Silvio Maria Buiatti

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SILVIO MARIA BUIATTI fotografo (1890 . 1982)

A cura di Riccardo Toffoletti e Italo Zannier

Edizioni Arti Grafiche Friulane 1989


Gli autori e i collaboratori esprimono un particolare ringraziamento all'amico Tito Maniacco per aver prestato molte opere e fornito notizie preziose, ringraziano inoltre per le utili informazioni o per aver concesso in prestito opere di Silvio Maria Buiatti: Caterina Basa/del/a, Pio Buiatti, Aldo Conti, Renzo Cossaro, Maria Grazia Galimberti, Famiglia Giacobbi, Aldo Merlo, Fred Pittino, Riccardo Toffo/etti, Pietro Zanini.


di Italo Zannier

Silvio Maria Buiatti, "Mago del Flou"

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"11 doman di San Martin" (12 novembre) del 1928, festosamente si inaugurava a Udine al numero 14 di Via Marinoni, in Palazzo Plateo, l'atelier "Foto Ars", rinnovato nell'arredo, ora più orientaleggiante e ("deliziosamente" si vorrebbe) kifsch. Silvio Maria Buiatti, "mago del flou", com'era senza ironia riconosciuto in città, celebrava in quel giorno il culmine del suo successo di fotografo; un'occasione anche pubblicitaria, nel confronto dei colleghi, specialmente di Attilio Brisighelli o di Pietro Modotti (ch'era però stato il suo primo maestro) e di Carlo Pignat, il cui atelier era però più commerciale. Per i ritratti, invece, rivaleggiava soprattutto Otello Hieke, il cui studio si affacciava in Piazza del Duomo e contava su di una clientela chic, comunque senz'altro meno bohémienne della sua.

Quel giorno, verso sera, ci fu baldoria in Palazzo Plateo, come annunciata anche nell'invito, sotto forma di cartoline (1), che alcuni amici pittori (Candido Grassi, Fred Pittino, Ernesto Mitri, Giovanni Saccomani) avevano disegnato e direttamente inciso nel linoleum, con i simboli della luce, ossia della foto-grafia, che venne cosÌ a sua volta festeggiata. "Doman tor lis quatri -

precisava Buiatti in calce a una di queste xilografie che incorniciava

una brocca di "vin bon" -

o viars il studi e che bevude e jè pe inaugurazion. I ten une vore e

o sarai content de vuestre presinze. Vign!t cui vistit neri opur cui blanc, cu la ciamese o senze, baste che su le puarte si complaseis di netasi pulidut lis scarpis". Altri tempi; strade acciottolate o bianche di ghiaia, carri e cavalli, oltre allo sferragliante tramvai, che gli ospiti dovettero però ignorare, o comunque abbandonare in Mercatovecchio, per giungere quel pomeriggio in Via Marinoni da Silvio Marie Buiat, cosÌ si era firmato, in friulano, nella cartolina, concludendo con un promettente: "us saludi e us ringrasi di cur". Saccomani, Modotto, Grassi, Filipponi, e Pittino e Piccini e Mitri e i tre Basaldella, tutti tra i diciotto e i trent'anni, erano gli allegri compagnons di Buiatti, con cui dividevano il buon tempo e le chiacchiere, da uno studio all'altro, da un'osteria all'altra, sognando l'arte, con programmi e idee spesso arditi, che fecero allora di Udine un piccolo centro di cultura viva, avviata sugli stimoli delle avanguardie, nella speranza di sottrarsi alle residue, ma resistenti muffe ottocentesche, che in Friuli erano per giunta infarcite di un folcklorismo quasi vieto, e del quale l - Le qua ttro cartoline si trovano in I. Zannier, Fotografia in Friuli 1850-1970, Chiandetti , Reana 1979, p. 99.

son purtroppo tuttora presenti qua e là le tracce. Proprio nel 1928 Angilotto Modotto (1900-1968), tra i più audaci talenti della pittura friulana, aveva fondato con i Basaldella e Sandro Filipponi (1909-1931), la "Scuola friulana


d'avanguardia", "il cui indirizzo anticonformista -

ha scritto Gianfranco Sgubbi -

trova

riferimento nel dibattito artistico della Parigi di quegli anni, come nei precedenti contatti con l'ambiente veneziano di Ca' Pesaro" (2), dove avevano esposto anche Grassi e Pittino, a loro volta coinvolti in questa squadra, che animò particolarmente in città la provinciale e reazionaria atmosfera culturale, che costrinse alla fuga molti intellettuali e artisti, come in seguito 6 d'altronde, verso mete più suggestive e promettenti; anche Modotto se ne andò ben presto a Parigi, Pittino a Milano, i Basaldella (Mirko e Afro), a. Roma e poi oltreoceano, in cerca di consensi, e di una fortuna che si meritano. Buiatti, dunque, si coinvolse nell'allegra brigata con lo stesso spirito d'avanguardia, che la sua fotografia tendeva a imporre mediante stilemi già superati altrove, ma che si differenziavano comunque nettamente rispetto a quelli dell'artigianato degli atelier locali (Modotti, Pignat...) o degli approcci, come nel caso di Brisighelli, a un timido paesaggismo lirico o folkloristico, come in seguito quello del "carnico" Antonelli. Ad ogni modo, il nuovo marchio del "rinnovato studio" di Via Marinoni, "Foto Ars", era per se stesso un bel programma, oltre a una perentoria, emblematica affermazione di artisticità della fotografia, che a Udine probabilmente non si era ancora troppo inclini a riconoscerle. Eppure in città la fotografia era stata presente, anche come evento culturale, fino dai primi anni dopo l'invenzione, come si evince dalla lettura dei giornali locali, specialmente "L'annotatore friulano" o "L'alchimista", che pubblicò perfino una "storia della fotografia" a puntate, ripresa da "La Lumière"; le fotografie "su vetro e su carta" del conte Augusto Agricola, pioniere della calotipia in Italia, ad esempio, trovarono autorevoli spazi e si meritarono entusiastici encomi e medaglie, nelle maggiori esposizioni cittadine di Belle Arti. Qualche anno dopo, fu così anche per il pittore-fotografo Giuseppe Malignani, quando, nel 1866, aprì un atelier in Via Cortazzis, che poi trasferì in Via Bartolini e in seguito, definitivamente, in Via Bartolomeis, l'attuale Via Manin. Il Malignani ottenne subito ampi consensi, anche sulla stampa locale, dove il cronista, in occasione dell'apertura dello studio, non lesinò elogi, se così scrisse: "Troviamo giusto e doveroso tributare una parola di lode al pittore e fotografo signor Giuseppe Malignani, il cui stabilimento tanto per la comodità che presenta quanto per la luce e per la qualità delle macchine nulla lascia a desiderare" (3). Il "bravo artista", aggiungeva l'ignoto articolista segnalando l'autodidattismo del Malignani, "deve soltanto alla sua costanza ed assiduità la creazione di uno studio grazie al quale egli può adempiere, nel modo il più desiderabile, a tutte le commissioni che gli sono date" (4). "Bravo artista", dunque, il Malignani, viene definito con un termine tuttora gratificante e lusinghiero per molti fotografi, che hanno vissuto una lunga battaglia per ottenere, sia pure per questa strada ingenua se non sbagliata (ossia l'ovvia pretesa che la fotografia sia un'Arte, mentre è innanzi tutto Fotografia, come la pittura è la Pittura e non si può dire "pittura artistica"), un riconoscimento al proprio lavoro, che per molti è intellettuale piuttosto che "tecnico", come invece si vorrebbe, e come troppi ancora intendono. La fotografia è innanzitutto un prodotto culturale, e se "artistico" non ha importanza,

2 - cfr. AA.VV., Arte nel Friuli- Venezia Giulia 1900-1950 (catalogo), Trieste 1982, p. 78 . 3 - cfr. "Rivista Friulana", Udine, lO febbraio 1866. 4 - cfr. idem .


specialmente quando con questo termine si intende un'immagine competitiva, per via d'imitazione però, della pittura o del disegno, com'è avvenuto, in modo anche sublime, durante l'avventura comunque affascinante del pictorialism. Iniziò subito, persino con l'opera di Hill e Adamson (ma Hill era un pittore, e certe pretese sono inevitabili), e presto il pittorialismo si caratterizzò come maniera, un nuovo "genere", con Robinson e Rejlander, tesi a costruire, fin dal 1855, leziosi fotomontaggi che assomigliavano ad altrettanti quadri. E furono anche accusati di plagio dagli amici pittori preraffaelliti; Millais addirittura denunciò Robinson, per la "copia" di un suo dipinto, "Ophelia" (1852), tradotto fotograficamente nel 1860 in una delle sue immagini composite. Nel 1892 al Convegno internazionale di Vienna si formalizzò definitivamente l'idea di una "fotografia artistica" pittorialista, e su questa retorica si sviluppò, sia la reazionaria corrente del "Linked Ring" londinese, con a capo il Robinson, sia la più moderna ideologia della "naturalistic photography" di Emerson, da cui Stieglitz ricavò poi gli stimoli per suggerire una "straight photography", orientata dalle specifiche possibilità espressive, e dunque potenzialmente creative, della stessa tecnica fotografica, tanto detestata invece dai pittorialisti, quanto a nitidezza soprattutto, che essi tendono ad annebbiare fino all'inverosimile, con il flou di appositi obiettivi e i "gommismi" dei nuovi procedimenti di stampa, appositamente inventati dai Demachy, Pujo, Maskell. Gran parte di questa fotografia (e nell'equivoco terminologico c'è anche il "moderni sta" Stieglitz, che nel 1902 fonda a New York il Club "Photo Secession"), venne definita " secessionista", con riferimento ai movimenti culturali germanici e austriaci fin de siécle, sorti nell'ambito dell'art nouveau, dove anche i fotografi più effervescenti e problematici si coinvolsero. Tra questi , Rudolf Diirhrkoop (che Buiatti considerava suo maestro, ma mi diceva di averlo conosciuto a Monaco, mentre Diirhrkoop era vissuto soprattutto tra Amburgo e Berlino), o Heinrich Kiihn di Innsbruck, che con Hugo Henneberg e Hans Watzek di Vienna, formavano il cosiddetto "trifoglio austriaco", un magnifico terzetto di fanatici della gomme bicromatée, dediti a immagini dal forte chiaroscuro, dove il soggetto è quasi totalmente immerso nel buio dello sfondo, ottenendo atmosfere drammatiche, prelevate da un gusto romantico che proveniva anche dall'espressionismo pittorico degli artisti di Monaco, che nei primi anni del secolo stavano affascinando molti giovani pittori, anche italiani, e non ultimi i fotografi, tra i quali potremmo indicare lo stesso Silvio Maria Buiatti. Questa fotografia risultava energicamente interpretativa, ben diversa da quella convenzionale, noiosa e ripetitiva dall'artigianato quotidiano; i suoi segni trasgressivi (densità del chiaroscuro, sfocatura, granulosità della stampa) suggerivano straordinarie possibilità estetiche ed i giovani vi si esaltarono giustamente, avviando una ricerca creativa, di indagine sul medium fotografico, che 5 - D. Masclet , L'école

française, in AA.VV., Kiinstphotographie um 1900 (a cura di Otto Steinert), Museum Folkwang Essen 1964, p. 23.

non è finita; d'altronde, "tous les photographes, à part quelques héros -

scriveva Daniel

Masc\et in occasione di una rivisitazione della troppo e lungo detestata "Kunstphotographie" se precipitèrent sur ces procédés dits "d'art", qui, croyaient-ils, allaient permettre à n'importe qui d'etre artiste ..." (5).

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noiiances di Buiatti, che perfino Arturo Manzano sembrò troppo a lungo rimpiangere,

addirittura nel 1961 (9). Nei dintorni di Buiatti, a San Daniele, Enrico Battigelli (altro autore friulano da studiare, ma sembra che tutta la sua opera sia scomparsa; distrutta?) fu tra i pochi ad avere un sentimento fotografico simile a quello di Buiatti, sebbene, come altri che si trovarono in seguito su questa lO scia di maestri, (Tarcisio Baldassi, Ciro Barnaba .... Francesco Krivec) piuttosto incline al folklore, che invece Buiatti sempre rifuggì. Battigelli, che ebbe la ventura straordinaria di pubblicare ventuno fotografie, illustrandone un intero numero, su "La Fotografia Artistica" nel 1916 (lO), è stato, assieme a Giacomo Bront di Cividale, pittore, ma ancor più bravo come fotografo (e anche Bront andrà studiato e presentato come si merita, speriamo), è l'unico autore friulano a poter competere con Buiatti, in quegli anni, oltre ad Attilio Brisighelli, sul terreno della "fotografia artistica", che anche per loro merito si è qualificata in Friuli, differenziandosi dall'opaco artigianato. Le immagini di Battigelli altrimenti non avrebbero sollecitato queste entusiastiche parole di Cesare Schiaparelli, ("La Fotografia Artistica va orgogliosa - scriveva inoltre - di avere da tempo rivelato un artista") a proposito di un suo paesaggio: "nel breve spazio dell'immagine scriveva l'autorevole critico -

l'occhio trova sconfinate pianure e immensità di cieli e di acque,

quali non ravvisa in più ampie tele ... ; aria e luce pervadono ogni parte del soggetto, i piani si staccano, si sovrappongono e danno un rilievo palpabile delle cose: il tutto con una semplicità di mezzi che ha del meraviglioso ... " (lI). Ancora la "semplicità di mezzi" che ormai i fotografi andavano cercando, restringendo il campo visivo, decontestualizzando sempre di più una parte dal "tutto"; un tutto, che nei decenni precedenti aveva invece caratterizzato molta fotografia di paesaggio, nell'ansia, nell'illusione di cogliere il panorama, che ora si scopre piuttosto nei suoi emblematici frammenti, parte significativa di quel "tutto", che è invece iconicamente irrapresentabile, perché è semmai la realtà stessa, ma quella tattile, percorribile, odorosa.

"La scelta -

scriveva Thovez -

è quasi un'invenzione. E in quest'arte, da cui è esclusa ogni

possibilità di virtuosità tecnica, la scelta è tutto" (12); Thovez evidentemente sbagliava, credendo che la fotografia non potesse godere di "virtuosità" tecniche, ma riguardo la "scelta" fu invece tra i primi a rendersi conto che questa era una possibilità d'intervento "specifico". Buiatti aveva però entrambe queste doti, sia nel paesaggio che nel ritratto; nel primo, oltre ad "avvicinarsi", tendeva a strutturare l'immagine attorno a un fulcro emblematico: un albero, una nuvola, un riflesso d'acque, con il quale creare una figura retorica, che è riferita quasi sempre a un'idea d'apocalisse, anche laddove sembra sbocciare la primavera. Il forte chiaroscuro, con cui annulla nell'ombra i dettagli inutili e distraenti, rende ogni cosa drammatica, di una severa religiosità. Gli elementi accolti nell'immagine, sono simboli di una natura arcadica, osservati quasi con nostalgia, quasi fossero (e lo erano) gli ultimi segni: covoni di granoturco che sembravano totem; alberi frustati dal vento; nuvole che esplodono e fuggono; acque che vibrano ... ; il tutto in una atmosfera teatrale, effimera, come quella creata dal

9 - A. Manzano, Immagini di Italo Zannier, in " Messaggero Veneto" , Udine 3 febb . 1961. lO - cfr. "La Fotografia

Artistica", N.VII-VIlI, Torino luglio-agosto 1916. II - C. Schiaparelli, L'arte fotografica di E. Battigelli, in "La Fotografia Artistica" cit., p. 71. 12 - E. Thovez, Poesia fotografica, in Luci ed Ombre, 11 Corriere Fotografico, Torino 1926 (ma il testo è del 1898).


controluce, cui spesso Buiatti ricorre, sfruttando il contrasto del disegno, però anche per una sfida tecnica, oltre che per ottenere un segno enfatico. Nel ritratto, ancora i forti chiaroscuri e la stessa malinconia, qui ottenuta con pose languide, e sguardi che si abbandonano lontano; non c'è sempre la finezza, nè la consapevolezza culturale di un Carlo Wulz, triestino, che forse Buiatti conobbe, e che era orientato dagli stereotipi classici dell'atelier viennese "d'Ora" e di Arthur Benda o di Rudolf Koppitz, ma nel fotografo friulano c'è spesso il guizzo della trasgressione agli schemi d'atelier, quasi d'obbligo nel ritratto, anche come garanzia per la clientela, ma specie se si tratta degli amici artisti, Buiatti si abbandona quasi all'istantanea, nella ricerca di una maggiore vivacità di sguardo e di atteggiamento. Nei ritratti femminili si avverte facilmente un'ansia di sensualità, non solo annegando la

silhouette bianca della figura nel buio dello sfondo, ma giocando con i ritmi e le flessuosità delle braccia o la posizione delle mani, trascendendo però nei tentativi di composizioni più complesse, riferite forse a scene orientaleggianti come quelle proposte allora da un altro atelier viennese, il "Manassé". E ne emerge in qualche caso un kitsch da dilettante ("Rifiuti", "L'harem" ... ) che, se testimonia il quoziente provinciale di Buiatti, è allo stesso tempo un suo palese tentativo di sottrarsi ai luoghi comuni locali, e a un moralismo che gli era scomodo e che alla fine risultò condizionante del suo lavoro d'atelier, nonostante il marchio "Foto Ars" con cui aveva inaugurato l'atelier di Via Marinoni nel 1928. Lo si preferì paesaggista, Silvio Maria Buiatti "mago del flou", cantore di un Friuli sognato e forse mai nato, se non nelle sue catartiche immagini, silenziose, estatiche, accattivanti, ma di una religiosità ammonitrice, che castiga. Poi vennero i neorealisti.

Venezia, 5 novembre 1989

Il


N ota biografica

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Nella Udine degli inizi di secolo il giovane Silvio Maria Buiatti, nato nel 1890, incontra un attento indagatore e pioniere della fotografia che gli suscita i primi interessi e tramette i primi segreti: si tratta di Pietro Modotti il cui studio situato in via Baldassera (dopo il 1910 si trasferisce in via Carducci) è sicuramente frequentato anche dalla giovanissima nipote, quella che diventerà grande fotografa e rivoluzionara, la mitica Tina Modotti. In quello spazio familiare Buiatti alimenta le sue attenzioni per la fotografia, ma il temperamento ribelle lo porta ben presto a evadere dalla provincia. Nel 1909 intraprende un viaggio in Francia e per breve tempo diventa operatore del Pathé Journal, un anno dopo si trova a Copenaghen alla Nordish Film e quindi si trasferisce a Monaco per un più lungo soggiorno. Gran parte delle biografie a questo punto dicono che Buiatti conosce in questa città la figura e l'opera di Rudolph Diihrkoop (1848-1918), ma un controllo sulle date esclude questa ipotesi e non risulta che il fotografo tedesco abbia tenuto un atelier a Monaco, bensì ad Amburgo, sua città natale, inoltre i suoi interessi sono indirizzati verso una fotografia diretta, con ritratti colti in ambienti naturali e non costruiti in studio. Tutto questo è abbastanza lontano dalle tecniche che Buiatti apprende in gioventù, che sono tipiche del pictorialism. Al giovane Buiatti risulta comunque utile il soggiorno nella capitale bavarese dove le tradizioni della pittura hanno lasciato una profonda traccia e dove, a cavallo fra i due secoli, autori come Lenbach e von Stuch, considerati maestri insuperabili nell'arte del ritratto, ricorrono abitualmente alla fotografia per lo spunto o la struttura dei loro quadri. Alcuni indizi ci dicono che Buiatti, buon conoscitore delle tecniche della fotografia "artistica", come l'uso degli obiettivi morbidi, il bromolio, il viraggio, la gomma bicromata, le carte al carbone, probabilmente nel suo giovane girovagare ha conosciuto l'austriaco Heinrich Kiihn (1866-1944) un acuto ricercatore e quotato esponente della fotografia pittorica, adatta al gusto dell'epoca. Il giovane udinese condivide questa poetica, consona al suo temperamento e tesa a sublimare la realtà, per cui, dopo il ritorno in Friuli, rimane sempre fedele al pittorialismo. La vita e l'attività di Buiatti subiscono inevitabili ostacoli durante gli eventi della prima guerra mondiale dopo la quale si dedica anche alla musica e al canto, ma intensifica l'attività fotografica tanto da essere chiamato, seppur per breve tempo, come fotografo della Casa reale, prima a Firenze e poi a Monza. Ritorna alla fine del 1923 e apre uno studio in via Cavour, per dedicarsi principalmente al ritratto. Partecipa a diverse esposizioni e nel 1924 ottiene il primo premio al Salone internazionale di Londra.


Dal 1928 al 1935, forse il periodo più fertile, Buiatti tiene un prestigioso studio nel palazzo Plateo di via Marinoni; è in questo periodo che può ritrarre gli esponenti dell'arte friulana d'avanguardia (Dino, Mirko, Afro, Filipponi, ... ), ma accentua anche l'interesse per il paesaggio. Pubblica su diverse riviste, tiene buoni contatti con il mondo della fotografia friulana (Pignat, Brisighelli, Turrin), conquista notevole fama e molti riconoscimenti: nel 1930 ottiene un premio 80 alla Mostra internazionale di Varsavia e al Concorso fotografico nazionale di Roma dove, due anni dopo , vince il primo premio fra gli espositori italiani alla Biennale d' arte fotografica e dove, nel '33, gli viene assegnata la medaglìa d'oro al Concorso nazionale organizzato dalla Federazione delle Comunità Artigiane; nel 1934 ottiene il primo premio alla Mostra del paesaggio triveneto a Conegliano, nel '35 è ancora presente e segnalato al Salone internazionale di Londra. Buiatti sposta nuovamente lo studio e organizza anche l'abitazione in via Tiberio Deciani dove lavora per molti anni e trascorre il secondo periodo bellico . Si ripropone all'attenzione del pubblico: nel dopoguerra allestisce un'ampia rassegna di sue opere, paesaggi ritratti nudi, al Circolo Artistico Friulano e nel 1954-55 ottiene un premio internazionale alla Mostra d'arte fotografica di Stoccolma. Negli anni sessanta tiene lo studio in piazzale Primo Maggio, ai piedi del Castello, dove si dedica soprattutto alla ristampa di molte sue lastre. L'ultima sua esposizione, antologica, viene allestita a Udine nel maggio 1978. Silvio Maria Buiatti conclude la sua lunga vita nel gennaio del 1982. (R . T.)

Bibliografia essenziale Zannier, Italo, Silvio Maria Buiatti, un protagonista del secondo "Pictoralism", in "Foto Film" , aprile 1967. Settimelli, Wladimiro, La fotografia italiana, appendice in lean-A. Keim, "Breve storia della fotografia", Torino 1976. Zannier, Italo, Silvio Maria Buiatti, in "Il Diaframma Fotografia Italiana", novembre 1977 . Toffoletti, Riccardo, Silvio Maria Buiatti, fotografo (catalogo), Udine 1978. Zannier, Italo, 70 anni di fotografia in Italia, Modena 1978. Zannier, Italo, Fotografia in Friuli 1850-1970, Udine 1979 Toffoletti, Riccardo, e Zannier, Italo, Ricordo di Silvio Maria Buiatti, in "Perimmagine", febbraio-marzo 1982. Reale, Isabella, Silvio Maria Buiatti, in "Dino Mirko Afro Basaldella" (catarogo) Milano 1987 . In particolare negli anni trenta e nel secondo dopoguerra, sulla stampa quotidiana e periodica, l'opera di Silvio Maria Buiatti è stata recensita da giornalisti e critici come Arturo Manzano, Antonio Baldini, Leone Comini, Chino Ermacora, Dino Menichini.


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