1869), fu iniziato, passato al 2° grado di Compagno ed elevato a Maestro al 3° grado alla Greeneville lodge No. 119 (divenuta poi la loggia No. 3 di Greeneville, Tennessee) nel 1851. Probabilmente fu membro del Greeneville Chapter No. 82. Fu Royal Arch Masons fin da quando visse a Nashville, Tennessee. Nel 1859 fu Commandery (ruolo generalmente amministrativo, che ebbe origine nella Massoneria Scozzese) del Knights Templar No. 1. Infine, dev’essere ricordato un altro fatto simbolico molto importante: nel 1867 egli volle ospitare nella sede presidenziale della White House una riunione dei gradi più elevati della Massoneria dello Scottish Rite. James Abram Garfield (1831-1881), ventesimo Presidente (1881), fu iniziato, passato al 2° grado di Compagno alla Magnolia Lodge No. 20 di Columbus, Ohio. Nel 1864 venne elevato a Maestro del 3° grado alla Columbus Lodge No. 30. Fu affiliato nel 1866 alla Garrettsville Lodge No. 246. Nel 1869 fu fra i fondatori (Charter Member) della Pentalpha Lodge No. 23 di Washington. Nel 1866 passò dal 2° grado di Compagno al Columbus Royal Arch Chapter e divenne anche Knight Templar; nel 1872 fu 14° grado dello Scottish Rite. Sul totale dei venti Presidenti del periodo che va dal 1789 al 1881, sette risultano massoni con un curriculum documentato. In termini statistici – escludendo i templari e altre osservanze che pure furono presenti fra i Presidenti – si deve concludere che più di un terzo della massima carica degli Stati Uniti di quel periodo appartenne alla Massoneria. Si è trattato dunque di un fenomeno di ampie dimensioni, che può fare riflettere sulla impostazione delle linee portanti della politica interna e internazionale degli Stati Uniti, che vennero a definirsi proprio in quel periodo. A proposito di altri Presidenti di quel periodo, per Thomas Jefferson, presidente dal 1801 al 1809, si è notato che nella hall del George Washington Masonic Me-


morial di Alexandria, Virginia, edificato negli anni Venti del XX secolo, è stato collocato un grande quadro che lo ritrae in visita da George Washington. È stato notato che quel quadro, in quel luogo, avesse qualche significato: ma non si trattava di una prova di appartenenza massonica. Jefferson fu membro invece della Collins Family of Satanists, un gruppo che teneva riti di occultismo e di carattere sessuali. Per altri quattro Presidenti, si è parlato – ma senza una inoppugnabile documentazione – di appartenenza massonica. Essi furono Martin Van Buren (1782-1862), ottavo Presidente (1837- 1841), contro il quale nella campagna elettorale si era inutilmente attivato lo Anti-Masonic Party; John Tyler (1790-1862), decimo Presidente (1841-1845); Zachary Taylor (1784-1850), dodicesimo Presidente (1849-1850); e infine Franklin Pierce (1804- 1869), quattordicesimo Presidente (1853-1857). Anche per Abraham Lincoln (1809-1865), Presidente dal 1861 al 1865, si è parlato di una filiazione massonica, ma non se ne trovarono mai le prove. Per restare alle cariche più elevate della Confederazione, si potrebbe ricordare che George Washington, per la Supreme Court of the United States scelse nove massoni sugli undici giudici da lui nominati. Nella politica americana delle origini decideva una élite ristretta: erano tutti bianchi, abbienti e di sesso maschile. In tutti gli Stati Uniti, il voto allora veniva espresso da circa 300 mila persone (per un termine di raffronto: la popolazione americana, nel 1820, era di 9.638.453 abitanti, dei quali i bianchi erano 7.866.797; nel 1830, 12.860.702, bianchi 10.532.060). L’America politica era stata costruita risolvendo enormi problemi e superando complesse difficoltà internazionali. Protagonista di tale processo era stato un gruppo di immigrati europei, i quali vollero contare su strutture di governo che fossero espressione della classe dominante. La necessità immediata era quella di tenere il paese unito intorno agli interessi di un numero facilmente controllabile di elettori. Tale condizione era necessaria anche per dare alla Confederazione una grande forza politica, che servisse alla difesa verso l’esterno. Questa esigenza do-

Massoneria vette essere talmente sentita in quella élite, che la Massoneria venne ad assumere presto, quasi per necessità - data la sua capacità di forte coesione - una rilevante presenza al vertice del potere, forse con maggiore incidenza, e minore segretezza, di quanto non fosse avvenuto in Europa. Il fenomeno non poteva mancare di determinare, all’interno della stessa élite americana, delle reazioni di senso opposto e molto pugnaci: naturalmente nelle forme politiche del tempo, con contrapposte analogie. Negli stati Uniti si dovette annoverare perciò anche il menzionato Anti-Masonic Party, formalmente costituito a New York nel 1828 ma attivo da qualche tempo prima, operante anche a Washington e in altre importanti località. Esso aveva nei suoi programmi la conquista di diverse cariche dello stato, compresa quella massima, organizzandosi per tali finalità come il terzo partito americano. Partecipava perciò a tutte le competizioni elettorali. Si faceva conoscere attraverso veri e propri congressi nei quali designava i candidati. Questo partito – pur essendo laico nella sua ispirazione – trovava dei sostegni nelle chiese, preoccupate anch’esse per il peso che la Massoneria stava sempre più assumendo nella vita americana, e non solo nella politica. Ispirato da questo partito, intorno al 1827 si era affermato, specialmente a New York, un movimento d’opinione di considerevoli dimensioni, che organizzava pubbliche riunioni per contrastare l’avanzata della Massoneria. I partecipanti a quei raduni chiedevano di sostenere nelle cariche politiche soltanto i candidati che non fossero massoni e che s’impegnassero a opporsi alla Massoneria. A New York, i sostenitori di Adams – detti Adams Men o Anti-Jackson Faction – non erano molto forti e andavano per-

ciò alla ricerca di motivazioni ideali per sostenere la loro causa. Le cercarono anche attraverso il partito anti-massonico, che così crebbe di dimensioni. In questa organizzazione si vide una struttura molto forte che servisse a contenere l’ascesa della Jacksonian Democracy. Era proprio quello che serviva a John Quincy Adams. Ed egli – uomo politico molto abile, che sapeva precorrere i tempi – se ne servì con successo, incominciando a cavalcare quegli stati d’animo ancor prima che essi si articolassero in un partito. Questa operazione politica di Adams fu agevolata dalla notorietà dell’appartenenza massonica di Jackson e dalle sue aperte prese di posizione a favore della Massoneria. Nelle elezioni del 1828 il partito anti-massonico si rivelò molto forte, specialmente a New York. Dal 1829 esso riuscì a interpretare sentimenti molto diffusi nell’elettorato. Ma non si limitò a questo, perché fu anche promotore di campagne a sostegno di opere pubbliche e di tariffe doganali protezioniste, auspicate dall’economia americana. Questo partito pubblicò numerosi periodici locali, e uno che ebbe una diffusione molto più ampia, “The Albany Evening Journal”. Esso fu diretto da Thurlow Weed (1797–1882), un giornalista d’attacco molto noto. “The Albany Evening Journal” era particolarmente diffuso a New York, ove divenne sempre più influente. Esso fu un sostegno assai significativo per l’affermazione politica di Adams. Nei suoi articoli utilizzava un linguaggio esplicito e duro, che allora non era frequente nel dibattito politico. P. 114: John Quincy Adams (1767-1848), sesto Presidente degli Stati Uniti; p.115: Libello antimassonico d’epoca; p.116 e 117: Presidenti americani su banconote statunitensi.

117


Massoneria

Antimassoneria Luca Bagatin

118


L

a persecuzione antimassonica, chissà mai perché, non fa gran che notizia. Sarà perché ci hanno voluto far credere che la Massoneria è un centro di “poteri occulti”, centro segreto di chissà quali nefandezze mafiose e criminali. E dunque, pertanto, i massoni meritano di essere perseguitati. È antica la persecuzione antimassonica ed è stata costruita ad arte, sin dai tempi più antichi. Pensiamo al Medioevo, ove le varie confraternite gnostiche, catare, esoteriche saranno perseguitate dalla Chiesa cattolica in quanto considerate “eretiche”, poiché ritenevano che la Divinità andasse ricercata anche in sé stessi, senza l’ausilio di sacerdoti o di Papi. Pensiamo al Settecento, ove le prime Logge massoniche, le quali recuperavano proprio le tradizioni delle antiche confraternite, erano guardate con sospetto da Trono ed Altare, ovvero dai Re e dai Papi, i quali ritenevano che in esse potessero annidarsi pericolose sette rivoluzionarie e sarà così per tutto l’Ottocento, al punto che vi saranno anche massoni farlocchi come Léo Taxil che faranno soldi a palate inventandosi di rituali orgiastici in seno alle Logge massoniche e della presenza dello stesso Belzebù a capo dei lavori. Il Novecento, invece, sarà il secolo delle dittature, le quali non mancheranno di imprigionare i massoni nei lager, nei gulag, di mandarli al confino, come in Italia, ove saranno bruciati gli arredi dei Templi e distrutte le Logge. Ed anche nella solo formalmente democratica Italia di trent’anni dopo la liberazione dal fascismo, ecco rispuntate pericolose leggi e tendenze antimassoniche. Dal 1975 al 2000, infatti, la Massoneria italiana subirà le più grandi persecuzioni mai avvenute. Ce lo raccontarono e ce lo raccontano diversi studiosi, fra cui Pier Carpi, il prof. Luigi Pruneti, il prof. Aldo A. Mola, ma c’è un bel libretto, patrocinato dalla Gran Loggia d’Italia degli ALAM ed edito da Arktos nel 1998, che merita particolare attenzione e dal quale ho avuto modo di attingere ulteriori informazioni. È scritto da Donatello Viglongo, già Gran Segretario Aggiunto del Grande Oriente d’Italia dal 1976 al 1981 ed ha il titolo significativo di Roghi di Stato. Veri e propri roghi, quelli raccontati da

Massoneria

Viglongo, che ebbero inizio con il falso scandalo P2, sollevato inizialmente da presunti “massoni democratici”, proseguito con la sottrazione e la pubblicazione degli elenchi di gran parte dei massoni d’Italia e di un presunto elenco di affiliati alla Loggia Propaganda nr.2, gettati così in pasto alla gogna mediatica e conclusosi il tutto con assoluzioni piene con sentenze definitive del 1994 e del 1996. In effetti che cosa era la Loggia P2, se non una Loggia particolare, fondata alla fine dell’800, al fine di raccogliere personalità importanti del mondo della cultura, della politica, delle forze armate, dell’industria del Paese che, per ragioni di particolare

riservatezza avevano necessità di tenere nascosta la loro appartenenza all’Ordine massonico? Erano costoro dei criminali? Erano criminali Giosue Carducci, Ernesto Nathan, Menotti Garibaldi (primogenito dell’Eroe dei due Mondi e di Anita), Aurelio Saffi, Agostino Bertani e, in tempi più recenti, il repubblicano Emanuele Terrana, il comico Alighiero Noschese, il cantante Claudio Villa, lo scrittore Roberto Gervaso, il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa? Difficile da credere. Tanto più che, costoro, non si riunirono mai tutti assieme. E, pertanto, ma complottarono contro alcunché, come invece scrissero i media e raccontò la Commissione parlamentare presiedu119


Massoneria

ta dall’On. Tina Anselmi e da altri parlamentari, i quali nulla o quasi nulla conoscevano di ritualità massonica. Fu, ad ogni modo, quella del falso scandalo P2, occasione ghiotta per la politica di allora e per i mass media di gettare un po’ di fumo negli occhi nei confronti dei cittadini-elettori. Ricordiamoci che eravamo in pieno fermento terroristico e di lì a poco la gran parte della classe politica di allora avrebbe lasciato morire Aldo Moro per mano delle Brigate Rosse, in nome di una presunta “fermezza” (sic !). Ed allora, come un tempo Hitler in Germania dette la colpa della crisi economica agli ebrei, ecco che i politici, i magistrati, i “massoni democratici” in odor di potere ed i mass media a caccia di gossip, si inventarono la tesi golpista ordita dai massoni della P2 e, via via, dall’intera Massoneria, vi120

sto che anche l’altra grande Obbedienza italiana, la Gran Loggia d’Italia, subì inchieste e controinchieste ignominiose. Ed a nulla servì il documento conclusivo stilato dalla Federazione Internazionale dei Diritti Umani (FIDH), nel quale fu chiaramente scritto che “La Delegazione ha, infine, ravvisato in tutta la vicenda speciosamente montata, oltre i limiti tollerabili del buon gusto e del buon senso comune, qualcosa che va al di là del fatto specifico in questione. Per motivi occulti, ma facilmente intuibili sia il “Raggruppamento Gelli, sia la Massoneria italiana del GOI, sono stati usati e dati in pasto all’opinione pubblica per galvanizzarla e sviarla da altri importanti problemi che da troppo tempo assillano la società italiana”. Di tale documento, infatti, per anni non ne abbiamo mai sentito par-

lare. Ce lo riporta integralmente Donatello Viglongo, nel suo prezioso saggio. Curioso poi, che, allorquando i massoni della P2 e tutta la Massoneria italiana sarà assolta con sentenze definitive da ogni capo di imputazione di “complotto ai danni dello Stato” (sic !), il Grande Oriente d’Italia non abbia mai speso una parola, tanto da ritenere tutt’oggi i cosiddetti “piduisti”, ancora dei criminali (sic !). Per carità, le pecore nere sono d’appertutto ed alcune erano annidate anche nella Loggia Propaganda nr. 2, ma per il resto i suoi componenti erano tutti dei galantuomini, fra i quali possiamo annoverare anche il Generale in pensione Umberto Granati, che è un caro amico e che alcuni hanni fa ha raccontato la sua triste vicenda, fortunatamente finita bene, in Diario di un piduista (Verona, 2009) e che, chi scrive, ha avuto il piacere di recensire. Come se la prima persecuzione antimassonica non avesse danneggiato già abbastanza l’immagine della Massoneria, ecco, negli anni ‘90, spuntarne subito un’altra. Pochissimi infatti sanno o ricordano che, negli anni ‘90, un’inchiesta senza alcun fondamento, introdusse in Italia una nuova Santa Inquisizione. Una Santa Inquisizione guidata dall’allora magistrato di Palmi Agostino Cordova, il quale scatenò una vera e propria battaglia inquisitoria contro cittadini onesti, rei unicamente di appartenere alla Massoneria. Di tutto ciò nessuno ricorda pressoché nulla, oppure si continua ancora a nascondere la verità, nonostante ci siano state sentenze definitive che hanno stabilito che Cordova aveva torto marcio. Ma, oramai, molte famiglie e molte carriere erano state distrutte. Storia di ordinaria ingiustizia in un Paese nel quale il magistrato sembra avere ragione anche quando ha torto. Ad ogni modo, ancora una volta, questa inchiesta faceva guadagnare fior fior di quattrini a certa stampa scandalistica, con particolare riferimento alle solite “La Repubblica” e l’“L’Unità” che sulla caccia al massone avevano costruito la loro presunta credibilità. E a poco, anche allora, servirono gli interventi e le aperture di Gran Maestri quali Renzo Canova di Piazza del Gesù, il quale, come il suo predecessore Giovanni Ghinazzi, aveva ben pensato di


aprire i Templi massonici e di garantire la massima trasparenza. Agostino Cordova, magistrato, evidentemente completamente digiuno di Massoneria e con nessuna voglia di informarsi, ipotizzò infatti un “teorema” totalmente privo di qualsiasi fondamento e disse: poichè qui in Calabria c’è la ‘ndrangheta ed in Sicilia la mafia che tramano contro la stabilità dello Stato, allora dietro a loro c’è la Massoneria che trama nel segreto. Ma quale arguzia, per un servitore dello Stato ! Tutto ciò è più che evidente che rimanesse un teorema astratto ed un magistrato non può certo basarsi su congetture, bensì dovrebbe farlo per mezzo di prove concrete, indizi, magari raccolti da Polizia e Carabinieri, prima di lanciare accuse ed inchieste. Ma il Cordova aveva già stabilito che i massoni italiani erano tutti colpevoli e, dunque, da inquisire. Fu così che si attivò per acquisire tutti gli elenchi dei massoni italiani, alcuni dei quali finiranno anche in pasto ai media, come se fossero una lista di proscrizione, fatta di delinquenti abituali. Inutile dire che le più colpite furono le due maggiori Obbedienze massoniche italiane: Grande Oriente d’Italia e Gran Loggia d’Italia, con il maggior numero di iscritti. Persone comuni, liberi professionisti, pensionati, operai. Cittadini italiani paganti le tasse come tanti altri. Con la sola “abitudine” di frequentare Logge massoniche per la loro evoluzione spirituale ed interiore! Fatto sta che, tutto ciò, dopo aver fatto spendere alle casse dello Stato fior fior di quattrini per l’inchiesta ed aver rovinato numerose famiglie e carriere, non portò a nulla. Nessun reato era stato commesso. Come volevasi dimostrare: un teorema senza prove è e rimane una congettura. E fu così che la Suprema Corte di Cassazione stabilì che Agostino Cordova aveva palesemente violato la Costituzione della Repubblica Italiana agli Articoli 13 e 14, che stabiliscono che la libertà personale ed il domicilio sono inviolabili e non sono ammesse forme di detenzione, ispezione e perquisizione se non per atto motivato. Inoltre il Cordova aveva violato gli articoli 247 e 253 del codice di procedura penale. Purtroppo, però, il danno economi-

Massoneria

co per le casse dello Stato era ormai stato fatto e così il danno morale per i cittadini ingiustamente coinvolti. Il 23 settembre del 2003, il magistrato Cordova sarà peraltro allontanato dal Tribunale di Napoli e giudicato inadeguato. Ancora in tempi recenti si è tentato, in alcune amministrazioni pubbliche, di reintrodurre la legislazione fascista che impone ai dipendenti statali di dichiarare la propria appartenenza ad associazioni quali la Massoneria, ciò in palese violazione della Costituzione. Fortunatamente gli organismi internazionali e democratici hanno sempre bocciato tali legislazioni liberticide.

Sarebbe interessante, anziché raccogliare un elenco degli affiliati alle varie Obbedienze massoniche italiane, raccogliere un elenco dei politici, magistrati, giornalisti ed amministratori pubblici che hanno fatto della persecuzione alla Massoneria il loro cavallo di battaglia e la loro principale fonte di guadagno. Tale elenco andrebbe ricordato e diffuso al fine di avere contezza di chi sono i veri nemici della libertà e della democrazia nel nostro Paese. P.118 e 119: Vignette satiriche di Achille Lemot del 1902; p.120: Copertina a colori di una ristampa del libello di Leo Taxil; p.121: Pamphlet sull’occultismo.

121


Simbolismo

Le chiavi del linguaggio simbolico Giovanni Pelosini 122


P

ercezioni e interpretazioni della realtà Ciò che gli antichi testi vedici, i mistici orientali e gli iniziati occidentali hanno sempre affermato con i linguaggi adatti ai loro tempi e alle loro culture sta solo oggi cominciando a essere evidente anche grazie ai progressi degli studi nel campo della fisica quantistica. Sta diventando sempre più accettabile il concetto olistico di un universo costituito da particelle elementari subatomiche che si aggregano e si disaggregano in una danza eterna secondo le leggi della Materia, le quali attualmente sono soltanto parzialmente conosciute. A rendere dinamici quelli che un tempo erano chiamati Elementi consentendo che la vita si sviluppi nel cosmo è il principio conoscitivo: la Coscienza, che quindi sperimenta le innumerevoli possibilità di usare i sensi per percepire la grandezza e la complessità della realtà fenomenica. La Coscienza possiede vari modi per conoscere il mondo e infine avere consapevolezza della propria stessa esistenza: con i sensi ordinari dei corpi viventi raccoglie informazioni dall’esterno, con la mente le elabora e le compone in ordini funzionali, con la sua parte più profonda accede a una dimensione superiore, dove tutto è Uno, dove spazio e tempo sono relativi, dove le strutture razionali sono inutili, dove si può comprendere la realtà degli archetipi soltanto secondo la lingua universale dei simboli. La mente umana si trova ogni giorno a dover gestire innumerevoli pensieri, parole e gesti. I soli cinque ordinari sensi sono chiamati a registrare miriadi di stimoli diversi che la mente dovrà coordinare ed elaborare al fine di interpretare la realtà e crearne una propria personale visione. In particolare la vista è interessata da un numero incredibile di immagini, forme e colori, trasmettendo al sistema nervoso centrale le percezioni di energie, tonalità e soggettivi gradimenti: figure e segni trasmettono in questo modo messaggi che possono essere compresi, ovvero ignorati, a più livelli di coscienza; e i simboli agiscono in modo analogo. I simboli ci circondano e ci parlano continuamente nel loro linguaggio; viviamo in mezzo a essi ed essi vivono in noi,

anche se non ne siamo sempre consapevoli. Osservare tali simboli come messaggi dell’inconscio, o come oniriche ierofanie, può essere un’operazione cosciente di crescita personale, di gnostica condivisione dell’unica grande realtà di cui facciamo parte come esseri umani.

Simbolismo

‘In linea di massima, è proprio di ogni interpretazione veramente iniziatica di non essere mai esclusiva ma, al contrario, di abbracciare sistematicamente tutte le altre interpretazioni possibili; è per questa ragione inoltre che il simbolismo, con i suoi significati molteplici e sovrapposti, è il mezzo di espressione normale di ogni vero insegnamento iniziatico’ René Guénon Simboli della Scienza sacra

Ma, anche in assenza di questa azione cosciente, comunque i simboli possono rivelarsi a noi nell’ordinario quotidiano e nelle esperienze straordinarie, talvolta mimetizzandosi tra le immagini consuete che ci circondano. I simboli, infatti, sono ovunque, fuori e dentro di noi, sono eterni nella loro essenza e mutevoli nell’aspetto, come gli archetipi che rappresentano. I simboli talvolta sono “verità nascoste esposte in evidenza”, come direbbe Elémire Zolla, trovandosi nell’arte sublime e nella apparentemente più banale pubblicità, nelle religioni e nella politica, nella realtà fisica e in quella che ancora chiamiamo metafisica. Si trovano naturalmente nei sogni, perché utilizzano lo stesso linguaggio, e negli antichi miti, che furono narrati per generazioni prima ancora che la scrittura fosse codificata. Ancora oggi i simboli sono il fondamento della psicologia moderna, vivendo nell’immaginario individuale e in quello collettivo, in cui, come intuì Carl Gustav Jung, generano le forme del mito, gettano le basi delle civiltà, ispirano gli esseri sensibili a indagare nell’affascinante campo dell’ignoto. Per gli stessi motivi i simboli sono alla base delle creazioni artistiche di chi, mediamente più sensibile alle percezioni delle energie sottili, riesce a tradurli concretamente in opere che sono poi fruibili da tutti gli altri. Questo era forse il profondo senso del verso di Ovidio: “Et ignotas animum dimittit in artes” 1. E proprio in virtù di questa loro natura astratta e occulta, del fatto che, come affermava Jung, sono plurivoci, del loro presentarsi nei più oscuri sogni, “i simboli, con ogni evidenza, non sono fatti per tradurre quelle che siamo soliti definire ‘verità scientifiche’; restano elastici, vaghi e ambigui per natura, come le sentenze degli oracoli, in quanto la loro funzione essenziale consiste nello svelare i misteri, lasciando allo spirito tutta la sua 123


Simbolismo

libertà”2. Eppure, nonostante l’apparente vaghezza dei significati dei simboli, essi non sono inutili dal punto di vista cognitivo, come afferma anche Mircea Eliade: “Le immagini, i simboli, i miti non sono creazioni irresponsabili della psiche. Essi rispondono a una necessità e adempio124

no una funzione importante: mettere a nudo le modalità più segrete dell’essere. Ne consegue che il loro studio ci permette di conoscere meglio l’uomo”. La lingua dei simboli Naturalmente i simboli sono anche alla base codificata delle argomentazio-

ni astrologiche, così come in quelle tarologiche, offrendo a chi li conosce validi strumenti di interpretazione della realtà, un arricchimento cognitivo e formativo continuo e profondo, una grande libertà di pensiero, e diversi punti di vista, numerosi almeno quanto gli archetipi che vivono e si manifestano in noi e intorno a noi. Johann Wolfgang von Goethe affermava che il particolare rappresenta l’universale. Nello stesso modo i simboli possono richiamare significati che vanno oltre la loro stessa essenza, oltre la drammatizzazione mitologica, oltre la stessa ordinaria capacità cognitiva umana degli archetipi. Ciò è possibile in quanto i simboli usano un linguaggio che non è mediato dalle barriere mentali di ciò che chiamiamo comunemente intelletto e pertanto parlano direttamente alla parte più profonda e autentica dell’uomo senza filtri e senza censure. La parola “simbolo” deriva dal greco Symbàllein, che anticamente significava “mettere insieme”, quindi “unire”. Da ciò si deduce che in origine il simbolo era inteso come un ponte capace di unire la Materia e l’Anima attraversando il fiume della mente. Gli iniziati dell’antichità usavano come segreto se-


gno di riconoscimento cocci dello stesso vaso rotto che, una volta riuniti, combaciavano perfettamente: in questo caso l’etimologia fa ben comprendere come il “ponte” simbolico “metta insieme”, cioè riunisca ciò che era solo apparentemente separato. Il mezzo che usano i simboli per parlare al nostro profondo Sé è simile al linguaggio onirico che, per sua natura, si rivolge direttamente all’inconscio. Pertanto i simboli non necessitano di parole né di una lingua strutturata, che anzi appaiono essere ostacoli alla piena comprensione dei significati. L’inconscio non è in grado di confrontarsi con un approccio analitico o razionale come fa la mente: all’inconscio è sufficiente un’immagine, un colore, un simbolo, un tarocco che racchiuda in modo sintetico un intero mondo di significati e il messaggio è già arrivato al cuore. Nel sistema olistico organizzato chiamato cosmo, i simboli sono le chiavi della porta che permette il passaggio dalla visione convenzionale e parziale della realtà dicotomica e separata alla dimensione superiore della Matrice che la contiene e la genera. Operare consapevolmente con i simboli permette di sperimentare che la casualità puramente accidentale non esiste; permette di comprendere che esiste invece una finalità oggettiva oltre il limite spazio-temporale, il quale è comunemente accettato come assoluto dalla mente egoica. Come nei miti e nei sogni, così nelle immagini dei Tarocchi, i simboli non possono essere definiti perfettamente con le parole, perché è nella loro natura rivelare senza spiegare. Se potessimo completamente spiegarli e tradurli con il linguaggio verbale, essi diverrebbero semplici segni, vuoti di senso sacro e privi di contenuto emotivo come i convenzionali strumenti comunicativi e informativi, mentre i simboli sono ontologicamente formativi. È forse per questo motivo che lo scientismo li ignora e la ragione non li comprende, mentre l’arte li utilizza proficuamente come ponti fra la realtà percepita e il mondo non ordinario delle idee, delle energie, dello Spirito e di tutto ciò che è sacro. Funzioni dei simboli I simboli hanno altresì sviluppato un’esistenza autonoma sia come significanti che come significati, racchiudendo

Simbolismo

125


Simbolismo

tutta l’energia degli esseri che li hanno per primi sognati, narrati ed eletti fra gli archetipi sacri e riportandoci ai tempi lontani in cui astrologia, magia, mito, religione, arte, scienza e poesia erano ancora un’unica monade. I simboli contengono tutta l’energia del pensiero cosmico e umano di millenni e di ere, e

126

anche per questo possiamo immaginarli come “viventi”. Alle origini del senso dell’Unus Mundus, i simboli vivono nell’Anima e aprono le porte della Coscienza, al di là dei limiti personali o culturali e delle limitanti strutture mentali, oltre le pericolose abitudini, oltre le convenzionali e arbitrarie categorie. I simboli sono un

grande patrimonio dell’umanità e dimostrano la loro universalità operando, pur con alcune differenze culturali, nei più diversi contesti etnici di ogni latitudine e longitudine e di ogni tempo. Scrive Dion Fortune che “la presenza dei simboli, segni enigmatici e di significato misterioso, nelle tradizioni religiose, nel-


le opere d’arte, nei racconti e nei costumi folcloristici, attesta l’esistenza di un linguaggio universalmente diffuso in Oriente come in Occidente e il cui significato metastorico sembra collocarsi alla radice stessa della nostra esistenza, delle nostre conoscenze e dei nostri valori”. Tutte le culture e le tradizioni umane hanno utilizzato i simboli per elaborare codici meditativi strutturati, mediante i quali le idee a questi associate potevano essere accessibili anche a distanza di tempo e di spazio: “Ai mistici è ben noto che se un uomo medita su un simbolo attorno al quale sono state associate mediante la passata meditazione determinate idee, egli otterrà accesso a quelle idee…”4. Esiste dunque un linguaggio universale, non verbale né analitico, che non è pienamente comprensibile dagli emisferi cerebrali disgiunti, ma è perfettamente chiaro al profondo Sé contribuendo all’affrancamento del pensiero e dal pensiero. Tutto ciò che esiste e tutto ciò che accade, mai casualmente, può essere interpretato come significativa epifania di corrispondenze in realtà dimensionali diverse da quella comunemente accettata. Tale linguaggio universale degli archetipi, in un tempo lontano conosciuto e usato da tutti, fu codificato nei racconti mitici e trasmesso come “scienza” e patrimonio culturale nelle più antiche comunità umane. Oggi questa lingua universale è in gran parte dimenticata, ma ne possediamo ancora le chiavi di lettura e le capacità interpretative. Ancora oggi i simboli ci parlano continuamente e noi possiamo ancora comprenderli, soprattutto grazie ai codici che ci sono stati tramandati nei secoli. Il codice dei Tarocchi I Tarocchi sono gli eredi di uno di questi codici universali che si strutturò alla fine del Medio Evo come espressione figurativa degli antichi ed eterni archetipi che da sempre fanno parte della storia dell’umanità. La creatività artistica e culturale fiorente in Italia durante il Rinascimento ridette loro una forma e un nome dopo un lungo oblio, attingendo sincretisticamente alla simbologia alchemica, alle tradizioni pagane, ai miti classici e germanici, alla Cabala, alle mistiche islamica e cristiana, allo gnosticismo, all’ermetismo neoplatonico, al neopitagorismo, all’umanesimo. Il genio

Simbolismo

italico elaborò un gioco da tutta questa complessa e articolata commistione culturale umanistica, trasformando così l’antica e riscoperta sacralità dell’Uomo in manifestazioni creative, artistiche, meditative e narrative ispirate. Si forma-

rono così i 22 Trionfi da unire alle restanti 56 carte, eredi degli antichi Naibi importati dall’Oriente, ormai consolidate nella classificazione dei quattro semi Coppe, Bastoni, Denari e Spade, emblemi degli Elementi e di ogni altra quadri127


Simbolismo

partizione fisica e metafisica del mondo. Nel tempo presero la forma, l’ordine e la struttura attuali le 78 immagini dei Tarocchi, che furono espressione della sensibilità artistica e narrativa di innumerevoli mistici, pittori e letterati, prima 128

ancora che raffinato gioco didattico morale nelle corti rinascimentali, macchina filosofica per gli iniziati e strumento ludico e divinatorio nelle mani del volgo. “Serviamoci dei vizi, delle passioni dell’uomo per preservare il patrimonio

dei nostri sacri misteri. Esprimiamo la nostra dottrina esoterica simbolicamente con delle figure apparentemente innocenti che possano essere duplicate all’infinito e appagare la passione per il gioco. Quasi tutti useranno le figure solo per giocare, altri per la divinazione, e solo alcuni sapranno interpretarne il significato segreto”. Così, secondo una leggenda russa riportata da Van Rijnberk5, i saggi ierofanti di un’antichissima e perduta civiltà decisero di trasmettere ai posteri tutta la conoscenza segreta, la sapienza degli iniziati, la tradizione esoterica e l’arte di indagare il mistero e il senso della Vita con le figure simboliche dei Tarocchi. Secondo questa leggenda i Tarocchi sarebbero un “libro” di sole figure: un libro senza parole che si esprime nel linguaggio universale dei simboli, l’unica lingua che parla direttamente al cuore, senza codici, senza sovrastrutture, senza schemi mentali, senza spiegazioni; una traccia di un passato dimenticato, un messaggio per l’umanità che proviene dalla notte dei tempi grazie all’innata passione umana per il gioco. Il messaggio di conoscenza, saggezza e amore, che ci viene così tramandato da tempi immemorabili è arrivato fino a noi attraverso molte vicissitudini: i simboli dei Tarocchi sono sopravvissuti ai volumi bruciati nelle biblioteche, alle incisioni sulle tavole d’oro fuse dall’ingordigia umana, ai molti monumenti rovinati, alle tradizioni orali disperse, perfino ai roghi delle stesse carte da gioco imposti dall’integralismo ante litteram di Bernardino da Siena nel 1423. Alcuni simboli hanno visto sorgere e tramontare imperi, scomparire interi popoli con la loro lingua e i loro costumi, estinguersi religioni, trasformarsi e succedersi credenze, mode e morali e ancora sono in grado di parlare alla nostra parte più profonda, aiutandoci a comprendere e a ricordare chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando, perché il mondo illusorio, virtuale e dualistico che ci appare come realtà e che essi raffigurano così perfettamente ci sia evidente in tutta la sua relatività e separazione. I simboli dei Tarocchi sono la rappresentazione della storia del mondo e della vita, del gioco delle trasformazioni in cui tutto scorre, tutto si trasforma, tutto


è effimero, ogni cosa nasce e muore nelle dimensioni a noi concesse dai sensi ordinari come indistinta proiezione della realtà. Sottovalutare i Tarocchi usandoli solo per giocare o come strumento mantico è riduttivo e superficiale, quasi una profanazione del loro senso più sacro. Archetipi e sincronicità Eppure non a caso gli archetipi si esprimono in noi come sogni, miti, lievi pensieri, intuizioni, colori, numeri, azioni, suoni, qualità, e si manifestano come simboli che la coscienza può far emergere dal profondo e rendere vivi, quasi come se fossero entità senzienti, esseri spirituali o guide superiori. Per chi ne conosce il linguaggio, i simboli sono autentiche chiavi interpretative dell’Anima. Non a caso i simboli, e così i Tarocchi, sollecitati a farlo, si mostrano alla nostra attenzione, poiché, secondo la legge della causa e dell’effetto, in questo universo non si muove neanche una foglia senza che tale movimento abbia un preciso significato: tutto è ordinato, ogni cosa segue le leggi naturali, ogni essere vibra secondo i ritmi che gli sono propri e tali ritmi sono in armonia con il cosmo. Il caso non esiste: ogni cosa ha motivo di esistere e ha un senso, anche quando alla nostra mente appare il contrario. Le abitudini e gli automatismi, ancor più dei nostri sensi, ci condizionano e ci limitano nello spazio-tempo ordinario, così che di fronte all’epifania di un simbolo significativo siamo portati a interpretarlo come un semplice e insignificante caso, o tutt’al più una curiosa coincidenza, un evento comunque fortuito. Nonostante i simboli siano da sempre in noi e intorno a noi, siamo portati a usare la parola “caso” ogni volta che non siamo in grado di capire il senso, la causa o lo scopo di un’esperienza che la vita ci propone; ogni volta che le nostre illusorie certezze rischiano di incrinarsi di fronte al mistero e al dubbio che ne deriva. Anche quando siamo testimoni di eventi che assumono un senso e un valore particolari solo in una prospettiva più ampia, l’occhio impigrito dall’abitudine non li vede perché non li vuole vedere e la mente logica non li registra perché non li comprende né li spiega razionalmente e l’ego non li accetta perché la loro

giungere la coscienza di ciascuno, oltre i limiti individuali e collettivi, oltre le illusorie barriere dello spazio e del tempo7. I simboli trovano così la strada, attraverso i Tarocchi, per vibrare dentro ciascuno di noi, secondo diverse lunghezze

Simbolismo

esistenza mette in crisi la sua 6. Nel secolo scorso Carl Gustav Jung e Wolfgang Ernst Pauli diedero finalmente una prima convincente spiegazione scientifica di tali fenomeni collegati agli archetipi e le loro teorie sulla sincronicità permisero finalmente anche le attività speculative e dialettiche della parte più razionale della mente. Mentre gli studi sulle cosiddette coincidenze significative riempirono un vuoto filosofico nella psicologia del profondo. Anche grazie a questa lunga e non sempre facile evoluzione del pensiero, oggi ci troviamo in possesso di una straordinaria e funzionale macchina filosofica, meravigliosamente flessibile secondo le infinite combinazioni delle nostre inclinazioni, dei nostri talenti e perfino delle nostre credenze e dei limiti della nostra mente. Gli archetipi sono eterni e universali: essi non sono legati al tempo, né allo spazio, né alla cultura, né alla morale dei popoli. I simboli fondamentali sono eternamente viventi perché trovano sempre nuove e diverse modalità espressive per farsi comprendere nei diversi contesti umani. Da alcuni secoli si declinano docilmente nella forma visiva e iconica dei Tarocchi di ogni tipo e seguono naturalmente il sentiero più adeguato per rag-

d’onda, stimolano sintonie e risvegliano sottili sensi sopiti e ricordi atavici. Anche così si può perseguire la conoscenza di noi stessi secondo il sempiterno motto delfico e si può percorrere un sentiero di crescita e di ricerca spirituale. Chi è spinto dal dubbio e dalla curiosità, chi è alla ricerca di una maggiore consapevolezza, chi desidera l’espansione della sfera della coscienza oltre i limiti spesso imposti solo dalle convenzioni e dai pregiudizi, chi vuole conoscersi, chi ambisce all’ampliamento dei confini delle proprie esperienze, chi sente di utilizzare solo in piccola parte le potenzialità umane può trovare nei simboli i mezzi per uscire da se stesso e squarciare il velo di Maya che offusca la vista dell’uomo su questo pianeta, fortemente caratterizzato dalle contrapposizioni dualistiche e dalla separazione apparente. Per coloro che si riconoscono consapevolmente sul Sentiero dei Tarocchi nella cosmica ragnatela di strade che tutti e tutto avvolge i simboli possono rimettere insieme i cocci di tale separazione e ricondurre all’unità primordiale favorendo il processo formativo di individuazione, prodromo di una matura e armonica umanità e di una sua auspicabile presa di coscienza collettiva. ________________ Note: Ovidio, Metamorfosi, VIII, 187. Piotr Demianovic Ouspensky, Il simbolismo dei Tarocchi, A new model of universe. 3 Dion Fortune, La Cabala mistica, I, 1, 15. 4 René Alleau, De la nature des Symboles. 5 Van Rijnberk Gerard, I Tarocchi. 6 Giovanni Pelosini, I Tarocchi Aurei. 7 Giovanni Pelosini, Le Voci degli Arcani. 1 2

P.112 e 119: Rito egizio, olio di J.R.Weguelin, XIX sec.; p.123: Renée Guenon; p.124 e 125: Sculture di divinità egizie; p.126129: Tarocchi: Trionfi e Arcani minori.

129


Massoneria

Lajos Kossuth Giuseppe Ivan Lantos

130


V

i sono personaggi la cui memoria, nonostante abbiano diritto di vedere il proprio nome iscritto a lettere d’oro nel libro della storia, viene relegata negli archivi dell’oblio. È, tra i tanti, il destino del magiaro Kossuth Lajos, protagonista di quella stagione, incominciata nel 1848, conosciuta come la “primavera dei popoli” e che vide, dopo la Restaurazione sancita dal Congresso di Vienna del 1815, le nazioni europee oppresse dal giogo di dominazioni straniere lottare per la pro-

pria indipendenza. Così l’Ungheria che, al pari con il Lombardo-Veneto, cercò di affrancarsi dal potere degli Asburgo. La parabola esistenziale di Kossuth, che qualche storico, riferendosi al suo mondo ideale, ha voluto definire il “Mazzini ungherese”, ma che, come Garibaldi, fu anche attivo sui campi di battaglia, si dipanò tra la Patria natia, l’esilio in Bulgaria, in Asia Minore, in Inghilterra e negli Stati Uniti, per terminare in Italia, a Torino, dove si era stabilito nel 1860 e dove morì il 20 marzo 1894. Fu, dunque, uomo d’intelletto e d’azione e anche convinto Massone, come avremo modo di ricordare, quasi a riparazione del sudario di silenzio che ne avvolge la vicenda umana e politica. Kossuth Lajos, Luigi in italiano, ebbe i natali a Monok, nella Contea di Zemplén, il 19 settembre 1802, discendente di una famiglia di funzionari pubblici l’origine della quale risaliva al 1263. I Kossuth erano di religione protestante evangelica. Il padre di Lajos, László (Ladislao), dopo essere stato archivista della Contea, divenne procuratore legale delle proprietà dei conti Andrássy. Sua madre, Karolina

Massoneria

Weber, era figlia di un direttore delle Poste. Dopo Lajos, i coniugi Kossuth ebbero quattro figlie: Karolina, Emília, Lujza e Zsuzsanna. Il curriculum studiorum del giovane Kossuth, iniziato nel 1807, si svolse tra la scuola elementare pubblica, il ginnasio dei Padri Scolopi, il liceo nei collegi protestanti di Eperjesen e Sárospatak e la facoltà di Giurisprudenza dell’univer-

sità di Pest nella quale conseguì la laurea nel settembre 1823. Avvocato, ritornò nella città natale dove incominciò a esercitare la professione forense. Uno storico ungherese scrive: “Né la posizione sociale né il censo gli furono d’aiuto a muovere i primi passi nel mondo del lavoro, ma neppure gli impedirono di maturare la consapevolezza della situazione politica della 131


Massoneria

Patria costretta sotto un giogo feudale dal quale egli doveva in qualche modo contribuire ad affrancarsi”. La prima occasione gli si presentò come membro dell’opposizione riformista nell’Assemblea regionale. Nell’estate 1831, nel nord dell’Ungheria, scoppiò una violenta epidemia di colera che colpì, in particolare, la zona di Monok e mieté la maggior parte delle vittime tra le famiglie dei contadini più poveri già esasperati da un sistema fiscale a dir poco famelico. Quella che appariva come una vera e propria strage di uomini e donne di ogni età e di bambini provocò una rivolta che minacciava di diventare più cruenta della stessa epidemia. Kossuth, nominato Commissario per la salute pubblica, riuscì a contenere la violenza dei rivoltosi convincendoli a evitare un bagno di sangue. Per comprendere quali fossero i presupposti che motivarono l’impegno politico di Kossuth è opportuno aprire una parentesi sulla situazione dell’Ungheria all’epoca. Dopo il dominio turco durato oltre un secolo e mezzo, l’Ungheria cadde sot132

to l’impero degli Asburgo che cercarono di imporre il loro potere assoluto al popolo magiaro, ma la rivolta di Francesco II Rákóczi, tra il 1703 e il 1711, segno di una mai sopita insofferenza e aspirazione all’indipendenza, indusse gli Asburgo a riconoscere al regno i diritti costituzionali e alla nobiltà magiara i suoi privilegi. L’imperatrice Maria Teresa (1740-80), succeduta nel 1740 al padre, l’imbelle Carlo VI, e il di lei figlio, Giuseppe II (1780-90), ripresero il tentativo di costruire una monarchia forte, unitaria e centralizzata, che si scontrò con l’energica opposizione alla Dieta, il Parlamento, magiara del 1790. Dopo il periodo napoleonico, durante il quale la nobiltà ungherese si mantenne fedele agli Asburgo, crebbe un movimento riformistico, al cui interno emersero posizioni indipendentiste destinate a prosperare. Gli ideali mutuati dall’Illuminismo avevano contagiato sia una parte degli aristocratici, sia la borghesia colta le quali, quasi inevitabilmente, identificarono nella Massoneria il “metodo” per

la realizzazione di quegli ideali. L’imperatrice Maria Teresa, fervente cattolica, non vedeva di buon occhio la Libera Muratoria, ma aveva adottato un comportamento ispirato all’accondiscendenza per non dispiacere al marito, Francesco Stefano di Lorena, iniziato nella Loggia viennese Ai tre cannoni fondata nel 1742. Sul suo esempio, alcuni aristocratici ungheresi presenti a Corte aderirono alla Massoneria. Nel 1784 fu fondata la Gran Loggia d’Austria, forte di sessantuno logge di cui sei nella sola Vienna. La prima Loggia ungherese vide la luce nel 1749 a Brasso, città della Transilvania, alla quale seguirono molte altre. Giuseppe II, uno dei sedici figli di Maria Teresa e suo successore, cercò di asservire la Massoneria agli interessi dell’impero disciplinandone per legge l’attività. Lo scoppio delle guerre continentali, durante il periodo rivoluzionario e napoleonico, portarono, nel 1795, alla proibizione, da parte del sovrano Francesco I, delle attività massoniche in tutto l’impero austriaco, prima con la parziale eccezione dell’Ungheria, poi dappertutto. Le iniziative legislative potevano impedire alle Logge di lavorare, ma non furono in grado di espropriare il patrimonio ideale del movimento latomistico. La Massoneria sembrò sparire, ma come un fiume carsico continuò, pur invisibile, a fecondare il cuore e la mente di coloro i quali ispiravano la propria azione civile, politica e intellettuale al paradigma “libertà, uguaglianza, fratellanza” contro ogni forma di tirannide. Le circostanze impedirono al giovane Kossuth di aderire alla Massoneria, ma non di apprenderne i principi, un seme destinato a germogliare più tardi. Avvenne, invece, la sua iniziazione politica quando, nel 1832, fu inviato alla Dieta, la Camera bassa, che si riuniva a Pozsony, l’odierna slovacca Bratislava. Per dare visibilità alle attività dell’opposizione, pubblicò le Országgyűlési Tudásítások, Cronache della Dieta, che divulgavano informazioni sulle sedute, diffuse sotto forma di lettere private, al fine di eludere la censura. Scomparso l’imperatore Francesco I, il 2 marzo 1835 gli successe il figlio Ferdinando V, nato idrocefalo e affetto dall’epilessia. Le sue precarie condizioni fisiche e mentali finirono per consegnare il potere nelle mani di parenti e, soprattutto, in quelle del potentissimo ministro Klemens von Metternich, un tetragono conserva-


tore. Nel maggio 1835, pochi giorni dopo la chiusura della sessione di lavori della Dieta, i giovani esponenti dell’opposizione furono arrestati e condannati a lunghe pene detentive. Kossuth, nonostante l’interdizione formale, continuò a pubblicare le sue Törvény-hatósági Tudásítások, Informazioni Municipali, che diffondevano notizie sulle attività politiche degli organi amministrativi, impegno che gli valse l’attenzione dell’occhiuta polizia segreta e, nel 1837, un processo e una condanna a quattro anni di carcere. In prigione, Kossuth, subito dopo il suo arresto, aveva chiesto alla madre di fargli avere dei libri e cercò di mantenere il contatto con il mondo esterno con la lettura di giornali ungheresi e tedeschi. Migliorò la conoscenza della lingua inglese, tradusse e rielaborò in tedesco l’opera del pedagogista inglese Samuel Wilderspin, The infant system, for developing the physical, intellectual and moral powers off all children from one to seven years of age, sulla tutela della prima infanzia e iniziò la traduzione del Macbeth di William Shakespeare. Le lettere scritte ai genitori durante gli anni della prigionia costituiscono i migliori brani dell’opera letteraria di Kossuth. Egli non dovette scontare per intero la pena. Infatti, la battaglia condotta dall’opposizione per la liberazione dei prigionieri politici fu vincente e, il 18 maggio 1840, Kossuth uscì dal carcere; destino volle che divenisse guida dell’opposizione poiché, durante la detenzione, Wesselényi Miklós, il leader, aveva perduto la vista e il suo vice, Lovassy László, la ragione. Nel frattempo si erano verificati cambiamenti nella vita privata di Kossuth Laios. Il 13 giugno 1839 era morto suo padre e lui si era dovuto far carico del mantenimento della famiglia; poco dopo la liberazione, nell’estate 1840, conobbe Meszlényi Terézia, cattolica, che sposò il 9 gennaio 1841 e dalla quale avrebbe avuto due figli e una figlia: Ferenc Lajos Ákos (1841-1914), Vilma (18431862) e Lajos Tódor Károly (1844-1918). Dopo la scarcerazione, Kossuth non si ritirò dalla vita politica. A Vienna si pensava fosse meglio tenerlo d’occhio, perciò concessero che il tipografo Landerer Lajos proponesse a Kossuth la direzione di un nuovo giornale, il Pesti Hírlap, Notiziario di Pest; il primo periodico politico moderno della storia ungherese iniziò le pubblicazioni il 2 gennaio 1841. L’elemento di

Massoneria

133


Massoneria

novità del Pesti Hírlap fu che, per la prima volta nella stampa ungherese, il direttore scriveva degli editoriali. Alla redazione contribuivano diversi membri dell’opposizione che diffusero le idee riformistiche e illustrarono l’insostenibilità delle condizioni feudali nelle quali, all’epoca, versava la nazione magiara. All’epoca, il Pesti Hírlap fu il giornale più diffuso dell’impero austro-ungarico; le copie vendute, dalle iniziali sessanta, raggiunsero le cinquemila. Il lavoro giornalistico consolidò la situazione economica di Kossuth e della sua famiglia. Gli articoli pubblicati sul Pesti Hírlap provocarono un aspro conflitto d’idee con 134

Széchenyi István, esponente moderato dei riformisti. Széchenyi sosteneva l’opportunità di non entrare in urto con il governo di Vienna; la posizione di Kossuth era, invece, più radicale e la maggioranza dell’opposizione era solidale con lui. Le sue opinioni finirono per irritare il regime che fece pressione su Landerer perché licenziasse Kossuth. Il tipografo provocò un litigio per motivi economici che, concomitante con la sconfitta dell’opposizione in Parlamento, indusse il direttore a dimettersi: Kossuth firmò il suo ultimo editoriale sul Pesti Hírlap il 30 giugno 1843. Chiese la licenza per un nuovo giornale, ma non gli fu concessa, si dedicò,

quindi, a tempo pieno all’attività politica. Tra le sue iniziative, importante fu quella legata all’Unione Nazionale di Protezione, del 1844, la quale, attraverso una politica di protezione doganale, cercò di promuovere lo sviluppo dell’industria e del commercio nazionali. Kossuth temeva, infatti, che se l’Austria si fosse associata all’Unione Doganale Tedesca, l’industria e il commercio ungheresi non avrebbero retto la concorrenza con i prodotti tedeschi, che erano di qualità superiore. Kossuth, perciò, pur essendo idealmente favorevole al libero commercio, provvisoriamente appoggiò una politica di protezione doganale. Egli fece molto anche per collegare la rete ferroviaria con l’unico grande porto marittimo ungherese, Fiume, in modo che i cereali ungheresi potessero giungere al mercato mondiale. La stragrande maggioranza delle iniziative economiche di Kossuth ebbero un discreto successo, servirono a diffondere le idee riformistiche e svilupparono un’opposizione strutturata a livello nazionale. Quando i conservatori ungheresi, per salvaguardare una parte dei loro privilegi feudali, costituirono un proprio partito, Kossuth sollecitò l’organizzazione di un partito unitario di opposizione, con un proprio manifesto. Nella formulazione di questo programma, oltre a Deák Ferenc (1803-1876), il ruolo più importante fu svolto da Kossuth. A capo del nuovo partito di opposizione fu eletto il conte Lajos Batthyany (1806-1849). Alla Dieta del 1847-1848 Kossuth partecipò rappresentando la Contea di Pest. Il Governo fece di tutto pur di osteggiare la sua ele-


zione, ma senza successo. Nella Camera Bassa, l’opposizione ebbe la maggioranza, ma questo vantaggio non poté essere sfruttato a causa della reazione della Camera Alta. Il fattore decisivo della vittoria dell’opposizione fu l’allargamento, in seguito allo sviluppo economico degli anni Quaranta dell’Ottocento, della base sociale che reclamava la modernizzazione dello stato e della società. La comunione d’interessi riuniva sulle medesime posizioni i signori di campagna alle prese con le difficoltà materiali, gli intellettuali, la piccola borghesia urbana e rurale, i salariati dell’agricoltura e della nascente industria e la borghesia ebraica emergente, insomma, gli elementi più diversi della società ungherese che erano tutti minacciati nella loro esistenza o nella loro ascesa sociale dalla sclerosi del regime feudale e dall’assolutismo. L’attesa impaziente di cambiamenti radicali influenzava la letteratura, la musica, le belle arti, grazie al movimento letterario Fiatal Magyarország, Giovane Ungheria, promosso dal poeta rivoluzionario Petőfi Sándor, destinato a morire, appena ventiseienne, combattendo per l’indipendenza contro gli Austro-russi il 31 luglio 1849. “Sparì come un bel dio della Grecia”, scrisse di lui Giosuè Carducci, e la morte del poeta sul campo di battaglia “è quasi un tratto artistico della sua meravigliosa individualità, della sua straordinaria carriera; questo mistero lo solleva dalla sfera degli umani, per mantenerlo eternamente vivo, eternamente giovane”. In un clima di disordine economico e malcontento sociale, il Parlamento ungherese si riunì per l’ultima volta a Pozsony nell’autunno del1847. La situazione cambiò completamente nel marzo del 1848. Dopo avere sommerso mezza Europa, l’ondata rivoluzionaria investì l’impero degli Asburgo e raggiunse Vienna il 13 marzo. Il 14 marzo fu approvato il manifesto dei proclami di Kossuth, portato il giorno prima a Vienna da una delegazione della Dieta. L’Imperatore, insieme a una ristrettissima cerchia di fedeli, dapprima tentò di resistere, ma poi cedette: il 17 marzo, infatti, Ferdinando V diede il proprio consenso alla nomina a primo ministro di Batthyany Lajos. L’approvazione della nomina e l’appagamento delle pretese ungheresi furono influenzate dal fatto che nel frattempo, il 15 marzo, anche a Pest scoppiò la rivoluzione.

In poche settimane, vennero formulate le leggi per la trasformazione dell’Ungheria da paese feudale in uno Stato borghese. Kossuth ebbe un ruolo importante nella stesura delle “leggi d’Aprile”, attraverso le quali s’insediarono un Governo responsabile e un’Assemblea nazionale a rappresentanza popolare, mentre l’economia di mercato e la società civile si avviarono verso il libero sviluppo. Kossuth, nella sua veste di ministro delle Finanze nel governo Batthyany, svolse un ruolo chiave nella predisposizione della finanza ungherese indipendente. Sembrava che il sogno di un’Ungheria libera e indipendente fosse sul punto di realizzarsi. Tuttavia, il progetto si scontrò con le preoccupazioni delle minoranze, in particolare quelle dei Croati e del Romeni che vedevano una minaccia nella rivendicazione di una spiccata identità magiara del nuovo Stato al quale si prevedeva l’annessione della Croazia e della Transilvania. Su questo giocò la politica di Vienna, che, ringalluzzita dalla vittoria contro i Piemontesi nella battaglia di Custoza del 23 e 25 luglio 1848, dichiarò sciolto il Parlamento e nominò luogotenente il bano di Croazia Josip Jelačić. Proprio in questo periodo, il patriota d’origine tedesca Thoma Mihály Ágoston, sull’onda degli entusiasmi indipendentisti, tentò di resuscitare la Massoneria magiara e offrì a Kossuth di farne parte. Tuttavia, quando questi seppe che la nuo-

va Loggia avrebbe avuto il nome distintivo di “Kossuth Lajos della gloriosa luce dell’alba” declinò l’offerta a maggior ragione perché si profilava la possibilità di un intervento diretto dell’esercito austriaco. Con l’abdicazione dell’imperatore Ferdinando I a favore di Francesco Giusep-

Massoneria pe, salito al trono il 2 dicembre 1848, non riconosciuto dagli Ungheresi, avvenne la rottura. Mentre Budapest veniva occupata da Alfred Windisch-Graetz e Jelačić, da Debrecen Kossuth, il 14 aprile 1849, fece proclamare dall’Assemblea l’indipendenza dell’Ungheria e la decadenza degli Asburgo, difendendo il proprio paese con l’aiuto di legioni polacche e di volontari italiani. Ma la rivoluzione ungherese non aveva ormai che qualche settimana di vita. Dopo alcune sconfitte subìte nella primavera del 1849, il governo di Vienna capì che l’Austria non era in grado di sottomettere da sola l’Ungheria. Nonostante le attese della nobiltà liberale, il governo, invece di cercare una pace fondata su concessioni reciproche, decise di chiedere soccorso all’armata russa, “gendarme d’Europa”. Su richiesta di Francesco Giuseppe, l’esercito del principe Ivan Fëdorovič Paskevič, forte di duecentomila uomini, penetrò in Ungheria nel giugno del 1849 per aiutare gli imperiali, il cui comando era stato affidato al gene-

135


Massoneria

136

rale Julius Jakob von Haynau, che aveva represso nel sangue la rivolta delle Dieci Giornate di Brescia. Due mesi più tardi, il 13 agosto 1849, il principe, liquidata l’ultima resistenza dei patrioti a Világos, iniziò il rapporto redatto per lo zar Nicola I con le seguenti parole: “L’Ungheria è ai piedi di Vostra Maestà”. Il generale Haynau strumento della vendetta della corte di Vienna proclamò: «Voglio fare impiccare i capi della rivolta; voglio far fucilare gli ufficiali passati agli ungheresi; voglio estirpare il male dalle radici, per mostrare all’Europa come bisogna punire i ribelli, come far regnare l’ordine, la calma e la pace per un secolo…». Fu di parola. Il conte Lajos Batthyány, capo del primo governo ungherese, venne fucilato a Pest il 6 ottobre 1849; lo stesso giorno, tredici generali, Aulich Lajos, Damjanich János, Dessewffy Arisztid, Kiss Ernő, Knezich Károly, Vilmos Lázár, Lahner György, Leiningen-Westenburg Károly, NagySándor József, Pöltenber, Ernő, Schweidel József, Török Ignác, Vécsey Károly, furono giustiziati ad Arad (oggi in Romania). I Magiari avrebbero ottenuto l’indipendenza da Vienna soltanto nel 1918. Dopo la sconfitta, Kossuth e parecchie migliaia di patrioti trovarono rifugio presso l’Impero ottomano. L’asilo del quale godevano, tuttavia, traeva origine da ragioni personali piuttosto che da motivi politici. Inizialmente, Kossuth si stabilì con i suoi collaboratori più vicini a Šumen, in Bulgaria, e quindi, nella primavera del 1850, fu trasferito a Kütahya, in Asia Minore, dove lo avevano raggiunto la moglie, sul capo della quale era stata messa una taglia dopo la rocambolesca fuga da Pozsony, e più tardi dai figli. La Sublime Porta non poteva ignorare l’irritazione del governo austriaco e di quello russo che insistevano nel richiedere la sua estradizione. Nell’isolamento più totale, Kossuth preparava, per l’Ungheria, i progetti per un’ulteriore insurrezione armata e per una nuova costituzione democratica. Kossuth tolse il disturbo agli Ottomani grazie al Congresso americano che, a testimonianza del consenso presso l’opinione pubblica internazionale, gli concesse di trasferirsi negli Stati Uniti. Il 1 settembre 1851, nel porto di Izmir (Smirne) l’esule s’imbarcò sulla corazzata Mississippi con la famiglia e una cinquantina di seguaci. Attraccata la nave a Marsiglia, Kossuth avrebbe


voluto recarsi in Inghilterra passando attraverso la Francia, scenario di quella Rivoluzione che considerava la sua ispiratrice, ma il presidente della Repubblica, Luigi Napoleone, che non voleva irritare l’Austria, gli negò il permesso. Sbarcato a Southampton, in Inghilterra, fu accolto trionfalmente a Londra, Manchester, Birmingham e in altre città del Regno Unito. Trascorse tre settimane, Kossuth proseguì il viaggio per gli Stati Uniti dove fu ricevuto come un eroe. Agli occhi degli Americani, Kossuth rappresentava lo spirito di libertà del Vecchio Continente, alla stessa stregua di ciò che George Washington era stato nel Nuovo Mondo. Nei primi giorni di gennaio del 1852, primo straniero dopo il francese marchese di La Fayette, fu ricevuto dal Senato e dalla Camera dei rappresentanti. Kossuth si rivolse alle due Camere del Congresso chiedendo l’aiuto attivo degli Stati Uniti per la riconquista della libertà e dell’indipendenza ungherese. Il presidente Millard Fillmore lo ricevette alla Casa Bianca, ma gli riservò soltanto parole di circostanza. Abramo Lincoln, politico del Partito repubblicano, incontrò Kossuth a Springfield, in Massachusetts, in occasione di una festa organizzata in onore dell’ospite magiaro. Il futuro presidente lo presentò come il “più degno e illustre rappresentante della causa della libertà civile e religiosa del continente europeo”. Finalmente era venuto il momento per quell’iniziazione massonica che Kossuth attendeva da tempo. Nel dicembre 1851 aveva indirizzato una lettera a Ferdinand Bodmann, Maestro Venerabile della Loggia n° 133 di Cincinnati, Ohio. “Per il Maestro Venerabile, i Sorveglianti e i Fratelli della Loggia n° 133 di Cincinnati dei Massoni Liberi e Accettati”, scriveva Kossuth come bussante. “Con la presente istanza, il sottoscritto, dopo aver a lungo apprezzato la vostra antica istituzione, rispettosamente esprime il desiderio di esservi ammesso, se ritenuto degno. Esule per amore della libertà, il sottoscritto non ha fissa dimora ma, in questo periodo, si trova a Cincinnati. La sua età è di 49 anni. La sua occupazione è ristabilire l’indipendenza nazionale della sua terra natale, l’Ungheria, e di conseguire, in comunità d’azione con le altre nazioni, la libertà civile e religiosa in Europa”. Firmato: Louis Kossuth. Il 19 febbraio 1852, Kossuth, insieme con

Massoneria

quattro membri del suo gruppo di esuli, il conte Bethlen Gregor, Nagy Péter, Hajnik Pál e Utasy Strasser Gyula, fu iniziato Apprendista Libero Muratore della Loggia n° 133 di Cincinnati (poi incorporata nella Loggia n° 483 Walnut Hills), subito passato al Grado di Compagno e, il giorno dopo, a quello di Maestro. Durante il suo soggiorno negli Stati Uniti, il Fratello Kossuth visitò diverse Logge, a Indianapolis, la Loggia St. John a Newark (New Jersey) e la Gran Loggia del Massachusetts nella quale tenne un’allocuzione nel corso della quale disse tra l’altro: «Saranno lo sco-

po e lo sforzo della mia esistenza vivere in modo di essere degno del mio essere Massone, e di adempiere i doveri massonici che mi sono assunto nei confronti di ogni membro della nostra nobile istituzione, secondo le mie capacità e il mio grado». Nel luglio 1852, Kossuth si trasferì a Londra dove entrò in contatto con i protagonisti delle rivoluzioni europee e, in particolare, riprese i suoi rapporti con Giuseppe Mazzini, iniziati durante l’esilio in Turchia, dei quali dà testimonianza un nutrito carteggio (pubblicato a cura di Mario Menghini dall’Editore Vecchioni 137


Massoneria

nel 1921). La sua attività s’indirizzò all’organizzazione di società segrete in Ungheria, ma non si rese conto del fatto che l’epoca delle rivoluzioni era terminata e che per realizzare i suoi progetti avrebbe dovuto attendere la disgregazione dell’assolutismo asburgico. L’occasione si presentò alla fine degli anni ‘50, quando scoppiò la guerra fra l’Austria e l’Italia. La notizia della guerra diede nuovo vigore agli esuli che erano già sul punto di disperdere le loro forze. Nel 1859 essi crearono la Direzione nazionale ungherese, una sorta di governo in esilio. Kossuth concluse un accordo con l’imperatore Napoleone III in base al quale fu istituita, in Italia, una Legione ungherese, ma si decise che si sarebbe dato il segnale 138

della rivolta nazionale solo nel caso in cui fossero arrivati alle frontiere eserciti italiani o francesi. Dopo la rapida vittoria dei Francesi e degli Italiani, però, la guerra si avviò rapidamente a conclusione, senza, comunque, che l’Unità d’Italia fosse completata, né che si fosse venuti in aiuto degli Ungheresi. Nel 1860, Kossuth si trasferì a Genova e poi a Torino al fine di poter seguire da vicino il corso degli avvenimenti. Andò ad abitare in un appartamento di via dei Mille. Nell’estate, Kossuth e Cavour stipularono un accordo segreto per la liberazione dell’Ungheria e poiché l’opposizione interna stava rafforzando le sue posizioni, sembrava possibile un intervento dall’esterno che risolvesse la questione unghe-

rese. Ma le speranze svanirono negli anni seguenti: la guerra contro l’Austria non ebbe più luogo, Cavour morì 6 giugno 1861 e la Legione ungherese fu sciolta. Il soggiorno torinese di Kossuth fu profondamente segnato dalla ripresa della sua attività massonica. L’8 ottobre 1859, otto Fratelli, il colonnello dell’esercito Livio Zambeccari, lo stenografo della Camera dei deputati, Filippo Delpino, l’avvocato Carlo Flori, il medico Sisto Anfossi, il professore universitario Celestino Peroglio, l’operaio litografo Francesco Cordey, i commercianti Giuseppe Tolini e Vittorio Murano avevano fondato la Loggia Ausonia destinata a dar vita, il 20 dicembre, al Grande Oriente Italiano, la prima organizzazione libero muratoria nazionale dipendente dai Supremi Consigli stranieri. Kossuth fu regolarizzato poco dopo e, insieme con lui, il suo compatriota Türr István, conosciuto durante l’esilio londinese, che aveva partecipato alla seconda guerra di Indipendenza e alla spedizione dei Mille con Giuseppe Garibaldi. Kossuth, pur consapevole che in Loggia fosse proibito “intrattenersi in questioni di politica e di religione”, confidava che la Massoneria avrebbe potuto contribuire alla realizzazione dei progetti per la sua Patria. La seppur parziale realizzazione dell’Unità d’Italia aveva prodotto una vivace lievitazione della vita massonica; il 7 febbraio 1862 era stata costituita a Torino la Loggia Dante Alighieri, che si era posta all’obbedienza del Grande Oriente Italiano seppure con qualche tormento. La Dante, infatti, aveva scelto di conformarsi al Rito Scozzese Antico ed Accettato, mentre il Grande Oriente Italiano praticava il Rito Simbolico. Tuttavia, quantomeno inizialmente, questa dicotomia parve non rappresentare un problema insanabile. La svolta si verificò con l’arrivo di Lodovico Frapolli, nato il 23 marzo 1815 da una famiglia dell’alta borghesia lombarda. Ricevuto in Loggia il 10 dicembre 1862, alla fine del mese, con procedura inconsueta, aveva già salito tutti i gradini della scala Scozzese fino a raggiungere il 33º grado. Di lì a poco diventò Maestro Venerabile della loggia Dante Alighieri e avrebbe dato vita alla scissione che portò alla costituzione del Grande Oriente d’Italia. Personaggio di esperienza cosmopolita, durante una missione diplomatica a Parigi Frapolli aveva conosciuto un gran nume-


ro di esuli soprattutto ungheresi dei quali aveva abbracciato la causa. Non fu dunque un caso che, dalla fine del 1862 fino a metà del 1865, fecero parte dell’Officina trentatré magiari. Ma non Kossuth con il quale Frapolli aveva iniziato una corrispondenza nel 1852. A mano a mano che cresceva l’amicizia tra il Maestro Venerabile della Dante e un altro fuoruscito ungherese, famoso quanto Kossuth, Klapka Györg, il quale aveva firmato il brevetto del 31° grado di Frapolli, s’affievoliva quella con Kossuth. Klapka, che pur aveva collaborato con Kossuth nel 1849, o forse proprio per questo, non lo amava e, verosimilmente, aveva contagiato dei suoi sentimenti Frapolli. Nel 1862, Kossuth aveva proposto l’idea di una Confederazione danubiana della Romania, della Serbia, della Croazia e dell’Ungheria. Il progetto era stato pubblicato anche dal supplemento n° 140 del Movimento di Genova. Frapolli aveva commentato lapidariamente: “Progetto di Confederazione Danubiana, essenza delle idee di Klapka, rubato da Kossuth”. Di più. Türr e Kossut tentarono di creare in Italia un Grande Oriente Ungarico, del quale il primo sarebbe stato Gran Maestro, il secondo Gran Maestro Onorario. L’esperimento fallì se non per l’ostilità di Klapka e Frapolli, probabilmente, per la mancanza di sostegno di quest’ultimo. Non è certamente una prova, ma ingenera qualche sospetto il fatto che, subito dopo, Klapka, trasferitosi per lavoro a Ginevra, fondasse la Loggia ungherese Ister, dall’antico nome del Danubio, che però ebbe vita breve. Le speranze dell’indipendenza ungherese, nutrite e perseguite da Kossuth per un trentennio, si infransero definitivamente contro l’Ausgleich, il compromesso, che sanciva la riforma costituzionale operata in Austria e Ungheria nel 1867 dall’imperatore Francesco Giuseppe, con la quale si concedeva all’Ungheria una condizione di parità con l’Austria. Con il nome di Monarchia austro-ungarica furono creati due Stati distinti ma uniti dal vincolo dinastico e da tre ministeri: Esteri, Esercito e Marina e Finanze. Una soluzione che fu salutata con favore dall’aristocrazia magiara e dall’ala moderata dei riformisti. Kossuth, amareggiato, si ritirò progressivamente dall’attività politica. Si occupò di botanica, d’astronomia e del riordino dei

intitolata una delle due reti radiofoniche nazionali e una popolare marca di sigarette. I rivoluzionari del 1956 adottarono come stemma quello disegnato da Kossuth nel 1848. Una lapide dedicata a lui fu collocata dalla Municipalità, nel 1895, sul fron-

Massoneria

suoi scritti, cercando consolazione nei libri di storia. Nel frattempo, lo avevano colpito due tragedie familiari: nel 1862 la morte della figlia Vilma ventenne e, nel 1865, quella della moglie Terézia, entrambe sepolte nel cimitero Staglieno di Genova. Gli ultimi anni della vita di Kossuth furono segnati dall’indigenza che lo costrinse a vendere i volumi della sua imponente biblioteca. Ai primi di marzo 1894 Kossuth fu colpito dall’influenza che lo costrinse a letto, le sue condizioni s’aggravarono progressivamente e il 20, alle dieci e cinquantacinque della sera, morì assistito dai figli, da una delle sorelle e dal suo medico. La camera ardente venne allestita nella Chiesa valdese di Torino. Dieci giorni dopo, un treno speciale sul quale erano state disposte anche le urne cinerarie della moglie Terézia e della figlia Vilma, mosse da Torino per riportare in patria, dopo un esilio durato quarantacinque anni, le spoglie mortali dell’eroe dell’Indipendenza. Al confine ungherese, nonostante la proibizione dettata personalmente dall’imperatore Francesco Giuseppe di qualsiasi manifestazione di pubblico omaggio, una folla plaudente accolse il convoglio e lo accompagnò fino alla sepoltura a Budapest. Della sua immagine dopo l’indipendenza dell’Ungheria conseguita nel 1918, così come avvenne in Italia per Garibaldi, s’impadronirono tutte le forze politiche di destra e di sinistra. Gli furono dedicate vie e piazze e, finché la dittatura fascista del reggente Horty Miklós sciolse la Gran Loggia Simbolica, diverse Logge massoniche. Negli anni Cinquanta del secolo scorso il regime comunista si mostrò tiepido verso la sua memoria anche se gli fu

te del palazzo in via dei Mille in cui soggiornò come esule sino alla morte. Nel 1936, a Torino fu inaugurato un busto di Kossuth, eseguito dallo scultore Jòzsef Damkò, dono di Monok, città natale di Kossuth. L’opera fu collocata, all’ombra di un acero, nel Giardino dei Ripari, poi ribattezzata Aiuola Balbo, in piazza Cavour, nei pressi della residenza del patriota. Né la lapide, né l’iscrizione posta sotto la statua ricordano la sua appartenenza alla Massoneria. Negli Stati Uniti, diverse cittadine e villaggi portano il nome dell’eroe ungherese e a New York lavorano due Logge Kossuth. Una si trova anche a Buenos Ayres, in Argentina. Nel suo ultimo e importante scritto Kossuth si collocò con estrema precisione nella storia ungherese del XIX secolo: “Le lancette dell’orologio non regolano il trascorrere del tempo, ma lo segnano”, scrisse. “Il mio nome è come una lancetta: segna il tempo che verrà, che dovrà venire, se per la nazione ungherese la sorte ha in serbo ancora un futuro che porterà il nome dell’indipendenza nazionale: una patria libera ai liberi cittadini d’Ungheria”. ________________ Bibliografia Hermann Róbert, Kossuth Lajos, a magyarok Mózese, Osiris kiadó, Budapest 2006. Koltay-Kastner Jenõ, A Kossuth-emigráció Olaszországban, Krvina, Budapest 1960. Peter Hanák, Storia dell’Ungheria, Franco Angeli, Milano 1996. Aldo A. Mola, Storia della Massoneria Italiana dalle origini ai giorni nostri, Bompiani, Milano 1992. Luigi Polo Friz, La Massoneria italiana nel decennio post unitario-Lodovico Frapolli, Franco Angeli, Milano 1997. P.112 e 119: Rito egizio, olio di J.R.Weguelin, XIX sec.; p.123: Renée Guenon; p.130, 131, 134, 135 e 136: Effigi di L. Kossuth in scultura, fotografia, filatelia ecc; p.137: Il Generale Julius Jakob von Haynau; p.138: Annullo filatelico massonico e documento autografo di L.Kossuth; p.139: Sigarette ‘Kossuth’.

139


Esoterismo

Extraterrestri, Angeli e Tradizione esoterica Roberto Pinotti

parte I 140


C

on la fine del 1992, con un budget di oltre 100 milioni di dollari, era stata varata la fase operativa del progetto S.E.T.I. (Search for Extra-Terrestrial Intelligence), ricerca scientifica internazionale con capofila la NASA (l’ente spaziale americano), che mira al rilevamento di segnali intelligenti dall’universo attraverso la radio-astronomia, a conferma della da tempo supposta esistenza di altre civiltà nel cosmo. Tale ricerca, allora sponsorizzata dal presidente Ronald Reagan, fu poi osteggiata dall’Intelligence statunitense e bloccata a livello di finanziamenti dal Parlamento USA, che la ritenne dagli sviluppi incontrollabili e troppo onerosa, ed oggi si fonda solo su apporti economici privati. E attualmente, oltre ogni top secret o insabbiamento (cover up) ufficiale delle Autorità di Washington timorose di compromettere la loro leadership mondiale, finora applicati in nome della sicurezza nazionale e dell’ordine pubblico, sempre di più si dibatte il controverso e persistente enigma degli UFO (sigla di Unidentified Flying Qbjects ovvero Oggetti Volanti non Identificati, coniata dall’Aeronautica Militare degli Stati Uniti). Velivoli supertecnologici pilotati da esseri dalla morfologia concordemente indicata dai testimoni attendibili come umana o umanoide, atti a viaggiare nello spaziotempo curvandolo in modo da bypassare il limite fisico della velocità della luce, e in grado di procedere indifferentemente nel vuoto cosmico, in qualsivoglia atmosfera come pure in un fluido più denso come l’acqua (trasformandosi allora in USO ovvero Unidentified Submerged Objects). E costituenti un problema concreto, documentato, attuale, inquietante e ormai ufficialmente riconosciuto da molteplici governi in Europa, America Latina ed Asia, ed apparente indizio di effettive e costanti visite alla Terra da altri mondi da parte di intelligenze evidentemente intenzionate a non interagire direttamente con noi (altrimenti una “guerra dei mondi” ci sarebbe già stata da tempo); e che nel contempo vede svilupparsi l’ipotesi che tale fenomeno, indubbiamente manifestatosi anche nel passato, finisca col confondersi negli stessi miti delle nostre origini. Fantasie? Tutt’altro. Ai margini dei convenzionali

studi di genealogia sussiste, nelle diverse culture, la tradizione comune della cosiddetta teogamia, termine di derivazione greca indicarne l’unione biologica fra gli dei e gli uomini. La cultura greco-romana, com’è noto, è letteralmente traboccante di miti a contenuto teogamico, e sarebbe ozioso indugiare in esempi. Basti ricordare che alla base della mitologia classica rimane il concetto che gli dei si sono più volte uniti carnalmente a donne o uomini della Terra, procreando schiatte sovrumane di semidei ed eroi di cui la mitologia ellenica fornisce molteplici casi. In epoca storica, vale la pena di ricordare che ad uomini come Alessandro Magno e Giulio Cesare furono in effetti - anche a posteriori - attribuite

paternità ovvero genealogia divina. Miti pagani e null’altro? Superstizioni pure e semplici? Questo lasciamolo dire ai parroci di campagna di ieri o a certi neo-integralisti cattolici odierni di bassa lega. Qualsiasi teologo e cristiano degno di

Esoterismo tale nome (di qualunque confessione), al contrario, dovrà ammettere che, nel contesto giudaico-cristiano, la teogamia è un dato ugualmente ricorrente. E ciò non tanto o solamente in relazione alla figura di Gesù Cristo, per i cristiani figlio di Dio partorito da una vergine (e onorato dagli islamici come il più gran-

141


Esoterismo

de profeta prima di Maometto, indiscutibile punto nodale dell’Ebraismo che pure lo ha rifiutato come Messia). Al riguardo l’Antico Testamento ci riserva infatti non poche sorprese. Lo scontro nei cieli È un dato di fatto che il culto dei messaggeri del Cielo sia presente in tutte le antiche civiltà. Chiamati Deva dagli indoariani, Paris dai persiani, Daimonoi dai greci, Maleakim dagli ebrei. questi “inviati” celesti presentano tutti, presso le varie religioni dall’antichità, dei caratteri indiscutibilmente comuni e, in certi casi, addirittura identici. Caratteri che sono stati successivamente trasferiti, attraverso l’ebraismo, negli Angeli (dal greco anghelos, cioè “messaggero”) del Cristiane142

simo e dell’Islamismo. Esaminiamo, ad esempio, le tradizioni cristiane, che sono le più vicine a noi. La Bibbia non parla della creazione degli Angeli, com’è noto. Solo nell’Apocalisse (Cap. 12, 7-9) si dice espressamente che “… ci fu una gran guerra nel Cielo, Mikael e i suoi Angeli guerreggiarono col Drago. E il Drago guerreggiò insieme con lui e i suoi Angeli. Ma non prevalsero, e non si trovò più posto per loro nel Cielo. E fu precipitato giù il Gran Drago, il Serpente Antico che è chiamato Diavolo e Satana, il seduttore di tutta la Terra, fu precipitato sulla Terra e tutti i suoi Angeli furono precipitati con lui…”. Ecco, dunque, la famosa “Caduta degli Angeli” seguita ad una situazione da “guerre stellari” per

così dire ante litteram. La Terra sarebbe diventata dunque il rifugio o il luogo di contenzione degli Angeli Caduti sconfitti. Una sorta di pianeta-penitenziario isolato seppur monitorato dagli Angeli vittoriosi? Lo stesso “Gran Drago”, d’altronde, identificato nel biblico Leviathan (mitico serpente celeste ed acquatico ad un tempo), sembrerebbe riferirsi (dalla descrizione che ne dà la Bibbia) non ad un mostro ma ad un qualcosa di diverso. Del Leviathan leggiamo infatti nella Bibbia che «il suo corpo è costituito come di scudi fusi insieme, composto di squame che combaciano: l’una con l’altra è congiunta, neppure un soffio passa fra loro; l’una all’altra aderisce, e si tengono in guisa da non separarsi. Il suo starnuto è uno splendor di fuoco, e gli occhi suoi come le ciglia dell’aurora; dalla sua bocca escono faci, come fiaccole di vivo fuoco; dalle sue froge vien fuori fumo, come da caldaia accesa e bollente: il suo soffio accende tizzoni, e una vampa esce dalla sua bocca. Le membra delle sue carni sono compatte... Quand’esso si rizza tremano gli Angeli... Fa bollire come caldaia il profondo mare, lo riduce come un vaso d’unguento che spuma: dietro a lui risplende il sentiero...». Concludere, alla luce della odierna fenomenologia UFO, che il Leviathan costituisca una mitica ma fedele raffigurazione di una macchina («è costituito come di scudi fusi insieme») di forma cilindrica operante in cielo come un apparecchio-madre atto al lancio di ordigni più piccoli («dalla sua bocca escono faci») e in acqua come un mezzo anfibio («fa bollire come caldaia il profondo mare») potrebbe essere tutt’altro che azzardato, a questo punto. La scia lasciata dagli odierni UFO («dietro a lui risplende il sentiero»), la loro luminosità («il suo starnuto è uno splendor di fuoco»), la nebulosità che talvolta li avvolge («dalle sue froge vien fuori fumo»), i loro effetti termici («il suo soffio accende tizzoni»), gli «oblò luminosi» talvolta segnalati su di essi («gli occhi suoi come le ciglia dell’aurora») potrebbero effettivamente identificarsi con la fedele descrizione biblica. A quanto sopra esposto si ricollega poi, significativamente, l’episodio biblico del profeta Giona, chiamato da Dio in una missione presso i Niniviti, che dovrà invitare alla conversione. Egli, sottrattosi all’ufficio cui è stato designa-


to, si imbarca a Jaffa per fuggire a Tarsis. Ma Dio scatena una tremenda tempesta, della quale Giona viene indicato dall’equipaggio, a mezzo di estrazione di sorti, come responsabile. Offertosi volontariamente per riparare ai danni provocati, Giona viene gettato in mare, dove un enorme pesce lo accoglie naufrago nel suo ventre, trattenendovelo per tre giorni e tre notti, al cui termine verrà rigettato in prossimità di una spiaggia. Secondo la tradizione giudaica, il «pesce» che accoglie Giona ha una bocca tanto grande che Giona vi passa come per il portale di una sinagoga: i suoi «occhi» sono in realtà finestre, e nel suo interno grandi lampade sono sospese… Dunque, il Leviathan con i suoi Angeli fu abbattuto sulla Terra. Ma su questi ultimi Genesi ci dice anche di più. “... Or quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla faccia della Terra e furono loro nate delle figliuole, i Figli di Dio (“Ben-Elohim” nel testo originale ebraico; e cioè, letteralmente - essendo Elohim il plurale del termine Eloha – “i Figli degli Dei”) videro che le figliuole degli uomini erano belle, e presero perciò per loro mogli quelle che si scelsero fra tutte...» (Genesi 6, 1-2). E nel versetto 4 dello stesso capitolo si specifica: ”... In quel tempo c’erano sulla Terra i Giganti (in realtà nel testo originale ebraico troviamo il termine Nephilim, collegabile al verbo “n-ph-l”, “cadere” e dunque, letteralmente, “i caduti” ovvero alla parola “Nephilà” che indica specificamente nel cielo la regione stellare della Costellazione di Orione: forse il loro luogo di provenienza?) e ci furono anche dopo, quando i Figli di Dio si accostarono alle figliuole degli uomini e queste generando loro dei figli. Essi sono quegli uomini potenti che, fino dai tempi più antichi sono stati famosi. I figli degli dei Chi erano questi enigmatici Figli degli Dei? Chi erano, nella tradizione ebraica, i padri dei mitici “Giganti”, i personaggi, cioè, che presso tutti gli antichi popoli sarebbero poi diventati i semidei e gli eroi delle varie mitologie? Perché, la parola che, in ebraico, sta ad indicare questi misteriosi personaggi e la loro progenie (una razza di alta statura, secondo la tradizione) significa, etimologicamente, “i caduti”? La risposta a tali interrogativi è in realtà meno complessa di quanto

si potrebbe supporre. Alcuni superficiali commentatori dei Sacri Testi, in passato, identificarono i Figli di Dio con i discendenti del pio Seth, che così sarebbero stati chiamati per contrapporsi ai Cainiti, i figli di Caino; oggi, però, numerosi teologi cristiani delle varie confessioni convengono che con tale termine gli Ebrei vollero indicare, esplicitamente, gli Angeli. Numerosi sono infatti i testi pseudoepigrafi (o apocrifi) che, trattando dettagliatamente degli eventi cui si accenna nel Cap. 6 di Genesi, possono farci comprendere quali fossero, in realtà, le amiche tradizioni popolari ebraiche sugli Angeli. Non resta che constatare l’evidenza. «...Fu in quei giorni» leggiamo nel Cap. 4 dell’apocrifo Libro dei Giubilei «che gli Angeli del Signore discesero

sulla Terra, gli Angeli che vengono chiamati “i Veglianti” , al fine di istruire i figli degli uomini e di insegnare loro il senno e la rettitudine sulla Terra. Enoch fu il primo, fra i nati sulla Terra, ad apprendere la scrittura, la scienza e la saggezza dei Veglianti, e che descrisse in un

Esoterismo libro le costellazioni del Cielo secondo l’ordine dei mesi loro propri. affinché gli uomini potessero conoscere le stagioni dell’anno secondo l’ordine dei diversi mesi». Enoch, come molti ricorderanno, è nominato in Genesi con altri patriarchi: «...Egli camminò con Dio (Elohim) e poi disparve, perché Dio (Elohim) lo prese con se…» (Cap. 5, 24). Il che con-

143


ferma, appunto, quanto è scritto nel sopraccitato Libro dei Giubilei: «...Egli fu per lo più presso gli Angeli di Dio che gli fecero vedere tutto ciò che è sulla Terra e nei Cieli; ed egli scrisse tutto ciò che vide…». Il peccato dei veglianti «Egli recò testimonianza anche ai Ve-

Esoterismo glianti che avevano prevaricato con le Figlie degli uomini, giacchè avevano comincialo ad unirsi alle figlie degli uomini e si erano in tal modo contaminati» (Cap. 4, 21-22). L’unione degli Angeli con le donne della Terra, comunque, non è riferita soltanto nel testo apocrifo che abbiamo appena citato: anche i famosi rotoli di Qumran, i manoscritti antichissimi risalenti alla setta giudaica pre-cristiana degli Esseni, casualmente scoperti in una grotta del deserto lungo la costa occidentale del Mar Morto, avvalorano questa millenaria tradizione. “... I Custodi del Cielo caddero camminando nella ribellione dei loro cuori…” leggiamo infatti nel 3° capitolo dell’ormai noto Documento di Damasco “... Vi vennero presi quando non osservarono il comandamento di Dio; e i loro figli, la cui statura era come l’altezza dei cedri, e i cui corpi come le montagne, essi pure caddero…”. D’altronde, in un altro dei rotoli di Qumran, e cioè nel manoscritto noto come Le Memorie dei Patriarchi, possiamo leggere: “... Sospettando che il bambino fosse stato concepito da uno dei Veglianti del Cielo e appartenesse dunque alla stirpe dei Giganti, io, Lamech, inquieto nel profondo del mio cuore, così mi rivolsi a mia moglie BatEnosh: “Giurami per l’Altissimo, il Reggitore dei Mondi, il Supremo Signore degli Esseri del Cielo che mi dirai la verità”…». «...“Per l’Altissimo, Signore del Cielo e della Terra” è la rassicurarne risposta della donna “ti giuro che il seme che è in me è il tuo, che il frutto suo è stato da te concepito, e che esso e stato piantato in me da te e non da uno straniero o da uno dei Custodi del Cielo”…» (Cap. 2, 1-26). I brani da noi citati sono, evidentemente, fin troppo espliciti. A questo punto, però, è bene tenere presente che sia il Libro dei Giubilei che i vari rotoli del Mar Morto si riferiscono 144

solo superficialmente agli eventi sintetizzati nei versetti di Genesi che abbiamo preso in esame. Per maggiori particolari, dunque, dovremo rifarci alla fonte più autorevole e citare il famoso Libro di Enoch, risalente al II o al III secolo avanti Cristo, e che fa parte integrante delle Scritture Sacre della Chiesa Cristiano-Copta. «… Ora, allorché i figli degli uomini si furono moltiplicati» leggiamo nel testo etiopico «nacquero loro in quei giorni delle figlie belle e graziose; e gli Angeli, figli del Cielo, le videro e le desiderarono e dissero tra loro: « Andiamo, scegliamoci delle donne fra i figli degli uomini, e generiamoci dei figli…” (Cap. 6, 1-2). «... Or costoro (I Veglianti) erano duecento, e discesero al tempo di Jared sulla cima (Ardis) del Monte Hermon (posto al confine fra la Siria ed il Libano)...» (Cap. 6, 6). Quindi il Libro di Enoch ci fornisce addirittura i nomi di alcuni di questi Angeli, il cui capo si chiamava Semyaza; la versione del Charles riporta i seguenii; Arakiba, Rameel, Kokabiel, Tamiel, Ramiel, Danel, Ezeqee1, Baraqijal, Aseel. Armaros, Batarel, Ananel, Zaqiel, Samsapeel, Satarel, Turel, JomjaeL Sariel. Altre traduzioni, comunque, citano altri nomi, tra cui Arazeal. A puro titolo di curiosità ricordiamo che con tale nome gli antichi Armeni, e sembra anche altre popolazioni della Mesopotamia, erano soliti indicare il pianeta Venere. “... Or costoro, e tutti gli altri che erano con loro, si presero delle donne, ciascuno ne scelse una e cominciarono a volgersi verso di esse, ed insegnarono loro le magie e gli incantesimi e l’arte di tagliare le radici, e i segreti delle piante. Ed esse diventarono gravide, e generarono i Giganti…”. Questi ultimi, prosegue il testo, “finirono col dare fondo ai frutti del lavoro degli uomini, e quando questi non poterono più soddisfarli si rivolsero contro di loro…”. “... Essi” prosegue il Libro di Enoch «cominciarono a peccare contro gli uccelli, gli animali, i rettili e i pesci, divorandone la carne ed assaporandone il sangue (si tenga presente a questo proposito che l’uomo avrebbe dovuto essere, nelle intenzioni divine, una creatura esclusivamente vegetariana; vedasi infatti Genesi 1, 29-30). Allora la Terra accusò i violenti..”. (Cap. 7,1-6). Al peccato degli Angeli, dunque, si ag-

giungeva la prepotenza e la violenza dei loro figli, tesi ad imporre la loro autorità sugli uomini con la forza. I negativi insegnamenti degli angeli caduti Ma non è tutto. Giacchè «...Azazel insegnò agli uomini a fabbricare spade e gladi, scudi e corazze, e mostrò loro i metalli e l’arte di lavorarli, e i braccialetti e gli ornamenti, e l’antimonio e come abbellire con esso le palpebre, e le pietre più belle e più preziose, e le tinture di tutti i colori, e la rivoluzione del mondo. L’empietà fu grande e generale; essi fornicarono, errarono, e tutte le loro azioni furono corrotte… » (Cap. 8, 1-2). Il versetto seguente specifica che «...Semyaza insegnò agli uomini gli incantesimi, Armaros spiegò loro come scioglierli, Baraqijal fece loro conoscere l’astrologia, Kokabiel fece loro comprendere il significato dell’aspetto delle costellazioni, Ezeqeel la natura delle nuvole...» e così via, mostrandoci come l’improvviso, quasi brutale contatto con esseri infinitamente più evoluti abbia contribuito a sconvolgere e a corrompere la mite semplicità dell’umanità primitiva, del tutto impreparata ad un evento di tale portata. Veri e propri Conquistadores ante litteram. Infatti, i Veglianti e la loro progenie imposero agli uomini la loro autorità e ciò probabilmente senza troppa fatica, valendosi delle conoscente superiori che certo possedevano e del superstizioso timore che sicuramente dovevano incutere all’umanità di quell’epoca lontana, Fantasie? Potrebbe anche darsi. I re divini Eppure, nella millenaria tradizione che vuole identificare con gli Angeli Caduti i mitici Re Divini che, provenienti dal Cielo, avrebbero governalo l’umanità nella notte dei tempi, e che non è d’altronde presente solo nelle mitologie dell’antico Oriente, scopriamo tracce più che evidenti nello stesso ebraico antico; in questa lingua, infatti, Melek (= re) e Maleak = angelo, inviato) altro non sono, appunto, che due forme diverse di una medesima parola. Anche da un punto di vista etimologico ciò conferma, appunto, che gli Ebrei ritenevano che gli Angeli Caduti fossero effettivamente stati i primi re delle popolazioni mesopotamiche. Re assoluti e dispotici, evidentemente, e che certo non contri-


buirono a lasciare un ricordo piacevole presso le genti semitiche, a differenza di altri Re Divini scesi dai Cieli per governare la Terra di cui ci parlano le tradizioni e lo mitologie di vari popoli: dai miti egizi a quelli protoellenici, da quelli dell’India e dell’Estremo Oriente a quelli mesoamericani, dalle leggendo celtiche e protoitaliche a quelle dell’Oceania. La guerra degli angeli «Nel loro annichilimento gli uomini gridarono» continua il Libro di Enoch «e il loro clamore salì fino al Cielo. Allora Mikael, Uriel, Raphael e Gabriel volsero il loro sguardo dall’alto dei Cieli e videro il sangue sparso in abbondanza sulla Terra e tutte le ingiustizie che sulla Terra erano state commesse...» (Cap, 8, 4 e Cap. 9, 1). Per sintetizzare quel che poi accadde sarà però più opportuno, a questo punto, lasciare il testo etiopico (che tratta fin troppi nei dettagli dell’intervento degli altri Veglianti inviati da Dio contro gli Angeli Caduti e della parte avuta da Enoch in tale vicenda) per rifarci al più succinto Libro dei Giubilei: “… Dio si adirò profondamente contro gli Angeli che Egli aveva inviato sulla Terra e diede ordine che essi fossero spogliati d’ogni loro autorità e li fece imprigionare... Ed Egli mandò la sua spada in mezzo ai loro figli, sì che ciascuno uccidesse il suo vicino e si mettessero a uccidersi gli uni con gli altri sin a cader tutti morti di spada e fossero così cancellati dalla faccia della Terra...” (Cap. 5, 6-9) Semplici leggende? Forse. Quel che è certo è che, contravvenendo a disposizioni generali che non prevedevano rapporti con i nativi di una cultura inferiore, gli Angeli Caduti avrebbero importato sulla Terra comportamenti riprovevoli che avrebbero stravolto in negativo la specie umana. E noi ne staremmo ancora pagando le conseguenze… Quale possa essere la nostra opinione su quanto affermano i testi sopra citati, è un fatto che la progenie dei Figli degli Dei di cui parla Genesi, e cioè degli Angeli Caduti delle più antiche tradizioni ebraiche, è nominata ben altre quindici volte nel Vecchio Testamento, e che gli ultimi discendenti di queste razze di alta statura (il Libro di Enoch li chiama bastardi; la Bibbia li chiama, oltre a Nephilim, Refaim o Rafaim, Enacim, Enim, etc. ),

Esoterismo

secondo il II Libro dei Re e il I Libro delle Cronache, furono definitivamente annientati dagli Israeliti nel decimo secolo prima dell’era volgare. Può anche essere una coincidenza. Ma forse non è un caso che il Dio degli Eserciti, con spietate disposizioni ai limiti del genocidio, raccomandasse la soppressione sistematica dei vari monarchi (e dei popoli) loro discendenti a Mosè prima e a Giosuè poi. Israele fu dunque anche l’esecutore di una sentenza divina di annientamento della razza di bastardi Nephilim pronunciata da Jahvè al tempo del patriarca Enoch? Questo, direbbe Werner Keller, l’autore di La Bibbia aveva ragione, è storia. Non mitologia. Ed è del pari una realtà il fat-

to che la discesa di divinità sulla Terra, la loro unione con l’umanità e la conseguente comparsa di una razza di alta statura dagli attributi semi-divini in seguito estintasi costituiscano un insieme di tradizioni comuni a tutti gli antichi popoli. Dobbiamo ignorare tutto questo? O non dovremmo, piuttosto, cercare di stabilire che cosa può nascondersi dietro il velo del mito e della leggenda? A nostro avviso è questa la via da seguire, anche se ciò potrà comportare la necessaria revisione di concetti e di valori finora considerati assoluti. P.140-145: La caduta degli angeli ribelli, olio su tela di Luca Giordano, XVII sec. (particolari ed intero).

145


Eventi

Comunicare con la Conoscenza La presenza della Gran Loggia D’Italia alla Fiera Internazionale del Libro di Torino è giunta al suo terzo anno. Sabrina Conti

S

e la prima partecipazione è stata vissuta con forte curiosità, la seconda edizione è risultata positivamente dirompente. I media hanno dedicato vario spazio ad interviste col Gran Maestro Luigi Pruneti. Quest’anno, forse, i più curiosi siamo stati proprio noi. Il successo dell’avere rinnovato questa scelta si è dedotto dalla normalità con cui la presenza della Gran Loggia D’Italia in Fiera del Libro è stata vissuta dagli “appassionati” di questa manifestazione. Le conferenze si sono susseguite a ritmo incalzante, riempiendo la sala, non più di curiosi ma di persone interessate all’argomento trattato. La nostra soddisfazione è andata oltre, nel constatare la partecipazione di un pubblico profano di età variegata. Anche i titoli dei libri proposti sono stati portati a casa da molti profani: insomma la voglia di capire e conoscerci attraverso la cultura è stata vincente. Un palcoscenico di questo tipo ha permesso di far conoscere l’Obbedienza nella sua più profonda ideologia; la partecipazione di oratori apparte146

nenti a uomini del mondo della cultura e dell’intellighenzia, ha apportato un valido contributo alla divulgazione del nostro pensiero, un pensiero condiviso da molti, seppur non iscritti alla Massoneria. La Massoneria è, al suo interno, ricca di sfaccettature, con peculiarità spesso a carattere esoterico iniziatico, ma il senso di appartenenza massonica si realizza, in primis, nella condivisione di valori che dovrebbero essere quelli fondanti di qualsiasi Uomo che – quotidianamente – è obbligato a confrontarsi con i suoi simili: la tolleranza, l’umiltà e l’amore, inteso come sentimento di apertura e condivisione. Il viaggio proposto, in questa edizione del Salone di Torino, si può sintetizzare con la parola Conoscenza (leghein). Le immagini rappresentate sui pannelli unite alle parole dei relatori ed alla musica – di volta in volta armonizzata agli argomenti trattati – hanno coinvolto e, possiamo dirlo, convinto un pubblico esigente e conoscitore delle materie esposte; il risultato dei molti interventi è che le conferenze hanno sforato tutti

i tempi prefissati, alcune di un’ora! Giuliano Boaretto, ha invitato Hobbit e Saruman a danzare, tra il bianco ed il nero, con celtiche sonorità eseguite dal chitarrista Jo Chies, dalla violinista Chiara Cesano, dal percussionista Vito Micolis e intonate dalla suadente voce di Fiorella Mondo. Il mondo delle Streghe, tra leggende e mito affascina sempre, soprattutto se narrate con slancio da Massimo Centini. Non si può davvero fare una statistica del successo delle varie conferenze, quando personaggi come Gabriele La Porta, Aldo Alessandro Mola, il Rabbino capo di Ferrara Rav Luciano Meir Caro ed ancora Antonio Binni, Ivan Jurlo, Franco Cuomo, Nazzareno Venturi prendono la parola. Abbiamo volato alto, tra le profondità dell’Anima, lo spirito dei Sufi e le magnificenze del Mondo Egizio, a noi tanto caro, trattato da Federico Bottigliengo e da Ilaria Monfardini, non dimenticando un po’ di sana autoironia attraverso i tratteggi del Maestro Sergio Sarri. I temerari che si sono avventurati malgrado la pioggia al Circolo dei Giornalisti,


Eventi

hanno vissuto un “Fuori Fiera” sulle note di diverse culture: un unione tra Occidente ed Oriente, espressione del sogno massonico. Come interpreti: la mezzosoprano Ginevra Zotti di Nicola, il Maestro Piotr Lachert al pianoforte, il Maestro Dario Destefano al Violoncello, il Maestro Maurizio Redegoso Karithian alla Viola ed il Compositore Antonio Cericola. Con musiche di W.A.Mozart, Gioachino Rossini, Komitas e G.I.Gurdjieff, B.Bartok, G.Castagnoli, Piotr Lachert, Davide Remigio … per forgiare nuovi mattoni utili alla riedificazione della “Torre di Babele”. P.146-147: Alcuni momenti dell’evento torinese: Giuliano Boaretto accompagnato dalla voce di Fiorella Mondo; Il mezzosoprano Ginevra Zotti di Nicola e il Maestro Piotr Lachert al ‘Circolo dei Giornalisti’; il piccolo stand aggiuntivo della G.L.D.I. per la vendita diretta di libri e riviste. (Il progetto dello Stand per la Fiera di Torino è stato ideato e allestito da Sabrina Conti; fotografie di S.Conti e P.Del Freo).

147


Attualità

Pascal Vesin sospeso da parroco: massone o...

I

l 23 maggio 2013 don Pascal Vesin è stato sospeso da parroco di Sant’Anna di Megève (Alta Savoia) dal vescovo di Annecy, Yves Boivineau. Ordinato prete della chiesa cattolica apostolica romana il 30 giugno 1996, l’oggi quarantatreenne don Vesin ha dichiarato di essere stato avvicinato “de manière interessée” da massoni della Gran Loggia Nazionale Francese ma di aver poi deciso di farsi iniziare nel 2001 in una loggia del Grande Oriente di Francia, “L’Avenir du Chablais” all’Oriente di Ginevra-Thonon. Sollecitante o sollecitato, varcò la soglia del Tempio senza informare l’ordinario ecclesiastico al quale era vincolato per gerarchia apostolica e amministrativa. Giocò insomma due partite, sapendo bene di farlo (o così è lecito supporre per benevolenza nei confronti suoi e di suoi eventuali apologeti). Secondo informazioni da lui non smentite, don Pascal si spese anche su temi sensibili per la “sua” chiesa: contro il celibato degli ecclesiastici, a favore del matrimonio tra persone dello stesso genere, per l’uso dei profilattici nelle relazioni sessuali e altri argomenti sui quali la sua chiesa propugna dottrine e norme diverse da quelle 148

da lui professate. Libero di farlo, ma a condizione di uscire, propria sponte, dall’Ordine di cui era ministro. Don Vesin non è stato imprigionato, torturato, condannato al rogo… Non è neppure stato sospeso a divinis. Informato da una lettera anonima nel 2010, il vescovo lo ha convocato, ascoltato, ammonito. In primo tempo negò di essere entrato in Massoneria. Sconfessato dall’annuncio per internet della sua partecipazione a una tenuta massonica a Ginevra, per due anni è stato richiesto di lasciare la loggia. Il suo caso è stato infine sottoposto al vaglio della Congregazione per la dottrina della fede, che il 7 marzo gli ha dato un mese di tempo per rompere in modo netto e chiaro con l’“Avenir du Chablais”. Al suo rifiuto, l’ordinario ecclesiastico non ha avuto più margini: lo ha sollevato dall’incarico pastorale e lo ha privato dei benefìci connessi (l’alloggio e la congrua). Sarebbe improprio farne una vittima dell’intolleranza o del fanatismo della Chiesa cattolica, le cui gerarchie hanno applicato la legislazione ecclesiastica vigente, di cui è unica fonte e interprete. Quando si gioca a bocce si mira al pallino, non ai piedi dei concorrenti né degli

spettatori. Ogni Istituzione ha diritto di fissare le proprie norme e di esigerne il rispetto da chi accetta di farne parte. Pascal Vesin non è un quisque de populo, è un sacerdote: ordinato, e quindi tenuto ai canoni che (si suppone) conosceva prima della sua iniziazione, che accettò o scelse o subì. Se ebbe la forza di superare una certa soglia doveva poi avere quella di valicarne un’altra. Non solo. È da credere che abbia preferito una loggia del Grande Oriente (“liberale” e a-dogmatico) a quella della Gran Loggia Nazionale (all’epoca incardinata sui capisaldi di legittimità e regolarità proclamati dalla Gran Loggia Unita d’Inghilterra) sulla base di studio e di matura cognizione delle loro diverse storie e identità. Il “caso Pascal Vesin”, dunque, è davvero “un caso”. Rimane da chiarire se e perché la Chiesa cattolica apostolica romana ancora vieti ai propri ministri l’iniziazione massonica. È una questione sua. Nel 1974 il prefetto della congregazione per la dottrina della fede, Ferenc Seper, scrisse che i cattolici possono far parte di logge massoniche che non cospirano contro la Chiesa ma ribadì il divieto di iniziazione massonica per gli ecclesiastici. La promulgazione del nuovo Codice di Diritto Canonico (1980) è poi stata accompagnata nel merito da una Dichiarazione che ha ribadito il giudizio negativo della Chiesa cattolica sulla Massoneria e ha affermato che i massoni sono “in colpa grave”: non ha però ribadito la “scomunica”. Veduti questi precedenti normativi e storici si può concludere che il vescovo di Annecy si è condotto con pacata moderazione: don Vesin è stato sollevato dall’incarico, ma niente affatto escluso dalla chiesa. Farne un “caso” e alimentare polemiche costringerebbe alla difensiva chi invece si sta aprendo e vive (forse con qualche sofferenza) al proprio interno mutamenti rapidi e rapinosi. Come ha recentemente dichiarato il Gran Maestro Luigi Pruneti la Massoneria, in specie la Gran Loggia d’Italia, “non ha muri precostituiti verso nessuno, tanto meno verso il Vaticano, contro cui la Massoneria non si pone in alcun modo”. Il Tempo propizia la Verità. Aldo A.Mola


I

l quotidiano “La Repubblica” il 18 ottobre dello scorso anno ha pubblicato la classifica relativa ai primi mesi del 2012 che vede in testa alla lista degli oggetti maggiormente rubati i libri antichi (oltre 5 mila 500 su 10 mila 248 oggetti rubati), oggetti che se vengono molto rubati, sono anche frequentemente recuperati. Stando ai dati forniti dai carabinieri nel 2009 sono stati ritrovati oltre sedicimila volumi, diecimila in più rispetto all’anno precedente. Il furto di libri antichi è balzato recentemente agli onori delle cronache con l’episodio della meravigliosa Biblioteca dei Gerolamini di Napoli depredata proprio dal suo direttore con la complicità del Padre Conservatore della Biblioteca stessa. Pone1 serram, cohibe, sed quis custodiet ipsos custodes? diceva Giovenale! Un fatto gravissimo che ha sconcertato sia chi riveste responsabilità nella conservazione e valorizzazione dei beni librari, innanzitutto i funzionari del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, che si prodigano anche in situazioni lo1 Decimus I.Iuvenalis, Satire, VI, vv. 362-363.

gistiche difficoltose per la tutela del patrimonio bibliografico, sia quanti sanno che un libro, per quanto possa essere pregevole, non è solo un’opera d’arte ma circolazione d’idee, di cultura, di conoscenza. Il possesso di un’edizione pregevole o di un manoscritto raro ha sempre attratto l’attenzione dei bibliofili e degli antiquari e di tutte le persone senza scrupoli che non esitano di ricorrere al furto, in proprio o su commissione, per impadronirsene. I ladri di libri sono sempre esistiti, uno di essi in America in vent’anni è arrivato a rubare 28.000 libri e dall’altra parte si è sempre cercato di evitare i furti in questione. Come giustamente asserisce Carlo Revelli2, il conflitto fra la necessità di custodire il materiale e quella di informare è acuto e le maledizioni in uso nell’antichità contro chi avesse osato rubare o mutilare libri non sono più di sicura efficacia. Revelli cita quella della biblioteca abbaziale di Arnstein, nell’Assia, dedicata alla Vergine 2 C. Revelli, Furti, vandalismi e cose affini, in Biblioteche oggi, gennaio-febbraio 2000, pp. 58-62.

e a S. Nicola: “Se qualcuno la deruba, possa egli morire la morte, possa esser bollito in un pentolone, che l’epilessia e la febbre lo colgano, sia spezzato sulla ruota ed impiccato. Amen”. In Spagna si ricorreva alla scomunica (Foto n. 1), ma anche gli ex libris avevano come funzione primaria quella di distinguere i propri libri e preservarli così dai furti. Ovviamente per tutelare la sicurezza negli archivi e nelle biblioteche adesso esistono ricercati sistemi che spaziano dai metal detector per sincerarsi che l’utente non abbia con sé materiale metallico per tagliar via fogli dai libri, ai microchip e comunque è cogente la necessità di adottare moderne e sofisticate tecnologie di allarme e protezione dai furti, procedure antintrusione e antidanneggiamento, piani di sicurezza ed evacuazione degli stabili. Negli USA per prevenire la criminalità connessa ai furti e agli atti di vandalismo contro libri antichi, manoscritti e altri manufatti di pregio sono stati attivati appositi corpi di vigilanza specializzati, con agenti FBI coinvolti nelle operazioni di recupero delle opere sottratte. La preoccupazione per la sorte delle collezioni è alla base di una cura scientifica nella predisposizione di piani d’intervento e azioni preventive volte a preservare le testimonianze del sapere umano; d’altra parte le collezioni librarie, archivistiche o di opere d’arte sono beni da tutelare adeguatamente non solo per il contenuto informativo, storico e culturale, ma anche per il loro non trascurabile valore economico. L’immagine delle istituzioni va inoltre tutelata per favorire la generosità dei privati e degli enti nelle donazioni e nell’accrescimento delle collezioni. \ Gli ex libris che in questa puntata ho deciso di presentare sono quelli di alcuni fratelli della Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. di Palazzo Vitelleschi a cominciare da quello di uno dei suoi nomi più importanti, Antonio Binni. 149


Ex Libris

Il suo ex libris è un’acquaforte del 1989 di Victor Schapiel (Austria), 139x87, numerato e firmato dall’autore. Raffigura un nobile in costume cinquecentesco, sotto un sole al suo Zenith, che si trasfigura in un uomo nudo che configge la sua spada in un cespuglio di rose, sullo sfondo di una nordica città accanto a un corso d’acqua, raffigurazione del viaggio di un Principe Rosa+Croce. I Rosacroce, confraternita esoterica attiva in particolare nel XVII e XVIII secolo, basavano la loro attività sulla carità e sull’amore fraterno e affermavano di perseguire specialmente la purezza e la saggezza, non tenendo in alcun conto i beni mondani e le ricchezze. Quello di Rosa+Croce è il diciottesimo di una serie di trentatré gradi che nel 1801 hanno costituito il Rito Scozzese Antico e Accettato della Massoneria. La nascita del 150

Rosacrocianesimo è fatta risalire però fra il XVI e il XVII secolo, cioè al periodo nel quale l’Europa subisce una serie di assestamenti religiosi derivanti dalla Riforma protestante, dallo scisma anglicano e dai provvedimenti controriformisti del Concilio di Trento. Secondo l’opinione più diffusa il movimento fu fondato dal monaco luterano Johannes Valentinus Andreä nel 1614 a Kassel, in Germania, e al suo blasone, composto da una croce di Sant’Andrea con quattro rose poste agli angoli, è fatta risalire l’immagine di questa Società. Anche lo stemma di Martin Lutero però raffigura delle rose intorno a una croce, non dimenticando però che per gli alchimisti la rosa simboleggiava i quattro elementi naturali. Il rifiorire in questo particolare momento storico dell’alchimia, intesa come tramite per aprire la por-

ta della conoscenza a pochi eletti, era un mezzo per ricordare che la sapienza era per i pochi che si dimostrassero degni di possedere superiori ricchezze spirituali. La diffusione avvenne oltre che in Germania, nella quale era sorta, anche in Francia, Inghilterra e Russia. Il fatto che il nobile indossi un costume di foggia elisabettiana sta a indicarci che Schapiel fa riferimento a questo preciso momento storico e la scelta stessa dell’abito, cioè un corto soprabito, chiamato cloak, lungo fino a mezza gamba e portato su una sola spalla, costruito con un prezioso tessuto rigido realizzato unendo una serie di strisce per simulare i tagli delle uniformi dei soldati, ci suggerisce l’appartenenza del cavaliere alla più alta società. Il cloak era, infatti, un capo prezioso indossato dai nobili in occasioni speciali e mette in risalto il concetto della “great chain of being”, cioè “la grande catena dell’essere” alla cui base erano i poveri e i contadini e all’apice, più importante dello stesso Dio, la regina, e gli abiti dovevano rigidamente rappresentare lo stato sociale. Abbiamo allora un nobile, ricco di denari e di sapere che, partendo dalla città di Kassel, sul fiume Fulda, nell’Assia settentrionale, perché proprio questa è la città raffigurata nell’ex libris, è trasformato dalla sua stessa filosofia e dai suoi viaggi, alla ricerca del bene e della conoscenza, in un uomo nudo davanti alla spada divenuta una croce che nasce da un cespuglio di rose, simbolo qui della più alta pienezza che un essere umano possa raggiungere. La nudità in questo caso simboleggia semplicità e povertà, ma anche virtù e innocenza. La figura del titolare dell’ex libris, Antonio Binni, è a tutti nota, sia in campo professionale sia massonico. Laureatosi giovanissimo in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Bologna, con il massimo dei voti e la lode, ha approfondito i suoi studi nelle Università di Gottinga e di Berlino. Titolare nella città di Bologna di un affermato studio legale che opera sia in campo nazionale che internazionale, è presidente del consiglio di amministrazione d’importanti società, docente, autore di saggi e articoli giuridici pubblicati in qualificate riviste ed enciclopedie, relatore in moltissimi convegni regionali e nazionali, severo studioso di filosofia e storia delle religioni, nonché autore di numerosi studi e pubblicazioni mas-


soniche. È stato iniziato nella Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. di Palazzo Vitelleschi nel 1976 alla loggia “Ugo Bassi” all’Oriente di Bologna e tanto nell’Ordine quanto nel Rito ha ricoperto tutte le cariche massoniche in ambito cittadino, provinciale e regionale fra le quali, nell’Ordine, quella di Grande Oratore, Primo Gran Sorvegliante, Gran Maestro Aggiunto, Gran Maestro Aggiunto Vicario. Nel Rito ha ricoperto le cariche di Membro effettivo del Supremo Consiglio, Gran Cancelliere del Supremo Consiglio, Gran Ministro di Stato, Luogotenente Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro Aggiunto vicario della Gran Loggia d’Italia e del Supremo Consiglio d’Italia. Attualmente è Gran Priore del Supremo Consiglio, oltre che Sovrano Grande Ispettore gene-

rale per la Regione Massonica Emilia-Romagna. Credo che Schapiel sia riuscito in questa interessantissima opera a compiere un’approfondita analisi psicologica, nonché un importante studio storico e artistico sul movimento rosacrociano. \ Paolo Masieri, noto massone fiorentino e collezionista di documenti massonici, è stato iniziato il 12 dicembre 1978 all’Officina “Aristotele” di Firenze; fra i fondatori nel 1981 della loggia “Socrate” appartiene tuttora al suo piè di lista. Ora è viceispettore dell’Oriente di Firenze, città nella quale è ben conosciuto e rispettato per la sua decennale professione di assicuratore. Il suo ex libris è una composizione tipografica, 60x85, che risale alla fine degli anni ’80, caratterizzata da una serie di elementi che

lo rendono tutt’altro che convenzionale. Il riquadro che contiene i simboli ricorda in parte un grembiule, in parte la mantovana dentellata, detta nappa a frastagli, che circonda il quadro di loggia. Un sole raggiante delimita un orizzonte che è anche ara, dove, assieme alle tre Grandi Luci, Li-

Ex Libris bro Sacro, Squadra e Compasso, appare un poderoso tomo, intitolato Art-usi, usi all’arte? Oppure semplicemente l’Artusi? Certo è che Masieri è anche un buongustaio! Il noto libro di cucina di Pellegrino Artusi, mercante e critico letterario più che cuoco, intitolato La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene, edito nel 1891, nell’ancor molto variegata Italia post risorgimentale darà un’italianità anche ai fornelli, anche se in realtà le ricette sono tosco-umbro-emiliane. Questo ricco borghese anticlericale con una simpatica famiglia allargata ai gatti Sibillone e Biancani, ai quali dedicò la prima edizione della sua famosissima opera, probabilmente non era estraneo alla Massoneria in quanto a stretto contatto con l’ambiente postunitario fiorentino e prova ne è la prefazione del noto massone Olindo Guerrini, in arte Lorenzo Stecchetti, che fra l’altro commenta che “[…] una discussione sul cucinare l’anguilla, vale una dissertazione sul sorriso di Beatrice”. Questo testo che ha venduto oltre un milione di copie ed è giunto alla centocinquantesima edizione è stato tradotto in tutte le lingue principali ed è stato ristampato in anastatica della prima edizione nel 2011 per celebrare il centenario della morte di Pellegrino Artusi assieme ai festeggiamenti dell’unità d’Italia della quale è stato un simbolo. \ Un’acquaforte, arricchita all’acquatinta, 65x80, realizzata da Leonardo Scarfò, numerata e firmata dall’autore è uno degli ex libris di Annalisa Santini, medico, massone e appassionata exlibrista. Scarfò, nato a Firenze nel 1974, laureato in Filosofia, studia dal vero gli antichi maestri, con particolare predilezione per i grandi incisori del Cinquecento europeo. Esordisce con successo alla Fiera Internazionale di Arte Contemporanea di Bolzano “KunstArt 2009” accanto ai nomi storici del ‘900. Inizia quindi un rapporto di collaborazione con una delle più importanti 151


gallerie milanesi, la Miniaci Art Gallery di Via Brera. Nel 2011, attorno al suo ciclo di sei acqueforti sulla “Civiltà Italiana”, inaugura in anteprima, ancora a Monaco di Baviera, un ciclo di mostre dedicate alla rappresentazione fantastica delle tappe fondamentali della nostra civiltà artisti-

Ex Libris ca. Realizza per numerosi comuni italiani, fra i quali Montalcino, Positano, Sabbioneta, tirature di acqueforti raffiguranti in chiave allegorica la storia, le tradizioni, le peculiarità artistiche e antropologiche del territorio. Questo ex libris rappresenta l’ineffabile sinergia tra Mercurio e Minerva, divine, dunque supreme, personificazioni esoteriche delle due componenti essenziali della nostra capacità di conoscere comprendendo e comprendere conoscendo, cioè la nostra parte intuitiva e quella razionale; presenta una particolare suggestione e, con essa, inscindibilmente, una particolare difficoltà. La suggestione consiste nell’alludere a quella compiutezza, a quella completa compenetrazione con l’oggetto della nostra inesausta ricerca che costituisce il fine supremo di ogni ricercare. La difficoltà consiste nel fatto che tale assoluta compenetrazione rappresenta soprattutto un fine, la forma di un metodo, il movente spirituale piuttosto che la realtà di un possibile, definitivo compimento per la nostra conoscenza. Minerva è statica e altera, virginale e feroce nella sua maestà algida e severa; la immaginiamo troneggiante, coronata di luce nitida e piena, filtrata a malapena dalla rigorosa geometria di colonne che sorreggono la sacrale geometria del Tempio. Mercurio non sa sostare, è per eccellenza ambiguo, obliquo, oscuro e tuttavia indispensabile ponte tra mondi; messaggero, psicopompo, abitatore dei limiti e traghettatore oltre i limiti. Sensuale, fecondatore, irrefrenabile. Minerva è Scienza, Mercurio è Alchimia. Una piena convergenza tra Scienza e Alchimia, supremo, solare traguardo, è forse quanto questo ex libris vuole alludere con maggiore sottigliezza. La lancia incrociata con il caduceo, l’intreccio delle braccia divine, il comune sostegno dato alla città di Siena, nella quale è nata e vive la titolare, come a dire a uno spazio architettonicamente ordinato, allegoria dell’anima spiritualmente educata, non sono che variazio152

ni sul tema unico di tale sinergia. Il motto, enfasi tutt’altro che superflua, traduce con lirismo quanto l’immagine ambisce a significare nell’immediatezza: l’universalità della bellezza della conoscenza. Il motto lucet omnibus è inciso nel sigillo della loggia “Salomone III” che Annalisa Santini ha contribuito a fondare e della quale è membro attivo e sottende la parola Sol, il sole che è raffigurato nel sigillo della Loggia e queste parole, tratte dal Satyricon3, vogliono indicare l’assoluta imparzialità che deve esistere in una Loggia, così come imparziali sono i raggi del sole che illuminano ugualmente tutti. Le allusioni alla Massoneria non sono però finite perché sopra le lance incrociate brilla il Delta che racchiude l’Occhio divino che allude sul piano fisico al Sole visibile dal quale emanano Vita e Luce, sul piano astrale al Logos e sul piano divino al Grande Architetto dell’Universo. Un’ulteriore richiamo latomistico è rintracciabile nei tre puntini 3 Titus Petronius Niger, Satyricon, 100, 3.

che separano la parola “ex libris” dal nome della titolare; essi4 sono una rappresentazione del Triangolo e risalgono verosimilmente al 12 agosto 1774 quando vennero usati nella circolare inviata dal Grande Oriente alle Logge, come asserisce Ragon. \ Questo ex libris del famoso attore Ettore Petrolini, zincotipia 37x45, è stato disegnato da lui stesso mostrandosi come la maschera teatrale che interpretava e ricopre la sua funzione primaria, cioè è incollato in un libro a indicarne il suo proprietario. Addirittura in questo volume, Il sostituto, abbiamo la dedica a Petrolini dell’autore, Ossip Félyne, nom de plume di Osip Abramovi Blinderman, nato a Odessa 29 dicembre 1882, ingegnere, scrittore e drammaturgo che, colto dagli avvenimenti rivoluzionari a Parigi, non rientrerà in Russia, scegliendo come rifugio e residenza l’Italia e più precisamente 4 J. Boucher, La simbologia massonica, Parigi, 1948, p. 61.


Bordighera, sulla costa ligure, dedicandosi alla scrittura di romanzi e opere teatrali. Vivrà a Roma, Napoli e Milano come giornalista, direttore dell’Impresa metropolitana di Napoli e traduttore dal russo. Otterrà la cittadinanza italiana, poi revocata nel 1939 perché di origine ebraica. Ettore Petrolini (Roma, 13 gennaio 1884 – Roma, 29 giugno 1936) è stato un attore, drammaturgo, scrittore e sceneggiatore italiano, specializzato nel genere comico. È considerato uno dei massimi esponenti di quelle forme di spettacolo a lungo considerate teatro minore, termine con il quale si identificavano il Teatro di varietà, la Rivista e l’Avanspettacolo. La sua importanza nel panorama del Teatro italiano è oggi pienamente riconosciuta. Riassumendo in sé l’attore e l’autore, Petrolini ha inventato un repertorio e una maniera che hanno profondamente influenzato il teatro comico italiano del Novecento. Sicuramente il suo modo di fare teatro è stato al fuori di ogni schema e pur se i suoi legami con il futurismo di Marinetti sono innegabili, anche di lui ama ridere: “[…] Marinetti è quella cosa / Che facendo il futurista / Ogni sera fa provvista / Di carciofi e di patat … Petrolini è quella cosa / Che ti burla in ton garbato, / Poi ti dice: ti ha piaciato? / Se ti offendi se ne freg […]”5. Nel 1923 fu iniziato alla Massoneria in una Loggia all’Obbedienza di Piazza del Gesù6 7. Necessariamente il suo passaggio nella nostra Obbedienza è stato breve perché il suo ingresso nel 1923 in una loggia di artisti è stato rapidamente seguito dalla messa al bando della Massoneria da parte del regime fascista e un attore, sia pur celebre quale lui era, doveva avere l’appoggio del potere costituito e anzi il suo rapporto con Mussolini fu estremamente cordiale, anche se è rimasto immortale il ringraziamento per la medaglia conferitagli: “E io me ne fregio!”.

Ex Libris

5 E. Petrolini, Stornelli Maltusiani, così chiamati perché interrompevano l’ultima parola dell’ultimo verso, secondo la moda dei futuristi che gravitavano attorno alla rivista “Lacerba”. 6 R. Palmirani, Ex libris massonici, Roma, 2000, p. 91. 7 G. Gamberini, Mille volti di massoni, Roma, 1975, p. 228.

153


l’Orphelinat maçonnique de la GLDF”. Massimo Marra

\

La Massoneria rivelata. Storie, leggende e segreti

Luigi Pruneti e Marco Dolcetta, Mondadori, Milano 2013, pp. 216, illustrato, €. 24,90.

I Le temple perdu. Histoire de laFranc-Maçonnerieitalienne... et de l’atimaçonnerie... des 1725

L. Pruneti. Traduit de l’italien et enrichi par A. Gallego, Les Edictions Ixcéa, Toulouse, 2013, rilegato, pp. 339, €. 42,00.

Q

uesto libro risponde alla necessità di far conoscere in Francia la storia della Massoneria italiana, dalle sue origini fino al terzo millennio. Inoltre, il testo, tratto in gran parte dalla Sinagoga di Satana che l’autore pubblicò nel 2002, illustra in modo dettagliato la campagna diffamatoria e spesso persecutoria alla quale la Libera Muratoria fu ed è oggetto nella Penisola. L’opera che si articola in nove capitoli, è stata tradotta e attata ai lettori francesi da Andre Gallego che ha provveduto anche a implementare alcuni argomenti e il ricco apparato bibliografico. Il volume è, pertanto, un importante saggio sulla Massoneria peninsulare le cui vicende sono poco note Oltralpe. Uno dei pregi del presente volume è, comunque, quello di avere un fine solidaristico; ogni provente ottenuto dalla vendita della pubblicazione, a iniziare dai diritti d’autore, andranno infatti a beneficio dell’Orfanotrofio massonico della Gran Loggia di Francia, come è esplicitato dallo stesso curatore: “Toutes les bénéfices de la vente de cette ouvrage comme les droits de l’auteur et du traducteur seron reversés à

154

l volume non vuole solo demistificare le false leggende sulla libera muratoria ma, ripercorrendo tre secoli di storia, descrive aspetti poco noti di alcuni dei suoi protagonisti, analizza i miti creati dagli stessi massoni, rivela la parte che ebbero in alcune vicende importanti del passato più o meno recente; individua, inoltre, gli elementi simbolici che gli adepti della squadra e del compasso disseminarono nell’architettura, nell’arte e nella letteratura, spiega i motivi dell’astio verso la confraternita e passa in rassegna i suoi più famosi nemici, svelandone i fini e le metodiche. Tanti e diversi argomenti, veri e presunti, sui misteri della Massoneria, fanno sì che il libro si presenti come una galleria di quadri dove i ritratti di personaggi come Barruel, Garibaldi, Racovski, Franco, Carducci, Lenin si stagliano sullo sfondo di epoche e di ambienti diversi: dalla Rivoluzione francese a quella americana, dall’Italia Umbertina alla Germania di Hitler e all’Unione Sovietica. Non mancano, inoltre, note di colore e l’esplorazione dei nuovi orizzonti dell’immaginario collettivo condizionato dalla rete globale, la più possente creatrice di miti nella storia dell’umanità.

\

Termoli e Casacalenda nel 1799, stragi dimenticate

Antonella Orefice, con interventi di Luigi Pruneti e Mario Zarrelli (Arte Tipografica Editrice, Napoli 2013, pp. 101, € 12.00)

N

uovi frammenti di verità riaffiorano dal passato grazie all’opera di Antonella Orefice, nota studiosa napoletana, che da anni si

dedica con passione alla ricostruzione dei sei mesi della Repubblica del 1799. Non studi teorici, ma riproduzioni in anastatica dei documenti. È questa la peculiarità delle pubblicazioni della Orefice che, anche in quest’ultimo lavoro, non ha mancato di trascrivere ed offrire dagli originali, due manoscritti inediti, ritrovati nel fondo Mariano D’Ayala, presso l’archivio della Società Napoletana di Storia Patria, ente prestigioso che, dal 1875,


riunisce intorno a sé studiosi di fama europea ed offre con la sua biblioteca e l’archivio un patrimonio culturale di inestimabile valore. I manoscritti pubblicati da Antonella Orefice in questa sua ultima fatica letteraria, narrano le vicende che sconvolsero due centri molisani, Termoli e Casacalenda, durante il febbraio del 1799, epoca durante la quale il re Borbone, Ferdinando IV, era scappato in Sicilia per sfuggire all’esercito francese che avanzava, lasciando Napoli e le province in balia della miseria e dell’anarchia. Con dovizia di particolari, gli autori dei manoscritti, Teodosio Campolieti e P. Giuseppe La Macchia hanno lasciato ai posteri una cronaca vivida delle esecuzioni dei fratelli Brigida a Termoli e di Domenico De Gennaro a Casacalenda, per mano delle truppe mercenarie reclutate dal Cardinale Ruffo, da cui emergono intatte atmosfere e verità storiche che, come sottolinea nel suo intervento Luigi Pruneti, rappresentano una riposta decisa al recente revisionismo storico d’accatto. Non parole, non luoghi comuni, non ipotesi, ma documenti veri, quelli che il re Borbone Ferdinando IV non riuscì a dare alle fiamme con l’intento di far sparire dalla storia fatti e protagonisti dei sei gloriosi mesi della Repubblica Napoletana, un momento durante il quale Napoli riuscì a dare di sé un’immagine diversa: non più lazzari, maccheroni e frivolezze monarchiche, ma un governo gestito dalle migliori menti illuminate del ‘700. L’intervento dell’avv. Mario Zarrelli contribuisce a dare all’opera una lettura giuridica, ma anche umana sia dei manoscritti che dell’indignazione che traspare dalle parole di Antonella Orefice nell’introdurre l’opera, sentimento motivato e giustificato dall’efferatezza di quelle stragi che seminarono vittime innocenti che combatterono per un futuro migliore: i patrioti. Forsan et haec olim meminisse iuvabit (E forse un giorno sarà un bene ricordare tutto questo). Chi cerca la verità e lavora per restituire luce e giustizia a quegli innocenti morti per mano del carnefice porta nel cuore queste ultime parole pronunciate sul patibolo da Eleonora de Fonseca Pimentel Fonseca. Chi ama la libertà non può non sentirsi avverso a quella monarchia dispotica, e profondamente indignato di fronte a certe affermazioni prive di fondamento, che mirano a svilire fatti e protagonisti di quel nostro glorioso pezzetto di storia che fece eco in tutta l’Europa. Altro che traditori del Regno! I martiri della libertà del 1799 sono stati eroi che meriterebbero un monumento nel cuore di tutti coloro che amano Napoli, terra natia di menti eccelse e rare. Nessun perdono per gli assassini, ma la sola ed esclusiva intenzione di

restituire alla nostra storia patria un ulteriore pezzetto di verità, in risposta all’ondata controrivoluzionaria che tende a relegare i sei mesi delle Repubblica Napoletana ad un dissacrante quanto vergognoso oblio.” (Antonella Orefice - Termoli e Casacalenda nel 1799, stragi dimenticate. Con interventi di Luigi Pruneti e Mario Zarrelli, Arte Tipografica Editrice, Napoli 2013, p. 24). Antonio Cangiano

come valore assoluto”. Renato Ariano definisce il chiaranente il problema “Il tema del fine vita non è mai solo un semplice tecnico-scientifico ma è in definitiva un problema della società che non accetta la morte e non comprende che la morte è l’altra faccia della vita”. Giuliano Boaretto lascia che siano le parole dei poe-

\

ti sognatori dove nell’arte poetica il vocabolo da segno diviene simbolo. Il kairos – concetto qualtativo “il momento opportuno o misura giusta” che i Greci opponevano al quantitativo chronos il tempo logico e sequenziale (c’era anche l’aiòn, il latino aevum, cioé un tempo tanto lungo che può designare un tempo che non ha fine, un tempo senza tempo … ma ai Greci non piacevano le contraddizioni). E termina citando Jung: “quello che avviene dopo la morte è così indescrivibilmente glorioso che la nostra immaginazione e i nostri sentimenti non sono sufficienti a darcene un’idea approssimata”. E Vittorio Gallo ribadisce “Nulla di prestabilito né di standardizzato fideisticamente, per il liberomuratore, ma ciò che forse potrà identificarsi come proseguimento del continuo sperimentare la morte stessa in vita, il che equivale ad imparare continuamente a morire che è ancora come dire fare esperienza di un eterno presente, secondo un principio per il quale l’eternità non viene dopo il tempo e la vita eterna non ha una durata”. E cita ad es. M. Heidegger (Essere-per-la-morte) assumendo ab inizio la propria mortalità o R. Panikkar non vivo ora la mia rinascita non vivrò mai e V. Jankélevitch l’aver vissuto è il suo viatico per l’eternità, La visione culturale e psicologica della morte, che da liberi muratori possiamo sentirci di condividere, è quella “continuista”, quella che vede la morte come parte intrinseca della vita. Il Massone porta in sé e coltiva il principio di “essere nel Creato” in relazione ad un preciso disegno “architettonico” dal quale dipendono in parte o in tutto gli eventi che caratterizzano la nostra vita e quella dell’Universo. Detto in termini gnostici, portiamo in noi la scintilla divina. Il trattamento riduzionistico – sostiene nel suo intervento Andrea Di Massa - del paziente cronico, che appunta precipua attenzione su organi ed apparati, non è sufficiente poiché trascura l’esperienza di malattia. Se la malattia conduce il paziente alle soglie della vita, lo scenario si complica. Dolore e sofferenza possono dominare la scena. In ogni caso la realtà che il paziente conosceva prima della malattia si sgretola e si ristruttura nuovamente. Se sono presenti turbe delle coscienza la realtà, già sgreto155

Vita e pensiero dei momenti ultimi

A cura di R, Ariano e P. A.Rossi, Genova, 2013, pp 224 Euro 15

N

el corso di queste pagine si affronta, si dibatte e si riflette un tema di grande attualità e interesse pubblico: il fine vita, il morire e la morte, passaggi obbligati per tutti gli esseri umani. Il nostro vivere è vita per la morte e fin da quando l’uomo nasce egli condivide la fine della sua esistenza Soleva ripetere il filosofo danese Sören Kierkegaard: “Nella vita l’uni-

ca cosa certa è la morte, però è l’unica cosa di cui non si può sapere nulla con certezza!.” Nel saluto di benvenuto Franca Barbetti Celetto ricorda che “su queste tematiche ci troviamo immersi in una Società che appare scissa su due ordinamenti fondamentali che rispecchiano, di fatto, i due aspetti della moderna bioetica (laica e cattolica-romana) ma intrisa da una cultura dominante che scarta i concetti di sofferenza, di dolore, di rassegnazione, rimuove gli argomenti relativi alle criticità esistenti sul morire … mentre esalta la salute

Recensioni


lata, può rimanere definitivamente destrutturata e non assumere nessuna forma. Nei casi estremi si invoca la limitazione della terapia; se il paziente è cosciente può chiedere egli stesso di interrompere la storia naturale di malattia. La nostra legge ed il codice di deontologia medica non consentono la interruzione volonta-

Recensioni ria della vita. In attesa del momento che consentirà di sintonizzare legge e scienza, abbiamo il dovere di prenderci cura dei pazienti a fine vita, coinvolgendo tutti gli attori del trattamento, ovvero medici non medici, terzo settore, comunità locali ed Istituzioni. Attenzione e cure (to care) accompagneranno un numero sempre maggiore di pazienti lungo i sentieri della evoluzione naturale delle patologie che conducono a fine vita. In ogni caso occorre ricordare che il progresso scientifico è ritenuto tale solo se pone le basi per ulteriori nuove conoscenze. Queste possono sintonizzare i dubbi che Morale, Scienza e Diritto pongono, ma sono inevitabilmente destinate ad aprire la porta a nuovi interrogativi. Allorché la nostra incertezza viene trasformata in dubbio abbiamo fatto un passo in avanti”. Il “quando morire” e il “come morire” sono problemi oggi essenziali, poiché il potere dei saperi medici ha definitivamente svincolato la vita dalle regole rigide della natura. Il dibattito bioetico, che considera la controversa questione tra il lasciar morire/aiutare a morire e rispondere alla richiesta di morte (suicidio razionale), ha imboccato dagli anni Novanta la via del confronto tra principi di valore e di diritto e si è prevalentemente focalizzato intorno alla questione delle malattie terminali per la gestione del suicidio assistito, dell’eutanasia e della sospensione della cura. Ma come osserva Mario Abrate in Eutanasia: delitto o diritto? la condizione per ammettere la liceità e la legalità dell’eutanasia è l’affermazione di un diritto assoluto dell’uomo a disporre della propria vita e a chiederne la soppressione una volta che questa sia “senza valore”. Il problema è però quello non solo di identificare chi abbia il diritto e l’onere di stabilire quando la vita diventa “senza valore”, ma soprattutto quello di chiarire il concetto di “qualità della vita”, ovvero se una vita sia degna di essere vissuta in quanto dotata di criteri minimi di accettabilità fisico-psichica secondo una valutazione soggettiva o dei più o se comunque sempre sia degna in nome e della sacralità, inviolabilità e indisponibilità della vita umana indipendentemente dalle circostanze di debolezza, di malattia, di handicap. Se si sta agli attuali esiti del dibattito sull’eutanasia 156

la frattura è fra quanti rivendicano come criterio sommo di valutazione morale l’autonomia del singolo, eventualmente bilanciata con le esigenze della collettività, e quanti ribadiscono l’esistenza di leggi universali e immutabili della natura umana, che occorre individuare e seguire per promuovere il bene dell’uomo in quanto “persona”, quello di ciascuno così come il bene comune. L’unica soluzione sarebbe quella di pervenire a una bioetica autenticamente laica, rispettosa delle scelte individuali e consapevole dei rischi insiti nel lasciare solo alla medicina l’onere delle scelte. Roberto Navone nel suo Bioetica Medica dopo avere data una definizione del termine come “riformulazione dei contenuti tradizionali dell’etica adattati alla necessità di instaurare un nuovo rapporto tra medico e paziente” cerca i cambiamenti positivi (luci) indotti dalla bioetica: i medici si sentirono chiedere anche cose che non rientravano nella loro etica professionale tradizionale e nei loro codici deontologici addirittara intervenire non per guarire una malattia, salvare una vita o guadagnare tempo rispetto alla morte, ma per interrompere un trattamento e rischi (ombre) della bioetica: per es, Jonathan Baron nel libro Against Bioethics: “la bioetica ha finito per creare un sistema decisionale che favorisce scelte irragionevoli. E, lungi dal ridurre i rischi di abusi nella ricerca e nella pratica medica, ne ha creato dei nuovi… I bioeticisti sono diventati dei “preti laici” a cui i governi e le istituzioni guardano come a delle guide morali… la bioetica ha sostituito la medicina come fonte di un nuovo paternalismo”. La bioetica appare oggi a un bivio: o continuare ad applicare principi che non possono essere messi in discussione, perché fondati sulla tradizione o sulla fede (oltre che, come abbiamo visto, sull’intuizione e sull’istinto); oppure, provare ad applicare, nei singoli casi, decisioni fondate unicamente sulla forza della ragione, in base all’analisi matematica e probabilistica che definiscano con un buon grado di certezza l’utilitarismo (nel senso di beneficialità) di certe scelte. I rischi di una medicina che accetta di snaturarsi, dimentica della propria incontestabile natura umanista, per farsi portavoce e attuatrice di presunte certezze scientifiche, senza vagliarne i tragici risvolti umani vengono affrontati in prospettiva storica nell’intervento Il medico e la storia: la deriva eugenetica. Assumendo quale campo di indagine quello offerto dall’applicazione delle teorie degenerazioniste ed eugenetiche al problema sociale del controllo dei “diversi” e in particolare dei malati di mente Ida Li Vigni mostra i rischi di una medicina che non solo si allea con il potere politico, ma si arroga il compito di diagnosticare e di marchiare quanti sono “vite non degne di es-

sere vissute”, spingendosi ad avallare e a mettere in atto pratiche come la sterilizzazione forzata e l’eutanasia che nulla hanno a che vedere con l’etica medica. Roberto La Rocca asserisce in primis le due visioni estreme: una religiosa e dogmatica, fondata sull’etica della sacralità della vita, per la quale essa e dono di Dio e l’altra laica ed a-dogmatica, fondata sull’etica della qualità della vita e sull’affermazione del diritto individuale. Tra queste si sono inserite nel tempo ulteriori posizioni intermedie, frutto di valutazioni di ordine giuridico, deontologico, bioetico che sembrano aver contribuito alla ricerca di un accettabile punto di incontro, al fine di consentire al Parlamento l’approvazione di una legge. A tutt’oggi, infatti, nel nostro Paese non è presente l’istituto giuridico del “Testamento biologico”, a differenza della maggior parte dei paesi occidentali, europei e nord-americani, ove esso è accettato nella prassi o è stato addirittura oggetto di normativa. I temi su cui il Parlamento è chiamato a emanare nuove leggi sono quindi quelli riguardanti: l’alleanza terapeutica, il consenso informato, le dichiarazioni anticipate di trattamento (D.A.T., definizione preferibile per evitare sovrapposizioni interpretative con il termine propriamente giuridico di “testamento”. Al pari di ogni cittadino, che ha la facoltà costituzionalmente riconosciuta di contribuire alla formazione delle leggi dello Stato, anche la G.L.D.I. può fornire il proprio contributo nel campo della Bioetica, e le varie iniziative finora intraprese ne sono chiara testimonianza. Il percorso di fine vita tra bioetica ed economia. “L’economia sanitaria - di Luisa Cusina - ha il compito di fornire al decisore politico informazioni per favorire la più razionale allocazione delle risorse pubbliche in tale ambito. I principali strumenti di valutazione dei programmi sanitari non sono adatti al caso del trattamento delle malattie terminali, in quanto si fondano su logiche di aspettativa di guarigione e non considerano “utile” la vita senza speranza di vita. La metodologia più sofisticata tra quelle presenti in letteratura è l’ACU (Analisi Costi Utilità), che misura l’efficacia di un programma sanitario con i QALY (Quality Adjusted Life Years), cioè gli anni di vita guadagnati grazie al trattamento ricevuto, ponderati per la qualità degli stessi. Benché anche nelle logiche dell’ACU, la morte o le gravi invalidità siano considerate ad utilità zero, in questo studio si esamina la possibilità di adattare questa metodologia, formulando una scala di valori dell’”utilità” compatibile con una diagnosi infausta. Il lavoro si concentra sull’assistenza ai minori affetti da malattie terminali e ne esamina le ricadute in termini economici e di benessere sociale. Una disamina degli aspetti giuri-


dici propri della realtà italiana inerenti il testamento biologico e in particolare il ruolo del tutore nel caso il paziente non sia in grado di esprimere coscientemente la propria volontà viene affrontata da Ivan Iurlo in Il testamento biologico. Profili comparativi e ordinamenti giuridici a confronto. L’autore mette a confronto le leggi in materia approvate in Germania, in Canada e negli Stati Uniti con le ambigue e contraddittorie proposte di legge italiane, evidenziando in conclusione come nei Paesi nordamericani e in Germania sia stato introdotto, teorizzato e adottato il sistema di advance care planning, per mezzo del quale vengono meglio definite le opzioni del paziente in materia sanitaria per far sì che, al subentrare di uno stato di incapacità, sia possibile per il medico seguire un percorso comportamentale assolutamente concordante con le volontà precedentemente espresse dal soggetto, laddove in Italia ancora si è lontani dalla conciliazione tra le norme che legittimano il rifiuto delle cure salva-vita con il principio, sancito dall’ordinamento italiano, dell’indisponibilità del bene della vita. In Bioetica fra Medicina e Scienze Umane, Paolo Aldo Rossi afferma che la scienza e la medicina sono agli antipodi: la scienza della vita e la pratica sanitaria sono cose profondamente diverse sia dal punto di vista storico ed epistemologico che a livello del fare e dall’agire. La differenza in tutto questo è chiara: la scienza della vita è neutrale, la medicina sanitaria non può e non deve esserlo, così come è diversa l’oggettività dalla soggettività A differenza delle diverse “scienze” (sia formali, che naturali e umane), il cui fine è istituzionalmente noetico (la conoscenza di ...), la medicina sembra avere finalità eminentemente pratiche (la cura della salute e della malattia); generalmente, essa viene considerata un’arte fortemente connotata dalla perizia dell’artista (il medico), il quale attinge nozioni dall’emporio del sapere storico e del sapere scientifico e abilità pragmatiche dal bagaglio delle tecnologie, raggiungendo i propri obiettivi con una irreprensibile applicazione della scienza (umanistica e sperimentale) e un corretto uso della tecnologia. La “scienza della cura” è un sapere storico per l’attività anamnestica e diagnostica e le loro sindromi, una scienza naturale per l’attività prognostica-predittiva e una tecnologia per l’attività terapeutica La medicina, come d’altronde fanno le cosiddette scienze umane, ricorre a metodi e ad impianti epistemologici più simili a quelli della storiografia che a quelli della fisica o della chimica non sono quasi mai distinguibili il contesto della scoperta dal contesto della giustificazione anche perché non è possibile fare a meno dell’individuo non solo come corpo sottoposto alle leggi fisiche, ma

come individuo considerato come persona Il medico, poi, come lo storico, ricorre quasi sempre alla forma narrativa) e non a catene di deduzioni. La costruzione di un concetto analogico di scienza, con il conseguente riconoscimento che il problema della spiegazione (il livello della theory construction) è subordinato al problema della costruzione dell’universo d’oggetti proprio della teoria, consente di poter accettare che “in linea di diritto” anche le scienze umane possano entrare a far parte del novero delle scienze (essere cioè costruite sul paradigma della razionalità scientifica). Questo passo è possibile se dopo aver riconosciuto nella prospettiva del rigore e dell’oggettività la caratteristica costitutiva del concetto di scienza si riesce a far vedere che tale concetto non è né univoco né equivoco, ma si predica in modo analogo sia alle scienze empiriche che alle scienze umane, quando queste siano costruite nel rispetto dello schema epistemologico suddetto. E la bioetica? Secondo l’autore non è una scienza cognitiva, ma un sapere di conferimento di senso (Sinngebung) che è necessario attribuire a quel che si conosce; mentre la scienza sta nell’ambito gnoseologico e non in quello valutativo. Il problema del finis vitae non può esulare da quello della fase terminale della malattia, condizionando questa fase anche le scelte a priori del testamento biologico e la possibile scelta della morte assistita. Come sottolinea Francesco Buda in Paràdeigma tra comunicazione, bisogni, desideri e assistenza del paziente nella fase terminale di malattia il rapporto tra fine vita e morte è il paradigma di una condizione di assoluta rilevanza socio-sanitaria sia i pazienti coinvolti, sia per la quantità e la complessità dei problemi che essi e le loro famiglie devono affrontare, sia ancora per le evoluzioni scientifico-tecnologiche che hanno mutato le “tradizionali” condizioni di vita e di morte, rendendo il carattere dell’una e dell’altra. In tale contesto c’è il concreto pericolo della scomparsa della persona dietro il concetto di terminalità mentre in essa continua ad essere presente, integralmente, il valore proprio della persona umana, valore che alcuni vorrebbero modificare proprio per il fatto che il paziente “è terminale”, mentre bisogna riconsegnare il morire e la dignità del morire al morente. Bisogna quindi ascoltare i bisogni del malato terminale, dare sollievo alla sofferenza non togliendo la speranza ma senza illudere, informare il paziente e i famigliari sulle cure palliative, allievare il dolore, ma soprattutto accompagnarlo nel viaggio che lo avvicina alla morte. Il problema del benessere del paziente e della sua interrelazione con l’ambiente di cura viene affrontato da Mauro Baracetti in Tecnologie, forme, colori nei luoghi di cura. Verso un

nuovo umanesimo secondo l’ottica di un architetto chiamato a riflettere e progettare gli spazi di ospedeli, cliniche e centri di riabilitazione alla luce soprattutto delle esigenze dell’uomo “paziente”, ovvero di porlo al centro del tutto per salvaguardare la sua dignità di essere umano. Si tratta quindi di ripensare il luo-

Recensioni go di cura come luogo di conforto e di contatto umano, dove i principi del green thinking e della sostenibilità diventano un linguaggio architettonico formale, integrato con accorgimenti di tipo funzionale e gestionale che riguardino l’analisi dell’utenza, la definizione delle unità necessarie e la valutazione delle condizioni ambientali, di lavoro del personale e di degenza del paziente. Ma soprattutto si tratta di costruire uno spazio sfruttando non solo i suggerimenti della tecnologia più avanzata in rapporto con l’ecosostenibilità, ma anche i principi formali e cromatici, dato che se la struttura architettonica e l’arredo delle stanze sono fondamentali per riportare il quotidiano nel luogo di cura, ancor più importante è il colore che ha un potere terapeutico aggiuntivo, potendo favorire e accelerare il recupero della salute, combattere la depressione e lo sconforto, poichè aiuta a spostare l’attenzione dalla malattia e dal disagio interiore. Il tema del finis vitae non può non esulare dall’affrontare anche quello del suicidio ed è quanto fa Claudio Lucas in Del suicidio. Si tratta di una disamina della natura di un gesto che da sempre ha colpito l’uomo e a cui le diverse culture hanno dato e continuano a dare diverse spiegazioni e valenze, ora proclamando l’inviolabilità della vita e quindi garantendo giuridicamente l’intangibilità della vita con il divieto di uccidere/uccidersi, ora sostenendo il diritto di disporre liberamente del proprio corpo in base al principio di autodeterminazione. Comunque lo si valuti resta il fatto – come argomenta l’autore – che il suicidio è l’espressione estrema di un disagio esistenziale e di una profonda angoscia psicologica che non trovano spazi di comunicazione e che finiscono con il distruggere l’autostima del soggetto. Da qui la necessità di non sottovalutare i segnali che ci vengono inviati, soprattutto dagli adolescenti. Occorre ricordarsi che raramente il suicidio è un impulso dovuto ad una decisione immediata e che durante i giorni e le ore precedenti al gesto generalmente appaiono indizi e segnali di allarme. Ma soprattutto occorre riaprire gli spazi della comunicazione, guardare all’altro con gli occhi del cuore. Il problema delle complesse interazioni e delle mutue implicazioni tra la sfera della po-

157


litica e quella della vita, tra polis e bios viene approfondito in Il diritto di morire con dignità. Le dichiarazioni anticipate di trattamento nel dibattito bioetico alla luce del più ampio dibattito bioeticista sui diritti umani in campo medico. Seguendo un ideale fil rouge che collega il discusso significato del biotestamento alla libertà

Recensioni di scelta della cura e si conclude con l’affermazione del valore dell’autonomia del paziente il quale stringe un patto di alleanza terapeutica con il medico in base al quale il diritto individuale a disporre della propria vita non confligge con l’obbligo istituzionale a favorire tutte le cure necessarie alla persona malata, Luisella Battaglia mette in guardia non solo dalle pericolose conseguenze dello scontro ideologico in atto in Italia tra sostenitori di opposte visioni, ma altresì dal sostituirsi alla bioetica di una biopolitica autoritaria, quella cioè con cui lo stato vìola la privacy dell’individuo, entrando nelle decisioni più intime e dolorose relative al nascere e al morire. Conclude Sergio Cianella, Luogotenente Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro della Gran Loggia d’Italia. La sinergia di sensibilità e intelligenze ha dato vita ad un evento che, travalicando i confini scientifici del Convegno, si è tradotto in vera e propria esperienza, arricchita dai forti stimoli di riflessione che sono riusciti ad offrire i relatori. La Gran Loggia d’Italia che ha avuto l’onore di patrocinare l’evento nella certezza dei suoi risultati positivi e la Consulta, dopo cinque anni di intenso lavoro, ha raggiunto un grado di competenza e prestigio che la rende pronta a partecipare al dibattito nazionale su temi di particolare impegno scientifico e morale e a fornire alla collettività orientamenti utili e condivisibili, perché maturati all’insegna della più assoluta indipendenza e libertà di coscienza. Nel suo insieme il convegno ha fornito tre livelli di lettura della complessa tematica in discussione, legati tra di loro in una progressione che parte dalla disamina dei problemi concreti della malattia e del dolore che accompagnano la fase del declino fisico, per approdare alle complesse questioni etiche e giuridiche che si agitano intorno alla condizione del malato terminale, ed infine agli interrogativi di natura metafisica ai quali conduce naturalmente l’approfondimento di questi temi. Al centro della riflessione del primo livello di interventi, i bisogni materiali e morali di chi è prossimo alla fine. Sul piano legislativo viene denunciata la mancata attuazione della legge sul dolore Di fronte al dramma personale di chi vede ormai prossima la fine dell’esistenza in vita, nessuno può farsi maestro e pretendere

158

d’imporre una morale, occorre invece un grande sforzo di immedesimazione per capire ciò che desidera realmente il malato in relazione al suo vissuto, alla sua personalità, alla sua esperienza etica e religiosa. E’ giusto difendere a tutti i costi la vita? O è più giusto assecondare la scelta di morire? E se la scelta dipende da altri a quali principi morali e giuridici occorre rifarsi? Si va verso la ricerca di valori condivisi in rapporto alla realtà dell’esistenza umana, che possano mettere d’accordo scienza, morale, religione, nell’interesse primario dell’individuo e solo in maniera indiretta della collettività Questa ricerca non mira alla elaborazione di un sistema morale, si propone soltanto di individuare i sistemi più adatti ad interpretare i bisogni umani, nel rispetto della libertà e di proporre azioni benefiche in nome di una filantropia che non ammette imposizioni, ma si esprime attraverso la cura amorevole del prossimo, con intelligenza e discrezione, senza invadere quella sfera intima e privata che rappresenta il sancta sanctorum di ogni essere umano. La scienza procede in maniera decisa, senza porre limiti alla ricerca, sta invece al diritto interpretare i bisogni del malato sofferente, secondo i paramenti di una sensibilità generale, non esclusiva di una ideologia o di una religione, e garantire una tutela adeguata alle sue effettive necessità. Una Bioetica interpretata in chiave massonica proporrà come morale anzitutto il rispetto della stessa morale di ciascuno, in applicazione del principio-cardine della Massoneria, che è la tolleranza. A fronte della generale tendenza a rimuovere l’idea della morte come male assoluto, tipica della cultura occidentale che negli ultimi secoli ha formato una società tecnologica ed edonista, sopravvive una linea di pensiero opposta, che fa capo ad una minoranza di cultori di dottrine esoteriche, che in questa area geografica trova la sua massima espressione nella Massoneria. La rimozione della morte equivale perciò in un certo senso alla rimozione della stessa vita. In questa ottica si può azzardare l’ipotesi che si nasce per morire e si muore per nascere! Questa visione rende la morte non solo accettabile, ma anche sacrale, degna cioè di un rispetto che la sua rimozione ha portato nei fatti a negare. Dott. Renato ARIANO - Primario di Medicina Interna e Direttore del Dipartimento di Gestione Clinica dell’Ospedale di Bordighera (ASL 1 Imperiese). Avv. Giuliano BOARETTO - Delegato Magistrale della Regione Lombardia della G.L.D.I. Avvocato civilista, studioso di esoterismo. Prof. Vittorio GALLO - Docente di Medicina Interna e Chirurgia - Dipartimento di Medicina e Oncologia Sperimentale - Università degli Studi di Torino.

Prof. Andrea DI MASSA - Docente S.M.I.P.I.,Unità Operativa Anestesiologia in Odontostomatologia AOUS Senese; insegnamento di Anestesiologia e Rianimazione OPD Università dell’Università di Siena. Dott. Mario ABRATE - Medico chirurgo presso il reparto di Anatomia Patologica dell’Ospedale di Savigliano. Prof. Roberto NAVONE - Medico Chirurgo Specialista in Anatomia Patologica Professore Ordinario presso l’Università di Medicina e Chirurgia di Torino. Prof.ssa Ida LI VIGNI - Dottorato in Filosofia presso l’Università di Genova. Membro del Consiglio Direttivo dell’Istituto Italiano di Bioetica, segretaria della AISPES Dott. Roberto LA ROCCA - Medico Chirurgo, specialista in Chirurgia Generale e in malattie del tubo digerente, del sangue e del ricambio Da anni cultore di Medicina legale, in particolare in tema di responsabilità professionale medica. Prof.ssa Luisa CUSINA - Docente di Economia delle Aziende Pubbliche presso la Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Trieste. Prof. Ivan IURLO - Docente di Diritto Penale e Direttore del Dipartimento di Bioetica e Diritti Umani dell’Università degli Studi di LSW Varsavia. Prof. Paolo Aldo ROSSI - Ordinario di Storia del Pensiero Scientifico e Storia del Pensiero Medico e Biologico presso l’Università di Genova. Presidente della Associazione Scientifica Internazionale per la Ricerca, lo Studio e le Sviluppo delle Medicine Antropologiche, Accademico di storia dell’arte sanitaria, presidente della AISPES Arch. Mauro BARACETTI - Progettista e gestore di contratti pubblici per la realizzazione di ospedali. Prof. Francesco BUDA - Specialista in Oncologia Medica. Assistente di chimica fisica e teorica presso l’Istituto di Chimica della “Leiden University Medical Center” in Olanda. Dott. Claudio LUCAS - Già dirigente medico ospedaliero di Medicina Interna, specialista in scienza dell’alimentazione. Prof.ssa Luisella BATTAGLIA - Ordinaria di Filosofia Morale al l’Università Genova e membro del Comitato Nazionale per la Bìoetica e dell’Istituto Italiano di Bioetica. Prof. Sergio CIANNELLA - Luogotenente Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro della Gran Loggia d’Italia, docente di diritto della previdenza sociale presso la Scuola di Specializzazione delle professioni legali presso la Facoltà di Giurisprudenza dell´Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.


R.L. Ulisse Oriente di Bergamo

I

l gioiello ha forma circolare. Lungo la circonferenza del recto reca la scritta “GRAN LOGGIA D’ITALIA DEGLI A.L.A.M. - OR. DI BERGAMO - R.L. ULISSE”. Al centro, in rilievo, è raffigurata la testa di un uomo barbuto – Odisseo, appunto – come tramandata da una vasta tradizione iconografica. Sul verso il gioiello raffigura due colonne, una Ionica ed una Dorica, divise da stilizzate onde di mare agitato e solcate da una vela nell’atto di attraversarle. Su questa, di forma trapezoidale, è raffigurato il simbolo della Squadra e del Compasso in grado di Apprendista.

R.L. Fenice Oriente di Massa Marittima

dere e interiorizzare il mito della Fenice nel suo andamento ciclico di morte e rinascita, perenne e mai casuale.

R.L. Herodom Oriente di Torino

L

a simbologia del Gioiello della R.L. Herodom, Or. di Torino, è incentrata sulla figura della montagna che rappresenta un riferimento a quella che la tradizione colloca nei pressi di Kilwinning (in Scozia), dove un gruppo di Templari, fuggiti dalla Francia, avrebbe fondato una Loggia insieme ad alcuni nobili scozzesi tra i quali un Sintclair che ne sarebbe stato nominato primo M.V. La montagna è chiamata sia Herodom che Hereddom. Esiste nella Gran Loggia di Scozia un “Ordine di Herodom of Kilwinning”. Ovviamente la simbologia del Gioiello di Loggia in questione richiama anche quella della “Montagna Sacra”, concetto rafforzato dalle tre stelle che ne contornano la vetta, con palese riferimento alla Volta Stellata ed all’unione di Terra e Cielo.

R.L. Fratelli d’Italia Oriente di Piombino

I

l sigillo di forma circolare riporta agli estremi la scritta GLDI degli Antichi Liberi Accettati Muratori e la scritta R.L. Fenice Oriente di Massa Marittima. Nel centro, dall’incrociarsi della Squadra con il Compasso, si propone una Fenice Fiammeggiante che risorge dalle proprie ceneri. Per quanto riguarda il simbolo della Fenice, due sono le tematiche fondamentali da prendere in considerazione: il decondizionamento, che corrisponde alla distruzione per mezzo del fuoco e la rinascita, ossia la presa di coscienza della nostra realtà. Il Libero Muratore trova nella Tradizione e nei suoi riposti insegnamenti, nei suoi simboli e nella ritualità con cui ad essi ci si avvicina, la guida sicura per meglio inten-

V

iene consacrato il nome della R.L. Fratelli d’Italia attraverso il suo sigillo, mutuando la bandiera dalla vecchia Repubblica Cispadana con i colori classici del tricolore ma posti in posizione orizzontale, con il rosso che prende la scena per primo, per dare seguito al bianco e in ultimo il verde. Nella bandiera originale l’insieme è racchiuso tra due rami di alloro, al cui centro è dipinto una faretra con quattro frecce, a simboleggiare l’Unione delle quattro popolazioni di Bolo-

gna, Ferrara, Modena e Reggio Emilia. Nasceva così il Tricolore il 7 gennaio 1797 come Vessillo Nazionale, simbolo dell’unità indissolubile della Nazione. Nel sigillo al centro della storica bandiera, spiccano due tralci di acacia, tanto cari all’Istituzione, quali patrimonio arboreo iniziatico, che racchiudono il più classico dei simboli massonici, la squadra e il compasso, posti in grado di Apprendista. All’orizzonte si erge la Piramide, così come raffigurata nel sigillo ufficiale dell’Obbedienza. Nel drappo rosso è inserita la dicitura “Fratelli d’Italia”. Infine, appare sia nel sigillo, che nel labaro, la cifra “...è la celebrazione del centocinquatesimo anniversario della Unità d’Italia, che la sorte ha voluto cadere nell’anno della costituzione della nostra Loggia”. Il fine prefissato è chiaro: uno rispecchiamento assoluto e sincero con i simboli della nostra Patria, alla quale giurammo fedeltà già nel nostro primo Tempio che fu il Gabinetto di riflessione.

R.L. Federico II Oriente di Catania

S

ul recto della medaglia compare al bordo il nome della Loggia e l’Oriente di appartenenza. Al centro vi è la riproduzione del Castello che Federico II ordinò a Riccardo da Lentini nel 1139 e del quale, nonostante la Costruzione durasse solo 16 anni, non vide la fine. Il Castello nella sua storia ha superato sia la colata lavica del 1663 che il terremoto del 1693, e rappresenta insieme all’Elefante uno dei simboli della Città. Federico II lo volle su una altura in contrapposizione con il Duomo, simbolo del Potere ecclesiastico del vescovo Maurizio. Notevole la simbologia esoterica riprodotta nella costruzione, dalla Kabbalah con i numeri 3, 5, 7 e i loro multipli, alla pianta quadrata, alla posizione geo-grafica con i propri lati in asse con i punti cardinali. Le molte maestranze della polietnica Catania lasciarono simboli della loro cultura tra cui un pentalfa, simbolo legato all’Imperatore. La scelta del Castello come sigillo sta ad indicare la tetragona volontà della Loggia che ha come motto Per aspera ad astra. La seconda faccia del fregio riproduce il sigillo della GLdI degli ALAM.

159


R.L. Lux Solis, Oriente di Cosenza

I

l simbolo è caratterizzato da un sole raggiante con al centro un cerchio di color rosso, con ivi iscritti una squadra ed un compasso uniti e sovrapposti in grado di Maestro, il Tetragramma sacro e la scritta circolare: “R. L. Lux Solis-Oriente di Cosenza”. Il Sole si associa ad una numerosa serie di valenze simboliche, fra cui quella dinamica-as-

siale, secondo la corrispondenza Sole-Spirito-Fuoco; quella amorosa e intellettiva, in quanto il Sole è analogo al calore come la verità alla luce; quella purificatrice; quella eroica e mediatrice, poiché il Sole adempie in molte tradizioni alle funzioni di “eroe” e di guida dell’anima umana nell’aldilà. Più in generale, il Sole rimanda al Maschile, al principio attivo, ed è quindi simbolo dell’Origine, del principio, della ragione che rischiara le tenebre ed illumina le intelligenze. Il

Sole, adorato da tutti i popoli, simboleggia la saggezza, l’amore e l’intelletto. Il filo d’oro rappresenta il Ramo d’Oro dell’acacia, albero dal legno duro, dai fiori profumati e dalle spine pericolose, legato a valori religiosi. Nella leggenda di Hiram, questa pianta permette la scoperta della tomba del Signore, detentore della tradizione perduta. Essa corrisponde al ‘Ramo d’oro’ delle tradizioni antiche. Conoscere l’acacia significa possedere le nozioni iniziatiche che consentono di scoprire segreti. Per assimilare questi segreti l’adepto deve far rivivere in sè la saggezza morta.

R.L. Fedeli d’Amore, Oriente di Torino

A

causa di un refuso, sul numero scorso (n.1, Marzo 2013) la Rispettabile Loggia ‘Fedeli d’Amore’ all’Oriente di Torino era stata erroneamente denominata R.L. ‘Aleph’. La Redazione si scusa pertanto con tutte le Sorelle e i Fratelli della Loggia ‘Fedeli d’Amore’ e rettifica l’errore pubblicando que-

R∴L∴ 14 Juillet Or∴di Savona R∴L∴ 4 Giugno 1270 R.G. Or∴di Viterbo R∴L∴ Ab Initio Or∴di Portoferraio R∴L∴ Ad Justitiam Or∴di Lucca R∴L∴ Aetruria Nova Or∴di Versilia R∴L∴ Alef Or∴di Viareggio R∴L∴ Aleph Or∴di Lecce R∴L∴ Alma Mater Or∴di Arezzo R∴L∴ Anita Garibaldi Or∴di Firenze R∴L∴ A.Garibaldi/A.Giulie Or∴di Livorno R∴L∴ Antares Or∴di Firenze R∴L∴ A.Toscano Or∴di Corigliano Calabro R∴L∴ Antropos Or∴di Forlì R∴L∴ Archita Or∴di Taranto R∴L∴ Aristotele II Or∴di Bologna R∴L∴ Astrolabio Or∴di Grosseto R∴L∴ Athanor Or∴di Brescia R∴L∴ Athanor Or∴di Cosenza R∴L∴ Athanor Or∴di Pinerolo R∴L∴ Athanor Or∴di Rovigo R∴L∴ Athena Or∴di Pinerolo R∴L∴ Atlantide Or∴di Pinerolo R∴L∴ Audere Semper Or∴di Firenze R∴L∴ Augusta Or∴di Torino R∴L∴ Aurora Or∴di Genova R∴L∴ Ausonia Or∴di Siena R∴L∴ Ausonia Or∴di Torino R∴L∴ Bereshit Or∴di Sanremo R∴L∴ C. B.Conte di Cavour Or∴di Arezzo R∴L∴ C. Rosen Kreutz Or∴di Siena R∴L∴ Carlo Fajani Or∴di Ancona R∴L∴ Cartesio Or∴di Firenze R∴L∴ Cattaneo Or∴di Firenze R∴L∴ Cavour Or∴di Prato R∴L∴ Cavour Or∴di Vercelli R∴L∴ Chevaliers d’Orient Or∴di Beirut R∴L∴ Cidnea Or∴di Brescia R∴L∴ Clara Vallis Or∴di Como R∴L∴ Concordia Or∴di Asti R∴L∴ Corona Ferrea Or∴di Monza R∴L∴ Cosmo Or∴di Argentario Albinia R∴L∴ Costantino Nigra Or∴di Torino R∴L∴ D.Di Marco Or∴di Piedim.Matese R∴L∴ Dei Trecento Or∴di Treviso R∴L∴ Delta Or∴di Bologna R∴L∴ Eleuteria Or∴di Catania R∴L∴ Eleuteria Or∴di Pietra Ligure R∴L∴ Emanuele De Deo Or∴di Bari R∴L∴ Enrico Fermi Or∴di Milano

R∴L∴ EOS Or∴di Bari R∴L∴ Erasmo Or∴di Torino R∴L∴ Ermete Or∴di Bologna R∴L∴ Etruria Or∴di Siena R∴L∴ Excalibur Or∴di Trieste R∴L∴ Falesia Or∴di Piombino R∴L∴ Fargnoli Or∴di Viterbo R∴L∴ Fedeli d’Amore Or∴di Torino R∴L∴ Fedeli d’Amore Or∴di Vicenza R∴L∴ Federico II Or∴di Catania R∴L∴ Federico II Or∴di Firenze R∴L∴ Federico II Or∴di Jesi R∴L∴ Fenice Or∴di Massa Marittima R∴L∴ Fenice Or∴di Spotorno R∴L∴ F.Rodriguez y Baena Or∴di Milano R∴L∴ Fidelitas Or∴di Firenze R∴L∴ Fra Pantaleo Or∴di Castelvetrano R∴L∴ Fratelli Cairoli Or∴di Pavia R∴L∴ Fratelli d’Italia Or∴di Piombino R∴L∴ Galahad Or∴di Roma R∴L∴ G.Ghinazzi Or∴di Roma R∴L∴ G.Mazzini Or∴di Livorno R∴L∴ G.Mazzini Or∴di Parma R∴L∴ G.Biancheri Or∴di Ventimiglia R∴L∴ G.Bruno - S.La Torre Or∴di Roma R∴L∴ G.Papini Or∴di Roma R∴L∴ Garibaldi Or∴di Castiglione R∴L∴ Garibaldi Or∴di Cosenza R∴L∴ Garibaldi Or∴di Mazara del Vallo R∴L∴ Garibaldi Or∴di Toronto R∴L∴ Gaspare Spontini Or∴di Jesi R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di Catanzaro R∴L∴ Gianni Cazzani Or∴di Pavia R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di Firenze R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di R.Calabria R∴L∴ Giosue Carducci Or∴di Follonica R∴L∴ Giosue Carducci Or∴di Partanna R∴L∴ Giovanni Bovio Or∴di Bari R∴L∴ Giovanni Pascoli Or∴di Forlì R∴L∴ Giovanni Risi Or∴di Firenze R∴L∴ Giustizia e Libertà Or∴di Roma R∴L∴ Goldoni Or∴di Londra R∴L∴ Graal Or∴di Livorno R∴L∴ Herdonea Or∴di Foggia R∴L∴ Heredom Or∴di Torino R∴L∴ Hiram Or∴di Bologna R∴L∴ Hiram Or∴di Sanremo R∴L∴ Hispaniola Or∴di Santo Domingo R∴L∴ Horus Or∴di Padova

Errata–Corrige

sta correzione. Tutto regolare – e quindi invariato – per quanto invece riguarda il testo descrittivo del Gioiello già pubblicato sul numero in questione. La sequenza dei Fregi è in ordine alfabetico per denominazione di Loggia e successivamente per Oriente.

R∴L∴ Horus Or∴di Pinerolo R∴L∴ Horus Or∴di R.Calabria R∴L∴ Humanitas Or∴di Pistoia R∴L∴ Humanitas Or∴di Treviso R∴L∴ Ibis Or∴di Torino R∴L∴ Il Cenacolo Or∴di Pescara R∴L∴ Il Nuovo Pensiero Or∴di Catanzaro R∴L∴ Internazionale Or∴di Sanremo R∴L∴ Iter Virtutis Or∴di Pisa R∴L∴ Jakin e Boaz Or∴di Milano R∴L∴ Kipling Or∴di Firenze R∴L∴ La Fenice Or∴di Bari R∴L∴ La Fenice Or∴di Chieti R∴L∴ La Fenice Or∴di Forlì R∴L∴ La Fenice Or∴di Livorno R∴L∴ La Fenice Or∴di Pieve a Nievole R∴L∴ La Fenice Or∴di Rovato R∴L∴ La Prealpina Or∴di Biella R∴L∴ La Silenceuse Or∴di Cuneo R∴L∴ Le Melagrane Or∴di Padova R∴L∴ Leonardo da Vinci Or∴di Taranto R∴L∴ Les 9 Soeurs Or∴di Pinerolo R∴L∴ Libertà e Progresso Or∴di Livorno R∴L∴ Liguria Or∴di Orspedaletti R∴L∴ Logos Or∴di Milano R∴L∴ Luce e Libertà Or∴di Potenza R∴L∴ Luigi Alberotanza Or∴di Bari R∴L∴ Luigi Spadini Or∴di Macerata R∴L∴ Lux Or∴di Firenze R∴L∴ Lux Solis Or∴di Cosenza R∴L∴ M’’aat Or∴di Barletta R∴L∴ Magistri Comacini Or∴di Como R∴L∴ Manfredi Or∴di Taranto R∴L∴ Melagrana Or∴di Cosenza R∴L∴ Melagrana Or∴di Torino R∴L∴ Minerva Or∴di Cosenza R∴L∴ Minerva Or∴di Torino R∴L∴ Monviso Or∴di Torino R∴L∴ Mozart Or∴di Castelvetrano R∴L∴ Mozart Or∴di Genova R∴L∴ Mozart Or∴di Roma R∴L∴ Mozart Or∴di Torino R∴L∴ Navenna Or∴di Ravenna R∴L∴ Nazario Sauro Or∴di Piombino R∴L∴ Nigredo Or∴di Torino R∴L∴ Nino Bixio Or∴di Trieste R∴L∴ Oltre il Cielo Or∴di Lecco R∴L∴ Omnium Matrix Or∴di Milano R∴L∴ Orione Or∴di Torino

R∴L∴ Palermo Or∴di Palermo R∴L∴ Per Aspera ad Astra Or∴di Lucca R∴L∴ Petrarca Or∴di Abano Terme R∴L∴ Pietro Micca Or∴di Torino R∴L∴ Pisacane Or∴di Udine R∴L∴ Pitagora Or∴di Cosenza R∴L∴ Pitagora Or∴di Guidonia R∴L∴ Polaris Or∴di Livorno R∴L∴ Polaris Or∴di Reggio Calabria R∴L∴ Principe A.DeCurtis Or∴di Rovato R∴L∴ Principi RosaCroce Or∴di Milano R∴L∴ Prometeo Or∴di Lecce R∴L∴ Re Salomone /F.Nuove Or∴di Milano R∴L∴ Risorgimento Or∴di Milano R∴L∴ Ros Tau Or∴di Verona R∴L∴ S.Giovanni Or∴di Bass.d.Grappa R∴L∴ Sagittario Or∴di Prato R∴L∴ Salomone Or∴di Catanzaro R∴L∴ Salomone III Or∴di Siena R∴L∴ San Giorgio Or∴di Genova R∴L∴ San Giorgio Or∴di Milano R∴L∴ Saverio Friscia Or∴di Sciacca R∴L∴ Scaligera Or∴di Verona R∴L∴ Sibelius Or∴di Vercelli R∴L∴ Sile Or∴di Treviso R∴L∴ Silentium et Opus Or∴di Val Bormida R∴L∴ SmiDe Or∴di Stra R∴L∴ Stupor Mundi Or∴di Taranto R∴L∴ Teodorico Or∴di Bologna R∴L∴ Themis Or∴di Verona R∴L∴ Trilussa Or∴di Bordighera R∴L∴ Triplice Alleanza Or∴di Roma R∴L∴ Ugo Bassi Or∴di Bologna R∴L∴ Ulisse Or∴di Bergamo R∴L∴ Ulisse Or∴di Forlì R∴L∴ Umanità e Progresso Or∴di Sanremo R∴L∴ Uroboros Or∴di Milano R∴L∴ Valli di Susa Or∴di Susa R∴L∴ Venetia Or∴di Venezia R∴L∴ Vincenzo Sessa Or∴di Lecce R∴L∴ Virgilio Or∴di Mantova R∴L∴ Virgo Or∴di Roma R∴L∴ Vittoria Or∴di Savona R∴L∴ Voltaire Or∴di Torino R∴L∴ XI Settembre Or∴di Pesaro R∴L∴ XX Settembre Or∴di Torino R∴L∴ Zenith Or∴di Cosenza R∴L∴ Zodiaco Or∴di Pinerolo


La rivista è disponibile nelle seguenti librerie specializzate: Agrigento Libreria Deleo, Via Venticinque aprile 210 Tel. 0922 554848 - Ancona Libreria Il Portico dei Magi, Via Tiziano 33 Tel. 071 82007 porticomagi@libero.it Aosta Libreria Omnibus Libri Scacchi e Tarocchi, Via Trottenchien 2 - Arma di Taggia (Imperia) Atene Edizioni, Via Queirolo 49 - Tel. 0184 460796 books@ateneedizioni.com www.ateneedizioni.com - Bari Libreria Roma, Piazza Aldo Moro 13 - Tel. 080521 1274 libreriaroma@tiscali.it www.libreriaroma.it - Bergamo Libreria La Bottega delle Fate, Via Quarenghi 8 Tel. 035 217565 - Biella Libreria Medusa, Via Sebastiano Ferrero 6 Tel. 015 2524313 medusa1999@libero.it - Bologna Libreria Ibis Esoterica, Via Castiglione 31/a Tel. 051 239818 info@ ibisesoterica.it Libreria Editrice Esoterica Filosof ica, Via Castiglione 31 Tel. 051 239818 - Brescia Libreria La Fenice, Via Solferino 10/a Tel. 030 43020 info@libre-rialafenice.it www.librerialafenice.it Libreria Il Velo di Maya, Via Rodi 73 Tel. 030 220352 velodimaya@libero.it - Cagliari La Nuova Libreria dei F.lli Cocco, Piazza Repubblica (Via Dante 50) Tel. 070 663887 - Castelfidardo (Ancona) Libreria Aleph Via Giacomo Matteotti 12 Tel. 071 7825248 pierinifrancesca@ fastwebnet.it - Catania Libreria Libri e Pensieri, Via Carcaci 14 Tel. 095 311939 infocaruso@yahoo.it www.libriepensieri.it - Libreria Esoterica Pizzimento Via Aloi 20 Tel. 095 537057 www.libreria-esotrica.com - Cosenza Libreria Nova Domus Luce Srl, Corso Italia 78/87 Tel. 0984 36910 - Cuneo Libreria Janus, Piazza Europa 24 libreriajanus@fastwebnet.it - Firenze Libreria Chiari Via Borgo Allegri 16r Tel. 055 245291 Piazza Salvemini 18 Tel. 055 2466302 libreriachiari@libreriachiari.it www. libreriachiari.it - Libreria Il Monte Analogo Via G. Biagi 14 Tel. 055 611318 - Genova Libreria Editrice Esoterica Amenothes Via S. Lorenzo 23/4 Tel. 010 2473242 info@ameno thes.it www.amenothes.it - Libreria Bardini Salita del Fondaco 32r Tel. 010 2468956 www. libreria bardini.com - Jesi Libreria Incontri, Costa Mezza Lancia 1 Tel. 0731207087 - Lecce Liberrima Socrate Srl Corte dei Cicala 1 Tel. 0832 242626 Fax 0832 575038 libreria@liberrima.it www.liberrima.it - Libreria

Gilgamesh Via Oberdan 45 Tel. 099 4538199 maria. , putignano2tin.it - Milano Libreria Internazionale L Isola del Sole Via Antonio Pollaiuolo 5 Tel. 02 66800580 info@libroelibri.com www.libroelibri.com - Libreria Il Papiro Viale Col di Lana 12 Tel. 02 58101645 ilpapirocoldilana@tiscali.it - Libreria Esoterica Primordia Via Piacenza 20 Tel. 02 5463151 primordia@libri@aliceposta.it www.libreriaprimordia.it - Libreria Esoterica Il Mondo Magico Via Galleria Unione 1 (Piazza Missori) Tel. 02 878422 esoterica@animaedizioni.it www.gruppoanima.it - Libreria Arethusa Via Napo Torriani 1 Tel. 02 39436196 Fax 02 39436688 info@arethusasnc. com - Modena Libreria La Scienza dei Magi Viale Storchi 339/341 Tel. 059 822573 info@lascienzadeimagi.it www.lascienza-deimagi.it - Napoli Libreria Neapoli Via S. Gregorio Armeno 4 Tel. 081 5514337 info@librerianeapolis.it www.librerianeapolis.it - Pesaro Libreria Sumo Via Diaz 18 massimott@tin.it - Perugia Libreria Bafometto, Via Alessi 36 Tel. 075 ,573788 - Rimini Libreria Il Giardino dei libri Corso d Augusta 205 Tel. 0541 23774 - Roma Libreria Aseq Via dei Sediari 10 Tel. 06 6868400 info@aseq.it www.aseq.it - Libreria Antiquaria Monte della Farina Via Monte della Farina 35 Tel. 06 68806844 montefarina@mclink.it www. montedellafarina.it - Libreria Onofri Via Chiana 46 Tel. 06 8414695 info@libreriaonofri.com www.libreriaono, fri.com - Libreria Sant Agostino Via S. Agostino 17/a Tel. 06 6875470 libreriasantagostino@fastwebnet. it www.libreriasantagostino.it - Libreria Rotondi Via Merulana 82 Tel. 06 7046834 info@libreriarotondi.it www.libreriarotondi.it - Libreria Esoterica Europa Via Tunisi 2/a Tel. 06 39722159 ordine@libreriaeuropa. it - Libreria Esoterica Aradia Via Mantova 42 Tel. 06 85358638 info@aradiaonline.com - Libreria Eterea Via dei Gracchi 274 Tel 06 321035 - Libreria Harmonia Mundi Via dei SS. Quattro 26 Tel. 06 70476834 libreria@harmonia-mundi.it www.harmonia-mundi.it - Casa Editrice Viella Via delle Alpi 32 Tel. 06 8417758, info@ viella.it www.viella.it - Libreria Esoterica dall Oriente , all Occidente Via Anzio 10/c - Libreria P. Tombolini sas

Via IV Novembre 146 Tel. 066795719 libreria.tombolini@tot.it www.tombolini.net , , - Ladispoli (Roma) Libreria Esoterica dall Oriente all Occidente Via Anzio 10/c Tel. 06 99144660 orienteoccidente@alice.it - Libreria Antigua Tau Via IV Novembre 4 Tel. 06 9997804 info@ antigua-tau.it www.antiguatau.it - Salerno Libreria Ar Largo Dogana Regia (Via Mazza, 12) Tel. 089 221226 libreriaar@tin.it - Sanremo Libreria Antiquaria La Fenice Piazza Muccioli 5 Tel. 0184 572002 info@lafenicelibri antichi.com www.lafeni-celibriantichi.com - Siena Libreria Ticci via delle Terme, 5/7, 0577 280 010, www. libreriaticci.com - Sondrio Libreria Il Faro Via De Simoni 63 Tel. 0542 513930 info@ilfaro.com - Sorrento Libreria Tasso Via San Cesareo 96 Tel. 081 3505947 info@ libreria-tasso.com - Taranto Libreria Filippi Concetta Via Nitti 87c Tel. 099 4530750 libreriaf ilippi@interfree. it - Torino Libreria Arethusa Via Giolitti 18 Tel. 011 8173373 Fax 011 , 8179700 www.info@arethusasnc. com - Libreria L ultimo dei Templari Via S. Massimo 44 Tel. 011 885509 ultimodeitemplari@yahoo.it www.lultimodeitemplari.com - Libreria Editrice Psiche Via Madama Cristina 70 Tel. 011 6507058 - Libreria Fenice Via Porta Palatina, 2 Tel. 011 4362689 Fax 011 4360672 www.fenicetorino.it - info@fenicetorino.it - Trieste Libreria New Age Center Via Aurelio e Fabio Nordio 4 Tel. 040 3721479 info @newagecenter.it www.newagecenter.it Venezia Libreria Il Tempio di Iside Via San Polo 59/A Tel. 041 2434713 - 041 2005761 - Libreria Al Capitello Cannaregio 3762/63 Tel. 041 5222314 info@libreriacapitello.it - Verona Libreria Il Cerchio Della Luna Via Teatro Filarmonico 8 - 37121 Verona Tel. 045 595467 info@cerchio dellaluna.it www.giusymagic.it - Parigi (Francia) Libreria Detrad, Rue Cadet 18.

La rivista Of ficinae è distribuita direttamente su richiesta da: edizionigiuseppelaterza@gmail.com tel / fax: 080.523.7936

, Direzione, Redazione, Amministrazione: via S.Nicola de Cesarini, 3 ˛ 00186 Roma tel. 06.688.058.31 06.689.3249 fax 06.687.9840 www.granloggia.it of–cinae.granloggia.it of–cinae@granloggia.it direttore.of–cinae@granloggia.it redazione.of–cinae@granloggia.it Reg. Tribunale di Roma n° 155 del 24/3/1989; Autorizzazione postale 50% Finito di stampare nel mese di Giugno 2013 presso: Edizioni Giuseppe Laterza di Giuseppe Laterza srl, via Suppa, 14 ˛ Bari Il materiale inviato anche se richiesto non si restituisce. , Il materiale da pubblicare deve essere spedito all indirizzo della Redazione di Officinae. La Redazione informa che il contenuto degli articoli della rivista rispecchia le opinioni dei singoli autori. La Redazione di Officinae resta a disposizione degli aventi diritto per le fonti iconografiche di cui non si abbia la reperibilità.


via San Nicola de’ Cesarini, 3 — 00186 Roma

euro 8 .00


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.