La memoria e vita

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La memoria è vita Appunti sulla cultura popolare del Friuli Venezia Giulia

a cura di Graziella Valeria Rota

Ed .

Š CrCs coeditore- g.E&A

(gruppo edizioni associate ) quaderno n. 1


Foto copertina: “Zuja di More”, 1983 - xilografia, Bruno Chersicla (per gentile concessione) Retro copertina: “Piazza Granda”, 1848 - attualmente Piazza dell’Unità d’Italia 1a Edizione 1984 - “Alla ricerca dell’identità perduta” - produzione Musicoop - Ed. Grafiche Noghere - Muggia TS 2a Edizione 2007 - Centro Promozione - E-mail staff@centropromozione.it Impaginazione e grafica ArteViva Foto archivio Centro Promozione Trascrizioni e ricerche sonore di Graziella V. O. Rota Studio registrazione allegati sonori Claudio Raini Editore Tipografia Triestina - Trieste Coeditore C.r.C.s. progetto g.E&A (gruppo editori associati) - Collana “Quaderni della memoria” Prodotto dal Centro Promozione FVG - Onlus - finalità fundraising Info e richieste: staff@centropromozione.it © C.r.C.s. - Distribuzione via Valdirivo, 30 - Trieste (IT) Stampato nel 2007 dalla Tipografia Triestina - via Milano, 16 - Trieste - tipografiatriestina@gmail.com

Realizzato con il contributo della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia Assessorato Regionale Identità Linguistiche e Migranti, Istruzione e Cultura, Sport, Politiche della Pace e Solidarietà - Servizio Attività Culturali


presentazione Ho cercato d’indirizzare il lettore e la lettrice verso un percorso d’appropriazione delle testimonianze riguardanti la trasmissione orale e scritta sotto vari punti di vista, fatti da studiosi del settore della nostra area geografica il Friuli Venezia Giulia e zone contermini. Il libro è portatore di valori che le persone hanno vissuto e condiviso nella loro vita, e non hanno intendimenti archeologici, per quanto interessanti, ma auspico trasmessi nel futuro perché non trattano il “viva là e ‘po’ bon” che il perbenismo cerca sempre di propinare, ma i principi partecipativi delle genti ai cambiamenti storici, sia quelli subiti sia quelli contrastati. Possiamo dire che sono parte acquisita per alcuni e da acquisire per altri perché la scala dei valori va costruita giorno per giorno, e solo se li analizziamo, comprendiamo e viviamo, trasmettiamo ai giovani l’etica delle scelte responsabili per raccontare quale futuro abbiamo progettato oggi. La parte sonora, il C.D., porta musicalmente l’andamento ritmico e melodicoarmonico tipico della zona già influenzato da una maggiore velocità dei ritmi di vita, pertanto suono urbano, luogo dove il collettivo trae gusto dallo stare insieme, dall’inventare, cantare e suonare nella personale suggestione armonica tratta da capacità di ogni interprete. Il lavoro eseguito, realizzato per il Centro Promozione, ha sempre dei grossi debiti verso coloro che mi hanno preceduto nel trattare la stessa materia formando una stratificazione delle conoscenze alle quali si contribuisce, che riconoscente ringrazio, consapevole della portata di tali valori. Il libro comprende una prima parte già pubblicata già nel 1984, ripresa per essere conosciuta ulteriormente, ed una seconda parte con i testimoni d’oggi nei propri ricordi. “La memoria è vita” proseguirà come collana della memoria attraverso il progetto g.E&A con il CrCs. Le prossime pubblicazioni a stampa e sonore saranno “noi c’eravamo” con testimonianze di donne, e le ricerche effettuaate nell’ex alloggio popolare ”G.Gozzi” con il suo Centro Diurno Graziella Valeria O. Rota


Sommario I Parte “Alla ricerca dell’identità perduta” ed. Musicoop, 1983 Prefazione Edoardo Kanzian pag. 5 Parlare i suoni - Nuria Kanzian. Nota Geografica - Giorgio Valussi. Nota Storica - da Enciclopedia Europea Garzanti. Le Parlate in Regione - Giacomo Devoto/Gabriella Giacomelli. Tradizioni popolari, una scienza - Carlo Tullio Altan. Costumi popolari - Gaetano Perusini. Mestieri che scompaiono. Architettura spontanea: I Casoni - Silvano Bertossi. Ricordi - Adolfo Leghissa. Le donne a Trieste Luisa Crusvar. Canti del popolo Triestino - Bruno Norbedo. Vose de Trieste passada - Alberto Catalan. Stabilimento Balneario Maria. Tipicità del canto popolare Triestino - Claudio Noliani. Stregonerie - Janija Hauphmann. Poesia popolare in Friuli - Pierpaolo Pasolini. Villotta e popolo Friulano - Giampaolo Gri. Fiabe, leggende, barzellette triestine - Gianni Pinguentini. Punti d’incontro tra canto popolare Friulano e Carinziano - Mario Macchi. Caratteristiche del canto popolare del Friuli - Luigi Ciceri. La musica popolare Slovena - Julijan Strajnar. Canti Lagunari - Giuseppe Caprin. Poesie udinesi - Nadia Pauluzzo. Feste Goriziane - Novella Cantarutti. Feste popolari a Staranzano - Giuseppe Francescato. La parola “bisiac”. Gli Sloveni e il folklore, nel Friuli Venezia Giulia. Museo Etnografico di Servola (Trieste) - Dusan Jakomin. Folklore Dignanese, una fiaba popolare Istriana - Anita Forlani. La musica Ciciara degli Istroromeni - Franco Juri. La villotta istriana - Giuseppe Radole. Il canto senza lasciapassare - Dario Marušicˇ. Musica popolare e parlato popolare urbano - Giovanna Marini. I canti popolari del Friuli - Niccolò Tommaseo.

da pag. 6 a pag. 82

II Parte “Testimonianze della memoria oggi” a cura degli Autori, LE VOCI DENTRO di Mario Schiavato, IL GAMBERO ROSSO di Anna Piccioni, IL CAMPEGGIO DI DUTTOGLIANO di Tullio Kezich, INCONTRO CON IOLE BURLO di Marina Moretti, RICORDO DI ONDINA PETEANI di Giovanni Demartis, IL TRIANGOLO ROSSO di Alessio Iurman, perdere lA MEMORIA è perdere IL FUTURO di Graziella V. Rota da pag. 83 • Bibliografia • Discografia • Allegati utili


Edoardo Kanzian Via Piccardi, 51 - Trieste tel. 040 942179/340 6859654

Nato a Trieste, giornalista, pubblicista, operatore culturale, animatore del volontariato culturale. Nel mestiere di vivere, umanista-utopista.


prima parte Prefazione “Cultura popolare” significa sistemi di pensiero, di comportamento, usi, abitudini di vita, creazioni linguistiche e artistiche delle classi subalterne. Sue caratteristiche peculiari sono il localismo e l’oralità, mentre le discipline che la studiano sono sostanzialmente: tradizioni popolari (demologia), antropologia culturale, storia orale. Con un metodo di lavoro pluridisciplinare, perciò, si può realizzare un’analisi critica della presenza umana sul territorio, per dare alla collettività locale la possibilità di riappropriarsi, utilmente per l’oggi, della propria identità culturale e sociale. I recuperi nostalgici di elementi parziali della cultura orale, le operazioni di rivitalizzazione delle tradizioni popolari, sono un fenomeno consumistico e di controllo sociale. Il centro consapevole della persona umana è il punto d’incontro dei rapporti che un essere umano ha con la natura, con se stesso, con le altre persone, con il suo lavoro e la sua condizione sociale. Solo se questi rapporti restano in equilibrio, nonostante i conflitti latenti, la persona può sviluppare le sue migliori potenzialità, realizzarsi. Un fenomeno diffuso in questi nostri anni, caratterizzati dall’equilibrio del terrore per la guerra, è la negazione, soprattutto da parte dei giovani, della realtà oggettiva, con l’invenzione di una realtà soggettiva variabile a seconda dello stato psichico dell’individuo. La ricerca d’identità è una risposta a questa situazione anomala, sollecitata proprio dalla crisi esistenziale che investe la “mondialità”, ideologia dell’industria culturale che uniforma e livella a dimensione planetaria. Canti, danze, fiabe, poesie, indovinelli, proverbi, teatro, feste e usanze secondo il ciclo dell’anno, il ciclo della vita umana; giochi, costumi, arte, medicina, magia, sono i temi di questa raccolta (parziale, di base) di materiali pluridisciplinari. Una ricerca più completa, articolata, documentata, sulle culture popolari del Friuli Venezia Giulia e il loro uso sociale, nel quadro di una politica democratica dei beni culturali, può realizzarsi investendo del problema la Scuola, alla quale soprattutto è dedicata la presente antologia. Trieste, ottobre 1983, Edoardo Kanzian


s.m.f.g.i. pone la pietra inaugurale per la strada ferrata il 14 maggio 1860 E ADESSO CHE GAVEMO LA STRADA FERATA IN MEZA GIORNATA SE VIEN E SE VA. E TICHE, TACHE, TUCHE...

E ADESSO CHE GAVEMO LA STRADA FERATA LA BOBA IN PIGNATA MAI PIù MANCHERà. E TICHE, TACHE, TUCHE...

E ADESSO CHE GAVEMO LA STRADA FERATA IN UNA GIORNADA IN GITA SE VA! E TICHE, TACHE, TUCHE...

Nuria Kanzian - “Parlare i suoni” Ed. I Svevo, 2000 -Trieste

Le accentuazioni ritmiche dei canti popolari si trovano in stretta connessione con l’apprendimento di una lingua parlata, sia per il significato del testo che per la posizione degli accenti. La trasmissione dei canti e delle filastrocche tradizionali aiuta a mantenere vivo il dialetto di un luogo, e ad inserire emotivamente il bambino in un certo habitat linguistico. La forma iterativa è di facile assimilazione e riconoscimento, non dimentichiamo che nei testi di scherzi, indovinelli, giochi, penitenze, ninne-nanne e canti narrativi, le successioni logiche di tempi e azioni favoriscono e facilitano lo sviluppo mnemonico. Il linguaggio musicale è legato a quello naturale, perche le parole stesse sono suoni. Il linguaggio verbale e la musica si realizzano ambedue nel tempo utilizzando il medesimo materiale, il suono, ed agendo sui medesimi organi ricettivi. Eins, zwei, drei, la vecia va in tranvai la paga zinque soldi la cori come mai

An dan des stile male pest stile male pupoles an da des...

Il gioco della conta dei bambini (l’ultimo usciva al des e al mai...).


Giorgio Valussi - Nota Geografica “Friuli Venezia Giulia”, F. Le Monnier - Firenze 1979 Il Friuli Venezia Giulia è una regione nuova, concepita con questo nome e con gli attuali confini amministrativi appena nel 1947. Prima della guerra 1940-45 la Venezia Giulia comprendeva le provincie di Trieste, Gorizia, Pola e Fiume, ma quando tornò la pace restavano all’ltalia solo alcuni lembi delle provincie di Gorizia e di Trieste, con un territorio troppo piccolo per costituire una regione a sé. D’altra parte la grande provincia di Udine, che era inclusa fino allora nel Veneto, si differenziava dalle altre province venete per la sua storia, il linguaggio, le tradizioni popolari ed anche per la sua economia. L’ Assemblea Costituente della Repubblica Italiana decise perciò di costituire al confine orientale della Patria la nuova regione che porta il nome doppio di Friuli Venezia Giulia poiché è costituita dal Friuli e dalle province mutilate di Gorizia e di Trieste. Entrambi i nomi della regione hanno però comune origine dalla romana Gens Julia, a cui appartennero Giulio Cesare e Ottaviano Augusto. Friuli deriva infatti dall’antico Forum Julii (Mercato di Giulio), oggi Cividale, mentre Venezia Giulia è un nome proposto nel 1863 dal linguista goriziano Ascoli a ricordo della civilizzazione dei Romani e dei Veneti, che diedero attraverso i secoli una caratteristica impronta ai luoghi e agli abitanti. Ben antiche sono quindi le memorie che il suo nome rievoca; del resto la posizione geografica, fra le Alpi e il mare Adriatico, attrasse fin dalla più remota preistoria gli insediamenti umani. Numerosi popoli scesero dai valichi delle Alpi Giulie verso le fertili pianure e ciascuno lasciò le sue impronte nel paesaggio (centri abitati, strade, monumenti) e nella cultura (lingua, toponomastica, usi e costumi), ma anche nelle distruzioni e nelle devastazioni che hanno contraddistinto il passaggio di orde barbariche e di eserciti invasori. Il Friuli Venezia Giulia è una regione di confine, alla porta orientale d’ltalia, dove le vie che scendono al mare dalle regioni transalpine dell’Europa danubiana s’incontrano con quelle che collegano la penisola italica alla penisola balcanica; una regione in cui le invasioni e i commerci hanno messo a contatto popoli diversi, che la cultura italiana ha amalgamato e assimilato, acquistando anzi un contenuto più ricco e originale. Dalla superba cornice delle Alpi Carniche e Giulie, che separano l’Italia dall’ Austria e dalla Jugoslavia, la regione si distende in morbide colline o in lenti altopiani nella grande pianura bagnata dal Tagliamento e dal


l’Isonzo, in cui si addensa una posizione ben nota per la sua laboriosità. Le lagune di Marano e di Grado ne costituiscono a meridione la facciata marittima, in cui ferve il lavoro dei pescatori fra le spiaggie assolate che l’estate popola di turisti nordici, mentre più a oriente, nei bacini del porto di Trieste, navi di tutte le bandiere vanno portando merci di ogni tipo che vengono smistate su una rete di strade ferroviarie facenti capo ai valichi alpini. Udine è il centro geografico della regione, ma Trieste ne è la città principale capitale, il maggior centro commerciale, industriale e culturale; gli altri due capoluoghi di provincia sono Gorizia e Pordenone. Il Friuli occidentale è stato fatto provincia solo nel 1968, dopo essere stato per quattro anni un circondario della provincia di Udine. La popolazione della regione è costituita da Friulani e Veneti, con qualche piccola minoranza di Sloveni e di Tedeschi. I Friulani parlano un linguaggio ladino molto diverso dal veneto, affine a quello usato nella Val Gardena e nel cantone svizzero dei Grigioni. Questo linguaggio è diffuso, pur con alcune variazioni, nella Carnia, nelle Prealpi Carniche della regione collinare e pianeggiante compresa fra il Tagliamento e l’Isonzo, fino alla strada Venezia-Trieste. Nel Medio Evo però si parlava la lingua friulana in un’area più vasta che comprendeva anche la pianura fra Tagliamento e Livenza e fra Isonzo e Carso, fino a Trieste e a Muggia. Il dialetto veneto è invece parlato alla destra del Tagliamento, nella bassa pianura e nelle lagune e, con qualche particolarità locale, a Monfalcone, Trieste e Muggia. Nelle province orientali sono anche diffusi i dialetti veneto-istriani parlati dai profughi, che dopo la guerra in numero di circa 65.000 si sono stabiliti nella regione. Gli Sloveni vivono soprattutto sul Carso, nel Collio e nelle valli del Natisone, del Torre e di Resia, ma qualche colonia si trova anche nel Tarvisiano. I Tedeschi si trovano nel Tarvisiano e nelle oasi linguistiche di Sauris e Timau, in Carnia.


“Enciclopedia Europea Garzanti” - Nota Storica Voce: Friuli Venezia Giulia - Cenni Storici - 1978 Abitata da popolazioni veneto illiriche e gallo carniche, questa area entrò nel sec. II a.C. vi dedusse la colonia di Aquileia. La dominazione romana si estese sotto Augusto, che fece di Aquileia la capitale della decima regione italica Venetia e Histria; l’agricoltura conobbe un notevole sviluppo, e di grande importanza per i traffici furono le vie di comunicazione con il Norico. La regione fu tra le prime dell’Italia settentrionale in cui penetrò il cristianesimo. Nel sec. V fu invasa dai visigoti e devastata dagli Unni di Attila (452); passò poi sotto la giurisdizione dei bizantini, che ne riordinarono l’amministrazione e ne affidarono la difesa a truppe stanziali. Sottomesso il Friuli dai longobardi (568-776), Aquileia decadde e Cividale divenne la capitale del ducato costituito nella regione. L’Istria e Trieste rimasero invece sotto i bizantini. Allo splendore del periodo longobardo, descritto da Paolo Diacono, seguirono tempi difficili: sul finire del sec. VIII Carlo Magno costituì la marca di Friuli e Istria, estendentesi da Treviso alla Drava, che all’estinguersi dei Carolingi fu inserita nel Regno d’Italia, di cui seguì le vicende. Dopo l’invasione degli ungari, che devastarono e spopolarono vaste zone del paese, la marca del Friuli cadde sotto l’influenza dei ducati di Baviera e Carinzia (sec. X). Durante le confuse e tragiche vicende dell’anarchia feudale, si compì la fusione fra le diverse componenti etniche della regione: feudatari tedeschi, mercanti romani, coloni longobardi e sloveni e popolazioni originarie. Nel corso del sec. XI ebbe rinnovata importanza politica Aquileia con il patriarcato: la giurisdizione dei patriarchi si estese fino a Trieste, all’Istria, al Cadore e alla Carniola. Fino al sec. XIII i patriarchi furono essenzialmente ghibellini, anche perchè gratificati dall’imperatore di vasti benefici, ma si avvicinarono ai guelfi dopo il concilio di Lione (1245). Nel sec. XII nella parte orientale della regione si formarono centri autonomi, che nelle zone interne erano retti da signorie feudali (tra queste primeggiavano i conti di Gorizia resisi di fatto indipendenti), mentre nella zona costiera erano organizzati in liberi comuni (come Trieste) o in signorie ecclesiastiche. In Friuli, con lo sviluppo dell’attività commerciale e bancaria in cui fu notevole l’influsso fiorentino, si svilupparono prevalentemente le città, soprattutto quelle dotate di mercati permanenti. Particolare rilievo ebbe il parlamento provinciale della Patria del Friuli, formato da piccoli feudatari laici ed ecclesiastici e dai rappresentanti delle comunità più importanti,


con il compito di collaborare con il patriarca nel governo, con funzioni dapprima limitate (fissare l’ammontare dei tributi e il numero delle reclute) poi estese a compiti insieme legislativi, giudiziari e amministrativi. La sede del parlamento, fissata dapprima a Cividale, fu poi trasferita con quella patriarcale a Udine, che divenne in tal modo il centro più importante della regione. Il patriarcato autorevole soprattutto con Raimondo della Torre (1273-99), Bertrando di Saint-Geniès (1334-50) e Marquardo di Randek (1365-81), si indebolì tra il sec. XIV e il XV nelle lotte con Venezia, con i duchi d’ Austria, che si impadronirono di Trieste nel 1382, e con i conti di Gorizia, che sotto i Lurngau-Pustertnal estesero il loro dominio fino a Monfalcone e all’Istria. Nel 1420 infine Aquileia e la parte nordorientale della regione passarono sotto il dominio di Venezia. Il governo veneziano assicurò al Friuli un periodo di pace, di progresso economico e civile nel rispetto degli ordinamenti e dei privilegi locali. Quando nel 1500 la casa comitale goriziana si estinse e fu lasciata in eredità agli Asburgo, i veneziani rivendicarono, in quanto signori deI Friuli (di cui Gorizia era feudo), la successione e si impadronirono delle terre al confine lungo l’Isonzo, spingendosi fino a Trieste. Questo contrasto fu all’origine del dissidio che portò alla lega di Cambrai (1508) e all’occupazione austriaca del Friuli, che si protrasse fino al 1515, quando gli imperiali furono sconfitti. Ne seguì una pace, che pur concedendo a Venezia Pordenone, lasciava agli Asburgo Trieste, Gorizia e Gradisca. Il dominio austriaco su Gorizia fu caratterizzato da una buona amministrazione, ma la plurinazionale monarchia asburgica favorì il trasferimento nella zona di contadini sloveni e di aristocratici tedeschi che alterarono il quadro etnico locale. La borghesia cittadina rimase tuttavia essenzialmente italiana e legata all’ambiente veneto-friulano. Nel corso del sec. XVIII, mentre per impulso di Maria Teresa e di Giuseppe II, Trieste diventava un centro importantissimo di commerci, il primo porto dell’Adriatico e una città cosmopolita e tollerante, il Friuli soggetto a Venezia decadeva e la sua economia si riduceva sempre più da commerciale ad agraria. La divisione delle limitrofe terre giuliane fu confermata dalla soppressione del patriarcato di Aquileia, a cui vennero sostituiti agli arcivescovati di Udine e di Gorizia nel 1751. Con l’invasione napoleonica e in seguito alla pace di Campoformido (1797) il Friuli passò sotto il dominio austriaco fino al 1805, quando tornò sotto il dominio francese, che si estese nel 1809 anche a Trieste e a Gorizia. L’accentramento napoleonico nel periodo del Regno Italico rianimò i commerci, e l’abolizione dei privilegi feudali, l’adozione del codice napoleonico e la ridistribuzione delle terre stimolarono, specialmente nel Friuli, la formazione di una coscienza civile nelle classi intellettuali e borghesi; a 10


Trieste invece segnò per pochi anni una paralisi dei traffici che danneggiò seriamente le strutture del commercio. Con la formazione del Regno Lombardo-Veneto fu mantenuta la divisione amministrativa fra le due zone; il Friuli, con capoluogo a Udine, fece parte del regno, mentre l’Istria fu divisa nei circoli di Trieste e di Gorizia e la città di Trieste fu retta autonomamente, mantenendo tutti i suoi privilegi che le garantirono una straordinaria floridezza economica per tutto l’Ottocento. L’onesto e prudente governo austriaco garantì in tutta la regione un equilibrato sviluppo sociale e economico; gli ideali risorgimentali furono patrimonio di una minoranza di intellettuali cittadini. Nel 1848, in seguito all’insurrezione di Venezia, si costituì a Udine il comitato provvisorio del Friuli: gli austriaci reagirono occupando Udine il 21 aprile, mentre Palmanova resistette fino al 24 giugno e Osoppo cadde solo il 12 ottobre. A partire da allora si accentuò in tutta l’area friulana e giuliana la diffusione dei principi liberali e degli ideali del risorgimento: molti friulani e triestini, e tra essi è quasi simbolica la figura di Ippolito Nievo, parteciparono alle guerre regie e alle imprese garibaldine. L’esito fortunato della guerra d’indipendenza del 1866 consentì l’annessione del Friuli all’ltalia. Nel restante territorio giuliano l’Austria-Ungheria avviò una politica di sviluppo industriale, stimolata anche dalla scelta di Trieste come sbocco marittimo dell’Austria (porto dell’Ungheria divenne invece Fiume), risalgono agli ultimi decenni del secolo le industrie cantieristiche di Monfalcone, la fioritura delle grandi compagnie di navigazione e di assicurazione (Lloyd triestino, Riunione adriatica di Sicurtà), nonchè massicci interventi del capitale austriaco e tedesco nell’economia triestina e giuliana. A tale dinamica politica ed economica il governo viennese, timoroso dell’azione dei gruppi italiani legati all’ideologia risorgimentale, associò una sempre più accentuata snazionalizzazione della quale fu strumento specialmente 1’immigrazione dei cospicui gruppi etnici sloveni e croati. Ciò ebbe conseguenze gravi, sia immediate, con la crescita dell’irredentismo italiano, che ebbe il suo martire in G. Oberdan (1882), sia a lungo termine, sia al secondo dopoguerra, quando fu uno dei fattori che determinarono il passaggio di buona parte del vecchio territorio alla Jugoslavia. Durante il primo conflitto mondiale, la regione fu il principale teatro di guerra e patì gravissimi danni al patrimonio economico ed artistico. In particolare vi si svolsero le diverse e sanguinosissime battaglie dell’Isonzo e per la conquista di Gorizia; dopo lo sfondamento di Caporetto (1917), il Friuli fu occupato dall’esercito austro-ungarico, dilagato fino alla linea del Piave. Liberata dopo Vittorio Veneto (1918), la regione assunse nella sua globalità il nome di Venezia Giulia. Ma sin dagli anni del primo dopoguerra si manifestarono particolari difficoltà a Trieste. La città fu colpita da una 11


grave crisi economica, conseguenza della perdita del ruolo di porto dell’ Austria e del retroterra continentale centro-europeo, mentre insorgevano conflitti etnici tra le comunità italiana e le minoranze slave e divergenze con il neonato regno di Jugoslavia per la determinazione dei confini (questione di Fiume). Durante la seconda guerra mondiale, all’effimera espansione del territorio italiano dopo il crollo della Jugoslavia (costituzione in provincia italiana dell’area di Lubiana, 1941) fece seguito, dopo 1’8 settembre 1943, l’occupazione nazista. Ridotto sotto la diretta amministrazione tedesca con il nome di Adriatisches Küstenland, il territorio giuliano fu teatro di importanti episodi della resistenza: il momento più significativo può esser considerato la costituzione di una zona libera della Carnia (estate-autunno 1944) dove fu attuato il programma di autonomia amministrativa presto stroncato dalla reazione nazista; anche a Trieste si sviluppò l’azione resistenziale mentre i tedeschi si accanivano contro gli ebrei, periti a migliaia nella famigerata Risiera di San Sabba (unico campo di sterminio in Italia). La sollevazione e la liberazione di Trieste (1° maggio 1945) permise di salvare le attrezzature portuali e industriali della città. Ma l’occupazione da parte dell’esercito jugoslavo diede luogo a sanguinose repressioni e si concluse solo, per l’intervento dei governi di Londra e Washington, il 12 giugno 1945 sulla base di un accordo che lasciava alla Jugoslavia tutta l’Istria e gran parte della Venezia Giulia tranne le maggiori città costiere sottoposte all’amministrazione militare alleata (Monfalcone, Trieste e Pola). Il trattato di pace del 1947 fissò il confine a Tarvisio, Monfalcone e Gorizia, mentre Trieste venne compresa in un territorio libero, che in pratica non ebbe mai attuazione. Il successivo accordo del 1954 (memorandum di Londra) riconosceva all’Italia l’amministrazione della zona costiera (la cosiddetta zona A) e alla Jugoslavia quella dell’entroterra giuliano (zona B). Tale accordo fu confermato dal trattato italo-jugoslavo di Osimo (1975) che rendeva definitiva la spartizione e fissava i termini di accordo economico per lo sviluppo industriale dell’altopiano carsico.

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Giacomo Devoto/Gabriella Giacomelli Le parlate in Regione “I Dialetti della Regione d’Italia” FriuliVenezia Giulia Sansoni - Firenze 1972 Il dato essenziale per la storia linguistica della regione è dato da una nozione etnica pressochè inafferrabile, quale quella dei carni: la popolazione gallica che è discesa dai monti nel V secolo a.C. rompendo la continuità fra i veneti della regione d’Este e i veneti delle regioni isontina e carinziana. Il cuneo, stabilito allora, ha definito non soltanto geograficamente la regione che corrisponde all’odierna Friuli, ma ha lasciato un’impronta sul latino che vi si è stabilito. La latinità friulana va vista infatti come più estesa verso oriente di quel che non sia la friulanità odierna: Trieste e Muggia, e cioè praticamente l’intera provincia attuale di Trieste (e la Venezia Giulia in senso amministrativo) vi sono completamente comprese. La latinità sopravvissuta più a oriente non può essere presa in considerazione per un confronto, solo perché, a partire dalle invasioni barbariche, e stata sommersa, e non lascia più tracce dirette in un mondo che da secoli è ormai slavo. La tradizione di questa latinità comincia nel 181 a.C. con la fondazione della colonia “latina” di Aquileia. A questa colonia si affiancano poi, come città principali e focolai irradianti latinità, le città di Trieste (lat. Tergeste) e di Julium Carnicum presso Tolmezzo. L’impronta definitiva di latinità friulana l’ha poi ricevuta, non già dal basso attraverso l’azione di un sostrato, ma piuttosto dall’alto, attraverso un “superstrato”, maturato negli ultimi secoli dell’impero lungo le strade transalpine, che, attraverso le valli svizzere del Reno e dell’Inn, irradiavano modelli di latino raffinato e insieme colorito di pronuncia gallica, non per forza numerica o tradizionalismo, ma per prestigio. Questa latinità gallica si distingueva dalla latinità genericamente romana e italiana, perchè pronunciava con piena chiarezza la S finale, e perché questa S l’aveva mantenuta, come segnale fondamentale ed essenziale del plurale. Se le S isolate sono note ancora in dialetti medioevali e Dante stesso ricorda la forma veneziana con la desinenza in S verràs, la persistenza organica della desinenza del plurale fa sì che, ancora oggi, sulla linea del Livenza si possa parlare di un confine dialettale vistosissimo, che non si interpreta secondo la casuale contrapposizione di forme conservatrici e forme innovatrici. Il rapporto dei plurali murs, cians, nios, rispetto ai rispettivi singolari mur, cian, niof si contrappone, come sistema elaborato su ispirazione gallica, agli analoghi rapporti per esempio di Portogruaro di muri a muro, ciani a can, novi a novo, di ispirazione italiana. 13


Ed ecco quattro esempi di dialetti friulani e giuliani tratti dal volume di O. Papanti: “I parlari italiani” (Livorno 1875). Da SAN DANIELE DEL FRIULI: lo i dis dunche che ai timps del ptin Re di Cipro, dopo la concuiste di Tiere Sante fate da Gofredo di Buglion, al sucedè che une zentildòne di Guascogne a fasè vot di la pelegrinànd al Sepulcri, e tornand indaùr, rivàde in Cipro, da une man di schavestràz a fò malmentri remenàde. (A cura di Giuseppe Buttazzoni). Da AMPEZZO (Carnia): lo i dis duncie, che ai timps del prin Re di Cipri, dopo fatte la conquiste de Tierre Sante da Gottifrè di Buglione, alè acciadùt che une gentildonne di Guascogna a je lade in orazion al Sepolcro: tornand di culà, e arrivade a Cipri, a fo da diviers uming sceleras villanementri oltraggiade. (A cura di Ernesto Manganelli). Da MUGGIA (in provincia di Trieste): Dich doncia che al tiemp del prin Re de Sipro, dop el acquist che à fat della Tierra Santa Gotifred de Buglion, xe vegnù che una lustrissima femena de Guascogna xe zuda in terrotorj al Sant Sepulcro, de dola turnada a Sipro, la xe stada da omin selerat svilanamente ultragiada. (A cura di Giacomo Zaccaria). Da GORIZIA: lo disi duncia, che nei timps del prim Re di Cipro, dopo la conquista fatta della Tiara Santa da Gottifrè di Baglion le avvenut che una gentil femina di Guascogna le lada in pelegrinag al Sepulcri, e tornada di là, e arrivada in Cipro, le stada villalament oltragiada da alcuns uomins sceleras. (A cura di Antonio Clementini).

Il Castello di Gorizia

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Carlo Tullio Altan Tradizioni popolari, una Scienza Se noi guardiamo alle tracce del nostro passato, come esse sopravvivono in forme ormai fattesi rozze ed elementari, con l’intento di conservarne con rigore filologico la preziosa testimonianza, che ci permette successive elaborazioni critiche e approfondimenti, o per realizzare direttamente queste interpretazioni, in tal caso noi facciamo indubbiamente opera positiva. Conoscere i fondamenti antichi della nostra cultura significa renderci meglio padroni delle nostre motivazioni, motivazioni che sono spesso latenti e ignote a noi stessi, perchè ci pervengono da un lontano passato, assimilate e interiorizzate dall’ambiente culturale nel quale esse si conservano. Questi fondamenti, infatti, si mantengono nei modi di dire e nelle caratteristiche strutture della lingua, nei proverbi, in quei rudimenti di rituali arcaici che sopravvivono, trasfigurati, nelle cerimonie moderne, nelle festività popolari nazionali, nelle favole, nelle superstizioni, in quelle abitudini che si sono fatte automatiche, tanto che noi stessi ne ignoriamo completamente il senso e lo scopo. Ma attraverso queste mille diverse vie il nostro passato ci penetra, mentre ne siamo inconsapevoli e si deposita al fondo del nostro io, come uno strato inconscio, ma carico di germi vitali. Il prendere coscienza delle componenti di questa base nascosta della nostra personalità è cosa essenziale, perché noi possiamo procedere così ad una verifica critica del loro senso attuale, conservando quanto ancora si addice alle esigenze dei tempi e scartando il resto, tutto quanto si è fatto anacronistico, inattuale e disadatto a motivare le nostre azioni in un mondo così profondamente mutato. è chiaro che quando noi usiamo il termine di scienza, per indicare l’attività di ricerca sulle tradizioni popolari, non intendiamo alludere a un processo che si concluda nella formulazione di “leggi” esplicative dei fenomeni folcloristici, cui si giunga attraverso il metodo sperimentale delle scienze fisiche e naturali, cioè con un procedimento dimostrativo. La scientificità delle ricerche sulle tradizioni popolari consiste piuttosto nel rigore filologico ed etnografico con il quale vengono raccolti i dati, da un lato, e dall’altro dalla chiara definizione degli schemi concettuali d’approccio alla realtà folclorica e dalla capacità di penetrazione interpretativa di tale realtà, resa possibile da procedimenti ermeneutici specifici, e da altre procedure che sono state elaborate nel campo di discipline affini, come l’etnologia, l’antropologia culturale e sociale, la psicologia sociale e la linguistica. Queste diverse procedure ci danno modo di collocare il dato folclorico nel punto d’intersezione di una serie di prospettive di analisi, ognuna delle quali ci permette di illuminare un aspetto della sua natura poliedrica, che concorre inseparabilmente 15


dagli altri a costituirne il pieno significato umano. Fra queste diverse prospettive, una ha assunto un particolare rilievo nei dibattiti più recenti: quella offerta dalla linguistica strutturale. Dall’impatto della linguistica strutturale sugli studi delle tradizioni popolari ha preso vita, di recente, una nuova forma di etnolinguistica che si sta sviluppando come una specializzazione moderna del più vasto campo delle ricerche etnologiche e di antropologia culturale, che escono dai limiti della scienza delle tradizioni popolari, intesa in senso stretto. Nell’ambito di quest’ultima, invece, per merito di A. Lomax e, in Italia di D. Capitella e di R. Leydi, sono state realizzate importanti ricerche di etnomusicologia, grazie alle quali è stato messo in luce il significato storico-sociale, politico e più ampiamente umano dei documenti musicali di origine popolare, legati alle esperienze della vita contadina, non solamente, ma anche ai riflessi che su questa vita tradizionale hanno avuto più ampie vicende storico-politiche.

Trieste, 1830 - carte da Gioco

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Gaetano Perusini - Costumi popolari Appunti di storia delle tradizioni popolari Università degli studi di Trieste, facoltà di lettere e filosofia Istituto di filologia moderna anno accademico 1972-73 Il costume indicava l’appartenenza ad una data comunità e ad un dato strato sociale; nelle donne alcuni particolari indicavano se erano sposate o nubili o vedove. Di ogni persona, dalla sua maniera di vestire, era immediatamente possibile stabilire la condizione sociale, il mestiere e la località di origine. Le mutazioni nel tempo del costume non avevano un andamento uniforme; in certi paesi l’adeguamento alla moda era relativamente rapido, specialmente in pianura; in altri lentissimo, soprattutto nelle vallate alpine. è stato quindi possibile rilevare, nel secolo scorso quando il costume era ancora di uso comune, accanto ai costumi evidentemente influenzati da mode signorili, altri di tipo veramente arcaico e riallacciabili per la forma ad abiti usati in epoche assai lontane. In un paese delle prealpi friulane, Clauzetto, si usava, fino al secolo scorso, un costume che ripete nella forma e nel taglio alcuni abiti riprodotti in figure cretesi dell’epoca minoica. Il vestito di Clauzetto, fino al Seicento, era portato senza camicia, lasciando così ben visibili i seni come nelle figurazioni minoiche. Anche in friuli i pittoreschi costumi popolari sono ormai completamente scomparsi; di essi non resta che il ricordo e gli esemplari conservati nel Museo delle Arti e Tradizioni Popolari di Udine. Soltanto attraverso l’esame dei pochi capi superstiti, degli ex-voto, dei documenti d’archivio, (specialmente inventari dotali) ci si può fare un’idea del costume popolare dei secoli scorsi e del suo variare. è un errore credere che il costume popolare fosse di una grande povertà o semplicità. fino al Cinquecento le popolane benestanti sfoggiavano vesti talora assai ricche e con guarnizioni d’oro e d’argento e sono anche ben fornite di gioielli. Ad esempio, la madre di un calzolaio, abitante a Udine, in borgo Poscolle, nel 1508 possedeva una collana di perle, dieci fibbie d’argento, tre anelli d’argento, una cintura d’argento con fibbia pure d’argento, una cintura di velluto nero con 66 ornamenti d’argento, una frangia di perle, due paia di strezatori (ornamenti da testa) di velluto rosso, 48 rose d’argento da porre negli strazatori, e come questo non bastasse, i suoi vestiti erano guarniti con bottoni ed ornamenti d’oro e d’argento. La figlia di un barbiere di Udine, sposata nel 1548, porta nel suo corredo un filo di perle, una catena con croce d’argento, un anello con rubino, una “scuffia” 17


d’oro da sposa. Queste scuffie, di seta o di velluto erano usate anche dalle più povere. Nell’inventario di una serva, compilato a Udine nel 1511, ne troviamo tre, e cinque nel corredo di una ragazza dotata dalla pubblica carità con i denari del Monte di Pietà di Udine nel 1539. fino alla fine del Cinquecento è però assai scarsa la documentazione iconografica, per cui non è possibile un’esatta ricostruzione del costume popolare. Nel secolo seguente, il Seicento, i dati sono molto più copiosi e ci permettono di osservare le differenze soprattutto fra la zona montana e la pianura nella quale troviamo un costume simile a quello veneto con colori molto vistosi, corpetto liscio attaccato alla gonna e chiuso davanti con cordoni, maniche staccabili allacciate alla spalla con nastri vivaci; gonna, corpetto e maniche sono spesso di colori differenti. Nella montagna il vestito è di forma simile, ma predominano le tinte scure. Caratteristico il fazzûll copricapo costituito da una banda di tela che le donne portavano avvolto attorno alla testa a guisa di turbante e le cui estremità ricadevano sulle spalle. Nel Settecento troviamo ancora colori vistosi, ma le maniche non si allacciano più alla spalla, viene in uso una giacca corta ed anche la pettorina che si pone sopra la camicia ed è visibile fra i cordoni del corpetto. Il costume però non è uniforme; ad Aviano, Marano Lagunare, Grado, nel goriziano, presenta qualche particolarità. In montagna permangono i toni scuri e la foggia, in talune località (Resia, Val Natisone, Tramonti, Clauzetto) è più o meno differenziata. Dovunque si conservano i fazzoletti da testa e da collo, nonchè i grembiuli bianchi adorni di pizzi, ma compaiono grembiuli o fazzoletti da testa di tela stampata a fiori policromi. In questo secolo si vedono le prime calze a maglia; sono ancora sconosciute le maglie e le mutande. Nell’Ottocento il costume va uniformandosi in tutto il Friuli ed adeguandosi sempre più alla moda. Il corpetto, che nei primi decenni del secolo è ancora scollato, in seguito si chiude con una fascietta intorno al collo; il colore si smorza ed alla metà del secolo predominano ovunque i toni scuri. Sembra che improvvisamente tutte le donne siano prese da un desiderio di serietà o di rispettabilità o per lo meno da gusto di apparire tali. I fazzoletti ed i grembiuli bianchi cedono a quelli di tela stampata a fiori policromi. L’uniformità diventa quasi completa in tutta la regione nella seconda metà del secolo, quando il costume sta per scomparire. Si differenziano ancora poche località come Resia, Marano Lagunare, Grado, Aviano. Molto scarse sono le notizie sul costume maschile, specialmente per le epoche più antiche. Nel Seicento si usavano calzoni corti fino al ginocchio, giacca assai semplice di media lunghezza, attillata in cintura. Le calze sono sconosciute ed a riparare la parte inferiore delle gambe si portano delle specie di uose (scufòns) di panno, bianco o colorato. Nel Settecento 18


tale costume appare immutato; i popolani più benestanti però indossano giacche assai lunghe, di taglio e tipo cittadinesco. Nell’Ottocento ci si uniforma sempre più alla moda: in montagna dove l’emigrazione temporanea degli uomini è assai forte, il vestito maschile già all’inizio del secolo, è molto simile a quello delle grandi città; in alcuni paesi della pianura e del pedemonte si portano, fin verso la metà del secolo, calzoni corti con giacche pure assai corte e, tra i pescatori di Grado e di Marano si conserva una caratteristica lunga berretta. Unica eccezione è Aviano, dove il costume, pur trasformandosi ed adottando calzoni lunghi, dura fino alla fine del secolo scorso ed al principio del presente. òô

Mestieri che scompaiono Merlettaie al tombolo (Friulano: Ricamadòris) (Sloveno: Jdrijske cipke). Lassù, a Doberdò, sull’altopiano carsico, precisano che non si tratta di merletto e basta, ma di “merletto d’Idria”, a testimoniare una antichissima tradizione, le cui radici si possono ritrovare, sparse, nei territori della Mitteleuropa, riforgiate in quel crogiuolo di culture rappresentato per secoli dall’Istria, e in specie per le influenze della vicina Carniola; e infatti a Doberdò il tombolo si chiama ancora “Jdrijske cipke”. E non è da credere che, una volta in possesso del tombolo e dei suoi fuselli e del disegno e della tecnica necessaria, si possa dar mano al lavoro. Manca il filo, il quale d’altro canto non può essere un filo anonimo anche se prodotto da marche di prestigio. Ci vuole quel filo e non altro, e lo si può trovare soltanto nella cantina di un antico negozio goriziano. Il filo arriva nientemeno dall’Irlanda; da Belfast per la precisione, filato e ritorto in una fabbrica dal nome vagamente vittoriano: “Campbell’s Lace Thread”. Attualmente nel monfalconese e nel goriziano, specie nelle zone di lingua slovena, l’antica tradizione ha trovato nuova vitalità. Esperte merlettaie e maestre di lavoro affidano alle nuove generazioni i pazienti segreti di un mestiere che è insieme, riscoperta della propria matrice culturale e delicata creazione d’arte. Rastrellai (Friulano: Ristielàrs) (Sloveno delle valli del Natisone: Grabjar). Per trovare gli ultimi rastrellai occorre salire fino a Tarcimonte (tracmun), sotto il Matajur, lungo valli stupende, nel cuore della “Benecia”; e “Benecia” è il termine che risale ai tempi della dominazione veneziana in Friuli ed è, appunto la corruzione della parola “Venezia”. Stava ad indicare i territori di quella che oggi è definita la “Slavia friulana”, ossia la zona a nord-est di Cividale, oltre al tarcentino superiore, vale a dire l’Alta Val Torre. In19


sediamenti antichissimi, questi posteriori alla colonizzazione romana del Friuli; e i romani, entro quelle valli, ebbero sempre difficoltà a penetrare, tanto che decisero di chiudere definitivamente la partita, costruendo un vallo che sbarrasse la strada verso la pianura. (Poi, proprio di lì, passarono i Longobardi). Si sa che la “Benecia” godette sempre in forza di antichissime tradizioni di statuti speciali ed i consigli popolari ebbero giurisdizione anche sotto la repubblica di S. Marco. Inalterato nei secoli è rimasto il dialetto sloveno. Del resto basta scorrere la terminologia con la quale il rastrellaio definisce attrezzi e oggetti “skor’ (vescovo), cavalletto con morsa per forare il pettine (“iguo”) del rastrello (“gambje na forkjac” se rastrello con forcella, usato in pianura) “rocnica” (asci per sbozzare i denti “zobje” dei rastrelli); e ancora gli antichi nomi degli alberi dai quali ricavare il legno adatto: “lieska” (nocciolo), carni jesen” (frassino nero), “oreh” (noce), “jauar” (acero), “hudalieska” (corgnolo rosso). Anche il mestiere è antico, immutato nel tempo; e uguale è il percorso che rastrellai tercimontesi percorrono ogni giorno, per portare il prodotto al mercato cividalese; e si possono incontrare in piazza S. Giovanni, appena al di qua della porta, o al di là del Ponte del Diavolo, sul crocicchio da cui partono le strade per Castelmonte, Albana, Prepotto, Clodig, Drenchia, Bosco Romagno e il Collio. Fabbricanti di stoviglie in legno (Friulano: Sedonars) solitamente erano le donne che scendevano verso la pianura della Valcellina o della Val Tramontina a vendere le masserizie in legno, intagliate durante le sere invernali, quando proibitivo era uscire fuori, se non per attraversare il cortile. gli uomini, con la bella stagione, prendevano la strada dell’emigrazione, in Germania, in Romania, in Francia. Alle donne rimaneva il compito, oltre che discendere a valle per vendere le stoviglie, di badare ai figlioli, alla mucca e di arrampicarsi per la montagna a falciare il fieno o a raccogliere legna. In pianura scendevano a piedi e se ne stavano via per giorni, affidando i figli e casa a qualche parente, e passavano di centro in centro, nei mercati o per le case. Giravano decise e dure, vestite di nero, in lutto perenne, anche se appena maritate, (l’emigrazione è una morte ricorrente e rinnovata ad ogni stagione), con il fazzoletto stretto a nodo sulla nuca, e ai piedi portavano i “stafez” o “scarpez”, pantofole con la suola di corda e la tomaia in panno o velluto, anch’esso nero per lo più. La loro compagna inseparabile in montagna o lungo i paesi della Bassa era la gerla (“cosse”), adibita ed abilitata a tutti gli usi, anche a culla deambulante. Vi sporgevano cucchiai, forchette, mestoli, mattarelli, taglieri, sbattitori, tritacarne, scodelle e piatti: insomma tutto ciò che serviva alle contadine del piano nei giorni duri della settimana (la domenica saltavano fuori le stoviglie di terracotta o di ceramica, magari dono di nozze). C’erano anche ventole per i fornelli a carbone, composte di piume di tacchino, quelle larghe della coda, tenute insieme da due stecche parallele, ed il manico era ingentilito da una rudimentale tornitura, non senza sforzo di estetica. 20


Silvano Bertossi - Architettura spontanea: I Casoni da Enciclopedia Monografica del Friuli -Venezia Giulia La Storia e la cultura (parte terza) Udine 1980 L’architettura spontanea, specie all’ombra della laguna, diventa scenografia. Quinte che si compongono e si scompongono appena si gira lo sguardo, l’attenzione, l’angolo. Grado e Marano mantengono ancora in vita le testimonianze delle vecchie dimore tipiche. I casoni nascono dalla laguna. Sono capanne di pescatori, fatte di paglia, di canne e di mota, un esempio di architettura spontanea dettata, ovviamente, dalla necessità. I casoni nascono dalla laguna e appunto per questo, con piccole varianti, si trovano in tutte le zone lagunari. La regione del loro sorgere è derivata da un fatto estremamente semplice: la presenza della vegetazione di resistenza al caldo e al freddo. Il vantaggio economico della loro costruzione era dunque indubbio: canne per il tetto, mota per i muri: non costavano niente: erano lì a portata di mano. La canna, prima di essere messa in opera, viene trattata in modo particolare: viene battuta per eliminare le impurità e le vengono tolte le parti esterne. Nella fascia lagunare friulana, il casone ha pianta rettangolare, tetto a quattro spioventi, all’interno un unico ambiente che serve da cucina e da camera insieme. è di facile costruzione; due persone possono erigerlo in poco tempo. Ha un perimetro di canne o mattoni che si eleva per un’altezza pari a circa 1/3 dell’intera costruzione, mentre i rimanenti 2/3 sono rappresentati dal tetto, cui viene data una forma aerodinamica per resistere ai venti abbastanza forti che spirano in laguna. Il perimetro (pariana) è rinforzato da grossi pali (colomeli) infissi profondamente nel terreno. Questi sono uniti nella parte alta da assi alle quali vengono poi fissate delle sottili travi (masse), fatte di legno elastico come l’olmo o la acacia, che si uniscono ad una trave orizzontale (giona) che delinea il colmo del tetto. Altre sottili travi (nàtole) vengono fissate orizzontalmente alle masse e servono da sostegno alla copertura in canne (caneo) che viene realizzata disponendo le canne a coppo, cioè in file orizzontali sovrapposte una all’altra e sormontate proprio come le scàndole delle case carniche. Il colmo è ricoperto di mazzi di canne messi a cavalcioni uno accanto all’altro (dressa e pupuli). Il primo e l’ultimo di questi fasci, più grossi degli altri, servono a collegare maggiormente gli spioventi fra loro.

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Va rilevato che nella laguna di Grado il casòn presenta la linea di gronda a circa m. 1,50 dal suolo, mentre in altre lagune vicine, come quella di Caorle, la linea del tetto scende fino a terra. L’ingresso è generalmente orientato verso ponente; il pavimento all’interno è di fango o di mattoni. AI centro dell’unico vano c’è il focolare (fughèr) sopra il quale pende una catena in metallo (caìna) che sostiene la pentola sopra il fuoco. Le dimensioni della capanna sono di solito le seguenti: lunghezza m. 6-7, larghezza m. 4-5,5, altezza delle pareti m. 1,5, altezza della giona m. 3. I casoni, dimore temporanee sorte per soddisfare i bisogni abitativi in un territorio privo di legname da costruzione e su terreni paludosi poco consistenti hanno origini lontane nel tempo. Avere una capanna in cui rifugiarsi dal troppo sole, dalla pioggia, o dal freddo, era una necessità per i pescatori; ora i casoni costituiscono una testimonianza importantissima. Se scompaiono, non scompaiono solo dei bersagli per i mirini delle macchine fotografiche e delle fotocamere; si perde con essi, e per sempre, un’immagine di vita.

I casoni che hanno stregato Ernest Hemingway. Oggi sono coperti di canne e puntellati da vecchie osterie turistiche, in compagnia della ricca e gustosa cucina rurale

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Adolfo Leghissa - Ricordi “Trieste che passa” (1884-1914 ), “Fortuna” Trieste 1955, “Artisti da crocevia” Di gente che tirava a campare con dei mezzi strambi e spesso originali ve n’era pure fra gli artisti da crocevia; fra suonatori, cantori e domatori di bestie. Era questa la gioia dei ragazzi, e non solo di questi ma pure degli adulti. Allora eravamo ben lontani dal cinematografo, dal grammofono, dalla radio e da cento altri mezzi di svago per grandi e piccini. Il barbuto S. Nicola recava nella sua gerla un assortimento modestissimo di oggetti e balocchi che il ragazzo vede in sogno nella notte tradizionale. C’era il cavalluccio squadrato e grosso, la bambola legnosa dalla faccia mongola, il sorcio ginnasta sulle due asticciole, il pagliaccetto di cartone, dinoccolato, che si muoveva a scatti, come la rana di Galvani, per mezzo di un filo centrale messo in tensione; il Pulcinella che batteva i piatti con la pressione di un dito sullo sterno del pupazzo, la bambola di lusso con la testa di porcellana riempita di segature, che chiudeva gli occhi a contrappeso e che talvolta sapeva piangere con vocina da fisarmonica. C’erano, infine, il piccolo fucile a finto “cane”, la spadina a punta mozza, nonchè il “chepì” di cartone colorato. Questo, o poco più era tutto. Un assortimento, come si vede, molto limitato, ma non perciò la gioia dei ragazzi era minore di quella di ogni tempo. Allora ciò che non dava la fabbrica con la sua meccanica in serie, come lo fa oggi, lo sapeva dare la tradizione con i suoi giochi infantili ch’erano numerosi e variati, la cui descrizione richiederebbe un volume a parte. Oltre ai giochi infantili v’erano le attrazioni speciali sui crocevia e nei grandi cortili delle case popolari, dove cantori, suonatori, ginnasti e giocolieri si esibivano di continuo per la “fabbrica dell’appetito”, come annunciavano loro stessi. Numerosi i suonatori di fisarmonica, alcuni dei quali, come Paolo Razza (Paolo orbo), erano anche dei modesti cantastorie che commentavano i più importanti fatti del giorno, riducendoli a strofe sui motivi più in voga, già noti al popolo. Fra tutti questi però, quello che esercitava la maggior attrattiva specialmente sui ragazzi, era il “Sete strumenti”, chiamato così perché tanti ne portava indosso, usandone contemporaneamente tre o quattro con particolare maestria. Questi precursori del moderno jazz erano montanari delle terre slave o delle Alpi carniche e trentine. Venivano a Trieste periodicamente durante le loro “tournèes” stagionali, ed erano sempre accolti con 23


la massima curiosità. Suonavano una grande fisarmonica (taluni, specie gli slavi, la cornamusa) tutta ornata di gingilli decorativi e che portava fissi nella parte superiore alcuni strumenti come una scatola di zufoli (stringa), trombette e fischietti, il tutto a portata di... bocca dell’artista, le di cui mani erano sempre occupate intorno all’instrumento base, la fisarmonica. Porta sul dorso una grancassa con piatti, e sotto di questa un piccolo tamburino (rullo). Al cubito destro teneva legata la “mazza” che manovrava all’occasione senza mai togliere la mano dalla tastiera. Per contro, un dispositivo a molla gli permette di far funzionare i piatti e il rullo mediante due funicelle attaccate ai tacchi del scarpe e che entravano in tensione alla più lieve mossa del piede. Un cappello da giullare, a pan di zucchero, carico di campanelli formanti armonia, era il “ripieno” nei “fortissimi” e bei “finali”. Bisognerebbe averlo veduto - non dico inteso - suonare una marcia o un valzer per rendere omaggio al suo proteiforme ingegno. Sembrava in realtà una piccola orchestra, ed era uno spettacolo da per sè la sola sua mimica obbligatoria per far agire simultaneamente più strumenti. Talvolta, sollevato sulle punte dei piedi, muoveva, in tempo giusto, i talloni, i cubiti, le mani, la bocca, e la testa come un automa sempre ritmato e preciso. I ragazzi ne erano entusiasti anche perché il suo costume e l’armatura istrumentale gli davano l’aria di un giocoliere cinese. Una volta in “Pra dei Conti” ne capitò uno il quale, in aggiunta a tutti congegni sonori già descritti, era riuscito ad applicare sopra la grancassa una raggera a perni ognuno dei quali portava infissa una piccola capsula (càpsul de rame detonante). Con la mossa di una funicella attaccata al ginocchio destro, egli riusciva far scattare un “cane” colpendo una alla volta quelle capsule che, si noti bene, erano allora la passione dei ragazzi, in ritmo con la musica specialmente riempire le pause che preparano l’attacco di un “forte”. Non si può descrivere il successo riportato da quell’ingegnoso strumentista sul popolino. Uomini, donne “mularia” andavano a gara a portare il soldino al “Sete strumenti” per sentirli suonare una marcia “co’ la s’ciòca”. L ‘interesse per questa musica con sparatoria (forse il Novecento era in germe) fu di tale portata che tutti gli altri suonatori consimili ne rimasero oscurati. “Trieste filtro etnico di razze (friulani, slavi, tedeschi)”. Si sa che Trieste era contesa da tre stirpi: la italiana dominante, la slava e la tedesca in lotta di affermazione. Ora, a parte l’interesse materiale che può avere spinto alla contesa quelle tre stirpi, sta il fatto che tutte e tre amavano sinceramente la città, la quale fra altro ebbe sempre la virtù d’inspirare simpatia al forestièro, per il suo tono gaio e spensierato per la vivacità del dialetto, per l’educazione del suo popolo e per il sacro rispetto delle altrui opinioni, usi 24


e costumi. Ecco una delle caratteristiche attive della città di Trieste. Probabilmente la simpatia che la città inspirava al forestiero era dovuta al fatto che nessun estraneo qui venuto si sentiva del tutto solo. V’era per tutti qualche modo d’ambientarsi, o poco o molto, anche linguisticamente, e credo sia questa la ragione per la quale ogni straniero, che qui avesse dimorato per qualche tempo, si sentiva orgoglioso d’apprendere al più presto possibile un pò di dialetto triestino, se non altro per contraccambiare in buona volontà la gente locale che s’ingegnava di esprimersi nella lingua dell’ospite. V’erano le lotte nazionali a Trieste, ma erano lotte di superficie non di profondità. Manifestazioni di un principio ideale che non esclude il reciproco rispetto fra le persone e neppure i vincoli affettivi. Si può forse staccare due razze diverse che vivono in promiscuità con una volgare baruffa di piazza? Non è pensabile. Di fronte ai bisogni materiali e spirituali della vita, le passioni di parte si placano fra i popoli per forza di adattamento e la regione finisce con trionfare quando non vi sia chi, per interessi personali, ne offuschi la luce. Dalla stessa lotta nasce il rispetto fra le persone che non siano bestialmente ottuse. Ecco una delle virtù di Trieste, filtro etnico, che elabora assimila e trasforma in ottimi cittadini di lingua italiana, la stragrande maggioranza in ottimi cittadini di lingua italiana, la stragrande maggioranza dei nati da incroci biologici, ottimi anche se la loro struttura mentale e psicologica può non sempre armonizzare con quella dei “puri” o pretesi tali. E anche quando non vi riesce del tutto, quando la tradizione di famiglia, oppure l’affermazione politica, impone a quei nati la conservazione dell’idioma originario, Trieste riesce ancora a tenerli incapsulati come cittadini di parlata bilingue, non perciò meno attivi e meno affezionati alla città che ha i mezzi di dare il pane a tutti, di facilitarne i mezzi culturali, di largire un’equilibrata libertà di parola, di pensiero e di manifestazione entro quei limiti di civile tolleranza che apprende soltanto chi nasce e vive in zone plurinazionali dove un taglio netto fra razza e razza non è umanamente pensabile. Nella formazione del nuovo cittadino di Trieste fuori-mura (dopo il 1800) un ruolo importante vi ebbe il friulano affiancato dall’istriano costiero, dal veneto, dal dalmata. Anche lo slavo della Carniola, della parte interna dell’Istria, della Dalmazia, della Croazia, come pure il tedesco della Carinzia, della Stira, dell’Austria superiore, uniti ad elementi del Tirolo e del Trentino, contribuirono in modo notevole alla formazione di questo popolo al quale non mancò neppure una goccia, diciamo così, di colore orientale con ebrei, greci, turchi e albanesi. Ho detto Trieste filtro etnico, ma potrei aggiungere anche scuola di cittadini, se qui l’esperto commerciale, il tecnico, l’artista, il finanziere d’ogni stirpe vi porta il contributo della sua sapienza, il contadino, il cavapietre, il boaro, il marinaio, il pescatore, lo sbandato, il profugo vi trovano il lavoro 25


e l’istruzione; si sbozzano e diventano orgogliosi di chiamarsi triestini. I più prontamente accessibili alla fusione ambientale furono sempre i friulani, gli istriani, i veneti e gli slavi. Un pò meno intensa, e anche più lenta, la fusione dei tedeschi con l’elemento locale, non essendo essi un gruppo etnico promiscuo bensì vivente qui in forma di colonia. La stessa cosa dicasi delle razze cosiddette orientali, che per diversità di usi e costumi vivevano quasi a sè, contribuendo solo più tardi alla formazione del nuovo cittadino. Da quest’amalgama biologico proviene quel tipo, tutto particolare, del triestino - buona pasta fisica e spiccata intelligenza - il quale però, convien dirlo, non è sempre di facile alleabilità nè scevro di stranezze. La sua vivacità tutta italiana particolarmente friulana, loquace, cortese, ridanciana, era un pò temperata una goccia slava, meno esuberante ma più osservatrice e riflessiva. Aveva del tedesco l’amore all’ordine, la pulizia, il senso della dignità professionale nonché quel pò di romanticismo e talvolta di spensieratezza che si vuol fosse di marca viennese. I contatti, le abitudini e in certi casi anche l’incrocio, avevano immesso nel triestino anche un pò d’oriente; da ciò la sua prontezza e scaltrezza nei commerci la sfrenata passione per il caffè e per il tabacco, una parte di fantasia sognatrice nonchè una velatura di fatalismo. Un tempo essere triestino era sinonimo di spirito evoluto, un pò di spregiucato e mordace ma disinteressato e generoso. L’essere vissuto a Trieste costituisce una specie di diploma di esperienza che il provinciale amava ostentare, il ritorno in patria, come una conquista. Altri suonatori che si cimentavano nelle strade erano anche orchestrali del Teatro d’Opera che improvvisavano le ariette in voga con grande curiosità della “mularia” come testimonia il pittore Giovanni Luigi Rose.

Tre suonatori Olio su tela, 37x44 Civici Musei di Storia e Arte (Trieste, 1994)

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Donne con frate e suonatori, 1870 olio su tela, 40x31 Civici Musei di Storia e Arte (Trieste, 1994)


Luisa Crusvar - Le donne a Trieste “La bora, Trieste ieri, oggi, domani” (mensile) Anno 2, n. 4, aprile 1978 Per tutto l’Ottocento le tradizionali mansioni familiari vengono utilizzate come lavoro esterno: nel ghetto femminile raramente, e solo a gruppi di privilegiati, si concedono escursioni fuori dagli schemi stabiliti. Alla donna, quindi, è negata la capacità di appropriarsi di tecniche ritenute di appannaggio esclusivamente maschile: molti dei processi intentati dall’Inquisizione - tra il ‘500 e il ‘600 - contro le cosiddette streghe, quasi tutte donne di estrazione contadina, riportano un’accusa per sospetto di “magia terapeutica”, che spesso sottintende talenti curativi provenienti dall’uso domestico di erbe ed unguenti (ne esiste una precisa documentazione soprattutto per il Friuli). Nell’Ottocento - anche se l’attività, seppur limitata, permane tutt’oggi la contadina del Carso si dedica soprattutto a forme di piccolo commercio, come “lattivendola”, “venderigola”, “pancogola” o “lavandaia”, si avvale di tecniche già collaudate tra le pareti di casa. La giornata in città della “juzka” (vezzeggiativo di Maria, usato per indicare le donne del suburbio) trova accenti pittoreschi nella descrizione di Leghissa (Trieste che passa, 18841914). Ed è proprio questo lato pittoresco, variopinto e apparentemente gaio, che viene maggiormente evidenziato dalla pubblicistica triestina dell’Ottocento. Le piccole commercianti del contado divengono i pretesti per abbozzare “quadri di genere”. In pieno clima romantico, Tischbein e Selb fanno della mandriana e della contadina istriana una creatura idealizzata, una damina bianca e rosea travestita con smaglianti costumi; nelle loro stampe e nei loro acquarelli affiora il tema mitico-popolare della Weltanschaung tedesca. Accanto ai mestieri tradizionali o occasionali (la fantesca, la serva, la merlettaia e la calzettaia, la portacqua, la venditrice di caffelatte e quella di “busìe de i botèr” - i trucioli per il fornello casalingo - le venditrici di rape, castagne, pannocchie) compaiono o si stabilizzano altre mansioni: la “sessolota”, mondatrice di derrate, la “sartorela”, la donna-operaia. Schematizzata, inglobata nelle caselle fisse dell’ideologia dominante, la popolana che lavora è spesso vista e descritta in rigida e meccanica contrapposizione con la vestale del folclore domestico. La “fantesca”, la “sessolota” o la “sartorella” divengono marche di ragazze facili, cariche di appetiti sessuali e di amanti occasionali. Si creano addirittura delle gerarchie: la sartorella fa da trait d’union tra operaia e borghese, può avere amanti chic, va a teatro e veste elegantemente: la sessolotta, costretta a un lavoro pesante e scarsamente retribuito, non esce dai ghetti operai. 27


I tempi massacranti del doppio lavoro di rado concedono conoscenza delle teorie sull’emancipazione femminile, appannaggio esclusivo di una ristretta élite borghese e intellettuale. Qualcuno se ne rallegra: “Sinora... gli educatori scrissero e si occuparono per lo più delle donne di agiata condizione; l’operaia, la donna del popolo, occupò ben di rado la mente di costoro... ma da un lato fu meglio, imperocchè non si mise nella testa delle popolane l’idea di un’emancipazione, che sarebbe ridicola quando non fosse assurda” (G.E.S., La donna del popolo, su “La Staffetta”, Anno I, n. 18, Trieste 3 ottobre 1881). Nello stesso giornale, lo sbocco consolatorio e alternativo ai tempi di lavoro è indicato in una specie di alienazione contemplativa: “L’operaia, la sartorella, occupata undici o dodici ore al giorno, colla più che modestissima paga di 40 o 50 soldi al giorno, appena giunta a casa dal lavoro, guarda il suo geranio, la sua erbarosa...” La “gerarchia” femminile è amplificata nei confronti dell’uomo: mentre l’operaio o il piccolo commerciante, pur nella tipizzazione, conservano una certa individualità, per la popolana difficilmente si esce dalla caratterizzazione pittoresca o moralistico-paternalistica. Il Leghissa ricorda una “figura” tipica, la “Bamberle”, venditrice di fettucce, nastrini e treccine colorate. Più tardi si recupereranno tipi e macchiette con intenti nostalgici-umoristici. Ma i vecchi mestieri femminili dell’Ottocento cominciano a scomparire con le innovazioni industriali introdotte sullo scorcio del secolo: le fabbriche integrano e “stabilizzano” sessolote, sartorelle e lavoranti a domicilio, i forni industriali e, più tardi, le lavanderie cittadine costringono a mutar mestiere le pancogole e le lavandaie di Servola. Una guida di Trieste del 1909 sancisce il definitivo superamento di vecchie tradizioni e mestieri: “Trieste è città poco conservativa: l’aumento straordinario della popolazione negli ultimi cinquant’anni, l’eterogeneità degli elementi immigrati, la prevalenza numerica delle classi lavoratrici agitate dal desiderio di riforme, non potevano favorire la stabilità delle tradizioni”. La donna ricerca collocazione e identità. Un dato curioso: è nei primi due decenni del Novecento che nasce e si incrementa il mito della triestina “emancipata” e “libera”.

Trieste, 1910 Operaie dello stabilimento Modiano

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Bruno Norbedo - Canti del popolo Triestino L’elaborazione culturale veniva brutalmente finalizzata al contrasto etnico, perdendo inevitabilmente spontaneità, varietà di sfumature e di articolazione: non poteva uscirne che una produzione in qualche modo ristretta e immiserita dentro i limiti di una funzionalità propagandistica fin troppo esplicita. L’espressione artistica era prevalentemente demandata ad un gruppo di intellettuali espressi dai gruppi dominanti e le voci non allineate venivano soffocate; ciò si verificava sia per l’alta cultura che per quella popolare. La cultura delle classi subalterne, per la tematica di classe che in qualche modo e a livelli diversi implicava, era considerata “sospetta” e comunque non utilizzabile ai fini della lotta nazionale; si concepì pertanto il disegno di sostituirla con una cultura dialettale di derivazione colta, ligia ai capisaldi della propaganda liberal-nazionale, ad essa funzionale e con intenti pedagogici nei confronti delle masse. La svalutazione e al limite il boicottaggio della cultura popolare; nelle sue varie forme, prima fra tutte quella del canto, fece sì che tutto un patrimonio di enorme interesse, etnologico, sociologico e storico, venisse spinto nel disuso e nella dimenticanza, col rischio di andar perduto. Il salvataggio di una parte del patrimonio etnomusicologico triestino si deve all’appassionata opera di raccoglitore svolta da Don Pietro Tomasin, una singolare figura di sacerdote e studioso, (1845-1925), è significativo che l’opera del Tomasin, pur essendo notevole, non abbia mai visto la luce ed ancor oggi si nota solo a pochi specialisti (Don Pietro Tomasin: “Canti popolari” 1881, manoscritto di soli testi letterari, in dialetto, giacente presso la Biblioteca Civica di Trieste). Una ricerca sul canto popolare triestino non può dunque prescindere da una distinzione preliminare fra ciò che è veramente “popolare” (e a questo proposito i manoscritti del Tomasin restano una fonte di primaria importanza) e la produzione dialettale popolareggiante che è in realtà produzione colta per i modelli linguistici e musicali di cui si vale, per i contenuti che tende a trasmettere e per i fini che persegue. Quando si esaminano i testi dei canti raccolti dal Tomasin si nota per prima cosa che essi risalgono ad epoche piuttosto recenti; pochi infatti sono databili nella prima metà del XIX secolo. La scarsità dei testi che possano essere definiti “antichi” si può con relativa sicurezza ascrivere alle complesse vicende legate al cambiamento del dialetto. L’antico dialetto triestino apparteneva al ceppo ladino ed era simile al friulano; le trasformazioni avvenute nella economia triestina a partire dalla metà del XVIII secolo ebbero tra le altre conseguenze quella dell’abbandono del vecchio dialetto “Tergestino” e della progressiva adozione di un dialetto di derivazione veneta. La tradizione orale tergestina doveva essere ricchissima ma quanto aveva goduto di un lunghissimo periodo di elaborazione (dall’altro: medioevo al XVIII secolo) ma curio29


samente, non ci restano che pochi testi di derivazione colta, databili alla fine del ‘700. L’adozione del dialetto veneto sembra, legata a problemi pratici, in quanto per secoli la marineria adriatica aveva problemi pratici, in quanto per secoli la marineria adriatica aveva parlato in veneto e questo dialetto era compreso dai marinai e dai commercianti di tutta l’area mediterranea orientale. Niente di strano perciò che la società cosmopolita creatasi a Trieste in seguito alla concessione del portofranco, individuasse nel veneto lo strumento più idoneo alle proprie esigenze di comunicazione. I temi trattati dal canto popolare sono gli stessi di sempre: l’amore, il lavoro, la guerra, la lontananza. A questi temi si aggiungono il motteggio e la rivalità, le varie categorie di lavoratori, tra gli abitanti dei vari quartieri e tra abitanti della città e contadini del territorio. La contrapposizione tra abitanti dell’area urbana e contadini, con le implicazioni etniche che riveste nella realtà locale, costituisce il perno della storia triestina. I circoli intellettuali legati ai liberal-nazionali decisero quindi di ricorrere alla manipolazione culturale anche nel campo della canzone popolare. Il lavoro preparatorio fu svolto dal “Circolo artistico Triestino” e fu stimolato dall’editore Carlo Schmidl che aveva aperto uno stabilimento musicale a Trieste. Gli intellettuali del “Circolo artistico” volevano educare musicalmente il popolo preparandogli delle canzoni “ben fatte” da cantare durante il carnevale per interessare la gente si pensò d’indire un concorso canzonettistico annuale patrocinato dal Circolo stesso e di conseguenza regolato, nel suo svolgimento, da intellettuali di sicura fede liberal-nazionale. Il primo concorso fu indetto per la sera del 29 Dicembre 1890. I patrocinatori del concorso erano animati da intenzioni pedagogiche, dalla lettura dei testi si nota che non si voleva educare solo il gusto musicale, ma anche educare politicamente l’uditorio. Le tensioni provocate dal duro lavoro quotidiano vengono qui risolte nel sentimento di appartenenza etnica. La condizione subalterna viene resa accettabile da una generica allegria, che stando ai parolieri dovrebbe costituire il carattere peculiare del popolo triestino. Le canzoni dei concorsi furono, fin dal loro apparire, una rappresentazione di maniera e del tutto irreale della vita triestina. Lo stesso animo festaiolo che esse davano per scontato nei triestini, era il prodotto di una osservazione superficiale ed incompleta della vita quotidiana. La vita di osteria e le allegre compagnie che percorrevano la città fino a tarda notte, erano prodotto di una vita convulsa trascorsa tra il duro lavoro ed un alloggio sovraffollato ed inospitale. La memorialistica parla di giovani lavoratori senza casa che passavano le ore libere dormicchiando o giocando a carte nei caffè. Quanto alle osterie, le stesse fonti ne descrivono due tipi diversi: le osterie che costituivano dei veri e propri centri d’aggregazione della vita rionale e quelle che invece fungevano da avvelenatoi legalizzati per gente ormai abbruttita 30


da un lavoro massacrante e da condizioni di vita subumane. Le canzoni dei concorsi venivano lanciate nei primissimi giorni di carnevale ed erano eseguite per tutto il periodo carnevalesco dai cori e dalle orchestrine che si esibivano durante le feste ed i corsi mascherati. A Trieste il carnevale era solennizzato con un gran numero di feste e di concorsi per la più bella maschera o il più bel carro. Nell’ultimo decennio del XIX secolo il carnevale triestino toccò l’apice. Nel periodo compreso fra l’Epifania e la settimana grassa non vi era sala o teatro che non organizzasse feste o veglioni a cui prendevano parte centinaia di persone. Ogni sodalizio e perfino alcune società di mutuo soccorso tra gli esercenti la medesima professione, avevano cura di organizzare le loro feste sociali. Durante la settimana grassa, la città era percorsa da cortei di maschere e da carri mascherati. Nei giorni di martedì giovedì e sabato la folla veniva bersagliata con dolciumi e confetti lanciati dalle carrozze e dai carri mascherati. Il carnevale assumeva in questo periodo, un carattere generale in quanto la maggior parte della popolazione si mascherava e scendeva in strada dove si formavano comitive spontanee di decine di persone che percorrevano le vie cantando e facendo scherzi ai passanti. Tra le fiumane di gente che si riversavano per le vie si potevano notare degli individui isolati vestiti da dottor Balanzone o da Arlecchino. Questi costituivano l’èlite del carnevale triestino, in quanto erano tenuti ad improvvisare vere e proprie recite su richiesta dei passanti o degli avventori dei locali in cui entravano. Tra gli Arlecchini vigeva l’usanza di sfidarsi a vere e proprie gare di recitazione, ed il vincitore aveva il diritto di togliere la maschera dal viso dello sconfitto, che da quel momento non poteva più coprirsi il volto per tutta la durata del carnevale. Le canzoni dei concorsi penetravano in periferia già nei primi giorni della loro vita, in quanto erano portate dalle comitive che dopo aver preso parte ai festeggiamenti nel centro cittadino, tornavano nei quartieri d’origine cantando i motivi che avevano festeggiato in serata. Qualche volta la gente s’impadroniva dei motivi delle canzoni popolareggianti e li adattava a versi nati sul momento che se non avevano un significato profondo esprimevano almeno un’autentica allegria. Questi espropri musicali interessavano anche la musica colta.

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Nel volume, “Vose de Trieste passada” autore Alberto Catalan, triestino; nel suo contenuto si dimostra formato di poesie popolari e popolareggianti, nel chiaro e arguto dialetto triestino, per la maggior parte accompagnate dalle loro musiche e tutte corredate di annotazioni illustrative opportune ed esaurienti. Lavoro che è costato all’autore oltre un trentennio di ricerche pazienti e faticose. Si tratta di raccolta popolaresca, poetico-melodica, sul tipo dei “Documentari centro storico”. Testimoni, documenti sempre vivi di vita vissuta e di una data gente, da questa lasciati in eredità ai suoi figli, voce di molte generazioni di una volta, con la quale si possono ancora esprimere le generazioni d’oggi e di domani. La musica insiste sulla varietà modale maggiore, predominante nelle melodie popolari ottocentesche delle regioni dell’alta Italia e adatta al canto in coro improvvisato, alla maniera dei cosiddetti “falsi bordoni” delle antiche laudi spirituali cinque-seicentesche. Nelle melodie triestine, il modo minore fa solo rade comparse episodiche ed insignificanti e una melodia tutta intera in modo minore difficilmente si può incontrare, caratteristico essendo, questo modo, di canti arcaici e di regioni meridionali e di struttura monodica. Molte delle suddette melodie poi e di modo maggiore comune, cadenzano sulla terza del tono, che vuol dire sottointendere l’accompagnamento di una seconda voce a una terza maggiore o minore sotto nel qual fatto però non toglie che anche quelle cadenzanti sulla tonica finale, e specialmente in maniera ascendente, non debbano e non possano essere cantate a due o a più voci a somiglianza delle altre, rappresentando esse, in qualche caso, l’autentica parte bassa della melodia a due voci per terze rimasta casualmente distaccata dal complesso e cioè un reale tipo di basso tramutato in “tenore ostinato” o restato “basso ostinato”. Alberto Catalan, compilatore ed illustratore della raccolta, è uomo di cuore, di fede e di cultura. Ama italianamente il suo paese e crede cordialmente in queste voci di poesia e di anima di un popolare e nella profonda umanità del suo richiamo, possiede chiaramente e non scarsamente quante cognizioni e quale coscienza gli occorrono onde raggiungere il fine prefissosi. Ed ad accertare la veridicità di tali mie affermazioni valgano, oltre al ricco, vario, fresco e vivo materiale poetico-melodico raccolto e costituente il contenuto del presente “Documentario” valgano le copiose, efficacissime e sagge annotazioni illustrative dell’autore, che non mancano ad ogni voltar di pagina e che preso per le mani il lettore lo accompagnano e guidano attraverso il mondo tramontato e misterioso dei nostri padri, svelandolo ai nostri occhi e dove noi potremmo forse afferrare il presentimento e l’ orientamento del nostro divenire, rimirandovici dentro come in uno specchio magico, per ritrovare noi stessi. FRANCESCO BALILLA PRATELLA. Ravenna, 22 agosto 1953. 32


Il Canale di Ponterosso con la Chiesa di S. Antonio Nuovo e dei Serbo-Ortodossi

Alberto Catalan, da “Vose de Trieste passada” Del Bianco Editore - Udine - 1957 Nessuna pretesa o aspirazione di meriti ha la presente raccolta. La mia modesta opera è solamente quella di un appassionato ricercatore di canti della terra di San Giusto, da troppo tempo ormai trascurata nel campo folcloristico nazionale. Mi sono limitato a riesumare tutto ciò che il nostro popolo cantava un tempo. Premetto ancora che non tutte le canzoni triestine qui incluse sono puramente tali: alcune provengono da altre Regioni. Nella mia raccolta ho voluto includere anche le canzoni che non appartengono alla produzione anonima, bensì a quella d’autore, le quali poi per cause, vicende e motivi diversi sono divenute dominio popolare. Per dare una spiegazione logica alla provenienza di canzoni da altre regioni basterà ricordare la simpatica realtà dell’unione spirituale che esistette fra Trieste e l’Istria, che divenne via via un legame indissolubile da quando caduto Napoleone I e determinandosi quella fraterna comunanza di idee, pensieri e sentimenti che le vincolò anche nel cantare. Avvenne così che parecchi canti istriani immigrati a Trieste e molti canti triestini emigrati in Istria si affermarono e si diffusero con reciproca fortuna. Quanto alle altre canzoni non originali e non originarie, esse ci sono pervenute dalla sponda italica dell’ Adriatico oppure sono state portate da Paesi stranieri ed hanno subìto delle trasformazioni nella struttura melodica ed armonica, poiché il triestino - oltre ad avere un finissimo orecchio musicale possiede una sensibilità polifonica spiccata, particolare, e tale da 33


consentirgli di creare all’istante, con invidiabile facilità, da una semplice linea melodica un canto a tre, quattro, e più parti. Ma se il nostro popolo accetta, adotta e rispetta una melodia non sua, non fa altrettanto del relativo testo poetico. Si impossessa subito del vero senso dei versi, li fa suoi, e poi a piacimento li riduce, li muta, e li riadatta al motivo adottato. Se in una canzone dal testo dialettale gli viene a mancare una rima, non se ne sgomenta: con tutta facilità ne trova una, sia pure di diversa natura poco importa se in lingua o in vernacolo - senza badare se talvolta il senso ne venga più o meno fortemente alterato. Per concludere, il nostro popolo è più musicista che poeta, alla satira sana, al genere burlesco, a quel misto di causticità e di bonomia che fiorisce nel gergo più godibile con metafore, analogie e sottintesi che colpiscono sempre a segno e muovono al sorriso anche i volti più afflitti ed arcigni. Psicologicamente poi, tende a cogliere il lato migliore, il significato più lieto e l’aspetto meno buio dell’esistenza. E nondimeno il Triestino non evita i motivi tristi né chiude gli occhi dinanzi al dolore; ha un’anima che sa affrontare anche le angosce, i sacrifici, le burrasche più violente (non per nulla è marinaro) attingendo lena e resistenza da fonti inesauste, dall’innata tendenza alla lietezza, dalla spensieratezza che non gli consentono mai di accasciarsi e di lasciar accasciare chi gli è vicino. Il suo dialetto infine si vivifica nel raggio di una parlata chiara, limpida, scorrevole, pittoresca, la quale seconda al romanesco, ma non certo inferiore per vivezza alle altre parlate venete ha molte affinità con la lingua purgata, di cui anzi conserva parecchie interessanti voci arcaiche. Sarò profondamente soddisfatto se questa mia raccolta potrà interessare i cultori e gli amatori del genere, ben lieto di aver dato anch’io un modesto contributo allo studio del folclore triestino. Trieste, dicembre 1952 ALCUNI GRIDI DELLA STRADA raccolti dalla viva voce dei venditori ambulanti. 1 - Il primo era un venditore di lucidi e lacci da scarpe, forcine, fiammiferi ecc. Aveva il suo banchetto all’angolo di via Barriera Vecchia (ora Corso Garibaldi) e Piazza delle Legna (ora Piazza Goldoni). Era noto sotto il nomignolo di” Micelin de le forchete” (Michelino delle forcine). Ed ecco come si esprimeva per attirare l’attenzione dei passanti; “Patina, furminanti, grasso de Francia, argento vivo,... Pirulin pin pin, Pirulin pin pin. 2 - Un bel tipo di venditrice ambulante era la cosidetta “Bàmberle”, un donnone colossale. Sul conto di lei si sussurrava che, per vendicarsi di un 34


tradimento coniugale, una notte approfittando del profondo sonno del marito avesse tolto a costui ogni ulteriore possibilità d’inganno; e tuttociò... mediante un ben aggiustato colpo di rasoio! Vendeva”cordele” (fettucce) d’ogni colore, legate alla cima d’una lunga pertica che portava a mo’ di stendardo. Sul braccio teneva lacci da scarpe ed altro ancora. Usava esprimersi, con voce roca, così: “Nastri, cordele, spighete, donete”... 3 - L’idolo dei ragazzi era il vecchio Centassi, venditore di gelati. Aveva il posto di vendita fisso in Piazza del Sale (ora Piazza Cavana). Piccolo di statura, con una barbetta grigia, portava in testa un berrettino di seta; teneva allacciato alla vita un grembiulino bianco. Vendeva” gelato de quel fin “, che era realmente il migliore a quel tempo. La sua pubblicità era impostata come segue; “Ai gelatiiiiiii! Chi sta ‘ssai no ghe ne toca! Ma la senta che gelato! El xe ‘pena ‘rivà de Napoli! Ma la senta che sorbeto! Ai gelatiiiii!” 4 - Segue il grido d’una venditrice di rape cotte; un grido “ufficiale” che risuonava in tutte le piazze e nelle contrade popolari: “Calde le rave caldeeee, rave caldeeee, boneeee”. 5 - Da ultimo il grido del pari ufficiale delle venditrici di ricotta: “Puìna! Puìnaaaa!”... “El diavolo te strassina!”, rispondeva la “mularia”.

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TRIESTE - STABILIMENTO BALNEARIO MARIA litografia artistica di Alberto Rieger - dis. Lit. di B. Linassi 355 x 580 (505 x 680).

Domenico d’Angeli apriva per il primo in Trieste un bagno marino galleggiante nel 1824 con esercizio di nuoto, pel quale ebbe privilegio, collocato presso alla piazza Giuseppe I, ed accresciuto di poi, per farlo d’uso anche delle signore. Alla punta del molo teresiano si instituì una scuola militare di nuoto, la quale era aperta anche a civilisti d’ambo i sessi. Nel clima di Trieste, furono stabilite varie galleggianti, lo stabile col nome di Stabilimento balneare Maria, fu costruito su tubi galleggianti, su disegno dell’ingegner Lorenzo Furian, da una società per azioni di cui erano soci Ferrari e Luigi Chiozza, ricco commerciante e proprietario dell’omonima fabbrica di saponi, nelle officine dello Stabilimento tecnico triestino, che merita più speciale descrizione. Questa colossale galleggiante, lunga 160 piedi e larga 86, non poggia né su barche né su zattere, ma sopra grossi tubi di ferro, che formano come dei cassoni o pontoni, su cui galleggia; ed è leggera a vedersi, e pure fortissima e sicura, anche nelle più forti intemperie. V’è ampia gradinata, peristilio, sala, antisala, e caffè; vasche comuni, e separate a gabbia che si fanno scendere nel mare, tanto per uomini, quanto per Signore; nonché 36 camerini per bagni particolari, vasti, spaziosi e bene ammobigliati. La facciata ha sei archi, e quattro torricelle ai lati, un poggiuolo esterno e gallerie; da un lato pegli uomini, dall’ altro per le Signore, per le quali vi sono donne incaricate del servizio. In tutto poi è addobbato con lusso e buon gusto; il servizio è ottimo. Il disegno di questo stabilimento balneare, che non ha finora rivali è per la sua posizione centrale, di facciata all’Hotel de la Ville, il più comodo di tutti, è dovuto all’ingegnere sig. Lorenzo Furian; il sistema dei tubi onde sostenerlo, al primo tenente del genio sig. Stolfa, con alcune modificazioni dei sig. fratelli Strudthoff, che inaugurarono con questa bell’opera il nuovo Stabilimento tecnico triestino, per cui dopo l’apertura della ferrovia, qui accorrrono da ogni parte i forastieri, specialmente dalla Germania, dalla Stiria, dalla Carintia, onde profittare della tanto proficua cura dei bagni di mare, in una posizione amena e centrale, in una plaga bellissima, in uno Stabilimento a niun’altro secondo. Esistono pure in Trieste alcuni Stabilimenti di bagni tiepidi dolci e di mare in camerini separati in belle vasche di marmo; l’uno all’ Hotel de la Ville, di cui parliamo a suo luogo; l’altro del sig. Oesterreicher, in via del Lazzaretto vecchio. (Appunti di viaggi Ed. CR Gorizia - 1995). 36


Claudio Noliani Tipicità del canto popolare Triestino “Canti del popolo triestino” Libreria internazionale Italo Svevo - Trieste 1972 è noto che il dialetto triestino ha origini ladine, ma intorno al 1130 la parlata friulaneggiante (l’antico “tergestino”) poteva dirsi ormai sopraffatto dalle correnti venete, onnipresenti anche in passato. In mancanza di testimonianze scritte, è lecito supporre che per lungo tempo i bei canti, le struggenti villotte friulane per una certa parte di origini patriarchinoaquilesi siano stati di casa a Trieste. Del resto, linguaggio e canto sono inseparabili. Ma da oltre un secolo a questa parte, con il fiorire del dialetto venezianeggiante, le simpatie del popolo triestino andarono progressivamente orientandosi verso le espressioni poetico-musicali venete. Varie villotte dal tipico testo in endecasillabi, mutuate soprattutto dalle genti istriane, già circolavano da molto tempo specie negli ambienti marinari. Se le correnti di scambio con l’Istria sorella sono state molto vive, non è trascurabile l’influsso toscano (non fosse altro per la secolare presenza a Trieste di parecchi oriundi da quella terra) e quello romagnolo e marchigiano, dati i frequenti contatti commerciali con quelle popolazioni. Inevitabile, data la posizione geografica e la composizione etnica, l’infiltrazione di voci e motivi stranieri. Circa l’influsso austriaco, il canto popolare carinziano e le gaie marcette militari hanno avuto certamente la loro parte. Sensibile pure l’influsso sloveno, anche per una certa comunanza di gusti in fatto di cordialità spontanea. Le creazioni poetico-musicali del popolo triestino non costituiscono un corpus nettamente distinguibile da quello delle altre zone dell’area veneto-giuliana. Ove il confronto si estenda al patrimonio popolare friulano, più evidenti appaiono invece alcune caratteristiche distintive, per quanto non manchino motivi di origine carnica rielaborati secondo il tipico gusto locale. Fra le peculiarità più salienti mi limiterò a citare le seguenti: a) brevità, concisione, chiarezza di concetti; b) inizio in anacrusi (tratto melodico precedente il tempo forte del ritmo); c) frequente presenza della nota di slancio cui corrisponde nel testo una congiunzione pleonastica (e o ma); 37


d) tendenza all’elisione della “n” nei diagrammi “nd” ed “nt”; e) coralità spontanea risalente all’arcaico ison-bizantino e ad alcuni modi popolari del primo Medio Evo; f) frequenti passaggi di una voce alle altre due parti corali, ed in specie alla terza superiore; g) riduzione degli intervalli ed abolizione dei cromatismi nelle rielaborazioni di canti di produzione colta; h) influsso nelle normali sequenze di accordi della fisarmonica sulla determinazione della linea melodica; i) nessuna ricerca di pathos nei canti narrativi (musica oggettiva, come nelle parlate di lontana memoria; l) deterioramento della lingua letteraria, piegata a modi dialettali.

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Janija Hauphmann - Stregonerie “Quaderni friulani”, n. 5, Marzo 1976 - Udine Neppure il Friuli ed il popolo friulano che il Nievo definiva “genti robuste e semplici, tranquille, abbarbicate da tenerissimo affetto a un suolo duro ed ingrato” (Ippolito Nievo “Il Varmo”) fu esente da questa calamità, ed il cristianesimo friulano che aveva classificato come stregonerie ogni rito che non fosse cristiano, mettendo fuori legge quel patrimonio di credenze preesistenti che non potè sradicare od assorbire, aveva creato una categoria del reale anche per i fatti che apparivano super o preter naturali. In questo universo brulicante di figurazioni terribili e suggestive vennero a convogliarsi le spinte interiori che non trovavano espressione nè sblocco nelle categorie accettate dalla cultura dominante: ossia i modi proibiti d’ogni genere. Con l’etichetta di stregoneria la paura sfogava ed insieme censurava una vasta gamma di tabù sessuali, fantastici ed ideologici, mentre lo spirito di rivolta trovava nel marchio della stregoneria una facile spiegazione al bisogno di libertà e cambiamento, ed anche una formula ed un linguaggio, di violenta prevaricazione, di ripudio orgoglioso e blasfemo, di ribellione spesso lucida, talvolta disperata e comunque sempre dissacrante e paurosa. Entrambe queste componenti - la paura e la rivolta - tendevano ad impadronirsi d’una forma di potere o a crearsi un potere nuovo e tutto proprio. La più antica memoria del tribunale dell’Inquisizione nel nostro territorio è del 1° agosto 1317 quando frate Francesco da Chioggia dei Minori Osservanti, inquisitore contro gli eretici di Venezia, Treviso, Verona e Friuli, dichiarò Paolo Bogani di Cividale e suoi eredi, ufficiali del Santo Uffizio, accordando loro la facoltà di assoluzione e di indulgenza alla giurisdizione dello stesso inquisitore. Quindici giorni dopo questo riconoscimento ufficiale, frate Francesco accorda i medesimi diritti a coloro che lo seguirono nella crociata da lui predicata in Cividale contro taluni eretici di Caporetto, i quali veneravano un albero ed una fonte che scaturiva ai piedi di un monte. Il tribunale del S. Uffizio aveva sede in Udine nel monastero dei Minori Conventuali di S. Francesco, notizie precise della presenza di una padre inquisitore nella città friulana si hanno comunque solo nel 1557 ed il più antico processo di cui si abbia notizia fu istruito a Udine contro il calzolaio Gerolamo Venier ed altre persone tra cui un prete. Il Venier fu consegnato al braccio secolare, ma col fare solenne abiura dei suoi errori si sottrasse alla morte. è interessante notare che l’inquisizione friulana a differenza di quelle operanti nei vescovadi dell’Italia settentrionale di Bergamo, Brescia, Milano e di quelle che agivano nei protettorati cattolici della Germania, che erano note per la loro crudeltà ed efferatezza, fu piuttosto lenta e parsimoniosa 39


nelle condanne comminate, e tutti insieme si mettono a descrivere vertiginose capriole, passando e ripassando sotto l’arco delle due braccia congiunte. Alcunchè di simile è la Stajare, che i nostri contadini chiamano la Ziguzaine. La Neubayrische era una danza compassata e cadenzata, in cui si vedeva le coppie, dopo fatto qualche giro di valzer, arrestarsi di colpo, interrotta la musica, per battere alternativamente due vuole le mani, o i piedi. La Roseane è forse la danza più caratteristica di tutte. La musica è una strana nenia in tono minore a tempo di galoppo, suonata ordinariamente da due violini e un contrabbasso. I due ballerini giocano di piedi senza toccarsi mai, la donna tiene fra le mani i lembi del grembiule o un fazzoletto, l’uomo, a sua volta afferra le estremità anteriori della giacca o della giubba (veladòn); ogni qual tratto prendono la rincorsa, si passano vicini curvandosi, quasi volessero scambiarsi inchino, un complimento, e tornano alle due estremità dell’agone a giocare di piedi, per ripassare poco dopo dal lato opposto. A Resia, il giorno della sagra, e occasione di matrimoni, ho veduto ballare sulla strada, senza tavolato; purchè non vi sia ghiaia o il selciato non sia troppo sconnesso, ogni spiazzo è buono per ballare la Roseane. Il freddo soltanto obbliga d’inverno a ballare nelle case. Carnevale e Quaresima. Durante il Carnevale si fanno i veglioni mascherati. In città e nei grossi borghi, le maschere hanno qualche pretesa. Abbastanza frequenti sono i maghi, serve, le resiane e altre slave, le cargnelle, i contadini dell’Alte; i ricchi indossavano costumi storici, o fogge di vestire di altre regioni, secondo il figurino della moda. Ma nei villaggi tutto è buono per improvvisare una mascherata. Gran sfoggio di colori sfarzosi, di camicie e gonne bianche e scialli dalle tinte smaglianti, che penzolano dalla cintura in tutti i versi e modi; nastri, fettucce, foglie vere di alloro cucite a capriccio sul vestito, filze e corone di gusci di chiocciola, di titoli o di cartocci di maiz infilati a uno spago e legati intorno ai lombi, alle gambe o alle braccia, trecce di foglie di cipolla e d’aglio da cui siano stati staccati i bulbi. Tutto ciò che può conferire un’impronta straordinaria, bizzarra, originale, tutto serve benissimo all’uopo. Quindi vestiti logori da prete, tube vecchie tutte sgualcite, cappelliere e magari cappellini da signora, fuori di moda e rosi dai topi, bisunti, polverosi, con ragnatele; un paiolo sulla testa, una vecchia chitarra montata con corde di spago, un antico ombrello tutto lacero e sdrucito, un pitale nuovo di fabbrica invece di bicchiere, e qualsiasi altro oggetto inusitato bastano a destare riso e l’ilarità degli astanti - ed è codesto appunto lo scopo a cui si tende. La maschera al viso è poco usata; preferiscono impiastricciare il volto di fuliggine o di farina bianca, oppure bagnarlo con una soluzione gommosa, e poi cacciarlo nella piuma, nella bambagia, nei fagiuoli, nel riso, nel frumento, ne sorgo, nell’avena, nelle lenticchie, ciò che dà alla faccia un’impronta stranamente ridicola. 40


Pierpaolo Pasolini - Poesia popolare in Friuli “La poesia popolare italiana”, A. Garzanti - Milano 1960 “Di fronte alla grande corrente di lirica popolare, che va con caratteristiche sostanziali e formali costanti, dalla Sicilia all’Istria, e di fronte alla grande corrente narrativa, che si estende dal Piemonte all’Adriatico quasi incrociandosi con l’altra, la poesia popolare friulana rappresenta “scrive il Chiurlo,” un’oasi del tutto originale e precisa da esse, incuneatesi nel flusso delle due correnti, cui lascia passare al di sopra di sè e sente premersi ai lati dalle due Venezie. In ciò appunto più singolare che - a differenza della sarda, la quale forma anch’essa un’oasi nelle comuni tendenze della poesia popolare italiana - si trova isolata non da prepotenza di mari e di monti, ma soltanto dalla pertinace individualità delle gente che l’ha prodotta. Nè il suo valore artistico è da meno chè, per comune consenso degli studiosi di demologia, le villotte del Friuli sono fra i canti popolari più profondi”. “Il quadro è dunque chiaro: a parte le ultime osservazioni dovute a carità di patria. Quanto alla prima di queste (“pertinacia” in sede psicologica), l’insularità conservativa. Bisognerebbe parlare di una sorte di passività, di rinuncia di fronte al gran moto evolutivo della storia trascorrente per il centro della nazione, e di conseguente chiusura nell’umile mondo paesano. Passività, rinuncia, chiusura che non son dati negativi nell’ambito di una “ingenuità” popolare. Specie per quanto riguarda questo popolo, insieme così nordico, nel suo moralismo e così meridionale, nel suo abbandono melico, insieme goffo e agile, duro e allegro; che vive in una sorta, per così dire, di substrato politico, di rustico mondo a sè, a suo modo nobile, su cui sono passate, senza intaccarlo, senza guadagnarlo e senza essere guadagnate, le dominazioni esterne, dalla veneziana, alla fugace napoleonica, all’austriaca, nell’umbertina e, si potrebbe aggiungere, alla fascista. Senza una grande tradizione democratica comunale e senza una grande tradizione risorgimentale, questo popolo non ha tuttavia nessuno di quei vizi sociali che caratterizzano appunto i popoli privi di tali tradizioni. O per lo meno si avverte, di quei vizi, un solo vago s’apre, là magari dove è più grigia e fredda la miseria, nelle “aree depresse” della Carnia o della Bassa, ma esso non intacca una loro nativa nobilità di diritezza di costume: remoto forse nel tempo come il loro sopravvissuto ladino. Quanto alla “profondità” sarebbe opportuno parlare semmai di “intimità”. Particolarmente complesso risulta il carattere sentimentale delle villotte friulane: e se la quartina di ottonari di cui consta, non provvedesse a ridurlo a una esterna semplicità e freschezza, complessi apparirebbero anche i caratteri stilistici. Non sembri quindi del tutto gratuito al lettore il nostro ritorno nell’ordinamento tipografico del materiale friulano - al 41


gusto psicologico e romantico della suddivisione per “sentimenti” o “contenuti” del canto popolare. è vero che noi abbiamo limitata la nostra antiquata suddivisione ai due titoli Allegria e Malinconia, cioè a due chiavi musicali o a due categorie psicologiche; e di cui esistono, tra le più cantate, due epigrafi dello stesso canzoniere friulano: “E l’allegrie a è dai zovins” e “jo non pues parale vie - jo non pues parale fûr - cheste gran malinconie”, di sapore profondamente popolare. Le situazioni, sia affettive che ambientali, espresse attraverso questi due “toni” sono naturalmente uguali: sfumando, naturalmente, dall’esterno all’interno. All’esterno si raffigura un mondo completo nella sua tradizionale e rusticana “allegria” e che esclude - come “elemento disapprovato” del tratto culturale - ogni atteggiamento di insoddisfazione, di ansia da cui quel mondo resti incrinato (sì che la vita ne risulta costituita di dati eterni accettati dal danneggiato vivente con spavalderia, con grinta: i ragazzi della Bassa e le ragazze della Carnia; i ragazzi che emigrano “Ce a Vignesie e ce in Friûl” o che vanno soldati, e le ragazze che restano; i ragazzi del borgo, e i ragazzi dei borghi vicini, “forestiers” che scendono sfidando le liti e le sassaiole, ecc. ecc.). Mentre, man mano che l’interesse si sposti verso l’intimo, quel mondo, visto attraverso un proprio sentimento (angosce per l’abbandono, tenerezze e talvolta, nelle ragazze, presagi delicatissimi, misteriosi (quasi magici), si fa sempre più inoggettivo, sostituendo la propria verità quotidiana e naturale con una verità religiosa. Alla base di tale improvvisa capacità di “rivelazione” (la durata è quella fulminea di una villotta), è quasi sempre un concreto e come liturgico senso di colpa: e alla luce di questa sehnsucht - quasi il senso di povertà e ingiustizia si liberasse dagli apriorismi dell’obbligatoriamente allegra rassegnazione - il mondo del paese friulano appare intorno velato da una tristezza profonda, con le sue origini e le sue grigie case di sassi aggruppate sopra un desolato monticello, o tra i vuot magredi, o tra i verdi gelseti delle risorgive. Vilotis -Villotte Domandât, i ai na rosine Al mio zovin benedèt, Lui m‘à scuarte la manine E ai ciapàt un biel macet. Domandato ho una rosa al mio giovane benedetto: lui la mano m’ha guidato, e ho acchiappato un bel mazzetto.

Ches tetinis, ches tetinis, Cuand mes dastu di bussà? Lor son duris, tarondinis, Jò lu sint in tal palpà. Quelle tettine, quelle tettine, quando me le dai da baciare? Sono dure, rotondette, me ne accorgo nel toccarle. 42


Giampaolo Gri -Villotta e popolo Friulano “11 Punto”, n. 3 Febbraio 1979 - Udine Nel 1973, al primo congresso regionale dei gruppi corali-bandisticifolkloristici tenutosi a Udine, Gaetano Perusini suscitò con la sua relazione le ire di alcuni direttori di complessi presenti per aver messo il dito con forza sulla piaga delle falsificazioni (di canti, danze, costumi) spacciate per autentica cultura popolare friulana. Riprendo alcune linee di quel discorso perché mi sembra conservi ancora buona parte della sua validità. Quanti sono i gruppi folkloristici in Friuli? è opportuno guardare oltre i numeri e analizzare meglio questo rapporto fra cultura popolare e sua riproposizione attraverso i gruppi folkloristici. C’è, innanzi tutto, una osservazione da fare sulla divergente evoluzione dei due termini di rapporto. Abbiamo, da un lato, la fortuna progressiva del modello del gruppo corale “laico” che dai timidi inizi verso la metà del secolo scorso si è andato via via imponendo fino a sostituire quasi completamente i gloriosi cori parrocchiali: agli scopi puramente decorativi degli inizi (quando i gruppi folkloristici servivano ad allietare i soggiorni delle personalità di passaggio) e a quelli ricreativi si sono sostituite finalità culturali, ed oggi non pochi dei gruppi dichiarano esplicitamente - e finalmente - le premesse “politiche” che giustificano la loro azione di riproposta. Sull’altro versante abbiamo invece la cultura tradizionale (e soprattutto quella popolare) che si è andata profondamente trasformando in direzione opposta. Il canto popolare non esiste più nelle modalità specifiche di produzione-fruizione-trasmissione che gli erano proprie ancora fino a oltre due decenni fa: può essere recuperato soltanto attraverso la memoria di qualche informatore anziano, rimane documentato nelle raccolte lasciateci dai folkloristi di ieri, viene conosciuto dalle nuove generazioni attraverso i dischi, le musicassette, l’ascolto dei gruppi corali. Che il revival del popolare si imponga quando il popolare scompare, almeno nei suoi connotati tradizionali, non meraviglia: non è dato solo friulano e fa parte della cultura dei nostri anni, con tutte le sue ambiguità. Quello che è necessario ed urgente chiederci è: l’azione di riproposta dei gruppi folkloristici, oggi, che caratteriche ha? in che termini avviene? rispetta - pur entro lo specifico “spettacolare” che si richiede ai gruppi - quell’esigenza minima di documentazione fedele del passato che si richiede perchè non si trasformi in inganno, non alimenti miti deteriori, non sia contribuito alla falsificazione invece che alla crescita della consapevolezza del proprio passato? Nel 1977 avevamo a disposizione una ottantina fra dischi e musicassette (oggi saranno certamente di più) di carattere folklorico: il meglio dei 43


repertori dei numerosi gruppi corali sparsi in tutta l’area friulana. Una situazione invidiabile, si direbbe, rispetto ad altre regioni italiane; eppure, l’analisi dei brani riproposti dà risultati che non esito a definire scoraggianti. Scontata la larga presenza di canti d’autore (soprattutto Escher, Zardini, Garzoni, i pout-pourri di Seghizzi), i canti popolari che risultano riproposti sono una novantina. Alcuni brevi commenti a questi dati: 1. Mi pare, su queste basi, difficile sostenere che i gruppi corali hanno contribuito al recupero e alla diffusione della conoscenza della musica popolare friulana. A fronte dei 90 canti riproposti stanno gli oltre 10.000 testi (considerate ovviamente le varianti, che sono elemento essenziale di un canto che era trasmesso oralmente) raccolti in Friuli dal secolo scorso ad oggi. Più che di diffusione, mi pare opportuno parlare di riduzione e di contrazione del repertorio popolare reale dentro confini ristrettissimi: neppure l’1% ancora tutta da scrivere la storia della conseguenze - sui repertori popolari reali e sulle loro trasformazioni - di quest’opera di selezione drastica operata dai gruppi corali. Se ovvie risultano le colpe dei responsabili dei gruppi corali, altrettanto ovvie le colpe degli studiosi, dei ricercatori, degli enti culturali friulani rèsisi incapaci di divulgare e di trasformare i risultati di un lavoro di ricerca pur meritorio in elemento di crescita culturale (e civile) del Friuli. 2. Le melodie popolari documentate e documentabili sono naturalmente in numero molto minore rispetto ai testi: su una stessa “aria” esistevano le varianti locali che moltiplicavano automaticamente un numero apparentemente ridotto e di una stessa aria si adattavano decine e decine di testi diversi. In ogni caso, ad essere riproposte non sono le melodie popolari ma nella quasi totalità le trascrizioni e le armonizzazioni che uscirono dalle inchieste tutt’altro che sistematiche organizzate dalla Società Filologica Friulana negli anni venti ben prima, cioè, che non solo in Friuli ma in Italia nascesse una etnomusicologia degna di questo nome. Da allora (e sono 50 anni) si è prodotta una frattura mai più colmata fra il canto popolare reale - che ha continuato a trasformarsi ed a modificarsi - e la sua riproduzione da parte dei gruppi corali che hanno proceduto e procedono (non tutti, per fortuna, ma la larga maggioranza), per una sorta di partenogenesi, da armonizzazione in armonizzazione senza più alcun contatto con la realtà. Con il risultato che ancora oggi si riproducono gli ultimi derivati di trascrizioni non fedeli legate alla realtà del canto popolare del primo dopoguerra. 44


Ma anche qui l’accusa coinvolge solo in parte i gruppi folkloristici cui naturalmente non si può chiedere 1’impegno che invece si richiede a ricercatori e studiosi che pagano una situazione di ritardo culturale ed altri livelli: non è un caso che il Friuli non esista ancora, nemmeno in progetto, una nastroteca che esca da ricerche serie e sistematiche sul campo, e che alla Discoteca di Stato la regione meno rappresentata sul piano documentario sia proprio la nostra. Un discorso a parte andrebbe naturalmente fatto per la minoranza slovena e la val Resia in particolare, oggetto da qualche anno di attenzioni speciali anche da parte degli etnico musicologi (e ricordo, per la notorietà dei nomi, Lomax e Carpitella, oltre che gli studiosi sloveni, Merkù). 3. La quasi totalità dei novanta canti riproposti in dischi e musicassette è costituita da villotte. Viene così a perpetuarsi quella identificazione fra villotta e popolo friulano (fra “spirito” della villotta e “spirito” friulano) che costituisce uno dei luoghi comuni duri a morire costruiti agli inizi di questo secolo su una serie di postulati senza fondamento: identificando i contenuti di prodotti “artistici” con i loro produttori-fruitori (ed è già operazione assurda) e i prodotti “popolari” con quelli dialettali; isolando i canti dai contesti specifici entro cui si inserivano dimenticando che la villotta è un genere in tutto e per tutto storico, sia dal lato testuale (la documentazione che abbiamo non va oltre il secolo scorso, e da decenni il genere non è più produttivo), sia da quello musicale (i sec. XVII-XVIII se ne discute ancora); trascurando o considerando elementi spuri ed estranei altri generi, altre forme, altri testi (in italiano e in veneto) che pure ricerche sul campo seriamente impostate - sollecitate da Barbi e Santoli, agli inizi - andavano rivelando, fin dagli anni trenta largamente presenti in quantità e prestigio nei repertori popolari. Eppure, di tutto quanto è stato canto popolare ma non villotta in friulano! c’è ancora scarsissima traccia nelle riproposte. 4. Una conseguenza immediata del carattere riduttivo delle riproposte è l’immagine del tutto inadeguata che del canto popolare friulano si ha fuori della regione.

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Gianni Pinguentini “Fiabe, leggende, barzellette triestine” E. Borsatti editore - Trieste 1955 Le saline de Muia I muisani, dopo che le saline iera stade dismesse nel 1829, i se gaveva messo a far i contrabandieri pezo de prima. De note i ghe fazeva segno, coi spagnoleti impizai, a le barche dove che le pode sbarcar el contrabando. Naturalmente iera i rota coi finanzieri che ghe fazeva la sguàita. Una note i contrabandieri i ga ciapà una de ste guardi più severa delle guerdie, i la ga copada, i la ga dispoiada e i ga butà el corpo nudo in mar. Dopo i ga ciolto un muss, i ghe ga meso in testa la bareta del finanzier morto, e sula schena i ghe ga ficà la montura, e i lo ga ligà intorno al casoto dela sentinela. La gendarmeria ga zercà de trovar i colpevoli, ma la zente iera più muta dei muri, e no la ga scoperto gnente. Tempo dopo, nel 1838, l’imperator Ferdinando, fando el giro de tutte le province el xe rivà anca a Muia. Alora una comissione de muisani i ga presentà una suplica perchè el fazessi a verzer denovo le saline. El imperatore li ga ascolti, po siccome el iera mezo sempio e col mal de sanvalentin, el ga tirà fora de scarsela una carta che i ghe gaveva preparà, e el se ga messo a legger la risposta: A siete queli dell’asino? Andate andate a seminar le patate. E cusì, inveze, i muisani i ga continuà a far i contrabandieri. (Sguaita = sorveglianza; ciolto = preso; muss, musso = asino)

Voglio fare il contrabbandiere e ma di pevere e di sale, ma se questa la mi va male in preson me toca ‘ndar. Ma co’ passa la finanza la xe capo mio fratelo là me leverò el capelo el me lasserà passar… (A. Catalan Vose de Trieste passada)

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Ricette Antiche Goriziane - Agriturist Gorizia 1972 “Brodo de zariese sutte” Si prende Zariese e se li mette cucinare mezzo vino e mezza acqua e se li lascia un pocco a boier e dopo se le pesta e se li mette indrio a boier e dopo si mette zucchero e se si volle un poco di Cannella, e aventi di dar in tolla se miscia giallo d’ovo con un pocco di fior di latte e si taglia pane a quadretti dopo rosto, e se pone el brodo e se dà in tolla. Dal ricettario del farmacista Vincenzo de sandonati primi dellOttocento.

Turiac. Ai primi del Novezento a Turiac era 88 zestari, vinti ani dopo era restadi 60. (GO)

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Mario Macchi Punti d’incontro tra canto popolare Friulano e Carinziano Comune di Tavagnacco (Udine) Convegno Internazionale su il Canto Popolare in Friuli, giugno 1979 (Relazione) L’influsso etnico fra canto popolare carinziano e quello carnico (e, per estensione, friulano), va considerato, io direi, alla luce di tre aspetti ben distinti. - Il primo, comune ai due paesi, riguarda la latitudine, o meglio, l’intero ambiente naturale ecologico, per cui il confine è solo politico, essendo io convinto che la montagna, così come la collina, la pianura, il mare, agiscono in modo determinante sulle genti con forme di espressione che si identificano, a prescindere dall’ethnos al quale appartengono. Non esisterebbero, in altre parole, confini etnofonici sul fronte diretto di due opposte etnie, pur nel pieno rispetto dei caratteri puramente autoctoni di queste. O meglio, una discriminazione di questi caratteri diventerebbe, secondo me, impossibile quanto assurda. - Il secondo aspetto è quello del dominio esercitato dall’impero austro-ungarico su vaste terre (Bassa Carinzia, Stiria, Carniola, Trieste, Gorizia, Gradisca e Istria, Dalmazia, Boemia, Moravia, Slesia meridionale, Galizia e Bucovina). - Il terzo aspetto, ultimo ma non meno determinante, è quello migratorio, soprattutto stagionale ma secolare dei friulani dell’intera regione. Di questi tre aspetti quello ch ‘io ritengo più importante è il primo. Estraneo alla lingua, alla cultura, alla storia, da esso trae origine il “melos”, che si organizza in “suoni” i quali esprimono sentimenti astratti, comprensibili quindi a tutti i popoli del mondo. Essendo i tratti di una melodia universali, risulta difficile l’origine di provenienza di una melodia. Il testo letterario non può farne fede in quanto alle melodie si possono adattare testi di altri, o anche dello stesso idioma. è il caso tipico della villotta friulana per cui, a motivo dell’adattabilità deil’ottonario, il popolo intona spessissimo la stessa melodia con testi diversi oppure lo stesso testo su melodie diverse. E talvolta, non friulane. Ma anche quando il friulano abbandona l’ottonario e si esprime con una metrica diversa, ciò avviene in forma di adattamento. Per lo più ai ritmi di danza: il quinario o doppio quinario per le ziguzaine, il senario per la stajare, il settenario per la stiche, da cui le varie canzoni a ballo. A questo punto ritengo importantissimo rilevare che nel Friuli, come in tutta l’Austria, predomini, nelle canzoni a ballo, il ritmo temario moderato. Per intenderci, quello tipico del “ländler”, che ha dato origine al valzer. Origine rivendicata dai francesi ma anche, a tal proposito, il musicologo tedesco Kurt Sachs si trattiene, come egli stesso dice: “di dar fiato alle trombe tedesche in quanto la radice di cosiddetto 48


“ballo a tondo” affonda nell’oscurità dei riti di vegetazione del periodo neolitico”. Che gli austriaci e i carnici si dedicassero in modo particolare al canto e alla danza lo sappiamo da alcune preziose testimonianze. Il poeta Reimar Haguenau (XII secolo) afferma che nel suo paese “tutti danzavano e suonavano, ricchi e poveri”. In modo analogo l’umanista friulano Jacopo Porcia (VI secolo) rivelerà come gli abitanti della Carnia “si dilettassero moltissimo di danze canti, offrendo a chi guardi un gradito spettacolo”. Testimonianze preziose ma che ci separano da troppi secoli. Chi potrà stabilire in quale e quanta misura abbia influito sul popolo quella tipica raffinatissima cultura che da Vienna si è irradiata in tutta l’Europa, tanto da dare a quella città l’appellativo di “capitale della musica”? Quella peculiare musica viennese dalla quale emana tutta la gioia di vivere, l’allegria, la pace, la serenità d’animo, la cordialità. Sentimenti che si riassumono nell’intraducibile vocabolo “gemütlichkeit”. Io penso che in nessun paese del mondo come nell’ Austria, si sia verificato un processo di simbiosi così accentuato tra la musica colta e quella del popolo che la cultura viennese abbia influito sul popolo attraverso il cosiddetto “processo discendente”, dovrebbe essere fuor di dubbio, così come la musica del popolo ha sicuramente influito su quella colta attraverso il “processo ascendente”, come lo dimostrano certe danze di Mozart, Beethoven e di Schubert. Autori che non lo hanno disdegnato di attingere da motivi autenticamente popolari. Motivi di danze espressi soprattutto nella caratteristica forma del già citato “ländler”, il cui nome deriva da “Landl”, la regione montagnosa dell’Austria. A volte il “ländler” è chiamato “steirer” da “Steiermark” (Stiria), la regione che ha dato il nome alla nostra stajare. Motivi di danza germinati da particolari “formule cadenzali”, dovute non alla musica colta, per quanto questa possa aver influito sul popolo, ma dovute al popolo stesso, o meglio a quell’ambiente naturale ecologico già rilevato. Non bisogna dimenticare che la Carinzia e la Carnia sono parte di più vaste regioni montagnose. Ed è proprio alle regioni montagnose che, dal punto di vista etnomusicologico, io darò qui la massima importanza. è infatti la montagna che forgia il carattere delle sue genti in modo più autentico, più tenace, più duraturo di quanto non lo faccia la pianura con i suoi vasti centri abitati. è la montagna che, in modo paradossale, divide materialmente gli uomini, ma spiritualmente li unisce. è la montagna che mette a nudo la naturale primitività dell’essere umano. Non potrà perciò sembrare inverosimile che anche la voce umana dei montanari ne abbia risentito di questa primordialità attraverso il sistema fisico-armonico-naturale che si genera senza l’aiuto dell’intonazione strumentale e che sfocia sempre nell’accordo perfetto maggiore: “primo getto della natura”, come ebbe a definirlo il compositore e teorico francese Rameau. 49


Luigi Ciceri Caratteristiche del canto popolare del Friuli “Villotte e canti popolari del Friuli” Società filologica friulana - Udine 1966 Di regola i canti popolari nascono da un improvvisatore sconosciuto, per lo più ignaro di musica. Molti canti scompaiono subito, altri vivono e si affermano perchè incontrano il gusto popolare. Gli ottonari delle villotte nascono come canto (vilotis, canzonetis, cjanzons, rizetis, e in Carnia, per estensione, anche danzis): sono melodie semplici, esprimono sentimenti semplici con disposizione al sorriso e con una vena di malinconia o di filosofica rassegnazione. Riportiamo ora quanto dice il prof. Enrico Morpurgo, profondo conoscitore di musica popolare, che nel 1930 curò il primo Fascicolo di “Villotte e Canti popolari del Friuli” per conto della Società Filologica Friulana: “La musica delle nostre liriche vernacole ci presenta un primo carattere degno di rilievo: la polifonia corale, ossia la presenza simultanea di più voci, le quali non cantano tutte la medesima nota all’unisono od all’ottava, ma note diverse che formano accordo. Tale carattere differenzia nettamente la villotta dai canti popolari di altre regioni d’Italia, i quali sono canti monodici ossia eseguiti da una sola persona, o, se da diverse persone, all’unisono, e accompagnati per lo più dal suono di qualche strumento - chitarra, cetra o cornamusa. Il coro è costituito in genere da tre gruppi di cantori, talvolta anche da due soli: il primo gruppo, comprende le voci maschili e femminili più acute (potremmo dire i tenori e i soprani), svolge di regola la melodia; un secondo gruppo, formato dalle voci medie, sostiene un controcanto, quasi sempre seguendo la melodia ad una terza o ad una sesta inferiore; e finalmente un terzo gruppo, composto dalle voci maschili più gravi, eseguisce i bassi fondamentali degli accordi. Questo schema, che è il più comune, può subire variazioni: talvolta lo sviluppo dello spunto melodico passa alternativamente dal gruppo delle voci più alte e quello delle voci più profonde. Del resto, la struttura armonica delle nostre canzoni è quanto mai semplice ed elementare: non si trovano comunemente che gli accordi di tonica, dominante e sottodominante; e con questi mezzi limitatissimi, sono ottenuti effetti abbastanza vari e quasi sempre attraenti. Una particolarità notevole della musica popolare friulana è poi l’uso esclusivo del modo maggiore, mentre in altre regioni o si adotta preferibilmente il modo minore, o si adoperano promiscuamente tanto il maggiore 50


che il minore, alternandoli talvolta in una medesima canzone. La brevità stessa delle nostre liriche, che constano invariabilmente di una sola strofa tetrastica, richiede concisione, semplicità, schiettezza di pensiero. è ben vero che accade frequentemente di udire gruppi di cantori eseguire molte quartine consecutive sulla stessa aria musicale, riportando l’impressione che il testo poetico comprenda parecchie stanze: ma l’osservazione attenta rivela subito che il nesso fra le varie strofe è occasionale e artificioso, mentre ciascuno di essi ha un senso compiuto ed esaurisce perfettamente il soggetto che espone nella ricchissima produzione di canti popolari friulani, molti sono affini tra loro per concetto e per carattere, e possono venir intonati l’uno dopo l’altro senza dar luogo ad incongruenze logiche. Secondo lo stesso prof. Morpurgo il tipo di canto polifonico che è proprio della villotta friulana si può connettere con quello da tempi antichissimi in uso presso le popolazioni celtiche, e detto “gymel” da (da “cantus gemellus”), nel quale alla voce principale un’altra voce si accompagnava per un moto retto e una distanza di terza, sia all’acuto che al grave rispetto ad esse. Tale tipo di canto, come già nel secolo XIV era considerato tradizionale nel paese d’origine del trattatista Guglielmo Monaco, si riscontra pure tra talune popolazioni che hanno subito una intensa celtizzazione. Il Morpurgo ha particolarmente messo in rilievo la stretta somiglianza, anche per la metrica, delle nostre villotte con le “coplas” che si cantano nella Catalogna.

“Villotte e canti del Friul” - E. Piva - Milano 1954

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Julijan Strajnar La musica popolare Slovena Convegno internazionale “La musica popolare, oggi”, Trieste, gennaio 1979 - (Relazione) La definizione della musica popolare o folkloristica accettata dopo lunghe discussioni nel 1954 dalla conferenza dell’International Folk Music Council a Brasilia è nota. Buona pure è la definizione formulata da Valens Vodusek: “L’etnomusicologia è una disciplina storica e suo compito è quello di stabilire le modalità dello sviluppo dell’arte popolare dai primi inizi in poi. La musica “popolare” è dunque quella tradizione artistica collettiva che è caratterizzata nel suo formarsi, nel suo estendersi e nella sua esecuzione da forme prevalentemente non coscienti, istintive e perciò improvvisatorie, distinguendosi in questo modo dalle forme coscienti, tramandate da organizzazioni scolastiche e codificate dalla musica colta...”. La musica popolare e il canto popolare di ogni gruppo etnico si vale di alcuni schemi, di alcune formule fisse, che possono variare e cambiare, ma soltanto in modo e misura che la variazione si adatti all’infinito numero delle personalità e dei caratteri individuali, senza però perdere i connotati di “arte di tutti”. La musica e il canto popolare dimostrano proprio con la loro capacità a modificarsi la loro validità e la loro alta qualità artistica. La maggiore o minore vitalità e qualità dipendono di volta in volta da tanti fattori esterni che ne influenzano la produzione. Questi fattori possono essere fra l’altro di natura storica, sociale, religiosa, politica ecc. Ieri è per noi il tempo fino alla seconda guerra mondiale, ma questo ieri continua più o meno pure nel nostro tempo. La vita sociale in Slovenia è cambiata molto celermente negli ultimi decenni. Vi hanno contribuito mutamenti sociali e politici, la crescita economica ed altri fattori. Ma la tradizione musicale popolare era ed è strettamente collegata con la natura umana. In un passato recente la musica popolare accompagnava regolarmente la nostra vita durante il lavoro, per le festività e per dar sfogo al dolore. Anche se questa attività spontanea rimane oggi sopita, rispunta in date occasioni alla luce. Ancor oggi è molto in uso la “veglia funebre” collegata con il canto e soprattutto con il canto di canzoni popolari. La musica popolare assolve a un particolare compito presso le minoranze slovene in Ungheria, Carinzia e Italia, poichè assieme alla lingua proprio la musica e il canto popolari sono il più forte incentivo alla conservazione e alla difesa della coscienza etnica. A prima vista sembra che la musica popolare non abbia più l’importanza che ebbe fino a ieri. è ciò la conseguenza di cause oggettive 52


e soggettive. Fra le cause oggettive citiamo i rivolgimenti sociali, l’industrializzazione, la scomparsa di alcune attività, l’inurbamento, ecc. Fra le cause soggettive nominiamo il rifiuto delle tradizioni e l’acquisizione di mode e comportamenti che è caratteristica soprattutto dei giovani. Può la musica popolare sopravvivere nelle odierne condizioni di vita? La produzione popolare era sorta e si era sviluppata secondo leggi proprie non scritte. Su ogni musica popolare agiscono influenze esterne e la musica popolare può adattarsi a ogni particolarità e caratteristica per divenire “arte di tutti”, cioè espressione artistica che il gruppo riconosce come suo.

“Kadar boš ti vandrat šeu” Kadar boš ti vandrat šeu, pridi mi povedat, da ti bom pomagala punkelcˇek zavezat! Punkelcˇek zavezala bom, bridko se jokala bom, ker te ne b’jo videle vecˇ moje ocˇi. Kadar boš domou prišeu, pridi mi povedat, da ti bom pomagala punkelcˇek razvezat! Punkelcˇek razvezala bom, sladko se smejala bom, kjer te bodo videle spet moje ocˇi.

Quando andrai per il mondo vieni a dirmelo, chè ti aiuterò ad annodare il fagotto. Annoderò il fagotto e piangerò amaramente, che non ti vedranno più i miei occhi. Quando ritornerai a casa vieni a dirmelo, che ti aiuterò a snodare il fagotto. Snoderò il fagotto e riderò beata, che ti vedranno nuovamente i miei occhi.

Canto popolare del gruppo etnico sloveno della provincia di Trieste. Disco “Da Trieste” R.C.A. 1978 - Graziella Rota “I giorni Cantati”.

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Giuseppe Caprin - Canti Lagunari “Lagune di Grado” Trieste - 1890 Le canzoni gradesi erano figlie della musa lagunare: rispettavano il metro endecasillabo, usavano le stesse strofe a quartine, ma la loro originalità, spiccava per la pittura dei costumi particolari e del luogo; si distinguevano per questo specialissimo colore e formavano una varietà nella poetica vocale dei Veneti. Le villarecce canzoni che rallegravano i castelli di Morsan, di S. Marco e del Belvedere, posti in terraferma, non passavano mai il lago che andava sino ai piedi di Grado. Nelle feste di Barbana i pescatori ed i renaiuoli le sentivano modulare dalla gente di Terzo, di Aquileia e di Fiumicello, quando abbandonava il santuario, ma il vento portava via tutto e non restava una sola reminiscenza di musica o di parole. E le sentivano ancora, quando i tempi avevano fatto dimenticare tutte le vecchie inimicizie, alle sagre di Centenara, ripetute ogni anno dai contadini, ebbri di gaiezza, ingalluzziti dagli amori, in quella campagna tutta nidi di vespe, tutta infestata di moscerini, tutta a drappi di fiori, simili a fiocchi di piume. I Gradesi ascoltavano soddisfatti i ritornelli pieno di trilli, ma non portavano via mai nè un motivo, nè un ricordo di quelle villotte nate nelle fienaie, nelle bovarie, tra i campi di frumento, e che erano riflessi di una vita a loro estranea, una vita senza il mare, senza gli incantesimi del mare! E da Chioggia e da Venezia, con le tartane, la lirica vagante e popolana passava il mare, si fermava all’opposta riva, e mutando dialetto, si faceva istriana; giunta anche a Grado ne arricchì il florilegio poetico di canti sacri, di ninne nanne, di corrucci e di scherzi erotici. Le città però che, tutte sentivano ad un modo e che avevano le stesse inclinazioni ed affezioni, si scambiavano a vicenda, da buone sorelle, le quartine, trattenendone pochissime, perchè affatto locali. E queste, rimaste ferme nelle singole isole, recano tutto il suggello ben delineato della non dubbia origine. Ancora oggi in Grado rivivono nelle cucine, sulle velme e nei casoni di paglia alcuni canti importati ed altri che subirono lievi modificazioni. “Su ‘l mio barcòn el mar stago a vardâ, Vego quel viso belo a navegâ. Per navegâ bisogna un vogaör, Per fâ l’amor bisogna ‘vê’ de ‘l cuor.” Dormi, bel figio, Che to pare pesca, E zoza in mar 54

Cò l’inzegno e l’esca EI pensa a ‘l to magnâr. Dormi bel figio Che to’pare pesca Zozo in palù; E i pissi màgna l’esca Nòme per tu.


Nadia Pauluzzo “Poesie udinesi” 1989 - ED. G.E.A.P. (Grafiche Editoriali Artistiche Pordenonesi) Il veneto-udinese costituisce una branca di quei linguaggi poveri e misconosciuti che in genere fanno da sfondo alla lingua nazionale o, nel nostro caso, al linguaggio friulano, disprezzato anch’esso, ma di diretta matrice latina. Per me il cosiddetto “dialetto”, come si diceva da noi in Friuli (nato dal tempo dell’occupazione della regione da parte della Repubblica Veneta), è stato effettivamente la lingua materna, quindi la più vera e la più condivisa. In quella lingua ho fatto i miei soliloqui più importanti, ho espresso i miei pensieri, ho colloquiato in famiglia (peraltro bilingue, coesistendo in forte posizione anche il friulano). Il veneto-udinese ha avuto attraverso i secoli una grande fortuna impositiva nella fascia dei nobili locali, diffondendosi poi, per matrice certamente snobistica, anche nella classe borghese e piccolo-borghese. Successivamente il popolo l’ha fatto suo con entusiasmo, e ciò, credo, per differenziarsi in finezza dal “rozzo” influsso del friulano che premeva dalla campagna circostante e dal contado. Un esempio: alcune mie amiche in casa e tra loro parlavano sempre in friulano, ma quando si andava tutti insieme al cinema “in città”, allora parlavano in veneto. Ma un po’ alla volta, dagli anni cinquanta in poi, si è andato verificando, in città e in campagna, un curioso fenomeno. Il veneto lentamente cadeva in disuso, per dar luogo ad un uniforme linguaggio “italiano”, parlato e insegnato ai figli in modo grossolano e pressapochistico (ne fanno fede le brillanti pagine di Giuseppe Marchetti, che trascrive integralmente i monologhi delle giovani madri emancipate). E curioso notare come il fenomeno di prevaricazione (italiano sul veneto in città e italiano sul friulano in campagna) sia proseguito quasi contemporaneamente e a grandi passi, come se si fosse voluto tacitamente attuare un agognato disegno di appiattimento e di massificazione. Non so indicare altro responsabile di ciò che la diffusione esplosiva dei mass-media. Ne è risultato un italiano che, per trovare adeguata esemplificazione, dev’essere attentamente ascoltato sulle bocche dei ragazzi sotto i vent’anni, cittadini o campagnoli in ugual misura. Le vocali sono strascicate, cantilenanti, ma non con una specifica cadenza regionale, che oggi è purtroppo indefinibile; il tono è biascicante, talora incomprensibili i suoni. In questa decadenza linguistica (che ha per contraltare la neobarocca fioritura della prosa scritta) purtroppo la peggio l’ha avuta il veneto, linguaggio di per sé asciutto e stringato. Cessata la sua caratterizzazione di “status-symbol” che è sopravvissuta fino agli anni quaranta e cinquanta, esso è letteralmente sparito. E senza una lacrima da parte di alcuno. I bambini credo non sappiano neppure che un tempo esisteva. Gli adulti si sono assue55


fatti all’italiano, i friulanisti (categoria colta ed elitaria) stanno tentando di salvare un linguaggio arcaico con sforzi acrobatici di adattamento, e soggiacendo malvolentieri ai prestiti con altri idiomi. E in questo sono abbastanza aiutati dalla concezione generale che il friulano è una lingua neolatina che va salvaguardata. Ma chi salvaguarderà anche il solo ricordo del “dialetto udinese”? Quello che venetizzava dolcemente la passeggiata in piazza Contarena e la sosta al caffè o gli uffici municipali. Nessuno si cura che esso finisca miseramente nel dimenticatoio; eppure non sono ragioni sufficienti a giustificare una tale fine né il fatto che esso sia il retaggio di una classe asservita a Venezia, né l’altra considerazione, purtroppo eloquente, che esso sia stato da sempre circoscritto nell’area relativamente piccola della città (al confronto del friulano che fu un linguaggio di tutto un popolo, dalle Alpi al mare). Ma da qualsiasi parte si consideri la situazione, le cose stanno esattamente così e mancano anche i “buoni propositi” per l’avvenire (fino a tal punto ha giocato la sprezzante preponderanza del forte e arcaico idioma friulano sull’evanescente dialetto dei “sivilìns” udinesi). Eppure quelli della mia generazione sanno quanta forza emotiva esercitasse il “veneto”, pur così povero nei suoi fonemi, così scialbo e incolore, anche quando attingeva al fratello friulano. Era il linguaggio di casa, e insieme quello che si usava in ufficio, nelle sartorie, nei negozi, nei cinema, nei teatri e nel passeggio domenicale. Credo che assai pochi in quegli anni parlassero italiano a Udine, e ciò forse provocava un po’ di imbarazzo nei borghesi del contado, che non lo usavano quasi mai. Per tutte queste ragioni, ad un certo momento, ho sentito il bisogno di testimoniare in qualche modo il mio “dialetto”.

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Novella Cantarutti - Feste Goriziane “Letture del Friuli Venezia Giulia” a cura di Fulvio Tomizza Editrice Radar - Padova 1968 Il calendario goriziano contemplava molti santi da commemorare con sagre, balli, merende sui colli e lauti desinari, ma se tra le sagre parecchie sono cadute in disuso ed altre hanno mutato il carattere e il tono, come dovunque, i vanti ed i segreti della cucina goriziana sopravvivono, in certi tipici piatti, nei dolci tradizionali come le pinze, le gubane o potize. La gubana, il cui nome è di radice slovena e deriva dalla forma del dolce che si piega e s’attorciglia a forma di chiocciola (guba = piega), si prepara con pasta lievitata e farcita di noci e pinoli, zucchero e cioccolata, cedrini e prugne secche bagnati con rum e anice. Sembra che la patria d’origine della gubana sia la valle del Natisone dove si prepara appunto come a Gorizia; nel Cividalese invece si sostituisce la sfoglia alla pasta lievitata. In passato, questo dolce si confezionava in ogni famiglia e i contadini, per Pasqua, lo portavano a benedire in chiesa, durante la Messa, dentro i canestri detti sistelis insieme con altre vivande, le pinze, il pan sporc (specie di focacce) i fulis, complicati pasticci che si lessavano, avvolti in un tovagliolo, nel brodo del prosciutto pasquale. Anche il prosciutto, le uova colorate, il sale venivano benedetti in chiesa la domenica di Pasqua. Quel giro era d’obbligo, a mezza mattinata, una merenda a base di prosciutto lessato, uova sode, fulis e gubana. L ‘uso sembrerebbe nato tra gli Sloveni del Goriziano che ritenevano fortunati coloro che per primi, dopo il rito in chiesa, correvano a casa a consumare le vivande benedette. Le stesse pietanze erano alla base dei ricchi pranzi, delle merende in campagna nei giorni delle festività pasquali; le sagre fiorite di Moncorona, di San Floriano e di altre località delle colline richiamavano i Goriziani e la gente del contado: i ragazzi si divertivano a “traigi a l’ûf”, ossia a colpire le uova sode con piccole monete, o a “rompi zitis”: muniti di bastone i concorrenti, con gli occhi bendati, si davano da fare per mandare a pezzi una pentola contenente qualche soldino. Le feste goriziane rivestivano un carattere gaio e offrivano occasione per la fraida, sia magra come la “sevolada cu li’ renghis”, quando si trattava del primo giorno di Quaresima, sia ricca di portate e vini: ogni mese aveva una sagra, a cominciare da quella dei santi patroni Ilario e Taziano, a quella di San Floriano commemorata dai fabbri che si recavano alla messa in corteo preceduti dagli stendardi della corporazione e si raccoglievano poi insieme a consumare un lauto pasto, all’altra di San Rocco celebrata dai fidanzati. 57


Nel sobborgo di San Rocco, uno dei più tipici della città e forse il più tenacemente legato alle tradizioni, era consuetudine delle ragazze offrire un nastro in pegno all’innamorato. I “fantaz cul floc” intonavano uscendo dalla Messa una canzone in onore del Santo e mangiavano gli “strùcui tal tavajuz”, un dolce a ferro di cavallo ancora in uso nel ’99 nel Friuli orientale. A San Bartolomeo si teneva nel loggiato di un convento di Cappuccini la sagra degli uccelli, e nel settecento, si giocava al pallone tra una squadra indigena e “giocatori forestieri”, come ricorda un documento. Per San Martino invece gli apprendisti dei laboratori andavano alla questua di vino che veniva consumato alla cena offerta dalla moglie del padrone ed erano tradizionali, come nel resto del Friuli, l’anatra arrosta con indivia, le castagne arroste e le mele cotte sulla brace ed annegate nel vino. C’era anche un canto per San Martino: San Martin mi tenta che mangi la polenta che mangi la rassuta che bevi la bossùta che copi il dindiàt che bevi un bucalàt. (San Martino m’invita a mangiare la polenta, a mangiare l’anatrella, a bere un boccaletto, ad ammazzare il tacchino, a bere un boccalaccio).

Più solenne di tutte era però la fiera di Sant’ Andrea che durava quindici giorni e richiamava contadini e montanari che giungevano in città con i loro carri per il mercato del bestiame ed attira ancora molta gente, ma ha certamente smarrito aspetti e forme del passato. Come altrove in Friuli, le nozze erano celebrate di preferenza in Carnevale e i Carnevali goriziani ebbero fama per balli e corsi mascherati a volte fastosi; il più popolare e tipico era il corteo funebre del Carnevale rappresentato da un fantoccio disteso su una bara, preceduto da un finto prete eseguito da uno sguaiato stuolo che, dopo aver percorso le vie della città, giungeva all’osteria dell’Antico leone davanti alla quale appiccava fuoco al Carnevale per precipitarlo poi in una buca scavata nel ronco sottostante. In qualche paese del Collio, invece, la cerimonia avveniva in una forma più complessa e il corteo, preceduto da un cavaliere, comprendeva anche portatori che, con fiaschi e gerle, si fermavano a chiedere vino e cibarie davanti ad ogni casa. Il pupazzo del Carnevale (pust) esposto in piazza nella sua bara, veniva asperso con vino da chi passava; quindi si muoveva il funerale con la banda, il sacerdote camuffato, il pust collocato su un carro che un asino ed un mulo trainavano insieme; si faceva il giro del villaggio a tappe, per dare tempo ai componenti il corteo di fermarsi a bere e si finiva per abbruciare o gettare nel fiume il Carnevale. 58


Giuseppe Francescato - La parlata Bisiaca n. 5, anno terzo 1980 - Rivista del “Centro Culturale Pubblico Polivalente” Ronchi dei Legionari (Gorizia) ”Il territorio” A differenza di Grado, che essendo anche geograficamente un’isola ha potuto godere di una particolare protezione di fronte alla penetrazione di popolazioni straniere, il Territorio deve essere rimasto invece assai più esposto ai contatti con la popolazione - e con il linguaggio - delle aree circostanti, dalle quali gli abitanti del Territorio erano separati soltanto per la presenza di modesti ostacoli naturali (fiume Isonzo, rilievi del Carso, coste marine) e magari anche di certe opere fortificatorie, certamente non così invalicabili da rendere impossibile il passaggio e lo scambio con coloro che vivevano tutti intorno. Lo scambio, sia economico che culturale, del resto, dovette avere qualche intensità in terra come per mare, svolgendosi tra le regioni finite nel mezzo, alle quali il Territorio era come incuneato. E non si dimentichi, proprio anche sotto l’aspetto linguistico, la singolare connessione del Friuli con l’area tergestina, connessione che le ricerche recenti vanno rivelando e rivalutando come sempre più strette. Da tutte queste considerazioni risulta forse possibile ricavare conclusioni non tanto arrischiate per quel che concerne l’origine e lo sviluppo iniziale della parlata “bisiaca”. Ma, se le ipotesi in proposito non mancano, non si può dire che esse abbiano avuto chiare e frequenti formulazioni esplicite. Forse l’unico esempio di tal genere risale infatti al dialettologo friulano u. Pellis, studioso preparatissimo e perfettamente al corrente dei problemi locali, essendo egli stesso nativo di Fiumicello. Pellis ebbe ad affermare una volta che la parlata “bisiaca” sarebbe “sorta dalla fusione incompleta del veneto col sostrato originario friulano”. Ora, molto dipende, naturalmente, dal senso che si vuol dare alla parola “friulano” usata in questo contesto. Se lo si deve prendere in senso specifico, si deve immaginare un affermarsi, non interamente riuscito, di un qualche tipo di parlata veneta (veneziana?) che sarebbe venuto a sovrapporsi, nell’ambito del Territorio, ad una ivi preesistente parlata, già sufficientemente sviluppata, al punto da poter essere identificata come “friulana”. Ma se una piena identificazione del friulano nella sua specificità linguistica non è possibile prima della metà del XIII secolo - come ricerche recenti ci inducono a credere - l’apporto veneto nel Territorio dovrebbe essere posteriore a tale data e, di conseguenza, si dovrebbe poterne avere una qualche conferma storica di tipo documentario. La quale invece, non solo manca (cioè mancano i documenti che possano sostenere l’ipotesi) ma è piuttosto in contrasto con una continuativa tradizione di documenti i quali sottolineano invece i legami del territorio con Venezia ben prima di tale data. Questo sta59


rebbe a significare, allora, che c’è stato un originario e persistente apporto, anche linguistico, dell’area veneta verso il Territorio, e uno sviluppo linguistico locale che, se era di tipo “friulano”, era continuamente ostacolato dalla presenza di tale apporto. Questa interpretazione minerebbe alla radice la validità dell’ipotesi di Pellis. Bisognerebbe tener conto, per altro, delle idee che a proposito dello svolgimento originario del friulano poteva avere Pellis, perchè erano le idee correnti al temi, suo e da alcuni ancora sostenute oggi. Secondo queste idee, gli inizi del friulano dovrebbero arretrare di alcuni secoli, per farli risalire magari fino ai secoli VIII o IX. Questo significherebbe quindi, interpretare il termine “friulano” in senso del tutto diverso da quello accolto in precedenza; ma noi riteniamo di avere motivi per affermare che, nei secoli indicati, non si potesse ancora parlare di friulano nel senso proprio della parola, ma piuttosto di un tipo di “volgare” o “neolatino” che doveva essere allora in pieno fermento, non solo per certe cause di evoluzione interna, ma per l’intenso contatto, anche linguistico, con popoli di lingua germanica (dapprima Goti, poi Longobardi e anche Franchi) e di lingua slava, insediatisi in vari modi e circostanze nell’area regionale. D’altronde - come ho sostenuto una volta per quel che riguarda lo sviluppi del gradese son appunto questi i secoli decisivi, durante i quali si manifesta, poi si accentua (grazie all’isolamento politico culturale di quella parte della terraferma sull’orlo delle lagune friulane, che rimane legata a Venezia) lo svolgimento indipendente dell’elemento linguistico locale. Questo svolgimento avviene seguendo il modello “veneziano” (o più genericamente veneto) in opposizione col modello “friulano”. In altre parole: sono questi i secoli durante i quali dall’unico (benchè fosse un po’ già diversificato) tipo linguistico del “latino aquileiese”, diffuso in tutta l’area regionale, si sono incominciati a sviluppare, obbedendo a contrastanti influenze e pressioni politico-culturali, dei tipi gradatamente sempre diversificati di “varietà” linguistiche, che si sono poi raggruppati da una parte come “friulano” (nell’area più interna, prima longobarda e poi imperiale) e dall’altra come “veneto” (lungo la fascia costiera: Territorio, Grado, Marano). Appare dunque logico formulare una ipotesi diversa, che in pratica rovescia interamente l’ipotesi di Pellis. Essa suppone infatti come “sostrato” - ma il termine qui è usato in modo molto approssimativo - evolve differenziandosi appunto in “veneto” e “friulano”, a seconda dei modelli che gli vengono forniti e che stimolano certi svolgimenti interni già in atto. Ne deriva una differenziazione e specializzazione dialettale, che caratterizza anche la parlata del Territorio, orientata secondo modelli che si rifanno sostanzialmente a un tipo veneteggiante. Soltanto più tardi (ma non è facile dire quando e per quali vie) si può immaginare che influenze più propriamente friulane abbiano potuto agire sul “veneto” del Territorio, contribuendo a dargli quella fisionomia tipica che, grazie anche al continuo contatto diretto con il friulano, ha mantenuto fino ad oggi. 60


La parola “bisiac” Negli anni 1920-1930 è stata montata la favoletta del bis aquae matrice di bisiac (come quella di Turris aquae per il nome Turriaco), etimologie suggestive, ma inventate di sana pianta, che però si inquadravano bene nella retorica del ventennio, allorchè la ricerca di romanità ad ogni costo poteva forzare la mano anche all’uomo colto. Questo bis acquae non ha fondatezza nè etimologica nè storica, perchè non c’è traccia di tale locuzione in nessun autore classico o rinascimentale e quindi non si sa da quale testo possa essere stata estrapolata. La matrice più probabile della parola bisiac è invece da riconoscere nel vocabolario sloveno bezjak (= profugo). Questo bezjak deriverebbe dall’incontro di un vecchissimo verbo nordico, baegia, (dal quale pare provenga pure il verbo sloveno bezati = scappare, fuggire) con il suffisso jak (= gruppo di persone, gente), come ci fa sapere la prof.ssa M. Gusic, direttrice del Museo Etnografico di Zagabria, in un suo studio. La prof.ssa Gusic non si sofferma tanto ad analizzare l’evoluzione semantica del termine, quanto a correlare il significato del vocabolo a fatti storici che ne avrebbero determinato la nascita e la significazione. Così apprendiamo che gli Sloveni, al tempo della loro avanzata verso le terre orientali d’Italia (secc. VII-VIII), chiamavano Beziakj le popolazioni latine che si ritiravano davanti all’invasione e che gran parte di questi fuggiaschi si fermò nelle terre protette a quel tempo dai Bizantini, nella zona che oggi segna il confine con gli Sloveni e i Croati, dove ancora sussisterebbero usi, costumi e resti di linguaggio che avevano caratterizzato quei “profughi”. Canto popolare in “Bisiac” (parlata veneto-arcaica- del territorio, la Bisiacaria, in provincia di Gorizia) del 1700, raccolto a Rochi dei Legionari da G. Rota, informatore il poeta e storico Silvio Domini (sulle note con il punto corona c’è un “oilà”.

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L’emigrazione friulana ha una storia antica: emigranti friulani in Baviera verso la fine del secolo scorso. (UD)

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Gli Sloveni e il folklore, nel Friuli Venezia Giulia Gli Sloveni sono uno dei più piccoli popoli della grande famiglia slava, appartenente al gruppo degli Slavi meridionali. Secondo una stima, si aggirano sui due milioni e vivono in massima parte nella Repubblica di Slovenia, e per il resto in Carinzia, nel Friuli Venezia Giulia, nelle altre repubbliche jugoslave e nella contea di Zola in Ungheria. Negli Stati Uniti, in Argentina, in Australia ci sono numerosi emigrati e profughi sloveni. L’insediamento nelle loro attuali sedi risale al VI sec. a quando essi, sospinti da altri popoli e a questi talvolta accompagnando si, cominciarono a lasciare le pianaure transcarpatiche per spingersi verso occidente. Gli Sloveni nella nostra regione Gli Sloveni nella nostra regione costituiscono una minoranza storica tradizionale, poiché sono autoctoni nei territori in cui vivono. Siccome essi non appartennero mai, in precedenza, ad uno Stato nazionale slavo (la Jugoslavia si formò appena il 1° dicembre 1918) non possono essere considerati una minoranza di costrizione. Ma ad essi (se si eccettua il gruppo della Slavia Friulana) non fu neanche mai concessa la possibilità dell’autodeterminazione con il plebiscito, per cui non possono venir considerati alla stregua di una minoranza volontaria. L’istituzione della nostra Regione autonoma a statuto speciale, avvenuta nel 1964, fu accolta dagli Sloveni come una realtà positiva, anche se lo Statuto li ignora. Gli Sloveni della regione non costituiscono, almeno per ora, un’unica omogenea e compatta comunità, per le diverse vicende storiche che li hanno resi partecipi di diversi ambiti politico-territoriali, differenziandoli anche nei dialetti, nelle tradizioni popolari, nello sviluppo socio-economico e nelle stesse aspirazioni politiche. Il gruppo sloveno più consistente e compatto si trova nel territorio di Trieste, ed è oggetto dal 1954 della tutela prevista dallo Statuto speciale annesso al Memorandum di Londra. Tale gruppo era originariamente attestato sull’altipiano carsico, ma dopo l’apertura del porto franco (1719), esso fu attratto dalla offerta di lavoro del porto, delle industrie, come pure dai terreni agrari sulle colline della città. La presenza degli Sloveni nel Goriziano è testimoniata fin dall’anno 1001, e il loro insediamento è compatto sul Collio e sul Carso di Doberdò, come pure nei sobborghi della città, mentre si mescola con quello italiano nel centro urbano e con quello friulano e bisiaco nella pianura cormonesegradiscana e nel territorio monfalconese.

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Nella Slavia Friulana ci sono Comuni compattamente sloveni annessi dall’Italia nel 1866, nelle Valli del Natisone, nell’alta Val del Torre, e nel Canal di Resia. Questi territori si trovano in provincia di Udine, ripartiti fra i mandamenti di Cividale, Tarcento e Pontebba. Gli Sloveni della Valcanale hanno risentito da secoli dell’influenza culturale germanica, anche per la loro posizione marginale rispetto ai centri urbani della Carinzia e del Litoriale, in cui si veniva formando la borghesia slovena. Lo sloveno. I primi documenti che attestano l’uso dello sloveno, risalgono al X secolo (Monumenti di Frisinga). La lingua letteraria si sviluppò nel XVI secolo con la riforma, soprattutto per merito di Primoz Trubar (1508-1586); mentre Adam Bohoric è l’autore della prima grammatica slovena (1584). Il primo vocabolario italiano-sloveno fu compilato tra il 1601 e il 1607 da fra Gregorio Alasia da Sommaripa nel castello di Duino (Trieste). France Preseren (1800-1849) è considerato il maggior poeta sloveno, animatore della letteratura nazionale e del movimento romantico. A partire dal 1880 la letteratura slovena si aprì alle tendenze moderne, inserendosi nel quadro della letteratura europea. Ivan Cankar (1876-1918), Oton Zupancˇicˇ (1878-1949), Srecˇko Kosovel (19041926) sono tra i più importanti scrittori sloveni del ‘900. Otto sono i dialetti sloveni parlati in Regione, precisamente: quello dei Barchini, parlato a oriente di Trieste, da Servola fino ai paesi dell’entroterra muggesano, i due dialetti del Carso, l’orientale parlato nei sobborghi orientali della città e sul Carso triestino a Opicina, l’occidentale parlato dai sobborghi occidentali di Trieste fino a Gorizia; il dialetto del Collio, che si parla in una stretta fascia confinaria fra Gorizia e Cormons; il dialetto del Natisone; il dialetto del Torre, che si parla fra Maserolis e la catena dei Musi; il dialetto esiano; il dialetto zegliano degli insediamenti sloveni della Valcanale, fra Laglesie San Leopoldo e Fusine Valroniana. Le tradizioni popolari degli Sloveni. Il termine “tradizioni popolari” come il suo sostanziale sinonimo “folklore” appare oggettivamente ambiguo, perchè assume di fatto significati diversi in relazione alla diversità dei contesti storico-sociali e alla eterogeneità dei quadri di riferimento teorico-metodologici, e di classe, in cui si collocano ricercatori e operatori. Una proposta di definizione della “tradizioni popolari” dovrebbe comunque focalizzare il fatto che esse si pongono come forme di coscienza sociale arcaiche, tipiche di certi strati subalterni in una loro precisa fase storica, nella quale tali strati vengono respinti, in una condizione di marginalità economica e culturale, rispetto ai centri ed ai processi di un mutamento sociale (modernizzazione) le cui forze portanti si concentrano nelle aree urbano-industriali. Il dibattito su subalternità o autonomia della cultura popolare tradizionale, sulla sua matrice di classe cioè, è stato ripreso ampiamente in questi anni in collegamento con alcune questioni concer64


nenti la linea e le iniziative di politica culturale del movimento operaio della Regione, delle Amministrazioni locali. Tali questioni riguardano, in sostanza, il significato funzionale, oggi, delle persistenze di tradizioni popolari e, più specificatamente, le loro possibilità di rifunzionalizzazione nella costruzione di una cultura di classe, intesa come alternativa alla moderna cultura di massa, veicolata dall’industria culturale e dai mass media che operano per lo più con la logica del profitto. È del 1976 il saggio “le tradizioni popolari degli Sloveni in Italia”, del compositore, musicologo, slavista Pavle Merkù, pubblicato in edizione bilingue dall’Editoriale Stampa Triestina. Oltre 600 reperti etnografici, raccolti negli anni 1965-1974, un’ampia e organica ricerca sul campo, con portatori del gruppo etnico sloveno della nostra Regione: testi poetici narrativi elencati secondo la tipologia, testi poetici lirici, elencati per generee, (canti calendariali, il ciclo della vita dell’uomo, l’anno liturgico, canti di mestiere, canti del vino, canzoni a ballo, canti di scherno, canzoni infantili), orazioni, favole e racconti, esseri mitologici, etnoiatria, meteorologia, proverbi e massime, giochi, strumenti musicali, descrizione di usanze. Per questo lavoro Merkù è stato aiutato dagli studiosi lubianesi Zmaga Kumer, Milko Maticetov, Julijan Strajnar e da Claudio Noliani, Gaetano Perusini, Giuseppe Radole. Alcune tradizioni popolari ancora viventi: a San Giovanni e Sottolongera (rioni di Trieste) la “sagra dei Mandrieri” e i “fuochi di San Giovanni”, a San Dorligo della Valle/Dolina (Comune della Provincia di Trieste) “la Maggiolata”, a Monrupino, (Comune del Carso triestino), le “Nozze Carsiche”. Alcune strutture per la ricerca, la documentazione delle tradizioni popolari: nastroteca e programmi folk della Stazione Trieste “A” in lingua slovena della RAI, l’associazione culturale “Slovenska kulturno gospodarska zveza”, (Trieste e Gorizia) il centro studi “Nediza” di S. Pietro al Natisone, l’Ente italiano per la conoscenza della lingua e della cultura slovena (Trieste), il museo etnografico di Servola (Trieste), il gruppo folkloristico “Stu ledi” di Trieste. Questo è un gruppo dilettantistico formatosi nel 1973, composto da giovani lavoratori e studenti, provenienti da tutta la provincia di Trieste, da Medeazza a Muggia. Il gruppo si è dedicato inizialmente ai balli della Slovenia, mentre alcuni componenti del gruppo hanno contemporaneamente iniziato delle ricerche nella stessa provincia di Trieste, scoprendo parecchi balli e canzoni inedite. In base ai dati raccolti e con l’aggiunta di coreografie e canti già conosciuti, il complesso ha elaborato un potpourri di balli e canzoni triestine. Nel 1978 ha incluso nel suo programma anche un numero di canti e balli friulani, frutto di ricerche autonome condotte 65


sotto la guida del prof. Giampaolo Gri dell’Università di Trieste. Con la serie di balli e canti triestini il gruppo ha partecipato nel 1976 alla “X Rassegna internazionale del folklore” di Zagabria. Il gruppo è composto da una trentina di ballerini e ballerine, due complessi musicali: uno di “tamburice” e l’altro composto da fisarmoniche, clarinetto, contrabbasso; e da un complesso vocale femminile. Le indagini condotte in tutta l’area slovena sul folk musicale nell’ultimo decennio in regione hanno permesso di constatare almeno alcuni dati di fatto: l’arcaico ritmo quinario, caratteristico una volta della musica popolare slovena come lo è, o lo fu, della musica popolare slava in generale, si è conservato nelle aree slovene in Italia in proporzione di gran lunga maggiore che in Slovenia. Il caratteristico canto di gruppi d’uomini con la melodia nel baritono, il basso armonico e le voci di tenore - da una a tre - con improvvisazioni melodiche che si sovrappongono dal basso verso l’alto (modo di cantare che è da lungo tempo scomparso dal Carso triestino e goriziano, come dalla maggioranza dei territori sloveni l’oriente del confine) tiene ancora nelle aree del Natisone, del Torre e della Valcanale in provincia di Udine (come pure nelle zone slovene della Carinzia Austriaca). La cultura popolare resiana è estremamente arcaica e rappresenta carattere eccezionali raramente riscontrabili altrove in Europa. Gli attributi di questa arcaicità sono: la scala musicale non temperata, la eterofonia vocale, il bordone strumentale, l’imitazione della zampogna con il violino, voci grezze e accenti vigorosi nel canto, note trattenute a lungo alla fine di ogni versetto, melodie vocali che comprendono un ambito eccezionalmente angusto di tre o quattro note. Gli strumenti popolari sono un violino a quattro corde e un violoncello o contrabbasso a tre, accordati una seconda maggiore o una terza minore (di rado una terza maggiore) più in alto del normale (in si bemolle per lo più, ma anche in la o in si). Chi suona il violino non lo regge sulla spalla sinistra come di regola, ma se lo pianta nel petto, sotto il cuore, come sembra a vista, in posizione ortogonale rispetto al corpo. La cytira suona la melodia di otto misure mentre la bùnkula accompagna col bordone eseguito sulla corda più grave (na T. usto, in modo grave), riproponendola quindi alla quinta superiore con la bùnkula che accompagna con le rimanenti due corde vuote (na tenko) in modo sottile. Il brano procede così con un avvicendamento, in forma di lievi variazioni, di otto battute suonate na tousto e otto na tenko. I suonatori stanno seduti, e mentre suonano, quando giocano sulla corda destra, pestano violentemente il piede destro per terra e quando passano sulla corda sinistra 66


fanno lo stesso col piede sinistro, questo per accompagnare il tempo. A queste caratteristiche che riguardano la musica si aggiungano l’arcaico dialetto dei testi, il sopravvivere della controdanza medioevale nell’unica danza, la “resiana”; inoltre il costume delle “maschere belle”, retaggio di riti pagani per propiziare la primavera, quando giovanetti e giovanette vestivano abiti bianchi con copricapi coperti da una cascata di fiori; infine è caratteristica eccezionale della cultura popolare resiana la sua tutt’ora viva creatività. Questa cultura è oggi un paradigma vivente di quella che fu nel passato la musica e la danza nella cultura popolare slovena dai tempi del paganesimo attraverso tutte le fasi successive fino al secondo secolo scorso. Il gruppo folkloristico “Val Resia”, uno dei più antichi in regione, è diretto erede della tradizione popolare della valle. La popolazione della Slavia Friulana ha costituito, fin dal suo primo insediamento nelle Valli, un tutto omogeneo: una popolazione di classe contadina, di lingua slava, con tradizioni culturali proprie o adattate e fatte proprie da culture vicine attraverso un lavoro di trasformazione e di assimilazione. La sensibilità musicale di questa popolazione è notevole e si evidenzia nella validità estetica di un elevato numero di melodie popolari che sono tutt’ora presenti, almeno in parte, nella pratica corale spontanea di gruppo o in quella individuale. Il gruppo sociale della Slavia Friulana, almeno fino all’avvento del fascismo, si costituiva anche grazie al proprio repertorio musicale, specifico e caratteristico nella lingua, nella melodia e nella tradizionale funzione di quello. Esso offriva all’individuo in maniera emozionale, che nel processo di assimilazione è psicologicamente la più valida, la sua identità. L’individuo da parte sua riviveva il repertorio musicale che era patrimonio della comunità, scoprendolo come proprio e assai confacente alla sua personalità. Il Repertorio musicale infine si arricchiva e si modificava secondo le esigenze della comunità grazie all’apporto dell’individuo, sia pure filtrato attraverso l’inconscio istinto del gruppo. Tutto il contesto musicale ruotava attorno a tre componenti: una comunità socialmente e culturalmente omogenea, un repertorio musicale patrimonio di comunità, e l’individuo che nella comunità si riconosceva. Di volta in volta uno degli elementi poteva divenire prevalente, senza però mai essere assente. Oggi la realtà è diversa: si tende ad eliminare di volta in volta una o più delle tre componenti, con risultati sempre negativi. Il 13/14/15 luglio del 1979, a San Daniele del Friuli, al primo “folk festival in Regione” (musica-canto-ballo popolare, folk revival, nuova canzone) organizzato da alcune cooperative culturali del Friuli Venezia Giulia (Comunitàt di 117 chenti, Musicoop ed altre), su invito, hanno partecipato agli spettacoli musicali i seguenti gruppi sloveni: “Gruppo 67


spontaneo di S. Giorgio di Resia”, “Nabrodna Klapa”, e “Gruppo spontaneo di Platischis di Taipana”, ottenendo un vivo successo di pubblico e di critica. Per mezzo del canto popolare si mantiene vivo il dialetto, si ricordano usi e costumi tipici locali, si ricavano informazioni sulla storia, sulle tradizioni, sulla vita sociale di una comunità; si inserisce l’uomo nel suo habitat linguistico-musicale naturale.

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Dusan Jakomin - Il Museo Etnografico di Servola (TS) Il “Museo Etnografico di Servola (*) è sorto il 22 giugno 1975 nel nostro rione dopo adeguato adattamento di una vecchia casa servolana, una volta nominata la “casa delle fascine”; proprio perchè qui una vecchietta vendeva le fascine alle pancogole servolane. In partenza è stata l’idea di un singolo, ma poi nel corso della realizzazione ha assunto un significato generale fino a oltrepassare i limiti territoriali del rione. L’interessamento ha coinvolto così esperti ed appassionati che assieme hanno concretizzato una cosa unica in tutta la città di Trieste. In genere noi facciamo la cultura per l’uomo e poi lo invitiamo a guardare od ascoltare senza molto spesso arrivare nel profondo del suo essere. In questo caso si è voluto fare la cultura con l’uomo, facendolo protagonista, parte attiva di una cosa che poi in conclusione diventa creatura. Organizzare oggi un Museo sembrerebbe una cosa inutile o almeno si potevano spendere le stesse energie per cose più utili. Non ci stiamo accorgendo che con il nostro modo di vivere di oggi, con la fretta più o meno nevrotica, con il gusto del moderno che non sempre ci soddisfa, abbiamo distrutto troppe cose del passato (molte ora irrecuperabili), cose che oggi sono segni vivi di una vita e di una cultura. Nel Museo si è voluto dare il giusto valore ad ogni singolo pezzo e metterlo alla portata di tutti, specie della nuova generazione. Nel pianterreno c’è la cucina servolana (ricostruita) come era fino all’inizio dell’ultima guerra. Vi domina il forno cui fanno cornice i singoli arnesi che la donna servolana adoperava per fare il pane. I muri sono pitturati alla moda di allora in calce viva con l’aiuto di un pezzo di sacco. Senza alcuna ricercatezza o preziosismo si è voluto ricostruire l’ambiente della Servola passata, povero sì, semplice, ma laborioso e non privo di una serena tranquillità. Accanto alla cucina c’è la stanza da letto, quasi impressionante nella sua semplicità. L’addobbo è (come era allora) semplice: il letto di una piazza e mezzo sistemato su assi di legno, appoggiati su cavalletti. Accanto al letto c’è una semplice cassapanca, e una sedia con sopra un lumino, che non aveva un significato religioso ma la semplice funzione di illuminare la stanza. Una servolana novantenne mi diceva che da bambina leggeva al lume del... lumino quando non poteva dormire di notte. Ai muri sono appesi alcuni quadri e un rosario. Nella stanza servolana non esisteva la culla. I bambini venivano posti in genere in un paniere o su due sedie attaccate al muro, quando non li mettevano in qualche cassetto. Al primo piano sono sistemate delle vetrine in cui sono esposte circa 140 cartoline: tutte di Servola, edite dal 1898 fino alle ultime del 1957, stampate in occasione del centenario della posta di Servola. 69


Ai muri sono appese vecchie stampe, preziosi originali, oggi difficilmente reperibili. Anche questi sono segni di una certa fama del rione, se i disegnatori si sono soffermati su questi paesaggi. (*) Servola è un rione di Trieste, celebre per le sue “pancogole” e le “bighe de pan”; invitate alla corte di Vienna nella seconda metà del ‘700 per insegnarvi l’impasto e la lavorazione di questo celebre pane, che venne lavorato fino al 1955. Dusan Jakomin, prete-etnografo-musicista, è l’animatore del Museo Etnografico.

Costume di Servolana - “Vose de Trieste Passada”, A. Catalan 1957

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Anita Forlani - Il folklore Dignanese A Dignano d’Istria (Pola) il gruppo folkloristico esiste da sempre, si può dire, da quando, risalendo alle origini, esso si confonde con la vita quotidiana: lo stanno a dimostrare anche i numerosi scritti di studiosi quali il Petronio, il Kandler, il Tamaro e altri appassionati di cose istriane, che non mancarono di annotare nei loro appunti di viaggio vive e precise descrizioni del mondo rurale dignanese. Sono autentiche testimonianze di un folklore che riporta le sue origini alle antiche tradizioni locali sorte quando attorno al Castello medioevale (demolito nel 1808) andava nascendo, in un ambiente allegro e sobrio, una cittadina piena di gente operosa la quale esprimeva i suoi sentimenti, nelle cerimonie particolari del ciclo vitale, attraverso il canto e la danza, il lavoro o la preghiera. E la Comunità degli Italiani ha il vanto - e il merito - di aver saputo raccogliere le eredità canore, le tradizioni musicali, le danze, le usanze dei vecchi, e di averle riproposte alle nuove generazioni nel loro alto valore artistico, riuscendo a stabilire tra passato e presente un rapporto di viva continuità, non solo, ma a conservare la testimonianza materiale dei ricchi e policromi costumi, dei preziosi ornamenti, dei rarissimi canti (“bassi”). Presentando al pubblico la scena folkloristica “canti e danze della gente dignanese” i gruppi della Comunità degli Italiani di Dignano offrono ogni volta il quadro del loro passato di tradizioni gentili ed artistiche, proprie di un ambiente caratteristico anche nei suoi aspetti socio-culturali. I due gruppi folkloristici attuali (circa sessanta elementi tra vecchi e giovani), sono presenti a tutte le principali rassegne e manifestazioni regionali, nelle quali godono di altissima considerazione. Il repertorio comprende danze e canti, accompagnanti dalla melodia dei violini e del “leron” (specie di violoncello), strumenti assai rari in Istria per accompagnamento musicale, qualora si consideri la squillante presenza degli strumenti a fiato quali pifferi, cornamuse e zampogne. Il folklore dignanese ha avuto numerosi consensi ed affermazioni sia in Jugoslavia che all’estero (Italia, Austria, Cecoslovacchia) per l’autenticità dei suoi contenuti per l’originalità dell’esecuzione che comprende: - la “furlana” tipica e caratteristica danza dignanese di gruppo vivace ed allegra. - la “villotta” e la “bersagliera”, festose nel loro brioso intreccio di passi e movenze. - la “monferrina” danza caratteristica ed elegante nella sua graziosa figurazione a coppie. - una ventina di canti tradizionali, tra cui i cosiddetti “bassi” veri e propri virtuosismi canori con variazioni individuali degli esecutori. 71


La riproduzione scenica dei canti e delle danze, ripropone la poesia del corteggiamento l’allegria e il brio delle feste nuziali, tuttora presenti in realtà nella fiaccolata notturna (è il rito infatti, nelle nozze tra dignanesi, accompagnare a mezzanotte la sposa nella sua nuova casa, al bagliore dei “torsi” cioè di fiaccole portate dagli amici). I ricchissimi costumi, ornati di stoffe di seta, di damasco e di raso a fiorami e colori vivaci, costituiscono una rarità nell’ambito regionale per la loro sobria finezza estetica che colpisce il forestiero oggi così come lo colpiva anni fa. Vi sono attualmente a Dignano parecchie generazioni che conoscono bene le usanze tradizionali, il che costituisce la base fondamentale per un ulteriore perfezionamento del gruppo folkloristico e per la conservazione del patrimonio etnografico ben noto ai non pochi compositori ed artisti istriani che ne sono stati ispirati. Una fiaba popolare Istriana I Bumbari Co l’imperator Francesco Giuseppe, el xe passado per Dignan, el podestà ghe ga ordinà a la sua gente de vignir in piaza, per baterghe le man. Tuti, per l’ocasion, ga indossà i più bei costumi che i gaveva. Ma I’imperator el se ga fermà a guardar de più i giovanoti (el pensava che un giorno i podeva esser dei bravi soldati) e pò el ghe ga dito qualcossa in recia al podestà. Pena che l’imperator el xe partido per Pola con tuti i suoi generai, i giovanoti i xe corsi del podestà: - Cossa ga dito l’imperator? - i ghe ga domandà. - El ga dito - el ghe rispondi - che se bei, ma che gavè i visi bumbari. L’imperator el gaveva dito “burberi”. Da quella volta i dignanesi i li ciama “bumbari” (a Trieste “Tumbari”).

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Franco Juri - La musica Ciciara degli Istroromeni Le caratteristiche musicali dell’area geografica e culturale corrispondente alla Ciciarìa possono essere in linea di massima attribuite alla presenza in queste terre sin dal XVI-XVII secolo di genti provenienti dalle regioni balcaniche (Bosnia, Erzegovina, Serbia). Tra queste genti un numero particolarmente consistente, era costituito da profughi nomadi di stirpe valacca, appunto i Cicci o Ciribiri. L’insediamento nella Ciciaria di questi profughi, nomadi e pastori, caratterizzò anche nei secoli successivi il delinearsi di una cultura musicale autonoma di carattere particolarmente montanaro-pastorale-arcaico, che non ha riscontro nelle altre regioni istriane. Il canto tipico della Ciciaria viene detto “bugarenje”. Si tratta di un canto alquanto lineare in cui il testo, per lo più in “stokavo” tratta di temi epici, eroici e lirici. Vien cantato solitamente a due, tre o più voci i cui intervalli tonali sono del tutto particolari. Questo genere di canto è tutt’oggi diffuso, soprattutto tra gli anziani, nella regione che va da Castuano alle pendici sud-orientali del monte Slavnik con un limite settentrionale, che va da Rupa a Poljane e Golac, questi ultimi due paesi già in Slovenia, ed un limite meridionale tracciato più o meno dai piedi della Ciciaria meridionale. Il “bugarenje” viene cantato sia in istro-romeno, che in serbo-croato, la lingua di comunicazione primaria fra gli istro-romeni non croatizzati rimane sempre appunto l’istroromeno, nonostante essi si dichiarino di nazionalità croata. Altra traccia importantissima del substrato etnico-musicale istroromeno di tutta la Ciciaria è la presenza di uno strumento molto tipico: la “cindra” o “tamburica” a due corde, suonata con la stessa scala tonale del “bugarenje”. Si usava ed in qualche parte si usa ancora, per accompagnare i balli più ritmati come pure per accompagnare i canti ad una sola voce. Altri strumenti popolari, oggi in estinzione o quasi estinti, usati nella tradizione musicale ciciara sono le “vidalice” o “dvojnice” un flauto a due canne ed il “meh” ovvero la zampogna istriana, ambedue strumenti presenti, a differenza della “cindra” in tutta l’area istriana. Musica popolare in Istria Leos Janàcek (1854-1928), compositore, etnomusicologo, in una conferenza nel 1926 disse: “Nella canzone popolare è contenuto tutto l’uomo, il corpo, l’anima, l’ambiente, tutto. La canzone popolare unisce i popoli”. Affermazione che è pertinente per la musica popolare della piccola penisola istriana. In Istria coesistono Sloveni, Croati (che usano per i loro canti una scala 73


particolare, detta scala istriana), italiani (con alcune parlate veneto-arcaiche), rumeni (altipiano dei Cici), ricca musicalmente, con musiche-cantiballi popolari vari e diversi da zona a zona, l’Istria ha dato due importanti studiosi all’etnomusicologia: Antonio Ive e Giuseppe Vidossi. Ai tempi nostri la musica popolare istriana è stata documentata e studiata dal “centro etnografico di Lubiana”, “istituto d’arte popolare” di Zagabria, “centro studi storici” di Rovigno d’Istria, e dagli studiosi Giuseppe Radole, Roberto Leydi, Gianni Bosio. Tra i balli popolari istriani ricordiamo: balon, della ruota, dencì, la contadina, la manfrina, de la verdura, sette passi, della coda. La musica popolare istriana è formata da: villotte istriane, canti di questua, di lavoro (pesca, saline, miniera, campagna), laudi, canti narrativi, canti iteranti, stornelli. Un tipo di polivocalità particolare, simile al discanto medioevale, “il canto a vatoccu” (vatoccu è il batacchio della campana; Le due voci battono e ribattono tra loro, come fa il batacchio, appunto), presente in Italia dall’ Abruzzo al Molise, si trova anche in Istria, dove è denominato, “canto a pera” (cioè a coppia) e “canto a la longa”. La forma della villotta istriana è quella di una quartina di endecasillabi, con accentuazione, come regola, sulle sillabe pari, differenziandosi così dalla villotta friulana, la cui quartina è ritmata in versi ottonari. Questa composizione, che gli studiosi fanno risalire al ‘400, in Istria prendeva diverse denominazioni: “botonada” o “basso” a Dignano, “batarela” a Capodistria, “bitinada” a Rovigno, “crepazie” in altre località, perchè il canto era accompagnato da strepitii di vecchie latte. La villotta è legata al canto ed alla danza, nel primo caso è prevalentemente vocale, nel secondo, vocale e strumentale (violino e violoncello, chiamato “el basseto”).

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Giuseppe Radole - La villotta istriana Dalle intonazioni satiriche a quelle drammatiche, tante testimonianze di vita paesana Il canto popolare è stato definito uno specchio fedele del cuore del popolo, non soltanto per i sentimenti che esso rivela, ma anche perché, come un libro, la sua tematica riporta le più svariate memorie e reminiscenze storiche. Tra i canti di questo genere (quasi tutte villotte di endecasillabi) reperiti in Istria, la più simpatica è la seguente villotta, nella quale si allude ai quattro angoli delle mura della città, al fiume Risano ed all’acqua del Plaj (sulla costiera tra il Castello e Muggia vecchia), di cui è detto, tante sono le sue virtù: Chi bevi aqua del Plaj, no mori mai. o Muja bela de quatro cantoni, quatro bighi de pan no manca mai, l’aqua del Plaj con quela del Risan no se confai, e quela de la porta granda la ga onor assai. Per esaltare la bellezza degli abitanti di Rovigno, chiamati con orgoglio parigeini, ciò parigini, dal nome dato ad una varietà di garofani, finisce col dire male di tutte le località della costa, da Pirano a Pola. La ponta de Piran xe valurusa, a Umago bielo xe un priete e un zago, itanuva chi nu’ puorta nu’ truva; Parenzo chi xe drento ditti mati; qui i de Ursieri xe pansuleini, e quisti de Ruveigno parigeini; quili i de Pola xe de napariela e quile de Dignan puorta bandera. In questi versi molte espressioni sono veramente incomprensibili. Così, gli orseresi sono qualificati pansuleini, perche nel passato, molti di essi si ammalavano di idropisia a causa delle acque malsane che bevevano. Infatti non tutti i luoghi avevano, per la raccolta delle acque piovane, le cisterne, che, ad ogni modo, venivano scavate nei paesi più grossi e mai nei villaggi, dove, come gli animali, si beveva l’acqua dei laghetti. Un viaggiatore dell’Ottocento attraversando l’Istria, scrisse che nelle campagne istriane era più facile avere un bicchiere di vino che non uno di acqua fresca. Restando sempre in tema di satira paesana, riportiamo una botonada, ispirata da una polemica campanilistica, trovata a Gallesano. E val più Galisan coi so’ grumassi, che no Pola e Dignan coi so’ palassi. Nella quale il termine grumassi sta ad indicare la modestia delle abitazioni di quel grosso paese. 75


Nella testimonianza di villotte dignanesi vengono ricordate una località, Solvela e la casita, quella tipica costruzione rustica con muratura a secco, che serve da riparo ai pastori e di cui, ancor oggi, si possono vedere degli esemplari abbastanza frequenti nelle campagne intorno e sino a Gimino. La piova vignarà sola solita, la bagnarà ‘l mio ben ch’a xi in casita; la piova vignarà sola solagna, la bagnarà ‘l mio ben ch’a xi in campagna; la piova vignarà ben minudela, la bagnarà ‘l mio ben ch’a xi in Solvela.

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Dario Marušicˇ - Il canto senza lasciapassare Alcune analogie tra canti popolari istriani in lingua italiana e quelli in sloveno e croato Le influenze reciproche le riscontriamo come indubbie realtà a tutti i livelli della cultura popolare. Il canto popolare in se stesso, essendo l’immagine riflessa del modo di vita di un ambiente troverà le sue analogie in luoghi diversi, nei quali però esistono le stesse (o simili) circostanze che condizionano un determinato canto. Ben pochi sono i canti marittimi in un ambiente che con il mare ha dei rapporti marginali, come sono rari i canti di pastori in una comunità che si occupa principalmente di pesca. Solo partendo da questi presupposti possiamo comprendere il passaggio di canti da una regione all’altra e I’interscambio tra nazionalità diverse della stessa regione. Nella specifica realtà istriana questi rapporti sono particolarmente evidenti. Il continuo contatto tra le differenti popolazioni autoctone non ha potuto che favorire gli interscambi, scambi che purtroppo sono stati a lungo occultati, se non addirittura negati. Bisogna comunque tener conto anche dei fattori oggettivi che hanno molte volte sfavorito un vero e proprio lavoro di comparazione. Il passaggio di canti da un popolo all’altro è certamente di numero inferiore che il passaggio di fiabe e racconti. Gli istriani bilingui non riscontrano nessuna difficoltà nel raccontare una fiaba nei due idiomi a loro congeniali. Praticamente solo traducendola rimane essenzialmente la stessa e con ciò facilmente individuabile. Il canto è invece molto più complesso, legato alla metrica e alla melodia, quindi nel passare da una lingua all’altra inevitabilmente subisce delle alterazioni fino al punto che molte volte le similitudini tra due o più varianti ci sfuggono. La ricerca finora più completa sulle analogie tra canti istriani di diversa matrice linguistica è stata realizzata a suo tempo da Giuseppe Radole, usando nella comparazione le edizioni a stampa di canti popolari italiani e croati. Nelle raccolte in questione il canto croato della regione a nord del fiume Quieto è rappresentato solo marginalmente, mentre risulta completamento assente il canto sloveno. Essendo il territorio in questione una regione di bilinguismo attivo, siamo portati a credere che proprio qui gli interscambi potrebbero essere più accentuati che in altre località. Ulteriori motivi di approfondimento possono essere forniti dal confronto con materiale manoscritto e raccolte private, anche recenti. Tutto il mondo è paese anche nell’amore. La ragazza fa capire senza mezzi termini di non gradire troppo il proprio corteggiatore.

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Se passi per di qua, tu passi invano, se frugarà i stivai, sarà tuo dano. Se frugarà i stivai e anca le siole, de la mia boca no ti ‘vara parole. Se frugarà i stivai e anca i tacheti, de la mia boca no sperar baseti. Pirano - Piran, Capodistria - Koper; RAD 1:63; Ni mi ne piši, ni mi ne poj, ni pod oknom mi ne stoj. Ni si ne trudi svoje noge, ni si ne žali svoje srce, ki ti nisi za me, ne za moje srce. Non scrivermi, non cantarmi, non fermarti sotto la mia finestra. Non stancare i tuoi piedi, non rattristarti il cuore, perche tu non sei per me, ne per il mio cuore. Un interessante fenomeno sono i canti bilingui (una variante locale della poesia maccheronica). Non molti di numero, sono comunque abbastanza diffusi lungo tutta l’area confinaria. Spesso sono giochi di parole ma anche veri e propri canti con la caratteristica di alternare dei versi in diverse lingue. La loro funzione, il più delle volte, è quella di canzone, ballo o parafrasi. Komare botrica, prešteme vaša muša oslica, ke vado a Kapodištrija Koprca, komprare un šako di šemola trubi. Ke go una porka svinja, ke ga fato cˇinkue porki e pet prased. Nova Vas; raccolto da Drago Pucer; Più che nei canti le analogie le troviamo nella musica e nella danza, infatti non sono strettamente legate a caratteristiche nazionali (ad esempio la lingua). A noi interessa in maggior modo la musica popolare della zona a nord del fiume Quieto, in quanto questa regione non è conosciuta abbastanza. I raccoglitori italiani si sono limitati alle città costiere e a pochi centri dell’interno (Buie, Montona); quasi totalmente è stata esclusa la campagna. Per quanto riguarda l’Istria slovena la situazione non è migliore. Dopo 78


una quarantina d’anni dalle prime ricerche, il materiale tutt’oggi è solo parzialmente classificato. Nella zona croata tra il Quieto e la Dragogna la situazione è simile. Evidentemente ai musicologi croati per la presenza viva, più a meridione, della scala musicale istriana, questa zona non risulta abbastanza interessante. Così anche il materiale raccolto nei comuni di Buie e Pinguente rimane per la maggior parte manoscritto e limitato ai canti. Nella musica strumentale del territorio in questione, difficilmente possiamo fare distinzioni nette tra quella italiana, croata o slovena. Suonata con il violino e il bassetto ma anche con l’armonica diatonica e il clarinetto, viene impiegata da tutti e tre i popoli per accompagnare i balli. Ci limitiamo a citarne alcuni come: Polka, Mazurka, Vecio Valzer, Balun, Mafrina, Spasel (Polkapromena, Promena, Gambiadone), Saltin, Sotis (Cotic´), Valcivien, Dopasi, Setepasi, Oberstaiar (Štajeriš, Stajar). Abbiamo citato soltanto i balli dei quali abbiamo saputo direttamente dagli informatori. In qualche caso, sotto diversi nomi, si cela lo stesso ballo oppure sotto lo stesso nome più balli. Per il ballo dei Settepassi abbiamo praticamente una sola melodia. Ovviamente con delle variazioni ma sempre minime. Anche la canzoncina che abitualmente accompagna il ballo varia nelle tre lingue solamente di poco. Cori, cori Bepi, se ti me vol ciapar, cori, cori Toni, se ti me vol ciapar. Un, due, tre e un, due, tre fin che coro no me ciapè. Son zoto d’una gamba, no poso caminar, son zoto d’una gamba, no poso caminar. Un, due, tre e un, due, tre, fin che coro no me ciapè. Biži, biži da te ne c´apan, biži, biži da te ne c´apan. Jen i dva, dva i tri ko bižin me ne c´apaš ti. Da quel poco che abbiamo tentato di illustrare possiamo comunque concludere che nella cultura popolare istriana ci sono stati tra le popolazioni degli interscambi molto più ampi di quanto potrebbe risultare dal materiale edito. Proprio la zona sulla quale ci siamo soffermati è, in questo senso, particolarmente interessante e ingiustamente trascurata che per le sue specificità deve essere, dal lato etno-musicologico, trattata in modo integrale. 79


Trieste, manifestazione socialista del primo maggio - 1902

Musica popolare e parlato popolare urbano Giovanna Marini - ricercatrice, musicista a Roma (I Giorni Cantati - Istituto E. De Martino - ed. Mazzotta, 1978) Ascoltando la registrazione dello sgombero dei palazzi occupati, la borgata e la lotta per la casa, ho avuto per la prima volta la sensazione che il parlato, il declamato, il sillabato fossero musica, anzi musica d’avanguardia. Perché che cos’è il concerto, la “musica”, se non il suono usato in modo spettacolare, con tutti gli ingredienti dello spertacolo, l’intrico dei sentimenti, il divertimento, la sorpresa, l’eccitazione dovuta a un misto di stati d’animo provocati non sappiamo bene da chè e quindi intriganti, stimolanti? Bene, nella registrazione c’è tutto questo; c’è anche “racconto”, storia. C’è un basso continuo di suoni derivanti dal parlato contemporaneo di molti sul quale si eleva volta per volta un assolo. Quello che più mi ha impressionato è l’assolo di una donna che urla “annamo ar Vaticano, dar papa...”, e altre parole di cui non m’importava affatto capire il significato tanto mi muoveva a commozione di per sé il suono acuto e declamante di quella voce sul basso continuo di altre voci, che stridevano indifferenti coll’animosità della voce della donna. Gli acuti e i bassi di lei si alternavano in un grafico a “onda”. 80


Pensavo: “che stupendo concerto: concerto per voci e rumori vari e assolo di donna”. Da quel momento incominciò per me lo studio dell’uso della voce. L’uso della voce è di per sé “citazione di classe” quando la voce è impostata in testa anche nel semplice parlare, tutta di timbri tra la gola e la testa, senza diaframma, senza pancia, senza petto, senza corpo, è la tipica voce dell’aristocrazia nordica. Non c’è dubbio, quella voce di per sé è un certificato di classe, un programma politico, esattamente come la voce di quella donna della borgata: qualsiasi concetto, anche dei più democratici, qualsiasi espressione, anche delle più proletarie, sarebbero sempre traditi da una voce come quella. Tanto che non serve neanche più capire le parole pronunciate, naturalmente dal punto di vista musicale della voce. Pensavo agli assoli delle due donne “aristocratica e popolana” poi se io metto un basso continuo e voci, ho già raccontato una storia, e raccontato due fatti, due situazioni culturali, ho fatto spettacolo. Così, se incominciamo a trascrivere le voci parlanti, ad aggiungere l’uso della voce emessa in modo che sia già da sé “citazione” ed espressione, avremo una serie di possibilità che vanno usate, oggi, per fare uno spettacolo musicale, cosa che, riferita al solo settore della musica classica, si chiama “concerto”. Vorrei aggiungere alcune osservazioni sullo stile “musicale” della seconda donna di cui ho citato, la sua emissione, secondo un dato comune nel mondo popolare, è un’emissione forzata tra naso e petto, sotto la voce passa di “falsa testa” perché sempre spinta in realtà col naso. Quest’emissione è naturale perché garantisce la gola libera, “che per chiunque si occupi un po’ di canto è termine sacro”, in quanto garantisce che non si irritino le corde vocali. Anche nel canto lirco la voce è spinta in quel modo, di naso, cioè facendo vibrare le ossa facciali, ma in un modo studiato per evitare la tipica nasalità che è considerata brutta, volgare, e che invece nel canto contadino e urbano, emerge sfacciatamente. Si può notare anche come la donna popolana esegua in fondo un “modo” sillabico, scandito, dei respiri regolari, che fanno pensare al canto sillabico del gregoriano, facendo addirittura la “salita” per toni e semitoni nell’ultimo “verso”, proprio come si usa nel canto sacro.

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Niccolò Tommaseo e i canti popolari del Friuli Nella versatile attività filologico-letteraria di Niccolò Tommaseo (Sebenico 1802 - Firenze 1874), un posto particolare occupa l’amore per i canti popolari, di cui fu appassionato raccoglitore. La passione per tutto ciò che è “popolare”, tipica dell’età romantica, traspare anche da una lettera diretta a Caterina Percoto da Torino, il 7 novembre 1865, cioè quando il Friuli era ancora sotto la dominazione austriaca. In essa, esorta la nostra scrittrice a coltivare questo genere letterario: “... Raccogliete tradizioni e proverbi e frammenti di canti e scrivete anche in dialetto, cose che il popolo possa leggere”. Per appagare questa predilezione per i canti popolari, il Tommaseo ne operò un’ampia raccolta, come il Nigra ed altri, data alle stampe col titolo “Canti popolari, toscani, corsi, illirici e greci” (1841-42). Era sua convinzione che “chiunque non venera il popolo come poeta e ispiratore dei poeti” non può capire l’opera sua. Un mannello di canti popolari del Friuli, raccolti dal Tommaseo, probabilmente tramite collaboratori, furono donati alla città di Zara dalla figlia del Tommaseo, suor Chiara Francesca (al secolo Caterina). Scoperti casualmente, sono stati gentilmente messi a mia disposizione dalla Direttrice della Biblioteca Comunale, ex Paravia, di Zara, dr. Nada Beritic, che ringrazio. Si tratta di diciannove cartelle, comprendenti duecentosei quartine, di cui trentasei senza indicazione di località, cinquanta raccolte a Cormons, novantasette a S. Giovanni di Manzano (ora S. Giovanni al Natisone) e ventitrè a Udine.

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seconda parte LE VOCI DENTRO di Mario Schiavato Succedeva talvolta che nei lunghi esausti dormiveglia, dopo aver a fatica gettato da parte le coperte e dopo essersi alzato dal letto puzzolente di rancido, con le mutande di fustagno legate alle caviglie, uscisse dal suo umido bugigattolo e si avviasse scalzo, a passi lenti e incerti, verso la porta della cucina che, scricchiolante, s’apriva sul balidor. Aggrappato per non cadere dapprima alla maniglia e poi al parapet e alla ringhiera, rimaneva lì a tossire rauco, a fissare quell’immenso buio sforacchiato dalle poche luci della notte, ad annusare il sospiro del vento che se era di tramontana arrivava dalle mura diroccate e dalla porta occidentale, quella che aveva murato sopra la volta un Leone di San Marco col libro aperto o, se era di scirocco, direttamente dalla riva del Canale di Lussino. Rimaneva lì, trasognato, spesso fino a cadere lentamente in ginocchio dapprima, per finire poi seduto sul pavimento, le gambe doloranti stese, la schiena poggiata al muro scrostato, gli occhi annacquati di chi non riesce più a vedere bene, ma solo a ricordare, anche se le figure, le voci, gli sguardi e i sorrisi sfumavano sempre più rapidamente nell’immensità di quel buio, planavano dapprima sulla distesa del mare, nero anche quello, per poi perdersi cancellati, inghiottiti dal mormorio della bavisela che increspava le onde leggere che arrivavano a sbattere sugli scogli. Nella memoria si susseguivano uno dopo l’altro - per poi cancellarsi col passare delle ore - ricordi di pulsioni, di eccitazioni, di euforie, sensazioni di disincanti, di angustie, di angosce; ma anche percezione di gioie, di allegrie, di piaceri che pian piano si dissolvevano come si stingevano di giorno al sole sul molo le macchie delle interiora dei pesci, come si disseccavano le alghe con la loro puzza disgustosa che persisteva tuttavia sui pietroni della banchina vicino alle bitte consunte e ruggini dov’erano ormeggiati gli ormai pochissimi e trascurati pescherecci, quei pescherecci scrostati che talvolta arrivavano di sera o al mattino per sostare qualche ora, scaricare un po’ del pescato e ripartire, lasciandosi dietro lunghe scie di un indaco spento. Sul balidor, ma spesso anche dietro le imposte accostate della finestra della sua cameretta - quella specie di buco stretto e basso con le travature screpolate e contorte dipinte di calce che, addossato al muro aveva il letto 83


di tavole tarlate e scricchiolanti ancora della sua infanzia -, quando non soffiava il vento, quando non si sentiva l’infrangersi delle onde sugli scogli né il lieve tossicchiare del motore di qualche barca o la rara pioggia cadere, poteva starsene a lungo ad ascoltare il proprio respiro e rivisitare mentalmente tutto quello che aveva visto e vissuto, il limite tra la felicità e la realtà, la linea d’ombra tra il mondo ingenuo dell’infanzia, le fatiche della maturità e la solitudine della vecchiaia. O anche, seduto immobile, starsene soltanto a guardare, a scrutare proiettate sul muro dalle fessure delle imposte, quelle strisce luminose che sulle pareti grigie e ammuffite dapprima s’accendevano, poi scintillando pian piano si spostavano, si allungavano, si facevano dorate e infine diventavano rosse prima di spegnersi. Quella sua eterna, torpida sonnolenza, anche se col trascorrere degli anni gli apriva dentro un vuoto sempre più vasto e senza echi, era certamente - spesso se lo ripeteva convinto - una qualità positiva, perché così le cose scivolavano via attutite e non gli importava proprio se non riusciva a ricordarla, a vederla per intero quella sua vita travagliata. Bastava riviverne qualche brano, i più salienti, i più consolatori. Piano piano, senza fretta. In fin dei conti la vita, la storia, il volto di un uomo sono una stessa cosa. Infanzia, gioventù, maturità e vecchiaia si riflettono sul suo viso come la luce del sole sulla terra, sorgono, si evolvono e poi tramontano. Forse proprio per questo, nel buio di quelle lunghe notti, nella penombra di quelle giornate silenziose, talvolta intirizzito, altre volte imperlato di sudore, sentiva le voci dentro che narravano per lui. Le sue vicende. Tutte. Di lui che prima si chiamava Franz Ivancich e poi Francesco Di Giovanni e poi ancora Franjo Ivancˇicˇ, classe di ferro 1892. Oh, era bello sentir parlare e parlare perché tutto veniva a galla: i ricordi, le ansie, le fatiche, le gioie, gli amori pochi e gli errori molti. Le entusiasmanti od opprimenti sequenze di quell’andare per i mari del mondo, le fatiche, i travagli, anche quelli, passati sui ponti di tante barchette e barcacce prima, nelle asfissianti stive e sale macchine dei vapori dopo, con giorni affannosi, interminabili... Mesi ed anni se n’erano andati troppo in fretta. Nei primi tempi sempre scalzo sulla tolda delle barche, lungo e magro come l’anno della fame: obbedire, sottomettersi, faticare, tacere... Ancora ragazzino, qualche volta suo padre Calafat lo spediva alla pesca longa. S’imbarcava con un maglione di lana grezza rattoppato e col giaccone di tela cerata gialla. Alla partenza pieno di euforia per la nuova avventura, ben presto disilluso e malinconico: tre, quattro, cinque giorni con la nostalgia della sua casa, dei cicalecci del nonno, del berciare degli amici. Col paron dalle esigenze sempre severe e coi omeni de barca dal sorriso carente e dal volto indecifrabile, ben presto lo invadeva uno sconsolante senso di isolamento, di emarginazione. Allora di guadagnare qualcosa per 84


quel suo faticare, per quel suo penare, neanche si parlava. Suo padre era soprattutto gratificato dal fatto che “cussì el impara a pescar” e dalla soddisfazione di non averlo tra i piedi almeno per qualche giorno, mentre sua madre, gli occhi bassi, spingendolo per le spalle, tacendo, lo accompagnava fino alla porta...

IL GAMBERO ROSSO di Anna Piccioni è ancora lì all’angolo tra la via Fabio Severo e la via Sottoripa, “Il gambero Rosso”, sono anni che non ci entro, probabilmente molte cose saranno cambiate, ma nella mia mente è ancora quella di quando fin da piccola, e ancora prima che nascessi era gestita dai miei nonni materni, nonna Lidia e nonno Beniamino, osti. Non credo di aver mai visto persone estranee alla mia famiglia alternarsi a dare una mano. Nonna Lidia era la cuoca, nonno Beniamino potrei con un termine moderno chiamarlo quello che tiene le pubbliche relazioni con gli avventori. Mia mamma, Bianca, era però la colonna dell’osteria. Factotum, senza turni, domeniche comprese, sapeva comunque divertirsi. A quel tempo quegli isolati tra via Fabio Severo, via Sottoripa e via Cologna erano come un piccolo villaggio e la vita della comunità ruotava attorno alla parrocchia e all’osteria. Chiamiamola parrocchia, ma la Chiesa di San Pietro e Paolo, prima di essere una Chiesa vera e propria era sistemata in un vicolo sotto l’Università in via Cologna alta, nelle cantine o nelle stalle di una piccola costruzione con una specie di giardino davanti e al piano di sopra c’erano dei piccoli alloggi abitati da famiglie bisognose. Ci sono passata ultimamente: è ancora lì, credo che ancora qualcuno ci abiti, ma è in uno stato di totale abbandono. Sul tetto c’è una piccola campana. Ho sbirciato attraverso i vetri rotti di quella che doveva essere stata la Chiesa: banchi rotti, ragnatele, travi per traverso. Il sacro e il profano, ma l’osteria era più frequentata della Chiesa, e questo non andava giù al parroco. “Daghe terran e prosciutto, invece dell’ostia” mandava a dire nonno Beniamino. Tutti ci conoscevano, anche perché all’angolo di fronte all’osteria, al numero due di via Sottoripa all’ammezzato abitavano nonna Lidia e nonno Beniamino. Più su dell’osteria in via Fabio Severo al 103 abitava la famiglia del mio papà. Tutti gli altri lì intorno. Era grande l’osteria, di forma rettangolare: si entrava sulla via Fabio Severo; sulla destra c’era il bancone della mescita, moderno perché il vino 85


non si stillava dalle botti, ma dai rubinetti sul bancone, come adesso si usa stillare la birra. Io pensavo che per questo la nostra trattoria era all’avanguardia. Le botti stavano in cantina. Dopo il bancone un grande tavolo e poi la cucina, lunga e stretta, aperta, separata dal resto del locale da una parete di legno con dei vetri bianchi. Nella cucina c’era il grande fogoler dove la nonna arrostiva anche il caffè e il forno a legna dove io d’inverno, aperto infilavo i piedi gelati, e accanto l’acquaio di pietra, senza acqua calda. In fondo la porta della cantina. Ricordo sull’acquaio “el criel” con gli spaghetti già cucinati la mattina che a seconda dell’ordinazione venivano a porzione immersi nell’acqua calda e poi conditi col sugo “de osteria”: denso, grasso, saporito e profumato. Sulla parete di fronte a sinistra dell’entrata sulla via Sottoripa, si aprivano tre grandi porte finestre che d’estate davano frescura all’interno con tende credo verdi, di cotone pesante. In fondo c’era la porta del gabinetto. A volte avevo il compito di tagliare le pagine del giornale in quattro per fornire il cesso di “carta igienica”, poco igienica, ma molto economica. Nell’angolo tra la porta d’entrata e la prima porta finestra su una mensola in alto, molto in alto per me piccolina, la televisione. Nel 1954 forse ’55, l’osteria si riempiva di gente, tutto il circondario, per vedere “Lascia o raddoppia”. Ricordo che per andare al gabinetto dovevo farmi strada sulla testa della gente; letteralmente passavo da un braccio all’altro sopra la testa degli avventori. In quell’occasione la nonna faceva “struccolo de pomi e de ricota”. All’esterno dell’osteria sul marciapiede, c’è tuttora il giardino, come lo chiamavo io, separato dalla strada da uno steccato di legno con siepe intorno e con tre bei e grandi alberi. D’estate era il mio campo giochi, in particolare un ramo quello più basso sul quale mi dondolavo. D’inverno invece mi rifugiavo nella grande cantina, dove su un’asse di legno e con i bicchieri in miniatura giocavo ovviamente a fare l’oste. Si entrava dalla cucina, si scendeva una scala di legno e tutt’attorno le botti, i prosciutti, i salami. A sinistra c’era la porta che dava sulla via Sottoripa. Ricordo che c’era appeso ad una scala a pioli che dava sul soppalco un otre con cui si filtrava il terrano che quella volta era proprio denso e ti lasciava la lingua nera. Sotto la scala di legno c’era un altro “antro” basso e buio dove stavano ben sistemate le bottiglie di terrano. Dimenticavo ma al centro dell’osteria c’era una botola dove solo io riuscivo ad entrarci, anzi mi calavano giù quando arrivava di sabato a cena una compagnia d’amici, e ordinavano quel vino lì. Io li odiavo, perché odiavo essere infilata lì dentro: avevo il terrore dei topi, e non sopportavo l’odore di muffa. Non ricordo se alle pareti dell’osteria fossero appesi quadri o altre cose, 86


la mia vista si fermava all’altezza dei tavoli. Ma probabilmente ci doveva essere della musica, soprattutto i canti della tradizione triestina che venivano intonati d’estate sotto gli alberi del giardinetto, o nelle giornate invernali all’interno da qualche comitiva di gitanti. A quel tempo la zona era abbastanza periferica per considerare un “pranzo” da Beniamin, come una gita fuori porta. Altrimenti non mi so spiegare come ora mi ricordi tutte le parole di quasi tutto il repertorio del canzoniere triestino, e senza nessuna fatica. Questo più o meno il luogo in cui sono cresciuta, in cui ho vissuto i miei primi dieci anni di vita.

IL CAMPEGGIO DI DUTTOGLIANO di Tullio Kezich Adesso il campeggio è in Slovenia, forse non avremo più occasione di tornare lassù. Ma una volta, parlo degli anni prima della guerra, le bettole carsoline erano piene di gitanti. Negli stanzoni c’era odore di pollo fritto, i bicchieri di terrano lasciavano cerchi scuri sui tavoli e il prosciutto color corteccia veniva tagliato grosso. I ricordi devono accettare quella dimensione e quei colori, che poi non abbiamo più potuto correggere o sostituire perché è venuta la guerra, e quasi subito il Territorio si è allontanato da noi come l’Africa o la Grecia. Al capolinea dei tram di periferia ci accoglievano ormai sguardi stranieri, pieni di odio represso e di minaccia… Manzoni il nostro professore di ginnastica era un uomo anziano e grasso. Durante le ore di ginnastica nella vecchia palestra fredda e male illuminata, eravamo presi da una vaga sonnolenza che ci faceva sordi e pigri. L’ora trascorreva lentamente: chi riusciva a saltare un metro e venti, bravo; chi non ci riusciva, bravo lo stesso… alla fine del trimestre i sette e gli otto si sprecavano: Manzoni era di manica larga. Il giorno che ci parlò del campeggio il professore aveva l’aria trionfante: descrisse la vita meravigliosa che ci attendeva nel campeggio della Gil. Saremmo stati grandi come al Campo Dux: lontano dalle proibizioni familiari, tutto il giorno all’aperto, tutta una vita di cameratismo e di giochi. Avremmo sperimentato la disciplina militare che forma il carattere. Saremmo partiti per l’altopiano ragazzini di undici anni, ma ne saremmo tornati uomini, figli di un tempo di rivoluzione. Duttogliano già si profilava nei nostri animi come un luogo di virile spensieratezza, un paese delle vacanze dove finalmente avremmo avuto tutte le ore della nostra giornata. C’erano tra noi alcuni ragazzi che non erano mai stati in vacanza: il loro problema era la quota che si doveva pagare: venti lire... 87


“Io a Duttogliano ci vado!” disse subito Minossi, che aveva il papà squadrista e ci teneva a farsi notare. Morivo di invidia perché per Minossi tutto era più facile. Sarebbe piaciuto anche a me entrare nelle grazie di Manzoni e dei graduati… Invece non so proprio perché, mi avevano precipitato nel peggior plotone della scuola, comandato dal cadetto Jacchia, che ogni sabato si trovava di fronte a un branco di balilla, indisciplinati cronici, i ritardatari, i mezzi deficienti, e i cattivi, come Danasi e Peretto, che Manzoni chiamava comunisti. Noi del plotone Jacchia non andavamo mai alle parate, oppure chiudevamo i cortei quando già gli spettatori attraversavano le nostre file per passare da una parte all’altra della strada e i tram suonavano la campanella per farci andare più in fretta... Cercavo invano una occasione per distinguermi, per metter in luce la mia buona volontà. Una possibilità di successo brillò con l’arrivo di Storace. Mi diedero il tamburo e le bacchette, mi insegnarono la posizione di attenti del balilla tamburino e mi collocarono con altri sotto il palco, in seconda fila. Quando la fila davanti suonava il tamburo, noi facevamo la mossa... Partito Storace ci ritirarono i tamburi. Era bello però girare in divisa lungo il viale XX Settembre... Pensavo al campeggio di Duttogliano come una passeggiata interminabile e perfino gloriosa. Papà diceva spesso “Quando avrai le chiavi del portone farai il tuo comodo”... ed io non vedevo l’ora, ardevo dal desiderio di bruciare le tappe, sospiravo i calzoni lunghi e la voce da uomo almeno al telefono. Papà era un uomo grande e grosso, con un vocione da baritono fatto apposta per dire di no. Per molti anni avevamo trascorso insieme i pomeriggi, passeggiando lungo i viali di Sant’Andrea... adesso non gli dicevo più tutto, c’erano cose che intuivo, e che avrei voluto domandare, ma non osavo. Perciò passavo le ore nel suo magazzino, lui curvo sui registri, io zitto da un’altra parte... Nei giorni di festa nazionale andavo a prendere papà verso l’una, dopo l’adunata... Veniva anche mia sorella Laura, con la divisa di giovane italiana, e tornavamo a casa tutti insieme per le vie della città imbandierata. Se passava qualche corteo papà tirava su il bavero del cappotto per nascondere il bianco della camicia... Il pranzo di quelle giornate era malinconico. Persino Milka, la domestica slovena, capiva a volo l’aria che tirava e ci passava i piatti senza una parola... Persino quando rideva papà non sembrava allegro... A volte invece quando sedeva al tavolo in cucina con il signor Sanzin, davanti a una bottiglia di slivovitz, mandata dai parenti di Croazia, si accendeva parlando e si sfogava “Questi signori questi manigoldi!” Laura ed io assistevamo senza aprir bocca. “Mi raccomando! Zitti sui discorsi che sentite in casa. C’è sempre gente pronta a far del male!” Mio padre non era più lo stesso da quando Vinko, uno dei suoi braccianti, era stato condannato a morte con altri slavi. Dal momento del suo arresto, Vinko era diventato importante per me. Ricordavo che era biondo: il cappellano del carcere ci portò i saluti di Vinko prima che lo fucilassero. “Tuo padre dava lavoro ai sovversivi! - mi dicevano i compagni di 88


scuola - E’ uno slavo e anche tu sei uno slavo!” Paolo Rancovich: molti trovavano che il mio cognome era difficile da pronunciare. “Non sei né italiano né jugoslavo. Sei senza patria e senza Dio.” E io pregavo il Signore che facesse diventare religioso mio padre e lo facesse iscrivere al partito fascista perché potessi essere fiero di lui e in pace con tutto il mondo... Ora aggiungevo alla preghiera un desiderio personale “Signore fa che mio padre mi lasci andare al campeggio di Duttogliano.” L’incredibile si stava compiendo. Avevo lo zaino, la borraccia, il coltello serramanico: ogni particolare del mio abbigliamento mi dava una gioia quasi insopportabile, era una conferma che avrei trascorso dieci giorni, come un grande, al campeggio di Duttogliano. Tutta la famiglia mi accompagnò alla corriera: papà, Laura e Milka che portava lo zaino: e questo mi seccava perché era assai poco militare. Non vedevo l’ora di salire sulla corriera... Raggiunsi un posto fra i balilla, che facevano un gran chiasso. Speravo che i miei se ne fossero andati, ma li ritrovai lì che parlavano tutti assieme e sembravano commossi... I balilla si misero a cantare in coro, le autocorriere accesero i motori e non arrivai a sentire le ultime parole di papà. Provai una stretta al cuore: per la prima volta ero solo... Con me c’erano dei ragazzi più grandi: mi sembravano sudici e scostanti. Salutando per l’ultima volta papà con la mano, mi vergognai che mi vedesse nel branco dei balilla urlanti e provai un senso di disagio paragonando l’epopea che mi ero dipinto in mente con la realtà di quel momento disgraziato. Ma quando la corriera ebbe guadagnato le curve delle cave di pietra e lo sguardo poté spaziare sulla città ripresi coraggio e fui contento di essere avviato per la prima volta a un campeggio di soldati. Cantai anch’io perché la canzone guerriera mi piaceva e il suo ritmo mi avvicinava agli altri ragazzi.. chiusi gli occhi e mi tornarono alla mente i nomi gloriosi: Maccalè, Addis Abeba... La colonna aveva rallentato all’entrata di un paese, stentava quasi a infilarsi tra le case miserabili: dai vani delle porte volti senza espressione ci guardavano transitare… La donna del latte, col vaso nichelato alto sulla testa, si scansò con un salto dalla strada e uscì un’esclamazione incomprensibile, un’orgia di consonanti che scatenò sulla corriera la più viva ilarità “S’ciava dura! - commentò Minossi - Meritava metterla sotto.” Arrivammo a Duttogliano ch’era passata da un pezzo l’ora di colazione. Il campeggio era fuori del paese, quattro file di tende e l’asta per la bandiera. Un manipolo di marinaretti, comandati da un cadetto della Gil, fecero il present’arm ai gerarchi che ci accompagnavano. Scendemmo per ultimi. Manzoni tentò di metterci in riga per rispondere al saluto, ma eravamo troppo carichi di fagotti e di zaini per assumere un aspetto confacente. Dalla parte opposta del campeggio apparve una decina di ragazzini laceri e sporchi, che stavano fermi sull’argine della strada e ci guardavano in silenzio. Non so perché mi venne in mente Vinko: era stato anche lui fra la 89


muleria del Carso, da ragazzino. Sua madre veniva giù da Basovizza, tutte le mattine con il vaso pieno di latte, anche quando soffiava la bora. Ritrovai quelle strane parole, sdrava maro, e mi parve brutto che stessimo là, in disordine e senza un comandante capace di metterci a posto, a scambiare insolenze con i marinaretti sotto lo sguardo dei ragazzini slavi. Avrei voluto essere un avanguardista e prendere a schiaffi i più facironosi. Uno degli slavi, un biondino dai capelli sudici e dalla camicia strappata, gridò ad un tratto, con voce alta e stridula, ma incolore e calcando bene ogni sillaba “Ba - lì - la!” La parola pronunciata con forte accento balcanico, cadde nel silenzio più assoluto. La tenda, tanto grande all’esterno, mi sembrò piccola, quando fummo entrati dopo aver deposto i moschetti sulla rastrelliera. “Professore! - dissi rivolto a Manzoni, entrato a controllare - non ci hanno dato che una coperta. Mancano le lenzuola e il cuscino.” “Al campeggio - disse Manzoni con durezza - le lenzuola non servono. Pensa ai sacrifici dei soldati in guerra. Lo zaino può fare da cuscino.” Provai a ricordare come mi ero immaginato il campeggio. Mi accorsi che nelle mie fantasticherie non avevo mai pensato come avrei dovuto dormire una volta arrivato al campo. Avrei voluto che tutti si dimenticassero di me. I balilla mi urtavano passando avanti indietro. “Attenti!” Tutti si irrigidirono sull’attenti, tranne quelli che stavano in fondo e credevano di non essere visti. Mi ero alzato anch’io, ma stavo ancora appoggiato alla branda di ferro. “Sull’attenti! – gridò Bertoli, e guardava proprio me - Abulico!” La parola mi ferì come una colpa segreta e vergognosa. Mi sentii nudo fra i balilla che mi fissavano, il più esposto e il più debole. Si avvicinò al mio letto “Ecco un balilla – disse – che vuol finire sull’ordine del giorno prima ancora che il campeggio sia cominciato. Complimenti!”. Poi cambiò tono, da ironico divenne cattivo “Testone non hai ancora fatto la branda, non hai tirato fuori gli stracci dallo zaino, che cosa aspetti? Credi di essere a casa tua? Vuoi la mamma che ti coccoli?” Potevo dirgli piagnucolando che non avevo più la mamma, ma mi trattenni. Sentivo che le lacrime arrivavano e strinsi i denti. Non devo piangere – e intanto cominciavo a levare la roba dallo zaino. Bertoli però non aveva finito. “Chi ti ha dato il permesso di muoverti? Torna sull’attenti! Come ti chiami? Voglio sapere il nome di questo balilla di merda!” “Rancovich.” “Come?” “Balilla Rancovich Paolo.” “Me lo immaginavo. Ti manderemo una cassetta di sapone per fregare bene quel nome ostrogoto, signor Stancovich!” La battuta dell’avanguardista e la storpiatura del mio cognome fece ridere tutti. 90


“Non ridere, non c’è niente da ridere… Nella Gil ci sono i buoni organizzati, i cattivi organizzati, i lavativi e i farabutti. I tipi come Stancovich li conosciamo benissimo! E adesso fuori dalla tenda, adunata, prendete i moschetti, raddrizzate il fez!” Gli ufficiali si portarono sotto l’asta della bandiera, poi uno con i calzoni bianchi, un certo Romoli, fece due passi avanti e disse: “E’ arrivato il momento più solenne della vostra permanenza al campeggio di Duttogliano. L’ammainabandiera, l’appello del caduto. Ogni sera quello di voi che si sarà rivelato il miglior balilla... - e qui l’ufficiale fece una pausa - ... Ogni sera vi dico, il migliore tra voi farà l’appello del caduto. Potrete nominare un eroe a vostra scelta, purché sia della campagna d’Africa, della guerra di Spagna o della rivoluzione fascista. Questa sera l’onore tocca al marinaretto Cramer Giuseppe...” Per le file dei balilla corse un mormorio ostinato, ma Romoli gridò: “Silenzio! Siete impazziti? Non avete rispetto per la bandiera? Non avete rispetto per i caduti?” La sfuriata mise il diavolo in corpo ai vari comandanti di reparto. Bartoli ci saettò con uno sguardo di fuoco – il mormorio era partito dalla nostra tenda – e ripetè fra i denti “Vi castro, vi castro!” “Dopo l’appello del caduto – riprese Romoli – farò ogni sera a ciascuno di voi una domanda di grande importanza. Vi chiederò, uno per uno se siete stati al gabinetto …. Non c’è niente da ridere!!” L’ufficiale adesso passava in rivista i reparti, parlando con studiata lentezza e fermandosi ogni tanto a correggere la posizione o la divisa. “Andare al gabinetto è indispensabile per mantenere la salute. Chi non andrà al gabinetto tutti i giorni dovrà prendere l’olio di ricino. Chi non andrà al gabinetto sperando che io non lo sappia si ricordi che il comandante del campo viene a sapere tutto. Perciò se avete notato che un vostro compagno non va al gabinetto venite subito a dirmelo e io gli faccio prendere personalmente l’olio di ricino. Ci siamo capiti??? E ora l’appello del caduto. Ammainabandiera!” Lo squillo della tromba accompagnò il tricolore stemmato che veniva giù lentamente. Poi il marinaretto Cramer si mise sul present’arm e gridò “Mussolini!” Ci fu un momento di panico, tre o quattro voci risposero “presente”, ma tutti gli altri si guardarono esterrefatti. Romoli fece qualche passo verso il marinaretto che era visibilmente impallidito, rendendosi conto dell’equivoco. Per riparare scandì “Aroldo Mussolini!” Un avanguardista lo spinse brutalmente da una parte, gli strappò il moschetto e si mise in posizione e gridò in tono sbrigativo “Giovanni Berta!” Ma il present’arm riuscì fiacco, tutti ridevano e commentavano la stupidaggine di Cramer, gli ufficiali si avventarono sul povero marinaretto e lo chiusero in un cerchio di recriminazioni... 91


INCONTRO CON IOLE BURLO di Marina Moretti Incontro Iole Burlo nella residenza Margherita che sembra la meta destinata di questo peregrinare nella casa della memoria. Ha preferito l’I.T.I.S. alla solitudine domiciliare col solo viatico della televisione. Contro ogni ideologia di appartenenza. A dimostrare la determinazione che l’ha sempre distinta e ne ha fatto una figura femminile di spicco del mondo politico e sindacale fin dagli anni tragici del dopoguerra. Un tratto del carattere coltivato da un notevole maestro, l’uomo forte del partito comunista triestino, lo storico comandante Carlos della guerra di Spagna. Vittorio Vidali. Quando parla di lui si mescolano ammirazione per quella sua straordinaria capacità di andare fino in fondo senza dubbi e titubanze – “un vero combattente, disposto a tutto per l’idea” – e riconoscenza per aver infuso sicurezza a lei giovane donna del popolo, che doveva affrontare battaglie pubbliche e private dentro il partito e dai banchi del consiglio comunale. “Non ti curare di quello che pensano gli altri, di cosa dicono di te, va avanti nelle tue idee e nelle tue decisioni” le raccomandava. Un riferimento costante fino alla fine. Poco prima di morire, nelle ultime visite insisteva “Non cambiare, continua così”. Intendeva nel pensiero, nel lavoro politico, nelle battaglie sociali. “Ma, soprattutto, non perdere il coraggio”. Un vero compagno e un grande amico. Insieme al marito Giuseppe Burlo le figure maschili più significative. Gli uomini che ha amato e ammirato di più, che l’hanno aiutata a capire il senso della sua militanza e di cui ama parlare. Di Vidali ricorda soprattutto l’uomo d’azione che non stimava gli intellettuali e profetizzava il pericolo che avrebbero rappresentato per la purezza della causa comunista: “prendono e non danno” era solito ripetere. Ma Vidali ha rappresentato anche il tramite con la grande storia, il protagonista che si muoveva sullo scenario mondiale e traduceva ad una giovane militante il senso degli eventi e le linee di evoluzione del mondo comunista. Alla morte di Stalin fu lui a chiarirle il quadro di ciò che accadeva in U.R.S.S. e delle conseguenze in Europa e nel partito comunista italiano. Ha portato con sé i suoi scritti, nella stanza che condivide con un’altra ospite. Si offre di prestarmeli. E credo sia un segno di simpatia e di rispetto. Non sono il tipo da lasciarmi affascinare da testi di teoria politica e men che meno rivoluzionaria. La proposta mi attrae per altri motivi. Il valore di una testimonianza di 92


vita, fatta da un uomo nel tentativo di riannodare il senso della propria esistenza sul filo della Grande Storia ed il commiato, come l’ha definito Claudio Magris, “virile e malinconico” da un’epoca epica, di grandi valori, di grandi scelte, di grandi lotte; l’apoteosi di quel pensiero forte, di quelle certezze, anche tragiche, di cui vado cercando le tracce nel serbatoio della memoria collettiva. Forse per nostalgia d’una grandezza che sembra aver abbandonato la modernità, forse per desiderio d’infanzia, per risentire la storia bella della verità, chiara e assoluta come nelle fiabe. Forse perché come diceva di sé stesso il grande Saba anch’io sono “ghiotta d’anime”. Penso dunque che accetterò l’offerta. In questa donna provata crudelmente nella carne, impedita nel movimento e nella parola, lo spirito animoso e battagliero non si arrende. Essa stessa eco vivente di quell’epoca. Non si lamenta delle sue condizioni attuali, adattata immediatamente alla vita della nuova comunità, alimenta il pensiero utopico col ricordo inimitabile del passato, ma proiettata ancora nel futuro, avrebbe ancora disponibilità e necessità d’un ruolo attivo, d’un progetto da perseguire, che sia sempre per gli altri, per tutti. Ha vissuto anni cruciali per la storia di Trieste e per le donne, per la loro emancipazione. Trieste è stata sempre laica e gelosa della propria autonomia. Piccolo comune ebbe la rara audacia di scacciare gli inviati della Santa Inquisizione che volevano imporre regole e stili di vita alla città. Negli anni della fioritura del grande emporio marittimo, la laicità dei costumi quando si univa alla miseria delle classi subalterne vi diffondeva in modo impressionante la pratica dell’aborto e delle unioni precarie e illegali. Ciononostante anche nella laica Trieste del dopoguerra e pur fuori del perbenismo borghese, la mancanza del divorzio imponeva sempre delle difficoltà ad una donna separata con un nuovo compagno e con figli, dentro un partito che neppure al “Migliore” aveva perdonato l’illegittimità del sodalizio d’amore e di politica con la compagna della sua vita. Anni roventi in politica, di battaglie storiche, per la città di cui si decideva il destino e l’appartenenza alla civiltà occidentale, ma anche per la soddisfazione, almeno parziale, delle istanze utopiche e delle promesse del socialismo e della lotta partigiana, per il riscatto di quanti avevano maggiormente sofferto e combattuto durante il passato regime. Anni di divisioni, ma anche di ricostruzione sulle rovine e di speranza in un mondo più giusto. Maggior giustizia tra le classi e tra i sessi. Battaglie per le case popolari, per gli asili, per i sussidi alle donne sole, per migliori condizioni salariali, combattute anche da Iole con grande ostinazione dai ranghi del sindacato, e per trent’anni dai banchi del consiglio comunale. Lo sforzo che le costa raccontare mi rende ansiosa. Mi pare quasi di tormentare una persona anziana e malata. Il grave ictus che l’ha costretta 93


su una sedia a rotelle ancor oggi le impone miracoli di forza e volontà anche solo per articolare una frase. Le chiedo continuamente se è stanca, se vuole sospendere, cerco di aiutarla ad esprimere al meglio il senso di ciò che vuol dire. Sono anch’io ostinata, perché voglio capire. Lei non si sottrae, intuisce che cerco qualcosa, che vengo da un’altra era. Da un’altra umanità e che comunque sono in cammino, alla ricerca di un confronto, d’un significato che mi riguardi. Non mi fa domande, non si mostra sospettosa o guardinga. Sono io che biascico qualche inerte spiegazione del mio essere lì a interrogarla, che ambedue sappiamo nasce da un’esigenza che va oltre l’obiettivo di raccogliere una memoria per un libro di documentazione. Resta sempre misterioso ciò che gli altri comprendono di noi. Avverto che non dà per scontata una mia appartenenza ideologica, ma niente denuncia in lei quell’astuta dissimulazione che finge di sapere meno di quello che sa e che mi capita così frequentemente di incontrare. è schietta come può esserlo chi ha delle certezze, ma non catechista, non chiede alla sua interlocutrice certificati di buona condotta né convincimenti, abituata allo scontro con la diversità. Mi dico “deve essere stata un’avversaria politica temibile per quelli della parte opposta!”. Ne ricorda qualcuno con umana simpatia, altri con disprezzo. I nomi mi sorprendono: nella schiera dei primi ritrovo un uomo di potere come Manlio Cecovini per l’umanesimo della sua cultura e per la correttezza del suo stile, tra i secondi l’amatissimo sindaco dei tempi difficili, il sindaco patriota Gianni Bartoli, stigmatizzato per la sua ipocrisia. “Non voleva ammettere le cose per quelle che erano e fingeva per opportunismo”. Si capisce ancora che è una donna per la quale non esistono i grigi, totale nelle sue passioni politiche e, presumo, anche private. Non c’è niente in lei di quella mollezza, di quella affettazione compiacente e compromissoria che sembra spesso un tratto distintivo della sinistra borghese e intellettuale, in cui così spesso mi sono imbattuta negli anni della maturità. Ma neppure di quell’arroganza di considerarsi senza controparti degne, che sembra un altro segno distintivo di questa schiatta. Come tutti i veri combattenti non deve aver mai sottovalutato il nemico, misurando la natura umana dalla propria determinazione e ostinazione. Può abbracciare come un vecchio compagno di lotte un antico antagonista politico in visita all’I.T.I.S., senza però dimenticare di avergli quasi tirato addosso un portacenere nel corso di un concitato consiglio comunale. “Perché se lo meritava”. E’ il comandante Staffieri, ex sindaco negli anni ruggenti della Lista per Trieste, che ha chiesto espressamente di incontrarla. Un incontro rapido fatto di sorrisi, di strette di mano, di un abbraccio; ma un vero incontro in cui circola affettività e rispetto anche 94


tra rivali. Sono cose importanti. Bello anche assistervi. Una donna dura, difficile, mi aveva detto qualcuno, implicitamente sconsigliandomi questa visita. Sapevo che mi sarei trovata di fronte qualcosa di forte, non fino a che punto. Non rinnega niente. Neppure le foibe. La fede comunista la illumina come un sole. Gli occhi sorridono al solo sentire la parola, come quelli di un’innamorata. Ho visto una simile trasformazione solo rarissime volte per effetto di fede religiosa. Ecco Iole Burlo è questo. Una che crede attraverso l’amore, il suo sentimento profondo, immenso, che la porta a credere che è bene ciò di cui ci si innamora, che ci attira e che non può avere critica. L’idea e l’essere un tutt’uno. Oggi una caratteristica scomparsa. Un vuoto che la cosiddetta post-modernità giustifica con il trionfo del pensiero debole, l’alibi d’un paradosso, che mentre depotenzia il pensiero ne afferma il vanto. “Perché hai aderito al Partito Comunista?” Insisto. “Ah!” Ed è già la mimica del volto, nonostante l’affezione che l’ha colpita, a dire molto con il sorriso. La sua mano accarezza il mio avambraccio, quello sinistro, quello della parte del cuore. “Mi sono iscritta nel ’44 a Gorizia. Sì ero a Gorizia ed in segreto mi sono iscritta, ho aderito. Perché? Perché non si poteva parlare, se parlavi finivi in galera. Ho visto troppi, parenti, amici, finire in galera perché dicevano che non erano d’accordo.” Fa un gesto irato con il braccio, dimostrativo, a palesare l’impulso contro chi vieta la parola e il pensiero. Da confidente, quasi amorevole, il suo sguardo si è fatto di pietra, imperiosamente cattivo... quello della combattente contro chi ti impedisce di osare. Ma cosa sia stato per lei il comunismo non me lo sa definire, tanto è stato una cosa grande e bella come una luce, come un senso, una cosa dentro cui vivi, ma che non sai, un sentimento del mondo e delle cose, come la poesia, come l’amore. Il matrimonio con il secondo più giovane marito e la militanza politica sono state esperienze così indissolubilmente legate nella sua vita che non può parlare dell’una senza parlare dell’altra. Giuseppe Burlo operaio ai cantieri San Marco, divenuto poi dirigente sindacale F.I.O.M., non è stato solo il vero amore e il marito ideale, ma anche l’ideale compagno di lotta e di pensiero. Volendo chiarire la scelta del sindacato traccia un profilo del marito che sembra racchiudere in una serie di aggettivi cosa significa per lei essere un vero uomo e un comunista. “Lo contattarono perché era sincero, bravo, fedele, per bene.” Provo con Iole una commossa sintonia: sarebbero le parole che avrei scelto per definire mio marito! Solo oggi queste qualità non sembrano andar di moda in politica a nessun livello. “L’amore è la cosa più bella di questo mondo, ha cambiato anche me” ricorda. Gli inizi della loro vita insieme, nel 1948, furono una scelta dif95


ficile, non legittimata, in una sola stanza. Il primo consiglio comunale li vide insieme nei banchi del P.C. a combattere le stesse battaglie. Poi il cambiamento, la nuova casa vicino al Cantiere, due nuovi figli accanto a quello di primo letto. Non nasconde il suo orgoglio di madre, per aver tenuto sempre con sé anche quel primo figlio. Non si tratta dell’ostentazione delle donne della politica di oggi, che sembrano fare dei figli una componente di immagine e di curriculum per un completo successo. E’ un senso d’onore piuttosto quello che la anima, non aver mancato a dei doveri; ma anche il piacere della completezza e dell’armonia. Mi parla della casa, me ne descrive con entusiasmo il luogo e la vista sui cantieri. La casa come per ogni donna anche per lei è la proiezione di sé stessa e della sua vita: contenitore della felicità familiare e degli affetti, ma anche della passione e dell’azione politica, sezione di partito, centro d’incontro e di discussione, di pianificazione di programmi e strategie. Quando il marito si ammala gravemente vuole che i compagni vadano costantemente a trovarlo, a tenerlo informato, a continuare a tener vivo in quella casa il fuoco dell’impegno politico. “Ci siamo sempre aiutati, sempre.” A quei ricordi per un solo momento il suo sguardo luminoso si appanna per un eccesso di commozione, velato da una lacrima trattenuta a stento. Giuseppe Burlo deve essere stato anche lui un uomo notevole, un personaggio. Un uomo del popolo. Non fa come Iole la scuola di partito, s’ingegna invece di cambiarne il gergo politico per avvicinare il partito alla gente, per renderne comprensibile il senso, il suo essere dalla parte dei lavoratori, di chi soffre. Uno spirito indipendente Giuseppe Burlo, capace di vedere le storture del sistema sovietico, ma affettuoso e sensibile al punto da non raccontarle alla passionaria e intransigente Iole. “Quando nel ’55 andò in delegazione in Unione Sovietica, al ritorno non mi raccontò niente. Ed io ero così arrabbiata!”. Perché lo fece?” le chiedo piuttosto sorpresa. “Perché mi conosceva” mi risponde con un sorriso appena percettibile. Azzardo qualche ipotesi mentale sul senso di questa appartenenza politica così totale, che si rivela solo per cenni scarni di fatti, nella pregnanza d’un sostantivo, d’un verbo, d’un gesto che chiarisce l’assolutezza d’una azione, d’una scelta. Ma non gliela comunico perché sarebbe forzare un’intimità. Penso alla sua infanzia poverissima col padre lontano, emigrato a lavorare in qualche sperduta provincia africana dell’impero mussoliniano. Alla madre slovena, trapiantata in Sicilia in un piccolo centro insieme ai figli, affidata al buon cuore dei parenti del marito per la propria sopravvivenza. “Gente buona e benestante, che ci aiutava” ricorda. La Sicilia è il mito dell’infanzia, la terra calda e accogliente, la vita libera ed emozionante come 96


può esserlo per i bambini, quella delle strade di paese e della campagna. Una vita che tempra all’audacia e alla scoperta, che impone confronti e scontri anche fisici con i coetanei e ti forgia il carattere. Ne ho fatto personale esperienza. Penso ad un matrimonio sbagliato con un uomo più anziano e affettivamente lontano, all’alleanza femminile con la suocera, slovena come sua madre, abbandonata dal marito fascista, e di idee antifasciste; alle persecuzioni familiari, all’impegno di queste donne, riferimento e portaordini nella guerra partigiana; ai rischi, alla solitudine, con il marito e la suocera in prigione. Penso al clima d’oppressione che deve aver dominato in quegli anni la sua vita a casa e sul posto di lavoro, alle cooperative operaie, alle incomprensioni, alle delusioni familiari, al bisogno di compensazione che scava nei ricordi. Ed eccolo al fondo sempre vivo come una fiamma il calore dell’infanzia, piena, sfrenata. Gli anni siciliani sono la prima cosa di cui mi parla: l’esperienza primaria della libertà. Diceva Saba che l’emozione dell’infanzia ci conforma per la vita. Credo di avvicinarmi al nocciolo della questione. Questa libertà sconfinata e immaginosa forse è rimasta l’oggetto del desiderio di un’intera vita. Il ricongiungimento a questo stato di grazia originario l’obiettivo consciamente e inconsciamente perseguito. L’ideologia comunista acquisita nell’esperienza della resistenza e della scuola di partito diede razionalizzazione intelligibile a questa emozione e metodo d’azione per sostenerla nelle incertezze e negli smarrimenti quotidiani. Ma la forma rimase sempre indefinibilmente confusa con la sostanza alla quale si era conformata: comunismo come emozione di libertà. E’ la libertà la base del suo ragionamento sulla lotta partigiana. “Volevamo essere liberi poter esprimere le nostre opinioni, poter essere noi stessi”. L’odio per il fascismo non sembra mosso dal fondamento della giustizia distributiva. Non era l’invidia di classe la sua esperienza primaria di bambina. I parenti ricchi lei li ricorda con riconoscenza e affetto. Nel fascismo identificò la minaccia all’esistenza della propria anima, l’omologazione forzata della parola e del pensiero. E non fu proprio questo innanzitutto il senso della politica sciagurata del regime nelle terre di confine, con l’espropriazione della lingua materna per le popolazioni slave, con l’imposizione di diversi comportamenti e di una differente mentalità. La percezione di una minaccia così mortale non giustifica certo, ma rende umanamente comprensibile una risposta totale di morte. Se le foibe furono in molti casi regolamenti di una mal intesa giustizia, vendetta o calcolo o avidità, volontà criminale di liberarsi in fretta di oppositori politici e di impossessarsi dei beni di qualcuno, la consapevolezza della bassezza delle motivazioni rende chi le ha provate guardingo e attento, preferisce non parlarne 97


perché dovrebbe addentrarsi nella terra detestabile della vergogna e della colpa. Non a caso si è assistito a cinquant’anni di opportunismo politico e di negazione storica di quella tragedia. Mi viene in mente la tormentosa vicenda di un amico poeta sloveno che vive in un paesino del circondario e che ha visto i suoi parenti equamente sterminati dai fascisti e dai comunisti titini. Un dramma che gli ha segnato la vita. Non solo la violenza e la perdita, ma ancora più grave il peso della convivenza nel sospetto, in quello stesso paese, accanto a chi era al corrente dell’assassinio, magari responsabile, magari complice. La sua ostinazione ha ricercato a lungo, ha interrogato e tentato risposte che non gli sono mai state date; alla fine lo ha reso inviso alla gente e gli ha consegnato un destino solitario, isolato all’interno di una minoranza. “Quelli che finirono nelle foibe erano gran parte fascisti e se lo meritavano” mi dice con secca convinzione. La guardo, così vitale e imperiosa nonostante la malattia, e non ho niente da replicare. Misuro tutta l’insondabilità di un’altra anima. In questa donna mi sconvolge la coerenza dopo cinquant’anni nei comportamenti e l’assoluto di una passione senza dubbi. So che ci penserò a lungo e che forse sarà questo l’oggetto di un’ulteriore riflessione, magari per un altro libro, perché alla fine la motivazione che spinge all’incontro è sempre capire noi stessi.

RICORDO DI ONDINA PETEANI di Giovanni Demartis Ondina Peteani è nata il 26 aprile 1925 a Trieste, è più giovane del regime fascista che combatte, è nata in tempo di dittatura. Ma avere quindici anni non significa non poter essere utili; da tempo uno degli incarichi di Ondina è andarsene in treno a Padova e a Udine per portare tra gli operai copie dell’ “Unità” e dell’ “Avanti”. Nel 1942 lavora come operaia al cantiere di Monfalcone, sa usare il “tornio a revolver” una conoscenza che le tornerà utile ad Auschwitz. Nei suoi ricordi il ruolo dell’ambiente di lavoro è fondamentale per la crescita politica: “e così, da una parte i colleghi di lavoro e dall’altra un gruppo di studenti che frequentavo a Ronchi, attraverso chiacchierate e discussioni, cominciai ad interessarmi di problemi sociali e politici. Sia alcuni operai del cantiere, sia alcuni studenti, militavano già allora nelle file clandestine dell’antifascismo e quasi tutti erano comunisti ed io mi sentii 98


progressivamente attratta da questi compagni ed infine cominciai a capire quanto eravamo incasermati”. Si tratta ancora soltanto di suggestioni e di discorsi, la resistenza armata è ancora qualcosa di distante, di epico e di elettrizzante per l’adolescente Ondina. “Allora in queste terre (soprattutto sul Carso) vi erano già operanti alcuni gruppi partigiani sloveni e parecchi ragazzi di queste località si aggregarono a queste formazioni. I loro familiari dicevano di non saperne niente, che i loro ragazzi erano stati rapiti (ovviamente per cercar di evitare le rappresaglie fasciste nei loro confronti). Da parte nostra, eravamo entusiasti e dicevamo a chi ci raccontava queste cose di dar loro anche il nostro indirizzo per farci “rapire”. La realtà che circonda Ondina è un presente fatto di guerra continua. Sin dal maggio 1941 il Partito Comunista Italiano e l’Osvobodilna Fronta (il Fronte di Liberazione sloveno) collaborano nella lotta armata nella Slovenia occupata. L’invasione italo-tedesca della Jugoslavia ha prodotto un cambiamento profondo nei confini orientali italiani: la Slovenia è divenuta una nuova provincia e la vicina Croazia un regno satellite affidato al duca Aimone d’Aosta che ha slavizzato il suo nome in Tomislav. A cavallo tra il Friuli e la Slovenia combattono le formazioni partigiane slovene e vi si affiancano anche i comunisti italiani. Da questi scontri si parla anche nel cantiere di Monfalcone e Ondina sogna di essere rapita, di andarsene in montagna. Nel 1942 il Partito Comunista Italiano si pone l’obiettivo di creare delle unità nazionali che, almeno inizialmente, siano di concreto supporto alla ben più organizzata attività slovena. Le trattative tra i comunisti italiani e gli sloveni portarono alla creazione nel marzo 1943 del “Distaccamento Garibaldi”, una piccola unità nella quale sarebbero dovuti confluire tutti i combattenti italiani che si trovavano inquadrati nelle unità partigiane slovene. Si trattava del primo distaccamento partigiano italiano. (...) Il cerchio si stringe anche intorno ad Ondina. Il 2 luglio 1943 la polizia politica l’arresta. Viene portata al carcere femminile dei “Gesuiti” e interrogata. La sua posizione è delicata e qualcuno ha parlato facendo nomi e raccontando fatti. Il carcere ospita prigioniere politiche soprattutto slovene, si fa la fame. A salvare Ondina sono gli avvenimenti del settembre 1943. L’armistizio firmato l’8 settembre mette in subbuglio anche il Friuli Venezia Giulia. Il 9 settembre la folla libera i prigionieri dell’altro carcere triestino, quello del “Coroneo”, il giorno successivo vengono liberate anche le recluse dei “Gesuiti”. Ondina appena libera decide di unirsi ai partigiani. Ha poche scelte: è oramai conosciuta come attivista comunista e per i fascisti è una “evasa”. La situazione politica non è affatto chiara, l’unica certezza è che i tedeschi non rimarranno con le mani in mano. Rimanere a Trieste significherebbe per lei essere ripresa e questa volta dai nazisti. Va a Villa Montevecchio presso Ranziano. Molti operai dei cantieri di Monfalcone erano fuggiti e, tutti insieme, stavano cercando di organizzare una unità 99


di combattimento. Ondina a questo proposito scriveva: “Da parte del comando partigiano viene impartito l’ordine a Fontanot Vinicio (Petronio) di scendere a Ronchi per reclutare largamente fra i compagni del terreno. A Selz incontra Marega Ferdinando alla testa di un nutrito gruppo di operai del cantiere che si arruolano volontari tra i partigiani. Si forma così la prima brigata partigiana italiana che assume provvisoriamente il nome di Brigata Triestina, col compito di operare principalmente nella parte più avanzata del Carso, sopra Monfalcone fino a Gorizia”. Il 10 settembre per Ondina fu una giornata memorabile. Il Comitato d’Azione del cantiere di Monfalcone ha deciso: millecinquecento operai ancora con la tuta da lavoro si avviano verso Villa Montevecchio dove c’è un centro di smistamento incaricato di inquadrarli in una unità partigiana. Ondina è con loro. Lungo la strada la colonna attacca il presidio dell’aeroporto di Ronchi e mette in fuga un corpo di guardia tedesco che sorveglia il cavalcavia. Nella notte gli operai raggiungono Villa Montevecchio. Le notizie non sono buone: i tedeschi riavutisi dalla sorpresa iniziale si avvicinano e si parla di carri armati e d’artiglieria. In tutta fretta i nuovi arrivati vengono inquadrati in quella che provvisoriamente viene denominata “Brigata Proletaria”. Il compito che i partigiani si danno è di resistere su una linea che va da Merna a Valvocciano in modo da interrompere i rifornimenti via terra destinati ai tedeschi che combattono nei Balcani. Il 12 settembre i tedeschi avanzano. Non è chiaro in questo momento dove sia Ondina, probabilmente nel 3° Battaglione comandato da Vinicio Fontanot che difende Monte Sagrado. I tedeschi avanzano con l’appoggio dei mezzi corazzati. La “Divisione Proletaria” regge l’urto, distrugge un carro e tre blindati, ventisei nemici rimangono uccisi. Si combatte con ferocia, i tedeschi ricorrono all’aviazione che bombarda le posizioni della “Proletaria” e verso il 21 settembre attaccano nuovamente e in forze. Il 3° Battaglione viene travolto e fatto a pezzi, gli operai continuano a combattere sin quando rimangono munizioni. Quando i tedeschi completano lo sfondamento sul campo di battaglia rimangono i cadaveri di duecentocinquantasei operai di Monfalcone e di centonovantadue di Ronchi. Ondina scrive nel suo diario: “Solamente pochissimi riescono a rifugiarsi sulla parte più arretrata e a porsi in salvo”; tra questi la stessa Ondina che, persi i collegamenti con il gruppo, torna verso casa. Appena arrivata a casa Ondina si accorge di essere braccata. Un carabiniere viene a cercarla e per non essere arrestata è costretta a fuggire dalla finestra. A questo punto non rimane altro che passare alla clandestinità e combattere come si diceva allora “sul terreno”. Ciò significa appoggiare le pattuglie che dalla montagna scendono verso i centri abitati per compiere azioni militari e colpi di mano. Ondina è fra i quadri del “Battaglione 100


Triestino d’Assalto” addetta ai collegamenti. In un’azione notturna, come racconta Ondina, succede il peggio: “Dopo una settimana di permanenza lassù, decisi di scendere con la pattuglia per provvedermi di alcuni capi di vestiario invernali e incontrare un sostenitore con cui avevo appuntamento e che mi avrebbe portato medicinali e denaro raccolti, anche qualche arma. La notte dell’11 febbraio 1944, mentre tornavo al mio battaglione, venni catturata da un pattuglione di tedeschi in perlustrazione e venni portata al comando delle SS in piazza Oberdan a Trieste”. Ondina non era stata catturata insieme ad altri, cosa che l’avrebbe fatta immediatamente identificare come partigiana operativa; durante l’interrogatorio raccontò di essere stata arrestata mentre si recava dal fidanzato. Per venti giorni venne trattenuta nelle celle del Comando delle SS e poi trasferita al carcere “Coroneo” ai primi di marzo. Mentre era in carcere, le azioni della Resistenza continuavano in tutta la provincia di Trieste. I nazisti rispondevano con rastrellamenti e feroci rappresaglie. Il 27 marzo 1944 a Trieste vennero impiccati pubblicamente quattro partigiani del “Battaglione Triestino”: Sergio Cebroni, Giorgio De Rosa, Remigio Visini e Livio Stocchi. Il 3 aprile vennero impiccati settantadue ostaggi in rappresaglia ad un attentato compiuto dalla Resistenza a Opicina. Il 29 aprile, per rappresaglia rispetto all’uccisione di cinque tedeschi avvenuta in via Ghega a Trieste, i nazisti impiccarono altri cinquantasei partigiani. Tutte le vittime venivano prelevate dal carcere del “Coroneo” come ricorda nella sua testimonianza Ferruccio Derenzini: “Da giorni giacevamo in un tetro sotterraneo delle carceri del Coroneo a Trieste: la cella della morte”. Era la riserva di ostaggi a immediata disposizione del comando tedesco della piazza per le rappresaglie agli attentati e sabotaggi dei gruppi di azione partigiana. In quella cella, stipatissimi, eravamo circa in cento tra italiani e sloveni; rastrellati, quest’ultimi, nei paesi a nord di Trieste. C’era con loro anche un giovane prete che a suon di campane aveva dato il segnale della scorreria tedesca. Noi provenivamo dalle carceri di Fiume. Era l’aprile del 1944. Una notte le SS spalancarono la porta della cella e chiamarono uno dopo l’altro cinquanta compagni. Uno di questi che tardava a presentarsi, perché non aveva ancora calzato gli stivali, si sentì gridare in faccia: “Dove vai tu, gli stivali non ti servono.” Capimmo e ammutolimmo. Il prete si appartò in un angolo della cella per raccogliersi in preghiera. Li rivedemmo tutti cinquanta, assieme a cinque giovani donne, cinque partigiane, appesi con il filo di ferro alle ringhiere delle scale di un palazzo. Per un feroce eccesso di zelo il comandante della piazza aveva fatto trucidare anche le cinque partigiane come sovrapprezzo “alla regola” dei dieci per uno; sebbene i tedeschi uccisi da una bomba del G.A.P. - in via Ghega a Trieste - furono 101


cinque. Rivedemmo penzolanti quei compagni mentre le SS ci scortavano allo scalo ferroviario per deportarci a Dachau. Ondina era in gravissimo pericolo. L’11 maggio altri undici detenuti del carcere vennero impiccati dai nazisti. Alla prossima rappresaglia poteva essere il suo turno. “Alla fine di maggio ero nell’elenco di quelle che dovevano essere deportate. Non sembri strano se dico che ne fui contenta, ma durante la mia detenzione erano accaduti parecchi fatti preoccupanti: il peggiore era stato il prelievo di alcune detenute e la loro impiccagione per rappresaglia in via Ghega. Anche l’interprete mi sussurrò che lì stavano accadendo “brutte cose” e che era meglio così per me. Della famigerata Risiera ancora non si sapeva quasi niente, si diceva solo che era un centro di raccolta per la deportazione soprattutto di ebrei. Ma qualcuno sapeva già qualcosa, l’interprete per esempio: “Vada via contenta” - mi disse - “qui stanno accadendo davvero cose molto brutte.” Poi aggiunse: “Meglio via, lontano di qui che in Risiera.” Il 31 maggio 1944, all’alba partimmo dalla stazione di Trieste, non dal solito binario (la gente non doveva vedere queste cose!) ma sul binario dei silos da dove partivano i treni merci. Difatti, da quel momento tali eravamo considerati: stavano partendo circa duecento pezzi e pezzi ci calcolarono da quel momento, ma noi non lo sapevamo ancora, per cui credemmo di partire in 200 persone di cui 40 donne.”

Il triangolo rosso, “i Politici” Alessio Iurman Amava l’eleganza, nel vestire e nel parlare, e, nel parlare, poteva permettersela con maggiore frequenza: questione di costi. Bel ragazzo, atleta, bersagliere a vent’anni, navigato pur venendo dalla campagna, o forse proprio per questo. E molto, molto amato. Raccontava di uno strano mondo antico e pericoloso, dove i padrini donavano, nel giorno solenne della Cresima, un pugnale ed un orecchino; i meno poveri, una rivoltella. Il fratello prediletto, invece, forniva i soldi per il battesimo del casino, nel lusso della grande città, a Trieste; unica condizione: al ritorno, raccontare tutto, la sera, nell’ombra danzante dei lumi a petrolio, vero e autentico effetto speciale, quando il cinema era ancora muto e raro. Raccontava di uomini grandi e grossi, con grandi e grossi principi, grandi e grossi animali domestici finché conveniva, di vite spalancate all’aperto, di frotte di bambini grandi e grossi anche loro, folle di fratelli, sorelle, zii, zie, cognati, vacche, gendarmi, galline, zappe e badili... ed uno zio arruolato nella marina imperiale, imbarcato, rotta sul Giappone, andata e ritorno. 102


In tutto diciassette anni, e in famiglia nessuno lo ricordava. Raccontava la Grande Guerra, vista dal basso dei suoi dieci anni, la Storia narrata dai parenti tornati dal fronte russo, a combattere per l’Impero, dell’Ottobre del diciassette, il sangue e la speranza, il futuro che irrompe a cavallo, in punta di sciabola…E la Grande Fame, una volta al giorno marmellata e polenta, dopo il lavoro nei campi, per mesi. Un mondo ben strano, piccolo come il cortile di casa e vasto come la fantasia. Poi lo strappo, la furia: andare via di qua, basta col padre padrone orco lussurioso, via, a Trieste, al futuro. Quindici anni, grande abbastanza. Istria, alle spalle, c’è tutto il mondo là fuori. Dopo di lui, a Trieste, uno alla volta, anche gli altri fratelli e sorelle, erano undici, all’inizio. Cravatte, cappelli Borsalino, occhiolini di ragazze impudiche, di notte al lavoro, guardia notturna, tra lampioni e orge di avvinazzati nelle bettole con le serrande a metà come braghe calat... come “La Sedia Elettrica”..., nomi veri di vere bettole. E, intanto, osservare, migliorare il linguaggio, capire le tre lingue e le tre anime di questa terra, volendo giustizia e pace, una società più onesta e istruita senza povertà e fame. E mai più guerra. Sempre che non vinca il fascismo... Antifascista, bersagliere, atleta e graduato, tiratore scelto, meccanico e mitragliere, beniamino del capitano... bello, sotto la falda obliqua dello strano cappello piumato… pugni e spari dei tempi, finiti anche quelli. E, dopo, di nuovo al lavoro, potendo scegliere i propri vestiti e, anche, amoreggiare con la figlia del marito della padrona… Un bel ragazzone. Non era ancora mio padre. Ragazza nata nella Capitale, cresciuta nel lusso, la Agnese, piccola, sottile e forte, un fiorellino d’acciaio, voleva quell’uomo, quello straniero spavaldo, e se lo prese, prese l’amore e buttò il lusso, se lo portò via, a Milano; sedotto e ammanettato, bèn gli stava, il malandrino, intrappolato dalla finta paura del temporale. Non scoprì mai il trucco, rimase per sempre un segreto tra me e l’Agnese dal sorriso furbesco, il suo Grande Amore, mia madre... E, a Milano, la vita, la Fabbrica, le Officine Bianchi, a calibrare i cambi delle auto neonate, e di nascosto passare ai colleghi i fogli ciclostilati... il Partito, la Cellula, Gramsci, se ti beccano, come minimo, il confino. Ma la guerra maledetta lo insegue, e li coglie a Milano, gli bombarda la fabbrica che gli dà il pane ed il latte per il piccolo Edi che ride e sgambetta sul cavallino a dondolo, e gli toglie il blasone, “operaio specialista”! ... e allora via di nuovo a Trieste, “lì non ci vanno, i bombardieri, e poi “ci sono i fratelli e sorelle a darci una mano”... E qui, nella Adriatiche Kunsterland, tra gli elmetti di ghisa e gli stivaloni degli orchi venuti dal nord, qui divenne mio padre. Ma quando può andare male, va peggio: e quindi ci fu l’arresto: chissà, forse una delazione, a volte basta un nome e ti salvi la pelle. Poi la tortura, la cella in piazza Oberdan, a guardare attraverso la grata le 103


donne della famiglia che cercano te. Non possono entrare, ma loro, almeno, son salve per ora. Comunque, acqua in bocca, resistere, non l’avranno vinta loro. Anzi, hanno già perso... Ma spadroneggiano ancora, ed i vagoni piombati corrono ancora ululando, pieni di carne umana, e inghiottono anche la sua, per sputarla lassù, sotto un cielo di piombo, tra siepi di ferro spinoso, in un manicomio al rovescio, la pazzia che comanda la vita e la morte. Si trovò a Buchenwald. C’è un’altra fabbrica, laggiù, ma senza blasoni, senza pane, solo brodaglia e bastone e paura. Trentacinque anni, trentacinque chili per un metro e ottanta, raccontava. E tanti compagni di tante nazioni, e, non sorprenda, anche in buona parte tedeschi. Tutti con il triangolo rosso, “i Politici”: nel campo, una élite, hanno vinto, il drago è morente, ritorneremo a raccontare la Storia vissuta, la Storia che noi siamo. è l’alba, l’incubo sta per finire, e finisce, siamo vivi, siamo salvi: tocca a noi, adesso. Ora, il lungo ritorno, passando per Nizza, una lunga e bella vacanza per i pochi sopravvissuti, gli eroi, i compagni. Poi finalmente a casa, da Agnese e i bambini, grazie a Dio stanno bene, - anch’io il più piccolo -, così gracile e malaticcio, però ce l’ha fatta, adesso sta bene, siamo tutti sopravvissuti. Adesso, altre storie da raccontare, orrori e grandezze, storie di grandi e grossi uomini e donne con grandi e grossi ideali... Storia e tempi di uomini come Eugenio, inermi guerrieri costruttori di una pace che noi, avidi eredi, non sappiamo ancora godere. Diceva che nessuno, tra coloro che erano tornati dai campi nazisti, era stato capace di descrivere pienamente quella realtà, e a me rimane il riflesso degli incubi che, da bambino, mi facevano svegliare, tremando, in piena notte. Oddìo i Tedeschi, i Forni, l’Orco, il Sapone, gli Assassini che ridono, i Bambini ammazzati... Papà, dicevo, ma i tedeschi sono mostri inumani... No, rispondeva, molti uomini lo sono, anche senza essere tedeschi, e molti tedeschi non lo sono affatto, cerca di non essere superficiale e usa la testa. E poi litigavamo come bufali per qualche altra insulsa scemenza... Raccontava che alla partenza per la Germania, alla stazione, la sorveglianza non era accurata, e che lui avrebbe potuto scappare, ma non lo fece per timore di rappresaglie su noi famigliari. Io, quindicenne cinico e diffidente, pensai che avesse leggermente migliorato il quadro, razionalizzando forse un’occasione perduta per titubanza; tuttavia, crescendo, mi resi conto del valore profondo di quella scelta, reale o immaginaria che fosse; si trattò forse anche soltanto di un’occasione perduta, ma da quel momento in poi sarebbe stata una scelta pienamente cosciente. Rimasti poi a Trieste, seguirono i faticosi anni del dopoguerra, i lavori saltuari, la gestione dei bar interni a circoli ENAL, poi divenuti circoli Arci, poi il lavoro al porto, come scaricatore, in regime occasionale, infine la sorveglianza notturna alla sede di via Capitolina del PCI, per arrotondare la magra pensione; alcuni giovani ora vecchi, se ne ricordano ancora. Una normale vita di fatica e penuria, 104


insomma, vissuta tuttavia sempre a testa alta e il sorriso aperto e pronto. Ora, cercando di andare un po’ oltre questa rappresentazione vagamente monumentale, per ritornare ad una dimensione più umana e meno epica, ricordo, anche se con molta fatica e altrettanta tenerezza, i tentativi di mio padre, quando avevo verso i cinque anni, di cantarmi una strana ninna nanna, in un esotico idioma. Si trattava di una nènia di origini ataviche, che ripeteva monotonamente lo stesso verso: “cingila-aite, cingulàite le bambinùte, cingulà- aite”. Questa nènia alquanto ossessiva, cantata in effetti con scarsa perizia e voce stranamente esitante, per il carattere e lo stile di mio padre, non aveva su di me l’effetto soporifero sperato, forse anche a causa del ridacchiare soffocato della Agnese, che sempre accompagnava queste esibizioni canore. Più tardi capii che lo strano idioma era Friulano, ereditato da Lucia, mia nonna paterna, di cognome Coccolo, famiglia di antiche origini friulane, appunto, e che dell’antico linguaggio aveva conservato esclusivamente quell’irrilevante frammento; per il resto, parlava quasi esclusivamente un dialetto istro-croato, parlato nel paese di Torre, nei pressi di Parendo, dove nacque. Ad ogni modo, considero interessante questo miscuglio linguistico, che rappresentava in un’unica famiglia un piccolo melting-pot idiomatico e culturale, e mi rendeva alquanto refrattario alle chiusure nazionalistiche piuttosto comuni nella nostra città. Raramente sentii cantare mio padre, arte nella quale peraltro poco eccelleva... di queste esibizioni ricordo una “marinaresca”, in coro però con altri parenti di lui più dotati, e, un po’ più frequentemente, qualche strofa della popolare “La pastorella e il cacciatore” e “Varda la luna”. Credo che con questo si esaurisse, senza rimpianti per nessuno, il suo repertorio canoro. Resta, a largo compenso, per chi lo conobbe, il ricordo dell’uomo, del compagno, del marito, del padre che seppe essere, nel corso di tutta la sua non breve vita.

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RICORDO DI due artisti triestini di Liliana Passagnoli Marcello Fraulini. “Nessuno si accorgeva di niente/ ch’io ero lì, in piedi,/ in compagnia dell’angelo/...” pochi versi che a leggerli donano la capacità di approdare in un pianeta lontano, “Dove agli uomini, specie se poeti,/ non è proibito/ di parlare con gli angeli,/ almeno per pochi minuti.” Così scrive Marcello Fraulini nella lirica “Epifania dell’angelo rosso” (dalla silloge con lo stesso titolo), con poetica naturalezza come se fatti del genere potessero davvero accadere. Certo questa è un’eventualità che affascina persuadendo ad una riflessione che conduce in un ambito per noi inusuale, rendendoci partecipi di un sentire che affonda le sue radici nell’ineffabile. Ah! magia della poesia autentica, perfetto tramite tra la sofferenza dell’umano e il conforto del divino, incontro con il sé spirituale che tutto spiega in un bagliore accecante di verità. Che la poesia, quella autentica, sia un tramite alla verità è accertato, anche Umberto Saba lo afferma quando dice: “La poesia è lontana dalla letteratura come la verità dalla menzogna”. Ciò è percepibile pure dall’anonimo lettore, perché sono sufficienti pochi versi autentici come questi a renderlo partecipe di quell’anelito d’ascesa che è la prerogativa della poesia di Marcello Fraulini. La lirica “Epifania dell’angelo rosso” è una lirica speciale che avendola sotto mano mi sollecita la domanda - se mai potesse essa sola contenere tutto intero il DNA del suo autore - che pure ha compiuto un lungo percorso umano e di poesia. Ebbene, sono portata a rispondere di sì perché essa rappresenta l’apice di tutto quel lungo, sofferto e meditato percorso poetico in una completezza alla quale nulla può venire tolto od aggiunto. Ma chi era Marcello Fraulini? Domanda certamente superflua per tutti gli scrittori ed artisti triestini ma pure per il vasto pubblico di amatori dell’arte che gravitavano attorno alla S.A.L. (Società Artistico Letteraria), da lui fondata nei difficili anni del secondo dopoguerra quando era necessario fondare un’aggregazione artistica “super partes” che potesse accogliere le tante anime di una Trieste, divisa e disorientata. L’arte come libertà dai tanti pregiudizi e pure odii che la seconda guerra mondiale aveva seminato nei cuori della gente che per troppo tempo era stata costretta a respirare l’aria dei lager, dei rifugi, delle gallerie, dei bunker. Ma non solo, perché la S.A.L. ha rappresentato “... uno di quei fenomeni che contribuiscono a sostanziare la “triestinità” - come scrive Manlio Cecovini nel suo saggio “Escursioni in Elicona” per far affiorare quel filone distinto e particolare nel campo nazionale delle lettere, i cui più noti rappresentanti sono Italo Svevo per la prosa ed Umberto Saba per la poesia, ma che va pure a comprendere le tante voci letterarie, sconosciute ai più, di una triestinità colta ma sofferta ed isolata. 106


Marcello Fraulini, mecenate generoso, è stato non solo poeta ma pure romanziere, critico letterario, commediografo, autore delle famose “cantuzade triestine”, promotore della pubblicazione dei famosi Quaderni degli scrittori giuliani, prezioso punto di riferimento per coloro che volessero documentarsi sulla letteratura giuliana, con qualche riferimento a quella friulana: Questo perché i Quaderni comprendono tutti, proprio tutti gli autori locali. Difficile parlare della sua vasta opera ma è attraverso la poesia che egli esprime meglio e più direttamente la sua intrinseca natura. Infatti in essa emergono tematiche esistenziali come il dolore, il senso del divino, l’amore, il conforto della natura, la morte, la guerra, la nostalgia, la speranza malgrado le visioni apocalittiche di un difficile futuro per l’umanità, ed ancora la solitudine dell’uomo e del poeta, gli affetti familiari. In una sola accezione, egli è il poeta del senso della vita. “Il mondo poetico frauliniano appare sin dagli inizi volto verso una ricerca del senso della vita – scrive infatti Giorgio Baroni nel suo saggio “Umberto Saba e dintorni”- di un collegamento tra finito ed infinito. L’avevo conosciuto, apprezzato e, permettetemi di dirlo pure amato, negli incontri settimanali presso il Caffè Tommaseo quando egli sedeva in mezzo a noi, allora giovani poetesse, con l’aggiunta di qualche poeta maschio, e parlandoci del più e del meno, serenamente per libero fluire della coscienza, lasciava trapelare di tanto in tanto utili indicazioni per fare poesia: “... il verso deve essere icastico, ossia ritrarre la realtà attraverso immagini, ed ancora, scrivere quando la bufera dei sentimenti si è placata, rievocando stati d’animo già sedimentati… concepire la poesia come valore in sé, mai strumentalizzarla per un qualsivoglia scopo.” L’arte per l’arte, insomma, era il credo di Marcello Fraulini, ma un’arte capace di recare conforto. “Dare conforto e riceverlo in un mondo col quale già allora sembrava essere sempre più difficile misurarsi. “Tu ci porti conforto” mi disse un giorno, stringendomi affettuosamente la mano. No, caro Marcello, tu, e non io, sei stato capace di dare tanto conforto a me e a tutti, credo proprio a tutti quelli che hanno avuto il privilegio di conoscerti, conforto e speranza, malgrado tutto. “Questo sentirsi vivere/ è una pena indicibile/ che ci morde dentro/ è come se mancasse l’aria/... L’unica gioia è vivere/ senza sapere di esistere, è fare/ tutto, esaurirsi nello sforzo/... E dire che sul mio poggiolo/ tra case altissime e l’asfalto,/ è sbocciato questa mattina,/ malgrado tutta l’infelicità/ un geranio rosso di sangue ” (“Questo sentirsi vivere”). Tu eri così, mio maestro, non solo quando scrivevi. La tua natura conosceva solo il bene, non c’erano nel tuo animo tracce di odio o di cattiveria, il male ti si presentava solamente come dolore. Eppure c’erano momenti nella tua poesia colmi di “morbin”, come nelle “Cantuzade triestine”, piacevolmente sorridente. , perché la vita si presenta in tante differenti sfaccettature e tu eri il cantore della vita. 107


Ultimamente, il figlio Enrico Fraulini, noto romanziere, ha regalato alla Biblioteca Statale di Largo Papa Giovanni XXIII la cosiddetta Fondazione Fraulini, comprendente oltre mille libri di opere presentate o pubblicate nella famosa collana del Timavo, altra iniziativa della S.A.L., e insieme a questa una fotografia di Marcello Fraulini, scattata da Tullio Stravisi, che ora fa bella mostra di sé in una delle grandi stanze della biblioteca e che col suo sorriso sincero sembra ancora ricordarci che forse la salvezza del nostro vivere sta nella poesia. Ennio Emili. Solo un flash sul suo pensiero è possibile, in pochissimo spazio, sul suo vasto, esplosivo modo di sentire e di ragionare. Ma sento doveroso farlo per l’amicizia che mi legava a lui, in un lasso di tempo che comprende il giorno in cui ci ha lasciati nel 1993. Era un freddo inverno quell’anno, il calendario segnava il 5 di febbraio. Come dicevo, il suo pensiero era così ampio da comprendere bene e male, umano e divino, così esplosivo da rimanerne folgorati. Le sue opere comprendono poesia, narrativa, saggistica, teatro, giornalismo, ma pure pittura, mentre una buona parte dei suoi scritti è rimasta inedita. Per chi volesse documentarsi in merito posso consigliare “L’itinerario di un maudit verso la luce” di Giorgio Baroni ed ancora “Umberto Saba e dintorni” pure di Giorgio Baroni. Inoltre in una delle sue ultime opere pubblicate “Dulcissima”, dove in ultima pagina si trova un elenco pressoché completo delle sue opere. Ma lasciamo parlare Ennio, nessuno più di lui potrà narrarci meglio del suo fantasmagorico mondo interiore. “... ero un bambino misterioso e strano/ poco terreno credo – ricordavo l’Eden perduto e un Regno sovrumano - ...” (Pioggia infantile). “I poeti scrivono perché hanno nostalgia del paradiso terrestre” dice Piero Bargellini, e forse come non mai questa affermazione calza perfettamente. Ma poi nel corso del vissuto, per il nostro Ennio Emili le cose cambiarono: “... venne la vita - scrive - e si chiamò Dolore” (Delusione). Ma tra questi due momenti essenziali della sua vicenda umana egli ha modo di scrutare in profondità nelle pieghe del comune modo di vivere, cogliendo dolorose discrepanze, inaccettabili costrizioni, azioni avvallate dal comune senso morale ma lontane anni luce dallo stato di grazia di cui Ennio godeva quand’era fanciullo, nulla che avesse a che fare con “ l’Eden perduto”. E questo avviene mentre l’umanità incattivita e sciocca non sa dove è venuta a trovarsi. “Tutti hanno paura dell’inferno/ e non sanno che l’inferno/ è qui sulla terra - ...” (La prigione) - scrive ancora Ennio - Con una mira infallibile egli mette a fuoco problematiche forti che lo inducono a definire “mostruosa” la vita. Leggiamo: “Tremo se penso ai torturatori/ ai sadici al riparo della legge/... a certi cacciatori/... al povero soldato/ sotto ogni cielo costretto ad uccidere/...” Ma Ennio addita pure la modalità per uscire da tanto inferno: “... non ci sarà mai più la gerarchia/ quando saprà autogestirsi l’uomo/ utopistica per ora 108


è l’anarchia/ eppure a quella deve tender l’uomo” (Responsabilità). Solo un’umanità responsabile, conscia di se stessa e del mondo che la circonda, capace di autogestirsi, autodeterminarsi potrà non rappresentare – metaforicamente parlando, ma poi non così tanto - un tumore maligno per il nostro pianeta. I versi di Ennio mi danno l’occasione di riproporre il mio stesso pensiero. Mi sembrano idee così logiche, scontate quasi inutili a dirsi eppure, purtroppo ancora così lontane dal comune senso della vita di troppi. Seppure breve, c’è stato anche per Ennio Emili, il tempo dell’amore. Anche in questo ambito, lui paladino della verità, autentico ad ogni costo, ci regala la visione di un congiungimento carnale puro, guidato dai sentimenti. “... stupefacente favolosa attesa/...poi udivo i suoi passi sulle scale/..o momenti più belli della vita!/... nuda ridente ed agile balzava/ sul letto – e in voluttà rabbrividiva”(Viva). Ci si trova di fronte ad un amore che prende vita dalle profondità dell’anima, tanto da essere capace di - esorcizzare lugubri pensieri - ed addirittura - tenere distante la Morte. - (Ricordo). Ma ecco apparire anche nei momenti migliori l’idea della morte, fantasma da lui vagheggiato tutta la vita: egli, romantico “maudit” in versione moderna, anzi dotato delle caratteristiche ineluttabili di quell’essere nel mondo – progetto gettato - come dice Heidegger - per la vita e per la morte -. Ennio Emili ha rappresentato il simbolo dell’umano in tutte le sue peculiarità più profonde ed autentiche. Lo conobbi in occasione di un’intervista che gli feci per un giornale per il quale scrivevo. Si presentò in tutta la sua realtà di uomo e di poeta, senza maschere: Normale, no? Affatto. Lui mi parlò di sé, rivelandomi pieghe sconosciute della sua anima. C’era in casa, in via Denza, la deliziosa “Pucci”: è la gatta di mia moglie - disse - Non sono animalista. - aggiunse ancora - ma sono “semplicemente” contro ogni tipo di violenza. - E mi porse la fotocopia di un suo articolo nel quale dibatteva punto per punto la pratica della vivisezione. “ Dal puzzo fetido di un lager di vivisezione non uscirà la cura del cancro...Tutte le grandi scoperte scientifiche si devono ad intuizioni” - vi si leggeva, tra l’altro. Infatti a tutt’oggi il cancro non è ancora stato debellato, se la pratica della vivisezione sugli animali avesse rappresentato la via giusta per debellare questa malattia, oggi del cancro non si avrebbe più memoria. Quando si scrive di Ennio, ci si rende conto di non essere mai abbastanza esaustivi: troppe sono le cose che si avrebbero da dire. Ma se vogliamo dare di lui una sintesi, possiamo farlo leggendo le sue stesse parole: “... ho amato follemente Iddio la carne/ il misticismo il vizio e l’infinita Morte - ...” (Il sorriso). Sicuramente senza il conforto di un tale pensiero, tutti noi ci sentiamo sbaragliati di fronte agli enormi problemi esistenziali.

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perdere LA MEMORIA è perdere IL FUTURO di Graziella V. O. Rota

Appunti a pennarello - 1° Sciopero di categoria a Trieste nel 1963, organizzato dalla FILCAMS- CGIL con Livio Saranz. Firmato il 1° contratto l’anno seguente. (Archivio sindacale)

La giustizia, il sindacato e la ricerca d’identità, è ancora possibile 45 anni dopo? “La Ballata dello sciopero” Iera dicembre del ‘63 pien de iazo per la strada tute andava a scioperar per avere un contratto decente. Iera mule che lavorava per poche lire la settimana nove diese ore al giorno el straordinario mai pagà. L’apprendistato no’l te serviva no se imparava gnente sei, sete anni butadi via. “El mestier se ruba co’ i oci” diseva i paroni e i ghe dava mile lire la setimana e le fazeva sei sete anni de apprendistato tuti anni butadi via no se impara gnente. “Tien duro” a casa i diseva “te impari un mestier” ma devo rubarlo e no me par giusto per sfruttar le altre che a mi me lo ruberà! El vomito co’ te incominci per via dell’acido tiogligolico za missiado con l’ammoniaca, se te resisti un anno dopo te ga l’eczema su le man.

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Po’ te impari le tinture co’ la parafenilendiammina tuti veleni che te intossica ogni giorno de più. Dopo ‘l vomito xe l’annessite che l’ star in pie te fa vignir, po’ l’alergia che fa la lacca co’ te respiri nel spray te diol i reni la schena le gambe sgionfe te fa sentar “Za che te son sentada” el disi “fa anche quel manicure” prima o dopo te devi imparar. E le mule tute insieme organizzade tute insieme in sindacato ‘ndemo a scioperar E se i paroni i vol far veder pianzotando che i xe morti de fame co’ le case in condominio che ghe le paghemo noi. E feghe un buso feghelo fondo che noi torni più in sto mondo ... ... ... Mi rallegrà che noi torni più in s’to mondo mi rallegrà’llegra mi!


Ballata “Prova e riprova”

”Omaggio a Cerne” carboncino e acquarello - 1970

(Non ho l’arma che uccide il leone... di G. Dell’Acqua - Editoriale Libraria Trieste)

Raccolsi in fretta la mia poca vita ci misi dentro tutto il mio impegno e la paura che frenava sempre quella paura secoli di storia. Prendere forza in un bicchiere di vino gridare quei diritti da incassare ma le ore che contano qualcosa son poche per segnar un buon passaggio. Alzarsi in fretta andare a lavorare trovare una faccia padrona per un lavoro che ti fa star male. La nausea sorride a lacca spray. Gridare al nulla che è al tuo fianco gridare con quel fiato che ti resta e permette solo di morire. Raccolsi in fretta tutto il mio ingegno ci misi dentro tutta la paura e ogni giorno a riprovare a voler cambiare la mia poca vita.

C’era una volta la città dei matti In via San Cilino a San Giovanni Voi triestini conoscete i fatti E tutte le storie con i loro affanni... Così cominciò il cantastorie del Teatro Vagante di Giuliano Scabia, con la grancassa le canzoni, la storia, gli infermieri, i medici dietro il carretto di burattini, storie, canzoni, pannelli fotografici, biscotti da offrire ai cittadini. Il giorno è 13 settembre 1977, si gira a Roiano, Gretta, Barcola, con alcuni di noi Giorni Cantati, il medico cantastorie Beppe Dell’Acqua si canta “La ballata per l’apertura del manicomio di Trieste” ed è un documento molto preciso, sono stati 10 giorni di lavoro e di uscite immaginate e poi realizzate tutti assieme, soprattutto dagli infermieri che ricordo ancora, Eliana Perini, Renato Candotto e tanti altri a cantare il ritornello: ...Con questo cielo sora ‘sto mar te vol la zente dentro serar? no ‘sta bazilar... no ‘sta bazilar...

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La gestione diretta della conoscenza significa, in ultima analisi anche “di sé stessi”, per uscire dal caos, per consolidare la nostra coscienza, oggi, nel fiume della nostra ricerca sulla tradizione e della nostra storia. I materiali che presentiamo nel libro non sono certo delle conclusioni definitive, ma permettono di fissare punti. In primo luogo, il fatto che esiste nella città un’espressione urbana, che sfata il mito di una cultura popolare legata al folklore contadino. Le forme espressive urbane sono ibride, difficili, qualche volta sgradevoli, ma anche meno facilmente mercificabili perché sono le forme in cui si esprime l’umano storico, non riducibili ad alcun nostalgico modello di “folklorico”. E d’altra parte la creatività musicale urbana sa nascondersi altrove: come ha mostrato Giovanna Marini, gli embrioni di un nuovo linguaggio musicale di opposizione civile possono trovarsi, più che nei canti, nel parlato popolare. Né va trascurata la dimensione di comunicazione di vero teatro di strada, che assumono sia i cortei e le manifestazioni organizzate, che momenti di confronto come quello qui documentato in cui l’espressione spontanea collettiva si trasforma in vero team gridato, scandito, dialogato, sceneggiato. In secondo luogo, c’è la conferma che il rapporto con la città impone di andare oltre le forme espressive. Superare i confini dell’espressività significa accostarsi alla cultura orale senza cercare conferme di scelte precostituite; non privilegiare gli aspetti che gratificano le nostre attrattive formali, ma conoscere contraddizioni, arretratezze, aspetti concertanti e subalterni della realtà popolare, scavalcando una polarizzazione tutta ideologica tra “folklore progressivo” e “folklore regressivo”. Già nel 1951 Cirese avvertiva che non è possibile “un superamento dell’arcaico che si basi sull’ignoranza dell’arcaico stesso”; allo stesso modo, non è possibile superare senza conoscerle le divisioni, le contraddizioni, i compromessi, i cedimenti della cultura popolare urbana. Conoscere e approfondire questi aspetti non significa dunque assumerli come positivi in quanto popolari; ma capire attraverso quali difficoltà e ostacoli nascono i momenti più avanzati, i livelli più alti e al tempo stesso chiedersi fino a che punto un livello non scaturisca dall’altro o non ne sia condizionato, e fino a che punto non possano verificarsi inattesi scambi e rovesciamenti. Anche per questo la ricerca delle fonti orali della storia di classe ha assunto, per noi Giorni Cantati, nel disco Trieste contro, un’importanza centrale. Partendo dal carattere specifico di oralità di queste fonti - A. Catalan -, abbiamo cercato di individuare come la soggettività della storia si esprima negli elementi fondamentali del discorso, nelle scelte tra lingua e dialetto, nella rottura delle barriere tra fatti individuali e collettivi. Un documento esce così dalla “neutralità”, e permette di ritrovare anche nella comunicazione storica l’uso dell’immaginazione, la creazione di 112


simboli e di miti che scoprono “il personale” e “l’inconscio di classe”, restituendo alla storia e alla politica l’insostituibile elemento della soggettività urbana. Sono gli stessi del rapporto tra personale e politico posti con forza anche dal movimento femmmista e dal movimento del 1977, che danno altre prospettive alla ricerca. Dal libro emerge dunque, un’immagine del nostro approccio a essa; più che un’analisi della proposta di un metodo di lavoro. Questo vale sia per le lacune che si trovano, per esempio, la difficoltà nel lavorare sulla fabbrica per i caratteristici particolari sia del Friuli Venezia Giulia, sia per la nostra carenza teorica e di intervento. Ne è derivata finora un’attenzione prevalente al rapporto tra condizione urbana, che approfondisce soprattutto i momenti di transizione, gli intrecci con avvenimenti del suo retroterra, i processi d’immmigrazione, le trasformazioni culturali, l’emarginazione, dove la ricerca incontra non solo le conquiste e le sicurezze, ma le sue sconfitte, le debolezze e le divisioni della cultura attuale. Graziella Valeria Oblak Rota Studio: Via V. Alfieri 15 - 34100 Trieste (IT) Telefono 338 9816181 - E-mail: studiograz@yahoo.it

Nata a Trieste. Nella musica ha raccolto e interpretato il lavoro di ricerca delle tradizioni orali fin dal 1965 e sui canti e le parlate della nostra regione il F.V.G. e territori contermini; programmi per la RAI nazionale e regionale. Ha realizzato pubblicazioni discografiche con la Cetra, RCA e per il Centro Promozione. Ha partecipato e realizzato la colonna sonora del film “Ernesto” di U. Saba con la regia di Salvatore Samperi e premiata alla rassegna nazionale “Italia bella mostrati gentile”, con il “Teatro Vagante” di G. Scabia ed il video “El Primo de magio” per Telecapodistria con immagini della Risiera di S. Sabba e Servola (TS). Ha guidato e curato la direzione artistica d’alcuni ensemble “I Giorni Cantati”, “I Conzalastre”, “I Canterigoli”. Animatrice sociale e musicale per il progetto d’inserimento abitativo, per l’utenza dell’ex alloggio popolare ITIS - G. Gozzi a Trieste. Ha promosso corsi di alfabetizzazione musicale con l’insegnamento della chitarra e canto popolare in associazioni e dopolavoro cittadini dal 1975 ad oggi. Attualmente agisce nella produzione d’arte multidisciplinare, del gruppo di cui fa parte “ArteViva”.

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DISCOGRAF “Vose de Trieste austriaca” (27 canzoni popolari triestine incise agli inizi del secolo) - Pioneer records I Trieste 1973 “Italia: le stagioni degli anni ‘70” (2 dischi L.P.) I Dischi del Sole - Milano 1971 “Trieste contro” n. 54 collana folk “Canzoniere popolare Giorni Cantati” - Fonit/Cetra LPP336 -Milano 1977. Produzione: “Musicoop” - Trieste “Da Trieste” Graziella V. Rota e Giorni Cantati L.P. - R.C.A. NL 31411 - Roma 1978. Produzione: “Musicoop” -Trieste “Canzoni di rena vecia” Toni e Guerrina Pastrovicchio, Pioneer Records - Trieste 1978 “La Val Resia” Canti, danze e favole a cura di Arturo Longhino - folklore Resia - L.P. 3MTCF1975 Udine/Val Resia “Canti e danze della Val Resia” - Folklore Resia - L.P. 2MT-R -1973 Udine/Val Resia “Folklore musicale italiano” Registrazioni originali di Alan Lomax e Diego Carpitella - Volume I L.P. Pull QLP 107-1973 Roma “Italia Vol. I: I balli, gli strumenti, i canti religiosi” - 1970 “Italia Vol. 3: Il canto lirico e satirico, la polivocalità” - 1971 Antologie a cura di Roberto Leydi - Vedette Records Albatros - Milano

BILOGRAF Pavle Merkù “Le tradizioni popolari degli Sloveni in Italia” E.S.T. - Trieste 1976 Società Filologica Friulana “Villotte e canti popolari del Friuli” - Udine 1966 Claudio Noliani “Canti del popolo triestino” Libreria I. Svevo - Trieste 1972 Bepi Carone “Contrade che canta” Ediz. Concordia Sette - Pordenone 1979 Giuseppe Radole “Canti popolari istriani” (2 vol.) Editore L. Olschki - Firenze 1965 e 1968 Alberto Catalan .”Vose de Trieste passada” Editore Del Bianco - Udine 1957 Giso Fior “Villotte e canti del Friuli” Edizioni Piva - Milano 1977 Claudio Noliani “Anima della Carnia - Canti popolari” Soc. Filologica Friulana - Udine 1980 Pier Paolo Pasolini “La poesia popolare italiana” A. Garzanti - Milano 1960 Niccolò Tommaseo “Canti popolari toscani, corsi, illirici e greci” - Venezia 1841-42 Andreina Ciceri “Racconti popolari friulani” Società Filologica Friulana - Udine 1968 Cesare Cantù “Grande illustrazione del lombardo veneto” (costumanze di Trieste e del litorale) Milano 1883 “Enciclopedia Monografica del Friuli Venezia Giulia 3” - La storia e la cultura (parte terza) Capitolo 120: Tradizioni e cultura popolare - Udine 1980 Carlo Ginzburg “l benandanti, ricerche sulla stregoneria e sui culti agrari tra il ‘500 e il ‘600” Einaudi - Torino 1966. Carlo Tullio Altan “La sagra degli ossessi. Il patrimonio delle tradizioni popolari italiane, nella società settentrionale” (vari saggi di diversi autori) Sansoni - Firenze 1972 Iolanda de Vonderweid “Ricette antiche e moderne di Trieste, dell’Istria, della Dalmazia” Edizioni Lint - Trieste 1972 Mario Colangeli “Le feste dell’anno, almanacco delle feste popolari italiane” Sugarco - Milano 1977 Giuseppe Caprin “Lagune di Grado” Trieste 1890 Gianni Pinguentini “Fiabe, leggende, barzellette triestine” E. Borsatti Editore -Trieste 1955 Valentino Ostermann “La vita in Friuli” Del Bianco Editore - Udine 1940 (2 voli)


MUSICA, BALLO, CANTO POPOlARE, POESIA IN

Paolo Petricig / Valentino Simonitti “La comunità slovena del Friuli” E.S.T. - Trieste 1974 Adolfo Leghissa “Trieste che passa” (1884-1914) Fortuna - Trieste 1955 G. Francescato / F. Salimbeni “Storia, lingua e società in Friuli” Casamassima - Udine 1976 Lella Au Fiore “Il vino nelle antiche ricette goriziane” Agriturist - Gorizia 1972 Balilla / Pratella Francesco “Le arti e le tradizioni d’Italia” 2 voli. - Udine 1941 “Canti popolari registrati e rilevati nel Friuli Venezia Giulia” RAI - Sede di Trieste II Ediz. 1966 Trieste D’ Aronco Gianfranco “Storia della danza popolare” Olschki - Firenze 1962 Ive Antonio “Canti popolari istriani raccolti a Rovigno” Loescher - Torino 1877 Silvio Domini “Staranzano, storia, società e cultura nell’ambiente del territorio monfalconese” 1978 - Cassa Rurale ed Artigiana di Staranzano Giacomo Devoto/Gabriella Giacomelli “I dialetti delle regioni d’Italia” Sansoni - Firenze 1972 Giorgio Valussi “Friuli Venezia Giulia” F. Le Monnier - Firenze 1979 “La vera cucina del Friuli Venezia Giulia” G. Mondani Editore - Genova 1977 Ernesto Sestan “Venezia Giulia. Lineamenti di una storia etnica e culturale” Edizioni “Centro Librario” - Bari 1965 Fulvio Tomizza “Letture del Friuli Venezia Giulia “ Editrice Radar - Padova 1968 Mario Moffa/Giuliana Fabricio Dei Rossi “La cucina tipica triestina” - Accademia Italiana della Cucina (Delegazione di Trieste) Edizioni Lint - Trieste 1983 Paolo Toschi “Tradizioni popolari italiane” ERI/Classe Unica - Torino 1959 Bruno Pianta “Cultura popolare” Garzanti / Strumenti di Studio - Milano 1982 Giovanni Battista Bronzini “Cultura popolare, dialettica e contestualità” Dedalo libri - Bari 1980 Andreina Nicoloso Ciceri “Tradizioni popolari in Friuli” (2 vol.) Chiandetti Editore - Udine 1982 Nuria Kanzian “Parlare i suoni” Ed. Italo Svevo, Trieste 2000. * “CD alegto”A RICHESTA DIALETTO, FOLKMUSIC REVIVAL DEL FRIULI VENEZIA GIULIA. LATO a gRAZiELLA V.ROTA E i CANTERigOLi LEONARDO ZANIER LUCIA CESCUTTI PAVLE MERKù CHECCO e ANNA SILVIO DOMINI PAOLO ZONTA CANZONIERE DI AIELLO DEL FRIULI INFORMATORE S. MARIA LA LONGA (UD) E I CANTERIGOLI BIAGIO MARIN MARIO LUGNAN e GIORGIO CORBATO GRAZIELLA V. ROTA e “GIORNI CANTATI”

ALTRIC

LATO b GIAMPAOLO GRI DUE INFORMATORI DI SAURIS (UD) MIROSLAV KOSUTA ANTONIO DI FLORIANO e ALBERTO COMPASSI CAROLUS CERGOLY GRAZIELLA V. ROTA E “GIORNI CANTATI” FRANCO CREVATIN GIULIO FURLAN MARIA DELNERI GRAZIELLA V. ROTA E “GIORNI CANTATI”

D o a u d i o c as s e t t a d i p s o n i b i l i a r i c h i e s t a: 1. Trieste Contro 2. Trieste Canta 3. Documenti folk 4. vari 45 giri 5. video-DVD “El primo de maggio”, ed. Radio Koper In consultazione audiocassette lavori di ricerca.


Finito di stampare nel maggio 2007 dalla Tipografia Triestina - Trieste Il Libro “La Memoria è vita” è disponibile anche al sito www.centropromozione.it Per il suo uso pubblico anche parziale citarne la fonte

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Foto copertina: “Zuja di More”, 1983 - xilografia, Bruno Chersicla (per gentile concessione) Retro copertina: “Piazza Granda”, 1848 - attualmente Piazza dell’Unità d’Italia 1a Edizione 1984 - “Alla ricerca dell’identità perduta” - produzione Musicoop - Ed. Grafiche Noghere - Muggia TS 2a Edizione 2007 - Centro Promozione - E-mail staff@centropromozione.it Impaginazione e grafica ArteViva Foto archivio Centro Promozione Trascrizioni e ricerche sonore di Graziella V. O. Rota Studio registrazione allegati sonori Claudio Raini Editore Tipografia Triestina - Trieste Coeditore C.r.C.s. progetto g.E&A (gruppo editori associati) - Collana “Quaderni della memoria” Prodotto dal Centro Promozione FVG - Onlus - finalità fundraising Info e richieste: staff@centropromozione.it © C.r.C.s. - Distribuzione via Valdirivo, 30 - Trieste (IT) Stampato nel 2007 dalla Tipografia Triestina - via Milano, 16 - Trieste - tipografiatriestina@gmail.com

Realizzato con il contributo della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia Assessorato Regionale Identità Linguistiche e Migranti, Istruzione e Cultura, Sport, Politiche della Pace e Solidarietà - Servizio Attività Culturali



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