The Pill Outdoor Journal 68 ITA

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UTMB 2024

UTMB tra trionfi e ritiri: il racconto dell'evento da dietro le quinte
le interviste ai vincitori Katie Schide e Vincent Bouillard
Kilian Jornet Kilian Jornet ci racconta il progetto
duro della sua vita: la traversata
tutte
cime delle Alpi sopra
4000 metri, chiusa in soli 19 giorni
Valeria Margherita Mosca
Dalle Azzorre all'Islanda, l'odissea per la salvaguardia delle balene con le parole di Valeria Margherita Mosca
il reportage fotografico di Achille Mauri

EDITO

A chi non piacciono le storie di successo? I record battuti, le imprese eccezionali, le prime volte che fanno notizia. A me moltissimo: amo leggerle, amo scriverle. Forse però mi piacciono ancora di più le altre. Le storie di chi arriva al quarto posto per un centesimo e piange comunque di gioia, per citare un episodio che ha fatto parecchio parlare di sé durante le Olimpiadi di quest’estate. Le storie di chi ci prova ma alla fine deve rinun-

ciare alla vetta, di chi corre sapendo che arriverà tra gli ultimi, di chi vorrebbe spingere di più ma quel giorno deve fare i conti con la stanchezza, la paura, l'insicurezza, le condizioni esterne avverse, la testa che non c'è. Credo ci sia una bellezza speciale in queste storie, anche una sorta di umanissimo eroismo. Lo dice bene Katie Schide, campionessa a UTMB, nell’intervista fatta da Francesco Puppi che trovate in questo numero: è fa-

cile accettare la fatica e la sofferenza quando corri in testa; tutt’altra storia è continuare a stringere i denti quando sai che, anche nelle migliori delle ipotesi, non arriverai mai sul podio. Ma si tenta comunque, si va avanti lo stesso. Si dà il massimo che è possibile dare. Non è straordinario? E anche se non basterà ad arrivare in cima, o a posizionarsi in testa alla classifica, fa niente. Il viaggio continua, e ne vale sempre la pena.

SALEWA SELLA FREE COLLECTION IS ENGINEERED IN THE DOLOMITES, CRAFTED FOR EXPLORATION, DESIGNED TO SET YOU FREE.

Sella Free 3L Shell Jacket
Sella Free 3L Shell Pant

PRODUCTION

The Pill Agency | www.thepillagency.com

EDITOR IN CHIEF

Denis Piccolo | denis@thepillagency.com

EDITORIAL COORDINATOR

Chiara Beretta | chiara@thepillagency.com

DIGITAL COORDINATOR

Giulia Orecchia | hello@thepillagency.com

SENIOR EDITOR

Lisa Misconel | lisa@thepillagency.com

ART DIRECTION

George Boutall | Evergreen Design House Niccolò Galeotti, Francesca Pagliaro

THEPILLOUTDOOR.COM hello@thepillagency.com

PHOTOGRAPHERS & FILMERS

Alexis Berg, Giulia Bertolazzi, Elisa Bessega, Dan King, Denis Piccolo, Achille Mauri, Manny Olivo, Daniel Hug, Giacomo Frison/ Altripiani, Big Rock Media House, Ettore Zorzini, The Adventure Bakery, Riccardo Selvatico, Andreas MacLean, Mathis Dumas, Julien "Perly" Petry

COLLABORATORS

Filippo Caon, Chiara Guglielmina, Chiara Beretta, Evi Garbolino, Elisa Bessega, Eva Toschi, Valeria Margherita Mosca, Lisa Misconel, Davide Fioraso, Francesco Puppi, Ilaria Chiavacci, Filippo Tommasini, Francesca Cassi, Giulia Orecchia

SHOP & SUBSCRIPTIONS www.thepilloutdoorshop.com

COMPANY EDITOR

Hand Communication

Piazza XX Settembre 17, Saluzzo CN 12037, Italy hello@thepillagency.com

COVER

Achille Mauri for Nica Caprez & Valeria Margherita Mosca

PRINT

L'artistica Savigliano, Savigliano - Cuneo - Italy, lartisavi.it

DISTRIBUTION

M-Dis Distribuzione Media S.p.A Via Cazzaniga 19 – 20132 Milano

ADVERTISING

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The Pill rivista bimestrale registrata al tribunale di Milano il 29/02/2016 al numero 73

PHOTO JULIEN "PERLY" PETRY

P.8

P.12

PHOTO ALEXIS BERG

P.4O

P.44

P.46

THE DAILY PILL

BEST MADE

KILLER COLLABS

ECO SEVEN

AL POLO NORD CON KAYLAND

FJÄLLRÄVEN E SOSTENIBILITÀ

GARMIN FENIX 8

DECATHLON VEST

DAVIDE MAGNINI

MAISON LA SPORTIVA

SUI 7000 CON ORTOVOX

HOW BAD DO YOU WANT IT?

SEXTENDOLOEXTREM

ARRAMPICARE SUI COLORI

IKRAM RHARSALLA

CHI VA PIANO VA LONTANO

KILIAN JORNET

TRUST THE PROCESS

THE SPEED PROJECT CHX

CABOOSE

ETERNAL FLAME

ALTO ADIGE IN AUTUNNO

SKI IN THE SKY

K2-70

CHOLITAS ESCALADORAS

SALVARE LE BALENE

UTMB, L'ANNO DEI RITIRI

KATIE SCHIDE

VINCENT BOUILLARD

LAST WORD

BABSI ZANGERL E JACOPO LARCHER RIPETONO

“SEVENTH DIRECTION”

Il 15 agosto, dopo aver completato “The Gift”, Barbara ha saputo che Nemo aveva salito “Seventh Direction”, una via più impegnativa e ripida. Dopo la salita di Jacopo su “The Gift”, Babsi e Jacopo si sono uniti a Nemo per provare “Seventh Direction”. Babsi ha tentato la salita in libera e il 1° settembre è riuscita a raggiungere la cima, superando stanchezza e condizioni meteo avverse. Due giorni dopo, Jacopo ha completato la via al primo tentativo, concludendo così un’estate perfetta nel Rätikon.

LO SHOWROOM VIRTUALE DI DECATHLON

PRENDE VITA GRAZIE AD APPLE VISION PRO

Decathlon ha lanciato tre nuove app per Apple Vision Pro con l'obiettivo di rivoluzionare l’esperienza utente e di rafforzare la propria connessione con il mondo digitale. Le tre app (non ancora disponibili in Italia) permettono di visualizzare i prodotti Decathlon in 3D e in dimensioni reali, scoprirne le caratteristiche e procedere con l’acquisto comodamente dal divano di casa.

REEL ROCK 2024

È tornato il Reel Rock, l'appuntamento annuale dedicato alla community del climbing e al cinema! La Sportiva conferma il suo ruolo di Main Sponsor e si dichiara entusiasta di proseguire questa collaborazione, celebrando la bellezza di questo sport. I cortometraggi in concorso sono quattro, ognuno con una trama diversa, ma legati dal filo conduttore delle emozioni condivise dai protagonisti nel raggiungere la vetta.

ASICS SOLO 15 MINUTI DI ESERCIZIO PER MIGLIORARE IL BENESSERE MENTALE

Uno studio approfondito condotto da ASICS ha dimostrato che il nostro benessere mentale inizia a calare già dopo 2 ore di lavoro intenso alla scrivania. Dopo la diffusione di questi dati il brand cerca anche di proporre una soluzione semplice per mantenere uno stile di vita sano, sia mentale che fisico: bastano solo 15 minuti di esercizio al giorno. Il messaggio viene condiviso tramite un cortometraggio lanciato in occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale.

INSTALLATO UN NUOVO BIVACCO DI EMERGENZA SUL MONTE PELMO

È stato installato a fine settembre il nuovo bivacco di emergenza sul Monte Pelmo, sulle Dolomiti di Zoldo. La struttura, predisposta sul Vant del Pelmo a 2.836 metri di quota, è intitolata ad Aldo "Olpe" Giustina e Alberto "Magico" Bonafede, due soccorritori di San Vito di Cadore che hanno perso la vita sul Pelmo nell'agosto 2011 a causa di una frana durante una missione di recupero. L'installazione del bivacco è stata compiuta da Soccorso Alpino e Speleologico Veneto - CNSAS ed Esercito italiano.

BUY THIS Jacket!

Ma non ti chiediamo solo questo

Nata nel 1974, la Expedition Down Lite Jacket è una delle nostre giacche invernali più iconiche. Sviluppata per essere resistente, funzionale e senza tempo, la produciamo con un unico obiettivo: ridurre al minimo il suo impatto ambientale. È fatta per durare a lungo e per essere tramandata, o rivenduta, di generazione in generazione. Solo così potremo produrre meno capi, consumare meno energia e ridurre i rifiuti.

Perché questa catena di eventi funzioni, è necessario che tu faccia la tua parte, utilizzandola il più a lungo possibile. Prenditene cura, riparala se necessario, ma soprattutto non sostituirla con una nuova giacca ogni anno.

Noi ti supporteremo lungo il percorso, con i consigli dei nostri esperti e una vasta rete di servizi di riparazione.

Che ne dici? Speriamo che tutto questo abbia senso per te quanto ne ha per noi e per l’ambiente.

THE DAILY PILL

GARMIN LANCIA INREACH MESSENGER PLUS

Garmin presenta la tecnologia inReach per garantire sicurezza e copertura costante anche nei luoghi più remoti. I dispositivi offrono settimane di autonomia grazie a batterie a lunga durata e sono progettati per assicurarne l'utilizzo a condizioni estreme. Il nuovo inReach Messenger Plus consente comunicazioni satellitari via rete Iridium e, collegato all'app Garmin Messenger, offre ulteriori funzionalità avanzate.

POWER SHIELD PRO DI POLARTEC

VINCE IL R&D 100 AWARD 2024

Il tessuto Power Shield Pro di Polartec ha vinto il prestigioso riconoscimento R&D 100 Award 2024 nella categoria Meccanica/Materiali. Il premio viene assegnato da una giuria di esperti alle principali innovazioni tecnologiche in vari ambiti. Polartec Power Shield nasce come tecnologia innovativa per la protezione dei tessuti da agenti atmosferici: realizzata in modo ecosostenibile, incorpora nylon di origine vegetale Biolon.

ROSSIGNOL LANCIA VEZOR, LA SUA PRIMA SCARPA DA TRAIL RUNNING

Rossignol ha presentato la sua prima scarpa da trail running ad alte prestazioni, Vezor. Il prodotto è pensato per tutti i trail runner che cercano di raggiungere un livello massimo di performance su terreni in cui è richiesto maggiore tecnicismo. Frutto di tre anni di ricerca e sviluppo, questa scarpa è ideale per gare di media distanza, allenamenti e competizioni grazie alla leggerezza, alla precisione e alla velocità che la contraddistinguono.

L'ALPINISTA DANI ARNOLD HA VINTO IL PREMIO PAUL PREUSS 2024

L'alpinista svizzero Dani Arnold ha vinto la dodicesima edizione del premio Paul Preuss. La giuria lo ha premiato per il suo modo di vivere l'alpinismo, che incarna pienamente lo spirito dell’alpinista austriaco Paul Preuss, alla cui memoria è intitolato il riconoscimento. Dani Arnold ha iniziato a scalare il ghiaccio in free solo ed è successivamente divenuto famoso per i suoi record di velocità sulle principali pareti delle Alpi. Nella foto: Arnold insieme a Simon Gietl del team Salewa People durante il progetto SextenDoloExtrem.

TERRASKIN: LA PRIMA SCARPA DA TRAIL DI X-BIONIC

TerraSkin è la prima scarpa da trail running lanciata quest'anno da X-Bionic, noto marchio svizzero di abbigliamento sportivo. Degno di nota è il prestigioso Ispo Award, vinto dal modello ancor prima del lancio ufficiale. Questo progetto, sviluppato in circa due anni, punta a portare il trail running a un livello successivo, combinando ammortizzazione e controllo senza precedenti. La scarpa include calze X-socks abbinate, studiate per ridurre l’attrito e migliorare la sinergia con la calzatura.

PURE COMFORT

365 DAYS

MERINO FLEECE

La lana Merino è un materiale unico per funzionalità e versatilità. Combinata con i nostri fleece tecnici, diventa un secondo strato multifunzionale, adatto per tutte le attività e in ogni stagione.

FLEECE RIB JACKET M , sly fox

BEST MADE

1.MILLET

EVOLE LIGHT 700 JACKET

Piumino per l’alpinismo leggero e comprimibile. La sua costruzione ibrida integra un isolamento in piuma d’anatra certificata RDS (90/10 FP700) sulle parti del corpo dove è necessario fornire calore e un isolamento in poliestere riciclato nelle zone esposte alla sudorazione. Trattamento idrorepellente PFC Free.

4.ON

C LOUDBOOM STRIKE LS

Una seconda pelle che avvolge il piede offrendo tutto il sostegno che serve. Tomaia con tecnologia LightSpray, senza lacci e cuciture, dal peso di appena 30 g. Due strati di schiuma Helion HF ed una Speedboard in fibra di carbonio offrono un alto ritorno di energia per una spinta potente a ogni falcata.

2.VSSL

N EST POUR OVER COFFEE KIT

Un robusto sistema portatile per la preparazione del caffè pour over. Struttura in acciaio inossidabile a doppia parete con coperchio privo di BPA e connettore di stoccaggio. Le doppie filettature consentono al kit da 5 pezzi di assemblarsi in un'unità compatta perfetta per viaggi, overlanding e altre attività all'aperto.

5.NORDA

T OOLBOX DUFFEL BAG

La borsa da viaggio in Bio-Dyneema più resistente e funzionale mai realizzata. Dedicata ai trail runner, presenta una robusta combinazione di scomparti che consentono di suddividere indumenti puliti e sporchi. Volume di 70 L, sacca portaoggetti a tenuta stagna, spallacci ergonomici e removibili, tasche in rete di rapido accesso.

3. EXOD

AIR STATION POD-01 INFLATABLE SHELTER

Un'innovativa capsula gonfiabile che combina principi architettonici con tecnologie del settore outdoor. La struttura diventa rigida a soli 0,5 bar di pressione, rendendola affidabile in qualsiasi ambiente. Si ripiega in una borsa facilmente trasportabile per un peso inferiore ai 9 chili. Le pareti si sollevano per una vista panoramica a 360 gradi.

6.MONTURA

DOLOMITI HOODED JACKET WMN

Giacca da donna calda e confortevole, ideale per trekking e attività quotidiane. Realizzata in tessuto Pro-Meteo, ripara dal vento e grazie al trattamento idrorepellente DWR senza PFAS protegge in caso di pioggia leggera. Quando non si indossa, si può comodamente ripiegare all’interno della pratica tasca integrata.

BEST MADE

7.LA SPORTIVA

D ISCOVER SHELL JACKET

Lo stato dell’arte delle giacche da hiking. Da portare sempre nello zaino, presenta un design minimalista e semplice. Un prodotto facilmente comprimibile composto da materiali 100% riciclati e riciclabili. La membrana a 3 strati Evo-Shell la rende impermeabile, resistente al vento e altamente traspirante. Cappuccio strutturato con visiera.

10.ARC'TERYX

KOPEC GTX

Scarpa da trekking per tutte le stagioni, disponibile sia in versione Low che Mid. Il collare e la linguetta modellati in 3D combinano supporto e protezione con eccezionale agilità e comfort. Intersuola a doppia densità, suola Vibram Megagrip con tecnologia Litebase, tomaia in mesh Cordura e membrana impermeabile Gore-Tex ePE.

8.RUDY

PROJECT ASTRAL X

Occhiale sportivo progettato per gli appassionati di sport outdoor. Mantenendo le caratteristiche distintive del modello precedente, Astral X introduce una lente più ampia per una protezione ancora maggiore da vento e luce. Performance ottimali, comfort senza pari ed una montatura realizzata in Rilsan, polimero eco-friendly derivato dall'olio di ricino.

11.SALEWA

SARNER UNDYED WOOL

HOODED JACKET

Interpretazione innovativa del classico Sarner, realizzata in lana naturale non tinta abbinata a una fodera in maglia di viscosa. La sua lavorazione a trama fitta e l'alto contenuto di lanolina garantiscono un calore morbido. È dotata di cappuccio aderente, due tasche per le mani con cerniera e chiusura con bottoni a pressione.

9.PEAK PERFORMANCE

HELIUM UTILITY FLO DOWN JACKET

Helium Utility FLO è l'ultima aggiunta del brand scandivavo al suo innovativo programma Fabric Leftovers che trasforma i tessuti in eccesso in prodotti tecnici ad alte prestazioni. Quattro esclusive e straordinarie varianti di colore a blocchi, isolamento in piuma 90/10 certificato RDS, trattamento idrorepellente privo di PFC.

12.HANWAG

ALASKA XC GTX

I ntrodotto per la prima volta nel 1996, e da allora collaudato nel corso di innumerevoli spedizioni, lo scarpone da trekking Alaska è il classico per eccellenza della collezione Hanwag. Il suo design senza tempo oggi si rinnova con un tocco di stile in più: Alaska XC GTX è disponibile in tre eleganti varianti colore personalizzabili.

1.HELLY HANSEN X CHAOS

FISHING CLUB

ATTRACTOR GTX LIGHT JACKET

Helly Hansen e Chaos Fishing Club hanno lanciato una capsule collection che unisce all’abbigliamento tecnico l’appeal streetwear e la passione per la pesca. Outwear, magliette e cappelli in una palette di colori nero e verde acqua. Tra i drop da segnalare la giacca Attractor in Gore-Tex Active con pantalone abbinato.

4.PNS X PORTER

HANDLEBAR BAG

Progettata su misura per le avventure in bicicletta o il tragitto quotidiano, la quinta collaborazione tra Pas Normal Studios e Porter-Yoshida & Co. vede un aggiornamento della borsa da manubrio, con una forma rettangolare strutturata per un facile accesso, tessuto in nylon idrorepellente e due tasche esterne per gli accessori di uso frequente.

KILLER COLLABS

2.FILSON X HELINOX

SAVANNA CHAIR

Zaino tecnico che si adatta a molteplici attività in montagna, dalle rapide ascensioni su roccia allo sci alpinismo, dall’arrampicata al trekking. Progettato in collaborazione con Charles Dubouloz nell’ambito della vasta collezione Off_Line, interamente confezionata a partire da scarti ed eccedenze di produzione.

5.PICTURE X LA SPORTIVA

ABSTRAL 2,5L XPORE JKT

"Protecting the places we love" è il claim della capsule collection di La Sportiva e Picture, il cui ricavato va alla ONG Protect Our Winters. Oltre alla t-shirt Alpine Conquest, al berretto Mectal e alle calzature in eco-pelle TX4 Evo, la collezione include la giacca ad alte prestazioni Abstral. Con membrana XPORE, è traspirante, impermeabile ed ealasticizzata.

3.KARHU X NORBIT HIKE PANTS

Entusiasmante progetto quello tra Karhu e l'etichetta giapponese di Hiroshi Nozawa. Alla scarpa Fusion XC, aggiornata di colori e materiali, si combina questo pantalone idrorepellente in abbinata. Rinforzo su ginocchia, fianchi e orli in nylon termoretraibile, materiale elasticizzato a quattro vie, toppa in co-branding.

6.OTTO 958 X SUICOKE X VIBRAM FIVEFINGERS NIN-SABO-OTTO

Una collaborazione che segna il primo lavoro congiunto tra Suicoke e Otto 958, singolare progetto tra Kiko Kostadinov e la galleria d’arte Morán Morán. Un approccio sperimentale che dona una nuova prospettiva alla iconica silhouette Vibram FiveFingers, rivisitata in stile mule con audace logo "O" ricamato sulla parte anteriore.

7.YINKA ILORI X THE NORTH FACE

RETRO DENALI JACKET

Dalla collaborazione con l'artista e designer britannico-nigeriano Yinka Ilori, nasce la capsule NSE più giocosa del marchio. Motivi audaci per ispirare tutti noi a sognare a colori, anche nei giorni di cattivo tempo. La collezione rivisita alcuni dei modelli più iconici, come la giacca Denali progettata nel 1989.

10.GRAMICCI X KEEN

JASPER ZIONIC

I due brand di origine californiana celebrano le proprie radici comuni e l'amore per l'aria aperta con questa interpretazione della Jasper Zionic, sneaker retrofuturistica ispirata ai prodotti outdoor dei primi anni duemila. Tomaia in suede accentuata dal motivo a zig-zag che è caratteristico di Gramicci.

KILLER COLLABS

8.CAMP X U.S.

NATIONAL PARKS COLLECTION

La linea Camp di Shwood Eyewear si arricchisce di una nuova capsule che celebra alcuni dei più famosi parchi nazionali degli Stati Uniti, tra i quali Yellowstone, Yosemite, Grand Canyon, Grand Teton, Joshua Tree e Great Smoky Mountains. Nove set coordinati firmati dall'illustratrice e designer Emma Boys.

11.CHARLENE JOHNNY X FJÄLLRÄVEN KANKEN

Per il Kånken Art 2024, Fjällräven si è unito a Charlene Johnny per creare un’edizione speciale dell’iconico zaino che esprime l'opera ancestrale dell'artista Coast Salish delle tribù Quw'utsun, dove gli elementi grafici rappresentano la forma di teste di salmone e di un volto umano. Parte dei proventi del progetto sono destinati all'Arctic Fox Initiative.

9.JANJI X MERRELL AGILITY PEAK 5

Il marchio running wear Janji, noto per le sue collaborazioni artistiche stagionali, ha stretto una partnership con Merrell per una capsule collection ispirata alle steppe della Mongolia. Il pezzo forte della collezione è questa colorata rivisitazione della Agility Peak 5, con un disegno originale dell’artista Ganbold Lundaa, meglio conosciuto come Gawaa.

12.TRACKSMITH X MERCI X WIND VINTAGE TIMEPIECE

Il tempo ha significati diversi da persona a persona. Per i runner, significa tutto. Questa edizione limitata di Tracksmith, creata in collaborazione con Merci e Wind Vintage, è una celebrazione dei valori condivisi sia nell'orologeria che nell'atletica. Cinturino in pelle di vitello, cassa in acciaio inossidabile e movimento Sellita SW 210 a carica manuale.

Behind performance

Miura GTX

Miura GTX è progettata per affrontare terreni misti e impegnativi con agilità, mantenendo la struttura e le caratteristiche tecniche tipiche di tutte le calzature da trekking Kayland.

ECO SEVEN

E NDLESS PROMISE DI NEMO VINCE IL GREEN GOOD DESIGN AWARD

La nuova collezione di sacchi a pelo Endless Promise di Nemo Equipment ha vinto il Green Good Design Sustainability Awards, riconoscimento internazionale assegnato a prodotti, servizi o programmi che hanno promosso e ispirato il progresso sostenibile. Nata nel 2023, la collezione Endless Promise comprende una serie di articoli in mono-polimero progettati con cura per essere totalmente riciclabili a fine vita, elemento cruciale per garantire la circolarità e diventare facilmente qualcosa di nuovo.

D ECATHLON LANCIA DECATHLON PULSE

Una controllata nata per esplorare nuove frontiere e stimolare la crescita a lungo termine, con l’ambizione di favorire il cambiamento a vantaggio delle persone, della società e del pianeta. Pulse si concentrerà su tre strategie principali: costruire e far crescere idee e concept con un potenziale forte per creare nuove imprese autonome che integreranno le attività del gruppo, investire in aziende altamente innovative in grado di cambiare l’ecosistema sportivo e accelerare l’adozione di nuovi modelli di business sostenibili, acquisire brand e distributori di articoli sportivi che stanno rivoluzionando il mercato.

Salomon ha presentato Vision, la prima scarpa da trail running riciclabile. Combina l'esperienza del brand su questo segmento con le conoscenze acquisite nella gamma Index. Progettata per un consumo efficiente dei materiali e una facile separazione, è costruita con una struttura unica che permette di essere tagliata in due, riciclando suola e intersuola in TPU per la produzione di scarponi da sci. È progettata sul riferimento della Sense Ride 5, ma con un'impronta di carbonio del 54% inferiore.

SALOMON PRESENTA VISION, LA PRIMA SCARPA DA TRAIL CON SUOLA RICICLABILE

P OLARTEC: BEYOND BEGINS TODAY - CHAPTER 2

Polartec ha presentato People, secondo capitolo della poliedrica campagna Beyond Begins Today attraverso la quale il marchio mira a sensibilizzare e aumentare l’unione intorno a importanti temi universali, tra cui la sostenibilità, la diversità e il cambiamento positivo. Questa nuova iniziativa, che vede protagonisti Sierra Quitiquit (sciatrice professionista, influencer e attivista), Helgi Oskarsson (CEO di 66°North) e Tyler Maheu (Senior Account Manager di Polartec) esamina il ruolo delle persone e di come ognuno di noi abbia una voce per costruire un futuro più sostenibile.

S ALEWA: LA COLLEZIONE ALPINE LIFE

E L’UTILIZZO DELLA LANA P ER UN BASSO IMPATTO AMBIENTALE

La collezione Alpine Life di Salewa è nata da un’idea precisa: dare vita ed espressione alla cultura alpina, coniugando la tradizione con le esigenze della vita urbana contemporanea, utilizzando fibre naturali come canapa tessile e lana tirolese combinate con materiali sintetici altamente funzionali. Ideale per esplorare la montagna e per l'uso quotidiano in città, i capi della collezione Alpine Life offrono massimo comfort a basso impatto ambientale, contribuendo al mantenimento del paesaggio, del patrimonio e delle antiche tradizioni.

A EVF E CLUB ALPINO ITALIANO

INSIEME PER UN TURISMO SOSTENIBILE

L’Associazione Europea delle Vie Francigene (AEVF) e il Club Alpino Italiano hanno siglato un accordo di collaborazione per promuovere, valorizzare e sviluppare il turismo sostenibile e le attività outdoor legate alla Via Francigena. Nei prossimi tre anni sono previste attività di manutenzione e miglioramento dei percorsi, ottimizzazione della segnaletica e della cartellonistica, revisione della cartografia e l’organizzazione di attività didattiche e formative. Ogni progetto avrà l’obiettivo di rendere la Via Francigena più accessibile e inclusiva, coinvolgendo attivamente le realtà e le istituzioni.

I SPO MUNICH 2024: IL RUOLO FONDAMENTALE DELLA GEN Z

Dal 3 al 5 dicembre ISPO Munich porrà ancora una volta l’attenzione sul legame tra business e sostenibilità e lo farà con un occhio di riguardo alla generazione Z, il più grande gruppo di consumatori del futuro che sta stabilendo standard completamente nuovi nella consapevolezza ambientale. Desideri di cambiamento in linea con le attuali normative UE, ma che stanno mettendo sotto pressione l’industria, costringendola a ripensare l’intera catena del valore. Piattaforme come ISPO offrono l’opportunità unica non solo di presentare materiali, prodotti e tecnologie all’avanguardia, ma anche di farlo in prima persona.

Al Polo Nord sulle tracce del dirigibile

Italia

È il 1928 quando l’impresa dell’aeronauta Umberto Nobile nel cielo artico finisce in tragedia. Quasi un secolo dopo, l'esploratore e Ambassador Kayland Giulio Venditti torna nelle zone più settentrionali della Terra per ripercorrere le orme di quell’epica avventura, una delle più significative del XX secolo

Nel 1928, reduce da un’analoga impresa avvenuta un paio di anni prima, l'esploratore e generale Umberto Nobile sale a bordo del dirigibile Italia e punta ancora una volta verso il Polo Nord. La spedizione, che si concluderà tragicamente, ha un obiettivo ambizioso: raggiungere la zona più settentrionale del pianeta attraversando il cielo artico. Più di novantacinque anni dopo, è l'esploratore e Ambassador Kayland Giulio Venditti (nella foto) a dirigersi con determinazione verso nord per seguire le tracce di Nobile e ripercorrere la sua straordinaria e drammatica avventura. Dopo una prima fase di addestramento in Valle d’Aosta, che si svolge in queste settimane, la spedizio-

ne di Venditti raggiungerà il Polo Nord e verrà successivamente raccontata nel documentario “Timeless Ice - The Red Shelter”, prodotto da Sevenhalf Lab.

Un’impresa storica

A rendere tristemente nota la spedizione del dirigibile Italia di quasi un secolo fa è il fatto che il 25 maggio 1928, forse a causa delle condizioni meteo avverse, l’aeronave si schiantò sulla banchisa al Polo Nord. Una parte dell’equipaggio finì immediatamente dispersa. L’altra metà, tra cui Nobile, si trovò invece a lottare per la sopravvivenza. Mentre i superstiti affrontavano le condizioni estreme del Polo grazie ad alcune provviste e a una tenda rossa, poi diventata in qualche modo il simbolo di questa vicenda, in Italia e non solo si mobilitava un’ampia operazione di salvataggio. Nei tentativi di soccorso diverse persone persero la vita: tra queste anche l’eterno amico-rivale di Nobile, Roald Amundsen, che partì dalla Norvegia con il suo idrovolante senza fare più ritorno. Accompagnato dal suo team, Giulio Venditti si immergerà nelle acque dell’Artico proprio per seguire le orme di questi due grandi esploratori, Nobile e Amundsen. Soldato dell'Esercito Italiano formato nei reparti speciali, negli

anni Venditti ha sviluppato un forte interesse per l’esplorazione in qualsiasi ambiente anche grazie alla capacità di unire discipline come speleologia, alpinismo e subacquea. La sua impresa al Polo nasce come un omaggio alla storia dell'esplorazione polare, oltre che come tributo alle imprese coraggiose di coloro che lo hanno preceduto.

Il documentario Timeless Ice

Tra paesaggi straordinari e condizioni proibitive, la spedizione al Polo Nord metterà certamente alla prova la determinazione di Venditti e del suo team: un aspetto che il documentario Timeless Ice intende sottolineare, ma senza tralasciare i momenti di condivisione, supporto reciproco e solidarietà che rendono i viaggi di questo genere ancora più memorabili. Il documentario vuole anche fornire una ricostruzione storica dell’avventura di Nobile, e infatti una parte delle riprese si svolge sia al museo Umberto Nobile di Lauro, città di nascita dell’esploratore, sia al Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci di Milano. Proprio in questo secondo luogo è custodita l’iconica tenda rossa nella quale i superstiti trovarono rifugio subito dopo lo schianto del dirigibile.

THE PILL SUSTAINABILITY

Fjällräven: la sostenibilità è un gioco di squadra

Dopo la pubblicazione del sommario

“Sustainability and CSR 2023” di Fjällräven, Johanna Mollberg, Sustainability Manager Materials, e Felix Aejmelaeus-Lindström, Sustainable Material & Chemical Specialist, raccontano cosa vuol dire realizzare prodotti davvero durevoli e, dunque, con un minore impatto ambientale

Sono riassunti nel sommario “Sustainability and CSR 2023” di Fjällräven le cifre e i traguardi raggiunti lo scorso anno dall’azienda nel campo della sostenibilità ambientale. Dal documento, consultabile online, emergono dati interessanti. Ad esempio, le sedi operative e di proprietà sono state alimentate con il 100% di elettricità da fonti rinnovabili. Per quanto riguarda i materiali, sono aumentate le percentuali di cotone bio (si è passati dal 96% del 2022 al 97%), fibre preferite (dal 63% al 73%) e lana preferita (dall’82% all’89%). L’espressione “preferita” pare strana, ma è presto spiegata sapendo che Fjällräven utilizza una lista di materiali preferenziali classificati da eccellenti, che sono usati ovunque sia possibile, ad accettabili. Dal rapporto emerge anche che la quantità di capi riparati a livello globa-

le è più che triplicata negli ultimi due anni: erano cinquemila nel 2021, sono diventati 18mila nel 2023. È un dato che porta al centro del discorso un tema che sta a cuore a Fjällräven: la durabilità del prodotto, da intendersi come un gioco di squadra. Da una parte è infatti responsabilità dell’azienda realizzare capi in grado di resistere anni; ma dall’altra sono gli utenti a doversene prendere cura nel modo corretto, anche facendoli riparare quando necessario.

Resistere alla prova del tempo

Come spiega Johanna Mollberg, Sustainability Manager Materials di Fjällräven, «il vero obiettivo non è utilizzare sempre il più durevole dei materiali, ma farlo quando serve. Un materiale potrebbe avere grande resistenza allo strappo e all’abrasione, ma se viene usato con un materiale più leggero e lo consuma, la longevità del prodotto è compromessa. In questo caso la durabilità riguarda la struttura del prodotto, non solo i materiali. È importante anche utilizzare la versione più durevole

THE PILL SUSTAINABILITY

di un materiale nella tipologia di prodotto adeguata. Il cotone jersey non è un materiale particolarmente durevole, ma le magliette Fjällräven in cotone jersey hanno reagito bene ai test per abrasioni, strappi e pilling del tessuto». Johanna invita a essere, sul tema, di ampie vedute: «Alcuni materiali non sono i più resistenti, ma sono comunque la scelta più sostenibile. I materiali riciclati termo-meccanicamente sono meno robusti dei materiali vergini, perché il processo accorcia le fibre e poi le rimette di nuovo insieme. Nella maggior parte dei casi è comunque accettabile, perché la durabilità del materiale riciclato è sufficiente per lo scopo del prodotto. Detto questo, il mio lavoro è ricercare innovazioni sostenibili e il riciclaggio chimico è una soluzione senza compromessi: spezza le fibre a livelli in cui è possibile ricostruirle completamente facendole tornare come nuove».

Una questione di chimica

Di chimica e durabilità parla Felix Aejmelaeus-Lindström, Sustainable Mate-

rial & Chemical Specialist di Fjällräven. Per quanto riguarda le sostanze chimiche dannose, Felix chiarisce che gli standard del brand vanno oltre i limiti imposti dalla legge: «Quando identifichiamo una sostanza chimica che non dovrebbe essere usata, viene del tutto bannata. A differenza di altri nel settore, non prevediamo livelli minimi accettabili. Inoltre, raggruppiamo le “famiglie” di sostanze chimiche bandite e le eliminiamo completamente». Ad esempio, l’uso di PFC è stato totalmente interdetto già nel 2009. Ci sono molte ricerche che ampliano costantemente le conoscenze in merito alle sostanze chimiche e alle loro implicazioni: mantenersi aggiornati è essenziale per fare le scelte giuste. «La European Chemicals Agency è una delle principali fonti di informazione e mi prendo ogni giorno del tempo per leggere e capire l’impatto degli ultimi sviluppi chimici e legislativi», prosegue Felix. «Poiché Fjällräven va oltre la conformità, queste ricerche quotidiane ci aiutano a identificare le possibili sfide del futuro». Guardando appunto al domani, «inve-

ce di usare le bottiglie di plastica PET per il poliestere riciclato, vogliamo usare scarti tessili», dice Johanna. «Sul lungo periodo Fjällräven deve essere di mentalità ancora più aperta rispetto a quanto lo sia già. Prendiamo l’esempio del cotone organico. Abbiamo l’obiettivo di usarlo al 100% entro il 2025, e nel 2023 siamo arrivati già al 97%. Si tratta tuttavia di una coltura che richiede molta acqua, quindi siamo interessati all’agricoltura rigenerativa che migliora il suolo, il territorio e le comunità delle coltivazioni di cotone bio». Aggiunge Felix: «Stiamo esaminando metodi di tintura e rivestimento e facendo ricerche su sistemi a circuito chiuso per la produzione di materiale. Credo che il futuro della gestione chimica sarà influenzato dai metodi di riciclaggio. Ciò significa che l’industria dovrà valutare le sostanze chimiche non solo dal punto di vista della loro pericolosità, o del rischio ambientale, ma anche tenendo conto di come queste sostanze si inseriranno un giorno nei diversi metodi di riciclaggio.».

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Fēnix 8

Lo sportwatch per superare ogni limite

Garmin ha scelto la cornice di UTMB a Chamonix per presentare ufficialmente fenix 8, la nuova e attesa generazione di smartwatch che conta sedici modelli in grado di soddisfare tutte le esigenze. «È la nostra gamma più completa di sempre», ha commentato Stefano Viganò, Amministratore Delegato di Garmin Italia. Diverse le novità introdotte con questa evoluzione, tra cui la doppia opzione per il display, che può essere Amoled o MIP con ricarica solare; i comandi vocali; il set di funzioni dedicate al potenziamento propedeutico a varie attività sportive; e una batteria di maggiore durata che garantisce fino a 29 giorni di autonomia nella versione Amoled da 51 mm in modalità smartwatch e fino a 48 giorni in quella Solar con display always-on. Riferendosi alla progettazione di fenix 8, Martin Resch, Head of Product Management Outdoor EMEA, e Jon Hosler, Lead Product Manager, hanno parlato subito di «una sfida presa molto seriamente». Ovvero, con la consapevolezza che gli smartwatch di questa nuova generazione, così come i precedenti, verranno usati non solo nella quotidianità più o meno urbana, ma anche in situazioni estreme e rischiose, dalle spedizioni artiche al deserto. Per questo nella nuova linea sono rimaste immutate alcune caratteristiche fondamentali che già hanno reso fenix iconico, affidabile e funzionale: il layout pulito, la torcia integrata e la navigazione intuitiva dei menu, ad esempio, ma soprattutto la robustezza estrema garantita anche dall’uso di materiali come titanio, vetro zaffiro e acciaio.

Un doppio display per accontentare tutti

L’opzione Amoled mancava nella linea fenix e, ci ha spiegato Resh, è stata un’aggiunta guidata anche dalle preferenze del pubblico. «È una tecnologia che usiamo già su altri prodotti; e abbiamo notato che ogni volta che passiamo dal MIP all’Amoled gli utenti rispondono molto bene». Nitido e brillante, lo schermo Amoled ha in effetti «un impatto significativo sull'interfaccia utente», ha aggiunto Hosler. «Offre un’esperienza più raffinata, con transizioni più fluide, più pixel con cui lavorare e diversi livelli di luminosità che permettono un’ottima visualizzazione delle mappe e dei dettagli». Lo schermo MIP con ricarica solare ha comunque avuto grande successo nell’ultimo decennio e continuerà ad averne: è sempre attivo, resta ben visibile anche in pieno sole, ha autonomia maggiore... «Le persone amano questo tipo di display», commenta Hosler. «In

definitiva, è una scelta molto personale». Mentre Amoled è disponibile su tutte le dimensioni (43, 47 e 51 mm), l’opzione MIP con ricarica solare è solo da 47 e 51 mm: una scelta non preventivata ma che è stata inevitabile, spiegano da Garmin, perché altrimenti il prodotto sarebbe risultato troppo spesso considerando anche l’aggiunta delle altre funzionalità di questa evoluzione.

Sempre più multisport

La serie fenix era già dotata di un ventaglio completo di attività sportive con la possibilità di monitorare con precisione i parametri di allenamento, carichi di lavoro, defaticamento e performance. Oltre a migliorare la user experience su questo fronte, sono anche state introdotte nuove funzioni di allenamento. Parliamo di workout specifici a corpo libero o con l’ausilio di attrezzi, che possono svilupparsi in veri e propri programmi personalizzati di 4 o 6 settimane, il cui scopo è il progressivo allenamento mu-

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scolare propedeutico al trail running, al nuoto o a qualunque altra disciplina sportiva prediletta dall’utente. «Se ti vuoi preparare per la stagione sciistica, ad esempio», dice Resh, «abbiamo un piano adatto sia per diventare più forte e avere più resistenza, sia per aumentare la stabilità. Non si tratta solo di allenamento della forza, quindi, ma in generale di migliorare come atleta e di prevenire gli infortuni». La nuova generazione di fenix inoltre arricchisce l’offerta multisport con la nuova sezione immersione. La tecnologia di assistenza all’immersione subacquea e i sensori di orientamento permettono di spingersi fino a 40 metri di profondità, con bombole a gas singolo o in apnea, con la certezza di continuare a ricevere dallo smartwatch informazioni chiare e puntuali su profondità, velocità di discesa e tappe di desaturazione. «Tra le novità, questa è la mia preferita», racconta Hosler. «Amo provare attività sportive diverse e ogni volta che c’è una nuova

funzionalità sui nostri orologi, se possibile, mi piace testarla in prima persona prima del lancio... Ecco, questa volta è stato molto divertente!».

Per l’allenamento e per l’uso quotidiano

Fenix 8 offre una serie di funzioni che lo rendono sempre di più non solo un ottimo sportwatch, ma anche uno smartwatch adatto all’uso quotidiano. Un’interessante novità sono ad esempio i comandi vocali, che funzionano anche offline e tramite i quali si possono attivare varie funzionalità (come impostare il timer o avviare una sessione di allenamento), registrare note vocali geolocalizzate o, se lo smartwatch è collegato a uno smartphone compatibile, fare telefonate. Direttamente dal polso si possono eventualmente anche visualizzare notifiche social, ascoltare musica dalle principali piattaforme ed effettuare pagamenti contactless. Nonostante questo, chiarisce Resh, «c’è

una differenza significativa tra uno smartwatch medio e quello che facciamo noi. Noi facciamo orologi con uno scopo, cioè sapendo che chi li indossa fa sport, ha uno stile di vita attivo o è interessato ad averlo. Detto questo, stiamo aggiungendo delle funzionalità smart rilevanti nella quotidianità perché sappiamo anche che gli utenti amano i nostri orologi e vogliono indossarli tutto il giorno». Il microfono e lo speaker sono in questo senso una naturale evoluzione, prosegue Resh, un miglioramento dell’esperienza dell’utente che adesso può, ad esempio, registrare un memo vocale geolocalizzato durante la sua corsa in montagna per ricordare l’esatta posizione di un tratto di sentiero pericoloso e modificare di conseguenza il suo successivo allenamento.

Enduro 3

L’alleato delle ultraperformance fenix 8 si è preso gran parte della scena dopo la presentazione, ma Garmin a Chamonix ha lanciato ufficialmente anche il nuovo Enduro 3, lo smartwatch perfetto per le ultraperformance. Molto resistente, con torcia a led integrata, mappe Topoactive precaricate e tecnologia solare più efficiente, ha un’autonomia estesa al massimo (fino a 320 ore in modalità GPS con ricarica solare) e peso ridotto al minimo (30% in meno rispetto a fenix). «Rispetto a fenix 8, nell’Enduro 3 non ci sono microfono e speaker, quindi non si possono fare chiamate né registrare note vocali. Neanche la funzione diving è supportata», spiega Resh. «A parte questo, però, la maggior parte delle nuove funzioni sono presenti: gli allenamenti per la forza, la nuova interfaccia utente, Dynamic Round Trip...». Disponibile anche su fenix 8, quest’ultima funzione crea automaticamente dei circuiti ad anello della distanza e del grado di difficoltà impostati, modificando istantaneamente il tragitto a seconda delle scelte dell’utente.

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Kiprun 8L Women Trail Bag Un vest (veramente) pensato per le donne

Il tema dell’integrazione e trasporto degli oggetti essenziali durante trail e allenamenti lunghi, oppure gare, è sempre più discusso. I litraggi sono sempre di più, l’innovazione spinge per migliorare ogni dettaglio. È la storia più antica del mondo: se una disciplina ha grande seguito, il livello di performance sia atletica che di prodotto aumenta.

Ne è passato di tempo da quando il gilet era un accessorio extra e a proporlo erano pochi marchi. Ma ancora oggi, fra tutti quelli disponibili, non è scontato che le performance previste per gli atleti uomini siano soddisfatte anche per le donne. I motivi sono numerosi. Uno fra questi è la circonferenza del petto estremamente variabile nella morfologia femminile: da ciò dipendono stabilità e vestibilità. La compressione nella zona del seno è un altro fattore determinante che spesso non viene tenuto in considerazione dai modelli unisex. Ma parliamo invece di questo modello.

Uno sguardo complessivo

Kiprun Women Trail Bag 8L è arrivato sulla scena nel 2023 per completare la già ben fornita gamma di Decathlon con un tocco fresco e femminile che mancava. Il peso, 240 grammi, rientra negli standard di questa fascia di prodotto, mettendo la funzionalità al primo posto. Parliamo di un vest capace di portare fino a 2L d’acqua divisi fra flask e sacca idrica e adatto a uscite e gare lunghe, oppure ad attività escursionistiche dove si vuole rimanere leggere. Noi questo vest ce lo siamo portato a Chamonix: un po’ perché è la sua terra d’ori-

gine, un po’ perché nei giorni di UTMB di chilometri ne maciniamo anche noi professioniste del settore. Non parlo solo delle decine di interviste, gare, appuntamenti… Fra un evento e l’altro ci siamo anche ritagliati del tempo per correre nei sentieri più belli delle Alpi.

La vestibilità

Ossia il punto cruciale di questo gilet. Sappiamo bene che femminile non significa solo “più piccolo”: infatti, noi donne non siamo sempre e solo un uomo in formato mini, tutt’altro! Abbiamo spalle strutturate, curve, muscoli e,

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soprattutto, la circonferenza del nostro petto non dipende solo dalla struttura muscolare. È qui che questo vest fa la differenza. Innanzitutto, le taglie disponibili sono tre: XXS/XS, S/M, L/XL. Per liberare la zona del petto, le tasche per le flask sono posizionate più in basso e lateralmente rispetto al solito, prevedendo l’utilizzo di specifiche flask più corte e larghe con cannuccia estensibile. Lo abbiamo testato sia con quelle fornite che con le normali flask che, seppur non siano pensate per questo modello, si adattano discretamente. La chiusura frontale è strutturata su tre clip, di cui

una fissa e due posizionabili a piacimento. Infine, una regolazione aggiuntiva con coulisse all’estremità inferiore rende il fit assolutamente perfetto e personale.

Le tasche

Ne possiamo contare ben undici. Troppe? Mai. Sicuramente non parliamo di un oggetto minimale, ma quando si prevede di stare sui sentieri per più ore, il minimale è sempre rischioso. Nella parte anteriore, le prime cinque tasche: due per le flask da 500 ml, una tasca waterproof per lo smartphone, due tasche per gel o barrette.

All’interno di quella di destra ci trovate anche un fischietto per le emergenze. Ai lati, invece, altre due tasche in tessuto stretch per accessori vari come guanti, scaldacollo, fascette... Infine le quattro posteriori ne contano una “a canguro”, con aperture laterali per accedere a giacca, gilet, strato protettivo con facilità. Il compartimento principale sul retro è dotato di cerniera nastrata e di un’ulteriore tasca al suo interno, anch’essa con chiusura a zip e isolata. Infine, la tasca per la sacca idrica da 1L e un sistema adatto al fissaggio di un portabastoni.

PHOTOS DENIS PICCOLO

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Davide Magnini: l'arrivo in New Balance e buone sensazioni sui sentieri del Monte Bianco

Chalet Les Arolles, Chamonix, agosto 2024. È poco prima di mezzogiorno e all’expo c’è movimento. OCC è partita e i primi arriveranno sotto l’iconico arco fra qualche ora. È una giornata caldissima, il ghiaccio del Mont Blanc scintilla riflettendo i raggi del sole di fine estate. Dal centro saliamo di qualche decina di metri per raggiungere la parte alta della cittadina, dove sorgono bellissimi chalet con un panorama mozzafiato. Davide Magnini è proprio lì, su un balcone, con i colori di New Balance.

Davide è sorridente e fiero, grato di trovarsi lì e soprattutto di aver potuto finalmente fare ciò che ama di più: correre. L'atleta trentino è infatti reduce da un infortunio, il peggior incubo di ogni atleta. E non parliamo di una storta alla caviglia, ma di un problema che condiziona la sua carriera da più di un anno ormai. Insomma, non potevamo non farci due chiacchiere per soddisfare la curiosità di tutti voi!

Nuovo team, nuove scarpe, nuovi colori. È iniziata questa primavera la tua avventura con New Balance. Cos’è per te la cosa più importante nella collaborazione con un brand? Sicuramente la cosa più importante, in primis quando un atleta è in forma e sano, sono i prodotti e nello specifico le scarpe, per potersi esprimere al 100%. A oggi però le cose sono cam-

biate e il prodotto non è più l’unica priorità. Con l’avvento dei grandi brand della corsa, anche nella scena trail, la qualità e la performance dei prodotti si è estesa: correre con scarpe buone non è un lusso, ma una possibilità per tutti. Diversamente, lo spirito di gruppo e il supporto a livello di team fanno la differenza. In casi come il mio, dato che sto affrontando un infortunio importante, il supporto e la presenza di un team hanno un potere cruciale che prima sentivo mancare. La comunicazione e il rapporto diretto con le persone sono aspetti molto importanti per me. In New Balance fin da subito c'è stata una bella intesa che, anche in un anno di fermo dalle gare, mi ha comunque permesso di essere partecipe all'attività della squadra, di rendermi utile e dare il mio contributo per far crescere il progetto trail.

Sicuramente anche l’approccio al tema infortunio conta molto... Cer-

to! Sono stati tutti molto comprensivi: mi lasciano il tempo per arrivare alle gare il più preparato possibile, senza fretta e senza rischio di ricadere in un altro infortunio. È un team molto disponibile e aperto da questo punto di vista e, dal lato mio, do una mano per quel che posso su altri aspetti come sviluppo materiali, comunicazione e interviste.

A livello di attrezzatura, passare da un brand all’altro a voi atleti richiede tempo e attenzione, oppure è un fattore facilmente modificabile? Correre con un'unica scarpa oggi non succede più: la varietà di modelli e il fatto che siano in continua evoluzione, subendo variazioni ogni anno, fanno sì che un atleta élite sia abituato al cambiamento. Alla fine passare da un brand all'altro non è una tragedia: ci si adatta velocemente, si tratta solo di trovare all'interno della gamma la scarpa adatta al tuo tipo di corsa, al tuo piede, alla tua tecnica.

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C'è una scarpa New Balance che ti ha sorpreso particolarmente?

La Fuelcell Rebel v4 per la strada o la Fuelcell SupercompPacer v2: queste nuove scarpe con la piastra in carbonio sono una novità per me che ho sempre e solo corso con scarpe pensate per il tecnico e la montagna. Per quanto riguarda il trail, invece, direi la Fuelcell Venym, con intersuole in Pebax molto ammortizzanti e allo stesso tempo leggere e reattive. Mi ci trovo molto bene.

Sei a Chamonix durante UTMB, ma senza poter gareggiare. Come la stai vivendo? Innanzitutto, dopo quasi un anno questa è una delle settimane in cui ho corso di più, quindi sono già felice di aver potuto correre un po’ con i miei compagni di squadra. Sono stato qui anche a giugno per la Marathon du Mont Blanc, ma in quel caso ho potuto solo allenarmi in mountain bike, senza uscire sui sentieri. Già questo è un bel passo avanti, quindi!

Al posto di dedicare i giorni precedenti alla gara al riposo per arrivare il più in forma possibile alla gara, appunto, ho potuto condividere con i miei compagni qualcosina in più in allenamento, e apprezzare i sentieri che offre questo playground impressionante. Normalmente quando arrivi sul campo di gara per la competizione, i giorni prima non hai la possibilità di uscire per tante ore.

Questa volta invece sono stato in posti che non avevo mai visto. Sicuramente vedere e dare una mano a tutto quello che è il dietro le quinte di questo evento gigante mi ha impressionato tanto: il pubblico appassionato, la quantità di persone veramente amanti del trail... Ritrovare tutti sui sentieri, emozionati ed esaltati per il trail running, è veramente bello. Averlo vissuto sulla propria pelle, e non attraverso i video che vedevo ogni anno online, è stato bellissimo.

Ti è venuta gola di correre una delle distanze di questa settimana?

Sicuramente, l’avevo già da prima! Diciamo che non sono un corridore da lunghe distanze al momento, e non penso lo sarò in futuro.

Però OCC è sempre stata una gara che ho visto come possibile distanza nelle mie corde, pur non avendo mai corso più di 50 km. Però seguire in diretta streaming sul percorso molti ragazzi contro cui ho corso, e che conosco molto bene, mi ha fatto venire ancora più voglia di buttarmi anche io. Spero già il prossimo anno! Ovviamente bisogna riuscire a qualificarsi durante il 2024, quindi vedremo come va questa fine di stagione.

Come procede il tuo percorso di recupero dall’infortunio? Fin da subito ho cercato con tutto me stesso di fare i passi che vanno fatti, tra esami diagnostici e visite specialistiche, per avere una diagnosi del problema e affrontare un percorso specifico di recupero. Il problema con il mio infortunio è che ancora oggi non ho una diagnosi esatta: gli effetti si vedono quando provo a correre e allenarmi, però non se ne capisce la causa. Purtroppo ogni volta che ho provato nell'ultimo anno e mezzo a ritornare alle corse e ad allenarmi più forte, si sono ripresentati il fastidio e l’infiammazione all'inguine destro e all'anca, non ancora spariti del tutto. Anche senza sentire dolore, la gamba destra non spinge come l'altra, non è in grado di esprimere la stessa potenza e velocità.

A settembre farò un'altra TAC, spero l'ultima, per poi capire come guarire del tutto. Mi sono imposto di arrivare in fondo: voglio trovare la soluzione, costi quel che costi. Finché qualcuno non mi dirà “hai questa frattura, questo problema per cui non puoi più correre come una volta”, o il contrario… Finché non arrivo lì, non mi non mi do per vinto e continuo.

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Maison La Sportiva L'arrampicata trova casa a Parigi

Un hub innovativo con tanti eventi dedicati agli appassionati di arrampicata e, ovviamente, con un maxischermo per seguire le gare olimpiche. Ecco cosa è stato Maison La Sportiva, speciale appuntamento con l’azienda trentina nella capitale francese

Per gli appassionati di arrampicata quest’estate l’appuntamento da non perdere sono stati ovviamente i Giochi Olimpici di Parigi 2024, la seconda edizione in cui la disciplina è stata presentata dopo il debutto assoluto a Tokyo e la prima con due set di medaglie (Speed da una parte, Boulder&Lead dall’altra). Non è un caso allora che dal 5 al 14 agosto proprio la capitale francese sia diventata temporaneamente la «casa» di La Sportiva, storica azienda della Val di Fiemme leader nella produzione di scarpette e abbigliamento tecnico per l'arrampicata.

Maison La Sportiva, questo il nome dell’evento, è stato per una decina di giorni un hub innovativo, in partnership con le palestre Arkose Pantin e Climb Up Aubervilliers, che ha ospitato eventi imperdibili per tutti gli appassionati di arrampicata. Sono stati organizzati ad esempio oltre dieci workshop con Ambassador La Sportiva, tra cui James Pearson, Nao Monchois e Caroline Ciavaldini. Quest’ultima ha anche registrato alla presenza del pubblico i podcast da lei condotti. A programma ci sono state inoltre quattro gare di arrampicata non competitive aperte a tutti i climber, che avevano anche la possibilità di provare in anteprima le nuove scarpette del brand. Immancabile, ovviamente, uno schermo gigante per seguire gli eventi di arrampicata in corso.

Ciliegina sulla torta, Maison La Sportiva è stata l’occasione per ripercorrere attraverso una mostra la storia dell’azienda trentina, che - nata come piccola bottega artigianale - è cresciuta fino a raggiungere una dimensione globale, con sedi e distributori in tutto il mondo. Per fare un esempio, portano la firma di La Sportiva, che da anni collabora con la Federazione per l’abbigliamento e l’attrezzatura tecnica degli atleti FASI, le divise olimpioniche ufficiali indossate dai climber Matteo Zurloni, Beatrice Colli, Camilla Moroni e Laura Rogora. Creata nel 1928 dal calzolaio Narciso Delladio di Tesero, in Val di Fiemme, La Calzoleria Sportiva - originariamente era questo il nome del laboratorio - si è evoluta nel corso di quasi un secolo fino a diventare il marchio leader a livello mondiale nei settori dell'arrampicata, dello scialpinismo, del trail running e dell'alta montagna. La tradizione in questi ambiti è stata portata avanti da quattro generazioni della famiglia Delladio, rappresentata oggi dall'Amministratore Delegato Lorenzo Delladio, a cui nel 2020 si è affiancata la figura di Marcello Favagrossa nel ruolo di General Manager.

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Luca Montanari Sui 7000 con Ortovox

Guida alpina, mental coach e Ambassador

Ortovox, Luca Montanari è da poco tornato da una spedizione fino alla vetta del Peak Lenin e ci racconta l’importanza di prepararsi bene alle sfide ad alta quota: sia con il corpo, sia con la mente

In una spedizione ad alta quota non conta solo il corpo, ma ha un ruolo chiave anche la mente. Luca Montanari, 43 anni, guida alpina e Ambassador Ortovox, lo sa bene. Ad agosto ha guidato un gruppo di alpinisti nelle remote montagne del Kirghizistan, conducendoli lungo la via normale fino alla vetta del Peak Lenin, a 7.134 metri di altitudine. Luca ha scoperto la passione per l'arrampicata da giovane e, a soli quindici anni, ha scalato la sua prima via nelle Dolomiti, iniziando a inseguire il sogno di diventare una guida alpina. Un obiettivo che ha raggiunto qualche anno dopo, nonostante un grave incidente in montagna all'età di 21 anni avesse reso il recupero più complesso, soprattutto dal punto di vista mentale. È probabilmente anche questa esperienza che lo ha spinto ad ampliare le sue competenze, specializzandosi nel mental coaching sportivo.

Le fasi della preparazione

Montanari ci ha spiegato qual è il suo approccio per mettere gli alpinisti nelle condizioni migliori, così da affrontare sfide estreme in alta quota. La prima fase della preparazione prevede giornate di conoscenza in ambiente, per comprendere il carattere, il vissuto e la capacità mentale di ciascun partecipante a gestire le difficoltà di una spedizione, che sono diverse da quelle delle Alpi. Particolare attenzione viene data alla gestione dei gruppi numerosi, come l'organizzazione dei campi e l'assegnazione dei compagni di tenda, per garantire un buon equilibrio tra i partecipanti. Montanari considera fondamentale creare un clima di fiducia e collaborazione tra tutti i membri del gruppo, utilizzando una comunicazione aperta e costante. Dopo aver stabilito una buona fiducia reciproca,

si passa alla fase tecnica, fornendo consigli strategici e pratici su come affrontare le salite.

Con le gambe e con la testa

La mente è cruciale per migliorare le prestazioni fisiche. Durante l'ascesa all'Everest con l’atleta paralimpico e alpinista Andrea Lanfri, ad esempio, la sintonia e la positività li hanno aiutati a superare le difficoltà senza cedere allo sconforto: proprio la convinzione di arrivare in vetta ha permesso loro di godere dell'esperienza dall'inizio alla fine. Per questo Luca ha l’abitudine di dialogare costantemente con i partecipanti alla spedizione, per comprendere le loro emozioni e avere feedback continui, e in occasione della recente spedizione al Peak Lenin ha organizzato un percorso formativo per preparare gli alpinisti mentalmente, oltre che fisicamente.

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Il programma includeva incontri con un preparatore atletico per migliorare l'allenamento, con una nutrizionista specializzata in alimentazione in ambienti estremi, e con un medico esperto di medicina di montagna per comprendere i rischi dell'alta quota.

L'ultima fase della formazione si è svolta in quota, con esercitazioni pratiche su tecniche di arrampicata e utilizzo dei materiali, insieme a consigli su come gestire le attività quotidiane nei campi alti. Questo percorso ha permesso a Luca di creare coppie omogenee tra i partecipanti, basate su caratteristiche e competenze complementari, aumentando così la sicurezza e la coesione del gruppo.

Migliorare la resistenza mentale

In termini di mental coaching, Luca ha lavorato con il gruppo per insegnare

tecniche di gestione dello stress e degli stati emotivi, focalizzandosi sugli esercizi di respirazione per migliorare la resistenza mentale. Ha insistito sull'importanza dell’ascolto del proprio corpo e del respiro durante la salita per rimanere vigili e mantenere uno stato mentale positivo. Luca sottolinea di nuovo anche il ruolo cruciale della comunicazione e della fiducia tra i membri del gruppo per evitare crisi emotive in situazioni estreme.

L'ultima settimana prima di partire, lui e il suo team hanno effettuato test e simulazioni in una camera ipossica, ottenendo feedback immediati e utili per la gestione delle condizioni fisiche in alta quota. Ultimo ma non meno importante, per Luca la scelta dell'abbigliamento è un altro aspetto essenziale della adeguata preparazione a una sfida in alta quota: la guida alpina collabora infatti con il brand Ortovox, apprezzando i

capi tecnici in lana merinos, ideali per le spedizioni di più giorni, perché garantiscono calore e richiedono pochi lavaggi.

Verso la cima, in sicurezza

Una preparazione accurata, conclude Luca, è fondamentale per ridurre i rischi e aumentare le probabilità di successo in una spedizione: è un tema che gli preme molto sottolineare soprattutto alla luce del fatto che negli ultimi anni ha notato un calo della consapevolezza e della cultura in montagna, una situazione che rende di conseguenze ancora più urgente fornire una formazione più approfondita. Questo approccio, insieme alla diffusione di informazioni attraverso webinar o altre forme di educazione, può aiutare gli alpinisti a diventare più consapevoli delle proprie capacità e risorse, rispettando l'ambiente montano.

Filippo Canetta How Bad do you want it?

Caldo estremo, 135 miglia di strada, più di 4500 metri di dislivello. Filippo Canetta, ultrarunner e fondatore di Wild Tee, ci racconta la sua Badwater, ultramaratona che si è guadagnata la fama di gara più dura al mondo.

La partenza è nella Valle della Morte, al Badwater Basin: 85 metri sotto il livello del mare, è convenzionalmente indicato come il punto più basso del Nordamerica. L’arrivo è ai piedi del monte Whitney, la vetta più alta degli Stati Uniti contigui. Nel mezzo, un dislivello di più di 4500 metri e 135 miglia (ovvero 217 km) che attraversano alcune delle zone più calde del pianeta. E non per modo di dire: proprio nella Valle della Morte nel 2013 è stata registrata la temperatura da record globale di 54 °C. È la Badwater, l’ultramaratona che si è comprensibilmente conquistata la fama di gara più dura al mondo. Cento i partecipanti ammessi annualmente alla storica competizione di metà luglio, tra cui quest’anno anche Filippo Canetta, ultrarunner, CEO e fondatore di Wild Tee.

Filippo, cosa ti ha spinto a iscriverti alla Badwater? Sai che non lo so ancora con esattezza? Odio il caldo e nelle gare calde ho sempre avuto delle crisi epiche, inoltre mi piace fare le cose da solo senza coinvolgere nessuno (mentre la Badwater si svolge in uno dei punti più caldi della Terra e i concorrenti sono obbligati ad avere un veicolo di suppor-

to con almeno due persone). Probabilmente dopo più di 15 anni e più di 110 Ultra avevo bisogno di una nuova sfida che mi spingesse ad affrontare le mie paure e la Badwater le incarnava perfettamente.

Come funziona il meccanismo di ammissione alla gara? La gara esiste da 47 anni e l’idea alla sua base era molto interessante: correre dal punto più basso al punto più alto degli Stati Uniti (Alaska esclusa), nel periodo più caldo dell’anno. Visto che il percorso originario era piuttosto difficile da concludere (ben pochi sono riusciti nell’impresa), circa 35 anni fa la gara è stata leggermente ridotta, con il traguardo posto non alla vetta ma ai 2.552 metri del Whitney Portal, dove finisce la strada asfaltata. Il numero dei concorrenti è limitato a 100. L’ammissione è su invito dopo aver presentato il proprio curriculum gare ed esperienze al severo giudizio del direttore gara Chris Kostman, che da 25 anni ne gestisce l’organizzazione.

Come ti sei preparato? In città non è sicuramente facile allenarsi per certe distanze e per certi ambienti. Prepararmi per la nuova sfida che si sarebbe svolta in condizioni climatiche difficili era la cosa che mi affascinava di più. Purtroppo, il mio percorso di avvicinamento è stato più complicato del previsto. Mi sono infortunato e in Lombardia fino a fine giugno ha fatto “freddo”. Così, come succede nelle gare molto lunghe, ho dovuto adattarmi. Ho fatto meno

chilometri del previsto e ho corso solo una gara lunga, una 24 ore in pista. Per quanto possibile ho cercato di adattarmi al caldo facendo delle lunghe sedute in sauna a 80 °C. Non è stato facile e alla partenza della gara mi sono subito reso conto che non ero pronto per quelle temperature.

La chiamano “la gara più dura al mondo”. Ora che l’hai corsa, e pensando anche alle altre prestazioni notevoli che ti sei già portato a casa nel corso degli anni, cosa ne pensi? A questa cosa non ho fatto molto caso all’inizio. Ci sono sicuramente gare più lunghe, ho corso la Spartathlon e la Sakura Michi da 250 chilometri; ci sono gare su terreni più difficili, ho corso la PTL e il Gran Raid de la Réunion; ci sono gare in luoghi molto caldi, ho corso la Marathon des Sables... Ma la combinazione di 220 chilometri su asfalto con oltre 4500 metri di dislivello positivo a 50 °C rendono la Badwater sicuramente una delle gare più dure al mondo, o almeno così è stato per me.

Sul blog di Wild Tee, dove si possono leggere anche altre storie vissute di ultrarunning, hai scritto un ricco e dettagliato resoconto della tua Badwater. Riassumendo al massimo, come è andata la gara? In sintesi, non benissimo dal punto di vista della performance, molto bene dal punto di vista dell’esperienza umana. Ho avuto molte difficoltà, ma aver condiviso le mie debolezze con mia moglie, mia figlia e un mio amico l’ha resa un’esperienza unica.

Quali sono state le difficoltà maggiori che hai incontrato, e in che modo sono state diverse da quello che avevi immaginato? Le difficoltà sono cominciate già prima della partenza con voli cancellati e 26 ore in aeroporto il giorno prima della gara, ma la difficoltà maggiore è stata, ovviamente, il caldo: quest’anno le temperature hanno raggiunto i 52 °C. In quelle condizioni il mio cervello, oltre ai soliti segnali di allarme sugli altri organi come stomaco e muscoli, mi ha tormentato con estenuanti crisi di sonno! Era come se l’unica soluzione per sopravvivere al caldo fosse quella di dormire. Non mi era mai

successo, barcollavo in mezzo alla strada e ogni volta che mi fermavo dopo aver raggiunto la nostra macchina non riuscivo a resistere. Non ho mai dormito così tanto in una gara!

Tornando indietro, c’è qualcosa che faresti diversamente? Quasi tutto! Ma la cosa più importante sono gli accordi pre-gara con la propria squadra di supporto. Io ero preoccupato per loro, che dormissero e che mangiassero; loro erano preoccupati per me che stavo rallentando per i vari problemi. Bisogna fare un piano e imporsi di rispettarlo ad ogni costo, fermandosi il meno possibile.

So che nel corso della gara ci sono stati momenti di rabbia, sconforto, paura, ottimismo... Qual è l’emozione che per te funziona meglio come carburante per le gambe e per la testa? Il secondo giorno stavo un po’ meglio, come se dopo 24 ore in quell’inferno mi ci fossi, almeno un po’, abituato. La mia crew aveva accettato le mie debolezze e il fatto che ci avremmo messo dieci ore in più del previsto. A quel punto eravamo pronti a tutto pur di finire la gara, abbiamo cominciato a scherzare sulle difficoltà e neanche una gomma bucata ci ha fermato. Quella è stata un’emozione che ricorderò per sempre.

Come accennavi, ogni partecipante è obbligato ad avere una crew di supporto. Quanto è stato decisivo il ruolo della tua?

Ha reso la tua corsa un’impresa meno solitaria? Ho sempre pensato che la corsa fosse uno sport individuale, ma questa volta senza il supporto di Giuliano, Irene e Cecilia non ce l’avrei mai fatta! Li ho sottoposti alle peggiori torture e ho condiviso con loro momenti di difficoltà terribili. Avrei voluto fare meglio per ripagare adeguatamente il loro sforzo.

Prossimo obiettivo? Cosa si corre dopo aver chiuso la gara più dura al mondo? Scherzosamente dico a Irene che la vorrei rifare per correrla meglio, ma non credo che mi seguirebbe questa volta. L’anno prossimo vorrei correre per la seconda volta la Marathon des Sables per rivivere l’esperienza del deserto, ma sono ancora alla ricerca di un nuovo obiettivo.

SextenDoloExtrem

Una nuova sfida tra le Dolomiti di Sesto

Lo scorso 9 agosto Simon Gietl del team Salewa People e Dani Arnold hanno scalato, in meno di 24 ore, le pareti nord di Cima Una, Croda dei

Toni e Cima Grande di Lavaredo, percorrendo a piedi ogni trasferimento.

Quasi 30 km, circa 4.700 metri di salita e 75 tiri di corda fino al VII grado concatenando vie che hanno segnato l'epoca d'oro del sesto grado

Sono trascorsi 150 anni da quando l’alpinismo ha mosso i primi passi tra le Dolomiti di Sesto. Centocinquant’anni anni di imprese eroiche, trionfi gloriosi, tragici fallimenti. Nel mezzo una storia fatta di grandi avventurieri e indiscussi maestri della scalata, di sana e profonda passione. Al periodo delle leggendarie prime ascensioni, tra il 1869 e il 1890, seguì un’ondata di giovani e ambiziosi alpinisti, determinati ad aprire nuove vie, sempre più insidiose. Quando si esaurì anche questa seconda tappa, subentrò quello che potrebbe essere definito lo Sturm und Drang dell’alpinismo: si presero di mira le pareti rocciose più ripide, gli strapiombi; a volte senza nemmeno l’ausilio di attrezzi. Imprese magistrali che presupponevano eccellenti abilità tecniche e che valsero ai loro protagonisti fama e gloria. La nord della Cima Piccola, ad esempio, convertì Sepp Innerkofler in un autentico eroe e, dall’oggi al domani, nella guida alpina più richiesta del-

la zona. Gli anni Trenta del Novecento celebrarono la nascita del grado di difficoltà più alto: il sesto. Quando di lì a poco la nord della Cima Grande fu conquistata, parve per un istante che le Dolomiti di Sesto non avessero più sfide da offrire. Ma così non era.

Tra quelle prime ascensioni, ce n’é una che è doveroso ricordare. Nel settembre del 1874 i fratelli Michl e Johann Innerkofler raggiunsero per la prima volta la cima della Croda dei Toni, la vetta più imponente della Meridiana di Sesto, fino ad allora inespugnabile e inespugnata. Centocinquant’anni dopo questa montagna è ancora una volta al centro di un progetto alpino. E proprio da uno dei suoi protagonisti, l’atleta altoatesino Simon Gietl, parte del team Salewa People, ci siamo fatti raccontare la genesi. «L’idea è nata lo scorso autunno per merito di Toni Obojes, collega e guida alpina di Valdaora, classe 1968. Mentre arrampica-

vamo, mi raccontò di questo suo pallino. Da tanti anni si chiedeva se fosse possibile mettere insieme, in giornata, queste tre pareti iconiche delle Dolomiti di Sesto. In quel preciso istante capii che sarebbe stato il progetto su cui mettere la testa nel 2024».

Simon e Dani hanno dato il via a SextenDoloExtrem alle 4 del mattino, direttamente dalla nord di Cima Una (Einserkofel). I due hanno impiegato 3 ore e 38 minuti per percorrere gli 800 metri di Via della Giovinezza, o Weg der Jugend, il capolavoro di sesto grado superiore firmato da Hans e Paula Steger nel 1928, che nel libro di Walter Pause e Jürgen Winkler, “100 Scalate Estreme”, è introdotto così: “La fisionomia tipica dolomitica, impressionante, fredda e severa. L’architettura di questa massiccia parete, su cui il sole non batte mai, costituita da lastroni color nero come l’inchiostro e giallo come lo zolfo, con canaloni,

DANIEL HUG

camini e fessure tormentate, spesso ricolme di neve, affascina per la sua violenza e la sua inospitale nudità”.

Dopo la discesa per la lunga e articolata Via Normale, e il cammino fino all'attacco della parete nord di Croda dei Toni (Zwölferkofel), i due alpinisti hanno salito i 700 metri della Via Schranzhofer, VI grado, in un tempo record di 2 ore e 58 minuti. Era il 1935, l’epoca d’oro dei fratelli Toni e Franz, che con la loro spettacolare ascensione dello spigolo nord di qualche anno prima si erano fatti un nome nei circoli alpinistici. «Dopo la prima cima ci siamo fermati per una colazione al Rifugio Zsigmondy-Comici», prosegue Simon. «Lì abbiamo trovato delle persone che ci hanno riconosciuto e ci hanno chiesto come avessimo pianificato quel progetto. In quel momento ci siamo resi conto che non avevamo mai parlato di tecniche o tattiche. Nella scalata era come se fossimo un tutt’uno, con le stesse skills, e non c’era bisogno di condividere o discutere sul da farsi. Era come se fosse stato tutto chiaro, spontaneo e naturale già dall’inizio».

Rientrati per la Via Normale è iniziato il trasferimento alla Cima Grande di Lavaredo, che entrambi conoscono molto bene. Nel 2019 Arnold aveva salito la parete nord, proprio sulla Comici – Dimai, in appena 46 minuti. Una classica senza tempo, via simbolo dell’arrampicata in Dolomiti, nella lista dei desideri di ogni scalatore che abbia conquistato queste difficoltà. I due alpinisti sono riusciti a completare il trittico alle 19, in 15 ore esatte. Raggiunto l'obiettivo e trascinata dall'entusiasmo, la cordata è scesa per la Via Normale fino ai piedi della Cima Grande, attraversato la sella Paternsattel per poi, dopo altri 10 chilometri, terminare con l’arrivo in Val Fiscalina. Un progetto brillante, “a km 0”, che ancora una volta ha visto Simon impegnato a valorizzare le montagne della sua terra, fermo sostenitore del concetto che “l'avventura si può trovare

dietro casa”. Ma perché proprio queste tre montagne? E perché proprio queste tre vie? «La Comici–Dimai sulla Cima Grande di Lavaredo è una via molto conosciuta. Se si parla delle Dolomiti di Sesto, era abbastanza ovvio che fosse inclusa nel progetto. Le altre due sono altrettanto iconiche ma poco frequentate; hanno al massimo 2 o 3 ripetizioni l’anno. Nel giro degli alpinisti, sono vie che fatte una volta non vengono più replicate. Complice la vicinanza delle Tre Cime di Lavaredo, i lunghi e scomodi accessi e la qualità della roccia, spesso bagnata. Abbiamo voluto dargli nuova enfasi e visibilità, il valore che si meritano. Il fatto che lo stesso Reinold Messner si sia complimentato per la scelta fa comprendere ancora di più il pregio di questa combinazione».

I due non sono certo estranei ad imprese del genere. Gietl è uno degli alpinisti più attivi nelle Dolomiti. Arnold ha, per certi versi, basato la sua carriera sulle salite in velocità in tutto l'arco alpino. Ma questa era la prima volta che i due si legavano insieme alla stessa corda. «All’inizio, quando Toni mi aveva parlato di questo progetto, gli avevo ovviamente proposto di unirsi, ma la risposta è stata: “se me lo avessi chiesto 30 anni fa”. Mi ha dato carta bianca nell’utilizzare la sua idea e proporla a qualcun altro: “Cerca il compagno giusto. Sono contento se lo fai tu”. Dani è stata la prima persona a cui ho fatto riferimento. Quando sono tornato dal Meru (apertura di Goldfish, 800 metri, M6+ A1 insieme a Mathieu Maynadier e Roger Schäli), Dani mi aveva contattato per farmi i complimenti e mi aveva chiesto se volessi unirmi a lui per un viaggio in Perù. Ma sarei dovuto ripartire il mese successivo e avevo bisogno di stare un po' con la famiglia. Da allora siamo sempre rimasti in contatto, promettendoci che sarebbe arrivato il nostro progetto. E così è stato. Era qualcosa di assolutamente adatto a lui e alle sue caratteristiche e devo dire di aver trovato il partner perfetto per muoversi velocemente in montagna».

Il progetto North3 con Vittorio Messini, quello North6 con Roger Schäli, l’invernale sulla nord dell’Agner lo scorso dicembre. Le pareti nord delle Alpi esercitano già da tempo un fascino particolare su Simon, così come i concatenamenti, sia estivi che invernali. «Le nord hanno il fascino della natura; nelle Alpi sono le più belle e le più difficili. Come alpinista c’è un certo percorso di crescita. È normale iniziare con vie singole, ma poi subentrano le sfide personali, della serie: quasi quasi potrei fare due vie in giornata. E così si cerca di andare sempre più su. I concatenamenti ti danno la possibilità di mettere insieme più cose, la motivazione qui è ancora più grande. L’importante è fissare un obiettivo che non sia troppo facile. Il vero focus finale deve essere una sfida. Ce la farò? Così c’è modo di dedicarsi e impegnarsi a pieno su qualcosa per intere settimane. Questo ti motiva e ti fa crescere ulteriormente. Anche perché, con il tempo, le sfide diventano sempre più grandi».

"I concatenamenti ti danno la possibilità di mettere insieme più cose, la motivazione qui è ancora più grande. L’importante è fissare un obiettivo che non sia troppo facile. Il vero focus finale deve essere una sfida. Ce la farò? Così c’è modo di dedicarsi e impegnarsi a pieno su qualcosa per intere settimane. Questo ti motiva e ti fa crescere ulteriormente. Anche perché, con il tempo, le sfide diventano sempre più grandi."

Arrampicare sui colori

Lo hanno fatto i climber Kieran Forrest, Holly Toothill e Clément Lechaptois in Marocco, per uno stupefacente progetto di bouldering e fotografia supportato da Arc'teryx che li ha costretti a rimettere in discussione il loro abituale modo di arrampicare

In Marocco esiste un posto incredibile dove arte e natura si fondono, dove la mano degli elementi e quella dell’uomo hanno creato insieme un paesaggio unico e immaginifico e dove un gruppo di climber ha deciso di mettersi alla prova in un progetto di bouldering dal forte impatto scenico. Painted Rocks è infatti non soltanto un’opera d’arte a cielo aperto nei dintorni di Tafraout, cittadina di case basse e granito incastonata nella catena montuosa dell’Atlante, ma anche un posto perfetto per scalare. Ma andiamo con ordine: se questo posto sperduto in una zona montuosa e poco accessibile del Marocco ha iniziato ad apparire sui radar di sempre più visitatori non è solo per le formazioni di granito che fanno gola ai climber, ma anche perché l’artista Jean Verame, nel 1984, ha dipinto alcune rocce utilizzando 18 tonnellate di vernice blu, rosa, rossa e nera per creare questa straordinaria ope-

ra d'arte, che oggi costituisce un museo a cielo aperto. Verame, che ha dedicato l’opera alla moglie scomparsa, ci ha messo tre mesi a completare la valle, dipingendo i massi di granito con colori psichedelici: le rocce rosse brillano alla luce del sole mentre le rocce blu, che sembrano collegate al cielo, creano un parco giochi surreale all'interno del paesaggio naturale.

«Il paesaggio intorno a Tafraout era mozzafiato», racconta il climber Clément Lechaptois che, come Kieran Forrest e Holly Toothill, è supportato da Arc’teryx. «Un mare infinito di massi che si estendevano a perdita d'occhio. La zona delle rocce dipinte era particolarmente incredibile, quasi surreale. Essere in mezzo al deserto, circondati da questi enormi massi colorati, è stato qualcosa di speciale. Inizialmente mi sentivo un po’ a disagio ad arrampicare su un’opera d’arte, ma allo stesso tempo ne

ero incredibilmente affascinato. Sono abituato a fare affidamento sulla consistenza e sull'attrito della roccia, ma in questo caso non era davvero un'opzione, quindi ho dovuto abbandonare le mie abitudini di arrampicata e ripensare completamente il mio approccio: in questo senso è stata una boccata d’aria fresca. In più abbiamo trascorso il nostro tempo alla ricerca di combinazioni di massi belli e caratteristiche interessanti da scalare, che si trattasse di un'intera via o di un singolo movimento perfetto: tutto si basava sull'estetica».

«Questo è uno dei progetti più interessanti di cui ho avuto l'opportunità di far parte con Arc'teryx» continua Holly Toothill. «A differenza di un normale viaggio di arrampicata, in cui si va in un'area per provare una via classica o dei boulder difficili, eravamo lì per raccontare l'arrampicata in un modo diverso, più creativo. La cosa però che più di tutte mi ha toccato è stata vivere lì per una settimana, con la cultura e il modo di vivere quotidiano delle persone del posto: mi ha fatto capire di quanto poco abbiamo bisogno materialmente per avere una vita felice e appagante. Una sera, mentre stavamo scattando, un uomo del posto si è avvicinato per parlare con noi. Era l'autista di un bus turistico che aveva portato delle persone nel deserto per vedere le rocce dipinte e non aveva mai sentito parlare o visto qualcuno arrampicare prima: era davvero affascinato da quello che stavamo facendo e così ha voluto provare e si è unito a noi. È stato il momento più bello di tutto il viaggio».

«Questo viaggio è stato semplicemente incredibile, perché sono stato completamente immerso in un mondo radicalmente diverso dalla mia esperienza quotidiana», aggiunge Kieran Forrest. «Lo stile di vita marocchino è in netto contrasto con il ritmo frenetico del Regno Unito. Tradizioni

e cultura sono profondamente intrecciate nella vita di tutti i giorni, e questo ritmo più lento mi ha permesso di assaporare le piccole cose. Essere coinvolto in questo progetto con un team così creativo mi ha ispirato moltissimo e mi ha ricordato cosa amo di più dell’arrampicata: il fatto che non sia solo uno sport, ma una forma di espressione personale, che si manifesta attraverso l'abbigliamento, lo stile, la comunità o la fotografia».

Dietro la macchina fotografica c’era Julien "Perly" Petry, un fotografo che viene dal mondo dello snowboard, «dove l'estetica ha sempre avuto un ruolo centrale nelle immagini, importante quanto la performance, se non di più», spiega. «Per me non si tratta solo di sport, ma di forme d'arte, e amo portare questa mentalità anche nella fotografia di altri sport, perché spinge gli atleti fuori dalla loro comfort zone. Alcuni atleti abbracciano questa sfida, trovandola entusiasmante, mentre altri faticano a capirne il concetto: in un certo senso è come se avessi chiesto a un pilota di Formula Uno di rallentare durante una gara. Fortunatamente, Clem, Oli e Kieran l'hanno abbracciata pienamente. Si sono entusiasmati per l'idea e abbiamo lavorato insieme in perfetta armonia. Anche perché questo viaggio è stato un'avventura dall'inizio alla fine: non avevamo idea di cosa aspettarci, è stato un azzardo. Ho parlato con molte persone e fatto ricerche approfondite sulla località, ma non si può mai essere completamente sicuri finché non si arriva sul posto. L’unica cosa che è mancata, è che avrei voluto poter incontrare Jean Verame per discutere delle sue idee e ispirazioni: mentre scattavo il mio obiettivo non era solo catturare l'arrampicata, ma anche riflettere la sua visione artistica. Posso solo sperare che avrebbe apprezzato il mio lavoro e che ne sarebbe stato entusiasta quanto me».

Ikram Rharsalla Laktab

OCC da protagonista, UTMB da complice

La storia di Ikram Rharsalla Laktab allo scorso UTMB sembra uscita da un romanzo. Possiamo immaginarla come una guerriera con riccioli neri e sorriso a trentadue denti. Quando corre porta due codini che aiutano a identificarla tra la folla di atleti. Ha un approccio gentile, una corsa decisa e concentrata. L’atleta spagnola del team Millet si è portata a casa da Chamonix un ottavo posto a OCC, ma non solo

Ho visto Ikram tre volte nei giorni di UTMB: la prima in gara, la seconda qualche ora dopo il traguardo, ancora stanca ma felice, un’ultima volta ai ristori. Me lo aveva detto proprio lei: «La gara di oggi è stata dura, ma la vera battaglia sarà seguire il mio compagno a UTMB!». Mai avrei pensato che quel suo compagno senza sponsor né particolare fama avrebbe chiuso in top 10 alla gara di trail più importante al mondo!

Il tema dell’importanza dell’assistenza e dei propri cari per i corridori di UTMB è stato affrontato con un bellissimo video girato sui canali social della gara regina. Vediamo mani che massaggiano, nutro -

no, abbracciano. Le parole giuste per ricaricarsi, la carezza che rasserena. Ikram è stata protagonista della sua gara e complice della gara del fidanzato Manuel Anguita Bayo, ottavo classificato della cento miglia. Determinata, attenta, positiva: Ikram è un’atleta dalla quale imparare, che in pochi anni è passata da principiante ad élite studiando e lavorando su sé stessa, e che il giorno dopo la gara della sua vita passa una notte insonne per supportare gli altri. Nella nostra intervista, il suo animo spumeggiante è riuscito a emergere nonostante la barriera linguistica che ci divideva quella sera sulle rive dell’Arve a Chamonix.

Ikram, questa è stata la prima volta per te a OCC? No, la seconda. Ero qui l'anno scorso. In questo anno ho accumulato più esperienza sulla distanza e ho quindi chiuso una gara globalmente migliore. È una gara molto dura e lunga per me: è stata la mia prima su una distanza così, questa stagione. Mi sentivo bene all'inizio, poi sull’ultima salita ho iniziato a sentire la stanchezza... OCC: ti ho amato, ma anche sofferto!

È andata come ti aspettavi? Assolutamente no. Sapevo che il livello era molto alto, avrei puntato a una top 10 o top 15 con la migliore prestazione… Ma quando durante la gara mi sono accorta di essere settima, poi sesta, lottando per la quinta posizione ho pensato: wow, questo è un sogno! Alla fine non sono riuscita a portarmi a casa la quinta posizione, ma il mio ottavo posto vale per me tantissimo.

Il momento più duro in gara? Sicuramente l'ultima salita! Avevo finito le energie e la salita è dove solitamente soffro di più.

Lì ho perso due posizioni... ero un po' delusa, ma dopotutto è così che vanno le gare.

Si è parlato del problema del caldo per molti atleti. Tu come l’hai gestita? Vivo a Granada, nel sud della Spagna, quindi mi alleno sempre in queste condizioni. Per questo motivo per me erano condizioni buone, alle quali sono abituata.

Dove ti alleni? Ho la fortuna di allenarmi a Padul, un piccolo paese vicino a Granada, circondato da montagne, ripide salite e terreno sia tecnico che corribile.

Qual è la tua distanza ideale? Direi la maratona, forse. Le gare corte per me sono molto dure e per questo non sono le mie preferite.

Qual è la tua gara dei sogni? Forse proprio OCC!

Il tuo risultato più importante? Oggi! Ho vinto tante gare, ma un ottavo posto qui a OCC è il migliore, dato il livello altissimo al quale si gareggia. Ho potuto correre insieme alle migliori al mondo.

Corri da sempre? No, ho iniziato a correre quando ho conosciuto il mio ragazzo nel 2015, ma ho iniziato ad allenarmi seriamente solo nel 2019. Prima giocavo a calcio ogni tanto, con gli amici, ma non a livello competitivo.

Però non sei solo una runner, giusto?

Esatto! Sono Big Data Scientist, inizierò a lavorare in laboratorio a settembre. Io amo correre la mattina, ma con questo nuovo lavoro sposterò i miei allenamenti alla sera.

Quando è iniziata la tua collaborazione con Millet? È iniziata nel 2022 quando Pierre mi ha contattata online. All'inizio pensavo fosse uno scherzo, non credevo fosse possibile. Mi sento davvero fortunata per questa opportunità, sono qui grazie al loro supporto.

Cosa indossavi in gara? Il mio set faceva parte della collezione Intense di Millet dedicata al mondo trail e skyrunning. Il pezzo in assoluto che per me è cruciale in gara, e non solo, è però la Intense Hydration Belt: leggera e stabile, non rimbalza durante la corsa e ha abbastanza compartimenti per contenere tutto il materiale obbligatorio. Ai piedi le Intense women, modello realizzato interamente in Francia con tessuto Matryx per la tomaia e suola Michelin, che mi danno sicurezza in discesa e massimo comfort.

Chi va piano va lontano

Mi guardo intorno e tutto corre. Le macchine per strada, le dita sugli schermi, le persone in pausa pranzo. Vorrei fermare ognuno di loro. All’autista chiederei: “Ti ricordi il titolo della tua canzone preferita? Goditela durante il tragitto, non sei in ritardo”. Al ragazzo sul marciapiede direi: “Riesci a sentire il calore del sole che sorge sulla tua testa?”. Alla donna col panino: “Riesci a sentire il croccante della foglia di lattuga, la freschezza del pomodoro?”. A cosa stiamo rinunciando nella nostra corsa verso una crescita superflua e nociva? Siamo vittime di un mondo che va a velocità doppia, dai ritmi di vita ai messaggi vocali su WhatsApp. Non abbiamo più il tempo di ascoltarci né di ascoltare. Tutto deve essere veloce. Fast food, Fast fashion, Fast-paced, Fast-track, Fast-basta.

Per qualche pugno di riso

“Fast fashion isn’t free. Someone, somewhere is paying” (Lucy Siegle). Oggi, l’impatto sociale e ambientale di questo sistema è scioccante. Sta devastando l’ambiente e riportando in vita una, seppur “moderna”, forma di schiavitù.

Per mantenere bassi i costi di produzione e vendita dei loro prodotti, alcuni brand spesso optano per la produzione in Paesi con normative meno rigide sui diritti dei lavoratori, come Bangla-

desh, India, Cina, Vietnam e altri. Qui, donne e bambini vengono sfruttati per salari irrisori, guadagnando appena 2 euro al giorno e spesso senza alternative lavorative. Sgobbando oltre 12 ore al giorno in condizioni disumane. Si può pensare che in quei posti il costo della vita sia basso, ma con una simile retribuzione non si va da nessuna parte, neanche lì. Con 2 euro al giorno si possono comprare tra i 2 e i 3 kg di riso, oppure 4 saponette, circa 1,5 kg di lenticchie o, in alternativa, tra i 200 e i 300 grammi di spezie. Questo sfruttamento ha, inoltre, un costo ambientale rilevante: il settore della moda è responsabile del 10% delle emissioni globali di CO2. Per produrre un singolo paio di jeans servono circa 7.500 litri di acqua, pari al consumo medio di una persona per 2-3 anni. Io ho 5 paia di jeans nell’armadio. Sono responsabile del consumo di 37.500 litri di acqua. E con 37.500 litri d'acqua potrei irrigare circa un ettaro di campi coltivati a grano, sufficiente a sfamare circa 250 persone per un anno intero.

Parliamo ora di una semplice t-shirt. E di un ciclo tossico che inizia con la lavorazione delle materie prime e termina con lo smaltimento del capo. Le fibre naturali come il cotone richiedono molta acqua, mentre quelle sintetiche come il nylon derivano dal petrolio, inquinando già dalla loro origine.

Viaggiano poi attraverso gli oceani, rilasciando CO2 e finendo nelle nostre case. Qui, dopo aver perso microplastiche durante i lavaggi, vengono gettate via, trasportate in discariche lontane, per poi essere bruciate. Così, t-shirt dopo t-shirt, jeans dopo jeans, produciamo 654 kg di CO2 all'anno, a persona, solo nell'Unione Europea. Equivalente a un volo andata e ritorno da New York a Londra, tutto per una t-shirt.

Estinguersi o evolvere?

Le montagne invase, sempre più violate, sono l’arena perfetta per i brand che hanno visto aumentare, insieme alla crescita del numero di skipass venduti, concrete possibilità di investimento. I brand di moda hanno trasformato l'abbigliamento sportivo in icona di lusso: è “l’outdoor chic”. Con le proprie collezioni, i giganti della moda hanno cercato, e cercano tuttora, di ottenere una fetta della torta del successo dell'abbigliamento sportivo. La prima volta che ho visto un bambino vestito Zara in pista non ci credevo. Ho seriamente pensato che sua madre avesse cucito su un normalissimo pantalone da sci, una patch di Zara. E invece? Invece esiste una linea completa, dalle “tute da neve” (come vengono

definite) fino a calze, casco da sci e guanti. Una linea completa che esalta, e cito testualmente, “l’impegno di Zara per una moda di lusso inclusiva”.

La questione è: le aziende outdoor possono difendere il loro territorio dai giganti del fast fashion? E, soprattutto, esistono possibili strategie? Mi capita spesso di sentirmi avvolta in un vortice irrefrenabile. Mi ritrovo a testa in giù, poi su e di nuovo giù, vengo strapazzata. Guardo in basso e al posto dell’ombelico c’è la schiena. Niente ha un senso, nessuna cosa è al suo posto e non c’è via d’uscita. Ogni mattina, quando mi sveglio, spremo due arance e preparo la moka. Mentre bevo il caffè comincio a cercare su Google news legate al tema e mi faccio fottere ogni volta. Trovo quella luce in fondo al tunnel in ogni articolo in cui si legge “eco”, “green”, “carbon footprint” e via discorrendo. Poi, puntualmente, indago e trovo il rovescio della medaglia. E sono di nuovo nel vortice. L’idea di abbracciare la sostenibilità non è solamente buona, al momento è la sola percorribile. Ma ho paura che oggi l’unico modo per essere davvero a impatto zero, sia essere zero. Essere nulla. Cessare di essere. Avete capito bene, non esserci più. Ora, dal momento che amo

Il mio dubbio è più grande perché la questione, semplicemente, è più grande. Se gran parte dei problemi ambientali sono legati alla sovrapproduzione e al sovrasfruttamento del territorio, la migliore soluzione possibile non è quella di smettere di produrre? Non è detto.

la vita, non sto assolutamente consigliando la via del suicidio di massa come soluzione. Sto però mettendo in dubbio le scelte sostenibili legate alla produzione. E sì, sono consapevole che anche queste mie parole andranno stampate su carta e, in un certo senso, “prodotte”. Ma probabilmente c’è una parte di me che crede nella divulgazione, che qualcuno leggerà. Che ci sia un’utilità, in fondo.

Il mio dubbio è più grande perché la questione, semplicemente, è più grande. Se gran parte dei problemi ambientali sono legati alla sovrapproduzione e al conseguente sovra sfruttamento del territorio, la migliore soluzione possibile non è quella di smettere di produrre? No. Come no? No. Ho finito il caffè da oltre un’ora, ho fatto indigestione di articoli, studi, dati e opinioni che mi hanno portato a una risposta: smettere completamente di produrre, per quanto possa sembrare logico, potrebbe avere gravi conseguenze economiche e sociali e non risolverebbe necessariamente i problemi ambientali sottostanti. Quello che va fatto, piuttosto, è lavorare per trasformare i nostri sistemi di produzione e consumo in modo da essere in armonia con l'ambiente e le risorse limitate del pianeta.

Un momento, tutto questo sermone per dire che esiste un possibile lieto fine? Beh, sì. Sembra di sì.

Intanto, con il caffè ormai freddo, ho trovato una strada più facile e percor-

ribile anche per noi consumatori. Che brutta parola, peraltro, consumatori: coloro che consumano. Mi perdo ancora nel vortice. Esistono, dicevo, certificazioni ed etichette riconosciute dall’industria e utilizzabili come sistema di orientamento, come bussola, dai consumatori finali (da noi). Ne sono un esempio BCorp e Cradle to Cradle. Queste certificazioni promuovono la creazione di prodotti completamente riciclabili o riutilizzabili, i cui componenti possano essere separati e riutilizzati senza compromettere la qualità o la sicurezza. Eliminando alla base il concetto di “rifiuto”. Che bella cosa.

Ne ho davvero bisogno?

In un mondo affogato nel consumismo, dobbiamo resistere alla tentazione degli acquisti impulsivi. Tornare a domandarci “Ne ho davvero bisogno?”. Ogni nostra azione ha un impatto profondo sulla bellezza della natura. Dobbiamo ridurre i nostri consumi per preservare l'integrità del pianeta. Lo dobbiamo a noi, alle generazioni future. Va ritrovato quel legame prezioso con la terra che ci nutre lottando, se necessario. Ricordando che il tempo stringe e la natura ci chiama a casa.

“Nel regno della natura non c'è nulla di superfluo o inutile."
- Maimonide

Kilian Jornet Alpine Connections oltre ogni limite

Leggenda vivente della corsa in montagna, Kilian Jornet ha da poco chiuso il progetto più impegnativo della sua vita: ha percorso tutte le 82 vette delle Alpi sopra i 4000 metri in soli diciannove giorni, macinando 1207 km e più di 75mila metri di dislivello.

Un progetto «incredibile», «una delle cose più impegnative che io abbia mai fatto sia fisicamente che tecnicamente, oltre che mentalmente». Sono state queste le parole a caldo dello skyrunner Kilian Jornet dopo aver percorso in diciannove giorni tutte le 82 vette delle Alpi sopra i 4000 metri tra Svizzera, Italia e Francia. Il tutto senza mai usare veicoli a motore per spostarsi, ma affidandosi invece solo alle sue gambe (in una combinazione di trail running, alpinismo e arrampicata) e, quando necessario, alla bicicletta. È stato questo Alpine Connections, progetto che si è concluso il 1° settembre con numeri straordinari: 1.207 chilometri, 75.344 metri di dislivello, 267:45:16 ore di attività suddivise in diciotto giorni - un solo giorno Jornet è rimasto fermo sia per recuperare le forze, sia per il clima avverso. Facendo i conti non resta molto tempo per dormire, e infatti la media è stata poco più di cinque ore di sonno per notte. «Rimanere in uno stato di totale concentrazione per venti

giorni richiede molta energia, ma è stato meraviglioso. Ricordo tutte le albe e i tramonti e tutti gli amici che mi hanno accompagnato tra le montagne, e sono molto felice e fiero di quello che ho conquistato nelle ultime tre settimane», ha dichiarato Kilian a progetto concluso. «Ora è il momento di riposare ed elaborare tutto quello che è successo, perché credo ci vorrà del tempo per apprezzarlo a pieno».

Kilian ha dato il via ad Alpine Connections il 13 agosto da Saint Moritz, in Svizzera, tra l’altro solo tre giorni dopo aver vinto la Sierre-Zinal. Prima dell’atleta spagnolo, a portare a termine la grande traversata alpina sono stati Ueli Steck nel 2015, in 62 giorni, e Franz Nicolini e Diego Giovannini nel 2008, in 60 giorni. Kilian in parte ha seguito i percorsi già compiuti da chi lo ha preceduto nell’impresa, ma in parte ha tracciato quella che secondo lui era la «linea più logica» per connettere il maggior numero di vette,

spesso tagliando per creste e spigoli. Lo skyrunner nelle prime quattro tappe ha scalato vette come il Piz Bernina (4049 metri) e il Weissmies (4017), poi dalla tappa 5 alla 9 è salito sul Weisshorn (4506), il Dom des Mischabels (4545) e il gruppo del Monte Rosa. È dunque venuto il turno dell’area del Monte Bianco e del Monte Bianco stesso (4810), seguito dalle Grandes Jorasses (4208). Infine il Parco Nazionale del Gran Paradiso, la Dôme de Neige des Écrins (4015) e la Barre des Écrins (4102), ultima tappa del viaggio.

Alpine Connections è stato raccontato quasi quotidianamente online, ma più che il pubblico social ad accompagnare Kilian nel vero senso della parola sono stati alcuni amici che lo hanno affiancato in diverse parti della traversata, nello specifico in 32 delle 82 cime totali. Si sono uniti a piedi Philip Brugger, Mathéo Jacquemoud, Genís Zapater, Alain Tissier, Michel Lane, Bastien Lardat, Noa Barrau, Henry Aymond, Emily Harrop e Benjamin Vedrines, mentre Jules Henri e Vivien Bruchez lo hanno fatto in bici. «Questo progetto è tanto mio quanto di tutti coloro che mi hanno aiutato in ogni fase. La loro conoscenza, supporto e amicizia hanno reso possibile qualcosa che sembrava irraggiungibile».

Ciao Kilian, prima di tutto complimenti e grazie del tuo tempo. Come stai? Stai recuperando bene? Grazie mille! Sto bene. Il recupero è sempre parte del processo e me la sto prendendo con calma, godendomi momenti più tranquilli con la mia famiglia e lasciando che sia il corpo sia la mente riposino dopo un progetto così intenso. La fatica è sempre lì, ma è una bella sensazione prendersela comoda, riflettere su tutto e prendersi del tempo per elaborare cosa ha significato Alpine Connections sia fisicamente che emotivamente.

A proposito di tempi di recupero, hai iniziato Alpine Connections solo pochi giorni dopo aver vinto la Sierre-Zinal. Questo non ha reso la partenza più faticosa o più difficile? Mi sentivo bene dopo la Sierre-Zinal, ma ho dovuto aspettare le giuste condizioni sulle Alpi. Mi sono preso qualche giorno per riposare e recuperare, così ho potuto iniziare la traversata nella migliore forma possibile. L’obiettivo era trovare un buon ritmo dall’inizio, e cominciare pochi giorni dopo la gara - quando il tempo era migliorato e con alcuni amici accanto - mi ha aiutato.

Ecco, come è stato avere degli amici al tuo fianco in alcune parti della traversata? Mi chiedo se la loro presenza abbia influenzato in qualche modo la tua performance, la tua concentrazione o il mindset. Avere amici che hanno partecipato ad alcune parti del progetto è stato incredibile. Aggiunge una dinamica diversa: sei sempre concentrato, ma c’è anche questa esperienza condivisa che porta molta energia. La loro presenza mi ha aiutato a rimanere positivo, specialmente nei momenti più duri. E poi è bello condividere le montagne con persone che capiscono cosa significa stare lì fuori, spingere al massimo ma anche apprezzare la bellezza che ti circonda. Credo abbiano sicuramente aiutato il mio mindset, mantenendo un equilibrio quando le cose diventavano davvero difficili.

Alla fine del progetto hai detto che ti saresti giustamente preso del tempo per riuscire ad apprezzare a pieno ciò che avevi fatto. Oggi i tuoi pensieri e le tue sensazioni riguardo Alpine Connections sono già diversi rispetto a poche settimane fa? Sto ancora elaborando. Durante il progetto sei così concentrato sulla prossima cima, sulla prossima scalata,

che è difficile riuscire a capire a fondo cosa sta succedendo. Ora che ho avuto un po’ di tempo per rifletterci, credo di apprezzare ancora di più la bellezza dell’esperienza. È stata la cosa più dura che io abbia mai fatto fisicamente e mentalmente, ma forse anche la più bella. C’è qualcosa di speciale nell’essere così profondamente connesso con le montagne per un periodo di tempo così lungo. Penso però che mi prenderò ancora del tempo per capire davvero cosa questa esperienza ha significato per me.

Ci sono stati dei momenti più impegnativi di quanto ti aspettassi?

Hai mai avuto dubbi sulla buona riuscita del progetto o magari c’è qualcosa che adesso avresti voluto fare diversamente? Fin dall’inizio sapevo che le possibilità di arrivare alla fine erano incerte. Con un progetto così grande, molte cose possono andare storte fisicamente oppure con il meteo. È ciò che lo rende interessante: affrontare qualcosa senza garanzia di successo. Nel corso del progetto, non ero sicuro che avrei raggiunto la cima successiva. Ci sono stati momenti duri, soprattutto con il meteo imprevedibile, ma la chiave è stata rimanere calmo e adattarmi. Non penso cambierei nulla, la sfida è parte del processo.

Francesco Puppi

Trust the process

PHOTOS

RUNNERS FRANCESCO PUPPI

HENRI AYMONOD

ROBERTO DELORENZI

Mesi prima di salire a Sestriere sognavo grandi allenamenti, alti volumi e long run epiche a fil di cielo. Sestriere è il luogo in cui quasi ogni estate trascorro un periodo di allenamento in quota di tre o quattro settimane: per sfuggire al caldo, cambiare aria, cercare adattamenti utili per l’endurance. Non perché sia il posto più bello sulle Alpi, ma perchè per una serie di coincidenze, caratteristiche, per tradizione e forse anche per inerzia, a inizio luglio insieme a un paio di amici ci ritroviamo a riempire i bagagliai di scarpe, vestiti e bici e a salire ai 2000 metri del colle tra l’alta Valle di Susa e la Val Chisone.

Venivo da una buona prova corsa alla Marathon du Mont Blanc, classica tappa delle Golden Trail World Series di fine giugno a Chamonix, gara lanciata su ritmi vertiginosi da Remì Bonnet, Elhousine Elazzaoui, Roberto Delorenzi e altri tre atleti keniani (Kevin Kibet, Ezekiel Rutto e Robert Pkemoi: perchè anche loro, come noi, meritano un nome e un volto) in cui mi ero ben difeso cogliendo un ottavo posto, senza tuttavia mai essere davvero protagonista della gara. Già da alcune settimane avvertivo i sintomi di una stanchezza sottile ma persistente, che mi lasciava, allenamento dopo allenamento, una scia di fatica difficile da ignorare, ma che facevo di tutto per mettere a tacere.

Mi sono bastati un paio di giorni a Sestriere, insieme ai miei compagni di training camp di quest’anno Henri Aymonod e Roberto Delorenzi, atleti pro per The North Face e Brooks, per capire che le aspettative sulla possibilità di allenarmi bene e forte quanto avrei voluto sarebbero rimaste tali. I giorni post Marathon du Mont Blanc erano stati già abbastanza complicati, complice anche un recupero non ottimale. Semplici easy run che normalmente avrei affrontato con agio, quasi senza sforzo, non facevano altro che farmi precipitare in uno stato di affaticamento sempre più irreversibile, con la variabile altitudine a pesare ulteriormente sul mio fisico debilitato.

La voglia di correre con i miei compagni, la loro influenza positiva e la mia motivazione sempre elevata per uscire ad allenarmi stridevano con i segnali che arrivavano dal mio fisico. Come se mente e corpo fossero disaccoppiati, cosa che raramente mi sono trovato ad affrontare. A malincuore li salutavo a metà allenamento o ancor prima di uscire di casa. Mi domandavo spesso che impressione avessero di me, se pensassero che la mia fosse solo una condizione mentale, se percepissero la mia inquietudine, il mio disagio. La mia sensazione di inadeguatezza persistente, che è un aspetto su cui ho lavorato parecchio insieme alla mia psicologa Maria Chiara,

il singolo fattore che ritengo abbia inciso di più sulla mia crescita sportiva e sul mio benessere generale negli ultimi anni.

Trovo sempre faticoso ammettere a me stesso che potrei aver commesso degli errori, ad esempio nell’allenamento e nel recupero, che potrei non aver prestato sufficiente attenzione ai segnali di fatica del mio corpo o alle persone che mi dicevano di rallentare con la preparazione, di recuperare di più, che forse qualcosa che stavo facendo era sbagliato. È difficile per me accettare di non essere in grado di soddisfare un’aspettativa, uno standard che mi ero prefissato. Nel momento in cui è evidente che non riesco ad allenarmi quanto ritengo sia necessario, a correre e performare al livello atteso, riuscire ad accettarlo e integrarlo con la visione che ho di me stesso, soprattutto come atleta. Come se il costo di deviare da un disegno prestabilito, anche quando capisco che non è più funzionale e che probabilmente nuoce a me stesso, fosse più elevato rispetto a continuare a seguirlo. Molti potrebbero pensare che in quanto atleta professionista io subisca molte pressioni e debba gestire una serie di situazioni stressanti e cariche di aspettative nei confronti del pubblico, dei media, degli sponsor: è un dato di fatto, ma la pressione più grande arriva sempre e comunque da me stesso.

Trovo sempre faticoso ammettere a me stesso che potrei aver commesso degli errori, ad esempio nell’allenamento e nel recupero, che potrei non aver prestato sufficiente attenzione ai segnali di fatica del mio corpo o alle persone che mi dicevano di rallentare con la preparazione, di recuperare di più, che forse qualcosa che stavo facendo era sbagliato.

Attribuisco gran parte del mio successo come atleta al fatto che sono in grado di non ascoltare il mio corpo. Credo che in quanto atleti élite di endurance forziamo spesso i nostri limiti fisici e mentali. Siamo spesso lontani da quel delicato equilibrio a cui molti aspirano. Dobbiamo prendere decisioni scomode e ignorare deliberatamente alcuni dei segnali del nostro corpo per poter raggiungere i nostri obiettivi. Probabilmente tutto ciò ha una radice in parte sociale e culturale: siamo cresciuti in un ambiente che ci ha instillato questa convinzione e che, rafforzandola con la sua narrazione e i suoi consueti comportamenti, l’ha resa quasi necessaria, anche se magari non è quella giusta. Potrebbe suonare malsano, probabilmente lo è; in effetti è anche questa una cosa che trovo difficile ammettere a me stesso. C’è una grande differenza tra non essere in grado di ascoltare il proprio corpo ed essere in grado di non ascoltarlo. Dovremmo sempre prestare attenzione a che cosa ci comunica il nostro corpo, ma sta a noi decidere se dare priorità a quella informazione rispetto a tutto il resto, al programma di allenamento o a come ci immaginiamo che le cose debbano andare sulla carta. Trovo questa dinamica molto delicata e complessa, eppure credo che sia il vero nucleo del processo di allenamento.

Un training camp è occasione di confronto e di scambio. Roberto, Henri ed io ci arrivavamo da circostanze, condizioni fisiche e mindset parecchio diversi. Robi sull’onda della sua stagione migliore di sempre, forte dei suoi successi e dei risultati della prima metà dell’anno: tre vittorie nelle Skyrunner World Series, primo nella prova up and down del campionato europeo di corsa in montagna ad Annecy, uno stratosferico terzo posto a Mont Blanc. Henri con un infortunio rimediato nel fango di Annecy a interrompere una steak positiva che durava da anni. Io in caduta libera e con le sensazioni quasi peggiori di sempre. Difficile allenarci insieme in queste condizioni: forse è proprio questo che ha reso più forte il

nostro legame al di fuori degli allenamenti. Abbiamo parlato e riflettuto tanto, ci siamo confrontati a lungo su tematiche complesse, che raramente si ha il coraggio di affrontare in gruppo. Il rapporto con i nostri allenatori. I RED-S, i disturbi alimentari tra gli atleti e quanto poco stiamo ancora facendo per prevenirli ed evitarli. La salute mentale, l’importanza di essere sereni per allenarsi ad alto livello. Le relazioni con sponsor e brand, i nostri contratti, “farcela” come atleti professionisti.

Abbiamo pedalato insieme attorno al lago del Moncenisio, sul Col de l’Izoard e su quello del Monginevro. Abbiamo tirato tardi in riva al torrente della Valle Argentera dopo aver cenato seduti sul prato. Abbiamo camminato fino al bivacco Tornior in Val di Thuras, perché correre non era un’opzione. Siamo usciti con la pioggia e con il sole, siamo riusciti a dimenticare i nostri problemi e i nostri infortuni almeno per qualche ora, abbiamo sorriso, prendendoci poco sul serio ma nello stesso tempo cercando di fare le cose seriamente. È interessante osservare le diverse abitudini di vita e di allenamento quando si condivide un appartamento con altri atleti. Ad esempio, per me è quasi impossibile dormire oltre le otto del mattino, la mia sveglia biologica si attiva sempre prima. Henri e Robi si sparano dormite da undici ore filate e non hanno alcun problema a svegliarsi dopo le dieci. Trangugiano qualsiasi cosa capiti loro sotto tiro per colazione e mezz’ora dopo escono per l’allenamento. Robi tipicamente rimane fuori tra le due e le tre ore, poi esce per un’altra oretta verso sera. È un atleta da 25 ore e tredici allenamenti a settimana, un volume costruito su anni di consistency. Henri mediamente fa molto meno. Non potendo correre con continuità per via di un’infiammazione alla tibia, si è dato alla bici. Ha una Bianchi Specialissima RC che sembra appena uscita dalla galleria del vento. La sua posizione in sella è davvero buona, aerodinamica, quasi come quella

di un pro; lui continua a ripetere di essere un mancato gregario del Tour de France, parla di watt, di materiali, di bicarbonato. Henri non lo sa, ma questa estate passata in gran parte a pedalare gli tornerà assai utile anche nelle corse a piedi.

Avendo perso le chiavi di casa quasi subito dopo l’inizio del training camp, l’unico modo per entrare è scavalcare la ringhiera del balcone, che fortunatamente è al primo piano, e passare dalla finestra. Quando lui e Robi rientrano si buttano sul divano, si mettono a torso nudo, aprono una bottiglietta di succo di mirtillo e poi subito un’altra; probabilmente ne berrebbero sei di fila se non ci fossi io a impedirglielo per cercare di farle durare più di un paio di giorni. Poi attaccano il bluetooth della cassa portatile, sparano a tutto volume un’orribile musichetta da Gen Z finché prima o poi qualcuno prende l’iniziativa per il pranzo. Il Kangoo di Robi è così messo male che nel bagagliaio adibito a letto c’è un po’ di tutto, dai bastoncini da trail running al lavavetri antigelo per l’auto, insieme a mucchi di vestiti sporchi, integratori sportivi e al mazzo di fiori vinto all’ultima skyrace. In qualche modo è anche lui figlio di quella generazione di dirtbag e fricchettoni che ci ha fatto innamorare di questo sport, solo in una declinazione più moderna e meno western, direi europea. In casa c’è un disordine quasi raffinato nella sua trascuratezza: sarà il peculiare charme dei prototipi The North Face buttati in un angolo insieme alle mie Nike Zegama, a un guscio in Gore-Tex, degli Oakley da ciclismo, un pacco di gel della Enervit. Perfino le nostre bici addossate ad una parete in cucina bici acquistano un fascino da elemento di design ben studiato.

Non sono del tutto sicuro di cosa mi abbia bloccato a livello fisico durante i mesi di giugno e luglio, quale fosse la radice del problema emerso durante questo training camp, perchè, giorno dopo giorno, la fatica della corsa diventava sempre più debilitante e insostenibile, come se il processo di allenamento mi consumasse al posto di costruire qualsiasi tipo di fitness. La cosa che mi sen-

to di dire è che mi sono dato la possibilità di restare in contatto con queste sensazioni, accettandole senza respingerle, sforzandomi di capirle senza negarle. È stata un’esperienza a tratti scomoda, a volte dolorosa ma di valore, importante quanto vincere una gara, raggiungere un record personale o salire su un podio, anche se per questo non ricevo alcun tipo di riconoscimento pubblico o validazione, se da parte mia.

Quando le cose non vanno come vorrei spesso mi accorgo di spostare l’attenzione dalla persona che sono, dalle necessità che ho e da ciò che sento, a qualcosa di esterno. Ad esempio, cerco di aderire a un’idea che ho su come dovrei essere, penso a quanto meglio di me sarebbe in grado di fare questo o quell’atleta, inizio a fare paragoni e confronti. Invece di ascoltare come mi sento davvero, proietto su me stesso come dovrei sentirmi e nel gap tra come sono e come penso di dover essere subentra un atteggiamento giudicante che sfocia in un inevitabile senso di inadeguatezza.

Di tutto questo ho parlato a lungo con Henri e Roberto. Non è stato facile trovare le parole giuste per farlo, spesso vorrei avere la stessa capacità che ho di trasporre i pensieri in frasi scritte anche con il linguaggio. Più che di tempi, workout e sicurezza in me stesso data dalla capacità di reggere certi carichi di lavoro, di questo training camp a posteriori riesco ad apprezzare soprattutto questo. Non credo che le radici di ciò che ho vissuto siano mentali. Spesso è il fisico che, quando comincia a deragliare, trascina con sé tutto il resto in una spirale difficile da interrompere. Dopotutto anche le emozioni sono fatte di atomi e di reazioni chimiche; questo è bene ricordarlo a volte.

Oltre ai vestiti sudati, al sole accecante delle terre alte e al tempo prezioso passato con i miei amici, da questo training camp mi porto a casa una consapevolezza sempre più forte e nitida. Correre e stare bene non dovrebbero mai essere dati per scontati. Correre è un dono, non un peso, mai un sacrificio: di questo sono assolutamente convinto.

C’est parti! The Speed Project CHX

PHOTOS GIULIA BERTOLAZZI

“Stay tuned, ‘cause we’ve got a show for you this weekend”. Le parole del discorso di Jarick si perdono nel buio. L’oscurità avvolge la Place du Triangle de l’Amitié di Chamonix, la cui chiesa bianca si erge come impassibile osservatrice di ciò che accade ai suoi piedi. Sono quasi le due di una notte di fine agosto e la scalinata della nota piazza è piena di centinaia di figure silenziose che aspettano una sola cosa: un segnale di partenza. “Repeat after me. Today we run. One foot. Then the next foot. What’s pain? That’s temporary. I want it! I got it! It’s me, against me. Race! C’est parti!”. C’est parti. La piazza si svuota in pochi secondi. The Speed Project CHX parte alle due precise, decine di ombre leggere, veloci e nervose scattano verso il buio. Hanno davanti a sé circa 450 chilometri e 4800 metri di dislivello da percorrere.

Così la gara-non-gara più underground degli Stati Uniti, la staffetta DIY da Los Angeles a Las Vegas, è arrivata alla sua prima edizione in Europa in gran segreto, su una tratta tanto intuitiva quanto impegnativa: dalla montagna più alta al mare. Dal cuore del massiccio del Monte Bianco fino alla fine della Costa Azzurra. Le regole sono sempre le stesse: nessuna regola. No rules, no spectators. Bisogna correre da Chamonix a Marsiglia nel più breve tempo possibile, e basta. Ogni squadra in autonomia decide i cambi, il percorso da seguire, la strategia di gara e i ritmi da mantenere. The Speed Project è vivere la corsa nel suo modo più crudo, un’esperienza così poco definita da obbligarti a eliminare tutto ciò che non è necessario. Ti costringe a focalizzarti sul lavoro di squadra e a lasciarti completamente coinvolgere. Se non ti ci immergi, è difficile che tu possa arrivare alla finish line. Si cerca la performance, sì, ma soprattutto l’esperienza umana. TSP non comunica competizione, quanto unione.

“And they are off! Did you see that? That was crazy. You should’ve been here”. Tra le squadre miste composte da sei runner che si daranno il cambio chilometro dopo chilometro, l’unico team italiano presente è quello dei Rundagi, la crew di Runaway Milano formata da Luca Podetti, Cinzia Chioccarello, Matteo Togni, Verena Mancastroppa, Floriano Macchione e Chiara Apostolico. Il team che li accompagna è ridotto: ci sono Giulia Bertolazzi dietro l’obiettivo della macchina foto e Andrea Ursino dietro al volante del van. Una squadra più piccola implica più impegno da parte di tutti, meno occasioni di riposo per ogni runner, forse muscoli che fanno più male, ma anche emozioni decisamente più forti. Ci sono momenti in cui la fatica e il dolore vissuti insieme, condivisi e compresi alla stessa maniera, diventano l’unica cosa che conta.

Se ognuno di loro si è preparato in autonomia per The Speed Project, il ritrovarsi sulla linea di partenza obbliga ciascuno a fare i conti sia con i propri pensieri che con quelli degli

altri. Il gruppo si riunisce e la concentrazione di uno diventa quella di tutti, così come l’agitazione che traspare in ogni gesto, anche dietro ai sorrisi. Matteo sta già correndo la prima leg. Ci vorranno poco meno di quaranta ore per arrivare sul lungomare di Marsiglia.

Ma il cronometro non conta poi così tanto, così come è relativa anche l’importanza della finish line. Conta, invece, la determinazione che ti ha portato a essere sulla linea di partenza e a oltrepassarla con un semplice passo. Lo sforzo che si vive durante TSP è uno sforzo a sé, peculiare, così concentrato in un solo momento, in un istante lunghissimo, da trascendere tutto il resto - passato, presente e futuro. Attraverso questa particolare forma di resistenza si raggiungono profondità di pensiero altrimenti inaccessibili. E, sballottato tra fatica ed eccitazione, puoi trovarci dentro di tutto. La trama e la consistenza dello spirito si rivelano, insieme a sicurezze e paure. Può emergere una stanchezza insormontabile così come un’energia inesauribile. Sei da solo, di

notte su un sentiero in mezzo al bosco, o di giorno su una strada asfaltata e bollente, ma sei anche parte di un ingranaggio che, secondo dopo secondo, metro dopo metro, si avvicina alla meta grazie all’impegno di tutti i suoi componenti.

Il tempo passa - anche se forse a ritmi diversi - per tutti, sia per chi ha appena iniziato a correre che per chi sta cercando di riposare o per chi invece aspetta il proprio turno. Mentre i runner continuano a darsi il cambio, ogni dieci chilometri circa, la notte lascia spazio alle prime luci del sole senza grande clamore. Durante The Speed Project, mi racconta Luca Podetti, «non ci sono momenti salienti, ogni istante, ogni minuto è unico e irripetibile anche per chi questo tipo di esperienza l’ha già vissuta». La gara continua. Il gruppo avanza. A volte si incrociano le altre squadre, soprattutto nei punti di cambio obbligatori. Si condivide qualche impressione, qualche emozione. La polizia ha fermato alcuni runner, allarmata di averli trovati su tratti di

strada pericolosi. The Speed Project è anche questo: la sfida all’ignoto, un po’ di caos, un’attitudine ribelle, la consapevolezza che ci si perderà, inevitabilmente, alla tremolante luce della pila frontale o con il sole negli occhi, il misto di paura ed eccitazione. Celebrazione della vocazione esplorativa di uno dei più semplici e naturali movimenti umani, la corsa. Un passo dopo l’altro in una certa direzione, con un obiettivo che è così lontano da essere un luogo dai confini confusi e sfocati da qualche parte nello spazio tempo. Più importante, è la strada per arrivarci. O forse, la squadra con cui arrivarci?

«Dividerei il TSP in due sezioni. Quella in cui si corre, da soli, sotto il sole cocente di agosto nel bel mezzo della Francia o di notte con i propri pensieri e le proprie paure; e quella durante la quale qualcun altro è in strada e c’è un momento di condivisione con il resto del team, un po’ di riposo (poco e scomodo), la scelta dell’itinerario e la preparazione alla run successiva», mi dice ancora Luca. Mano a mano che i chilometri che mancano a Marsiglia diminuiscono, aumenta la fatica sul-

le gambe e la stanchezza mentale, le persone si trasformano e gli altri diventano parte integrante e fondamentale di questo bizzarro viaggio. Le conversazioni si fanno più intime e meno frenetiche. Corri da solo, sì, ma non sei mai da solo. «Si parla di sogni, di speranze, si ride per una sciocchezza e si piange per un tramonto».

A Marsiglia ci si affaccia dall’alto. Ci si immagina un arrivo, l’ultimo tratto lo si corre tutti insieme. Si va a sfiorare con la mano la stessa statua, per esprimere l’esserci, l’essere arrivati per davvero, insieme. Non c’è un traguardo, come non c’è un premio. «Il vero premio è stato il viaggio», conclude Luca. «Un’avventura che ha trasformato otto persone in un gruppo di anime affini, unite dalla strada e dalla voglia di scoprire e scoprirsi». Stay tuned, perché non finisce qui. TSP continua e i Rundagi puntano, l’anno prossimo, a The Speed Project Atacama. Si parte da Iquique, nel nord del Cile, per arrivare a San Pedro de Atacama: 500 chilometri attraverso il deserto più arido del mondo, per una sfida individuale che si farà viaggio collettivo senza pari.

Caboose

L’eroismo degli ultimi

a

TSP Atacama

PHOTOS DAN KING
Corsa, salute mentale, le amicizie nate nel deserto e la speciale bellezza del «vagone di coda». Di tutto questo parla Caboose, film su una pazza avventura in Cile a The Speed Project – Atacama.
Lo raccontano a The Pill l’ideatore e protagonista
Tom Reynolds e il regista Dan King

C’è questa storia che raccontavano i nonni americani ai propri nipoti, che parla di un vagone del treno, l’ultimo, “The Little Red Caboose”. Questo vagone sempre in coda al treno sognava di essere una locomotiva, di essere colui che viene salutato e applaudito dai bambini al passaggio. Il suo ruolo di ultimo si rivelò però un giorno fondamentale nel frenare l'intero treno su una ripida salita, e da lì diventò un eroe. Caboose è la coda del treno, l’ultimo vagone. È un nome dal suono che funziona, che si differenzia e si ricorda facilmente. E per questo, oltre che per la storia che porta con sé, è stato forse scelto come titolo per il film di Tom Reynolds e Dan King sulla loro avventura in Cile a The Speed Project – Atacama. Di questa corsa nel deserto abbiamo già parlato fra le pagine di The Pill in passato, e nello specifico in The Pill 56 e The Pill 66. Questa volta, però, non parliamo solo di corsa e deserto: per questo abbiamo fatto due chiacchiere con Reynolds e King, rispettivamente l’ideatore e protagonista del film, e il regista.

I lettori affezionati di The Pill conoscono bene The Speed Project. Ma per tutti coloro che invece non ne hanno mai sentito parlare, sicu-

ramente Wikipedia non è d’aiuto. Un sito internet? Non esiste. «Se mi chiedessero di raccontare in breve TSP direi che di base è una corsa a staffetta che va da un punto A ad un punto B distanti fra loro circa 500 km dove non ci sono pause, ma si continua a correre», spiega Tom. «Non ci sono regole, né pubblico, né supporto dell’organizzazione. Ma in realtà è molto più di questo: è come un gruppo esclusivo, capace di creare un’atmosfera allo stesso tempo estremamente inclusiva. Chi corre davanti ha dei ritmi elevati e finisce per chiudere la gara in tempo record. In fondo ci si impiega anche 10 ore in più, ma c’è spazio per tutti. È l’evento più esclusivo (è su invito) ed inclusivo che conosco».

Nello specifico, TSP Atacama attraversa il deserto più arido al mondo, in Cile: 500 km partendo dallo skate park di Iquique per finire a San Pedro de Atacama. Gli inviti per partecipare a questo evento vengono inviati su Whatsapp o per passaparola. Chiediamo quindi a Tom come ha ricevuto il suo. «Tutto è iniziato da James Poole, un amico e soprattutto un corridore. Nella running community che ho creato ci siamo ritrovati una sera per guardare il film

dove James corre da solo The Speed Project Los Angeles-Las Vegas. Da lì mi sono incuriosito e ho voluto intervistare l’ideatore di questo format, Niels Arend. Alla fine dell’intervista con lui, mi ha chiesto se avessi voluto partecipare alla stessa cosa nel deserto in Cile. Come potevo rifiutare? Mi ha contattato il capo squadra nonché ex olimpionico Roberto Manji e da lì mi sono inserito nel team Ad Astra».

Dramma, gioia e sudore

Nonostante sia stato scelto per correre questa staffetta, Tom rimane pur sempre un giornalista, scrittore e storyteller. Non poteva non documentare il tutto, e così ha coinvolto l’amico fotografo e videomaker Dan King, poi regista del film. «Ricevo sempre molte note vocali da Tom, ed il 60% delle volte reagisco ancora prima di finire di ascoltare il messaggio», racconta Dan. «Spesso nei suoi messaggi mi anticipa, ricordandomi di riflettere bene prima di dargli una risposta. Ho sempre sognato The Speed Project, e farne parte era un’occasione unica. Essere lì e fare quel viaggio è il tipo di avventura che fa per me e Tom lo sapeva bene.

Una volta atterrati in Cile è tempo di correre. Questa però non è una manifestazione organizzata: non ci sono né ristori né assistenza o supporto. Non ci sono regole, si corre dove si vuole. La via scelta da tutte le squadre è quella della strada statale che attraversa il deserto, una strada frequentata da tir che sfrecciano not-

te e giorno. Questo sarà un ostacolo, infatti le squadre verranno bloccate in corsa dalle autorità e verrà loro richiesto di fermarsi per il rischio di essere investiti. «L’incontro con la polizia ha sicuramente aggiunto un po' di drammaticità alla gara, cosa che a me non dispiace affatto», racconta Tom. «Non c'è mai stato tuttavia un momento in cui ho pensato che mi sarei fermato; dopo tutti i chilometri corsi dovevamo continuare. Ogni volta che sentivo arrivare un grosso camion, mi spostavo sempre fuori dalla strada, nel deserto. Anche se questo ci rallentava, non valeva la pena rischiare».

Portare a termine la sfida non era però l’unico focus. Correre in team insieme a degli sconosciuti, condividendo momenti di gioia e di grande difficoltà, è sicuramente un tema importante. Tom parla di corsa e di salute mentale, di come si possano superare momenti difficili prendendosi del tempo per sé e perché no, coinvolgendo altre persone. È lui stesso a raccontarcelo: «Il tema della squadra nell’avventura di TSP è per me cruciale. Do molto valore alle amicizie che ho stretto nel deserto. Fare parte di un team, condividere spazio e tempo ti permette di conoscere gli altri e te stesso molto rapidamente. Correre in squadra per lo stesso obiettivo ha davvero un grande potere e al pool party che si teneva al termine della gara ci siamo fatti tutti un tatuaggio in ricordo di questa pazza avventura».

Oltre l’ultrarunning

Parlando con Dan, il regista, abbiamo riflettuto su cosa sia il vero scopo di film come Caboose. Infatti, se ci pensiamo, non c’è molto di entusiasmante nel vedere gente che corre per ore ed ore. «Credo che dipenda molto da come si interpreta una storia. Certo, se c’è poco contesto sull’impresa, il protagonista o lo scopo è difficile appassionare uno spettatore: dove mai dovranno correre?», risponde Dan. «Piuttosto, credo che una disciplina come l’ultrarunning possa essere usata come filo conduttore per parlare di temi più profondi. È ovvio che vedere ore ed ore una persona che corre è noioso, ma spesso la ragione per cui corriamo non è da attribuire all’atto in sé quanto alle emozioni che scopriamo nel farlo, e questo è ciò che volevamo trasmettere».

Sicuramente documentare un’avventura giorno e notte nel bel mezzo del deserto con sbalzi termici estremi e scarsità di sonno e cibo non è né rilassante né facile. Se poi ami correre e sei obbligato a vedere gli altri farlo rimanendo dietro le quinte, è una bella sfida. «Inizialmente l’idea era di occuparmi al 100% sia del supporto al team che della regia del film, ma poco prima di partire mi sono ammalato ed ho cercato qualcuno che potesse aiutarmi», racconta Dan. «Tilly, una ragazza amica di amici che vive in Patagonia, è stata il mio angelo custode: è stata lei a guidare per la maggior parte delle tappe e ad assumersi la responsabilità dell’intero team. Grazie a lei ho potuto con-

centrarmi sulle riprese, non so come potevo anche solo immaginare di farcela da solo! Una delle cose più difficili per me era mantenere il focus della storia senza farmi trascinare in tutti i singoli momenti trascorsi in quelle giornate».

Nel film, Tom è il vagone di coda. Quello che corre più lento ed arriva per ultimo. Quando il suo compagno di squadra Nev gli racconta la storia di “The Little Red Caboose” capisce subito qual è il vero significato del film. In uno sport come la corsa che può a volte intimorire, soprattutto sul piano della performance, dare valore a chi sta dietro, alla cosiddetta “pancia”, è fondamentale. Nella favola del vagone di coda si impara che chi sta in fondo è il vero eroe: chi non molla, chi permette ai primi di essere tali. Così un’ennesima storia di ultrarunning porta con sé un insegnamento molto più profondo dell’arrivare al traguardo: dovremmo tutti essere il vagone di coda, a volte, e sentirci bene nell’arrivare ultimi.

Do molto valore alle amicizie che ho stretto nel deserto. Fare parte di un team, condividere spazio e tempo ti permette di conoscere gli altri e te stesso molto rapidamente. Correre in squadra per lo stesso obiettivo ha davvero un grande potere.

Stefano Ragazzo Su Eternal Flame si fa la storia

PHOTOS BIG ROCK MEDIA HOUSE
È un’impresa straordinaria quella compiuta da Stefano Ragazzo tra il 17 e il 26 luglio. In nove

giorni l’alpinista e guida alpina ha realizzato

la prima salita in solitaria di Eternal Flame, storica via alla Nameless Tower, 6251 metri di altitudine sulla catena del Trango Tower in Pakistan.

Una linea di 650 metri, con difficoltà fino al 7C+: uno dei più belli e impegnativi big wall di alta quota

Aperta nel 1989 da Kurt Albert, Wolfgang Güllich, Christoph Stiegler e Milan Sykora, Eternal Flame è un sogno che tanti hanno accarezzato, ma che pochi hanno raggiunto. La prima salita in libera avviene nel 2009 da parte di Alexander e Thomas Huber, la seconda nel 2022 con il catalano Edu Marín, suo fratello Álex e il padre Francisco. Pochi giorni dopo la cordata formata da Barbara Zangerl e Jacopo Larcher si porta a casa la terza ripetizione in libera e la prima a vista (Zangerl anche la prima femminile). Ora è Stefano Ragazzo ad aver fatto la storia: l’alpinista padovano è salito per la prima volta in totale autonomia e in stile big wall, con portaledge e senza corde fisse.

Stefano, quando hai avuto per la prima volta l’idea di salire in solitaria Eternal Flame? Eternal Flame mi è entrata per la prima volta in testa una decina di anni fa ma, come credo succeda a tanti scalatori, con l’idea di una ripetizione in cordata. Di solito non organizzo le spedizioni con grande anticipo: decido all’ultimo anche vedendo come sto, quanti soldi posso spendere, se mi sento più in forma su roccia o ghiaccio... Negli ultimi due anni, un po’ per caso, ho iniziato a fare più cose per i fatti miei

e dopo la mia prima solitaria invernale in Dolomiti ho capito che potevo fare la differenza su questo tipo di scalata. Ho cominciato a pensare in maniera concreta a progetti più grandi: fare in solitaria sia The Nose sia Eternal Flame. Da dicembre mi sono allenato seriamente. A maggio sono andato in Yosemite, ho fatto The Nose in solitaria e mi sono tolto ogni dubbio. Mi sentivo pronto. A quel punto Eternal Flame è stato come prendere un treno in corsa. L’idea originaria era andare sì in Pakistan, ma con la mia ragazza Silvia [Loreggian, ndr] per aprire una via su una cima inviolata. Quando lei è stata chiamata per la spedizione sul K2 e non ho trovato il feeling giusto con altri compagni, l’ho preso come un segno: vado da solo.

Per immaginare di fare una cosa del genere bisogna avere grande fiducia in sé stessi. È sufficiente o entrano in gioco altre componenti? Un pizzico di incoscienza, di sfida con sé stessi... Di incoscienza no, non mi è mai piaciuto giocare alla roulette russa in montagna. Sono guida alpina e ho un occhio sempre aperto sulla sicurezza: un occhio che non sempre trovo in amici alpinisti che sono magari fortissimi e affermati, ma non guide. In questi anni

mi sono reso conto che non ho le dita o le braccia per fare il 9A, ma che il mio punto di forza è la testa e il modo in cui lavora in situazioni difficili. Riesco a restare razionale, a prendere le decisioni giuste, a tenere duro e a continuare a spingere capendo fin dove è possibile farlo.

Cosa comporta essere da solo su una parete del genere per così tanti giorni? È molto provante, ti accorgi subito di quante cose in più devi fare. Tutto si dilata. Mi sono reso conto di quante cose si danno per scontate del compagno di cordata. Specialmente negli ultimi giorni anche un gesto banale come prendere qualcosa dal fondo del saccone mi costava una tale fatica mentale e fisica che a volte preferivo lasciar perdere. Con un compagno, poi, anche le emozioni sono divise: quando uno è stanco o giù di morale, l’altro prende il comando.

E il materiale? Essendo solo, hai optato per una maggiore leggerezza? Leggerezza è una parola grossa, perché il saccone pesava comunque 30 kg, ma ho cercato di minimizzare al massimo il materiale. Avevo il necessario per la scalata e ho tagliato qualsiasi fronzolo. Ho imparato in Yosemite e Alaska che portarsi più cose significa più comodità, ma anche più fatica e più tempo.

Ci sono stati momenti in cui hai pensato di rinunciare? La sera, quando mi ritrovavo stremato nel portaledge, ci ragionavo. Il meteo continuava a essere incerto... Però pensavo anche a tutta la fatica fatta per arrivare fino a lì: non volevo rifarla, questo mi spingeva a resistere.

Le condizioni meteo non sono state ideali, tanto che sei rimasto in parete 9 giorni invece dei 4-5 preventivati, e in più avevi la febbre il giorno prima della partenza. Ci racconti come è iniziata la scalata? Ho fatto il trekking per il campo base con il sole. Mi sono ammalato, ma il tempo continuava a essere bello e ho iniziato a fare i vari su e giù per portare il materiale. Dopo una settimana è arrivato il monsone e tutto è diventato imprevedibile. Le previsioni davano brutto, ma al mattino c'era il sole. Quando sfruttavo il bel tempo, dopo poche ore iniziava a nevicare. L’acclimatamento è avvenuto in queste condizioni. Quando mi è stato comunicato che ci sarebbe stata una giornata di tempo stabile, avevo già il materiale alla base e ho pensato di approfittarne per fare i primi dieci tiri, che arrivano a una grande cengia. Volevo portare lì il saccone e il portaledge, così da essere davvero pronto a partire non appena si fosse presentata una finestra di

bel tempo di almeno tre giorni. Quando sono arrivato alla cengia, però, ero stremato: il saccone si incastrava in continuazione, costringendomi a scendere e risalire... Non volevo rifare quella fatica. Così, dato che secondo le previsioni il meteo sarebbe rimasto instabile ma con qualche finestra di bel tempo, ho deciso di rimanere e di provare a continuare la scalata. Su nove giorni, solo due sono rimasto nel portaledge. Altrimenti, anche se era un po’ brutto, provavo a salire. A volte riuscivo a fare 4-5 tiri, a volte uno e poi nevicava.

Prima parlavi del ruolo della testa: sicuramente è stata essenziale per affrontare le disavventure che ti sono capitate in questi nove giorni. Per citarne due, ti si è bucato il portaledge e ti è caduto l’assicuratore. Quando sono partito mi sono detto: le uniche cose che non devono succedere in questa scalata sono rompere il portaledge e perdere l'assicuratore. Non ci volevo credere, continuavano a succedermene. Ma anche in quelle situazioni difficili sono rimasto lucido e focalizzato.

Come hai risolto con l’assicuratore?

Mi sono arrangiato con quello che avevo, cioè il secchiello e un cordino. È un sistema che avevo già usato, che però funziona bene se fai artificiale e se ti muovi piano. Così ho contattato i ragazzi che si stavano occupando delle riprese e gli ho chiesto di attaccare al loro drone il grigri che avevo lasciato giù. Era un drone piccolo, non adatto al trasporto di oggetti, ma la consegna è andata liscia.

Il fatto che la salita sia durata più di quanto avevi preventivato ti ha creato problemi? Al terzo giorno mi sono reso conto che avrei dovuto razionare il cibo. Ogni sera aprivo la busta, ne mettevo metà nella busta vuota della sera prima e mangiavo il resto. Insomma, sono riuscito a moltiplicare i pani e i pesci!

Come è stato l’arrivo in cima? È stato come tornare alla realtà. Sai quando scali un tiro in falesia e per quei dieci minuti ti isoli e sei totalmente concentrato?

Ecco, sono stato in quella condizione per nove giorni. Ero talmente focalizzato che non davo ascolto né valore alle cose che non mi servivano: le cose che mi mancavano, i problemi che mi stavano capitando, il freddo, il non mangiare... Quando sono arrivato all’ultimo pendio di neve, mancavano cinque metri, ho capito che ce l’avevo fatta. Ricordo l’emozione, la morsa allo stomaco, il respiro mozzato... mi sono messo a piangere.

So che hai avuto qualche problema ai piedi. Come va adesso? Il freddo delle ultime notti a seimila metri e le scarpette strette tenute tutto il giorno hanno danneggiato le terminazioni nervose. Ora [circa un mese dopo, ndr] va meglio. Nel giro di qualche mese dovrei recuperare al 100%.

Raccontando su Instagram di Eternal Flame hai ribadito il tuo modo di approcciare la montagna, prendendo le distanze da una visione dell’alpinismo più social e pubblicizzata. Ognuno vive l’alpinismo nel modo che preferisce, ma secondo me è importante ricordarsi che stiamo facendo alpinismo, appunto, non marchette. Gli sponsor possono aiutare e ad alcune persone, non è il mio caso, permettono di fare alpinismo a tempo pieno. Allo stesso tempo bisogna avere una visione dell’alpinismo: dobbiamo ricordarci perché lo facciamo, chi ci ha ispirato. Questo inverno mi allenavo due volte al giorno e nei giorni di riposo lavoravo come guida alpina. La sera non volevo passare le mie due ore libere editando video o cose simili, ma sentivo invece il bisogno di passare del tempo con la mia fidanzata, con i miei amici, con me stesso. Se un giorno farò l’alpinista di professione sarà perché valgo come alpinista, non come influencer.

Discovering Lakes La magia dell’autunno in Alto Adige

È il 12 settembre e fuori dalla finestra scendono già i primi fiocchi della stagione. Solo ieri camminavo in pantaloni corti a 2000 metri, adesso quel sentiero sarà già coperto da qualche centimetro di neve.

La prima nevicata è sempre così, arriva all’improvviso e ti fa pensare che da domani in poi sarà inverno, ma presto si scioglie e lascia spazio a un paio di mesi di cieli tersi, sentieri poco affollati e fogliame acceso di sfumature dorate: forse il periodo che preferisco per camminare in montagna. La destinazione per questi giorni è l’Alto Adige. Ho scelto una serie di trekking poco conosciuti, accomunati da uno degli elementi che piú amo fotografare: i laghi, dove si riflettono nitidi i panorami carichi di atmosfera dei cieli autunnali.

Giro ad anello ai Laghi del Covolo, 2405 m s.l.m., Val Venosta

PUNTO DI PARTENZA:

PARCHEGGIO “VECCHIA SEGHERIA”, CASTELBELLO

DISLIVELLO: 970 MT

LUNGHEZZA TOTALE: 14,5 KM

Il mio primo trekking mi porta ai Laghi del Covolo, una meta mai troppo affollata che conserva intatto il suo fascino selvaggio. La Val Venosta mi accoglie con un cielo suggestivo attraversato da nubi basse e dense che a tratti si dissolvono rivelando roccaforti medievali e terrazzamenti di meleti fin sui pendii di media quota. Partiamo di buon’ora dal parcheggio della forestale sopra all’abitato di Castelbello, un borgo risalente al 1200, e fin dai primi passi l’atmosfera si

fa magica. Il sentiero, circondato da fitti boschi di conifere e immerso in una leggerissima nebbia mattutina, sembra quasi nascondere un segreto, che si svela lentamente man mano che si sale e la vista si fa più ampia. Raggiungere i Laghi del Covolo non è difficile: il dislivello totale non è eccessivo, ma richiede una certa dose di costanza. Dopo qualche ora di cammino, la scena che mi si apre davanti ripaga ogni fatica. I laghi si presentano come piccole gemme bluastre incastonate nelle rocce nere del crinale di confine tra Val Venosta e Val d’Ultimo, il silenzio intorno è quasi surreale.

Ogni tanto, il sole fa capolino tra le nubi, illuminando per qualche secondo l’acqua, che si accende di riflessi d’argento prima di tornare alla sua calma scura. Ho provato a fissare

questo contrasto con la macchina fotografica, ma la vera magia di questo luogo, in un giorno così, è il movimento, l’alternanza costante di luce e ombra, di silenzio e vento. Sono rimasta a lungo qui, con il sole che a tratti mi riscaldava e il vento leggero che increspava appena la superficie dell'acqua. È in questi momenti che mi rendo conto di quanto amo l’autunno in montagna: c’è una pace che raramente si trova in altre stagioni, una tranquillità che ti avvolge e ti invita a rimanere.

Saluto la Val Venosta per dirigermi ancora più a nord: i prossimi giorni farò base a Brunico, in Val Pusteria, punto strategico per raggiungere le prossime mete e, così come la mia destinazione precedente, ben collegato al capoluogo di provincia Bolzano da autobus e treni.

Laghi Gelati, 1.970 m s.l.m.,

Valle di Scaleres

PUNTO DI PARTENZA:

PARCHEGGIO ESCURSIONISTICO

DELLA VALLE DI SCALERES

(AI PIEDI DEL MASO STEINWENDT)

DISLIVELLO: 571 MT

LUNGHEZZA TOTALE: 7,1 KM

Mi è capitato spesso di visitare Bressanone e i suoi dintorni, ma non immaginavo che fra le montagne a est della città si nascondesse una meravigliosa valletta che conduce a questi piccoli gioielli alpini. Siamo in Val Scaleres, nelle Alpi Sarentine, e la destinazione di oggi sono i Laghi Gelati (Schrüttensee). Il sole oggi non si fa desiderare, la pioggia leggera della notte ha lasciato il terreno umido e l’aria è pregna di odori di terra bagnata e boschi autunnali. In questa stagione i sentieri hanno un fascino tutto loro, più intimo e silenzioso. Nella zona dei laghi

se ne trovano a decine, combinabili secondo le proprie capacità. Quello che abbiamo scelto noi, il numero 13, si inerpica subito ripido lungo il torrente, questa volta però non c’è bisogno di correre: la salita è meno impegnativa della precedente e l’atmosfera sospesa invita a rallentare e godersi profumi e suggestioni. Usciamo presto dal bosco e raggiungiamo una serie di prati dai colori ancora vividi nonostante la quota. Da qui si vede già il primo lago, con le rive verde smeraldo incorniciate da cirmoli e rose alpine ai piedi delle rocce chiare del Monte delle Vacche (Kühberg). L’aria tersa delle giornate autunnali rende tutto più nitido, ed è difficile distinguere il paesaggio riflesso da quello reale. Ci godiamo un bagno gelido che cancella in un attimo la fatica, e in poco tempo tempo siamo di ritorno - l’acqua di questi laghi ha un buon ricambio disponendo di affluenti ed emissari, il che ne consente

la balneazione. Da fondo valle arriva, familiare, il profumo di castagne e stufe accese: è iniziato il periodo del Törgellen. In questo momento dell'anno, durante la vendemmia, i masi contadini della regione aprono le porte al pubblico offrendo serate a base di castagne arrostite, vino novello e altri piatti tipici altoatesini fatti in casa, come zuppa d’orzo, canederli e piatti di carne salmistrata. Sul sito Suedtirol.info si trova la lista dei locali che offrono il Törggelen originale. Il più vicino a me è il maso Griesserhof, a Varna, e decido di fare una tappa qui per scaldarmi con caldarroste e un bicchiere di Sylvaner, ambasciatore dei vini altoatesini di impronta alpina. Il passaggio dall’aria pungente in quota al tepore della stube a fine gita è solo uno dei tanti motivi per cui amo visitare l’Alto Adige in questa stagione, eppure basterebbe da solo a convincermi a tornare.

Lago Verde (Grünbach See), 2.258 m s.l.m., Val Pusteria

PUNTO DI PARTENZA:

PARCHEGGIO GELENKE, A MONTE DELL’ABITATO DI CHIENES, NON LONTANO DA BRUNICO

DISLIVELLO: 650 M

LUNGHEZZA TOTALE: 8 KM

L’ultima tappa di questa serie mi porta su un percorso battuto in inverno da scialpinisti e ciaspolatori, ma decisamente meno frequentato in questa stagione. Si tratta della salita al meraviglioso Lago Verde, una terrazza panoramica a cavallo tra Valle Aurina e Val Pusteria da cui godere della vista delle Alpi del Zillertal, a nord, e delle Dolomiti, a sud.

Il luogo è ideale sia per chi preferisce semplicemente godersi la vista del lago o i piatti tipici della storica malga Moarhof, che si trova circa a metà del percorso, sia come punto di partenza per chi cerca escursioni più impegnative sulle creste panoramiche dei monti di Fundres. Tra queste c’è la selvaggia Alta Via di Fundres, una traversata di 71 km che collega Vipiteno a Brunico: ne assaggeremo un breve tratto durante l’ultima salita del giro di oggi, quella a Cima di Pozzo (Putzenhöhe, 2.438 metri), proprio sopra al lago. Il sentiero sale dolce e i boschi, meno fitti rispetto agli altri trekking, lasciano presto spazio ad ampi alpeggi, offrendo una vista che si apre a ogni passo sul paesaggio circostante.

Ogni lago che ho visitato mi ha stupita per la sua unicità. Mi ha conquistato il fascino austero e selvaggio dei Laghi del Covolo, mentre l’atmosfera idilliaca dei Laghi Gelati ha saputo regalarmi momenti di pace. E poi c’è il Lago Verde, che mi ha impressionata per la bellezza dei panorami. Il riflesso delle Dolomiti che si specchiano nelle sue acque, dalle Odle che si stagliano maestose di fronte fino alle Dolomiti di Sesto, con vista anche su Catinaccio e Latemar: uno spettacolo che lascia senza parole. Fuori stagione, il contrasto tra la pace del lago e l’imponenza di queste montagne ti regala la sensazione di essere in un luogo tutto tuo, lontano dalle folle, minuscolo eppure in armonia con la maestosità che ti circonda.

Ski in the Sky

Realizzare la prima discesa italiana con gli sci dalla seconda vetta della Terra, il K2, senza l’uso di ossigeno: era questo l’obiettivo del progetto che ha visto protagonisti Federico Secchi e Marco Majori. Durante la spedizione, però, le carte in tavola sono cambiate e non tutto è andato come previsto. Ce lo raccontano in questa intervista

Non ho mai vissuto la spedizione di Fede e Marco con distacco; ma del resto come sarebbe possibile quando condividi con loro la valle in cui vivi, le montagne che scii, le persone a cui sei legata? Se nel prima e nel durante ero una delle persone a casa che chiedono informazioni preziose, che sperano nel loro successo e soprattutto nel loro rientro a casa, ora che un capitolo si è concluso è arrivato il momento di far tacere il cuore e ascoltare. Con distacco? Impossibile. Quest’intervista è il risultato di una chiacchierata fatta nell’aria e nella luce di una mattina di fine estate, quando le emozioni non si sono ancora sedimentate e si muovono come sabbia nel vento in attesa di trovare il loro fondo e, finalmente, fermarsi.

Per voi quando è iniziata realmente questa avventura? Marco Majori: Inizia circa un anno fa, quando Federico mi dice del suo sogno di salire e sciare il K2 e che l’anno successivo sarebbe stato il 70esimo anniversario della prima salita. All'inizio non ho sposato subito l'idea, perché mi sono reso conto che è una cosa molto difficile in cui fortuna e altri aspetti giocano un ruolo fondamentale. Poi, guardando dentro di me, scopro che il K2 è la

montagna che sogno da sempre, la montagna più bella al mondo, e quindi dopo qualche giorno gli dico: “va bene, ci sto”.

Quando avete sciato il Manaslu era già un embrione l’idea del K2? Federico Secchi: No, ma sciando il K2 ci siamo resi conto che in effetti, come pensavamo, gli sci sono un ottimo mezzo per scendere velocemente dalla montagna.

Quanto la parte sci è stata importante per voi, in termini di obiettivi? F: Sono partito con l’idea di salire la montagna, ma ancora di più di sciarla. Sì, chiaramente fare la cima è stato bello, ma per me sciare il K2 era il vero obiettivo. Peccato che alcune cose siano andate storte, sia per colpa nostra che per cause esterne, e non ho potuto fare grandi cose. Soprattutto perché quando stavo scendendo dalla cima all’ultimo campo è arrivato il buio.

Siete riusciti a preparavi alla salita come pensavate? F e M: No, purtroppo quando stavamo salendo il Broad Peak, la nostra cima di preparazione, è arrivato brutto tempo e, avendo poi pochi giorni per salire il K2, ab-

biamo deciso di scendere, portar giù il materiale e in poco tempo prepararci per il nostro obiettivo principale. Se fossimo rimasti sul Broad Peak avremmo rischiato di tornare a casa “a mani vuote”, senza nulla di fatto. La questione tempo ha giocato tantissimo in questa spedizione. Abbiamo fatto passare troppo poco tra il giro di rotazione per portare il materiale fino a Campo 3 (circa 7200 metri) e la salita vera e propria. Non siamo riusciti a recuperare le forze e questo ha cambiato tutte le carte in tavola.

Alla fine Federico è arrivato in vetta al K2, mentre Marco ha rinunciato a 200 metri dalla cima a causa dell’ora tarda. Marco, quando ti sei accorto di dover salutare Fede e tornare indietro? Come ti sei sentito? M: È successo poco prima della cima, intorno agli 8500 metri. Già il nostro capo spedizione, Agostino da Polenza, mi aveva esortato via radio a tornare indietro perché ero troppo lento. Quello che mi ha fatto tornare indietro è stato proprio il rendermi conto che ero inadeguato in quel momento. Nonostante la stanchezza fisica ero tuttavia molto lucido; ho fatto un'analisi del mio ritmo e di come camminavo: non era il modo di onorare il K2. Veramente, sembravo un vecchio claudicante senza un minimo di spirito. La montagna mi ha fatto capire che era il momento di girare i tacchi, e così ho fatto. Da quel momento non ho più guardato la cima. È stata una decisione naturale, ma credo ci vogliano anche coraggio e umiltà per rinunciare, soprattutto quando ci si ha investito tanto, in tutti i sensi. La rinuncia non è una cosa da celebrare, ma su cui meditare: ci riporta a terra come uomini e con tutte le nostre fragilità.

Come è andata da quando vi siete salutati? F: Io mi sentivo abbastanza bene e ho proseguito fino in cima. Ettore, il nostro filmer che ci ha seguito con i droni, mi ha detto che sono rimasto in cima quasi un’ora. È assurdo: la concezione del tempo a quelle quote è totalmente diversa. Mi sono preparato alla discesa e ho iniziato a sciare, per 300 metri, fino all’inizio del collo di bottiglia. A quel punto era quasi buio e non si vedeva molto, la luce era piatta ed era impossibile sciare quella sezione con quelle condizioni. Dopo ho rimesso gli sci per arrivare da Marco a Campo 4.

M: Abbiamo riposato, per quanto possibi-

le. Era la terza notte che passavamo sopra i 7300 metri e il nostro corpo era piuttosto debilitato. Il giorno seguente, mentre sciavamo, sono caduto in un crepaccio che non ho visto per via della nebbia. Ero un po’ dietro Federico, convinto di seguire le sue tracce, e all’improvviso mi sono trovato a precipitare nel vuoto. Quando sono caduto avevo già sorpassato il limite, in termini di energia, e dovermi arrangiare per cercare di sopravvivere mi ha dato quel qualcosa in più che mi ha permesso di tirarmi fuori e raggiungere Fede. Ho vissuto un’esperienza che devo ancora digerire totalmente, ma se provo a spiegarla ora direi quasi mistica. Fin quando ho provato ad agire razionalmente non sono riuscito a combinare quasi niente. Poi il cervello si è spento e si è affidato alla coscienza. Rispetto al tempo che ho passato ad uscire dal buco ho dei flash, dei ricordi frammentari, non un ricordo solido. È stato bello, nonostante la sua complessità, e mi ha salvato.

E tu, Fede, come ti sei sentito quando hai cominciato a vedere che Marco non arrivava? F: Mentre scendevamo in quel tratto tra C4 a C3, l’unico sprovvisto di fisse, la visibilità era pessima. Appena si è aperto un attimo, sono sceso. Quando sono arrivato al campo e non ho visto Marco dietro di me, ho capito che poteva essere successo qualcosa. Ho cominciato a recuperare attrezzatura di emergenza e cibo, poi Marco è arrivato con gli sci da me.

M: Sono uscito, ho messo gli sci e ho dovuto aspettare di avere un minimo di visibilità per capire che direzione prendere. Fortunatamente si è aperto, ho visto le tende in lontananza e ho sciato fino a lì. Ero completamente esausto, al limite dell'edema cerebrale. Fortunatamente ho trovato Federico che mi aspettava. Continuo a domandarmi come mai. In queste situazioni si è un po’ ognuno per sé, invece lui mi ha aspettato più di un’ora.

F: Non ho mai pensato di andar via. Quando ho visto Marco mi sono sentito sollevato. Essere in due è sempre un’altra cosa. In quel momento Marco si è lasciato andare, aveva il braccio rotto. Gli ho dato i primi soccorsi, gli antidolorifici, e ho scavato un buco nella neve dove, coperti con un telo della tenda, siamo riusciti a riposarci un po’. Aveva anche iniziato a nevicare. Fortunatamente siamo venuti

a sapere che i francesi Benjamin e Sébastien erano tornati sulla montagna per recuperare del materiale ed erano a circa 3 ore da noi. Sono risaliti a darci una mano.

Il resto della discesa? M: È stata lunga. Non avevo più equilibrio né un’alta percezione del mio corpo e di dove mettevo i piedi. Abbiamo dovuto calarci con il discensore per 2300 metri, che se stai bene percorri velocemente tenendoti alle fisse. Ci sono volute 12 ore. Era una giornata bruttissima, con bufera di vento e neve.

Come vi siete sentiti quando eravate finalmente fuori dai pericoli? M: È stato bellissimo. Questi pensieri devo ancora elaborarli, però ricordo benissimo quando siamo arrivati in fondo allo sperone, al campo base avanzato, dove dalla verticalità passi all'orizzontalità, e ho trovato un gruppo di 20 persone che mi aspettavano per soccorrermi. Mi avevano preparato addirittura una barella. Io ero stupito, emozionato, continuavo a pensare di non meritare tutte quelle attenzioni. Continuavo a dire: “Mi sono rotto una spalla, mica una gamba, riesco a camminare”,

ma tutti si sentivano in dovere di darmi una mano, si è creato un clima di solidarietà e umanità pazzesco. Io per poco non mi sono messo a piangere. Spero che nessuno se ne sia accorto. Quello che mi resta di questa spedizione è l’essere stato aspettato, sempre. Potrei dire che quello che mi ha insegnato il K2 è che c’è ancora umanità, non è svanita del tutto. Ci sono certe cose, le più importanti, che solo il contatto umano ti può dare.

Dopo questa esperienza continuate a pensare che abbia senso scendere montagne di questo tipo con gli sci? F: Assolutamente. Altri fattori non ci hanno permesso la discesa integrale, ma a livello di materiale, capacità ed efficienza era assolutamente possibile. L’unica cosa che mi sento di dire è che sciare richiede molta più energia, anche se scendendo più velocemente il corpo rinasce più in fretta: bisogna arrivare in cima con energia extra per sciare un 8000. Inoltre, la neve deve essere in buone condizioni e darti la sicurezza necessaria per muoverti con gli sci. Per quanto riguarda il senso? Tutte le montagne che sono bianche ha senso sciarle.

K2-70 Diario di una (tentata) impresa

BY EVI GARBOLINO
PHOTOS RICCARDO SELVATICO
Nuove conoscenze, nuove consapevolezze:
Federica Mingolla, Anna Torretta e Silvia Loreggian raccontano la loro spedizione al K2. Ricordandoci che la montagna sa fare i regali più grandi anche quando non si arriva in cima

«Il K2 è un colosso alto quasi il doppio del Monte Bianco e si erge come una piramide sopra al Campo Base con i suoi 8611 metri. È la gigantografia di una montagna perfetta come la disegnano i bambini: a punta». È così che inizia il racconto di Anna Torretta, guida alpina valdostana che insieme a Federica Mingolla e Silvia Loreggian ha affrontato la seconda montagna più alta del globo. K2-70 è stata una spedizione italo-pakistana al femminile, partita il 15 giugno alla volta del Pakistan per celebrare il 70esimo anniversario della prima ascesa alla montagna, avvenuta nel 1954. Un progetto capitanato dal CAI in collaborazione a EvK2Cnr, che si occupa di ricerca scientifica e tecnologica in alta quota. Otto le alpiniste coinvolte: oltre alle tre guide alpine Federica Mingolla, Anna Torretta e Silvia Loreggian, c’erano Cristina Piolini, Samina Baig, Amina Bano, Nadeema Sahar e Samana Rahim.

Come noto, il 26 luglio c’è stato il tentativo di vetta per Federica e Silvia, senza l’ausilio di ossigeno supplementare. A causa dello scarso acclimatamento delle settimane precedenti, però, le due non sono riuscite a superare Campo 3 a quota 7300 metri. «Sono rimasta letteralmente a bocca aperta davanti all’ambiente montano di tutta la zona del Gilgit-Baltistan e del ghiacciaio del Baltoro», racconta Silvia, dalle cui parole traspare una grande emozione che ricorda quella di una bambina che per la prima volta scopre qualcosa di così grande

e maestoso. «Ogni giorno durante il trekking ero sempre più sbalordita e affascinata. Le dimensioni sono impressionanti, le pareti anche di più!

È un ambiente che racchiude di tutto, partendo dai 2000 metri fino ad arrivare, nell’arco di una settimana, ai colossi di 8000. E i cieli stellati! A volte facevo fatica ad andare a dormire perché mi perdevo a guardare le stelle cadenti. Sei lontano dal mondo, lontano da tutto».

Federica, abituata a sentire la roccia, ad assaporarne il calore, ha vissuto un contatto a tratti mistico: «Di quei luoghi ti rimane impressa la bellezza del paesaggio che ti circonda, l’energia della natura in cui ti ritrovi a camminare. La senti addosso, l’energia. Il ghiacciaio del Baltoro sembra non finire mai, ed è proprio così. È l’unico che invece che ritirarsi si allunga, ci hanno spiegato, a differenza dei nostri sulle Alpi. Durante il trekking ti isoli dal mondo, ci sei solo tu e la natura. Poi arrivi al Campo Base, e lì cambia tutto».

Campo

Base, un invito alla festa

Campo Base, circa 5000 metri: è qui che la “pace” dei giorni precedenti lascia spazio a nuove conoscenze e consapevolezze. «I ragazzi pakistani che ci hanno accompagnato per tutta la permanenza erano gentili e molto disponibili. Il cuoco faceva anche ottimi massaggi! Alcuni di loro erano studenti e questo per loro un lavoro

estivo. Non ci siamo mai annoiate al Campo Base: il gruppo era molto assortito e c’era sempre qualcosa da fare, un argomento nuovo di cui parlare». Anna lo descrive così, Federica invece mette il focus sulla bellezza delle persone: «Mi sono sempre sentita parte di un sistema che giudica il valore delle cose in base a se piace o meno alla maggioranza delle persone e, per forza di cose, ne sono stata influenzata: se non riuscivo in qualcosa, sentivo di aver fallito o di non aver nulla da condividere con gli altri perché, di fatto, non c’era niente nelle mie mani. In Pakistan non è così. Siamo tutti uguali e la cosa che più conta è che tu sorrida e soprattutto stia bene. Nessun portatore viene a farti pesare che non sei riuscito a fare quello che lui fa praticamente ogni anno, anzi, ti invita a ballare! Un’attitudine che non ho mai incontrato altrove».

Sugli 8000 non si giudica: ossigeno o no? Non fa differenza. Corde fisse? Presenti. È un alpinismo diverso dal nostro. Anna ci spiega che «sul K2, come su altri 8000, vengono posizionate delle corde fisse dagli Sherpa nepalesi e dai portatori di alta quota pakistani. Servono a dare sicurezza e aiuto durante la salita e discesa. Questo rende la montagna più accessibile ad alpinisti con basso livello tecnico o semplicemente a chi sale con il supporto di un’organizzazione che mette a disposizione Sherpa personali e bombole d’ossigeno. Un bel business, insomma». Per Silvia, abituata ad

«Prima di partire avrei pensato che tornare senza la vetta sarebbe stato un fallimento. Col senno di poi, credo che addentrarsi in quei luoghi con la cima come unico obiettivo sia sbagliato: abbiamo fatto e vissuto tantissimo»

un alpinismo più solitario, non è un aspetto positivo: «Lungo le vie normali la presenza delle corde fisse è un grandissimo aiuto, che però azzera le difficoltà tecniche. Ci sono poi dei pericoli oggettivi, delle zone estremamente valanghive che chi non sa valutare probabilmente ignora completamente. Tutte le variabili legate al meteo, come il vento, sono presenti in maniera esponenziale rispetto alle Alpi. Il vento che soffia a 7000 metri non è quello che che soffia a 4000. Tutte le persone si trovano a salire con le corde fisse lungo lo stesso itinerario».

«Occupare i campi avanzati è complesso», prosegue Silvia. «Campo 1 e Campo 2 sono molto piccoli e gli alpinisti che frequentano la via di salita sono troppi in proporzione alla dimensione. Insieme alle persone, si accumulano tutti quegli aspetti che nauseano chi è abituato a vivere la montagna in modo più selvaggio e solitario. Ti ritrovi accanto a cumuli di feci e vomito altrui. Questo è sicuramente l’aspetto meno romantico dell’esperienza nei campi avanzati».

Verso la vetta

È a causa delle condizioni climatiche particolarmente dure del mese di luglio che l'acclimatamento e le rotazioni ai vari campi non vanno nel verso giusto. In più, anche le condizioni di salute di alcuni membri del gruppo vacillano. «Personalmente non sono stata bene di stomaco, soprattutto a Campo 2, ma potrebbe essere stato causato dall’aver sciolto neve sporca»,

dice Anna. «Lo spazio è così limitato e inclinato, che le tende sono praticamente una sopra l’altra e non c’è spazio per passare, figuriamoci per i bisogni personali». Anna rimarrà al Campo Base a causa dei problemi con l'acclimatamento e di stomaco, rinunciando al tentativo di vetta.

«Purtroppo ho contratto un virus che mi ha tenuta ferma e debilitata», racconta invece Federica. «Stare male in quota, dover dormire in una tenda, isolata dal resto della squadra, non è stato semplice. In più, a quelle quote nessuno di noi sapeva davvero come il proprio fisico avrebbe reagito. Alimentarsi è davvero complesso, spesso il tuo corpo rifiuta o rigetta il cibo e a quell’altitudine è deleterio. Tutto quello che di solito mangiavo sulle Alpi non mi faceva star bene lì, sono dovuta andare a tentativi».

Il 26 luglio c’è il tentativo di vetta. Dopo più di trenta giorni di condizioni avverse e rotazioni interrotte, ecco una finestra di tre giorni per provare a salire a 8611 metri. «Sì, avevamo il dubbio di non essere acclimatate per quella quota e quindi di stare male. Conoscevamo bene ormai il mal di quota e pensare di soffrire non era facile. Ma ci sentivamo bene, eravamo cariche e molto motivate», spiega Federica. Aggiunge Silvia: «Siamo salite in fretta, probabilmente troppo in fretta. Abbiamo iniziato ad avere problemi di stomaco, tirandoceli dietro fino alla fine. Qualsiasi cosa provassi a mangiare mi faceva male, non riuscivo a respirare. Alla fine abbiamo deciso di rinunciare alla vetta. Non

so se abbia influito la velocità della salita sulle nostre condizioni fisiche, ma, come Federica, ho abbracciato il progetto di scalare il K2 senza ausilio di ossigeno: per me non c’è etica nel cancellare la caratteristica naturale di montagne come questa». Resta dunque un sogno per pochi eletti, quello del K2, che in questa stagione si è rivelato fin da subito come un osso bello duro. «Non abbiamo raggiunto la cima del K2», ci dice Anna, «ma la montagna ci ha insegnato il valore più grande: quello dell’amicizia».

Federica, atleta ambiziosa, rientra dalla spedizione con la consapevolezza che è un ambiente ancora lontano da lei: «Preferisco concentrarmi sulla performance, sull’allenamento e sull’affrontare sfide che conosco bene, piuttosto che sulla resistenza alla quota. In futuro, chissà: magari tornerò con un altro spirito. Prima di partire avrei pensato che tornare senza la vetta sarebbe stato un fallimento. Col senno di poi, credo che addentrarsi in quei luoghi con la cima come unico obiettivo sia sbagliato: abbiamo fatto e vissuto tantissimo».

Silvia conclude: «Grazie a questa esperienza ho stretto rapporti umani puri e mi sono conosciuta in modo diverso. In quei luoghi, senza nessuna connessione con il proprio mondo, siamo riusciti a immergerci in una realtà che mi piace chiamare “la bolla”, sconnessa dal passato e dal futuro, dove vivere a pieno il momento ed essere noi stessi in tutto e per tutto. Mi porto dietro l’energia di ogni persona incontrata nel mio percorso nella quotidianità di oggi».

Cholitas Escaladoras

Le femministe che scalano le Ande

Le polleras, ovvero le gonnellone rosse tradizionali delle donne boliviane, spiccano sull’azzurro del ghiaccio. Sotto strati di tessuto ingombrante spuntano i ramponi, mentre dal casco escono due lunghissime trecce di capelli neri. Sono le immagini scattate da Andres MacLean, fotografo boliviano che, raccontando il suo Paese, ha trattato anche la storia delle Cholitas Escaladoras, cioè quei gruppi di donne che scalano in abiti tradizionali per rendersi visibili e per manifestare la voglia di vivere la montagna al pari degli uomini.

La società boliviana è molto patriarcale e machista e alle donne vengono riservati primariamente lavori di cura. Quando affiancano in montagna i mariti, che sono alpinisti e guide, spetta dunque alle donne cucinare e lavorare come portatrici. Qualcosa però sta mutando e il movimento delle Cholitas è uno dei propulsori fondamentali di questo cambiamento. Dal primo gruppo originario, fondato intorno al 2015, oggi ne sono nati altri. Alcune lavorano come guide, mentre altre si stanno organizzando per spedizioni internazionali. Ad esempio, Dora Magueño Machaca, Ana Lía Gonzales Magueño, Cecilia Llusco Alaña, Lidia Huayllas Estrada e Elena Quispe Tincuta puntano all’Everest.

Le questioni in ballo sono tante: l’uguaglianza di genere, sicuramente, ma anche la discriminazione nei confronti delle po-

polazioni indigene. Le Cholitas scalano con gli abiti della festa, ingombranti e pesanti, per rendere chiara e palese da una parte la loro appartenenza, dall’altra il fatto che l’ambiente montano è un tutt’uno con loro, che tra le vette si sentono a casa.

«La prima volta che ho scalato Huayna Potosì, la montagna simbolo boliviana, ho conosciuto Elio, che è il marito di una delle fondatrici del primo gruppo di Cholitas, Lidia: è stato lui a parlarmi per la prima volta di loro e del loro attivismo», racconta il fotografo boliviano Andres MacLean. «Quando nel 2020 ho creato il collettivo Una Gran Nación per raccontare la cultura, le destinazioni e le persone del nostro Paese, ho pensato di includere nel racconto la storia delle Cholitas: loro stanno avendo un impatto importante nel mondo dell’alpinismo boliviano, stanno contribuendo a

PHOTOS ANDRES MACLEAN

cambiare la mentalità di questo settore».

Difficile iniziare un racconto che parli dell'alpinismo in Bolivia senza partire da Huayna Potosí, la montagna più famosa del Paese, amata tanto dai local quanto dai turisti. «È considerato il 6000 più facile da scalare perché, benché presenti i consueti rischi legati all’altitudine e alla montagna in generale, non è così tecnico come altre vette della stessa altitudine. Inoltre qui le montagne sono una presenza costante: anche la stessa capitale La Paz ne è circondata, punteggiano il panorama dell’intera nazione e, soprattutto per le popolazioni indigene, rivestono un’importanza unica e particolare. La Paz, ad esempio, è come una gigantesca conca sormontata tutto intorno dalla Cordillera real: si tratta di più di 20 picchi che circondano la città e che arrivano fino al confine con il Perù, al limitare del lago Titicaca e fino a una delle cime più alte cime del paese: Illimani. Quello che ci stava più a cuore, nel portare avanti questo progetto, era proprio raccontare la cultura della montagna che si respira in Bolivia e che è importante soprattutto per le popolazioni indigene, che vivono circondate dalle Ande. Loro le montagne le chiamano “apus”, ovvero “avi”, e rivestono un ruolo importantissimo nella cultura, simboleg-

giano qualcosa di sacro e in grado di tramandare saggezza».

Andres è un fotografo, ma ha con la montagna un rapporto viscerale, ed è per questo che ha voluto raccontare l’essenza più pura dei boliviani che amano l’alpinismo. «Cerco di scalare una montagna all’anno perché per me rappresenta un aspetto importante di appartenenza e preparazione, perché quando sono lì non importa nient’altro: l’unica cosa che conta è la montagna stessa e la connessione che hai con lei. Quando sei stanco, sia fisicamente che mentalmente, e l’altitudine fa sentire i suoi effetti, stai ponendo te stesso in una situazione di vulnerabilità, ma anche di chiarezza di visione e di crescita. Questo è il mio approccio e quello che mi ha fatto sentire in connessione con le istanze delle Cholitas, che quando scalano sono circondate dalla saggezza dei loro avi e si sentono bene, si sentono in profonda connessione con i loro apus. Arrivare a certe altitudini ha qualcosa a che fare con il divino e i boliviani e le boliviane hanno questo approccio: vanno in montagna per crescere, per essere più vicini a questi enormi e saggi avi. Non è un caso che molte delle leggende boliviane contengano montagne o vulcani: ce ne sono così tante che qualsiasi cosa li riguarda. La leggenda sul-

la formazione del Salar de Uyuni, ad esempio, vuole che l’enorme e iconica distesa di sale boliviana sia stata provocata dal pianto di una donna scappata dal marito insieme al figlio appena nato. Secondo la leggenda, dalle sue lacrime miste al latte materno si è formato il salar, mentre dalla sua morte ha avuto origine il coloratissimo vulcano Tunupa. Secondo i boliviani, infatti, tutte le montagne un tempo sono state persone».

Il gruppo di Cholitas che ha partecipato insieme ad Andres alla spedizione sul Huayna Potosì non è quello originario, ma uno che si è creato in un secondo momento e che porta avanti le stesse istanze e scala allo stesso modo, con gli abiti tradizionali. «Alla nostra spedizione hanno preso parte Alicia e Julia, una più grande ed esperta e l’altra più giovane: donne fortissime e determinate che ho voluto includere nel mio progetto di racconto non tanto per parlare esclusivamente delle Cholitas in sé, che appunto iniziavano già ad essere famose sia in Bolivia che fuori, quanto per raccontare come la loro attività stia contribuendo a cambiare la cultura della montagna nel Paese. Insieme a noi c’era anche Sergio Condori, che è uno degli alpinisti boliviani più famosi e che con il fratello ha fatto cose incredibili: l’obiettivo era quello di raccontare due modalità di vivere la montagna che condividono gli stessi valori, lo stesso rispetto e la stessa connessione con l’ambiente estremamente duro dell’altipiano, in entrambi i casi con estrema naturalezza. Dal punto di vista del documentario, quella con le Cholitas non è esattamente l’intervista più riuscita della storia. La loro risposta era sempre una: “Qui stiamo bene. No, non abbiamo freddo”. Dal mio punto di vista, invece, queste donne sono un esempio di forza unico: per la prima ora e mezzo di salita ho avuto Julia dietro di me e a un certo punto è passata lei davanti perché era troppo più veloce. Quello che stanno cercando di fare, dal mio punto di vista, è sem-

plicemente rivendicare il diritto di andare in montagna. La loro vita di tutti i giorni si svolge in una società estremamente machista, dove le donne sono primariamente relegate a ruoli di cura delle persone e della casa. I loro compiti sono cucinare e stare dietro ai figli. Molte di loro sono madri e molte sono sposate e sostenute dai loro mariti, ma al di là della situazione personale, l’impostazione della realtà boliviana è senza dubbio patriarcale».

Quello che rende le Cholitas così note è certamente anche il forte impatto visivo dei costumi tradizionali: «L’essenza per loro è che vogliono andare nelle montagne e vogliono farlo perché lì stanno bene, sono in contatto con se stesse e scelgono di farlo con i migliori abiti, gli abiti della festa, perché è questo che è per loro poter fare alpinismo: una festa. Chiaramente questo si è anche trasformato in un simbolo. Questi abiti tradizionali sono molto costosi e solitamente vengono indossati durante le feste o i matrimoni. Sotto la gonna indossano comunque degli abiti tecnici caldi e impermeabili, così come tutti i dispositivi di sicurezza; però poi sopra indossano la gonna tradizionale, la pollera. La gonna è molto pesante e ingombrante: credo sarei veramente in difficoltà a indossare un indumento del genere in un ambiente come la montagna, che è già ostile di suo e dove è importante sentirsi il più possibile a proprio agio. Ma queste donne sono felici così e, soprattutto, hanno carattere e forza da vendere. Loro non lo menzionano neanche, per loro è del tutto normale: fino a che si sentono al sicuro con l’attrezzatura, per loro non c’è nessun problema. Anche perché per loro scalare un 6000 è veramente come fare una passeggiata: Julia mi ha ucciso dicendomi che andavo troppo piano! In definitiva vogliono solo essere libere di vivere la montagna e stare in contatto con i loro apus, prenderne la saggezza e tornare giù accresciute».

Dalle

PHOTOS

Qualche mese fa ho avuto l'opportunità di visitare per la terza volta le Isole Azzorre per realizzare un grande progetto: nuotare con le balene, i giganti del mare, e riprendere i miei incontri subacquei per un documentario con Stefano Tosoni, Achille Mauri e Filippo Delzanno. Questo arcipelago composto da nove isole vulcaniche, nel cuore dell'Oceano Atlantico, sospeso tra il blu profondo del cielo e quello ancora più misterioso delle acque sottostanti, è un luogo magico, dove la natura parla forte e dove gli abitanti ascoltano gli elementi naturali con rispetto e ammirazione profondi.

Visitando questo posto per lunghi periodi, ho capito che vivere nelle Azzorre non è solo un fatto geografico. Significa abbracciare un’esistenza intessuta nella trama dell'oceano che modella ogni giorno la vita, il carattere e lo spirito delle persone che chiamano queste isole casa. Qui l’oceano è più di un semplice panorama o una risorsa economica: è un elemento fondamentale dell’i-

dentità. Crescere circondati dalle acque dell'Atlantico significa imparare a leggere il tempo meteorologico nel colore del cielo, temere la trama invitante delle onde, conoscere i segreti di queste acque profonde e rispettarli completamente.

L'oceano per gli Azzorrani è un maestro, un fornitore e un guardiano: insegna la pazienza ai pescatori, che attendono il momento giusto per lanciare le reti; la prudenza ai marinai, che devono navigare rispettando i capricci di queste acque turbolente; la generosità agli isolani, che arricchiscono le tavole con i pesci, i crostacei e le alghe, fonti vitali di sostentamento. Infine, l’oceano è un guardiano: con la sua imponenza isola ma allo stesso tempo protegge, creando un senso di comunità unico e coeso che poche volte ho potuto ammirare durante i miei viaggi.

Una delle caratteristiche che più mi hanno colpito degli abitanti delle Azzorre è che sono abituati a condivide-

re tutto, dai frutti della pesca giornaliera alle storie raccontate nelle piazze dei villaggi, e sono capaci di tessere una rete di relazioni fortissime e vere, la cui genuinità ti entra dritta nel cuore. Le loro forti personalità sembrano scolpite dalle onde, come le scogliere vulcaniche che caratterizzano queste coste. La resilienza è una qualità innata qui, imparata osservando l'incessante battere del mare contro la roccia, resistente e stoica.

C'è una profondità emotiva che mi commuove in chi vive così vicino all'infinito dell’oceano. Una tendenza a guardare oltre l'orizzonte in modo umile, con la consapevolezza che ogni giorno è un dono in un luogo tanto esposto agli umori di Madre Natura. Le Isole Azzorre per me non sono solo un luogo di straordinaria bellezza naturale. Sono diventate soprattutto un esempio luminoso di come un profondo legame con il mare possa modellare una comunità in modi che vanno ben oltre il geografico, in un racconto di interdipendenza, di rispetto e di amore. L’ocea-

no qui è ascoltato, rispettato e amato.

Così non l’ho presa troppo male quando, durante questa visita, l'oceano non è stato benevolo con me. Con venti fortissimi, tempeste violente e onde alte, il nostro tempo in acqua è stato limitato ma, con estremo stupore, ciò che ho trovato sulla terraferma si è rivelato ancora più prezioso di quello che speravo di documentare sotto la superficie del mare.

Durante un lungo pomeriggio di attesa, sperando in una finestra di bel tempo, stavamo parlando con Enrico, il responsabile dell'organizzazione di biologi marini che stava dirigendo le nostre immersioni. Ci stava spiegando come fosse possibile avvistare le balene in mare così velocemente, come sono soliti fare, e raggiungerle; e ci ha parlato di Antero, un ex cacciatore di balene ora dedito all'osservazione dalla sua torretta sulla costa. Affascinata da questo “mestiere” e da questa trasformazione, non ho perso tempo e sono andata a trovarlo.

La torretta è il luogo dove ogni giorno Antero collabora con l'ente di Enrico, aiutando dall'alto l'avvistamento dei cetacei. Appena arrivata, Antero ha iniziato generosamente, come solo gli Azzorrani sanno fare, a raccontarmi la sua vita, che sembrava uscita da un romanzo di Melville. E io, nonostante il mio disturbo d’attenzione conclamato, non sono riuscita a smettere di ascoltare, commossa, avvicinandomi per la prima volta a comprendere davvero il complesso rapporto tra uomo e balene che, prima di allora, avevo potuto solo immaginare, conosciuto attraverso notizie o articoli e giudicato da lontano.

Antero, ormai vicino agli 80 anni, ricorda vividamente i tempi in cui la caccia alle balene non era messa in discussione. Ogni giorno affrontava il mare aperto con paura, su imbarcazioni non affidabili, per sostenere la sua famiglia in un ambiente isolato nel cuore dell'Atlantico, dove altre risorse erano quasi inesistenti. Con l'introduzione delle leggi che vietano la caccia alle balene, la sua vita ha preso

una svolta: da cacciatore è diventato osservatore, aprendo il cuore ai sentimenti repressi che nutriva verso questi mammiferi. Oggi, Antero si sente gravato dalla responsabilità di proteggere le balene e il loro habitat.

Le Isole Azzorre vantano una storia secolare di interazione umana con le balene, risalente ai tempi dei colonizzatori portoghesi. Con il declino delle popolazioni di questi cetacei, nella seconda metà del XX secolo, e con la crescente consapevolezza della loro importanza ecologica, la caccia è stata prima regolamentata e poi sospesa. La caccia alle balene è una pratica che ha radici millenarie, iniziando come una necessità di sussistenza per molte comunità costiere. Le balene venivano cacciate per il loro grasso, utilizzato come olio per lampade, oltre che per la carne e il baleen, una sostanza utilizzata in molti prodotti artigianali. Nel corso dei secoli, la caccia si è evoluta da pratica di sopravvivenza locale a vasta industria commerciale. Nel XVII e XVIII secolo, nazioni come

il Regno Unito, gli Stati Uniti, la Norvegia e il Giappone svilupparono flotte baleniere capaci di intraprendere lunghe spedizioni oceaniche. Questo periodo segnò l'inizio della caccia ai cetacei su larga scala, che raggiunse il suo apice nel XIX secolo con l'introduzione di tecniche di cattura più efficienti, come il cannone arpioniere.

Piano piano però, logicamente, l'industrializzazione della caccia ha portato a un drastico declino delle popolazioni di balene, suscitando preoccupazioni globali riguardo alla sostenibilità di questa pratica. La crescente consapevolezza delle implicazioni ecologiche ha condotto alla formazione della International Whaling Commission (IWC) nel 1946, con l'obiettivo di regolare la caccia e promuovere la conservazione. Nel 1986, l'IWC ha istituito un moratorium globale sul commercio delle balene, una decisione che ha portato a una svolta storica. Questo divieto ha segnato un cambiamento decisivo, trasformando le Azzorre da luogo di cattura e macellazione a pa-

radiso di fama mondiale per il whale watching, un'attività che promuove la conservazione dei cetacei e educa il pubblico sul loro ruolo cruciale nell'ecosistema marino.

La profonda connessione tra gli Azzorrani e il loro ambiente acquatico mi ha offerto una lezione di vita basata sul rispetto reciproco e sulla coesistenza. E la storia di Antero e del cambiamento culturale nelle Azzorre hanno palesato un contrasto marcato con la situazione attuale, gravissima e urgente, di un altro Paese che sento “casa”: l’Islanda.

L'Islanda, infatti, è uno dei pochi paesi che, nonostante il moratorium internazionale, ha continuato la caccia commerciale alle balene. Dopo un breve periodo di cessazione, ha ripreso l’attività nel 2003, sostenendo che le popolazioni di alcune specie come la balenottera comune si fossero sufficientemente riprese per sostenere una caccia limitata. Questa decisione è stata fortemente criticata dalla comunità internazionale, che la considera

un pericoloso precedente per la conservazione delle specie marine.

Il serio e grave problema della caccia alle balene in Islanda non è solo una questione di conservazione ma anche di etica: essa è gestita principalmente da una sola compagnia privata, la quale, grazie a licenze governative, ha il monopolio di questa attività. È incredibile pensare che, per il benessere economico di una sola compagnia privata, non solo la sopravvivenza di specie minacciate sia messa a rischio, ma anche l'impatto sull'ecosistema marino sia ignorato. Le balene svolgono ruoli cruciali nei loro habitat, come la regolazione delle popolazioni di altre specie e la fertilità degli oceani attraverso la distribuzione di nutrienti.

L'opinione pubblica in Islanda è divisa e una crescente percentuale della popolazione si oppone alla caccia. Nonostante ciò, il Governo islandese ha mostrato riluttanza nel porre fine a questa pratica, spesso giustificandola con argomentazioni economiche che non

tengono conto dell'impatto ecologico a lungo termine. Il governo islandese ha nei mesi scorsi autorizzato la caccia di 128 balene, sollevando preoccupazioni internazionali riguardo gli impatti devastanti di questa decisione. Ciò ha suscitato un dibattito etico e ambientale a livello globale, evidenziando la necessità di riconsiderare le politiche di conservazione marina di questo stato: il dilemma islandese che mette in luce quanto spesso possa esserci tensione tra tradizione, economia e conservazione. Mentre il mondo si muove verso la protezione e la conservazione delle specie in via di estinzione, l'Islanda rimane un esempio controverso di come le pratiche arcaiche possano persistere nonostante le evidenze scientifiche e il cambiamento delle opinioni pubbliche.

Questa situazione ci impone di considerare il nostro ruolo come cittadini globali e difensori dell'ambiente. È essenziale che la comunità internazionale e i cittadini esprimano la loro opposizione attraverso l’attivismo individuale, come l'invio di e-mail al Governo islandese per promuove-

re un cambiamento nella politica di conservazione delle balene. Quello che possiamo fare è mandare una comunicazione ai politici islandesi per condividere la visione che abbiamo riguardo questo enorme problema e, chiaramente, cercare di influenzare la loro decisione. Fare attivismo ha delle conseguenze positive e tutti noi possiamo comunicare al Governo Islandese che ci definiamo contrari alla loro tolleranza rispetto all'uccisione di altre balene: basta scrivere un’email a nefndasvid@althingi.is, in inglese, dove esprimiamo il nostro dissenso. Dedicando solo pochi minuti del nostro tempo a questa causa, possiamo contribuire a una trasformazione necessaria in Islanda, affinché le balene possano essere rivalutate come è già avvenuto alle Azzorre, passando da vittime della caccia a esseri da rispettare, osservare e ammirare. È essenziale che la comunità internazionale continui a esercitare pressione sull'Islanda per rivedere le sue politiche in materia di caccia alle balene, promuovendo un approccio più so -

stenibile che possa garantire la conservazione di queste specie cruciali per la salute degli ecosistemi marini. Solo attraverso un impegno globale e un riconoscimento delle responsabilità condivise potremo sperare di vedere un cambiamento significativo in questo settore critico.

Questo è ciò che mi importa di più comunicare: proteggere le balene non significa solo salvare delle specie in pericolo, ma anche preservare la nostra relazione con l’ambiente naturale e rafforzare la nostra umanità. Guardare queste creature imponenti da vicino mi ha fatto sentire minuscola, indifesa e, contemporaneamente, parte di un meccanismo complesso, raffinato ed enorme. Questo è il potere della natura: cambiarci, guidarci e instillare ispirazione nei nostri cuori.

Barocco savoiardo

L’UTMB dei ritiri, visto da dentro

BY FILIPPO CAON
PHOTOS ALEXIS BERG

Nel 2021 ho visto il primo atleta riuscire a vincere per la quarta volta UTMB. Nel 2022 ho visto il primo atleta vincere la gara in meno di 20 ore. Nel 2023 ho visto il primo atleta uomo americano riuscire a farlo. Quest’anno ho visto il primo atleta non professionista da Marco Olmo in poi, in altre parole il primo amatore, mettere in fila tutti i professionisti e segnare il terzo miglior tempo nella storia della gara.

Il discorso fatto da Vincent Bouillard sotto all’arco di arrivo è stata una boccata d’aria fresca per uno sport sempre più irrigidito da dinamiche commerciali, un discorso romantico, quasi d’altri tempi. Visti in prospettiva, i tanti ritiri della notte, ripuliti dalle singole circostanze, sembrano nel complesso assumere tutto un loro significato, lasciando trasparire la sofferenza di un approccio a questa gara, chiamiamolo pure sistema, forse destinato a non durare, o quantomeno destinato a non fare durare gli atleti e le loro carriere. Per quanto potranno continuare a inanellare DNF dopo DNF, anno dopo anno, nel tentativo di compiacere non soltanto le ma-

nie di protagonismo degli sponsor, ma anche le pressioni del pubblico e di noi commentatori? A caldo, dopo diverse ore passate a Courmayeur a vedere i migliori atleti al mondo saltare uno alla volta prima di metà gara, ho postato una storia in cui scrivevo che era uscita la solita gara orribile al last man standing. Lì per lì non ho avuto modo di sviluppare la questione, lo farò adesso, ma partiamo dall’inizio.

Arrivando a Chamonix ci si domanda come Tommaso Labranca abbia potuto concepire il “barocco brianzolo” senza essere mai stato all’UTMB. D’altronde UTMB è brianzolo in tutto se non per l’orografia, da Vangelis al centro congressi Majestic, dai neon di Notre-Dame de la Gorge all’applauso della partenza (già altrove definito “la cosa con le mani” e spudoratamente copiato da una tradizione nordica, ma anche un po’ da We Will Rock You). È barocco brianzolo perché è tutto grande, tutto lusso e massimalismo. È soprattutto epico e affettato ma nelle cose più triviali, come i reel di Instagram. In questo è anche molto trash.

Per immergermi immediatamente nell’atmosfera dell’UTMB, arrivato in Francia procedo col tradizionale ritiro del pass stampa al Majestic, quintessenza del barocco brianzolo, con cui inauguro il mio annuale soggiorno chamoniardo. Da un paio d’anni hanno anticipato la presentazione degli atleti élite al mercoledì, così io e Lisa andiamo ancora tutti raffazzonati all’Hotel Mont Blanc, che aveva già dato il titolo al mio primo reportage sulla gara, e dove i giornalisti hanno la possibilità di intervistare gli atleti. A ogni media sono concessi pochi minuti, ridotti ancora di più dagli atleti, che per lo più chiacchierano tra di loro. Svincolati da questo momento un po’ imbarazzante, ci spostiamo tutti al Triangle de l’Amitié, la piazza da cui parte la gara e in cui si trova il palco delle premiazioni. Pur trattandosi dell’evento più grande al mondo, alla presentazione degli atleti non c’è quasi nessuno o, meglio, siamo anche in tanti, ma solo una minima parte di tutti i presenti a Chamonix. La gente si trova per lo più altrove, nei negozi soprattutto, o all’expo, in cerca di un gadget gratis o dell’ultima

scarpa lanciata. Sul palco presenziano naturalmente Michel e Catherine Poletti, i coniugi arnolfini dell’ultra-trail, che hanno venduto una quota di minoranza del loro impero al colosso del trash Ironman, riuscendo comunque a tenerne le redini, almeno all’apparenza, quantomeno per presenziare al baciamano di Place de l’Amitié.

Da un anno all’altro, a Chamonix non si notano grandi differenze. L’organizzazione ha ridistribuito gli spazi dell’expo, ci sono un po’ meno bandiere aziendali e in generale c’è meno gente del solito. Chiacchiero con qualche editore e con qualche dipendente aziendale un po’ annoiato da tutto: c’è poco ottimismo, ma solo tra noi italiani. Gli unici giornalisti italiani alla presentazione atleti, d’altronde, siamo io e Lisa. La sala stampa invece è più affollata del solito, il clima è quello di Riccione a Ferragosto e chi ne ha l’opportunità cerca ristoro all’ombra delle pesanti tende in velluto rosso che avvolgono le sale del Majestic di un pigro torpore estivo. Il giovedì passa per lo più tra queste inutili attività e quasi nessuno sembra

accorgersi che c’è in corso la OCC e che si sta inscenando una gara spettacolare. Negli ultimi anni l’attenzione verso OCC e CCC è aumentata soprattutto tra il pubblico, merito della migliore copertura live e della spettacolarità delle distanze più brevi. Si tratta sempre di gare combattute, giocate sui minuti. Seguirle sul percorso è piuttosto difficile a causa dei passaggi molto ravvicinati, così bisogna rintanarsi in un café e guardarla dal telefono, sacrificando tutto ciò che Chamonix ha da offrire all’esterno di quella vetrina. Accade dunque questa cosa per cui trovarsi lì o a Cologno Monzese non fa molta differenza, solo che il caffè costa il doppio ed è verde e acidulo.

La sala stampa e l’arco di arrivo sono a poche centinaia di metri l’uno dall’altra, così ad ogni arrivo c’è tutto un pellegrinaggio di giornalisti e fotografi, dal Majestic alla piazza e dalla piazza al Majestic. L’organizzazione di UTMB è talmente efficiente che pubblica le foto della gara mentre la gara è ancora in corso, bruciando sul tempo tutti i media che sono venuti a Chamonix apposta

per fare quello. C’è dunque questa cosa per cui l’evento cresce a tal punto da rendere superfluo il lavoro di tutti quelli che hanno contribuito a farlo crescere. Io che l’ho capito in sala stampa ci vado soprattutto per il caffè, come quando si andava in biblioteca all’università, a guardare tutti gli altri fare finta di studiare. Tolta un’intervista, il venerdì è soprattutto una lunga attesa. Fa fresco e il sole deve ancora sorgere dall’Aiguille du Dru. Per la prima volta da qualche giorno non ci sono gare in corso, CCC deve ancora partire e la città inizia già a svuotarsi dei media, delle aziende e dei curiosi. All’expo si vendono le ultime magliette, le ultime buste di elettroliti. Poi, nel pomeriggio inizieranno a smontare tutto e a buttare nel residuo i costosissimi pannelli pubblicitari degli stand, per lasciare spazio al mercato cittadino del sabato mattina, e l’aria festosa e spensierata del giovedì lascia spazio a un velo di tesissimo silenzio. Presto diventerà folla e urla e musica e lacrime e gioia e delusione. E poi tornerà silenzio: una fila di luci che risale una montagna. Verso le cinque e mezza di pomerig-

gio Rue du Paccard inizia a popolarsi di una lunga fila di gente, fino a poco prima rintanata all’ombra dei cafè. Sulla linea di partenza gli speaker parlano troppo a lungo e riescono a ritardare la partenza dell’UTMB, ma una volta suonato Vangelis e fatte le solite scenette per far venire la pelle d’oca anche ai sassi, si può finalmente andare. In fondo, è una settimana che aspettiamo, qualcuno mesi, altri anni. Il gruppo ci mette una decina di minuti a defluire, poi, inizia un’altra gara, quella per uscire da Chamonix in auto e arrivare alla statale che porta al primo ristoro, a Saint Gervais. Poi, inizia la notte. Quando corri UTMB, la prima metà di gara, da Chamonix a Courmayeur è già di per sé una gara –80 chilometri sono tanti, soprattutto di notte – ma da fuori è tutto fretta e affanno. C’è giusto il tempo per cenare e per prendere la corriera per l’Italia, anche un po’ con l’ansia di non farcela.

Arriviamo a Courmayeur verso le 2:50 di mattina e capiamo che la gara sta andando diversamente dal solito perché, oltre a Jessica Brezau – la moglie di Jim Walmsley –, nella base vita ci sono già anche gli assistenti di altri corridori. Nel live tracking della gara Jim è segnato come primo e, quando sentiamo i primi applausi provenire dall’esterno del palazzetto, Jessica si alza in piedi. Tutti ci aspettiamo lui, invece entra un corridore mai visto. Parla francese e si chiama Vincent Bouillard. Lì per lì lo liquidiamo come un tradizionale attacco giacobino e rivolgiamo l’attenzione a Germain Grangier e Tom Evans che lo seguono di poco. Nel frattempo Jess, ancora un po’ impietrita, sta ancora aspettando Jim, poi ci guarda e simula un finto sorriso come a dire “è tutto previsto”. Poco dopo inizia a controllare compulsivamente il cellulare e si confronta con una che prepara un altro tavolo lì accanto.

Intanto i minuti passano, e ne sono passati ormai otto quando arriva Jim. La faccia è quella già vista in altri momenti, e che speravamo di non rivedere più.

Si siede, mangia e passa un po’ di tempo con Jessica. Lei parla, lui annuisce, scuote la testa e fissa il piatto di brodo. Passano così minuti interi, sembrano ore. Intanto passano il decimo, l’undicesimo, il quindicesimo. Katie Schide, prima donna, entra in base vita in diciassettesima posizione. La guardiamo cambiarsi, buttando di tanto in tanto l’occhio su Jim.

Quando ormai tutti lo diamo per spacciato, 19 minuti dopo, avviene questa scena un po’ illusoria e inaspettata. Jim si alza, si rimette lo zaino, Jessica prende il borsone, lo bacia e si avvia dal lato opposto al suo, mentre lui esce camminando dall’altra parte. Noi giornalisti abbiamo i gomiti appoggiati a una fila di transenne di plastica gialla che ci separano dal ristoro. Jim cammina alla nostra estrema sinistra fino a scomparire dietro agli obiettivi delle fotocamere. Un cameraman lo segue, e allora voltiamo tutti lo sguardo a destra, dall’altro lato del palazzetto, verso lo schermo che proietta la diretta. Una volta uscito dalla grande sala del palazzetto, si appoggia con la schiena al muro e accavalla i pie-

PHOTO ADVENTURE BAKERY

di, come un cameriere sul retro del locale, prima di accendersi una sigaretta, e scambia due parole con un tipo che passa di lì. Jess, che nel frattempo era andata dall’altra parte della palestra, attraversa di nuovo tutto il ristoro e lo raggiunge un’ultima volta. Lei lo guarda, lui riparte e scompare, lei fa un’espressione unica e indescrivibile, poi lo segue. È ancora in gara? Non si capisce ancora.

Da lì in poi, la solita Courmayeur: tanti ritiri, troppi, il caffè alle quattro del mattino, e poi la corriera verso Chamonix e un’altra mezz’ora di sonno rubata a una notte senza fine. Verso le nove di mattina recuperiamo Francesco Puppi e andiamo all’Argentière per fare colazione dai ragazzi di Vert Run. Mentre beviamo il caffè facciamo una rapida conta e constatiamo quanto segue: Jim ritirato, Evans ritirato, Blanchard ritirato, Tollefson ritirato, Mityaev ritirato, Shen ritirato, Garrivier ritirato, Capell ritirato. Tutti prima di metà gara. L’ultimo favorito ancora in corsa, Germain Grangier, si sarebbe ritirato poco dopo, a Trient.

È a quel punto che mi sovviene la malsana idea: questa gara fa schifo. Poiché ognuno legge ciò che vuole leggere e trae le conclusioni che vuole trarre, trascurando più o meno in cattiva fede dettagli fondamentali alla corretta comprensione di un testo scritto, la mia constatazione ha suscitato indignazione nella microscopica scena del trail running italiano, ignorando totalmente che fosse rivolta non tanto ai poveracci che la gara l’hanno corsa, quanto all’infelice spettacolo di Courmayeur a cui avevo tristemente assistito in prima persona. Partendo dal presupposto che

una gara brutta non esclude che sia una gara di livello, e anzi che le due cose non hanno nessuna relazione (i Tour De France di Chris Froome erano di livello pur essendo una noia mortale da guardare), proviamo a fare il ragionamento inverso, due punti e a capo.

Nel complesso, la gara è stata di grande livello agonistico, tanto che la top ten è stata la più veloce di sempre (ma non il podio, che invece è il più lento degli ultimi tre anni, ma vabbè). Mettendo da parte Bouillard, che ha vinto, Chassagne e Lopez, che nel 2023 erano arrivati rispettivamente decimo e undicesimo, quest’anno hanno fatto rispettivamente secondo e terzo, migliorando il proprio tempo di circa un’ora, che è tanto ma non è incomprensibile. Dei nove corridori che li avevano preceduti nel 2023, quest’anno quattro si sono ritirati, due non erano alla partenza, e tre gli sono arrivati dietro, senza peggiorare né migliorare (se non di pochi minuti) la loro performance dell’anno prima. Insomma, la top five di quest’anno è facilmente spiegabile e meritata, dimostrando che la gara è stata di alto livello agonistico. Resta però fermo che tutti i corridori dati per favoriti fino al giorno prima della gara si sono ritirati prima della metà. A questo punto le opinioni si dividono. C’è chi ha scritto che è stata una bella gara e chi ha scritto che è stata orrenda, ma non è questo il punto. Il punto è che, bella o brutta che sia, non è sana. Non è sana per lo sport e non è sana per le singole vite e carriere degli atleti che continuano a collezionare ritiri su ritiri, in nome di un approccio alla gara che chiunque, loro per primi, reputano suicida, e cioè partire a tutta e vedere come finisce. Non è sana perché finisce sempre male, mentre chi adotta una strategia opposta fa quasi sempre molto bene, come dimostra Ludovic Pommeret, che anno dopo anno migliora la sua prestazione partendo in fondo e risalendo decine di posizioni, come un avvoltoio, e raccogliendo i cadaveri lungo il sentiero.

Il rapporto finished/did not finished di atleti come Walmsley, Tollefson, Mitya-

ev e Capell è drammatico, portando in alcuni casi conseguenze negative non solo sulle loro carriere ma anche sui loro profili psicologici e motivazionali. Non è colpa loro, che fanno del loro meglio, non è colpa delle aziende che probabilmente non sono nemmeno così interessate ai risultati dei loro atleti se non quando vincono, non è colpa del pubblico, che tutto sommato ne sa poco, né dei media che fortunatamente hanno sempre un ruolo positivo e mai troppo critico. Insomma non è colpa di nessuno, ma se l’approccio a questa gara, almeno in quella maschile, sta andando in una direzione che, anno dopo anno, logora la reputazione di ottimi atleti, forse qualche domanda dovremmo farcela. E continuare a definire “bella” una gara di ritiri forse non fa bene a nessuno. E questo non significa che Bouillard non meritasse la vittoria, ma significa che sarebbe stato bello vederlo vincere di fronte a tutti gli altri.

Se fino a cinque o sei anni fa l’approccio “all in” veniva adottato solo da qualche americano, regolarmente etichettato come arrogante, che puntualmente saltava prima dell’alba mentre un noiosissimo [inserisci nome francese] rimontava posizioni senza superare attivamente nessuno, recentemente questo approccio è stato adottato sempre da più corridori, con gli esiti di cui sopra. Se nel 2018 era emozionante vedere Zach Miller attaccare insensatamente alla prima salita, adesso forse è insensato: l’approccio “all in” ripaga un corridore su venti, e a quel corridore riesce sì e no una volta, come nel caso di Jim Walmsley nel 2023 e che quest’anno non è riuscito a ripetersi. L’aumento del livello a OCC e CCC sta portando a gare sempre più combattute e tirate, con spettacolari detonazioni e colpi di scena, a UTMB sta invece portando soltanto DNF (1001 su 2761, per la precisione). Torno a Chamonix anno dopo anno, e anno dopo anno vedo più sogni infranti che avverati. Forse è il bello di questo sport, o forse è solo la sua declinazione europea, tutta eroi e giganti, o forse è solo un inequivocabile segno di sadismo, imbellettato con arazzi e musiche epiche.

Queen Katie

Katie Schide, atleta The North Face, ha vinto l'Ultra Trail du Mont Blanc 2024 con un tempo di 22h09’31”, battendo il record del 2021 detenuto da Courtney Dauwalter. Queste le sue impressioni a caldo, poche ore dopo aver conquistato il gradino più alto del podio femminile

Katie, congratulazioni! Come ti senti ora che sono passate solo poche ore dalla gara? Personalmente ho sempre difficoltà a elaborare le emozioni e ciò che ho vissuto immediatamente dopo aver tagliato il traguardo, e per te sono passate meno di 24 ore. Come la stai vivendo? L’hai riassunto molto bene, è difficile rispondere a questa domanda. Ti svuoti e basta, e poi ci si aspetta che tu abbia delle emozioni per le quali al momento non sento di avere già dello spazio. Adesso si tratta più che altro di barrare le caselle delle cose che devono essere fatte. Una volta tornati a casa, ci prenderemo del tempo per lasciare che le cose si depositino.

Pensi di essere il tipo di persona che si prende davvero del tempo per elaborare le esperienze e le gare, ritagliandosi abbastanza tempo e spazio mentale per recuperare, oppure passi da un'esperienza all’altra, da una gara alla successiva quasi senza darti modo di provare qualcosa, di crescere, di riflettere? Tra una gara di corsa e l’altra, quando sei nel pieno della stagione, c’è sempre

un nuovo obiettivo che rende la stagione fluida e ti mantiene coinvolta e motivata. Ma una volta che la stagione è conclusa e l’ultima gara è fatta, quello per me è davvero un momento dell’anno diverso. Dal termine della stagione fino a quando inizio a correre di nuovo in primavera, non appena nevica mi concentro di più sullo sci. Il mindset non è lo stesso, ma credo possa essere importante avere piccoli obiettivi che ti mantengano entusiasta rispetto al fare la tua corsetta quotidiana, anche se non sei davvero nel pieno dell’allenamento. Questo ha funzionato bene per me in passato. Non voglio parlare di “stagione off”, perché le persone potrebbero pensare che non ci alleniamo davvero. In realtà non vuol dire che non ci stiamo allenando, ma solo che lo stiamo facendo con un obiettivo che è abbastanza lontano. L’allenamento, quindi, non è così specifico e focalizzato come nei mesi immediatamente prima di un grande obiettivo.

Sai già qual è il tuo prossimo grande obiettivo o devi ancora deciderlo? Non devi dirmelo, onestamente detesto farti questa domanda. Tutti continuano a chiedermi se

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correrò la Hardrock, quindi è la prima cosa che mi viene in mente. Certamente cerco di pensare con più di un anno di anticipo e a un certo punto mi piacerebbe andare a un Campionato del mondo, mi piacerebbe andare alla Hardrock, vorrei correre di nuovo Zegama… Ci sono così tante cose che potremmo fare. Probabilmente mi prenderò del tempo in autunno per vedere quali idee si adattano meglio al prossimo anno.

Sembra che nelle tue ultime gare tu abbia usato un approccio abbastanza aggressivo, impostando un ritmo veloce fin dall’inizio e provando a raggiungere il record. Non necessariamente con l’obiettivo di batterlo ma, penso, molto consapevole della tua forma fisica e sicura delle tue possibilità. UTMB non ha fatto eccezione. Ci sono stati dei momenti durante la corsa in cui le cose non sono andate come immaginavi o forse erano più difficili di quanto ti aspettavi? Delle parti in cui hai sentito che avresti potuto fare meglio? La fine della corsa è stata molto dura, avevo molti crampi allo stomaco e al diaframma. Dico di non avere rimpianti rispetto alla gara, ma forse quella è la parte in cui vorrei aver potuto fare meglio. Onestamente, le cose avrebbero potuto andare meglio in qualunque punto della gara; non voglio rimanere troppo bloccata lì, ma è stata dura! Sono contenta di come me la sono giocata. Volevo essere sicura di me stessa e credo che molto di ciò derivi dall’aver corso la Western States un’ora più veloce dell’anno scorso. Ho pensato: ok, su una corsa di 15-16 ore ho tolto un’ora, quindi, parlando di percentuali, dovrei essere in grado di togliere anche di più dal mio tempo del 2022 a UTMB. Credo sia questo il motivo per cui ho iniziato a sentirmi sicura di me, perché mi dicevo: ho fatto questa cosa dal 2023 al 2024, quindi perché non dovrei poter fare lo stesso dal 2022 al 2024? Posso ottenere un miglioramento persino maggiore.

Dal mio punto di vista, c’è sempre un qualche tipo di processo mentale che rimuove la fatica e il dolore che provati durante la gara, perché non penso che si rifarebbe la stessa cosa ogni volta se davvero ci si ricordasse

quanto è stato duro. Vale lo stesso per te, specialmente dopo una gara come UTMB, dove immagino sia super doloroso spingere così tanto così a lungo? È stata la gara più dura che hai fatto o ci sono state altre gare recenti in cui hai sofferto di più? No, no! È molto più facile soffrire quando stai vincendo che quando stai provando ad arrivare all’ottavo posto, è buio, piove e vorresti stare in testa, ma non lo sei. Quello è molto più difficile!

Quando ti è capitato l’ultima volta? Beh, alle mie prime due UTMB… Ma, anche tralasciando la vittoria, alla Diagonale des Fous l’anno scorso mi sono sentita svuotata per le ultime cinque ore e mi sono trascinata verso la fine. Sicuramente ci sono state altre gare dure, ogni gara lo è in modo diverso. Hai mai corso una ultra, tipo qualcosa sopra i 50K?

Sì, ho corso per esempio la Grand Trail des Templiers, Lake Sonoma 50… Una volta che inizi a superare le dieci ore, è difficile per le persone capire che l’intensità non è la stessa delle gare brevi. Ad esempio, in OCC ti senti molto male per cinque o sei ore, mentre a UTMB io mi sono sentita leggermente male ma per un periodo di tempo estremamente lungo. In realtà va a ondate: a volte ti senti bene, a volte molto male, ma c’è di più in questo equilibrio. Alcune gare corte sono molto più dolorose, questo è ciò che cerco di ricordare a me stessa quando faccio ski mountaineering. Lo skimo mi ha insegnato quanto male tu ti possa sentire per un lungo periodo di tempo: puoi stare male per una o due ore e ancora riuscire a fare ciò che devi durante la gara. Quindi, quando sei in una gara come UTMB e ti senti abbastanza male per un paio d’ore, ti dici: almeno non così terribile, è accettabile!

È più un problema del “mio” tipo di gare. Sì, quello che faccio io è davvero, davvero un tipo di intensità diverso.

La gara maschile e quella femminile si sono svolte in modi diversi: nella gara femminile la maggior parte delle favorite è riuscita a finire e ad occupare la maggior parte dei po-

sti tra i primi 20, nella gara maschile invece è stata una grande sorpresa vedere così tanti élite abbandonare e alcuni atleti relativamente sconosciuti finire davanti. Cosa ne pensi e quale credi sia il motivo principale? Credo dipenda dall’anno, quale gara finisce per essere una carneficina più di altre. Sicuramente non c’è una densità di donne pari agli uomini, quindi può essere un po’ meno stressante. Ci si gioca un po’ meno le proprie carte perché non si è circondate da altre dieci donne allo stesso tempo. Non si sta gareggiando uno contro uno con nessuno, quindi si corrono meno rischi. Questo invece è sicuramente un fattore nella gara maschile. Il numero di uomini è semplicemente maggiore di quello delle donne.

Pensi sia giusto dire che il livello del trail running, sia per gli uomini che per le donne, non è ancora dove potrebbe essere? Sì, sicuramente. Il trail running è uno sport ancora in evoluzione e abbiamo ancora molti “problemi di crescita”. C’è molto altro in arrivo, credo stiamo andando nella direzione giusta.

Tornando alla gara maschile, mentre seguivo la diretta sentivo che come comunità, anche dal punto di vista mediatico e di storytelling, non siamo ancora pronti ad accettare ed essere fan dei nuovi atleti che arrivano e vincono le gare se non sono le persone che già tutti conoscono: atleti nordamericani o europei, grandi nomi come Jim Walmsley, Mathieu Blanchard, Tom Evans. Prendi Joaquin Lopez dall'Ecuador, ad esempio: non è nemmeno così nuovo, in realtà, ma le persone generalmente non lo conoscono e sembrava quasi che facessero fatica ad accettare che qualcuno come lui potesse stare in testa alla gara, come se avesse meno qualità o fosse meno emozionante da seguire. Sembrava quasi “deludente”. Un altro esempio è Vincent Bouillard, un ragazzo relativamente sconosciuto e che non è nemmeno un atleta professionista, che ha fatto una prestazione incre-

dibile. Ho avuto la stessa sensazione dopo la Transgrancanaria di quest'anno, vinta dal rumeno Raul Butaci: sembrava quasi che per molte persone la gara non avesse lo stesso valore non essendo stata vinta da un nome famoso nel nostro sport - il che ovviamente non è vero. Come esseri umani ci piacciono i finali da fiaba, ma quando finiscono diversamente ci sentiamo un po' delusi, sicuramente disorientati. Che ne pensi? Ci piace avere i nostri personaggi nello sport, questo è certo. Ma mentre la disciplina cresce, ci sono più opportunità per più persone e questo semplicemente apre le porte a nuovi atleti che si allenano più seriamente e competono ad alti livelli. La Transgrancanaria è un ottimo esempio: è una gara dove gli spagnoli sono di casa, poi vengono qui e a vincere sono gli atleti francesi. Penso che la gente sottovaluti il vantaggio del “terreno di casa”, sicuramente aggiunge qualcosa. L'ho notato anche su me stessa: più francese ho imparato negli ultimi anni, più mi sono sentita a mio agio, ad esempio semplicemente capendo cosa dice la gente intorno a me. Non sei più uno straniero in un posto estraneo, ma ti senti più a casa.

Hai vinto molte gare e sei riuscita ad alzare l'asticella anno dopo anno: pensi che con questo sia arrivata anche più pressione, sia dall’esterno che da te stessa, o sei riuscita a tenerla entro un livello accettabile? So che la pressione maggiore arriva sempre da me stessa. Ma alla fine è una mia scelta essere qui. Sono fortunata: ho un corpo sano, vivo in Europa o negli Stati Uniti, ho una famiglia che mi supporta, potrei trovare un lavoro se ne avessi bisogno… non è che la mia vita sia in bilico.

Ottimo punto di vista. E la magia di Mercantour [dove Katie vive, ndr]? Perché sembra aiutarmi anche nella mia corsa! Mercantour è un posto speciale, tranquillo, in cui senti di essere davvero in montagna, e non in una città di montagna. Credo sia un buon posto per allenarsi, riposarsi e recuperare.

Vincent Bouillard

L’underdog

che ha dominato UTMB

Il lunedì dopo l’UTMB ho appena attraversato il tunnel e passato Courmayeur, quando mi arriva un messaggio: “Mercoledì alle 14 hai un’intervista con Vincent Bouillard, hai 20 minuti”. L’ho visto tagliare il traguardo nemmeno 48 ore prima, in quel giorno e mezzo avrà già fatto ottocentocinquantadue interviste e ne avrebbe fatte altrettante nei due giorni seguenti, molte sarebbero uscite nel giro di poche ore su internet mentre i tempi della carta stampata sarebbero stati molto più lunghi, ciononostante sono riusciti a ritagliarci un po’ di tempo per fargli qualche domanda. Così quel pomeriggio arrivo a casa e inizio a scrivere il racconto della settimana, lasciando depositare nel frattempo le mie curiosità. Ho mille domande ma ho il tempo di fargliene soltanto alcune. Nelle ultime ore, tutti hanno scritto di tutto sulla gara, ma alcune cose non mi sono ancora chiare. Quella che mi incuriosisce di più è la fiducia e la sicurezza che ha lasciato trasparire durante tutta la corsa, soprattutto nella prima parte, quando niente e davvero niente avrebbe pronosticato la sua vittoria. Guardandolo correre e soprattutto analizzando la replica il giorno dopo, tuttavia, sembrava che nella sua testa fosse del tutto aperta e, anzi, quasi

certa la possibilità e la convinzione di poter correre in meno di venti ore, nonostante una ristrettissima rosa di corridori ci fossero riusciti in passato, corridori con cui d’altronde si era allenato, ma contro cui non si era ancora mai trovato a competere.

Da Notre Dame de la Gorge, che dopo aver mantenuto questo nome per mille anni è stata presto ribattezzata “Fly Zone” sull’altimetria delle mappe, fino a Courmayeur non c’è copertura video se non nelle basi vita, così mi interessava soprattutto sapere cosa fosse successo lì, lontano dai riflettori, quando la gara ha iniziato ad aprirsi.

È stato strano perché a Courmayeur aspettavamo tutti Jim, visto che il tracking segnava lui come primo, ma sei arrivato tu. Ci racconti quando lo hai superato?

Salendo all’Arete du Mont Favre ho superato Grangier e Tom Evans, mi sono accorto che stavo bene e ho deciso di continuare a quel ritmo, non andavo molto più forte di loro ma ho cercato di creare un po’ di gap. Poi, scendendo a Courmayeur, più o meno a metà della discesa, mi sono accorto che stavo raggiungendo Jim. Non so esattamente perché, ma a quel punto ero convinto che ci fosse un altro corridore davanti a lui – alle aid station

non hai il live tracking davanti quindi cerchi di capire come va la gara in base a quello che senti dai volontari –quando l’ho superato è stato divertente perché io e lui siamo buoni amici, e così gli ho dato una pacca sulla spalla, lui si è girato ed era felice e sorpreso di vedermi, ma non stava già più bene; così quando l’ho superato gli ho chiesto quanto davanti fosse il primo e lui mi ha detto “no, no, sei tu davanti ora”. Non mi aspettavo sarebbe mai successo di trovarmi lì, ma a quel punto lui mi ha incoraggiato e ci siamo detti che ci saremmo visti più tardi. Ho messo il pilota automatico e ho cercato di isolarmi rispetto alla gara in sé, pensando alla mia gara. A Courmayeur ho cercato di passare poco tempo, ma senza avere fretta, e poi sono ripartito al mio passo senza spingere troppo sulla salita per il Bertone.

Ho visto un breve video della prima salita in cui stavi già correndo con Jim Walmsley e Germain Grangier. Qual è stato il tuo approccio all’inizio e cosa ti ha reso abbastanza sicuro di te da capire che quello poteva essere il tuo posto? Domanda interessante. Sebbene fosse la mia prima volta, conoscevo il percorso molto bene: avevo seguito molto spesso l’evento, conoscevo le varie sezioni,

così sono arrivato con un’idea molto chiara degli split con cui avrei potuto correre. Ero felice di essere davanti, ma durante la prima salita mi sono accorto che sarebbe stata davvero dura a quel ritmo. Così ho cercato di restare più in controllo. Il fatto che fossi davanti non ha avuto grande impatto, ho cercato soprattutto di concentrarmi su di me, senza preoccuparmi degli atleti con cui ero, chi fossero e quanto forte o piano stessero andando. È vero, è una delle mie prime gare importanti, ma ho molta esperienza negli sport endurance in generale e avevo fiducia sulla mia preparazione e così ho cercato di concentrarmi su di quello.

Come hai gestito i blocchi di endurance con il tuo lavoro full time?

Bella domanda. Molti anni fa facevo triathlon, e lì è difficile allenarsi perché hai molte ore da fare, tre sport e così via. A confronto il trail richiede molte meno ore, così da quel punto di vista è stato quasi più semplice, o comunque ero abituato da questo punto di vista. Vivendo ad Annecy era anche più facile fare specificità, avendo un terreno molto simile a UTMB a pochi chilometri da casa. Quando ti alleni per un’ultra come l’UTMB devi considerare certe cose specifiche, ma la cosa più importante sono le ore che passi sulle gambe, e non fa molta differenza se fai il workout in soglia il martedì invece del mercoledì, la mattina o la sera.

La cosa importante è abituare il corpo ad allenarsi a qualsiasi ora, e questo è un punto a favore per chi lavora. Il mio lavoro, comunque, mi permette di avere grande flessibilità, anche potendo lavorare con l’Asia e con l’America, fissando meeting e riunioni a orari anomali e lasciandomi il resto della giornata più scarica.

È stato di ispirazione per molti ascoltare le tue parole all’arrivo della gara. Grazie, sono contento che

sia stato di ispirazione, per me è la cosa più importante dello sport. Penso che i social media abbiano un ruolo molto importante e positivo, permettono la diffusione delle informazioni e fanno sì che le persone possano restare in contatto da parti del mondo molto lontane. È anche uno strumento di marketing molto importante, così le aziende lo usano: io non lavoro nel marketing ma lavoro in Hoka, quindi vedo da molto vicino come funziona e li conosco. C’è un’immagine che vogliamo fare passare dello sport ed è importante, ma forse spesso è troppo perfetta e un po’ distaccata rispetto alla realtà e rischia di diventare frustrante e difficile magari per persone che sentono di non essere al livello che viene rappresentato sui social. Non voglio criticare i social e dire che sono il male, io stesso li uso a livello personale e anche in questi giorni sto cercando di rispondere a tutti. Quello che intendevo parlando di libertà è che non hai bisogno di essere un atleta professionista, e non l’ho detto io ma l’ho imparato negli Stati Uniti, ad esempio, per riuscire a fare quello che fai. Un atleta professionista non è che non ha un lavoro, è solo che il suo lavoro è diverso dal mio e consiste nel passare del tempo sui social, avere dei rapporti con le aziende, fare le interviste e, insomma, mettere insieme tutte quelle cose che gli permettono di fare l’atleta. Il mio lavoro è l’ingegnere in un brand di scarpe e questo mi permette allo stesso modo di restare in contatto col mio sport e interessarmene.

Non penso che sia una buona cosa per lo sport se la metà degli atleti professionisti si ritira prima della metà della gara. Pensi sia dovuto alla pressione che possono sentire su sé stessi? Pensi possa essere dovuto a quello che il pubblico o noi media vogliamo? Parto dicendo che molti si ritirano a Courmayeur

perché è il posto migliore per farlo: la discesa prima è molto lunga e se non stai bene arrivi lì con le gambe distrutte. Spesso fa freddo, quindi è il punto più strategico e soprattutto in cui è più facile gettare la spugna. Salendo a Col Du Bonhomme non stavo bene, così ho iniziato anche io ad avere brutti pensieri in quella salita e che avrei potuto abbandonare a Courmayeur, e non ho nessun contratto o obbligo come atleta. Quindi penso sia dovuto al fatto che la gara è molto dura e se cerchi di correre forte il ritiro è una possibilità reale. Le persone vogliono fare UTMB ogni anno, è la gara di 100 miglia col livello più alto, e gli atleti semplicemente vogliono esserci – non so se sia dovuto agli sponsor – ma vogliono esserci, e se il loro allenamento non è perfetto è facile che si ritireranno, ma ciononostante vogliono esserci e provarci.

Dylan Bowman ti ha definito un underdog. Pensi che il fatto che un underdog abbia vinto la gara più importante al mondo possa cambiare qualcosa nel sistema del nostro sport? Non lo so, non ho la pretesa di cambiare qualcosa, alla fine è solo una gara. Certo, ha avuto molta risonanza la cosa e quello che posso sperare è che questo possa semplicemente creare nuove opportunità per gli atleti e che gente nuova possa attirare l’interesse delle aziende, ma non ho la pretesa di essere io a portare questa cosa, è solo qualcosa che mi auguro che accada.

Come stai recuperando? Bene, penso che quando un’ultra va come deve andare il recupero è molto veloce. Nei giorni successivi alla gara non sto facendo sport, ho bisogno di staccare un po’, ma nel complesso sto molto bene e sto cercando di gestire la parte di interviste che per me è completamente nuova, ma la prendo giorno per giorno.

LAST WORD

Un’esperienza unica, completa. Un’attività che isola dal mondo, stimola l’immaginazione, le emozioni. Leggere aiuta la concentrazione, migliora la memoria, sviluppa l’empatia, aumenta la creatività. Una recente ricerca ha evidenziato come, nel nostro cervello, la lettura stimoli gli stessi neuroni che si azionano quando pratichiamo altre attività. È come se noi stessi facessimo fisicamente quel che sentiamo fare ai protagonisti di un libro. Già nel 2006 si era testimoniata la stretta relazione fra mente e suggestioni grafologiche, dimostrando come leggere le parole

“caffè” o “profumo” stimolasse immediatamente la parte del sistema celebrale connessa al senso dell’olfatto. La novità, stavolta, sembra confermare come gli effetti non si limitino al tempo della lettura, ma abbiano conseguenze strutturali. Secondo uno studio condotto dal neuroscienziato Gregory Berns un buon libro può realmente trasportare il lettore nel corpo del protagonista. E non si tratta soltanto di abilità narrativa, ma è qualcosa che accade a livello biologico, fisico. L’attivazione aumentata di queste regioni cerebrali sarebbe la prova che durante la lettura il nostro

cervello si “immerge” completamente nelle emozioni e situazioni descritte. Non solo. I lettori, attraverso le pagine di un romanzo, sarebbero addirittura in grado di sviluppare quella che viene chiamata “emboded semantics”, un processo celebrale in cui pensare un’azione rispecchia la connettività che si verificherebbe se l’azione fosse realmente svolta. In parole povere, pensando ad una nuotata si potrebbero innescare le stesse connessioni neurologiche di una sessione di nuoto in piscina. A leggere di Emil Zatopek o Roger Bannister, quella di una corsa vera.

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