Veduta di Bracciano di Jacques Callot (particolare)
Dicembre 2018 - numero 22
di
Gente Bracciano
Dicembre 2018 - Numero 22 Dedicato agli zii Alfredo e Petronilla Editore: Associazione Gente di Bracciano Presidente: Claudio Calcaterra Direttore responsabile: Graziarosa Villani Redazione: Francesco Mancuso, Vittoria Casotti, Biancamaria Alberi, Luigi Di Giampaolo. Collaboratori: Massimo Giribono, Fabercross, Pierluigi Grossi, Mena Maisano. Registrato al Tribunale di Civitavecchia n. 1388/2014 Stampa e impaginazione: FEDE 2011 srl Via dei Vignali, 60 - Anguillara Sabazia su carta riciclata al 100%
La lezione di Piero Calamandrei Quella paura che non ci appartiene
“Una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica”
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a situazione che vive oggi il nostro Paese si può racchiudere in un motto esortativo, “senza nutrire vane speranze né provare inutili paure”. Non mi limito, infatti, ad una semplice massima, ma ad una pericolosa filosofia che ci fa smarrire la strada nel complesso viaggio chiamato vita. Solo mantenendo la mente distaccata, l’animo saldo ed equilibrato, senza cedere alle lusinghe delle illusioni né ai fantasmi delle paure, come quello che sta accadendo oggi in Italia. Ne sono tanto convinto che ho profuso sforzi per combattere questi due sentimenti, da me considerati alla stregua di “impostori”, fino a raggiungere il senso della realtà stemperato da una innata ironia, che non mi abbandona mai nei momenti più difficili. La saggezza popolare nella sua semplicità ne è consapevole. Un proverbio che è da sempre attuale dice appunto: “chi di speranza vive, disperato muore”. La paura è dannosa e, quel che è peggio, non costruttiva, visto che indebolisce e induce a errori di valutazione. Credo sia inutile tormentarsi con ansie logoranti che a volte si rivelano infondate. L’avventura umana è una battaglia continua, e il nostro destino viene determinato dall’atteggiamento con cui affrontiamo i pericoli presenti oggi nel nostro Paese. .
Claudio Calcaterra
La Redazione di Gente di Bracciano
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Buon Natale ed un Felice 2019
la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società. Significativa anche la lettura della Costituzione come una sommatoria del pensiero politico. E a sapere intendere, dietro questi articoli ci si sentono delle voci lontane. Quando io leggo nell’articolo 2, “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, o quando leggo, nell’articolo 11, “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”, la patria italiana in mezzo alle alte patrie, dico: ma questo è Mazzini; o quando io leggo, nell’articolo 8, “tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge”, ma questo è Cavour; quando io leggo, nell’articolo 5, “la Repubblica una e indivisibile riconosce e promuove le autonomie locali”, ma questo è Cattaneo; o quando, nell’articolo 52, io leggo, a proposito delle forze armate, ”l’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica” esercito di popolo, ma questo è Garibaldi; e quando leggo, all’articolo 27, “non è ammessa la pena di morte”, ma questo, o studenti milanesi, è Beccaria. Grandi voci lontane, grandi nomi lontani. Ma ci sono anche umili nomi, voci recenti. Quanto sangue e quanto dolore per arrivare a questa costituzione! Dietro a ogni articolo di questa costituzione, voi dovete vedere giovani come voi, caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta. Da avvocato Calamandrei difese, tra gli altri, Danilo Dolci in un processo che fece scalpore. Dolci aveva indetto lo sciopero alla rovescia, ovvero disoccupati che, per protesta, lavorano gratis. Si cercò di ripristinare una strada abbandonata a Partinico. Calamandrei muore a Firenze il 27 settembre 1956. Alla commemorazione alla Camera dei Deputati Riccardo Lombardi commentò “sabato scorso, quando la bara in cui era racchiuso Piero Calamandrei, attorniata e seguita dai superstiti della Resistenza, della clandestinità, dei campi di concentramento, dei massacri, sostò davanti alla casa che fu di Carlo e di Nello Rosselli, tutti noi comprendemmo … quale luce si era spenta, che cosa quella luce aveva rappresentato e rappresentava per la nostra generazione. Comprendemmo ancora, in questa sosta dinanzi alla casa di Carlo e Nello Rosselli, che Piero Calamandrei era stato testimone impareggiabile del legame che, come un ponte - lega il passato all’avvenire, cioè il Risorgimento alla Resistenza, alla Repubblica, alla Costituzione, con una continuità in cui risiede tutto il senso della nuova democrazia italiana, tutto il senso della lotta politica che si svolge nell’Italia rigenerata dopo il ventennio fascista”. Graziarosa Villani
uesta è una carta morta, no, non è una carta morta, questo è un testamento, un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra costituzione”. È questo il passaggio più famoso del discorso ai giovani di Piero Calamandrei, un padre della costituzione, un avvocato, un antifascista, tra i fondatori del Partito d’Azione. A ricordare questa storica figura della politica italiana l’Associazione Nazionale Parti- Pietro Calamandrei giani d’Italia ma anche le scuole che ne portano orgogliosamente il nome, gli atenei dove ha insegnato, tra i quali Messina e Modena, e quello di Firenze del quale è stato rettore. I suoi 67 anni di vita - nacque a Firenze nel 1889 - solcano il XX secolo. Dagli studi a Pisa, alla prima guerra mondiale che lo videro volontario, fino alla rinuncia all’insegnamento per non aderire al partito fascista, all’impegno nella costituente prima e in Parlamento poi. I suoi compagni di viaggio furono, tra gli altri, Carlo e Nello Rosselli. Tra le riviste che fondò Non mollare e Il ponte. La parola in qualche modo è la sua arma. Così quando in una memorabile lapide ad ignominia si scagliò contro Albert Kesselring il quale reclamava dagli italiani un monumento. Lo avrai camerata Kesselring/il monumento che pretendi da noi italiani/ma con che pietra si costruirà/a deciderlo tocca a noi./Non coi sassi affumicati/dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio/non colla terra dei cimiteri/dove i nostri compagni giovinetti/riposano in serenità/non colla neve inviolata delle montagne/che per due inverni ti sfidarono/non colla primavera di queste valli/che ti videro fuggire./Ma soltanto col silenzio dei torturati/più duro d'ogni macigno/soltanto con la roccia di questo patto/giurato fra uomini liberi/che volontari si adunarono/per dignità e non per odio/decisi a riscattare/la vergogna e il terrore del mondo./Su queste strade se vorrai tornare/ai nostri posti ci ritroverai/morti e vivi collo stesso impegno/popolo serrato intorno al monumento/che si chiama/ora e sempre/Resistenza. Ma è la bella Costituzione da attuare il faro che lo guida. “Però, vedete - dice ancora ai giovani - la costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé… Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla costituzione è l’indifferenza alla politica, l’indifferentismo politico. Ed ancora il lavoro prima di tutto. “… rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana: quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare una scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’articolo primo “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” - corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo
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Il padre
José Pedro Soares Bulcão
Florinda con la sorella Alina e il fratello Josè Maria
Florinda Bolkan: una brasiliana a Bracciano La splendida attrice racconta pagine della sua vita. Dalla mondanità alla semplice vita di campagna tra amici vecchi e nuovi e gli amati cavalli
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na brasiliana sui generis, che ama la poesia, i cavalli, lo stare con se stessa. Eppure il suo volto dall’incarnato olivastro e volitivo è stato un’icona per il cinema dalla fine degli anni Sessanta in poi. Florinda Bolkan esce dagli schemi della brasiliana tutta forme ed incarna invece la donna riflessiva, tutta d’un pezzo, a volte autoritaria. Mai come in questo caso il personaggio si discosta dall’attrice in carne ed ossa. La vera Florinda Bolkan è tutt’altro che una donna altera, ma è piuttosto una donna semplice che ama la convivialità, lo stare insieme bevendo un buon bicchiere di vino rosso, chiacchierare con gli amici. È questa la donna che con molta amabilità la redazione di Gente di Bracciano ha incontrato per un buon pranzo domenicale all’Agriturismo Voltarina, nascosto tra i boschi di Pisciarelli, frazione di Bracciano. È qui che Florinda ha scelto di vivere.
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Bastano pochi scambi di battute per comprendere che nella vita di Florinda è fortissimo il suo legamene con la famiglia d’origine che vive oltreoceano e soprattutto con il padre. “Mio padre José Pedro Soares Bulcão era un poeta, un letterato, un politico. Io lo amavo profondamente e lo ammiravo. Era una figura molto importante che mi ha insegnato l’amore per la poesia. Ricordo che quando ero bambina mi portava al fiume per fare il bagno”. Quest’uomo si rileva una figura chiave nell’infanzia di Florinda, un imprinting che non la lascerà mai. “Sono nata a Uruburetama, nello stato del Ceará, capitale Fortaleza. Questa era la terra di mio padre, ed è qui che lui ha voluto che nascessero i suoi tre figli, io mia sorella Alina e mio fratello Josè Maria. Fu lui - racconta ancora l’attrice - a regalarmi il primo cavallo. Me lo portò come regalo di compleanno”. E da allora l’amo-
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re per i cavalli non l’ha mai lasciata. “Tutto qui alla Voltarina iniziò con i cavalli. Ero venuta da alcuni amici a Bracciano a vedere dei cavalli. Poi decisi di avviare io una mia scuderia. I cavalli sono stati la prima cosa che è nata qui. Ho realizzato la casa ed ora, con l’aiuto di una amica carissima, la principessa Anna Chigi, abbiamo questa attività…Io amo i cavalli…mi piace fare le passeggiate a cavallo qui nei dintorni”. Tutte le passioni di Florinda partono dall’infanzia, tutte sono legate alla figura del padre. “Più che il lago - confessa Florinda - amo il rio, il fiume, dove facevo nuda il bagno da bambina ad 8 anni. Non scorderò mai poi - racconta ancora - il mio primo cavallo”. E così che la scomparsa del padre la vita di Florinda bambina cambia di netto. “Quando morì - dice - tutta la provincia lo pianse…ma poi a poco a poco lo dimenticarono…con mia madre e i miei fratelli ci
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trasferimmo a Rio”. Ed è nella grande città brasiliana che Florinda, dopo aver ultimato gli studi al liceo scientifico e acquistato la padronanza di ben tre lingue, entra nella compagnia aerea Varig Airlines come excutive hostess. “La tratta che facevo più frequentemente era Rio-New York. Lì uscivo con i miei amici. New York è una città unica al mondo”. Ma la vita da executive hostess termina con uno degli incontri più importanti della vita di Florinda Bolkan, quello con il grande regista Luchino Visconti che nota subito la splendida Florinda e le offre un ruolo nel film che stava girando in quel momento La Caduta degli Dei. È il 1969. Florinda interpreta il ruolo di Olga. Tra Luchino e Florinda nasce un rapporto intenso, fino a ricalcare quello tra lei e il padre. “Luchino era una persona eccezionale. Solo con lui mi ritrovavo bene. Spesso prendevo la macchina e andavo a casa sua. Entravo mi mettevo da una parte mentre Luchino continuava a lavorare. “Florinda che c’è?” mi chiedeva. “Vuoi un caffè, un thè?”. A me bastava stare lì con lui, saperlo vicino”. In Luchino evidentemente Florinda ritrova la figura del padre scomparso troppo presto. Il grande regista le dà serenità e sicurezza. Ma intanto sono tanti altri i grandi registi a notarla. Sono ben 36 le pellicole alle quali Florinda
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Bolkan ha recitato. Tra queste spiccano come un faro Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e Anonimo Veneziano. Il primo film (1971), per la regia di Elio Petri e la colonna sonora di Ennio Morricone, nel quale Florinda
Florinda con Luchino Visconti
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Bolkan recita affianco a Gian Maria Volonté, ottiene il premio Oscar come migliore film straniero. Il secondo film (1970) diretto da Enrico Maria Salerno, un duetto con Tony Musante nella decadente città lagunare sulla celeberrima colonna sonora scritta da Stelvio Cipriani, le vale il David di Donatello come miglior attrice protagonista. Con quale spirito ha preso questi riconoscimenti? “Accidenti” esclama con ironia Florinda “lo stanno dando proprio a me, mi sono chiesta”. Una risposta che ancora una volta fa emergere la semplicità di una donna che oggi vede il cinema e tutto il suo mondo come un vissuto, una esperienza chiusa e conclusa. “Non sono mai stata una salottiera. Per me gli attori ed i registi che hanno lavorato con me, a parte lo speciale rapporto con Luchino Visconti, sono stati dei colleghi di lavoro. Fuori dal set, avevo il mio mondo, i miei fidanzati, i miei amici”. Si capisce allora che quello che conta
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oggi e che ha sempre contato per Florinda è la vita quotidiana, quella di tutti i giorni, quella semplice. “Sono una donna libera… - dice - …e lo sono sempre stata. Le persone stanno insieme spesso perché hanno molte cose da condividere. Ma l’importante è che ognuno si senta libero”. E per Florinda oggi la sua libertà è vivere a Bracciano dove ha trovato una sua dimensione. “Bracciano mi piace, la gente è sempre cortese. Non mi è mai capitato che qualcuno si rivolgesse a me in modo sgarbato. A Bracciano c’è tutto, c’è la chiesa, c’è il lago, ci sono i cavalli. A Roma sì, ci vado ancora. Vado a fare qualche commissione, ma poi mi sbrigo per tornare qui nella tranquillità di questi bellissimi luoghi”. I suoi viaggi la vedono comunque ogni tanto andare in Camargue, nel sud della Francia. “Questo ragazzo – ci dice presentandoci Leo uno splendido giovane biondo e dagli occhi azzurri che lascia per un attimo il ruolo di cameriere – io e Anna lo abbiamo scoperto lì in Camargue. Ci ha chiesto di venire ad aiutarci per imparare l’Italiano e la cucina Romana e noi abbiamo accettato. Fino a gennaio sarà con noi. Lo ammiro molto”. L’altra meta dei viaggi di Florinda è il Brasile. A muoverla non è solo la tipica saudade brasiliana ma il grande rapporto che ancora la lega con i familiari. La sorella Alina in special modo. “Con mia sorella - dice - abbiamo un rapporto bellissimo. Lei mi capisce e non mi fa domande, non mi giudica”. Mentre noi mangiamo in abbondanza e Florinda invece spizzica solo qualche piccolo boccone, al tavolo è un via vai di persone che vengono a salutare la grande diva,
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che diva non è. C’è una sposa novella che lascia per un attimo i propri invitati al banchetto di nozze per conoscerla da vicino e ringraziarla per la impeccabile organizzazione. C’è una coppia di promessi sposi che viene ad incontrarla in vista di un imminente ricevimento nuziale. Per ognuno Florinda ha un sorriso e una stretta di mano. La sua affabilità è quasi disarmante. Claudio con la sua spiccata ammirazione per le belle donne le siede accanto e confessa. “Sai Florinda non mi aspettavo certo da te questa grande sempli-
cità”. Florinda ride e tutti insieme mandiamo giù un altro sorso di vino rosso, vino da tavola, che etichettato con il marchio Voltarina Florinda acquista presso un produttore della zona. Sempre più frequentemente gli sguardi si incrociano anche con Mena. Parlando scoprono di avere tra loro la stessa grande necessità di ritagliarsi i propri spazi, di avere il piacere di ritrovarsi con la compagnia di se stesse. Mena si lascia andare ai racconti delle grandi traversate oceaniche dove ci sono solo cielo e mare, una sensazione di grande libertà. Florinda ascolta e commenta:“sono cose che non ho mai provato, ma posso capire quale sensazione di grande pienezza possa arrivare da questa esperienza”. Tra un bicchiere e l’altro l’incontro va avanti. Florinda, che siede a capotavola su una panca “a due piazze” ricavata dal muso di una berlina d’epoca color avorio, appare ora più rilassata. Ride, si lascia andare. Accarezza ma poi lascia andare il cagnolino in agitazione che Anna le ha lasciato poco prima per accudirlo. “La libertà prima di tutto. Sono una donna solitaria - racconta ancora - mi piace trattenermi solo con me stessa”. Parla con un velato accento brasiliano come se pronunciasse versi, quegli stessi versi che il padre le ha insegnato e che lei mostra di portare sempre nel cuore. E così Florinda recita a memoria una splendida poesia del padre. Lo fa mentre si porta la mano al cuore, mentre gli occhi le si illuminano cercando nella memoria evidentemente lo sguardo del padre. Sono versi splendidi da gran poeta. Florinda la “non diva” cede il passo
Graziarosa Villani con la collaborazione di Mena Maisano
Florinda con Kirk Douglas
I cavalli la sua passione
Florinda con Toni Musante
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alla Florinda poetessa. Quelle rime sono la sua emozione, le sue radici che nemmeno una vita mondana come la sua le ha potuto estirpare. A raccontare questa altra parte della sua vita sono le pareti della casa tappezzati di quadri a lei dedicati (anche Andy Warhol le dedicò un ritratto), ma soprattutto, come una grande mostra retrospettiva, riportano una vasta galleria di fotografie in bianco e nero da rotocalco che la vedono posare per lo scatto assieme a giganti del ventesimo secolo. Richard Burton, Ringo Starr, Omar Sharif, Michael Caine. C’è tutto il jet set di un tempo. Ma per Florinda tutto questo non è mai stato importante. Come nella struggente scena finale di Anonimo Veneziano, si congeda. La vediamo allontanarsi…Florinda va. È l’ora di ritirarsi con se stessa nei suoi spazi, con le sue abitudini di sempre e le sue “mémoires”.
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“Il popolo dice: abbiamo fame e ci bastonate i figli”
Bracciano: quei caduti dimenticati
Dalle lettere dell’episcopato veneto la figura di monsignor Ferdinando Rodolfi contro lo squadrismo fascista
Appassionata ricerca storica di Massimo Perugini
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di diritto…In tutto il mondo non si hiesa e fascismo. Se al fascidice niente dei milioni di italiani smo della prima ora si attriche disapprovano, protestano e frebuisce un carattere anticlerimono; ma si parla di quattro scamicale, la chiesa prima del Concordato ciati che fanno i briganti. Sono queassunse ruoli ed atteggiamenti a sti che disonorano l’Italia …E del volte ostili, a volte benevoli nei condiritto che rispetto avete voi? Non fronti del regime in ascesa. dico del vostro, perché il vostro Su tali aspetti numerosi spunti di deve essere sopravalutato e deve riflessione arrivano dal volumetto di esistere anche quando non c’è. Alba Lazzaretto intitolato “Le letteA voi i posti, a voi le paghe, a re dell’Episcopato veneto e Trivoi i guadagni, a voi l’Italia. Su veneto a Mussolini”. tutto questo d’accordo! A voi, dunSi ripercorrono, attraverso la que, tutto; agli altri la fame, le chiave di lettura delle lettere, decentasse, il bastone…Il popolo giudica ni di rapporti tra la chiesa veneta e la anche se non può parlare. Il popolo Roma mussoliniana. è stanco delle vostre sopraffazioni Uno scenario in cui irrompono Cartolina celebrativa del Concordato tra lo Stato Italiano e il Vaticano e le detesta. Il popolo dice: abbianel primo Dopoguerra le azioni mo fame e ci bastonate i figli. Se non li difendono gli altri, li difensquadristiche di formazioni fasciste decise a colpire la “forza” del deremo noi”. La reazione di Mussolini fu netta è decisa. Al riguarclero in loco che si manifestava in un massiccio consenso elettorado nella sua pubblicazione Alba Lazzaretti riporta alcuni passi della le al partito popolare di Luigi Sturzo. In questa atmosfera rovente, reazione mussoliniana. l’episcopato veneto mostra preoccupazione in “La deploro nettamente - ebbe a scrivere una lettera collettiva inviata a Mussolini, ma Mussolini - nel contenuto e nella forma e la assume col passare degli anni toni più pacati. respingo non meno nettamente nelle sue Fuori dal coro si rileva solo monsignor velate, ma non troppo generalizzazioni, con Ferdinando Rodolfi che nel 1924 arrivò addiritle quali Vostra Eminenza tenta invano di tura a scomunicare dei fascisti che si erano resi umiliare il fascismo. protagonisti di un’azione squadristica a I pastori d’anime non eccitano le passioSandrigo. “Già nel giugno 1923 il luogotenenni politiche, specie in un momento come l’atte generale comandante la IV zona della milizia tuale”. Se si eccettua la figura di Roldolfi e volontaria nazionale, generale A. Graziani di qualche altro prelato, una volta ricostituiti scrive Gabriele de Rosa in Tempo religioso e i circoli dell’azione cattolica quali si assegna tempo storico - aveva raccomandato al ministro la denominazione di Associazioni giovanili guardasigilli Alfredo Rocco che monsignor di Azione Cattolica. Le lettere che l’episcoRodolfi “venisse allontanato da Vicenza o pato veneto scrive a Mussolini hanno tutte comunque messo in condizione di non nuocere”. toni moralizzatori. Spicca tra queste l’invenL’anno successivo Rodolfi assunse attegtiva contro il ballo. Al riguardo i vescovi giamenti ancora più intransigenti contro il scrivevano nel 1930 “il ballo è scuola di corfascismo. “Il momento della rottura aperta ruzione”, adesca ragazze semplici ed incauscrive ancora De Rosa nel volume citato te…condotte in automobile, anche di notte, avvenne con i fatti di Sandrigo. Nella notte tra da un paese all’altro dove si balla”. Così si il 7 e l’8 aprile 1924, trecento fascisti armati si chiedono interventi, pur nell’inferno del concentrarono a Sandrigo, un paese del Vicen- Ferdinando Ridolfi 1943, contro gli spettacoli di varietà. “In questi spettacoli nulla vi è tino “colpevole” di aver dato troppi voti alla lista del partito di di educativo, di corretto, di sano: non l’arte ridotta a volgare istrioSturzo. Gli squadristi - riporta ancora De Rosa - invasero la canonismo, non il buon gusto sacrificato alla sensualità”. nica con il proposito di colpire l’arciprete, monsignor Giuseppe Quando si tratto di passare ai fatti, l’atteggiamento del clero sul Arena, ritenuto, a ragione, l’animatore del sindacalismo bianco e territorio divenne radicale. Parlando del fedele che la chiesa veneta del popolarismo. L’Arena, avvertito in tempo, si rifugiò nei locali aveva forgiato Alba Lazzaretti commenta “tuttavia questo fedele del seminario. Gli squadristi sfogarono allora la loro rabbia contro ubbidiente non esitò in molti casi a schierarsi dalla parte della la sorella dell’arciprete, che fu schiaffeggiata, e contro il giovane Resistenza dopo la caduta del fascismo, quando molti furono i catsacerdote Federigo Mastrorigo, che fu scambiato per l’Arena”. tolici, i sacerdoti, persino le suore che decisero di partecipare attiNegli anni successivi ancora Rodolfi ebbe a scrivere una lettera vamente alla Resistenza. che per i toni fortemente antifascisti circolò clandestinamente Segno che il modello educativo non aveva del tutto soffocato la anche nella cerchia degli esuli esteri e fu pubblicata sull’Avanti. coscienza critica. I fedeli seppero leggere “al di là” dell’atteggiaRodolfi, nel 1931, in risposta alle violenze fasciste contro le mento ufficiale della Chiesa e dell’episcopato regionale”. organizzazioni cattoliche scrisse una dura lettera al segretario fedea cura di Claudio Calcaterra rale Nello Dolfin. “Bell’amore che si fa all’Italia, un tempo maestra
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utto nasce dalla mia curiosità: a Bracciano le lapidi commemorative del monumento ai caduti e del cimitero non corrispondono con quelle esposte nel Duomo. Come mai? Ho cercato di risolvere il problema nell’archivio comunale, ma allora mi è stato fornito un elenco di soli 31 nominativi. Il tarlo iniziò a lavorare. Presso quel che restava dell’Associazione Combattenti e Reduci, la precisione non regnava, anche se i nominativi risultavano più numerosi, ma di reduci o prigionieri neppure l’ombra.
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Non mi restava che consultare il sito ufficiale di Onorcaduti ove sono riportati i nostri martiri, un lavoro che ha richiesto la visitazione di oltre un migliaio di pagine, che però ha dato i suoi frutti, anche se a tutt’oggi non ho completa certezza. Di “nati a Bracciano” ne ho trovati ben 71 (considerando che allora Castel Giuliano era frazione di Cerveteri). Come mai, visto che sulle lapidi ufficiali vi sono elencati 56 nominativi (di cui un paio “di strafugo” ed un altro aggiunto da poco pur se morto un anno dalla fine di
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una guerra che non ha fatto)? Non sarebbe il caso di onorarli come meritano? Purtroppo il secolo che ci separa ha dilavato persino i ricordi, non tutte le famiglie l’hanno mantenuto, poche hanno qualche ricordo, una fotografia, una lettera scritta magari a matita. In tanti non risiedono più nel nostro paese, si son perse le tracce, come nel caso del tenente della Guardia di Finanza Francesco Arcioni, medaglia d’Argento, a cui la sua Arma ha intitolato la caserma del Comando di Roma, in via Nomentana, ha intitolato pattugliatori navali, scuole, vie e un rifugio nella montagna dove è caduto, Monte Sperone sopra Riva del Garda. Però a Bracciano era del tutto sconosciuto finché Annamaria Ambrogi s'è ricordata di una lettera conservata gelosamente dalla madre, Maria “la bassotta”: l’aveva spedita il cappellano di Francesco pochi giorni dalla sua morte (14.4.1916) descrivendo le sue eroiche gesta e i lunghi e tristi tre giorni della sua agonia. Il primo dei nostri caduti è un soldato di Pisciarelli, Paolo De Santis morto il 28 giugno, appena ventenne, un mese dopo l’entrata in guerra, per malattia e nella sua casa natale. Anche lui fa parte dei volutamente non elencati. Pisciarelli merita un discorso particolare, registra ben 11 caduti di cui 5 De Santis, 3 Di Benedetto, un Lepore, un Mò e un Natalini, una percentuale altissima rispetto al basso numero dei suoi abitanti. La dimostrazione che la classe che ha subito più perdite è stata quella dei contadini! Ordinando i caduti secondo la data di morte, si ha una visione di quello che fu il percorso nei 42 mesi di guerra che ha coinvolto tutto il nostro fronte dall’altopiani, dal Trentino, dall’Isonzo sino al Carso. Sul Col di Lana ben 7 braccianesi vi hanno lasciato la vita, il 2 e il 3 agosto del 1915 sono caduti Loreto Starnoni (anni 24), Nicola D’Angelo (26 anni) e Liberato Nori (25 anni), il 4 novembre Eleo Pallotti (25 anni), il 21/4/1916 Primo Giosuè (21 anni), Angelo Bottoni (27 anni) il 15.5.1916 anche lui sconosciuto alle lapidi, Serafino Giardini (25 anni) caduto il 16.11.1917. Massimo Perugini
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Sophia Rosa Katharina Branicka, principessa Odescalchi La sposa di Livio III che si spese moltissimo per la comunità di Bracciano
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sservando attentamente alcuni edifici di Bracciano, notiamo uno stemma fatto di tre bande orizzontali decrescenti, spesso ignorato, come se fosse una semplice decorazione senza alcun significato di rilievo. Lo troviamo sulla facciata dell’Ospedale Vecchio, sul tamburo della chiesa del cimitero e in alcuni settori del castello. Passa inosservato mentre, invece, dovrebbe destare interesse per ciò che rappresenta. È lo stemma della famiglia Branicka, modellato e apposto per commemorare Sofia Rosa Katharina Branicka, nata il 2 settembre 1821 a Bidocerchiewe (Blatocerkiew), Russia, da Ròza Potocka, appartenente ad una delle famiglie europee più ricche dell’epoca, e Wladyslaw Grzegorz Branicki, figlio di Franciszek Ksawery Branicki e Aleksandra von Engelhardt, quest’ultima nata dal matrimonio tra Wassily von Engelhardt e Elena Marfa Potëmkina, ma si narra fosse figlia di Caterina II di Russia. Sofia è l’unica delle poche figure femminili della storia di Bracciano della quale si conservano delle tracce così consistenti e durature. Sposò Livio III Odescalchi l’11 luglio 1841 permettendo, grazie alla sua consistente dote, il recupero del ducato di Bracciano, allora in mano ai Torlonia in virtù di un Istromento redimendi, e il finanziamento di numerose opere a favore della popolazione. Un matrimonio importante, tanto da paragonarlo con quello tra Paolo Giordano Orsini e Isabella de Medici avvenuto nel 1560: per l’occasione, Paolo Giordano affidò a Taddeo Zuccari l’incarico di affrescare alcune sale del castello. Affiancato dal fratello Federico, l’artista operò tra il 1558 e il 1559 attingendo principalmente al repertorio delle grottesche, oltre a raffigurare scene mitologiche. Nella Sala Aurea del castello, in particolare, troviamo un soffitto movimentato da una serie di vele e lunette ricavate nelle volte: è un insieme di motivi ricorrenti, ripetuti in ordine simmetrico e speculare, ordinati in schemi alternati, su sfondo d’oro, carichi di simbolismo. Intorno alle pareti, proprio al di sotto del soffitto affrescato, corre un cornicione con fregio in stucco dorato ove si alternano due simboli, la rosa degli Orsini e la sfera di colore celeste, con i tre gigli in oro, dei Medici di Firenze. L’opera aveva valenza propagandistica della felice unione. In un set-
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Stemma Odescalchi-Branicka, Castello di Bracciano
Ritratto di Sofia Rosa Katharina Branicka
tore della stessa sala, il cornicione non contiene i simboli Orsini-Medici, ma OdescalchiBranicka, a memoria del matrimonio di Livio III e Sofia. Questa “equazione” figurativa sembra avere l’intento di paragonare i due matrimoni: con i Medici, Paolo Giordano ottenne il titolo di duca di Bracciano, fornendo ulteriore prestigio alla famiglia Orsini; grazie a Sofia, Livio riprese, per sé e tutta la
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linea di primogenitura, il titolo di duca di Bracciano non appena riuscì a riscattare il ducato. Il prestigio delle famiglie Orsini e Odescalchi venne riconquistato grazie a matrimoni strategici e questi due sono commemorati, insieme, nella Sala Aurea. Sofia entrò in possesso di Bracciano poco a poco con una serie di atti siglati in vari momenti della sua vita. Il matrimonio servì
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sostanzialmente a Livio III per poter accedere alle risorse finanziarie utili al fine di riscattare il ducato di Bracciano e l’annesso contado di Pisciarelli: la redenzione era consentita soltanto alla primogenitura, quindi, solo avendo a disposizione di una cospicua somma di denaro era possibile portare a compimento l’atto per rientrare in possesso delle proprietà. Gli Odescalchi non godevano di una grande ricchezza ed erano gravati da debiti, motivo per cui Livio II e Baldassarre II, rispettivamente bisnonno e nonno di Livio III, dovettero cedere il ducato di Bracciano a Giovanni Torlonia, con jus redimendi, il 15 marzo 1803, in cambio dell’accollazione dei debiti per una cifra di 400.000 scudi. Gli Odescalchi, entro 50 anni, potevano riscattare il tutto e ciò fu possibile solo grazie alle ricchezze di Sofia prestate al marito per dare luogo all’atto del 2 dicembre 1848, per la medesima somma di cessione. L’anno successivo Sofia comperò i terreni liberi acquistati dai Torlonia durante tutto l’arco temporale in cui hanno amministrato Bracciano: sia Giovanni, sia il successore Marino, misero insieme un patrimonio appetibile agli Odescalchi che, evidentemente, non erano soddisfatti dal solo riscatto del ducato, ma ambivano ad investire aumentando le proprietà in Bracciano al fine di ricavare degli utili consistenti. Col tempo derivò, a favore di Sofia, e a
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carico di Livio, un grosso debito. E fu proprio con questa idea che egli le propose la cessione e dazione in solutum del ducato di Bracciano, dell’annesso contado di Pisciarelli, posti nella Comarca di Roma, e il principato di Bassano, e terreni annessi di Capranica, di pertinenza della provincia di Viterbo, quest’ultimo comperato dai Giustiniani il 9 dicembre 1854. L’operazione necessitava, però, di un passaggio obbligatorio prima dell’atto finale: Livio III dovette chiedere la liberazione del vincolo della primogenitura, a cui era soggetto il ducato, avanzando istanza a Pio IX che, con Chirografo del 13 gennaio 1861, prosciolse il ducato di Bracciano, e l’annesso contado di Pisciarelli, da ogni vincolo, rendendolo così di libera proprietà. L’Istromento di dazione in solutum fu stipulato l’1 luglio 1861. A Livio venne comunque affidata l’amministrazione dei terreni. Nel frattempo, Sofia si dedicò a varie opere a vantaggio della popolazione: nel 1856 rilevò, inizialmente insieme al marito, poi da sola, l’amministrazione dell’Ospedale Civile di San Sebastiano, oggi noto con l’appellativo “Ospedale Vecchio”. L’amministratore della casa Odescalchi, Camillo di Leo, si dedicò nel riordino dei conti, Sofia predispose il restauro, migliorò e abbellì la struttura, lo dotò di quanto fosse necessario per il buon rendimento e per la cura dei malati, tutto a sue spese. A tal proposito, la presidenza di Roma e Comarca, in una lettera del 10 aprile 1858, scrisse al priore di Bracciano approvando di apporre una iscrizione in marmo nel pubblico ospedale “onde eternare, in segno di gratitudine, la memoria dei dispendiosi benefici fattivi dalla sig.ra Principessa Odescalchi, in vantaggio dei poveri infermi”. La lapide è ancora nell’ospedale a memoria della sua attività benefica. La principessa provvide ulteriormente alla spesa necessaria per mantenerlo nel modo da essa stabilito, desiderava che l’ospedale mantenesse tutte quelle comodità e decoro ottenuto dalla sua amministrazione, quindi, decise di assegnare una rendita annua valida fin quando l’amministrazione fosse sotto di lei o sotto i suoi successori. Tra il 1869 e il 1874 l’ospedale subì ulteriori grandi restauri e rifacimenti architettonici diretti dall’architetto Luca Carimini. Fu allora che venne apposta sulla facciata la lunetta figurata attualmente in posto: in una
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camera con tre letti sono rappresentate due donne malate accudite da una donna elegante, dietro di lei due suore dell’ordine Figlie della Carità, riconoscibili dal copricapo a larghe tese, che, da come riportano i documenti dell’epoca, in quegli anni erano impegnate nell’assistenza agli infermi. La donna elegante dovrebbe essere proprio Sofia, notoriamente dedita, in prima persona, alla carità e alla beneficenza. Sofia, a sue spese, costruì il Campo Santo e la cappella di architettura neoclassica ancora oggi esistente. Fu notevole il suo interesse per l’istruzione: tra le spese da lei sostenute ci sono le indigenze per istruire le fanciulle nella scuola privata, aperta dalla medesima, nel Monastero del Divino Amore di Bracciano, allora presso la chiesa della Visitazione. La principessa fu la prima direttrice dell’Asilo Infantile Comunale, istituito nel 1874, nominata, come dichiarato dall’amministrazione comunale, poiché “La lodata Sig.ra Principessa è non solo animata dalle migliori disposizioni per assumere tale incarico in pieno accordo con la nostra amministrazione comunale, ma intende ancora che l’istituto conservi il carattere esclusivamente municipale”. La sede originaria era nei locali dell’ex convento degli Agostiniani. Col tempo venne sistemato altrove e, ad oggi, si trova in via Pasqualetti ed è a lei intitolato. Sofia morì il 18 agosto 1886, all’età di 65 anni, a Bassano di Sutri. Dopo tre giorni, nel Campo Santo di Roma, si tennero le solenni esequie e la deposizione della salma in una doppia cassa, una di legno, una di zinco. L’11 novembre 1887, al Campo Verano, si procedette al riposizionamento della sua cassa accanto a quella di Livio, morto due anni prima: inizialmente tenute separate, esse vennero definitivamente tumulate insieme nel nuovo monumento sepolcrale della Casa Odescalchi. Sofia lasciò il ducato di Bracciano al primogenito Baldassare III, il principato di Bassano al secondogenito Ladislao e a Maria della Pace, contessa Keufstein, lasciò i capitali. Quest’ultima sollevò delle contestazioni in merito al valore venale dei beni ereditati, tanto da appellarsi al pontefice, il quale non poté fare altro che confermare l’equità della divisione stabilita dalla loro madre. Elena Felluca
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La Chiesa di San Rocco
Riflessioni di fine anno in attesa di cambiamento
Lungo la strada per Castel Giuliano. Fu consacrata nel 1683
Maddalena e gli Apostoli Petro e Giovanni e contenuto all’interno di una sorta di architettura dipinta a simulare un’abside non esistente. Ai lati sono raffigurati alla sinistra Sant’Antonio e alla destra San Rocco col cane. Nella storia del territorio sono presenti episodi di peste. Alla fine del XV secolo le campagne furono investite da continue scorrerie guerresche, rendendo più frequente la diffusione di epidemie, di qui la predilezione negli affreschi di iconografie di santi come San Rocco e San Sebastiano contra la peste e Sant’Antonio contro il fuoco. Sono presenti inoltre le raffigurazioni di due stemmi, uno indecifrabile, l’altro da attribuirsi alla famiglia Corsini che presenta, in base alla documentazione reperita, legami con la famiglia Patrizi non confermati dai dizionari di araldica. In passato, sul lato dell’pistola, vi era la croce portata dal Prefetto concionatore decorata con pitture mentre sul lato del Vangelo vi era un armadio per custodire le suppellettili e tutto l’occorrente per la celebrazione. Alla fine dell’Ottocento, in La chiesa edificata nel luogo in cui era stata eretta un’alta croce portata da un concionatore occasione della costruzione del cimitero in seguito all’emanazione dell’editto napoleonico di Saint Cloud ituata in una suggestiva campagna lungo la strada che da riguardo l’inumazione dei morti, fu aperta, alla sinistra dell’altare, Bracciano porta a Castel Giuliano, a circa 700 metri dall’abiuna porticina che immette direttamente all’interno del cimitero. tato, si erge, la chiesa della Santissima Croce, detta di San Il tetto a capriata privo di soffitto a cassettoni, è stato riparato Rocco, fatta costruire dal marchese Patrizi nel luogo in cui, quattro negli anni Trenta. La pavimentazione è in pianelle di cotto dispoanni prima, era stata eretta un’alta croce portata da un concionatoste “ad opera spigata” con riquadrature a sottolineare l’impianto ad re cappuccino, aula della chiesa ed interrotte in prossimità dei pilastri di sostegno La chiesa, consacrata nel 1683, è di modeste dimensioni (8 x delle capriate. Esternamente la struttura è molto semplice con una 12,5 metri circa) e presenta un orientamento non canonico con l’alfacciata a capanna sulla quale, nel lato sinistro, è murata una lastra tare rivolto a nord-ovest invece del più tradizionale orientamento di marmo recante in rilievo Sant’Antonio abate e san Rocco e dotaad est che permette a fedeli ed officiante nel pregare di guardare ad ta di buca per le elemosine secondo il costume dell’epoca. Il tetto Oriente. L’edificio è composto da un’aula, priva di abside, scandiè sovrastato da un campanile a vela laterale con lunetta semplice ta da quattro pilastri a sostegno delle capriate ed è accessibile attracontenente un tempo due campane. Gli unici dati interessanti per verso due rampe di scale aggiunte negli anni Trenta del XX secola comprensione della storia sono tratti dalle Visite pastorali conlo, in occasione della sistemazione della strada Castel Giulianoservate nell’Archivio storico Diocesano di Porto Santa Rufina a La Bracciano, in sostituzione della scarpata. Storta. La più antica, del 16 marzo 1685, documenta la visita del L’ingresso della chiesa è costituito da una porta in legno, chiuCardinale Giovanni, avvenuta due anni prima, il quale consacrò la sa con la sbarra, prelevata dal magazzino comunale nel 1930 in chiesa dedicandola alla Santissima Croce e ordinando che venisse sostituzione della precedente ormai fatiscente. dotata di una sacra immagine della stessa, di candelabri, di un altaLa porta è affiancata da due finestre dotate di grate, per consenre a gradini, di paramenti sacri, di tele a soggetto sacro, di una tire ai fedeli di passaggio di venerare la chiesa, ed è sovrastata da acquasantiera e di campane da inserire nel campanile. La seconda una finestra circolare (l’occhio), dotata di telaio e chiusa un tempo Visita Pastorale, del 1689, documenta la richiesta da parte del da tela cerata o vetri, per rendere l’interno più luminoso. Vescovo di dotare l’altare di una protezione per coprire la mensa e Alla destra della porta, vi era una acquasantiera oggi mancandi dotare la finestra sopra la porta di un telaio e di tela cerata o te. Sul lato opposto, rivolto verso l’ingresso ed addossato alla parevetri. L’ultima visita di cui si ha notizia, grazie alla quale sappiate, vi è l’altare dotato di una base intera, di una mensa con la piemo che la chiesa è stata riparata e dotata di due rampe di scale in tra sacra inserita nel mezzo, di una fossetta sepolcrale sulla destra, sostituzione di una scarpata, del 1934. di un gradino - sul quale venivano collocati la croce, il tabernacoIl Vescovo ordina che l’altare venga dotato di una predella in lo, i candelieri e gli accessori rituali - e di una predella in legno. legno e di quattro candelieri con il crocefisso in lamina d’ottone. L’altare è sormontato da un affresco raffigurante il Mistero della Tratto da opuscolo Trinità onlus Deposizio-ne di Gesù Cristo in grembo alla Vergine con Maria
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n anno epico il 2018, l’anno in cui si è insediato il “governo del cambiamento”, l’anno in cui è stata dichiarata sconfitta la povertà e tanto altro ancora, non ultima la nuova trovata della figura professionale del “Mississippi Navigator” che aiuterà ad abbattere i numeri della disoccupazione. E adesso ci aspetta il 2019 che dovrebbe portare i risultati di tutti questi proclami più o meno credibili, ma comunque efficaci sul grande pubblico di internauti proprio perché ideati e confezionati per essere performanti specificatamente nel linguaggio Social. Il primo step è stato raggiunto: la platea di sostenitori è cresciuta e i messaggi veicolati dalla nuova politica sono entrati nel lessico quotidiano e si sono diffusi senza difficoltà nel sentire comune. Non ha importanza se si tratta di messaggi confusi, spesso contraddittori tra di loro: ormai siamo nell’era della rete e in rete si può dire tutto e il contrario di tutto. Questa è la prima riflessione di fine anno: il cambiamento che c’è stato (e questo c’è stato davvero senza nessun proclama) nell’idea stessa di politica che, da una generazione all’altra, ha subìto una trasformazione così radicale da cambiare completamente il suo profilo. Il panorama attuale presenta una pluralità di esperienze, per molti aspetti assai diverse, ma che sono accomunate da alcuni elementi di fondo, primo fra tutti il supera-
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mento di una concezione della partecipazione politica che pone al centro la rappresentanza e la delega, il rifiuto delle organizzazioni gerarchiche e burocratiche, l’informalità, il ricorso alla protesta e al conflitto, ma anche l’affermazione di una pratica politica individualizzata e che si pone al confine tra sfera pubblica e sfera privata. La forma del partito politico appare completamente superata e non sembra avere più nessun pubblico di riferimento in favore di forme di aggregazione svincolate da luoghi fisici grazie alla rete, vero luogo virtuale di incontro, confronto e scontro, affollato da pubblici di tutti i tipi. Il risultato è la confusione più generale che regna incontrastata nel panorama nazionale. È chiaro che siamo in una fase di transizione, il problema reale è che ancora non si vede un orizzonte e intanto si vive nel disagio, i problemi si moltiplicano e gli animi si infiammano sempre di più e quelli che un tempo erano confronti politici, somigliano sempre di più a scontri tra tifoserie antagoniste. La situazione nazionale si rispecchia abbastanza fedelmente nelle realtà locali dove del famoso cambiamento non si vede un granché, salvo che per occasionali peggioramenti di situazioni già di per se stesse critiche: Roma è un esempio eclatante, ma anche i piccoli e medi Comuni della Provincia non fanno mancare il loro contributo. Il clima litigioso e la mancanza di una capacità progettuale è la regola nei luoghi
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della politica e il disastro che ne deriva è solo la conseguenza inevitabile di questo nuovo “asset” sociale. Quello che si può dire, senza timore di poter essere smentiti, è che di fatto nessuno dei problemi sul tappeto è stato risolto: la crisi migratoria e l’integrazione dei «nuovi italiani», la ripresa economica da consolidare, la ricostruzione nelle zone terremotate dell’Italia centrale, la crescente diffidenza degli italiani verso le istituzioni pubbliche e le spinte populiste. Problemi abilmente cavalcati dai cultori del cambiamento, ma rimasti ad oggi ancora irrisolti quando non peggiorati da esasperazioni ideologiche non si sa bene quanto convinte o solo propagandistiche. Volendo restare ai fatti, l’emergenza economica resta il punto chiave da affrontare e per farlo non serve promettere sogni che non si potranno realizzare, né ricorrere alla macchina del fango per sgombrare il campo dai nemici, né, tanto meno, lanciare sfide alla civiltà con arroganza, bensì, al contrario, occorre disinnescare la spirale di sfiducia nei confronti dell’Italia e proporre progetti seri che sappiano disegnare un modello di sviluppo moderno inserito in una prospettiva Europa arricchita di contenuti condivisi. Al netto di tutte le chiacchiere e di tutti i giocolieri in perenne campagna elettorale, sarà questa la via che la politica dovrà percorrere se vuole essere in grado di governare il cambiamento. Biancamaria Alberi
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L’arte reinterpreta il mito di Venere e Adone Collettiva al Museo Civico di Bracciano attorno al gruppo scultoreo di Cristoforo Stati
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nteressante connubio tra arte e teatro a Bracciano dove dall’8 al 16 dicembre al Museo Civico di Bracciano si è riproposto in mito di Venere ed Adone, ispirato al gruppo scultoreo di Cristoforo Stati. “Nel locale l’universale E dal suo sangue spuntò purpureo fiore”, a cura di Massimo Melloni, è il progetto che ha ottenuto un finanziamento della Regione Lazio in base alla legge regionale n. 26/2009 finalizzato allo sviluppo di sistemi e servizi culturali ed ha consentito di rientrare nelle sale della struttura museale chiusa da tempo. Si è trattato, in particolare, di una collettiva d’arte che ha riunito artisti locali in particolar modo, chiamati a reinterpreta-
re il mito di Venere ed Adone. Hanno aderito al progetto, oltre a Massimo Melloni, Loredana Baldin, Enrico Bertorotta, Gina Cisaria, Leena Knuuttila, Maria Carla Mancinelli e Gloria Tranchida. Il vernissage l’8 dicembre scorso è stato impreziosito da un reading teatrale, per la regia di Marina Garrone, che ha visto impegnati giovani interpreti. Riflettori tutti puntati sull’opera - già nell’ufficio del sindaco a Palazzo comunale ed ora al Museo Civico di Bracciano - al quale Giovanni Baglioni, nel suo Le vite de’ pittori e scultori et architetti dedicò un entusiastico giudizio. “Ha fabricato ancora Christofano Braccianese una Venere & un Adone di finissimo marmo, che in Bracciano ritrovasi, figure nude con sì bell’arte condotte e sì al vivo aspiranti che innamorano chiunque loro riguarda”. Stati coglie la coppia nel preciso momento in cui Venere tenta invano di trattenere il giovinetto Adone che morirà durante la caccia dilaniato da un cinghiale. “Una scena simile - scrive Alessandro Cremona nell’opuscolo della mostra - è
Con-fusione (2018) di Loredana Baldin, ceramica
narrata anche nel quasi contemporaneo Venus and Adonis di William Shakesdpeare pubblicato a Londra nel 1593…Forse il poemetto era noto al duca di Bracciano Virginio Orsini, patron e committente di Stati, che la sera dell’Epifania del 1601 aveva assistito a Londra alla rappresentazione in suo onore della Dodicesima notte, nella quale il personaggio principale, il “Duca Orsino”, bello, colto e amante della musica, è ispirato alla sua figura. Stati ed Orsini ritornarono a Roma da Firenze dopo il 1607, ed è quindi probabile - conclude Cremona - che il gruppo di Venere e Adone sia stato scolpito negli anni immediatamente successivi”. Graziarosa Villani
Osservando... L
a vita ha assunto ritmi frenetici: si corre e si corre, sembra che inseguiamo qualcosa che ci sfugge e forse, per questo, non si ha più il tempo di guardare quello che accade intorno a noi, insomma di osservare. Eppure…qualche giorno fa mi sono trovato ad osservare “l’uscita della scuola”, uno spettacolo! Qualche ombrello aperto, qualche mamma con la spesa tra le mani, qualche zia e non pochi nonni, i pulmini gialli con le assistenti in prima fila. Il brusio ad un certo punto si è fermato, ho osservato i volti delle persone vicine, ma anche di quelle un po’ più distanti, gli occhi di tutti erano puntati sul portone, ecco apparire una prima classe, la maestra getta uno sguardo sulla piccola folla che si accalca sulla scalinata. I bambini sgranano gli occhietti che sono diventati occhioni, “Giuseppe” sono qui, il bambino alza la mano, la mamma alzala mano, la maestra lo lascia andare, la mamma lo abbraccia gli prende lo zainetto, “quanto pesa” esclama, poi gli aggiusta il giubbetto e prendendolo per mano si allontana. Ecco: ora è un susseguirsi di nomi e di braccia alzate, Giovanni, Antonietta, Marco, Caterina. Qualche bambino, nonostante, alzi le mani e disperatamente cerchi qualcuno della famiglia, non vede nessuno, la faccina diventa triste, la maestra lo sposta da una parte; altri bambini, altre mani alzate, altri abbracci, altri zainetti che passano dalle spalle dei bambini a quelle dei grandi. “Come è andata?”…”ho preso buono più” “che voto è?”, chiede l’anziana zia, “zia dieci e anche più”, “nipote mio allora sei proprio bravo!...”tua zia…” riprende, “il dieci l’ha visto solo con il cannocchiale”, “a zi’ che facevi l’astronoma?”, “a nipo’ sei proprio ‘struito”.
L’uscita della Scuola “Tittoni”
La calca continua. I pulmini si muovono, le assistenti prendono per mano i bambini e li aiutano a salire. È arrivato qualche genitore ritardatario, tornano allegre quelle faccine un po’ birichine. Accanto a me c’è un nonnetto che muove il cappello per farsi vedere, “Carletto sono qui”, “eccomi nonno”, “come è andata?” “sono stato bravo, mi compri le figurine?”, “sì, l’edicola è qui davanti”, “Carlé non correre, lo sai a nonno fa male la schiena”, “nonno appoggiati a me, sono forte”, il bambino prende per mano il nonno. “Nonno attento a non scivolare”, “e le figurine?”, “un’altra volta”. Eccoli attraversare la strada, mano nella mano, “nonno attento a non scivolare”… tranquillo ci sono io…Osservando… Luigi Di Giampaolo
CARLO
ISTA EVANGEL
Sei bella E non per quel filo di trucco. Sei bella per quanta vita ti è passata addosso. Per i sogni che hai dentro e che non conosco. Bella per tutte le volte che toccava a te. Ma avanti il prossimo. Per le parole spese invano e per quelle cercate lontano.
Vieni a trovarci, potrai trovare una vasta gamma di articoli rigorosamente di grandi marche. A pochi passi dal centro storico di Bracciano, Carlo Evangelista vi aspetta per illustrarvi la vasta gamma di capi ed aiutarvi al meglio per la vostra scelta migliore, per uno stile dinamico, raffinato mai banale!
Per ogni lacrima scesa e per quelle nascoste di notte al chiaro di luna complice. Per il sorriso che provi, le attenzioni che non trovi, per le emozioni che senti e la speranza che inventi. Sei bella semplicemente come un fiore raccolto in fretta, come un dono inaspettato, come uno sguardo rubato o un abbraccio sentito. Sei bella e non importa che il mondo sappia, sei bella davvero, ma solo per chi ti sa guardare.
Via Traversini, 13-15 - Tel. 06 99803008 - BRACCIANO (RM)
Alda Merini
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