a cura di Mauro Degola
OPINIONI D’AUTORE
CHI SEMINA IGNORANZA RACCOGLIE TEMPESTA
CONVERSAZIONE CON UMBERTO GALIMBERTI Umberto Galimberti è un filosofo e psicanalista italiano; professore di antropologia culturale all’Università Ca’ Foscari di Venezia, poi di filosofia della storia e di filosofia morale; collaboratore del Sole 24ore e, oggi, di Repubblica; autore di molte opere sul pensiero scientifico, tra cui il fondamentale “Dizionario di Psicologia”, e di saggi sulla società contemporanea. Primo Piano lo ha avuto ospite nell’ottobre 2018 al teatro Asioli con la conferenza “Ma è un paese per giovani?”
Recentemente Umberto Galimberti ha contribuito al saggio del prof. Paolo Iacci “Sotto il segno dell’ignoranza” (ed. EGEA). Leggendolo ho compreso che l’ignoranza non è di per sé negativa o positiva, ma uno stato naturale dell’uomo. Anche il più sapiente di noi non potrà conoscere che una piccola parte delle cose. Invece il grave è ignorare la propria ignoranza o addirittura farne uno strumento di consenso e di potere. Ogni tanto Primo Piano e Galimberti si sentono. Oggi gli abbiamo posto alcune domande su questo argomento. A metà dell’800 Victor Hugo sentenziava: «L’unico pericolo sociale è l’ignoranza, più della miseria».
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Nel frattempo è sparito chi alla gente indicava la cultura come via d’uscita dalla emarginazione (tra i tanti ne ricordo due: le scuole promosse dai partiti e don Milani). Galimberti, come siamo messi oggi? «Peggio. La società oggi è molto più complessa di quella di Victor Hugo, oggi ha per confini il mondo, e la gente non è in grado di comprenderla. Arrivano i populisti con quattro slogan e ci convincono che la realtà e la soluzione dei problemi si riducono a quei quattro slogan. Questa “dittatura della ignoranza”, così la chiama Paolo Iacci, è quindi il contrario della “democrazia” come l’abbiamo conosciuta dai Greci in poi». Scuola e scienza dovrebbero essere gli strumenti che aiutano a comprendere e gestire questa complessità, no? «Purtroppo la scuola finisce per essere di servizio all’economia. Le competenze andrebbero sicuramente acquisite all’università, ma fino ai 18 anni si dovrebbe pensare a formare l’uomo, porlo di fronte alle domande fondamentali: cos’è giusto e cosa non lo è, che cosa è vero e che cosa è falso, com’è fatto il mondo e come è fatto l’uomo,
quali sono i suoi limiti e le strade per superarli. E solo dopo porsi il problema pratico di “ciò che serve”. Le polemiche sul latino o sulle lingue diverse dall’inglese ne sono una prova». Capisco. Tu dici che bisogna “imparare” a riconoscere i propri limiti, altrimenti si costruisce un cittadino autistico, non in grado di conoscere il mondo reale. «Gli uomini non abitano “il” mondo, ma la rappresentazione che ne hanno, e questo serve per poterlo comprendere e domare. Ogni epoca “descrive” il mondo secondo una propria rappresentazione (gli antichi coi miti, il medioevo con la religiosità, l’età moderna con la scienza e oggi con la tecnica); ma anche ogni persona conosce il mondo attraverso una personale rappresentazione formatasi con la propria storia individuale (area geografica, risorse, famiglia, esperienze, e via di seguito). “Educare” significa arricchire questa rappresentazione, uscendo dall’autosufficienza, riconoscerne i “limiti” ed avvicinarsi alla realtà oggettiva attraverso il confronto con le altre rappresentazioni, le altre storie». Quindi “comprendere gli altri” non è una fissazione “buonista”, è nel mio interesse di individuo, perché è il solo modo per trovare il mio posto nel mondo reale. «Attenzione: “comprendere” richiede studio, fatica. Per fare un esempio, bisogna cominciare a eliminare quegli aggettivi possessivi che dicono “mia” moglie o “mio” figlio. Si tratta di altre
giugno 2021