Gente di Bracciano Febbraio 2018 - numero 18
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Carracci o Domenichino?
Mentre si discute ancora sull’attribuzione parte il restauro del quadro Santa Caterina d’Alessandria custodito al Duomo di Bracciano artono i restauri dell’opera pittorica Santa Caterina d’Alessandria, custodito al Duomo di Bracciano. Se ne occuperà Maria Cristina Tomasetti, socia dell’associazione Forum Clodii. Sull’opera in una recente conferenza il presidente dell’associazione Massimo Mondini ha evidenziato la controversa attribuzione dell’opera, databile alla prima metà del XVII secolo. “Visionata più volte da esperti storici dell’arte sembra, nel suo insieme, poter essere attribuita a Annibale Carracci o alla sua bottega. Invece - spiega Mondini un documento del 1761, trovato nell’Archivio Storico Parrocchiale, redatto dal santese dell’epoca, parla di un noto pittore romano e grande conoscitore d’arte, Giovanni Pichler, che durante il suo soggiorno a Bracciano, visto il dipinto, lo restaura e lo attribuisce con certezza a Domenico Zampieri detto il Domenichino. Quest’ultimo ultimo famoso pittore del ‘600 era stato allievo del Carracci e quindi la dubbia doppia attribuzione risulta una questione ancora tutta da svelare”.
Gente diBracciano
Febbraio 2018 - Numero 18
Dedicato a Maria mamma di Claudio e Gabriella mamma di Mena
Editore: Associazione Gente di Bracciano Presidente: Claudio Calcaterra
Direttore responsabile: Graziarosa Villani
Redazione: Francesco Mancuso, Vittoria Casotti, Biancamaria Alberi, Luigi Di Giampaolo
Collaboratori: Massimo Giribono Fabercross, Pierluigi Grossi, Mena Maisano Registrato al Tribunale di Civitavecchia n. 1388/2014
Stampa e impaginazione: FEDE 2011 srl Via dei Vignali, 60 - Anguillara Sabazia su carta riciclata
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Luigi Petroselli: Il sindaco delle periferie
Solo con la dignità del lavoro si esce dalla crisi della politica
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ara lavora nel mondo del web. La sua storia è quella di tanti giovani che hanno vissuto le illusioni di un futuro che non è mai arrivato. Se chiedi a Sara come va, ti risponde: “malissimo”. Perché? “Perché sono stufa di vivere con l’ansia, sempre. Perché dopo che ho concluso gli studi e mi sono laureata, non mi aspettavo di essere trattata in modo così disumano. Promesse di assunzione, poi rimangiate all’ultimo momento”. Questa è la vita di una lavoratrice precaria e francamente è una vita insostenibile. Bisogna mandarla a memoria questa storia perché è la storia di una generazione, dei nostri figli, dei giovani del tempo della globalizzazione e del neoliberismo, del capitalismo del nostro tempo. è una storia prima di ricerche di lavoro tradizionale, poi nel web con Internet. è una storia di attesa di un futuro che non arriva mai, di pochi euro, di interruzioni, di licenziamenti, di incertezze sull’oggi e sul domani. Mi confessa ancora Sara: “Devo subire la scorrettezza di un lavoro prima promesso e poi negato. La sera torno a casa e mi metto a piangere. Tutto questo per un lavoro che mi spetta di diritto, che ancora non ho, un delirio profondamente umiliante. Ora mi barcameno tra un lavoretto e l’altro, senza nulla di concreto in mano, senza nessuna prospettiva”. Domando a Sara, se non sono indiscreto, “Quali sono le tue idee politiche?”. Risposta: “Per anni sono stata di sinistra. Credevo nei suoi valori, nelle sue idee. Adesso non credo più a niente”. Ecco, credo che il nostro compito sia quello di restituire a Sara la politica come possibilità e capacità di attraversare la sua vita quotidiana, la sua esperienza concreta, la sua condizione sociale e umana. Di restituire alle tante Sara, la voglia e la possibilità di partecipare alla politica per cambiare la vita e il mondo. Sara ha messo in luce drammaticamente la crisi della politica, dalla quale se ne esce soltanto a una condizione: solo se la condizione di Sara dovesse cambiare. Claudio Calcaterra
“L’Etrusco” che conquistò Roma e la fece grande
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’è Roma e Roma, c’è oggi quella grillina, c’era un tempo quella di Luigi Petroselli, una Roma che guardava alle borgate al rilancio culturale dell’estate romana di Renato Nicolini, della valorizzazione dei fori nel segno di Antonio Cederna. è forse proprio “l’Etrusco” come veniva spesso chiamato per i suoi natali nel 1932 a Viterbo, il sindaco più amato di Roma. Una figura, prematuramente scomparsa, che molti nostalgici rimpiangono quale simbolo di una stagione che appare ormai conclusa. Una Roma comunista. La formazione di “Gigi” Petroselli vede un periodo al seminario, quindi il liceo classico. Fondamentale l’esperienza delle battaglie contadine. Viene arrestato a seguito dell’occupazione, durata solo 3 giorni, della tenuta “Colonna” di Bomarzo “per avere pubblicamente (…) istigato i cittadini di Bomarzo nelle ore serali del 29 settembre 1951 a compiere il delitto di invasione di terre poste nell’agro del comune di Bomarzo”. Per quell’episodio venne trattenuto in carcere per 40 giorni e condannato poi a dieci mesi di prigione e a pagare una multa di 10mila lire. Importante anche la fase che lo vide frequentare la scuola centrale del Pci “Anselmo Marabini” di Bologna dove lo studente, acquisita una certa maturità politica, si distinse per il saggio su “Stato e rivoluzione” di Lenin, citato sul n. 4 di Rinascita del 1954, e per la tesi su “Il Partito come moderno principe in Gramsci - spunti e considerazioni”. E in questo periodo che scrive: “Il dirigente comunista non si forma la sua personalità politica una volta per sempre, ma arricchendola ogni giorno di nuove esperienze, di nuovi contenuti. Quel che importa è che non rimanga schiavo della “pratica” o prigioniero degli schemi”. Negli anni successivi a Viterbo è giornalista e lavora come corrispondente de L’Unità. è il 1969 quando Enrico Berlinguer lo chiama a dirigere il Comitato regionale del Lazio. Anni dopo, nel 1976, Petroselli sarà capolista per il Pci alle elezioni. Nasce la giunta Psi-Pci guidata dall’indipendente Giulio Carlo Argan. Quando Argan rassegna le sue dimissioni nel 1979, Petroselli ne raccoglie l’eredità. Il primo discorso da sindaco di Roma oltre ad omaggiare la figura del suo precedessore è una dichiarazione d’amore alla sua Roma. “Ho fiducia - dice Petroselli nel suo intervento di insediamento - nel movimento operaio, popolare, democratico
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Luigi Petroselli
romano di cui sono espressione. Ho fiducia in questa città, sottoposta a prove durissime e a tentazioni ricorrenti e quotidiane di resa al peggio, alla prepotenza e ai veleni di quanti si adoperano di sfruttarla e di piegarla ai propri fini particolari ma insieme città straordinariamente viva e aperta al nuovo, straordinariamente democratica. Questa è la capitale di Porta San Paolo e delle Ardeatine. è la capitale della Repubblica sorta con la Resistenza, è la capitale della grande risposta democratica alla sfida di via Fani e di via Caetani”. Anticipa poi, nella stessa occasione, il suo programma politico, quello che avrebbe poi contribuito a trasformare il volto di Roma e a fare di lui il “sindaco delle periferie”. “Solo se i mali di Roma saranno affrontati, solo se la parte più oppressa e più debole della società, dai poveri e dagli emarginati agli anziani, dalle borgate ai ghetti della periferia, avranno un peso nuovo su tutta la città, essa potrà essere risanata e rinnovata. Solo se sarà più giusta e più umana, potrà essere ordinata, potrà essere una città capace di custodire il suo passato e di preparare un futuro”. E il risanamento delle borgate, la questione urbanistica di ricucitura tra il centro di Roma e il suo contorno è uno degli obiettivi politici più evidenti della giunta Petroselli in linea con le linee programmatiche delle “giunte rosse”. Il periodo è oggetto ancora di studi storici e sociologici. Per Petroselli “il risanamento delle borgate non è solo un problema di norme urbanistiche, è un farsi città di parti vitali
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e fondamentali del territorio, è un riscatto civile, sociale e culturale che condiziona la esistenza stessa di Roma come comunità cittadina”. “C’è un nesso - ebbe a dire profondo, organico, politico tra destino del centro storico e destino delle borgate che assumiamo fino in fondo”. Un percorso che venne avviato. La stagione del sindaco più amato dai romani durò poco. Riconfermato sindaco con le elezioni del 1981 nelle quali conquistò 130mila preferenze, Petroselli venne stroncato da un infarto il 7 ottobre del 1981 al termine di un discorso al Comitato Centrale del Pci. Gian Carlo Pajetta su L’Unità il giorno dopo scrisse: “è morto come Togliatti a Yalta, come Di Vittorio a Lecco, è morto sul lavoro, come si dice di un edile o di un minatore. Come altri compagni di prima o di dopo, che non hanno risparmiato nulla di sé, proprio perché in questo partito, in mezzo alla gente, inseguendo quasi l’ossessione di poter fare ancora qualche cosa è sembrato loro di poter essere pienamente se stessi”. La lezione di Petroselli di una città inclusiva senza marginalità, il suo incondizionato appoggio all’esperienza culturale dell’estate romana, restano da esempio. Una prospettiva politica che sarebbe quanto mai necessaria nell’ambito dell’architettura istituzionale di una Città Metropolitana che vive per lo più solo sulla carta e nella quale Roma la fa da padrona marginalizzando e umiliando il suo hinterland. A cura di Claudio Calcaterra
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La saga degli Argenti narrata da Emilio
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Dal 1888 sul lungolago il ristorante Il Luccio d’Oro
ncontro Emilio al Luccio d’oro con Mena e Claudio. Emilio ci sta aspettando, ha preparato un tavolo conviviale e mi offre una splendida tisana alla liquerizia che sorseggio con gusto, mentre lui e Mena si scambiano parole affettuose, scoprirò durante l’incontro che sono più che amici: Mena ha passato una parte della sua infanzia in questo antico ristorante dove la mamma, Gabriella, faceva la cuoca. Emilio ha un volto aperto, un sorriso caldo a tratti ironico, mani di lavoro e, non so perché, me lo immagino come un pescatore, per quella sua coloratura del volto e quel suo sguardo che va sempre verso il lago. è stato un incontro diverso da quelli fin qui realizzati: Emilio non ama parlare di sé, mi dice con simpatica e sotterranea civetteria che … sai, a me non è mai piaciuto mettermi in mostra … e con altrettanto spirito aggiunge … la mia famiglia è stata importante per Bracciano, tirandosi dietro anche un po’ d’invidia per quanto realizzato … e dice questa cosa quasi estorcendo dalla borsa dei suoi ricordi i fatti intimi, riservati, segreti di cui se ne parla solo, e non sempre, al proprio consorte, all’amico fidato, a qualche parente … la sua è stata una narrazione a strati, a sbalzi, non cronologica, avrei potuto rimontare tutti gli episodi di cui Emilio ci ha resi partecipi ma alla fine ho preferito mantenere il suo ritmo, i suoi tempi. Le prime parole le abbiamo spese attorno alla figura di Fabiolo o, se volete, Don Jaime de Mora y Aragón, fratello della regina Fabiola del Belgio. Emilio racconta di questo stravagante nobile che passò mesi a Bracciano … sai veniva sempre a mangiare al Luccio d’oro, quasi mai pagava ma era un fiore all’occhiello per noi, era un tipo bizzarro, anche un po’ truffaldino, stava per partire quando chiese a mio fratello Attilio tre milioni in prestito, avrebbe sanato il debito appena concluso un grosso affare che doveva portare a termine a Roma, forse … era un tipo particolare, sai andava sempre in giro per trovare dei sosia, delle persone che gli somigliassero … gli chiedo perché … mah! chi lo sa! forse perché così era più facile raggirarli dopo, era una sua specialità … provo ad insistere con Emilio perché mi racconti qualche episodio personale e lui, di rimando … sai nella spiaggia davanti a noi c’era una scuola di sci nautico frequentata da grossi personaggi romani, ricordo
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I coniugi Maria e Giuseppe Argenti
Franco Carraro, Cecchini, il miliardario costruttore edile, per noi era motivo d’orgoglio che attorno al ristorante girasse gente importante, ma non ci siamo mai montati la testa, gli Argenti sono gente semplice, fattiva … una pausa e so che questo argomento è chiuso, riapro il quaderno e mi trovo a parlare di Alberto, uno dei suoi sette fratelli, il fatto è che Alberto lo conoscevo bene, ogni anno durante tutta l’estate mi ristoro nella spiaggetta che cura Letizia, una delle sue figlie, insieme ad Edmondo. Alberto è morto poco tempo fa, così lo ricordiamo insieme quando alle cinque del mattino era già lì a curare la sua spiaggia, ricordiamo la sua sobrietà ma anche la sua simpatia, poi Emilio dice una cosa che mi ha commosso per la semplicità e la profondità delle sue parole … sai è stata una morte desiderata, soffriva troppo e da troppo tempo … questo primo quarto d’ora credo sia stato come un riscaldamento poi Emilio comincia a raccontare del suo ristorante …lo aprì mio nonno quando nel 1888 ottenne la licenza, allora era poco più di un capanno per i castellani che venivano a rinfrescarsi nelle acque del lago, allora era tutto di proprietà dei principi Odescalchi, pesca, legnatico, caccia e chi più ne ha più ne metta, solo nel 1981 il ristorante divenne di mia proprietà. Gli Argenti furono fat-
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tori fedeli dei principi Odescalchi, il principe aveva donato a ciascuno di noi un appezzamento di terra… noi abbiamo sempre nutrito una forte riconoscenza per quei nobili, ma li abbiamo anche ricambiati con il nostro lavoro, la nostra serietà, pensa che dicevamo noi al principe di qualche “marachella” che i suoi amministratori, a volte, combinavano … mentre io sorseggio la mia tisana Mena ed Emilio rincorrono i loro ricordi, quasi una partitura per volti e voci, poi Emilio riprende … qui, dove siamo seduti, si stanziò il comando generale dei tedeschi e quando l’8 settembre ci fu l’armistizio il generale aveva deciso di far saltare la santa barbara che era ospitata nelle cantine del comando, cioè nelle cantine del ristorante, saputolo papà prese tutti i suoi figli e ci portò dal komandant per dissuaderlo, il komandant si commosse ed è per questo che tutte le bombe tedesche dormono oggi nel lago di Bracciano dove le buttò per non lasciarle al nemico, via i tedeschi il ristorante si riempì di sfollati che impedivano la riapertura delle attività, allora mio padre andò dal principe Odescalchi, il ristorante era ancora di sua proprietà, e gli chiese cosa si potesse fare, non ci pensò molto il principe, trovò un’altra residenza agli sfollati e l’attività poté riprendere … gli chiedo che padre fosse
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stato Giuseppe e che madre fosse stata Maria, i suoi genitori … gente semplice, il lavoro e l’onestà prima di tutto … Emilio ci pensa un po’ e si lascia andare in una delle sue rarissime esternazioni personali … sai, ho sempre cercato di praticare i loro insegnamenti, fino in fondo … lì ho capito che non dovevo più insistere con lui per farmi raccontare di sé, intanto riparte un duetto con Mena e le sento dire che Giuseppe fu per lei quasi un papà e i figli quasi dei fratelli e lei quasi la sorella tanto desiderata, si gira, mi vede con la penna pronta e … sai, nel 1949 il locale fu ristrutturato … subito dopo mi trovo proiettato nel 1979, l’anno in cui suo padre morì in un incidente automobilistico, là all’incrocio della via del lago con il breve tratto di strada che porta al suo ristorante, insieme al marito di Gallerana e poi nel 1981 quando Emilio divenne titolare del ristorante a un prezzo che il principe volle tenere basso, avverso anche alle richieste più stringenti dei suoi amministratori, e poi nella storia dolorosa della la Gli otto fratelli Argenti madre che si fratturò un arto in malo modo tanto che fu costretta ad andare a Roma, dal della festa degli alberi, un antico appuntasurf sul lago… ma quant’era scontroso celebre Zappalà, medico della Roma, che mento per i ragazzi e le scuole di Lucio Battisti, ma sì antipatico e arrogannon risolse un bel nulla malgrado l’inter- Bracciano, per la tradizionale piantumaziote, inveiva sempre quando qualcuno lo vento e la lunga degenza, risolse la sua ne di nuovi arbusti che andavano ad arricriconosceva e voleva farsi firmare un autocaduta a Bracciano tra il suo medico e chire il patrimonio arboreo della città … grafo … e quella volta che un gruppo di l’ospedale. E’ un bel pomeriggio di sole, una volta capitò che si doveva piantare gli giapponesi voleva fotografarlo? Alzati sono davanti alle tracce di memoria di alberi sul terreno che il principe aveva cielo, fulmini e saette, fino a darmi le chiaEmilio che ho scritto nel mio quaderno e concesso a papà per piantare fagioli, un vi della sua automobile dicendomi di pormi trovo sempre più incuriosito e disorien- guaio che il principe risolse in un battibatarla all’uscita della cucina e chiedendotato: lui continua a improvvisare, non leno … sai siamo otto fratelli, in ordine melo in malo modo … sai a quei tempi il segue alcun filo cronologico o storie capa- Mario, Paolo, Attilio, Alberto, Marcello, lago pullulava dei motoscafi di attori, regici di incollarsi tra loro, ma piano piano Antonino detto Tonino, Emilio e Sebastiano sti, giornalisti e chi più ne ha più ne metta, comincia a delinearsi questa famiglia ope- e il principe diede a ciascuno di noi una una stagione d’oro … siamo alla fine della rosa che tanto ha dato e che tanto ha otte- proprietà con un atto privato senza passachiacchierata così mi permetto di fargli nuto dai principi Odescalchi …tra noi e i re per notifiche notarili, così quando il un’ultima richiesta … Emilio dimmi l’evenprincipi c’è sempre stato un reciproco comune fece rivalsa sui terreni del principe to più bello e più importante che le mura di RISPETTO… chiosa Emilio. Non rispettan- ci salvò l’istituto giuridico dell’usucapione questo ristorante hanno visto. Non ci pensa do i miei precedenti proponimenti chiedo … non so per quali vie misteriose della un istante … quando abbiamo festeggiato i ad Emilio quale sia stata la marachella gio- memoria improvvisamente Emilio comincento anni di attività, abbiamo servito pasti vanile che più ricorda e lui: … la famiglia cia a nominare i “grandi nomi” che sono a più di mille persone, il ristorante rimase doveva pensare alla cucina e alla pesca, passati per il ristorante: le gemelle Kessler, aperto da mezzogiorno a sera tarda, non c’era tempo per le marachelle … uhm! Ernest Borgnine, Jane Mansfield, Eleonora accompagnando la festa con musica e ricForse è che mi piaceva troppo dormire, se la figlia di Raf Vallone, Mina con Corrado chi cotillons e facendo venire da Castel si può considerare una marachella … poi Pani, Maurizio Arena, Renato Salvatori che Sant’Elia due carri allegorici … siamo ricordo che una volta un cliente dimenticò chiedeva sempre quattro uova al tegamino proprio ai saluti, Emilio festeggia con un la sua macchina fotografica, io dovevo ma solo se le cuoceva Gabriella e Lucio party speciale la nuova gestione del locale andare in gita a Parigi così me la portai Battisti con Pappalardo che venivano a fare che prenderà il via proprio stasera e dietro, poi l’avrei restituita ma il mentre ammiriamo le straordinarie foto cliente venne a cercarla proprio di Bracciano antica che adornano il locaquando ero fuori, nacque un putiferio, le e diamo un dieci con lode alle nuove quando tornai la restituii dicendo che tende che Marco e Daniela, i nuovi soci, non l’avevo neanche usata, ma c’erahanno voluto mettere per rendere più no i negativi a dire il contrario, poco amichevole e più confortevole il luogo mancò che mi denunciasse … e quella … è la grande prerogativa delle donne volta che uscivo con una ragazza che quella di addolcire la vita … sento dire a si scoprì essere gravida di non si sa di Emilio mentre si avvia a lavorare per chi, mi chiamò Don Cesolini e mi stripreparare la serata ma c’è ancora un pengliò ben bene … ci prendiamo una siero che Emilio ci affida e con un sorripausa e Mena racconta di quando so gioioso, quasi cantando, ci dice che la Emilio le insegnava l’inglese, l’allora storia del Luccio d’Oro continuerà… vicesindaco faceva lezione a Emilio e con suo figlio, Cristian Emilio Argenti. La delibera che concede al nonno Paolo Argenti la licenza lui, appena finito, via a casa di Mena per “salvataggio nel lago di persone in pericolo di annegar- Grazie Emilio. a ripeterla. Quando riprende mi parla si - n. 73412 del 31 - 12 -1905 Francesco Mancuso
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Preistoria: la Grotta Patrizi racconta la civiltà di Sasso-Fiorano
Storia di un albero di Natale
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Scoperta nel 1933 sul Monte delle Fate
era un albero, un inverno, che andava proprio bene come albero di Natale. Era alto e robusto, un vero fustone del bosco. Aveva rami fitti, con tanti aghi puntuti che si infilavano nell’aria fredda del mattino come le spille di una sarta in una stoffa morbida. Le guardie forestali lo chiamavano Rudy, che era l’abbreviativo del nome di Rudolf. Rudolf era stato il più bell’albero della foresta degli ultimi venti anni, così fronzuto, verde scuro, spavaldo coi suoi rami tesi e leggeri nell’aria fredda della montagna. Era stato tagliato due Natali prima ed era stato portato in una piazza di una città tedesca, al centro di un bel mercatino. Tutti se ne ricordavano come di uno degli alberi più belli che fossero sorti nella foresta. Rudy non era così bello, certo: un po’ più tracagnotto e con aghi meno luminosi. Ma era pur sempre un bel pino, con una bella proporzione tra i rami larghi della base e l’altezza, di tutto rispetto. E poi, se i suoi aghi non erano lucidi e smaglianti come quelli del vecchio Rudolf, non era certo colpa di Rudy che, negli ultimi due anni, aveva quasi sofferto la sete ed era stato coperto da un pulviscolo di terra. Rudolf era cresciuto durante parecchi autunni piovosi e inverni nevosi e rigidi: con il clima, lui, aveva avuto più fortuna e, quando l’avevano tagliato, il suo legno squarciato aveva mostrato un bel colore chiaro, una bella pasta solida e vitale, pur nella violenza della amputazione. Certo, nel mercatino dove era finito, tra l’odore grasso dei wurstel e il profumo sottile del vino aromatizzato, pochi dei frequentatori avranno guardato alla bellezza opulenta del pino maturo. Ancora di meno avranno avuto verso di lui, sacrificato all’altrui gioia, un sentimento di riconoscenza o almeno solo di ammirazione. Ma aveva pur sempre fatto una fine dignitosa, il vecchio Rudolf, orgoglio della foresta, con la sua forza e il suo colore verdissimo fino alla fine delle festività natalizie. Chissà se quell’inverno i forestali sarebbero venuti a tagliare Rudy che, a parte i rami un po’ impolverati per la siccità, era ormai maturo per essere preso e portato in qualche centro cittadino, a rallegrare la vista del pubblico in festa, sempre tanto distratto. Veramente l’aria non era ancora invernale e solo al mattino c’era un freddo pungente come le punte degli aghi dei pini. Poi, poco dopo il sorgere del sole, l’aria diventava tiepida, il sole addirittura caldo e gli uccellini saltellavano fra i rami come fosse già primavera. Forse non era ancora arrivato il momento delle festività, non si dovevano ancora addobbare chiese, piazze e salotti con alberi verdi, scintillanti di decorazioni. Rudy se ne stava svagato al sole, un po’ intorpidito dal tepore prolungato e dalla luce robusta del sole. Un pomeriggio il cielo era diventato nero e basso e pian piano aveva cominciato a cadere una neve leggera, che svolazzava senza fermarsi sugli alberi, senza solidificarsi. Verso sera, il bosco era diventato bello bianco, rami e foglie che seccavano a terra si erano ricoperti di una spolverata di neve fresca, gli animali si guardavano attorno meravigliati e incuriositi e il silenzio si era fatto più profondo. Poi, nella notte, la temperatura si era di nuovo alzata. Verso mattina aveva piovuto, non tanto, ma abbastanza da sciogliere tutto il leggero bianco della sera prima in un fango nero e appiccicoso. La strada era una guazza di acqua e il grosso camion che passava in quel momento aveva delle difficoltà, con tutto quel terreno mollo. Sopra il camion, ben legato con cordami robusti, c’era un abete destinato alle feste, tagliato e caricato la sera prima. Rudy era deluso dalla nevicata poco duratura; ci aveva sperato in una copertura più solida di neve scintillante, in un bel freddo che avrebbe ucciso vermi e insetti annidati nelle cortecce. Così, preso nella sua scontentezza, non si curò molto dell’albero che passava sul camion diretto verso chissà quale città. Del resto anche i forestali e gli altri alberi non ci fecero molto caso e l’abete partì inosservato, grondante di pioggia mattutina. Acqua e viaggio non fecero bene all’albero in cammino, il quale arrivò a destinazione in brutte condizioni. La piazza dove lo misero, poi, era satura di gas di scarico, che avvolsero i rami con una nebbiolina dal colore maligno. Poco forte di natura, l’albero trasportato di recente si indebolì. La gente che passava lo guardava male, come un intruso, e diceva parole taglienti contro di lui, che era già così debole di suo e il suo aspetto macilento. Poco dopo l’albero morì: o meglio, era già morto al momento in cui lo avevano tagliato strappandolo dalla sua terra. Ma ora i suoi rami diventavano fiacchi e cadenti a vista d’occhio, gli aghi si seccavano presto e cadevano a ciuffi. Il tronco inaridì presto, prendendo il colore sbiadito e falso delle staccionate. Altro che Rudolf, più bello da morto che da vivo, smagliante fino alla fine delle festività natalizie di un colore scuro e robusto nella piazzetta del mercato! In una scuola di periferia una maestra elementare sulla cinquantina parlava con una collega più giovane. La maestra più matura aveva un viso
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buono e pacioccone; era piuttosto grossa e a volte i bambini ridacchiavano vedendo il suo sederone che debordava dalle loro seggioline, quando sedeva vicino a loro. La maestra amava il Natale, ne provava una gioia un po’ infantile, una gioia che i suoi figli, ormai grandi, e il marito, un tipo silenzioso, non condividevano. Per questo comunicava alla collega più giovane un’idea che le era venuta da poco. Certo, l’albero natalizio sulla piazza della città era triste, così rinsecchito e scolorito. Le due maestre, entrambe brave nel bricolage e creative dovevano fare qualcosa perché l’anno successivo le cose potessero andare meglio. Dovevano riunire le classi con i bambini più grandi e costruire con impegno delle belle decorazioni natalizie. Poi le avrebbero mandate al Comune e, dal Comune, alla foresta dove venivano scelti gli abeti. L’albero predestinato, vedendo quelle decorazioni festose, sarebbe stato contento di essere tagliato e non si sarebbe ammalato come l’altro: si sarebbe sentito il benvenuto, la mascotte di tanti bambini allegri e fantasiosi. Per questo dovevano lavorare intensamente, preparare per tempo le decorazioni e mandarle già molto prima che l’abete venisse tagliato. Lui, così, sarebbe stato contento nel vedere come lo volevano agghindare e sarebbe arrivato in città bello rubicondo e gagliardo e non maltrattato e triste come quel poveraccio che era arrivato da poco, già così malmesso. La maestra più giovane era perplessa. Ci sarebbero voluti molta organizzazione e molto impegno: e poi chissà se le cose sarebbero andate proprio così lisce come pensava la collega più matura. Però il lavoro manuale, tutto quel tagliare e incollare, le piaceva e i bambini in genere la seguivano con entusiasmo. E così si misero a lavorare, in forte anticipo, con molto entusiasmo per preparare le decorazioni natalizie dell’anno dopo. Trovarono il modo di soffiare del vetro riciclato nella bottega di un genitore, che si dilettava di bricolage. Le forme delle palle dell’albero vennero fuori un po’ sbilenche e irregolari, ma ugualmente mosse e vivaci. I bambini, poi, tirarono fuori una grande fantasia, pasticciando insieme colori sgargianti che illuminarono quelle palline rozze: rosa confetto e verde bottiglia, giallo canarino e azzurro profondo. Le collanine, le gocce, le sfere panciute vitree brillavano al sole in quegli allegri colori. Sulle sfere più oblunghe incollarono penne e batuffoli d’ovatta, a creare uccelli magici e creature irreali. Sulle pigne raccolte nei giardini incollarono la porporina argentea; persino qualche pupazzetto di stoffa fu legato sui festoni dorati con sottile fil di ferro. Quando tutto il materiale fu finito, lo distesero in bella mostra sui lunghi tavoli della mensa, fecero delle foto e le mandarono in giro per network ad amici e parenti: persino all’ufficio del Sindaco, al quale illustrarono la loro idea per le feste dell’anno successivo. Il lavorone della scuola piacque in quell’ufficio e il sindaco in persona assicurò che il prossimo anno quella decorazione così spontanea sarebbe stata messa sul nuovo albero. Anzi, un po’ di festoni e palle di vetro dovevano venir mandate subito alla direzione forestale, per provare come stavano sull’albero scelto. Le due maestre, specie quella che aveva lanciato l’idea, e i bambini furono contentissimi; questi ultimi furono addirittura più attenti e disciplinati il giorno in cui arrivò la risposta del Comune. Rudy dormicchiava in una giornata senza vento e non molto fredda. Quando arrivarono quelle coroncine di paglia, quelle palline colorate e quei festoni rimase un po’ meravigliato e perplesso. Ma poi, dalle parole dei forestali che lo stavano addobbando ridendo sornioni, capì che l’abete bagnato era morto, e che dei bambini esuberanti aspettavano per il prossimo anno un bell’albero, preparando per lui altri ornamenti brillanti.Rudy si gonfiò di orgoglio; sperò proprio di essere lui il prescelto e di finire in una piazza animata, ammirato dai passanti e fotografato dai mille telefonini dei turisti. D’altra parte, chi, se non lui, il più gagliardo della foresta, poteva soddisfare le aspettative di quei bambini, di quella gente? Così rinvigorito svettò, forte e lucido, nell’aria mattutina, nel cielo terso. Si sentì bello e importante. l vecchio Rudolf avrebbe avuto un successore degno di lui. Alberto Mancini
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n prossimità della località del Sasso, sul Monte delle Fate, collina posta a destra sulla strada che da Bracciano conduce all’Aurelia, circa un chilometro prima del centro abitato, sono presenti, vicine tra di loro, due cavità naturali storicamente rilevanti ma ormai dimenticate da tutti: la “grotta Patrizi”, sul versante rivolto al mare, e “la grotta dei serpenti”, dalla parte del bosco di Manziana. Entrambe sono ubicate in terreno di proprietà privata, attualmente chiuso da recinzioni e pertanto non raggiungibili. La “grotta Patrizi”, scoperta solo nel 1933, conteneva una serie di importanti reperti risalenti al periodo neolitico (circa 5.000 anni a.C.) oggi conservati nel museo preistorico Pigorini di Roma e presso l’Università di Pisa, dove insegnava il professor Antonio Mario Radmilli, principale studioso della grotta. Di fatto la grotta è stata accessibile solo a pochi archeologi e, quindi, mai aperta alla frequentazione pubblica, anche perché l’ingresso è alquanto accidentato. La popolazione locale, anzi ne ha praticamente sempre ignorato l’esistenza. La grotta del Sasso è nota come “Grotta Patrizi” dal nome del suo scopritore, il marchese Saverio Patrizi Montoro (Roma 1902-1957), proprietario dei terreni circostanti e socio del Centro Speleologico Romano. La sua scoperta è stata importante perché ha consentito di analizzare alcuni elementi comuni ad altri insediamenti risalenti allo stesso periodo storico. Dai reperti rinvenuti, infatti, si può dedurre che il tipo di civiltà presente in zona si ricollega a quella riscontrata in alcuni centri dell’Italia settentrionale, e ciò lascia pensare che una parte della popolazione primitiva, che abitava soprattutto l’Emilia, si sia spostata a sud insediandosi nel territorio intorno al lago. Il centro dell’Emilia che ha fornito le maggiori testimonianze di questa epoca, e che presenta tratti in comune con il tipo di vita deducibile dai reperti rinvenuti al Sasso, è stato Fiorano, in provincia di Modena, oggi noto principalmente come sede della casa automobilistica Ferrari. Gli studiosi dell’epoca preistorica hanno denominato, pertanto, civiltà di “Sasso-Fiorano” quella che si riferisce al periodo tra l’ultimo neolitico ed il primo eneolitico, cioè al passaggio dall’età della pietra a quella del bronzo (circa 3.000 anni a.C.). La grotta Patrizi, destinata alla sepoltura, ha fornito una innumerevole serie di reperti che permettono di poter ricostruire, almeno in parte, la struttura socioeconomica di quelle popolazioni. è opportuno, innanzi tutto, descrivere come è articolata la grotta e come si presentò al suo scopritore. Il rinvenimento avvenne per caso nel 1933 a seguito di una alluvione che determinò l’apertura del cunicolo di accesso profondo verticalmente 14 metri. L’ampia caverna interna è lunga diverse decine di metri con aperture e corridoi che dovevano servire quale dimora per i defunti già nel periodo neolitico di mezzo, in quanto alcuni reperti sono databili intorno ai 5.000 anni a.C. e, quindi, la grotta è stata utilizzata per almeno due millenni. L’importanza storica della grotta fu avvalorata dalle ricerche effettuate, negli anni Cinquanta, principalmente da studiosi dell’Università di Pisa, nei cui locali sono ancora oggi dedicati ampi spazi ai reperti provenienti dal Sasso. Sono state rinvenute sette sepolture, di cui sei in prossimità di una parete. I resti dei corpi giacevano in posizione supina o seduta. Una intera saletta della grotta ospitava invece un solo inumato, che certamente era stato un personaggio influente della comunità. Vicino c’era un focolare che doveva essere stato utilizzato per le cerimonie purificatrici. In questo periodo le salme dei defunti venivano adagiate nel luogo della sepoltura e solo nei millenni successivi i corpi dei morti saranno bruciati e le ceneri poste in recipienti di terracotta. Interessante è lo studio fatto sulle ossa e sul cranio di questo antenato poiché, da un esame approfondito, è risultato essere un individuo con delle forti imperfezioni fisiche, che fu sottoposto anche ad una
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Sepoltura attribuita al neolitico medio con corredo di ceramica in facies di “Fiorano Sasso”
trapanazione del cranio, come evidenziano i fori praticati sul teschio. Il corpo era stato disposto entro un cerchio di pietra con intorno un ricco corredo funebre composto da utensili di ceramica, di pietra e d’osso. Da questa vasta fonte di notizie si deduce che la vita in questo periodo era articolata su tre componenti principali: la caccia, l’allevamento del bestiame e l’agricoltura. Parlando della caccia si deve osservare che fu la prima fonte di sostentamento di queste popolazioni. Tra la selvaggina più ambita si annoveravano il cinghiale, il cervo, il daino, il capriolo ed il bue selvatico. Si citano questi animali perché di essi sono stati rinvenuti resti, sotto varie forme, nella stessa grotta Patrizi. Ma, pur preferendo gli animali di grossa taglia, queste popolazioni non disdegnavano la piccola selvaggina, come attesta il cranio di lepre trovato sempre nella stessa grotta. La caccia era favorita dalla particolare configurazione del territorio quasi completamente boschivo. Solo quando persero la loro peculiare caratteristica di nomadi e si insediarono stabilmente in zona, queste popolazioni si dedicarono più intensamente a praticare l’allevamento del bestiame e l’agricoltura. Nella grotta sono stati rinvenuti, infatti, anche resti di maiali e di ovini. L’allevamento del bestiame comportava una attività agricola rivolta, in un primo tempo, alla produzione di foraggi per gli animali ed in seguito per i fabbisogni umani. Furono coltivati i cereali: soprattutto grano, orzo e legumi. Già allora il grano veniva lavorato, come confermano le due macine rinvenute sempre a grotta Patrizi. Una di queste macine doveva essere stata intenzionalmente rotta durante il rito funebre e lasciata vicino al morto. Ciò dimostra il grande valore attribuito agli utensili che avevano caratterizzato la vita dell’uomo. Di notevole interesse è il rituale della rottura della macina perché usi analoghi furono riscontrati tra le popolazioni primitive dell’Africa e dell’Asia. Tra i vari utensili non bisogna dimenticare la produzione di ceramiche. I vasi, costruiti con materiale fittile per lo più di colore nerastro, presentano uno spessore notevole e a volte sono decorati con segmenti e linee curve che erano incisi prima della cottura. I reperti rinvenuti nella grotta Patrizi hanno dimensioni considerevoli, con pareti dello spessore di cm. 2,5. La vegetazione della zona era composta inizialmente da faggi ad alto fusto, residui dell’epoca post-glaciale, di cui rimangono tuttora tracce nella faggeta di Allumiere, di Oriolo e, sotto forma di fossili, sul fondo del lago di Martignano. In seguito, divenendo la temperatura sempre più mite, cominciarono a prevalere elci e cerri. Durante le successive età del bronzo e del ferro ci fu un forte uso di questi legni per la loro ottima e lenta combustione, necessaria alla fusione dei metalli, con la conseguenza, però, di procurare nel tempo una costante deforestazione. L’esistenza di molti boschi determinava un clima fortemente umido e quindi anche le sorgenti erano più ricche di acqua. Con delle eccezioni rispetto al presente: nel periodo preistorico il lago di Bracciano era molto più piccolo di quello odierno, nonostante il recente abbassamento di livello. Può risultare molto utile una visita al museo Pigorini di Roma dove è possibile ammirare la ricostruzione di una parte della grotta. Pierluigi Grossi
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Saverio Patrizi Montoro Naro, figlio del marchese Filippo e di Maddalena Gondi, nato a Roma l'I 1.1.1902 e morto a Roma il 21.1.1957.
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Zuzzurellopolis 4 - Serendipità
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to dal fatto che, pur essendo l’erba migliore da un lato della strada, era stata brucata quella del lato opposto, a indicare che il cammello vedeva solo da un occhio, quello che dava sul lato della strada con l’erba mangiata. Che fosse privo di un dente lo dimostrava l’erba mal tagliata che si poteva osservare lungo la via. Che fosse zoppo, poi, lo svelavano senza ombra di dubbio le impronte lasciate dall’animale sulla sabbia. è sulla spiegazione del carico, però, che la loro spiegazione diventa più difficile: il cammello portava da un lato miele e dall’altro burro perché lungo la strada da una parte si accalcavano le formiche (amanti del grasso) e dall’altro le mosche (amanti del miele); aveva sul dorso una donna perché in una sosta si era fermata ai lati della strada a urinare, e questa urina aveva attratto l’attenzione di uno dei principi che, chinatosi per osservarla, aveva visto vicino delle orme di piede umano molto piccolo, che poteva essere di donna o di ragazzo. Per sciogliere la sua curiosità aveva posto un dito nell’urina (cosa non strana per i tempi, e che i medici facevano comunemente al letto del malato) e la odorò, venendo “assalito da una concupiscenza carnale” che può venire solo da urine di donna. Infine la donna doveva essere gravida, perché poco innanzi alle orme dei piedi c’erano quelle lasciate, più profondamente dalle mani, usate dalla donna per rialzarsi a fatica visto “il carico del corpo”. Le spiegazioni dei tre principi stupiscono i presenti e specie Beramo, che decide di fare dei tre giovani sconosciuti, che mantengono segreta la propria vera identità, i suoi più stretti consiglieri. Nel centinaio di pagine della novella, i tre principi in incognito offrono così i loro servigi all’imperatore, salvandogli anche la vita e risolvendo situazioni intricate, addirittura riuscendo spesso a prevedere cosa accadrà nel futuro. Come si vede, le scoperte fatte dai principi nascono dal caso, dall’osservazione e dalla sagacia, secondo le tre regole auree della serendipità. Serendipità è dunque scoprire una cosa non cercata e imprevista mentre se ne sta cercando un’altra. Ma il termine non indica solo fortuna: per cogliere l’indizio che porterà alla scoperta bisogna essere aperti alla ricerca e attenti a riconoscere il valore di esperienze che non corrispondono alle originarie aspettative. Per uno zuzzurellone incontrare, per caso, una storia come questa è stato come nuotare in un mare di cioccolata, così sono andato a cercare storie “serindipiche” nelle scoperte che hanno cambiato il mondo: è stato un fuoco d’artificio. La scoperta dell’America. Il genovese Cristoforo Colombo, al contrario delle convinzio-
u anticamente nelle parti orientali, nel paese di Serendippo, - l’attuale Sri Lanka - un grande e potente re, nominato Giaffer, il quale ritrovandosi tre figliuoli maschi...” così inizia a narrare Cristoforo Armeno nel 1500, introducendo i personaggi della storia: tre inseparabili principi, figli di Giaffer, re di Serendippo, educati dai più grandi saggi del tempo, coltissimi e pronti a cogliere ogni sfida intellettuale, privi però di un’esperienza altrettanto importante di vita vissuta: tutta teoria, insomma, e niente pratica. Per provare, oltre alla loro saggezza, anche le loro attitudini pratiche, Giaffer, con uno stratagemma, decide di cacciarli dal regno: “Deliberò, per farli compiutamente perfetti, che andassero a vedere del mondo, per apparare da diversi costumi e maniere di molte nationi con l’esperienza quello che colla lettione de’ libri, e disciplina de’ precettori s’erano di già fatti padroni”. Nasce così, per il volere di un genitore esigente, ed è proprio il caso di dire realista, il viaggio verso l’ignoto dei tre principi, che subito incocciano nella disavventura che li farà passare alla storia. Mentre i tre sono da poco giunti nel Paese di Beramo, “potente imperadore”, si imbattono in un cammelliere, disperato per aver perduto il proprio prezioso animale, unica fonte di guadagno. I tre non l’hanno visto, ma per burlarsi del buon uomo e dilettarsi del proprio intelletto, dicono al poveretto che il suo animale l’hanno incontrato “nel cammino, buon pezzo a dietro”. Per assicurare il cammelliere sulle loro indicazioni, gli forniscono tre elementi che convincono il cammelliere della loro buona fede: il cammello perduto è cieco da un occhio, “gli manca uno dente in bocca” ed è zoppo. Il buon uomo, rincuorato dalle buone notizie, ripercorre a ritroso la strada fatta dai tre principi, ma nonostante il lungo cammino non riesce a ritrovare l’animale. Il giorno seguente, ritornato sui suoi passi, incontra di nuovo i tre giovani e si lamenta con loro di averlo ingannato. Per dimostrare di aver detto il vero i tre principi aggiungono altri tre elementi. Sono la prova che hanno veramente visto il cammello, ma sono anche la loro condanna. Dicono: il cammello aveva una soma, carica da un lato di miele e dall’altro di burro, portava una donna, e questa era gravida. Di fronte a questi particolari, il cammelliere dà per certo che i tre abbiano visto il suo animale ma, vista la ricerca inutile del giorno precedente, crede di essere stato gabbato e accusa i tre giovani, vestiti tra l’altro con panni modesti e non certo regali, di avergli rubato il cammello. Iniziano così le peripezie dei nobili singalesi, imprigionati nelle segrete dell’imperatore Beramo che, convocata un’udienza e nonostante la sua magnanimità, considerate le apparenze, e le scuse addotte dai tre - l’abbiamo fatto per burlarci del cammelliere ma noi il cammello non l’abbiamo mai visto - è costretto a condannarli a morte perché ladri. E i giovani verrebbero giustiziati se, per puro caso, un altro cammelliere, trovato il cammello e avendolo riconosciuto, non lo riconducesse al legittimo proprietario. Recuperato il mal tolto, e dimostrata in tal modo la propria innocenza, i tre vengono liberati. Prima però devono spiegare come abbiano fatto a descrivere nel dettaglio l’animale, senza averlo mai visto. è a questo punto che la loro capacità intellettuale scende in campo svelando all’imperatore Beramo le loro intuizioni, evento che modificherà il loro destino. Ciascun particolare del cammello è stato immaginato, ed è poi risultato vero, grazie alla capacità di osservazione e alla sagacia dei tre giovani. Che fosse cieco da un occhio era dimostra-
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ni dominanti dell’epoca, riteneva di poter arrivare alle Indie navigando verso occidente, convinto che la terra fosse sferica. Sostenuto anche dai calcoli del matematico fiorentino Paolo dal Pozzo Toscanelli, che stimavano il raggio della terra essere molto inferiore di quanto fosse in realtà, Colombo propose il suo progetto al re di Portogallo, convinto che la distanza da percorrere fosse solo di tremila miglia, al contrario delle diecimila occorrenti in realtà. Cercava le Indie e trovò l’America, aprendo una rotta commerciale che cambiò il volto dell’Europa. Monogamia e poligamia degli insetti Naipling mentre cercava disperatamente un modo per sconfiggere gli insetti dannosi all’agricoltura ebbe un idea: perché non sterilizzare i maschi con delle radiazioni? Così sperimentò le radiazioni su una mosca: il 90% dei maschi fu sterilizzato portando alla quasi estinzione della specie. Furono giorni di euforia e via a provare su altre specie. Fu un fallimento. Il fatto è che il primo esperimento fu fatto su una specie d’insetto monogamo, rara in natura, le altre erano poligame, cosicché quelli che si salvavano dalle radiazioni si davano a un’attività sessuale almeno disinvolta se non sfrenata, aumentando addirittura il numero dei nati. Anni dopo un altro ricercatore, Parker, trovò per caso il report della ricerca di Naipling, lui che stava lavorando sulla teoria che la poligamia è meglio della monogamia per l’evoluzione della specie, avendone una conferma importante. E non ce la faccio proprio a evitare di dire ai maschi della terra di non ricavare lietezza affrettata da questa storia: per averne frutti devono trasformarsi nel ragno di kafkiana memoria o giù di lì. Patatine fritte Le patatine fritte rotonde, sottili e croccanti furono inventate da George Crum, un cuoco americano. Un giorno un cliente troppo esigente mandò indietro ben tre volte un piatto di patatine fritte, allora George per vendicarsi gli tagliò le patate a fette sottilissime in modo che venissero talmente croccanti da non poterle mangiare con la forchetta e le condì con molto sale, il cliente le apprezzò talmente che ne volle altri due piatti. Le patatine fritte fecero diventare il ristorante famoso; così, un giorno, George Crum aprì un ristorante tutto suo e lì dava in omaggio un piatto di patatine ai suoi clienti. Il velcro Il sistema di chiusura uncino e asola originale fu inventato nel 1948 dall’ingegnere elettrico svizzero George de Mestral, che lo
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brevettò nel 1955 e successivamente ne affinò e sviluppò la fabbricazione, fino al lancio sul mercato verso la fine degli anni ‘50. L’idea gli venne di ritorno da un passeggiata in campagna. Arrivato a casa si accorse di avere dei minuscoli fiori rossi (fiori di bardana) attaccati alla giacca. Colto dalla curiosità, li analizzò al microscopio e scoprì che erano fiori che sul calice avevano dei minuscoli uncini, che permettevano la loro diffusione incastrandosi ovunque, anche nelle anse formate dai peli del tessuto della giacca. Così De Mestral sviluppò un sistema di chiusura composto da due elementi: una striscia di stoffa lineare con minuscoli uncini che poteva “accoppiarsi” con un’altra striscia di stoffa provvista di minuscole asole; i due elementi si attaccavano temporaneamente, fino a quando venivano separati con un gesto simile a uno strappo. Zuzzurellando ancora sul tema ho scoperto anche un delicato film americano che aveva per trama la serendipità. Una tisana allo zenzero, un chilo di cioccolata e via su you tube a recuperarmi con Quando l’amore è magia. Il film narra le vicende di Jonathan e Sara che in pieno shopping s’incontrano per comprare dei guanti. Fino ad allora perfetti sconosciuti, i due vengono travolti da una reciproca ed irresistibile attrazione e, nonostante siano impegnati entrambi in altre relazioni, decidono di trascorrere la serata insieme vagando senza mèta per Manhattan senza neppure scambiarsi i nomi. Quando la notte sta per finire Jonathan, oramai innamorato, propone di continuare a vedersi mentre Sarah, titubante, propende per un’altra soluzione: lasciare che sia il destino a decidere del loro futuro. Se sono fatti per stare insieme, finiranno sicuramente per ritrovarsi. Galeotta una banconota e galeotto un libro. La sera, quando mi racconto i fatti che la realtà spesso nega, ho ripensato al film e sono scoppiato in una risata così fragorosa che ha svegliato Vittoria, la mia compagna da una cinquantina d’anni, e non ho potuto non raccontarle che la risata era dovuta all’episodio che ci fece incontrare. Avevo vent’anni, ero dolce, tenero, maledettamente imbranato, già lavoravo ma mi sentivo un piccolo calimero nero in quella stagione del boom economico, caotica e arrembante. Quel giorno Tino, un collega di lavoro che mi aveva preso a ben volere, durante la pausa del pasto mi disse che aveva due biglietti per una partita di calcio e mi costrinse ad accompagnarlo, malgrado i miei reiterati tentativi per non andare. Finita la partita non mi parve vero di salutarlo ma lui riuscì a trascinarmi in una festa da ballo che dava una sua cara amica, soggetto a me sconosciuto. Ovviamente mi misi a far da tappezzeria davanti a quelle rockettare scatenate. Poi vidi una dolce signora in un angolo e decisi di fare un lento con lei. Ballando come un orso ispido, per darmi un tono, mi misi a criticare quell’orda selvaggia che si muoveva al ritmo di musiche scatenate e le indicai quella che mi sembrava la “peggiore”…mi guardò divertita e mi disse “è mia figlia”…allora, per rimediare, appena misero un lento mi precipitai da lei che accettò di ballare con me… nella sala echeggiavano le note della canzone di Paoli, cantata da Mina “Il cielo in una stanza”, durante il ballo non sapevo proprio cosa dirle così, sempre per darmi un tono, le chiesi “Tomorrow do you want come with me to Piper?”, stavo andando a scuola d’inglese…mai lo avrei pensato ma la peperina mi disse di sì ed è da cinquanta e passa anni che rido di quel tenero imbranato. Viva la serendipità!!!! Francesco Mancuso
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Castello di Bracciano: rilievi allo scanner laser
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Intervista all’architetto Cecilia Sodano sul progetto di ricerca in corso i sono cose ancora da sapere sul Castello di Bracciano, uno dei 10 manieri più amati al mondo? Senz’altro sì. In particolare per quanto riguarda la sua evoluzione architettonica. Al riguardo una interessante ed innovativa ricerca è in corso. In questa intervista, Cecilia Sodano, architetto e storico dell’arte, è direttore del Museo Civico di Bracciano, dirigente del settore Opere architettoniche e beni culturali del Comune di Bracciano, anticipa a Gente di Bracciano, alcune elementi emersi. La tematica è stata oggetto di una conferenza che la stessa Sodano ha tenuto il 14 ottobre nell’ambito delle conferenze della Forum Clodii.
Architetto Sodano, come nasce il progetto di ricerca sul castello di Bracciano? Il progetto nasce a seguito della mia collaborazione con alcuni docenti della facoltà di architettura dell’Università Sapienza, e in particolare con i professori Giovanni Carbonara e Nicola Santopuoli. Nel 2012 è stata stipulata una convenzione tra il Comune di Bracciano, Sapienza Università di Roma e la famiglia Odescalchi finalizzata allo studio del castello, del centro storico di Bracciano e dei suoi sistemi di fortificazione. In particolare, per quanto riguarda il castello l’Università ha garantito lo studio della parte fisica e materica del castello realizzando il rilievo architettonico, le necessarie indagini diagnostiche e una sistematica campagna fotografica mentre io, come referente comunale, mi sto occupando della ricerca storico archivistica ed iconografica. Quali sono le prime ipotesi interpretative emerse dallo studio sul castello? L’ipotesi più interessante è quella attributiva. La ricognizione della bibliografia esistente sul castello, piuttosto vasta, ha fatto emergere le ipotesi delineate da alcuni studiosi ottocenteschi, che attribuiscono la progettazione del castello alle maestranze toscane che hanno lavorato per Sisto IV Della Rovere, il papa che ha fatto costruire la cappella Sistina. Tra queste ipotesi la più accreditata, delineata sia da Borsari e Ojetti nella loro guida del castello nel 1895 che da Raffaele Erculei nell’articolo La rocca di Bracciano contenuto nel numero di «Arte Italiana» del settembre 1896, è quella che attribuisce il castello a Giovannino de’ Dolci, forse in collaborazione con Baccio Pontelli dopo il 1482. Per quel che ho potuto capire dai colloqui avuti con lui sembra essere di questo avviso anche il professor Paolo Alei, dell’Università di Los Angeles in Rome, che pure ha studiato il castello e a cura del quale sta per essere pubblicato un importante contributo. Va comun-
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Fig. 1- L’interno di quella che nel XIII secolo era la sala principale della rocca
que considerato che nel Quattrocento il processo creativo di un palazzo, inteso come costruzione fisica e concettuale, era frutto del complesso scambio di idee tra mecenati, architetti e umanisti e che il committente ricopriva spesso, in questo processo, un ruolo fondamentale. L’architetto, anche se era un tecnico di alta levatura, non aveva necessariamente un ruolo rigidamente distinto e separato dagli esecutori, come sarà successivamente. Ritengo che la costruzione del castello di Bracciano sia stata fortemente indirizzata da Napoleone ma soprattutto da Gentil Virginio Orsini, per volontà del quale il manufatto è stato portato a termine dal 1480, dopo la morte di Napoleone suo padre. Sulla base delle fonti storiche e dell’osservazione del monumento è stato possibile delineare altre interessanti ipotesi, che andranno verificate con lo studio dei documenti d’archivio: la presenza di una loggia affacciante verso il lago, costruita tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo ed oggi scomparsa, che si vede molto bene nel noto dipinto di Paul Bril del 1620 (fig. 2) e l’esistenza di un secondo porticato nel cortile d’onore, costruito probabilmente intorno al 1560. Questo loggiato era situato al primo piano, dove oggi sbarca la seconda rampa dello scalone costruito tra il 1890 e il 1896. Se ne intuisce la forma in un disegno realizzato nel 1824 da Bernardino Honorati (fig. 3), nobile di Jesi probabilmente ospite del principe Torlonia, anche se nel
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disegno il loggiato, al di sotto del quale si diparte una scala, appare in parte tamponato. Quali sono i risultati attesi dai rilievi effettuati con lo scanner? Il risultato atteso è quello di ottenere il rilievo dell’intero castello, indispensabile per il suo studio. Il rilievo di un monumento è un elemento essenziale per la sua conoscenza. Solo l’integrazione dei dati metrici e materici (spessore delle murature, disposizione delle tessiture murarie, ecc.) con quelli provenienti dallo studio delle fonti archivistiche e iconografiche permette la conoscenza completa del manufatto e la comprensione delle sue fasi di crescita e delle modifiche subite nel tempo. Il castello è un edificio molto grande e articolato e questo comporta una sostanziale difficoltà nel rilevarlo con i metodi tradizionali, che consistono nel prendere tutte le misure e nel restituirle graficamente con il sistema delle triangolazioni. Per questo l’ultimo rilievo grafico del monumento, per altro molto ben fatto, è stato effettuato dall’architetto Raffaele Ojetti alla fine dell’Ottocento per progettare i lavori di restauro. L’uso della tecnica dello scanner laser ha permesso all’Università Sapienza di portare a termine l’intero rilievo del castello in soli tre giorni. Lo scanner laser funziona così: la macchina invia un breve impulso di luce laser sull’oggetto da rilevare e deduce la distanza dal tempo necessario al segnale per ritornare all’apparecchio dopo essere stato riflesso. Essa può misurare decine di migliaia di punti al secondo, restituendo “nuvole di punti”, ognuno di coordinate x,y,z, che permettono di descrivere nel dettaglio la superficie tridimensionale dell’oggetto rilevato. L’Università ha già sviluppato a partire dalle nuvole di punti tutte le planimetrie ed è ora in corso la restituzione dei prospetti e delle sezioni. Sulla base del rilievo effettuato con lo scanner laser abbiamo poi proceduto a rilevare i dettagli ed alcune parti specifiche, come il nucleo medievale, con il sistema metrico tradizionale. Sono emerse nuove immagini e disegni sul castello. Quali novità hanno portato? Oltre ad effettuare il rilievo grafico del monumento, l’Università ha condotto alcune indagini strumentali. In particolare sono state effettuate delle termografie e delle indagini con il georadar che hanno confermato la presenza, all’interno del castello, di alcuni corpi di fabbrica che oggi non esistono più ma che sono visibili in alcune planimetrie antiche che io avevo reperito in archivio storico. Come dicevo, è l’incrocio dei dati fisici con quelli
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Fig. 2 - La loggia perduta: comparazione del particolare visibile nel dipinto di Paul Bril (1620 ca) e veduta del prospetto sud est del castello con la tamponatura in mattoni che ne indica la posizione.
archivistici che può dare i risultati più interessanti e significativi. La Rocca dei Prefetti di Vico, nucleo originario del castello quali elementi aveva? La rocca era parte del castrum. Con tale denominazione veniva denominata una struttura difensiva che aveva elementi ben definiti: le mura, una torre, la rocca e/o il palazzo. Anche il castrum di Bracciano aveva una cinta difensiva, della quale sono ancora visibili tracce su via Fioravanti, una torre e la rocca. All’interno della rocca, oggi usata come magazzino, sono presenti elementi architettonici di grande interesse, che permettono di datarla al XIII secolo. è ancora esistente una grande sala coperta con volta a botte, che in origine aveva un solaio in legno. Purtroppo la parte medievale del castello è stata molto rimaneggiata nell’Ottocento, inoltre la sommità della torre è crollata nel XVIII secolo e le pietre sono state riutilizzate per costruire nuove murature, sempre nella parte medievale: ciò crea una situazione confusa, che non permette la corretta lettura dei paramenti murari. Nel XVI secolo la rocca è stata usata come prigione, deposito di armi e sede della guardia del Duca, come attestano alcuni inventari di quel secolo. Ci sono spazi ancora inesplorati del castello? Non che io sappia.
Quando ci saranno i risultati definitivi di questo progetto? I primi risultati del lavoro fatto fino ad ora con l’Università Sapienza, che danno unicamente della ricognizione bibliografica e dell’osservazione del monumento in quanto la ricerca archivistica è ancora in corso, sono stati pubblicati un articolo apparso in due parti sui numeri 143 (settembre-ottobre 2017) e 144 (novembre-dicembre 2017) della rivista Recupero e Conservazione Magazine. è prevista la realizzazione di un libro a cura dell’Università e del Comune di Bracciano; speriamo di poterlo pubblicare entro il 2018. Graziarosa Villani
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Fig. 3 - Bernardino Honorati, veduta del cortile del castello di Bracciano, acquerello su carta, mm 187x226 (Comune di Jesi, Biblioteca comunale Planettiana, Fondo disegni Honorati, cartella D39). Il disegno documenta alcuni elementi effettivamente esistiti nel 1824, come la tamponatura del loggiato a due ordini e la scala sotto la loggia, eliminati da Ojetti nel 1890 perché ritenuti non originari.
Fig. 4 - La planimetria del castello ottenuta con il rilievo scanner laser mediante restituzione della nuvola di punti.
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Aqva Traiana e Aqva Pavla: un acquedotto lungo 2000 anni
Emiliano Minnucci: “Per una Regione Lazio attenta ai cittadini”
Dal lago di Bracciano a Roma
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Acquedotto Traiano - Paolo, Fosso di Grotte Renara, Bracciano
imperatore Traiano collegò numerose sorgenti intorno al lago di Bracciano per condurre acqua potabile a Roma, all’epoca già rifornita da nove acquedotti. Ad oggi, l’imponente opera idraulica, talvolta nascosta nella boscaglia, talora visibile lungo le strade moderne, non è ben conosciuta e la sua storia non è stata ancora ricostruita in modo esaustivo. Si conosce a grandi linee la sua complessa struttura: l’acquedotto è composto di numerosi condotti che, partendo da più camere di captazione, e da sbarramenti all’interno dei fossi, si uniscono convergendo nel condotto principale. Il punto di partenza è Bracciano, lungo il Fosso di Grotte Renara. L’aqva Traiana entrò in funzione nel 109, fu un’opera voluta e finanziata da Traiano stesso. In epoca romana essa dovette ricevere un’attenzione particolare, con una continua manutenzione e costanti controlli, ma cadde in disuso in un momento imprecisato del medioevo e fu abban-
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donato per qualche secolo. Con Istromento 23 agosto 1608 Virginio Orsini, secondo duca di Bracciano e possessore del territorio lacuale, cedette a Paolo V alcune sorgenti e condotti antichi del suo ducato per fare in modo che a Roma arrivasse, nuovamente, ulteriore acqua potabile per rifornire mole, opifici e, soprattutto, il fontanone sul Gianicolo. Al pontefice furono concesse solo alcune sorgenti dell’aqva Traiana e, sebbene piuttosto articolato, aveva una portata minore. Da quel momento il nome cambiò in aqva Pavla. Nella seconda metà del XVII secolo Flavio Orsini chiese alla Reverenda Camera Apostolica di introdurre l’acqua del lago di Bracciano nel condotto dell’aqva Pavla, mescolandola a quella sorgiva, per servizio e uso della città di Roma. Fu accolta la sua richiesta essendo un’iniziativa di pubblica utilità, ma a discapito della qualità, da ciò deriva il detto popolare valere quanto l’acqua Paola.
Filippo Zama l’acquerellista che non ti aspetti
Intervista al candidato alle elezioni regionali del 4 marzo
Un secondo potenziamento si ebbe tra il 1825 e il 1830, quando fu captata dapprima solo l’acqua dal lago di Martignano, poi fu realizzato un prolungamento del condotto fino al lago di Stracciacappa e un nuovo allaccio dal lago di Martignano. L’opera fu denominata Nuovo acquedotto Alsietino per distinguerla dall’Aqua Alsietina, voluta da Augusto per la naumachia in Trastevere prendendo l’acqua insalubre dal lago di Martignano (in antichità Lacus Alsietinus). Nel 2013 chi scrive ha avviato un progetto di ricerca indipendente volto ad approfondire la conoscenza della storia, del percorso e della struttura dell’intero acquedotto. Sono stati percorsi svariati chilometri sottoterra e in superficie, da Pisciarelli, dove l’acquedotto ha inizio, fino ad arrivare al labirinto delle Sette Botti, e intorno al lago di Martignano. Le camere di captazione mostrano delle peculiarità imposte, di certo, dalle caratteristiche naturali delle sorgenti e del territorio circostante. Di particolare interesse è la sorgente indicata con l’idronimo Acqua di Venere, luogo di culto delle acque, preesistente e inglobato da Traiano: si tratta di un complesso architettonico sotterraneo dedicato verosimilmente a Venere, dea della bellezza, dell’amore e della fertilità. In tutto il circondario del lago non si ha notizia di una struttura analoga, conosciamo solo il ninfeo di S. Fiora, a Manziana, considerato erroneamente il caput aquae dell’aqva Traiana, ma esso non era altro che uno dei numerosi capi d’acqua, abbandonato definitivamente nel medioevo e mai utilizzato da Paolo V. Sono interessanti le tracce epigrafiche trovate all’interno dei condotti: all’epoca di Traiano appartengono i bolli laterizi, ossia i marchi di fabbrica su mattoni o bipedali, dai quali apprendiamo quali fossero le officine produttrici che, tra l’altro, trovano riscontro nel Foro di Traiano. All’epoca di Paolo V appartengono delle incisioni sull’intonaco di alcune camere di captazione. Le ricerche continuano mostrando, ogni giorno, la ricchezza storica di uno dei tesori del passato dimenticato e offrendo un grande potenziale culturale degno di essere riportato alla memoria, un vanto per il territorio sabatino. Elena Felluca
n artista che non ti aspetti. Dalle lastre di radiologia a delicati acquerelli il passo non è breve. Eppure il dirigente radiologo in forza all’ospedale di Bracciano, sindacalista, è anche un raffinato acquerellista che riesce con i suoi colori a restituire agli spettatori delicate immagini dai toni evanescenti ma allo stesso tempo evocativi. La sua “arte” la si è potuta ammirare nella personale “Nuvole” allestita dal 27 gennaio al 10 febbraio all’interno dell’innovativo locale Spezialithè di Bracciano in piazza degli Olivi 10. Molti paesaggi, ma anche ritratti e scene di vita che Zama traduce in colore servendosi prevalentemente di fotografie. Un bravo medico, un altrettanto bravo artista. Delicato e suadente. Graziarosa Villani
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miliano Minnucci, già sindaco di Anguillara e deputato Dem uscente, è candidato alle elezioni regionali del 4 marzo prossimo. Gente di Bracciano lo ha intervistato. Regione e territorio. In quali ambiti intervenire? “Senz’altro sulle vere esigenze dei cittadini: trasporti, ambiente e sanità su tutti. Per la sanità, con la Regione ormai finalmente fuori dal commissariamento, la mission è ridurre le liste di attesa con l’obiettivo di azzerarle definitivamente. Puntiamo poi al rilancio del Padre Pio di Bracciano, e dei presidi sanitari sul territorio. Riguardo il territorio sabatino è necessario intervenire sulla FL3 garantendo il potenziamento concreto del servizio. Non possiamo poi ignorare il trasporto locale su gomma che merita di essere incentivato. è arrivato poi il momento di rafforzare il rapporto Roma - Area Metropolitana soprattutto sul piano dei servizi ai cittadini. Viabilità, trasporti e servizio idrico devono essere il cuore di una riforma che consideri il Lazio come un unicum promuovendo una sana sinergia tra la Roma e i 120 comuni intorno. è una sfida da affrontare con grande coraggio per uscire dal tunnel di una governance confusa maturata sia per il transito di funzioni e personale da un plesso amministrativo all’altro, sia per una concezione vecchia che fonda le sue radici nella logica del ‘dentro e fuori’ il Grande Raccordo Anulare”. Ha firmato assieme al Comitato Difesa Lago Bracciano la denunciaquerela per la tutela del lago. Quali azioni farete nei confronti di Acea? “La battaglia per il lago ha rappresentato il cuore della mia attività parlamentare, perlomeno in quest’ultimo anno. Evitando di fare l’elenco delle azioni di lotta e a salvaguardia della risorsa ambientale promosse, che sono peraltro sotto gli occhi di tutti, è importante fare un punto della situazione. Dopo i ricorsi al Tribunale delle acque da parte della sindaca Raggi, la Regione ha bloccato definitivamente le captazioni di Acea obbligandola a considerare il lago di Bracciano come una riserva idrica solo emergenziale. Il dato di fatto è questo, non è un altro. Se Acea, confortata dall’atteggiamento superficiale e subdolo della giunta capitolina grillina, voleva proseguire ininterrottamente le captazioni, la Regione, incentivata dalla spinta della nostra protesta, è scesa in campo con azioni determinate mettendo davanti alle proprie responsabilità la società di Piazzale Ostiense. Il concetto fondamentale che Raggi ha cercato di sfruttare maldestramente lanciando un messaggio ipocrita e sostanzialmente falso è stato quello di far passare la crisi idrica come una sfida all’ultima goccia tra romani e cittadini del lago di Bracciano. La battaglia non è stata una pretestuosa difesa del territorio ma, piuttosto, un’azione coordinata utile a costringere Acea a mettere in campo investimenti seri per garantire un’adeguata manutenzione della rete idrica. Oggi, per quanto abbiamo fatto con passione e responsabilità, possiamo dire che siamo riusciti a sollevare la questione, con Acea obbligata a mettere in piedi un piano di investimenti adeguato alle esigenze dei territori. Il risultato lo abbiamo raggiunto, l’attenzione, comunque, deve restare inevitabilmente alta. In questo senso, ritengo necessario proseguire il percorso verso l’attuazione della legge regionale sull’acqua pubblica”. Lei è primo firmatario della legge di istituzione della Giornata delle Vittime della Strada. Ci saranno anche stanziamenti specifici? “Ecco un altro obiettivo centrato con forza e su input di tutti quei cittadini, familiari delle vittime, con i quali in questi anni ho collaborato per la redazione di una legge dall’alto valore civile. La Giornata non deve essere una semplice data commemorativa ma dovrà alimentare piuttosto un processo aperto di sensibilizzazione e prevenzione. Nelle scuole e con la collaborazione delle forze dell’ordine, degli operatori sanitari e delle associazioni di settore dobbiamo avviare iniziative serie e utili a incentivare una nuova cultura di guida, rigidamente attenta al codice della strada. Un ruolo fondamentale deve essere ricoperto dalle amministrazioni locali che avranno il dovere di mettere in cantiere delle proposte concrete utilizzando risorse umane, strumentali e finanziarie. Aprire un capitolo di bilancio ad hoc sarebbe un’idea più che percorribile”. Dal 2021 è in programma il raddoppio dei binari da Cesano a Vigna di Valle. Alle parole seguiranno i fatti? “Da deputato, anche per il mio impegno nella Commissione Trasporti, ho prestato grossa attenzione ai trasporti pubblici regionali mettendo in evi-
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denza sia i punti deboli che quelli di forza. Con Zingaretti abbiamo fatto un importante passo in avanti garantendo ai pendolari un servizio più attento. Possiamo dirlo a voce alta non per partigianeria ma riferendoci a fatti concreti dettati anche dall’ultimo report di Legambiente. Il Lazio nel 2017 ha garantito ai suoi pendolari un serio miglioramento delle condizioni di trasporto sulle linee Trenitalia. Un risultato importante figlio sia della sostituzione del materiale rotabile, grazie ai fondi della Regione Lazio, e sia del nuovo Contratto di servizio regionale che ha permesso l’arrivo di 114 carrozze Vivalto, 24 treni Jazz, 26 nuovi locomotori e il revamping di 46 TAF. Parliamo di nuovi convogli e di investimenti sostanziali della rete ferroviaria a partire dalla Roma - Viterbo e dal tratto tra Cesano e Bracciano dove, appunto, è previsto il raddoppio dei binari. Partendo da questa premessa, in cui è necessario annoverare anche il ‘Patto per il Lazio’ sottoscritto nel 2015 tra la Regione Lazio e il Governo nazionale, dobbiamo essere necessariamente fiduciosi dell’inizio dei lavori su una tratta strategica e ad alta frequentazione, ma, allo stesso tempo, dobbiamo continuare a mantenere alta l’attenzione in modo da far rispettare i tempi e garantire un’elevata qualità dei lavori”. Pensa di intervenire sulla disparità di trattamento in fatto di tariffe ferroviarie. Perché i cittadini che pure fanno parte della Città Metropolitana dovrebbero continuare a pagare di più di quelli romani in fatto di biglietti e abbonamenti ferroviari? “La questione, molto sentita, rientra nella logica ormai anacronistica di considerare l’hinterland un corpo estraneo rispetto alla stessa Capitale. Una logica che merita di essere rivisitata ponendo Roma in continuità coi suoi territori e viceversa. La giusta armoniosità dei territorio della regione passa anche da questo tema: per questo ritengo fondamentale incentivare e potenziare l’azione combinata tra FS, Atac e Cotral per uniformare le ferrovie regionali al servizio metropolitano. Non solo sul piano dei servizi ma anche su quello tariffario”. Tutto il settore formazione professionale e accesso al lavoro è allo sbando. Come ritenete di intervenire? “Ecco un altro tema scottante, punto focale di ogni campagna elettorale. Parlare di crisi di lavoro è inevitabile ma, perlomeno per il Lazio, dobbiamo fare delle differenze, riferendoci a dati senza demagogia e tralasciando ogni forma di populismo. Contiamo +63mila di occupati nel terzo trimestre 2017 rispetto al terzo trimestre 2016 per un totale che supera i 2,4 milioni, +2,7% del Lazio rispetto alla media italiana di occupati che si attesta a +1,3%, 208mila occupati in più rispetto al 2012 con un tasso di crescita del 9,4% a fronte del dato nazionale che si attesta al +2,5%: gli ultimi dati Istat sul lavoro, riferiti al terzo trimestre 2017, parlano di un Lazio in forte crescita sul piano occupazionale. Risultati importanti che devono essere sostenuti anche con un rafforzamento delle politiche avviate a sostegno della formazione e accesso al lavoro. Parliamo di “Garanzia giovani”, dei progetti per l’orientamento specialistico, di “Torno subito”, della staffetta generazionale e dello stesso contratto di mestiere. Continuare a investire su questi strumenti vuol dire garantire occupazione e contrastare la fuga all’estero dei giovani”. Sono sempre più frequenti azioni fasciste e neofasciste. Come muoversi in difesa dei principi costituzionali? “Il discorso del presidente Mattarella per la Giornata della Memoria lancia senza ombra di dubbio la linea da seguire per contrastare il fenomeno che, da sempre, rappresenta un vero rischio per la tenuta democratica del Paese e della società. Il Presidente ci ha legittimamente detto che focolai di odio, di intolleranza, di razzismo e di antisemitismo sono sempre presenti in Italia così come in tante parti del mondo. Malgrado questo, però, non devono essere accreditati di un peso maggiore di quel che hanno perché, sia l’Italia che l’Unione Europea, hanno dato ampia dimostrazione di avere gli anticorpi necessari per combatterli. Sarebbe un errore capitale minimizzare la loro pericolosità. Dobbiamo mantenere alta l’attenzione a partire dalle Istituzioni e dalle stesse Amministrazioni locali che devono condannare con forza ogni eventuale episodio neofascista, anche il più piccolo, per ribadire il messaggio sano e univoco a tutela della democrazia, della collettività e delle giovani generazioni che, purtroppo, crescono in un clima populista che alimenta principi sbagliati come odio e intolleranza”. Graziarosa Villani
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Il Dinosauro
Ma...la storia, che “storia” è?
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h! La storia, la storia…quante immagini, personaggi, avvenimenti, guerre, rivoluzioni evoca questa parola. La storia ha avuto sempre un grande fascino e anche oggi, nonostante tanta tecnologia, non lo ha perso. Il perché è facilmente comprensibile: essa racconta le vicende dell’uomo e il suo lungo e spesso faticoso cammino lungo l’arco di migliaia di anni. Ci parla delle sue conquiste e delle sue sconfitte. Ciascuno di noi sente che la storia, in quanto memoria collettiva di un popolo, in parte gli appartiene. Pensate un po’: siamo nella storia!! Ognuno di noi, sono sicuro, ne ricorda un “pezzo” e certamente si è appassionato a quella parte che più lo ha coinvolto emotivamente. Allora l’ora di storia appariva meno noiosa del solito e gli sbadigli si potevano contare sulle dita di una sola mano. Però, sì c’è un però…insieme ai fatti c’erano da ricordare le date. Ricordate? Un incubo. “Quando è avvenuta la battaglia di…”. Silenzio. “Quando è stato firmato l’armistizio di…?”. Silenzio. Le risposte, quando arrivavano erano un confuso balbettio. “1800, 1900, no, forse il 1500 e qualcosa”. Le occhiatacce del professore facevano capire che quelle non erano giuste. Allora si “saltavano” secoli, trentenni, insomma si andava, come suol dirsi, alla ceca. Neppure i suggerimenti che il compagno di banco lanciava, mettendosi furbescamente le mani davanti alla bocca facendo finta di tossire, andavano a segno. “Silenzio! Non suggerite” tuonava il professore e aggiungeva con tono minaccioso “studiate”. Dall’ultimo banco “è na parola”. Il povero professore, tutto rosso in viso, esasperato dopo tanti “salti” di secoli e millenni esclamava: “la data giusta è…”. Un “oh…” di meraviglia la classe. Qualcuno sottovoce “chi l’avrebbe mai detto!!!”. Altri tempi. Oggi la storia non è molto cambiata, quello che è cambiato è lo
spirito degli alunni. L’incubo delle date è morto e sepolto e i “personaggi” attori della storia si sono, per così dire, attualizzati. “Chi era Napoleone?”. Silenzio di tomba. Dal terzo banco “che so ste domande difficili”. Finalmente qualcuno, timidamente alza il dito. “Meno male che c’è qualcuno che studia” esclama soddisfatto il professore. “Allora?”, “Professò l’ho visto ieri sera in televisione”, “Come?”, “Sì è il bassista del complesso rock La Bastiglia, ammazza, professò, sto Napoleone va forte!”. Tutti a ridere. La fantasia dei ragazzi non ha limite! Ditemi “se non c’è da strapparsi i capelli”. Beh! Adesso sapete il perché della “pelata” di molti professori. Ma allora la storia che “storia” è? E come spiegarla? Eh!! Sembra facile…ma…Il professore spiega la storia romana e si sofferma a parlare di Muzio Scevola. La sua spiegazione appassionata coinvolge gli alunni. “Ragazzi pensate la sua mano resta ferma sul braciere, la fiamma l’avvolge e la brucia lentamente: lo sguardo del romano è impassibile sembra insensibile al dolore, solo gocce di sudore imperlano la sua fronte. Il re Porsenna e tutti i presenti sono sconcertati. La mano continua a bruciare, è diventata un tizzone. Solo allora Muzio la ritira dal braciere. “Ho punito la mano che ha sbagliato. Ma altri, più coraggiosi di me non sbaglieranno” esclama Muzio con voce ferma”. La classe è ammutolita. Una voce dall’ultimo banco. “Professò, me sà che sti Romani so proprio bugiardi”, e “perché?” chiede il professore. “L’altro ieri stavo all’orto de mi nonna a coce le sarsicce, me so scottato na mano, mi nonna me c’ha messo mezzo tubetto de pomata, ma ancora me brucia. A professò, sti romani so proprio bugiardi!”. Un coro di risate seppellisce il povero professore che alza gli occhi al cielo…Ma la storia, che storia è? Luigi Di Giampaolo
ecchi e nuovi che lanciano messaggi in cui promesse e accuse si accavallano senza una logica precisa rivelando la scarsa capacità di dare vita ad un confronto davvero democratico che connota, ahimè, il nostro Paese. A complicare il quadro generale c’è anche la nuova legge elettorale che reintroduce in parte il sistema proporzionale complicato da una serie di sbarramenti per cui chi non raggiunge una certa percentuale di voti rimane escluso. Provando a sintetizzare le novità del “Rosatellum” (così è stata definita la nuova legge elettorale) si può dire che circa un terzo dei seggi alla Camera (231 su 630) e al Senato (109 su 315) saranno assegnati col sistema maggioritario mentre i restanti saranno ripartiti proporzionalmente a condizione che le coalizioni raggiungano, alla Camera, il 10 per cento dei voti su base nazionale e il 3 per cento le singole liste (coalizzate e no). Per il Senato saranno ammesse anche le liste che hanno raggiunto il 20 per cento dei voti in almeno una regione. Le liste che non raggiungono l’1 per cento non portano voti al loro schieramento. Alcune novità rilevanti riguardano l’introduzione di norme per la parità di genere e il divieto di voto disgiunto, ovvero la possibilità di votare un candidato nel collegio uninominale e una lista a lui non collegata nella parte proporzionale, creando un abbinamento candidato-partito che in precedenza non esisteva. A prescindere dalla reale capacità di aggregazione che le formazioni elettorali dimostreranno con il risultato del voto colpisce la facilità con cui viaggiano sui principali media, affermazioni ingiuriose contro chiunque non sia dalla stessa parte di chi parla.
E ciò accade probabilmente perché oggi più che mai viviamo immersi in una cultura che si nutre di slogan che, come si sa, più sono esasperati e più colpiscono alimentando un pensare in bianco e nero senza capacità di distinguere la vasta gamma di grigi. è la cultura del conformismo che, a dispetto di quanto si vorrebbe manifestare, caratterizza il discorso pubblico, politico e non. Ciò che caratterizza la comunicazione sociale della caotica campagna elettorale in pieno svolgimento è l’assenza del gusto e del piacere per la discussione, per una discussione vera tra opinioni diverse che interloquiscono tra loro nel mutuo rispetto rinunciando al vuoto degli slogan e dei brandelli smozzicati di pensiero. Così, al di fuori della finta rissa politica, il conformismo regna incontrastato: nessuna posizione chiara e realistica su temi fondamentali della realtà italiana, solo punti di vista demolizionisti verso il passato o forzatamente ottimisti verso un futuro in realtà talmente incerto da preoccupare addirittura i vertici dell’Unione Europea. Triste da dire, ma sembra che in questo Paese regnino incontrastati litigiosità e luoghi comuni sostenuti da diverse parti politiche con toni “estremisti” che non arrivano a toccare il cuore degli italiani ormai completamente disillusi e sfiduciati, con il serio rischio di un aumento dell’assenteismo tutt’altro che rassicurante. Eppure nel resto del mondo, su molte questioni importanti d’interesse pubblico ci sono posizioni anche molto diverse che si scontrano e colloquiano ad armi pari tra di loro, legittimando il punto di vista diverso, facendo spazio al dissenziente. Qui purtroppo non succede. Biancamaria Alberi
Tempo di elezioni tra promesse e insulti
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me quelle anteriori avevano ceduto pareva s’inchinasse per farsi vedere ubbidiente e per suscitare tenerezza diventava sempre più piccolo. Giovannino, appassionato zoologo, lo vide, lo osservò poi disse alla mamma: “si sono estinti così, schiacciati dal loro peso non riuscendo più a rialzarsi, questo non si regge più in piedi, è a terra”. “Lasciamolo stare Giovanni”, gli disse la madre. “è un rettile e quindi sta appoggiato sulla pancia, sulla quale striscia spostandosi”. “No, mamma, si sente male, sta sul punto di svenire”. “Fa apposta Giovanni”. “Non è un trucco mamma: gli mancano le forze. Lo prendo in braccio...si affloscia”. “Si rilassa perché ormai è nostro: ci siamo cascati figliolo”. Giunti a casa, il bimbo prese la pompa della sua bici e disse al nuovo venuto: “Non avere paura, ti farò molte iniezioni di seguito alla pancia. Ecco...si muove, da’ segni di vita...sta puntando le zampe…si sforza”. E proseguì l’opera di rianimazione iniettandogli ossigeno ed azoto. “Continuerai a crescere”, gli diceva durante la cura. “Finché, questo palazzo comincerà a scricchiolare ed a frantumarsi come un uovo”. “Giovanni!!”. “Va bene, mamma”. “Allora andremo in giardino. La tua pancia crescerà a dismisura; diventerà un enorme pallone che s’innalzerà nell’aria. Io starò sotto nella navicella. Andremo indietro nel tempo fino al tuo, nell’era mesozoica”. “Dove andrai?!”. “Va bene, mamma”. “Allora ti porterò a crescere al lago, dove diventerai un mostro”. “Giovanni!” “Mamma! Non ti va bene mai niente. Vieni a vedere: ha smesso di crescere perché lo hai spaventato. è come se non avesse un posto dove…svilupparsi in pace”. “No, Giovannino: è rimasto un cuccioletto perché, vuole stare con te. Se tu continui a gonfiarlo diventerà un adulto. Sarebbe come se tu lo mandassi via. è giudizioso ed affettuoso”. E lo carezzarono sulla testa e sul muso. Ettore De Santis
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Foto Franco Bernardini
n un negozio dove si vendeva tutto per bambini si trovava anche un piccolo dinosauro di gomma, ma nessuna mamma lo comprava con la scusa che il rettile crescendo sarebbe diventato chissà quanto grande. Il dinosauro sospirava, s’imbronciava, piegava il capo in avanti da una parte e dall’altra, era malfermo sulle zampe e sicco-
Il saggio di Biancamaria Alberi L’Estremismo al femminile arriva alla IV edizione
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iolenza contro la donna, femminicidi, temi di attualità che il saggio “L’Estremismo al Femminile” di Biancamaria Alberi analizza alla luce del mito e della cronaca. Un lavoro giunto alla IV Edizione che cresce come un working in progress arricchendosi di nuovi spunti e nuovi riflessione. L’opera è stata presentata a Bracciano l’8 gennaio nella sala dell’archivio storico. Ad introdurre la stessa autrice Alberi che ha spiegato la genesi e lo sviluppo della sua analisi. A dare voce con un reading ai personaggi narrati Gianpiero Nardelli, nella sua veste di attore, e l’attrice regista Elena Schnell. La Relazione Finale della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere approvata il 6 febbraio 2018 al Senato chiede la “possibile introduzione di una fattispecie di reato ad hoc in tema di femminicidio, strutturata come omicidio consumato per ragioni “di genere” e cita l’Accademia della Crusca, secondo la quale, il femminicidio si identifica nel “provocare la morte di una donna, bambina o adulta, da parte del proprio compagno, marito, padre o di un uomo qualsiasi, in conseguenza del mancato assoggettamento fisico o psicologico della vittima”. G.V.
Gelateria Pasticceria Enoteca Febbraio 2018
L’Assessore Claudia Marini e Biancamaria Alberi
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Via Principe di Napoli, 9/11 Tel./Fax 06 90804194 www.caffegranditalia.com 15
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