negli angoli più aspri del Colorado: la racconta Meghan Hicks, volto iconico dell'ultrarunning americano
Lavaredo Ultra Trail
Il grande sogno di tutti i trail runners
ha animato le Dolomiti. Il racconto
dalle strade di Cortina, la gara e il ritorno in La Sportiva di Andreas Reiterer
Andrea on the road
Sulle strade polverose del Marocco, un viaggio «di famiglia» emozionante per connettersi con le comunità locali attraverso l'arrampicata
È il 2015, Hardrock 100 Endurance Run è finita il giorno prima e Meghan Hicks, Editor in Chief di iRunFar, registra la tipica intervista post gara con la fresca vincitrice Anna Frost. Se digitate su YouTube “Anna Frost, 2015 Hardrock 100 Champion, Interview” la trovate. La scena è questa: c’è un divano beige, con davanti due tavolini in teak con due tovagliette sbiadite. Accanto al divano, tagliata dall’inquadratura, c’è una lampada che potrebbe essere di mia nonna. Hicks e Frost sono stese sul divano con la testa appoggiata ai braccioli e le gambe all’insù, sullo schienale, coi piedi scalzi e appoggiati su due asciugamani, come per far defluire il sangue e ridurre la ritenzione idrica della gara. Sono a Silverton, o a Baselga di Pinè, nessuno può dirlo.
Flash-forward. È il 2024, da giorni su Instagram vedo foto di Silverton e pensare che un anno fa non c’era un’anima mi fa venire il magone. L’organizzazione della gara non pubblica quasi niente, tutti
BY FILIPPO CAON PHOTO ELISA BESSEGA
quelli che ci stanno attorno tantissimo: escono video e informazioni sulla gara, decine di fotografie degli atleti, della città, del percorso. La portata mediatica è cresciuta esponenzialmente in tre anni, forse anche da un anno all’altro.
Flash-back. Circa un mese fa, mi trovo a Milano per fare un’intervista per un progetto a cui sto iniziando a lavorare. Mi trovo in un seminterrato, circondato da appendiabiti per isolare il suono, a intervistare Filippo Canetta, uno dei primi italiani ad aver corso in America. Gli chiedo dove reperisse le informazioni all’epoca: «Le informazioni erano molto poche. Leonardo Soresi aveva fatto tante gare e aveva sempre un occhio rivolto di là, Davide Grazielli aveva la passione per gli Stati Uniti e l’ha sempre raccontata. Era bello perché erano informazioni frammentarie. Allora lì uno sognava e ci costruiva una specie di immaginario proprio. Adesso se voglio sapere qualcosa di una gara ho almeno dieci EDITO
video di uno che l’ha fatta e che mi racconta tutto. Si perde l’aspetto di sognarla, di immaginarsela, di immaginare le sensazioni di quello spazio».
Le fotografie, i coverage video e i completini degli atleti pro sono una mano di vernice patinata su un quadro incrostato. Il carrozzone mediatico che due settimane fa si trovava in California adesso si è spostato nel sud-ovest del Colorado, tra un mese sarà in Francia e poi chissà. Ma tra una settimana, Silverton tornerà a essere avvolta dal freddo e dal silenzio. Chi ha visto quei luoghi, o ha anche soltanto passato il tempo a scavare i blog html del decennio scorso, sa che quei riflettori non c’entrano niente con lo spirito di quelle gare. Non è tradirne l’identità cercare di fare apparire professionale una cosa che non ambisce ad esserlo? Quando il motivo per cui questi eventi ci fanno sognare è proprio quello, e non è intrinseco ad essi, non è eterno, ma dipende da noi e da come le raccontiamo?
Fresh Foam X Hierro v8
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EDITOR IN CHIEF
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EDITORIAL COORDINATOR
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COLLABORATORS
Filippo Caon, Ilaria Chiavacci, Chiara Guglielmina, Evi Garbolino, Sofia Parisi, Fabrizio Bertone, Eva Toschi, Luca Albrisi, Luca Schiera, Giulia Boccola, Valeria Margherita Mosca, Lisa Misconel, Chiara Beretta, Davide Fioraso, Nicola Mercogliano
Inaugurato nel 2023, Wild Tee Milano è il mondo di Wild Tee dove poter non solo vedere e acquistare tutti i prodotti del brand, ma anche conoscere la sua vera anima. Lì, il team crea e progetta contenuti ed eventi mentre i corridori si ritrovano per le corse, per chiacchiere di running e perchè no, anche per leggere un libro. È uno showroom dove retailer, stampa e fornitori possono toccare i materiali ed scoprire ogni dettaglio delle collezioni. Dove? Via Gian Antonio Boltraffio 14, Milano.
FERRINO E WEROAD LANCIANO PACHAMAMA, ZAINO PER I VIAGGI ON THE ROAD
Lo zaino Pachamama 50L è nato dall’unione delle competenze tecniche di Ferrino e dell’esperienza dei coordinatori WeRoad per tutti i viaggiatori che, una volta pronti per partire, non sanno mai quale bagaglio portare con sé. Pachamama è ergonomico e performante: perfetto per correre da uno scalo internazionale all’altro. Il suo nome deriva dalla mascotte di WeRoad: un alpaca di peluche portato dal Perù da uno dei tre co-founder.
UNA RACCOLTA FIRME PER SALVARE IL VALLONE DI SEA NELLE VALLI DI LANZO
Una nuova strada carrozzabile larga 2,5 metri in Vallone di Sea, Val Grande di Lanzo, è ciò contro cui si batte la nuova raccolta firme promossa dall’Associazione Tutela Ambiente Ciriè, Associazione APS e Gruppo Valli di Lanzo in Verticale. Un’opera che potrebbe distruggere per sempre la natura di uno dei valloni più belli e selvaggi del Piemonte e rivelarsi completamente inutile, perchè l’alpeggio a cui essa condurrebbe non è soggetto ad alcun progetto di riqualificazione ed è abbandonato.
ORTOVOX SUPPORTA LA MOSTRA THE MOUNTAIN TOUCH AL MUSE DI TRENTO
The Mountain Touch è una nuova mostra realizzata in collaborazione con il Museo Nazionale della Montagna – CAI e con l’Istituto per la BioEconomia del CNR visitabile fino al 17 novembre 2024 al MUSE di Trento. Viene presentato un percorso artistico immersivo dove la “montagna che cura” si coniuga con “la cura della montagna”. Ortovox ha scelto di affiancare l’opera My Private Fog per il richiamo alla forma e alla materia dei ghiacciai nel contatto intenso con la persona.
SALEWA PRESENTA
LA BIKE-TO COLLECTION
Nata come capsule collection ed entrata poi a far parte della collezione principale, Bike-to di Salewa è dedicata agli appassionati di sport di montagna e pensata per raggiungere le vie di arrampicata e i sentieri alpini in modo più confortevole, libero e sostenibile. Si compone di capi multifunzionali per pedalare, camminare e arrampicare in materiali naturali che richiedono l’impiego di un quantitativo limitato di risorse come canapa tessile, lana merino e fibre TencelLyocell.
The new Spitze collection
The legacy of the peaks in a collection born from the experience of the best climbers and mountaineers.
THE DAILY PILL
BY LISA MISCONEL
LA CALZATA NATURALE
È IL SEGRETO DELLE SCARPE ALTRA
Altra, il brand re del zero-to-low drop, sta conquistando sempre più appassionati grazie alla ricerca per garantire un allineamento naturale del corpo che incoraggi una postura migliore e una distribuzione bilanciata del peso alleviando l’eccessiva pressione sull’avampiede. Il puntale spazioso consente ai piedi di muoversi naturalmente, migliorando il comfort e la stabilità.
K2-70, LA SPEDIZIONE CAI AL FEMMINILE SUL K2
K2-70: è questo il nome dato alla spedizione CAI sul K2 per celebrare i 70 anni della prima salita (italiana) alla seconda vetta più alta della Terra dopo l'Everest. Nella squadra, le quattro alpiniste italiane Anna Torretta, Federica Mingolla, Silvia Loreggian e Cristina Piolini e le pakistane Samina Baig, Amina Bano, Nadeema Sahar e Samana Rahim. Dopo il trasferimento ad Askole, ultimo villaggio prima del ghiacciaio del Baltoro, è iniziato il trekking fino al campo base.
MATTEO DELLA BORDELLA DI NUOVO IN GROENLANDIA
Il team composto da Matteo Della Bordella, Symon Welfringer, Silvan Schüpbach e Alex Gammeter va in Groenlandia per coronare l’obiettivo di salire una grande parete, inviolata, a circa 300 chilometri da Tasiilaq. L’avvicinamento via kayak sarà la parte logisticamente più meticolosa ed importante: infatti, il team dovrà portare con sé 320 chili di attrezzatura per 300 chilometri di kayak. La partenza, fissata per l’11 luglio, è stata rimandata per via dell’abbondante presenza di ghiaccio.
GRAN TRAIL COURMAYEUR, LA SPORTIVA
PER IL SECONDO ANNO AL FIANCO DEI RUNNERS
Dopo la Lavaredo Ultra Trail, La Sportiva è stata main sponsor anche del Gran Trail Courmayeur, parte del circuito TORX eXperience. È il secondo anno che l’azienda della Val di Fiemme sceglie di supportare atleti e trail runners in questo evento, che si è tenuto dal 12 al 14 luglio. «La passione per la montagna, il supporto alle comunità di atleti e lo spirito di condivisione sono i pilastri della nostra filosofia, e partecipare a questo evento ci permette di riaffermarli con orgoglio», ha detto Giulia Delladio, Corporate Marketing Director di La Sportiva.
COURMAYEUR FEELING MOUNTAIN: A TU PER TU CON I FUORICLASSE DELLE AVVENTURE ESTREME
Courmayeur Feeling Mountain è la rassegna di incontri, in collaborazione con Ferrino, con sette personalità del mondo dell’avventura e dell’alta quota. Si inizia il 2 agosto con Enrico Mosetti, guida alpina e sciatore. Il 9 tocca all’esploratore polare Alban Michon, mentre il 14 arrivano Anna Torretta e Federica Mingolla. Si prosegue con l’atleta paralimpico e recordman Andrea Lanfri (il 16), l’alpinista Alex Txikon (il 23) e il campione di ultracycling Omar Di Felice (il 30). Al Jardin de l’Ange a Courmayeur, sempre dalle 21.15.
SPARK SPEED S GTX FAST HIKING ADAPTS TO YOU.
BEST MADE
BY DAVIDE FIORASO E CHIARA BERETTA
1.LA SPORTIVA
ACROSS LITE VEST
Gilet antivento, facilmente comprimibile, che combina un comodo e caldo mesh; la protezione ideale, sempre a portata di mano, per le cime ventose o la fresca brezza del mattino. Across Lite Vest è leggero e funzionale, sviluppato per il mountain hiking e per attività ad alta intensità. Cappuccio elasticizzato, ergonomico e protettivo.
4.EASTHILLS
A NYMAKA HAMMOCK STAND
Una scelta pratica ed elegante per garantire relax immediato in qualsiasi momento. La struttura principale in alluminio, resistente alla corrosione, si configura in pochi secondi grazie al design Snap-Fold. La borsa da viaggio in dotazione si adatta perfettamente al bagagliaio dell’auto. Parasole resistente ai raggi UV e portabicchieri integrato.
2.NEMO DOUBLE HAUL
CONVERTIBLE DUFFEL & TOTE
Una combinazione rivoluzionaria per soddisfare ogni esigenza. Le fibbie a rilascio laterale trasformano il borsone in ampia tote bag, con una speciale struttura che la mantiene in posizione verticale. Tante tasche per organizzare al meglio i tuoi spazi, tessuto esterno in nylon riciclato 420D approvato bluesign. Disponibile in versione da 30, 55, 70 e 100L.
5.ASICS
FUJI SPEED 3
Una calzata rinnovata che si adatta alla linea naturale del piede per correre in velocità e sicurezza sui sentieri, anche impegnativi. Confortevole e resistente, la Fuji Speed 3 ha una piastra in carbonio su tutta lunghezza per aumentare lo slancio senza perdere stabilità. L'intersuola ha un sistema di ammortizzazione FF Blast Plus.
3.ALTRA
O LYMPUS 6
La sesta versione di Olympus si presenta con una tomaia del tutto nuova, sia nel design che nei materiali, con un mesh ingegnerizzato che migliora la traspirabilità nelle lunghe giornate. Mantiene la massima ammortizzazione, il puntale ampio e spazioso e la suola Vibram Megagrip introdotta già ai suoi albori.
6.STARESSO PLUS PORTABLE ESPRESSO MACHINE
La compagna di viaggio per gli appassionati del caffè professionale. Staresso Plus utilizza l'estrazione idraulica segmentata per generare una pressione di 20 bar in grado di offrire un espresso ricco e cremoso. Capace di contenere fino a 24 g di caffè macinato e 180 ml di acqua, è realizzata in acciaio inossidabile 304 e silicone per uso alimentare.
Step Outside Adventure Awaits
BEST MADE
BY DAVIDE FIORASO E CHIARA BERETTA
7.SALEWA
VENTO MERINO HYBRID JACKET
Giacca a vento ibrida progettata per assecondare le esigenze del corpo e garantire un'eccezionale gestione dell'umidità. È realizzata con un mix di lana merino alpina e l'aggiunta di fibre di lyocell Tencel provenienti da piantagioni di legno sostenibili. Taglio sportivo realizzato appositamente per pedalare in bicicletta.
10.OYSTER
TEMPO COOLER
Oyster, neonato marchio norvegese, eleva le prestazioni dei comuni frigoriferi portatili a un livello mai visto finora. Realizzato in alluminio riciclabile e silice, adotta un isolamento sottovuoto brevettato. Il design salvaspazio consente di caricare fino a 36 lattine; se già fredde, Tempo si raffredderà ulteriormente rimanendo così per moltissime ore.
8.MIZUNO
W AVE SKY 8
È soprattutto la combinazione tra morbidezza e ritorno di energia a caratterizzare la nuova Wave Sky 8 di Mizuno, realizzata in parte con materiali riciclati. Leggerezza, sostegno e ammortizzazione avanzata, grazie ai materiali di ultima generazione dell'intersuola, portano a un nuovo livello l’esperienza di “corsa fluttuante”.
11.MILLET I NTENSE IN LIMITED EDITION PER LE OLIMPIADI
La Millet Intense si veste con i colori della bandiera francese per rendere omaggio ai Giochi Olimpici di Parigi 2024. Performance e innovazione tecnologica si incontrano in questa edizione limitata della prima calzatura da corsa e trail Made in France, realizzata in tessuto Matryx leggero e traspirante con suola intermedia in EVA riciclata al 25% e suola esterna Michelin.
9.EDELRID
PINCH BELAY
Il primo dispositivo sul mercato che può essere agganciato direttamente all'anello centrale dell'imbragatura, eliminando il rischio di carico trasversale sul moschettone. Pitch è un assicuratore con frenata assistita da utilizzare sia nell'arrampicata sportiva che su vie lunghe, l'unico che può essere fissato alla sosta in quattro diverse direzioni.
12.TEVA
AVENTRAIL SANDAL
La freschezza di un sandalo, la comodità di una scarpa da running, per una sensazione di libertà totalmente nuova, sia nella corsa che in qualsiasi avventura fuori porta. Allacciatura a W con chiusura personalizzabile, intersuola con tecnologia di ammortizzazione Hyper-Comf, piastra in nylon e suola in Spider Rubber.
KILLER COLLABS
BY DAVIDE FIORASO
1.KITH X COLUMBIA
UTILITY VEST
Lo store newyorkese riprende la sua partnership con il colosso di Portland presentando una vastissima collezione di articoli per il campeggio e la pesca, dove stile e funzionalità si combinano a tutte le tecnologie di casa Columbia. L’Utility Vest è dotato di tasche auto drenanti e dettagli tecnici come il porta canna.
4.18 NAPAPIJRI X OBEY
EPOCH SHELL
Una ricca capsule che mescola estetica outdoor, dettagli utility e streetwear contemporaneo in look adatti sia alla vita all'aria aperta che alla città. Epoch Shell è una giacca con cappuccio in nylon riciclato e zip bidirezionale con chiusura a strappo. È completata da un’esclusiva stampa grafica e un patch con i loghi dei due marchi.
2.FRGMT
X STANLEY
CLASSIC VACUUM BOTTLE 1.1 QT
Hiroshi Fujiwara, fondatore di FRGMT, nel corso della sua carriera è stato determinante nel plasmare il mondo dello streetwear così come lo conosciamo oggi. Il poliedrico designer ha rinnovato la collezione storica di Stanley, inclusa la classica bottiglia sottovuoto nella caratteristica finitura Hammertone Green.
5.VERMONT STATE PARKS
X SKIDA ELMORE COLLECTION
Skida, marchio di headwear e accessori con sede a Burlington, ha lanciato una nuova collezione pensata per completare le uniformi del Vermont State Parks, con una stampa che richiama la flora del Green Mountain State. Parte del ricavato andrà a Vermont Parks Forever, organizzazione no-profit dedicata al sostegno dei 55 parchi dello stato.
3. KARHU X FERRINO X SASU KAUPPI SINTESI 1 TENT
La collaborazione speciale tra due storici marchi è un omaggio al Monte Saana, iconico monolite nell’estremo nord-ovest della Finlandia. Sintesi 1 è una tenda single wall da bikepacking/ backpacking progettata per massimizzare le avventure all'aria aperta. La parte grafica è stata affidata al fashion designer scandinavo Sasu Kauppi.
6.PAS NORMAL STUDIO X SALOMON ACS DAYPACK 20L
Non si arrestano le interazioni tra Salomon e Pas Normal Studio, il cui approccio distintivo si evolve attorno al mondo della bicicletta. Parte del terzo drop è questo zaino roll-top idrorepellente che combina stile urbano, funzionalità e massimo comfort, con una vestibilità ispirata all’esperienza Salomon nel trail running.
There’s no one way up. Find your highpoint during our Summer of Climb.
KILLER COLLABS
BY DAVIDE FIORASO
‹‹‹CUSHIONINGANDGRIP›››
ECO SEVEN
BY DAVIDE FIORASO
D ECATHLON E RECYC’ELIT FANNO SQUADRA PER INNOVARE NEL RICICLO DEL TESSILE
Decathlon Alliances investe nella rivoluzionaria startup del riciclo tessile. Fondata nel 2020 a Lione dai ricercatori scientifici Karim e Raouf Medimagh, Recyc’Elit ha sviluppato una innovativa tecnologia per separare i componenti e ottenere poliestere, elastane e poliammide riciclati. Con un primo sistema dimostrativo che verrà costruito nel 2025, la missione è eliminare gli sprechi attraverso il riciclo chimico. Questa tecnologia permetterà a Decathlon di ottenere tessuti a partire da scarti tessili, e al tempo stesso mantenere il suo vantaggio competitivo.
A SICS SUSTAINABILITY REPORTS 2023
ASICS ha recentemente pubblicato un documento di 46 pagine dal quale emerge, ancora una volta, come il benessere psicofisico sia una priorità nel guidare il percorso di sostenibilità. Yasuhito Hirota ha dichiarato: «Questo è l’ultimo capitolo della nostra storia. Evidenzia le azioni che abbiamo intrapreso per promuovere il benessere e comprendere la scienza che ne è alla base». Nelle sezioni esaminate (People, Planet e Future) spiccano la riduzione della disparità di genere, la challenge Run for Reforestation, la diminuzione di CO2 e la riduzione del 29,8% nell’operatività diretta e del 21,6% lungo la supply chain.
E OG LANCIA LA VERSIONE 2.0
DEL SUSTAINABILITY DATA EXCHANGE QUESTIONNAIRE
I l Sustainability Data Exchange (SDEX) è un progetto avviato a inizio 2023 dallo European Outdoor Group e dal Bundesverband der Deutschen Sportartikel-Industrie (BSI) per affrontare il problematico scambio dati sulla “sostenibilità prodotto” tra brand e vendita al dettaglio, complesso e macchinoso. Dopo aver sviluppato con successo un questionario armonizzato, avviato a luglio 2023 e riaperto all'inizio del 2024, EOG è pronta a lanciare una nuova versione che sarà presentata a partire dalla fine di luglio.
ECO SEVEN
BY DAVIDE FIORASO
PATAGONIA ANNUNCIA IL PRIMO PROGRAMMA DI RICICLAGGIO DELLE MUTE DA SURF
Patagonia ha annunciato la collaborazione con Bolder Industries, azienda del Colorado specializzata in soluzioni circolari, per ridare nuova vita alle mute da surf. Si tratta del primo programma mirato a ottenere materiale che sarà incluso in nuove mute, nella fattispecie nero di carbonio rigenerato, ma sarà applicabile solo ai prodotti realizzati in Yulex, gomma naturale introdotta da Patagonia come sostituta del neoprene e condivisa dallo stesso brand con aziende concorrenti (Finisterre, Seea, Manera e Nymph, tra gli altri marchi) nel tentativo di ripulire il settore.
L A UNITED NATIONS ECONOMIC COMMISSION FOR EUROPE LANCIA COMMUNITY OF PRACTICE
Nel 2021 UE e Nazioni Unite hanno “sfidato” a dimostrare che la trasparenza nel settore dell’abbigliamento fosse possibile. Dopo oltre 20 progetti pilota e 100 impegni da parte di produttori, marchi e associazioni in quasi 30 Paesi, l’UNECE ha messo in luce gli impatti positivi della tracciabilità dei prodotti in cotone, pelle, sintetico, cellulosa e lana, dalla produzione all’utilizzo e oltre. UNECE ha lanciato sua Community of Practice, linee guida per consentire agli operatori di autenticare le proprie dichiarazioni di sostenibilità.
P ROSEGUE IL PROGETTO
R EPAIR IF YOU CARE DI VIBRAM
Dal 2021 a oggi, Repair If You Care si è focalizzata sul concetto di riutilizzo e riparazione come approccio sostenibile. La campagna digitale Vibram, rivista in chiave moderna per educare sempre più il giovane pubblico alla tematica, è la riconferma della volontà aziendale verso un percorso di sensibilizzazione dell’utente. Proseguono inoltre le iniziative in collaborazione con i brand partner: dopo NNormal, anche Dainese, Dolomite e Tecnica si sono uniti attivamente al programma evidenziando l’impegno comune di offrire alle proprie community l’opportunità di prolungare la vita delle proprie scarpe.
L
'ALLARME DI GREENPEACE SUI RESI ONLINE: «GRAVI DANNI ALL'AMBIENTE»
Abiti e scarpe acquistati sul web e resi più volte, pacchi che viaggiano per decine di migliaia di km tra Europa e Cina, senza costi per l'acquirente ma con enormi danni ambientali. È quanto emerge dall'indagine di Greenpeace in collaborazione con Report, che per due mesi ha tracciato, tramite localizzatore, 24 capi acquistati su piattaforme di e-commerce. In 58 giorni i pacchi hanno percorso circa 100mila km tra camion, aereo, furgone e nave, una media di 4.502 km per ogni articolo. I capi sono stati venduti e rivenduti complessivamente 40 volte e resi 29. A oggi, il 58% risulta invenduto.
Andare in montagna con la voglia di salvare il mondo
Scenario invernale. È una mattina d’inverno, sei in macchina, stai andando a fare un giro con le pelli. Probabilmente la temperatura è più alta di quella attesa, e di conseguenza anche la quota neve: per non patire troppo, si parte più in alto e il dislivello risparmiato dalle gambe viene superato grazie al combustibile bruciato dalla tua macchina. Questa realizzazione ti porta a guidare con una strana sensazione addosso: se il cambiamento climatico, causato dalle emissioni di gas serra dovute (in larga parte) all’utilizzo di combustibili fossili, sta cambiando i nostri inverni, il modo in cui nevica sulle tue montagne di casa, tu, con la tua macchina, per andare a sciare su quella poca e calda neve, stai contribuendo a questo processo. Sei parte del problema che colpisce te per primo. Ma, soprattutto: non può essere il mio andare a sciare in macchina il vero problema!
Se siete dei frequentatori delle terre alte con una coscienza ecologica mediamente sviluppata, vi riconoscerete in questa situazione (e in questa sensazione). Certo, è un discorso ben più complesso di così, difficile da affrontare in una manciata di battute, ma ciò su cui vogliamo porre l’attenzione è l’intricato rapporto che gli appassionati di outdoor si trovano a vivere con il loro “playground” nell’era del cambiamento climatico. Un cambiamento che ha effetto tutto l’anno, non solo d’inverno - ma è proprio da lì che ha origine la non-profit Protect Our Winters (o, per gli amici, POW), che sceglie di esplorare proprio
THE PILL PEOPLE
questa contraddizione, di agire in questa complessità. POW è un insieme di persone molto diverse tra loro - ci sono atleti professionisti, scienziati, fotografi, designer, creator - legate da un comune denominatore: la passione per l’outdoor.
Questo mix variegato si è riunito sotto il “cappello” di POW Italia (che sarebbe la filiale italiana, o “chapter”, di un’organizzazione che nasce negli Stati Uniti e si sviluppa poi in Europa) per agire insieme per la protezione e la salvaguardia delle montagne che amiamo, ma soprattutto per generare un cambiamento sistemico basato sulla salvaguardia delle aree montane e non solo. Andando più nel pratico, lavoriamo su diversi temi e diversi livelli, che vanno dall’estremamente locale (come può essere, ad esempio, l’impatto della costruzione della pista da bob nel paese di Cortina) al sovranazionale o anche europeo (come la campagna “Ride, Bike, Climb, Vote!” per spingere a votare alle elezioni europee tenendo a
mente le policy del Green Deal).
I destinatari delle nostre azioni e della nostra divulgazione sono proprio gli altri membri della comunità outdoor e i motivi sono essenzialmente due: la genuina connessione con l’ambiente che deriva dal praticare le nostre passioni e l’orizzontalità delle persone che la costituiscono. Crediamo che il cambiamento profondo avvenga quando le azioni individuali si uniscono allo sforzo collettivo, lo sforzo di una comunità.
Se queste parole hanno risuonato in voi e sentite il desiderio di attivarvi, sostenerci o aiutarci, ecco delle modalità con cui è possibile farlo: potete condividere la vostra conoscenza su specifiche tematiche (anche tramite la modalità pro bono), potete condividere e diffondere le nostre campagne (aiutandoci così a mostrare ai nostri interlocutori che siamo in tanti), anche diventando volontari attivi su un progetto o una campagna specifica o semplicemente tramite una donazione all'associazione (minimo sforzo, resa garantita!).
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PHOTOS THOMAS MONSORNO, LINDA SCHWARZ E CAMILLA PIZZINI
BY CHIARA BERETTA
ASICS Sei tu il nostro prossimo talento?
AAA giovani talenti del trail running cercansi. È questo l’annuncio fatto da ASICS in primavera in occasione del lancio del nuovo progetto ASICS Trail Elite Factory. L’obiettivo? Comporre un team esclusivo di Ambassador e «sostenere la crescita di giovani promesse del trail running», ha spiegato in una nota stampa Elena Bosticardo, Head of Marketing di ASICS Italia. È la prima volta che l’azienda giapponese lancia questa iniziativa in
Italia. «Saremo al fianco dei sei atleti selezionati con un programma ricco di opportunità, in primis il supporto tecnico grazie ai nostri esperti ed atleti, fino ad una fornitura di prodotto che permetterà loro di correre e allenarsi con le nostre migliori tecnologie», ha aggiunto Bosticardo.
Le prossime selezioni in programma
Sono due gli appuntamenti da segnare sul calendario per gli appassionati di corsa in montagna e off-road, tra i 18 e i 28 anni di età, che vogliono partecipare alle selezioni per ASICS Trail Elite Factory. Per individuare le giovani promesse da supportare in un percorso di crescita fondato su valori condivisi, infatti, l’azienda giapponese ha previsto tre competizioni. La prima, ASICS Malcesine Baldo Trail 50k - Ultra, si è svolta a maggio. Le altre in programma invece sono ASICS Trail delle Mura - 17 km, il prossimo
31 agosto, e Amastuola Wave Trail - 17 km, il 27 ottobre. Per provare a essere selezionati è sufficiente partecipare a una di queste tre gare. Il programma e il regolamento completo sono disponibili sul sito www.asicstrailelitefactory.it.
Una volta selezionati, i sei runner potranno, appunto, diventare Ambassador del brand, ma anche confrontarsi con i suoi atleti ed esperti e indossare le migliori tecnologie di ASICS. Sempre ovviamente lasciandosi ispirare dalla filosofia di questa azienda giapponese, il cui nome, si sa, è l’acronimo della frase latina Anima Sana In Corpore Sano: un richiamo a come lo sport e il movimento abbiano la straordinaria capacità di liberare la mente. Conclude Bosticardo: «ASICS è stata fondata sulla convinzione che lo sport abbia il potere di liberare la mente e siamo convinti che con ASICS Trail Elite Factory potremo continuare a perseguire questo scopo».
La lana Merino è un materiale unico per funzionalità e versatilità. Combinata con i nostri fleece tecnici, diventa un secondo strato multifunzionale, adatto per tutte le attività e in ogni stagione.
BY CHIARA BERETTA
Garmin mette il boost all’esperienza di navigazione
Il mondo, o almeno una sua parte, non ha più confini né segreti. A spalancare ulteriormente le porte al piacere dell’esplorazione è Outdoor Maps+ Annual Plan, l’ultima novità di Garmin che promette un’esperienza di navigazione satellitare più ricca, dettagliata e innovativa. L’idea di base è questa: grazie a un unico abbonamento annuale, è possibile acquisire e utilizzare una vasta gamma di cartografie topografiche dell’Europa e del mondo aggiornate, con altissimo dettaglio e caratterizzate da elevata
qualità. Le funzioni che fino ad oggi erano prerogative delle singole cartografie, insomma, diventano parte di un unico pacchetto che include dati cartografici, strade e sentieri, ma anche punti di interesse e molto altro. Ovviamente, tutto compatibile con i dispositivi Garmin.
Outdoor Maps+ Annual Plan
Ma quali dettagli implementa Outdoor Maps+ Annual Plan rispetto alle cartografie precaricate all’interno dei dispositivi? La prima implementazio -
ne si chiama Topo Pro ed è sostanzialmente un database disponibile per diversi Paesi europei che dà accesso a mappe premium concepite e sviluppate a partire dai dati ufficiali forniti dagli organismi di rilevamento locali. C’è poi HD Relief Shading, ovvero il dettaglio ombreggiato che migliora l’esperienza di navigazione perché rende più semplice e intuitivo comprendere i dati di quota. Questa funzione è disponibile in diversi Paesi europei e in 50 stati degli Usa. Un’ulteriore implementazione sono le immagini satellitari che rendono possibile navigare non solo su una mappa topografica, ma anche su rappresentazioni realistiche del territorio acquisite da foto satellitari. In alcune nazioni europee è disponibile anche l’opzione “Strutture”, che rappresenta in modo realistico i dettagli urbani tramite grafiche di palazzi in due dimensioni, migliorando così l’orientamento in città. Interessante è poi la funzione Night Lights, che consente di individuare con facilità le zone meno coinvolte dalla presenza di luce artificiale, evitando invece le aree maggiormente impattate dal problema dell’inquinamento luminoso che può rovinare lo spettacolo del cielo notturno stellato.
Copertura annuale
L’abbonamento si può acquistare online (https://www.garmin.com/it-IT/p/893561) e costa 59,99 euro. Si può usufruire del servizio dove e quando si vuole per un anno, al termine del quale si potrà eventualmente rinnovare l’acquisto. Oltre ai dati più completi e precisi relativi alle cartografie di tutta Europa, di 50 paesi degli Stati Uniti e del Canada, Outdoor Maps+ Annual Plan include anche il download sul proprio dispositivo compatibile tramite connessione Wi-Fi e la possibilità di utilizzare il servizio in contemporanea su tutti i prodotti registrati sotto lo stesso account personale.
BY CHIARA BERETTA
Paolo Cognetti, viaggio intimo
sul Monte Rosa
C’è anche Montura dietro “Fiore mio”, l’ultimo film scritto, diretto e interpretato dallo scrittore delle terre alte. L’appuntamento è al Locarno Film Festival
Un viaggio intimo, introspettivo e mai banale sulla «sua» montagna, il Monte Rosa. È questo il cuore di “Fiore mio”, il primo film scritto, diretto e inter-
pretato da Paolo Cognetti che verrà presentato in anteprima mondiale alla 77esima edizione del Locarno Film Festival, il 6 agosto, per poi arrivare nelle sale cinematografiche il 25, 26 e 27 novembre. Il film, prodotto da Samarcanda Film, Nexo Studios, Harald House e EDI Effetti Digitali Italiani con il sostegno della Film Commission
Vallée d'Aoste, è realizzato in collaborazione con Jeep e con Montura, brand che già in passato ha lavorato insieme allo scrittore delle Terre Alte. In “Le
otto montagne”, il film tratto dall’omonimo romanzo e diretto da Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, il marchio era infatti stato presente con una piccola fornitura di capi di abbigliamento. Con “Fiore mio” però si fa un passo ulteriore: Montura, in qualità di sponsor, ha garantito al film un sostegno economico, oltre a una fornitura di abbigliamento al protagonista ed alla troupe impegnata per alcune settimane su vari versanti del Monte Rosa.
Montagna poetica
Il film, che dopo l’uscita italiana sarà distribuito a livello internazionale, racconta il Monte Rosa non solo come luogo geografico, ma soprat-
THE PILL FILM
tutto come luogo del sentire, della comprensione di ciò che ci circonda. Sono temi, quelli della montagna e del viaggio sia esteriore sia interiore, che fanno profondamente parte della poetica di Cognetti e che sono stati esplorati anche nel suo documentario “Sogni di Grande Nord”, diretto da Dario Acocella.
Ma il viaggio dello scrittore in “Fiore mio” non è solitario. Con lui ci sono il direttore della fotografia Ruben Impens, conosciuto sul set de “Le otto montagne” (e che firma anche la fotografia di quest’ultima novità); l’amico di una vita Remigio, nato e cresciuto in val d'Ayas; e ancora Arturo Squinobal e sua figlia Marta, che
Paolo conosce sin dall’infanzia e che ha trasformato l’Orestes Huette nel primo e unico rifugio vegano delle Alpi. Ci sono anche Corinne, Mia, il silenzioso sherpa d’alta quota Sete e il cane Laki, inseparabile compagno di camminate. Il titolo del film è ispirato dall’omonima canzone del cantautore e musicista torinese Laszlo De Simone, che accompagna il finale della storia. Per il resto, la colonna sonora è firmata da Vasco Brondi, amico fraterno di Cognetti.
Cultura ad alta quota
Non è la prima volta che Montura sostiene il mondo della cultura: anzi, si può dire che negli ultimi vent’anni il marchio abbia percorso questa strada
con convinzione, stima e rispetto, ad esempio da quando con “Montura Editing” ha pubblicato o sostenuto oltre cento opere, distribuendo più di 200mila volumi, sempre a fronte di donazioni a progetti di solidarietà principalmente in Nepal, Perù e Mongolia. Sono stati più di un centinaio anche i film supportati da Montura negli ultimi due decenni. Un esempio recente, oltre a “Fiore mio”, è “L’età sperimentale”: sceneggiato e interpretato da Erri De Luca, è stato presentato con successo al Trento Film Festival. Fra pochi mesi toccherà invece a “La mia vita finché capita” con Mauro Corona, che sarà proiettato in anteprima in autunno.
PHOTOS DANIELE MANTIONE
THE PILL FILM
BY LISA MISCONEL
Aprire una via è anche questione di etica (e condivisione)
Alla 72esima edizione del Trento Film Festival, che ha registrato presenze da record, il film “Marmolada Madre Roccia” ha ricevuto la menzione speciale. Al centro del racconto c’è l’apertura di una nuova via sulla Regina delle Dolomiti da parte di Iris Bielli, Matteo Della Bordella, Maurizio Giordani e Massimo Faletti
Come ogni anno, la primavera a Trento è segnata dal Trento Film Festival, il concorso cinematografico di montagna che riunisce nel capoluogo trentino appassionati e personaggi del mondo legato alle terre alte e non solo. Giunto alla sua 72esima edizione, quest’anno il festival ha battuto ogni record: 20mila biglietti al cinema, 18mila spettatori agli eventi di contorno. Noi siamo stati a Trento per respirare da vicino l’atmosfera di quei giorni, assistendo sia ai talk che, ovviamente, ai film, i veri protagonisti di queste giornate. Nella gremita Multisala Modena, abbiamo avuto la fortuna di appassionarci a “Marmolada Madre Roccia”, un film che ha conseguentemente ricevuto una Menzione Speciale, dimostrando che le opere cinematografiche di alpinismo non sono sempre e solo per pochi, ma possano appassionare anche il grande pubblico. Con la firma dei registi Matteo Maggi e Cristina Pecci, il film racconta l’apertura di una
nuova via sulla regina delle Dolomiti da parte di una cordata formata da quattro generazioni di alpinisti con i background più diversi: Iris Bielli, Matteo Della Bordella, Maurizio Giordani e Massimo Faletti. Proprio con quest’ultimo abbiamo avuto modo di scambiare qualche parola sul film.
Massimo, qual è secondo te il messaggio più importante veicolato da "Marmolada Madre Roccia"? La bellezza della condivisione tra generazioni dell’avventura in montagna, il tutto con un pizzico di etica - mi riferisco al riprendere in mano un vecchio tentativo di apertura e farlo come in alpinismo si definisce “eticamente”.
Quanto è importante per chi va in montagna conoscere la storia e la cultura dell’alpinismo? La storia è importante, ma l’etica verso la natura, verso quello che è stato fatto, lo è ancora di più. Toccare le vie dei nostri predecessori dovrebbe essere fatto con una certa sensibilità, perché può alterare la storia e la visione delle nuove generazioni. La cultura dovrebbe essere improntata, vista la quantità di gente che frequenta la montagna, sul mantenimento di luoghi e vie il più intatti possibile.
Cosa porterai nel cuore dal periodo di produzione del film? L’apertura mentale, l’interessamento dei registi
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per il mondo alpinistico, loro che erano totalmente a digiuno in materia e in un anno sono diventati esperti nel campo di apertura di una via. Ancora, l’etica e la condivisione di un’avventura tra appassionati di diverse generazioni che spesso in alpinismo non esiste.
Dietro le quinte
Abbiamo approfittato di qualche momento libero anche per scambiare due parole con il neo direttore della programmazione Maurizio Gervasini, proprio durante le giornate del festival. Maurizio, immagino ci siano molte novità quest'anno. Quali sono state le sfide di questo nuovo percorso
e le aspettative? Negli ultimi 15 anni il festival si è rafforzato. Sarebbe stato presuntuoso e sbagliato arrivare mandando all’aria tutto, era giusto che le fondamenta solide rimanessero tali. Ho apportato piccole modifiche alle sezioni mantenendo il concorso e l'alpinismo centrali, ma facendomi guidare anche dal mio sguardo cinefilo. Ho voluto rimarcare il fatto che le due sezioni principali fossero ovviamente il Concorso ed Alp&ism, per cui, con il supporto di esponenti dei CAI, abbiamo selezionato 25 film.
Quali sono i criteri di selezione dei film per il festival? Abbiamo selezionato 120 film su circa 600 visti. La selezione non riguarda solo i
film inclusi, ma anche quelli esclusi. La qualità tecnica è fondamentale; tuttavia, anche il piacere soggettivo dei selezionatori e l'equilibrio tra le nazionalità e le culture sono importanti. Abbiamo cercato di diversificare il più possibile, includendo film da varie parti del mondo.
Cosa ci dici di "Marmolada Madre Roccia"? È un film importante, perché congiunzione fra il Concorso e la sezione Alp&Ism. Racconta l'avventura di quattro alpinisti che aprono una via nuova sulla Marmolada, toccando anche il tema del cambiamento climatico e la tragedia del 3 luglio 2022. È un film di grande valore alpinistico e umano.
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BY CHIARA BERETTA
Columbia: con Omni-MAX il fast
hiking è per tutti
Non è più escursionismo tradizionale, non è ancora una vera e propria corsa su sentiero. È il fast hiking, una tendenza sempre più diffusa nel mondo outdoor e per la quale serve ovviamente una scarpa adatta, capace di garantire il giusto mix tra ammortizzazione, stabilità e trazione. Per questo Columbia ha lanciato Konos, nuova linea di calzature da fast hiking che hanno nella tecnologia Omni-MAX uno dei punti di forza più interessanti.
Il perché è presto spiegato. Prima di tutto, la tecnologia Omni-MAX presenta un’intersuola realizzata con schiu-
ma reattiva che garantisce comfort al piede durante la progressione, ma anche un maggiore assorbimento degli impatti e un buon ritorno di energia a ogni passo.
In secondo luogo, il supporto alla parte centrale del piede e le scanalature flessibili strategicamente posizionate nella zona dell’avampiede migliorano la flessibilità e la stabilità su superfici diverse.
Infine, la suola con trazione avanzata (realizzata con particolari compound, che cambiano in base al modello) e il design del battistrada sono studiati
per aderire maggiormente sul terreno, anche quando è bagnato. È questo mix di caratteristiche che rende la linea di calzature firmata Columbia particolarmente adatta per muoversi in velocità e leggerezza anche sui tracciati più tecnici.
I modelli in collezione
La tecnologia Omni-MAX è presente su diversi modelli della collezione Columbia presentata questa primavera. Uno dei principali è il Konos Trs Outdry, una calzatura tecnica comoda e leggera che, grazie al design avanzato della tomaia in tessuto mesh con sovrapposizioni senza cuciture, è particolarmente indicata per gli sportivi che cercano una scarpa resistente, impermeabile e traspirante. La calzatura offre una maggiore protezione al piede, mentre il sistema Navic Fit ne aumenta la stabilità. L’ammortizzazione è assicurata dall’intersuola leggera Techlite+Tm, che avvolge il tallone e favorisce l’equilibrio. Le cupole di deflessione nel tallone e nell'avampiede, dove sono presenti anche scanalature flessibili, riducono invece l'impatto e migliorano il movimento, rendendo il passo più efficiente su terreni diversi. Il merito di quest’ultimo punto è anche della suola in gomma Adapt Trax, progettata appunto per mantenere aderenza e trazione anche sul bagnato.
Sono caratterizzate dalla tecnologia Omni-MAX anche le Konos Xcel Waterproof Low Hiking Shoe, scarpe da hiking leggere e impermeabili che Columbia ha progettato per chi vuole muoversi in velocità sui sentieri. La tomaia è in tessuto con puntale sintetico, per una protezione aggiuntiva; mentre le sovrapposizioni senza cuciture assicurano un supporto leggero a metà piede. Dotata di costruzione brevettata impermeabile e traspirante Omni-Tech e di suola in gomma Omni-Grip, la calzatura risulta stabile (merito anche dell’intersuola Techlite), veloce e confortevole.
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BY CHIARA BERETTA
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BY CHIARA BERETTA
Cober:
come nasce un bastoncino
green
La verniciatura a polvere, la serigrafia a UV senza solventi, l’uso di plastica seconda vita, i prodotti realizzati per durare a lungo (perché «il prodotto più sostenibile è quello che già possiedi»): Flavio Covini di Cober ci racconta cosa succede dietro le quinte della produzione in un’azienda che dal 1953 non trascura l’impatto ambientale
C’è chi la considera una notizia incoraggiante e chi sospetta sia più che altro una scusa per posizionarsi, ma su un punto possiamo concordare: la sostenibilità ambientale è diventata, e sta diventando sempre di più, uno dei grandi temi del nostro tempo. Non si può non parlarne, non si può non essere sul pezzo.
A rivendicare l’attenzione nei confronti dell’ambiente before it was cool, come si suol dire, c’è però Cober, leader nella produzione di attrezzature outdoor made in Italy. L’azienda nasce nel 1953, quando Renato Covini ha l’intuizione di dare vita alla prima vera fabbrica di bastoni da sci. «Il panorama italiano dell’epoca era formato da piccoli artigiani che producevano le singole componenti dei bastoni», racconta il figlio Flavio, succeduto al padre nella direzione dell’azienda negli anni Novanta. «Memore delle esperienze in gioventù, quando per avere dei bastoncini da sci ci si doveva arrangiare usando alla bell’e meglio dei pezzi di legno, mio pa-
dre decise di dare vita alla prima vera fabbrica di bastoncini da sci in Italia che riunisse al suo interno tutte le operazioni per arrivare al prodotto finito. Ancora oggi questo è l’approccio che caratterizza la nostra azienda, e tutte le operazioni sono internalizzate».
L'azienda non tarda a introdurre alcune innovazioni che rivoluzionano il mondo degli sport invernali per come è all'epoca: «Nel 1958 alla produzione di quelle che venivano chiamate “racchette da sci” venne affiancata quella degli attacchi», prosegue Flavio. «Tutto era partito dalla consapevolezza che la sicurezza sugli sci era strettamente legata al corretto funzionamento degli attacchi, e le vecchie “ganasce” non riuscivano a svolgere una funzione veramente efficace. Mio padre ha approfondito il problema, fabbricando i primi attacchi senza cavi, cioè i primi con la parte posteriore a sgancio semi-automatico, predecessori dei moderni attacchi a sgancio automatico. È così che è nato Reaktor: al suo tempo è stata una vera
rivoluzione nel mondo dello sci. La produzione degli attacchi richiedeva macchinari dedicati per le diverse fasi di produzione: partendo da un pezzo di ferro grezzo si arrivava fino all’attacco finito. Nel corso degli anni abbiamo introdotto diverse innovazioni tecniche, legate anche a numerosi brevetti». Nella storia di Cober il percorso verso una produzione più sostenibile inizia abbastanza presto: cosa è stato fatto sotto questo punto di vista? Fin dall’inizio dell’attività, nel 1953, abbiamo sempre ritenuto importante la componente di rispetto ambientale. Negli ultimi decenni forse è aumentata la consapevolezza e la volontà di comunicare questo approccio originario come parte integrante dei nostri valori e di migliorare progressivamente anche le specifiche attività di questo aspetto del nostro lavoro. Proprio per questo, da oltre vent’anni, selezioniamo materie prime di ottima qualità lavorate con macchinari all’avanguardia, il cui costante aggiornamento ci permet-
te di mantenere alti standard qualitativi e di rispetto ambientale. Inoltre, le scelte fatte finora in ambito di materie prime riducono quasi a zero l’esposizione quotidiana dello staff ad agenti pericolosi per la loro salute. Il percorso di responsabilità ambientale riguarda tutti i nostri processi produttivi, come la verniciatura a polvere, la serigrafia a UV senza solventi e lo stampaggio di componenti in plastica seconda vita. Inoltre, tutte le nostre materie prime vengono sottoposte a severi test per la loro tossicità. Ad oggi siamo gli unici produttori in Italia, tra i nostri competitor, a svolgere internamente tutte le fasi di produzione: questa scelta ci permette di avere un pieno ed effettivo controllo diretto sulla produzione e sulle scelte che la riguardano, senza deleghe sociali o ambientali a terzi.
Come hai accennato, le vostre scelte sono state orientate non solo a migliorare l'impatto ambientale, ma anche la sicurezza dello staff. Puoi fare qualche esempio? Più di
venticinque anni fa abbiamo deciso di installare il nostro impianto di verniciatura interno, scegliendo la verniciatura a polvere. Questo metodo di verniciatura ha un impatto quasi zero sull’ambiente, a differenza della verniciatura a liquido che è estremamente inquinante. La verniciatura a polvere è migliorativa anche per la salute degli operatori, esponendoli a rischi decisamente inferiori, non essendo più a contatto con materiali tossici e inquinanti. Inoltre, questo tipo di lavorazione è più resistente ai graffi rispetto a quella a liquido, rendendo i bastoni più resistenti al tempo e all’usura. E un bastone che dura più a lungo è a sua volta una scelta responsabile, perché il prodotto più sostenibile è quello che già possiedi. Da venti anni utilizziamo un metodo per serigrafare i tubi innovativo e che rispetta l’ambiente (la serigrafia è un metodo di stampa di grafiche per la decorazione dei tubi, ndr). Le nostre grafiche vengono serigrafate tramite inchiostri privi di solventi, eliminando ogni pericolo sia per l’ambiente che per
gli addetti ai lavori. Inoltre, gli inchiostri vengono catalizzati attraverso la luce UV, con un vantaggio energetico e quindi ambientale, in quanto l’energia consumata dalle lampade UV è drasticamente inferiore rispetto a quella necessaria per i forni standard utilizzati per catalizzare gli inchiostri a solventi. Anche la selezione dell’alluminio segue le nostre linee guida interne di responsabilità ambientale. Da diversi anni ormai acquistiamo solo alluminio di produzione europea, perché ha basse emissioni di gas serra e di CO2 nell’atmosfera. Inoltre, entrambe le leghe di alluminio che acquistiamo hanno una percentuale di elementi riciclati, che va dal 53% all’85%, e sono riciclabili al 100%.
Nel 2020 avete presentato Clima, la vostra prima manopola in plastica seconda vita. Ci sono altre novità in vista? Contemporaneamente alla manopola Clima, abbiamo lanciato il Leaves Project, che ha come obiettivo quello di sostituire i componenti plastici stampati con plastica vergine con componenti in plastica seconda vita. Per cercare di riutilizzare al meglio gli scarti, il nostro dipartimento di stampaggio plastiche ha studiato, insieme a una società specializzata, un modo per reinserire nel ciclo produttivo parte dei nostri scarti di produzione, dando vita a un’economia circolare interna. Il materiale di scarto che non può essere reinserito nel ciclo produttivo di Cober viene reimmesso nel ciclo produttivo di altre aziende. Il paradosso ora è che gli stampi di ultima generazione producono sempre meno scarti, quindi nel lungo periodo non avremo abbastanza plastica da riciclare. Una soluzione che stiamo esplorando è quella di acquistare plastica seconda vita, ma questa scelta comporta ulteriori attenzioni per la scelta dei materiali: dobbiamo infatti assicurarci che la produzione di questa plastica seconda vita rispetti i nostri standard, non solo in termini di performance del prodotto ma anche di responsabilità ambientale del processo stesso di produzione.
Mille e una vita di una tenda Ferrino
BY CHIARA BERETTA
La CEO Anna Ferrino ha ricevuto il prestigioso
Compasso d’Oro alla Carriera: un premio che riconosce il valore storico di un’azienda pioniera nella produzione prima di tende da campeggio, poi da alta quota. L’innovazione fatta con responsabilità, anche ambientale, non termina nemmeno quando il prodotto arriva a fine vita: con gli atelier di upcycling, novità di questi ultimi anni, persino una vecchia tenda può trovare un nuovo scopo
Prima arrivano Casabella e Marisa, ampie e confortevoli. Poi tocca a Everest ed Extreme, vere e proprie «capsule di salvataggio» per chi tenta l’ascesa alle vette più alte della Terra. Per farsi un’idea di come è cambiata Ferrino nel corso della sua storia, perlomeno di quella più recente, basta dare un’occhiata ai nomi delle sue tende, di gran lunga il prodotto più iconico di questo marchio fondato a Torino nel 1870. Sono infatti proprio i nomi a raccontare come l’azienda ha saputo essere pioniera prima nella produzione di tende da campeggio, in un’epoca in cui il boom economico spingeva la crescita del turismo open air e low budget, e poi nel mondo outdoor e alpinistico, tracciando un felice percorso iniziato con la storica collaborazione con Reinhold Messner e non ancora concluso. A riconoscere il valore di questo percorso imprenditoriale - ma anche della capacità di fare innovazione con responsabilità, rimanendo aperti al dialogo e intercettando le passioni e le tendenze sociali del momento - ci ha pensato il Compasso d’Oro alla Carriera, prestigioso premio che quest’anno è stato consegnato ad Anna Ferrino, amministratrice delegata dell’azienda.
Il premio
Compasso d’oro ADI
Nato nel 1954 da un’idea di Gio Ponti, il Compasso d'Oro è il più antico, ma soprattutto il più autorevole premio mondiale di design, giunto quest’anno alla settantesima edizione. Assegnato dall’Associazione per il Disegno Industriale e dalla Fondazione ADI, il Compasso d’Oro incorona annualmente le eccellenze del design italiano, che vengono selezionate da una commissione di esperti a partire dalle candidature spontanee ricevute. Fra i quasi duemila prodotti che hanno ottenuto la Menzione d’Onore negli ultimi sette decenni, tra l’altro, nel 2017 c’è stato anche lo zaino Desert Kat 20L di Ferrino, dedicato all'ultratrail. Il Compasso d’Oro alla Carriera, invece, è un’altra storia. Conferito da una giuria apposita, non prevede candidature e dal 1954 a oggi è finito nelle mani di personalità del calibro di Adriano Olivetti, Renzo Piano e Giorgio Armani. E quest’anno, appunto, in quelle di Anna Ferrino, che durante la cerimonia milanese del 20 giugno si è detta «profondamente onorata» di ricevere questo prestigio -
so premio che «rappresenta non solo un importante traguardo personale, ma anche un riconoscimento per il lungo percorso imprenditoriale della mia famiglia, dei nostri soci Rabajoli e di tutta la squadra Ferrino, che con dedizione e professionalità contribuisce ogni giorno al successo della nostra azienda». È la prima volta che il Compasso d’Oro alla Carriera arriva nel mondo outdoor e lo ha fatto premiando un percorso imprenditoriale costruito su due pilastri, cultura e sport, e nel contesto di un’impresa famigliare pioniera su tanti fronti, il cui modello di business ha saputo dare importanza alla trasmissione dei valori, prima ancora che alla trasmissione del valore economico.
È la prima volta che il Compasso d’Oro alla Carriera arriva nel mondo outdoor e lo ha fatto premiando un percorso imprenditoriale costruito su due pilastri, cultura e sport, e nel contesto di un’impresa famigliare pioniera su tanti fronti
Crescita verticale
Quando viene fondata, Ferrino è una fabbrica di tele e copertoni impermeabili che ha nel mondo del lavoro e militare la sua filiera predominante. Ma i tempi cambiano: «Quando mio padre entra in azienda, alla fine degli anni Cinquanta, capisce che sta nascendo e crescendo vertiginosamente l'industria del campeggio», racconta Anna Ferrino. «Il Paese si sta industrializzando e le famiglie operaie, che acquisiscono il diritto alla vacanza, trovano nel campeggio una modalità di villeggiatura all’aria aperta e a budget accessibile». Siamo negli anni Sessanta e Settanta: ci sono il boom economico, le nuove autostrade, le coste e i laghi che diventano popolari mete di villeggiatura. Ferrino, intercettando una domanda in crescita, propone dunque soluzioni abitative temporanee per le famiglie: le già citate tende
Casamia e Marisa, appunto, ma anche la Campestre e la Sirena, con verande colorate e tessuti fantasia, e poi la Lucciola, una canadese compatta per il chi si sposta in bici o in moto.
«Ferrino ha sempre avuto un grande interesse a portare avanti l’innovazione con il confronto e con l'interazione. Al centro della nostra storia c’è sempre stata la capacità di osservare in che direzione si muovono le passioni degli utenti», prosegue la CEO. Così negli anni Ottanta, intercettando questa volta la nuova domanda di consumo legata alla cultura del CAI, Ferrino punta verso l’alto, in tutti i sensi. Vengono lanciate le tende Everest ed Extreme e la collaborazione con Messner traghetta definitivamente l’azienda ai vertici del mondo outdoor. Il rapporto con gli Ambassador e i professionisti dell’alta quota resta ancora oggi uno dei fattori chiave in casa Ferrino per spingere sul pedale
dell’innovazione, ma sempre con senso di responsabilità. In effetti parliamo di tende d’alta quota che devono essere sì tecnologicamente avanzate e competitive, ma soprattutto sicure e «salvavita» in condizioni estreme. Grazie a Messner, comunque, la progettazione delle tende inizia a orientarsi verso leggerezza e resistenza. Un trend che non si è più interrotto: basti pensare che la tenda d’alta quota Ferrino Extreme 2, novità di pochi mesi fa, pesa solo 800 g. Un altro mondo rispetto ai 7,5 kg degli anni Ottanta. I feedback che guidano l’approccio open innovation di Ferrino, oltre che dagli Ambassador e ovviamente da tutte le professionalità che compongono il team aziendale interno, arrivano dagli anni Novanta in poi anche dal progetto HighLab, laboratori che permettono di testare in ambienti reali e rigidi tende, zaini, sacchiletto e capi di abbigliamento.
Gli atelier di upcycling
Le tende Ferrino sono fatte per durare, ma non sono eterne. Proprio su questo fronte la spinta all’innovazione dell’azienda torinese dimostra un certo senso di responsabilità anche nei confronti dell’ambiente. Il concetto di economia circolare, qui, è familiare da tempi non sospetti. Da sempre l’utente può infatti rivolgersi all’azienda, in qualunque momento del ciclo di vita di un prodotto, per chiederne la riparazione. A volte però non è possibile, magari perché il materiale è eccessivamente usurato. Sono nati da questa premessa, pochi anni fa, gli atelier di upcycling. «L’idea mi è venuta nell’immediato post Covid», spiega Ferrino. «In una tenda ci sono almeno 7-8 metri di tessuto, che diventano 15-20 nei modelli grandi. È un grave peccato buttare via tutto». Inizialmente vengono proposti dei video-tutorial per
imparare a tagliuzzare una vecchia tenda per ricavarne un copri zaino, una tovaglia da pic-nic o magari una copertura per bici. «L’idea è piaciuta molto e parallelamente abbiamo iniziato a fare degli atelier veri e propri: mettiamo a disposizione due delle nostre macchiniste prototipiste e invitiamo le persone a presentarsi con delle cose che non usano più, prevalentemente delle tende, e magari già una proposta per creare nuovi oggetti funzionali. La gente ci stupisce sempre e arriva effettivamente con le idee chiarissime: negli anni sono venuti fuori progetti davvero interessanti e divertenti». Il più recente appuntamento di upcycling (per i prossimi bisogna monitorare newsletter e canali social di Ferrino) è stato il 13 e del 14 luglio sullo Skyway Monte Bianco: una location d’alta quota eccezionale in cui imparare ad allungare il ciclo di vita dei prodotti, evitando sprechi e scarti.
"
L’idea dell'upcycling è piaciuta molto e parallelamente abbiamo iniziato a fare degli atelier veri e propri: mettiamo a disposizione due delle nostre macchiniste prototipiste e invitiamo le persone a presentarsi con delle cose che non usano più, prevalentemente delle tende, e magari già una proposta per creare nuovi oggetti funzionali. La gente ci stupisce sempre e arriva effettivamente con le idee chiarissime."
Decathlon Mountain Days Dove nasce la passione per la montagna
BY DENIS PICCOLO
Il prodotto che vediamo esposto in negozio è solo l’ultima tappa di un viaggio tortuoso iniziato mesi, più probabilmente anni prima. Nulla di cui stupirsi, certo: anche senza averne mai fatto esperienza direttamente, possiamo benissimo immaginare quanta pazienza, passione, competenza e studio ci siano dietro uno zaino da trekking, una tenda da campeggio, un moschettone da arrampicata o una giacca a vento. Ai Mountain Days di Decathlon abbiamo però potuto vedere con i nostri occhi, e toccare con mano, cosa significa davvero immaginare e creare da zero l'attrezzatura e l’abbigliamento tecnico che ci accompagnano nelle avventure outdoor.
Il luogo in cui ha preso corpo questa scoperta non poteva che essere il Decathlon Mountain Store di Chamonix, imponente quartier generale alle pendici del Monte Bianco. Dopo aver dato un ultimo sguardo alle maestose montagne innevate tutto intorno, varchiamo l’ingresso e ci ritroviamo nel cuore creativo di Decathlon: tra presentazioni, anteprime e workshop, ci resteremo per molte ore. Un particolare colpisce subito: sullo store - un ampio locale con tutto ciò che serve per hiking, trekking, campeggio, sci e via dicendo - si affacciano direttamente gli uffici a vista. È una scelta architettonica che riflette il modo di lavorare di Decathlon, le cui novità nascono anche grazie al feedback continuo tra
chi fa i prodotti e chi li usa: da una parte tecnici, designer e ingegneri del prodotto, dall’altra acquirenti di passaggio nello store, clienti affezionati e utenti di ogni livello. La gran parte dei prodotti è in effetti realizzata insieme ad atleti e sportivi, anche non professionisti. Registrandosi sulla piattaforma di co-creazione ideata da Decathlon, chiunque può essere coinvolto nel processo di realizzazione di vari prodotti. Ad esempio, sono state circa ottocento le persone della community chiamate a suggerire quali fossero le funzionalità indispensabili in uno zaino da viaggio, così da aiutare Decathlon a realizzarne uno davvero in linea con le esigenze degli utenti finali.
A rendere lo zaino MT900 Symbium più sostenibile è ad esempio l’uso del legno per realizzare le barre di sostegno della zona dorsale: questo materiale è più durevole e facilmente sostituibile, inoltre ha un impatto otto volte inferiore rispetto all’alluminio tipicamente utilizzato per questo componente
Raccogliere spunti e idee è ovviamente solo una parte del percorso, ma è proprio qui che inizia il bello. La sfida a cui ogni giorno cercano di rispondere i designer e i tecnici del prodotto di Decathlon è infatti quella di riuscire a far convivere in un singolo oggetto leggerezza, resistenza, durabilità e accessibilità - il tutto con un occhio di riguardo anche alla sostenibilità, chiaramente. È una sfida che assomiglia a un puzzle, o forse a Tetris, e che a volte si gioca al centimetro: la posizione di una cucitura in un capo di abbigliamento può fare la differenza tra la possibilità di ripararlo facilmente, rendendolo quindi utilizzabile più a lungo, oppure no. Ancora, la scelta di tingere o meno un tessuto produce un differente impatto a livello ambientale, così come la scelta del materiale influenza ovviamente, e di molto, la resistenza, il peso e la durabilità. Insomma, non c’è da stupirsi che per fare un singolo zaino possano servire fino a tre anni. A rendere lo zaino MT900 Symbium più sostenibile è ad esempio l’uso del legno per realizzare le barre di sostegno della zona dorsale: questo materiale è più durevole e facilmente sostituibile, inoltre ha un impatto otto volte inferiore rispetto all’alluminio tipicamente utilizzato per questo componente.
Ripensandoci, forse questo lavoro è una sfida che assomiglia più a un numero da equilibrista: tutto sta nel trovare il compromesso vincente. Ne
è un esempio la tenda MT900 Ultralight. Considerando che una tenda passa metà del tempo chiusa nello zaino e l’altra metà montata all’aperto, in questo caso nella fase di progettazione si è cercato di venire incontro a tutte le esigenze: così si è arrivati ad avere un prodotto molto leggero da trasportare, ma anche capace di offrire un certo comfort e protezione quando ci si rifugia al suo interno.
Sono creati e testati a Chamonix anche tutti i prodotti di Simond, di cui abbiamo visitato la fabbrica scoprendo soprattutto come prendono forma (letteralmente) i rinvii. Il brand dedicato all’alpinismo e all’arrampicata è entrato a far parte della famiglia Decathlon nel 2008, ma la sua storia è iniziata in realtà molto prima. Nell’Ottocento la famiglia Simond era piuttosto nota a Chamonix per la lavorazione del ferro e del legno, così proprio ad essa si sono rivolti i primi alpinisti in cerca dell’attrezzatura adatta a scalare il Monte Bianco. Proprio sul Re delle Alpi - più o meno - si è conclusa anche la nostra esperienza ai Mountain Days. L’affollata funivia che parte da Chamonix ci ha portato infatti fino ai 3842 metri di altezza della Aiguille du Midi, massiccia guglia rocciosa nella zona nord del massiccio del Bianco. Una conclusione perfetta, dopo avere a lungo sbirciato dietro le quinte della creazione dell’attrezzatura outdoor, per ricordarci da dove nasce davvero il richiamo a nuove avventure.
Il fast hiking è come la verdura
BY LISA MISCONEL
Proprio così. Non solo perché fa bene alla salute. Il pomodoro è un frutto, la carota è una radice, l’insalata è una foglia e il carciofo è un fiore... ma tutte sono verdure. Non fosse che le verdure non esistono in botanica: sono una categoria commerciale che serve ad aiutare il consumatore che sta cercando un certo tipo di alimento vegetale. Anche il fast hiking è un po’ come la verdura, cioè una categoria commerciale. Infatti, chi risponde alla domanda “Fai qualche sport, hai qualche passione?”, risponde “Faccio fast hiking”? Nessuno. Quindi, cosa vuol dire fast hiking? Camminare veloce in montagna. Ma quanto veloce e perché? Ci sono delle gare, c’è una cultura? Di nuovo, la risposta è no. E allora perché è nata questa categoria? Così come per la verdura, c’era bisogno di identificare una determinata fascia di prodotto che rispondesse alla necessità di chi cerca una scarpa ammortizzata e leggera per camminare in montagna. Che non è una scarpa da trail running e nemmeno una classica scarpa da hiking e che, evidentemente, va bene per tutti gli escursionisti, ma va benissimo per chi cammina un po’ più veloce. Continuiamo con la riflessione. Camminare velocemente in montagna
è sempre più comune. Ma perché? Che motivo ci sarà mai per andare di fretta in montagna, che è il luogo della riflessione interiore, del tempo di qualità per se stessi? I motivi sono così diversi che Tecnica, il brand di calzature tecniche per la montagna, ha provato a raccontarli con Fast Forward, una mini web-serie di video sulle proprie piattaforme online. Con tagli e colori “andersoniani” vengono rappresentate quattro storie di appassionati che hanno scelto una calzatura da fast hiking per le loro avventure: un fotografo, che ha necessità di muoversi più rapidamente dei propri soggetti per cogliere ogni attimo; un’amante delle notti in bivacco che, anche per stare al passo del proprio cane, cammina veloce prendendo quota per raggiungere l’obiettivo entro il tramonto. E, ancora, un appassionato di hike&fly, che vuole raggiungere il punto di decollo in modo più leggero possibile per poi godersi il volo. Infine, una sciatrice che in estate cammina in montagna per mantenersi in forma e per il proprio equilibrio psico-fisico. Siamo stati sul lago di Como nei giorni di UTLAC. Abbiamo assistito alla partenza dei corridori e fatto una full immersion insieme a Tecnica, che, oltre a supportare la gara
come sponsor, ci ha dato la possibilità di conoscere meglio i loro nuovi e futuri prodotti delle categorie estive. È proprio in questa occasione che sono emersi gli spunti di riflessione semplici ma originali sul tema delle verdure e del fast hiking in uno speech di Stefano Lentati, marketing consultant Tecnica, che è stato la base di partenza per presentare le collezioni Agate e Spark, i prodotti della collezione fast hiking introdotti dal brand dalla stagione SS24.
Agate e Spark
I due modelli sviluppati da Tecnica suggeriscono la loro natura già dalle colorazioni: leggere, ammortizzate, agili. Agate è la prima scarpa da fast hiking progettata nell'ambito dell'iniziativa Women to Women, con un design supportato da evidenze scientifiche. Infatti, i piedi e la biomeccanica di camminata degli uomini e delle donne sono diversi: un concetto tanto evidente, quanto trascurato. I piedi femminili hanno forma più
triangolare, volume inferiore e osso del tallone (calcagno) più stretto. Non solo: l’arco plantare è generalmente più alto, il peso è differente e, infine, i piedi femminili tendono ad avere una lunghezza minore tra avampiede e tallone, e un collo del piede più alto. Questo si traduce nel bisogno di un maggiore supporto sotto il piede e nella necessità di creare una scarpa flessibile e meno rigida, in grado di adattarsi a più tipologie di terreno. Dall’altro lato abbiamo Spark, dotata di un sistema di ammortizzazione particolarmente morbido nel contatto col terreno, equipaggiata con l’esclusiva tecnologia Impulso con un morbido inserto in espanso Pebax a tutta lunghezza e con le tecnologie premium di Ortholite, Gore-Tex e Vibram. Entrambi i modelli sono sviluppati attorno alla forma anatomica per offrire una calzata naturale e sono stati testati e analizzati scientificamente grazie alla collaborazione con CeRiSM dell'Università di Verona, un centro di ricerca indipendente di fama internazionale.
Una panchina a Robilante Marco Olmo
BY FILIPPO CAON
C’è questo progetto a cui ho iniziato a lavorare, e che uscirà prossimamente, che in poche settimane mi ha portato in lungo e in largo ai confini di questa grande pianura alla ricerca di persone che in modi diversi hanno contribuito alla nascita del nostro sport in Italia. Così, verso metà giugno, reduce da aerei, treni, foreste finlandesi e metropolitane milanesi, mi trovo su un Defender bianco col logo di The Pill stampato sulla portiera, guidato da Denis, ancora una volta, e diretto verso sud. L’ultima volta che sono passato per Robilante è stato nel 2016. Stavo andando a Barcellona in bicicletta e l’idea, almeno all’inizio, era quella di entrare in Francia da qui, risalendo la Val Vermenagna fino al Colle di Tenda, sulle Alpi Marittime, per poi scendere dall’altra parte, verso Ventimiglia. All’epoca correvo solo da qualche mese e non avevo ancora sentito parlare di una storica gara che si svolgeva da queste parti: partiva da Limone Piemonte e scendeva fino al mare, sulla falsariga di quello che avremmo dovuto fare noi in bicicletta.
Il Grand Raid du Cro-Magnon ha segnato un’epoca. Organizzata a partire dal 2001, in anni in cui i trail in Francia non si chiamavano ancora trail ma raid, la prima edizione fu vinta da un signore italiano della Val Vermenagna, proveniente da un paese del fon-
dovalle vicino a Cuneo: Robilante, appunto. Quel signore nel 2001 ha 53 anni e ha già preso parte a diverse gare di edizione francese, tra cui la Marathon des Sables in tutti i quattro anni precedenti. Ha vinto già due gare nel deserto, la Desert Marathon in Libia e la Desert Cup in Giordania, e ha vinto anche una gara in Francia, il Verdon Trail. Nel cuneese e nel torinese è già conosciuto da tanti anni, avendo vinto o preso parte a diverse competizioni di scialpinismo e di corsa in montagna. Ha un carattere schivo, poco incline al dialogo, forse nemmeno al soliloquio. In valle non è molto conosciuto: i suoi successi sportivi non sono arrivati alla cronaca locale. Quattro anni dopo il suo primo Cro (di cui avrebbe vinto consecutivamente sei edizioni), gli organizzatori lo fanno invitare a una gara che da un paio d’anni si svolge a Chamonix, sostenendo che sia un corridore tenace in grado di fare podio.
Nel 2005 l’Ultra-Trail du Mont Blanc è alla terza edizione, ma è già la gara più importante al mondo complice, già all’epoca, l’indomabile indole imprenditoriale della famiglia Poletti che ne guida l’organizzazione. Marco partecipa e arriva sul podio dietro a Christophe Jaquerod e a Vincent Delebarre. L’anno dopo ritorna, e il resto è storia.
PHOTOS DENIS PICCOLO
L’era dello spirito trail si è identificata proprio in quella non-sportività, in quella retorica del perdente, in quell’atteggiamento nemmeno antieroico, ma non-eroico che Olmo ha incarnato così bene, a dispetto della sua competitività e della sua necessità di riscatto
«Dove siete?».
«Cinque minuti e siamo a Robilante».
«Quando arrivate, c’è una piazza con un monumento agli alpini. Io sono lì, si chiama piazza della Liberazione o piazza della Vittoria, qualcosa che c’entra con la guerra. Finché continuiamo così non la finiremo mai».
Non è la prima volta che incontro Marco Olmo, ma è la prima volta che lo intervisto. Devo registrare e ho bisogno di un ambiente silenzioso, ma lui ci porta lungo un sentiero poco sopra al paese, dove c’è una panchina. Ci sono dei cani che abbaiano nei paraggi e il rumore della pioggia che cade dalle fronde degli alberi. Va bene anche così, le storie sono belle se sono vere. Gli attacco il microfono al bavero e accendo il registratore. Iniziamo a parlare e lui risponde profusamente. Marco non è espansivo, ma con gli anni e con le interviste ha imparato a parlare con le persone, a rispondere alle loro domande, ad accettare di farsi fare una fotografia con loro e di firmare le copie dei libri.
C’è un vecchio film che racconta del suo ultimo UTMB, quello del 2008, vinto poi da Kilian e in cui lui si ritirò a Vallorcine, a venti chilometri da Chamonix. Dunque, c’è questa scena, nel film: Marco è seduto in cucina, il tavolo è di formica ed è rivolto verso il muro, la televisione è accesa ma non c’è il sonoro. Il primo taglio dell’inquadratura è stretto, su un piatto di pasta integrale mescolata con delle patate lesse, scondita, senza olio. Poi il campo si allarga leggermente su un primo
piano e poi una seconda volta fino a uscire dalla stanza, incorniciando la scena con la porta della cucina, di traverso. Poi c’è un’altra scena. È la festa dei coscritti di Robilante, c’è un grande tendone bianco da fiera campestre con un lungo tavolo pieno di persone. Tutti parlano, gridano, forse cantano. Marco è seduto in mezzo a loro, in silenzio, e fissa il vuoto.
Queste due scene rappresentano un’epoca in cui lo sport della corsa veniva rappresentato senza divismi, e il motivo per cui Olmo è diventato il mito di una generazione. La sua apparente semplicità è stata il faro di una scena trail in cui questo sport era prima di tutto l’esperienza comunitaria di una nicchia molto ristretta di persone - proprio lui che, apparentemente, di comunitario ha così poco. Ciononostante, l’era dello spirito trail si è identificata proprio in quella non-sportività, in quella retorica del perdente, in quell’atteggiamento nemmeno antieroico, ma non-eroico che Olmo ha incarnato così bene, a dispetto della sua competitività e della sua necessità di riscatto.
Olmo è allo stesso tempo schivo e disponibile, introverso e diretto, solitario e simbolo di una comunità che vedeva nella condivisione delle esperienze il proprio principio fondativo. Un carattere sfaccettato e complesso, troppe volte semplificato a tipo fisso. Non so se ho capito qualcosa in più di Marco Olmo in quell’ora di intervista, ma grazie a lui ho capito qualcosa di più di un’epoca. Ma di questo parleremo più avanti: voi restate nei paraggi.
Eline Le Menestrel Bici, arrampicata & attivismo per il pianeta
BY ILARIA CHIAVACCI
La
Raggiungo Eline Le Menestrel al telefono nel suo giorno di riposo, mentre si trova nel bel mezzo di un multi pitch nei pressi di Grenoble, spot raggiunto in bici, ça va sans dire. Le Menestrel infatti, oltre ad essere una climber professionista e parte del Salewa People Team, è anche una impallinata della bici e un’attivista per il pianeta.
Elementi, questi, che l’hanno portata a mettere in piedi un progetto, Upossible, che unisce entrambi gli sport con un intento nobile: sensibilizzare le persone sul perseguire le proprie passioni nella maniera più sostenibile possibile.
«Come attivista per il pianeta cerco di impiegare parte delle mie energie, delle mie capacità e del mio tempo nel cercare soluzioni per le sfide ecologiche che stiamo affrontando. Per me era importante trovare il modo di farlo attraverso l‘arrampicata. Combinare attivismo e climbing è sempre stato un punto focale per me, ma non solo: ogni volta che mi domandavo come poter abbassare la mia impronta di carbonio e analizzavo il mio impatto,
mi rendevo conto che quello maggiore, nell’arrampicata, è legato ai trasporti. Quindi l’idea per Upossible è nata da questa riflessione: se il mio impatto ambientale quando vado ad arrampicare è dato dal trasporto in macchina, lo abbatto andandoci in bici. E voglio provare a portare con me quante più persone possibile. Credo che lo scopo ultimo del lavoro debba essere anche dare indietro qualcosa, sia agli altri che alla società; ma quando arrampico, arrampico per me stessa. Quindi per lungo tempo ho avuto questo conflitto interiore su come poter fare quello che amo e, allo stesso tempo, restituire qualcosa alla collettività».
Eline Le Menestrel è figlia d’arte: il padre Marc è celebre nella scena francese e dello sport climbing. «Non saprei dire con precisione il momento esatto in cui ho iniziato ad arrampicare: sono nata a Fontainebleau, in un posto circondato da foreste e da pareti d’arrampicata, quindi ho imparato a camminare e ad arrampicare più o meno nello stesso momento. Dopodiché ci siamo trasferiti in Spagna, quindi si può dire che sono cresciuta a Barcellona, dove
ogni weekend facevamo qualcosa di sportivo con la mia famiglia: principalmente, andavamo ad arrampicare. All’inizio eravamo troppo piccole: io e mia sorella stavamo più che altro a giocare ai piedi della parete, oppure facevamo tiri semplici. Poi, mentre mi appassionavo sempre di più, abbiamo iniziato a fare a gara: chi faceva per prima un 6b, poi un 6b+ e così via. È lì che ho iniziato ad arrampicare forte».
Uno spirito da atleta che scalpitava, diviso tra agonismo e natura: «Ricordo anche che a un certo punto avrei voluto fare delle competizioni, ma la mia famiglia non è mai stata molto per la quale. O meglio, mi dicevano: “Se vuoi fare le gare, falle, ma noi durante i weekend vogliamo andare ad arrampicare in montagna, quindi organizzati per conto tuo”. All’inizio ero un po’ arrabbiata, ma è finita che anche io ho iniziato ad arrampicare sempre più in parete e in montagna e man mano ho perso interesse per le gare. Andare ad arrampicare così, liberi, era la scelta più facile per la mia famiglia, ma era anche quello che mi piaceva di più. Quindi in fin dei conti è andata bene così».
Arrampicare ti insegna sempre qualcosa, o ti insegna di nuovo quello che già pensavi di sapere
Una connessione, quella di Eline con la roccia, profondissima e totalizzante.«Quello che amo di più sono i posti in cui questo sport mi ha portata: stare nella natura con bellissime persone per me è un bisogno basilare, mi serve per stare bene e sentirmi in equilibrio. Molto di quello che amo però è proprio il rapporto con la roccia stessa: è il mio elemento, mi piace la sensazione al tatto, ma anche l’odore, come io conosco lei e come lei conosce me. È una relazione molto forte. Arrampicare ti insegna sempre qualcosa, o ti insegna di nuovo quello che già pensavi di sapere. A volte concepisci un progetto che ti sembra perfetto, ti alleni e sei anche nel mindset giusto, ma poi le cose non vanno come volevi e hai la sensazione di dover imparare qualcosa di nuovo per la prima volta. Credo che questa sia una delle cose che rende questa disciplina così interessante».
Spirito da atleta e mindset da attivista, Eline ha fatto breccia nel cuore di Salewa nel 2019, che da allora l’ha inclusa nel suo roster di atleti ed atlete. «Avevo 21 anni quando sono entrata in contatto con il manager degli atleti Salewa e sapevo di voler diventare una climber professionista: era il mio sogno da quando avevo 16 anni e durante il nostro primo incontro gli dissi proprio questo. Credo che la mia determinazione lo abbia impressionato».
Dalla capacità di Eline di connettere ambiti e discipline e dal rapporto con Salewa è nato quindi Upossible, progetto al quale l’atleta ha iniziato a lavorare nel 2022 e che si è concretizzato a partire dallo scorso anno con una serie di appuntamenti in cui Eline accompagna climber appassionati in weekend o weekend lunghi di scalata dove lo spot viene raggiunto, a partire dalla città più vicina, necessariamente
in bici, oppure con una combinazione di bici e treno. «Abbiamo iniziato dalle città perché lì le persone sono troppo dipendenti dalle macchine: volevamo mostrare loro che è possibile lasciare le vetture a casa e andare ad arrampicare in maniera più libera ed ecologica. La particolarità di Upossible è che stiamo creando un programma tarato sulle esigenze delle persone, quindi prendiamo in considerazione fine settimana e ponti. Io come atleta starei il più possibile in un posto dove posso arrampicare, ma la maggior parte delle persone non ha questo tempo a disposizione, quindi ci dobbiamo adattare per far capire loro che anche nell’arco di due o tre giorni è fattibile andare ad arrampicare in bici. Le uscite sono progettate in base alle esigenze delle persone, ma anche in base alle condizioni meteo. A volte è possibile dormire in tenda, altre volte ci appoggiamo a delle strutture. Per le persone talvolta è uno scoglio mentale l’idea di trasportare l’attrezzatura, ma la realtà dei fatti è che puoi portare qualunque tipo di zaino su una bici. Certo, non se devi affrontare 200 chilometri, in quel caso è meglio avere delle sacche da bici capienti: insomma, si tratta di adattarsi un minimo. Di solito cerchiamo di non proporre distanze troppo impegnative, in modo che le persone non si spaventino e sia alla portata di tutti. Nella tappa di Grenoble c’erano 30 km dalla città allo spot. Lo scorso anno siamo andati a Palinuro partendo da Napoli, che dista 160 km, ma ne abbiamo coperti un po’ via treno. Insomma, ogni volta cerchiamo di trovare la soluzione migliore. Oppure ogni tanto facciamo qualcosa di totalmente folle: nelle scorse settimane, ad esempio, siamo andati in Scozia e ci siamo arrivati da Londra in bicicletta per un totale di 1200 km. Spesso negli sport i
progetti sono pensati a breve termine, ma questo non lo è: Upossible non è un progetto che vivrà un anno o due e poi si concluderà, ma punta ad essere una realtà a lungo termine volta a cambiare il mindset delle persone e a far diventare l’andare ad arrampicare in bici, o in una maniera sostenibile, la norma. Questa è la nostra mission».
Tra i vari mondi che fanno parte della vita di Eline Le Menestrel, oltre a bici, attivismo e arrampicata, c’è anche un coté artistico molto sviluppato. Gli appuntamenti infatti, oltre ad essere promossi sul canale Instagram di Eline, vengono anche sponsorizzati tramite spettacoli nelle città da cui partono le escursioni. «L’idea inizialmente era quella di realizzare un piccolo film, ma poi ci è venuta l’idea di fare uno spettacolo mixando delle scene che proiettiamo su uno schermo ad altre che riproduciamo dal vivo come attori. Ogni volta che arriviamo in una città organizziamo uno spettacolo per invitare le persone a unirsi a noi nei giorni successivi».
Pur giovanissima (è nata nel 1998), Eline può già vantare anche un passato da musicista e performer: «Volevo essere una musicista professionista, poi ho abbandonato l’ambiente perché era troppo esigente. A vent’anni non ho avuto dubbi e ho scelto l’arrampicata, ma ancora suono e faccio progetti che includono la musica: credo molto nell’arte come mezzo per dare agli altri qualcosa, per connettersi gli uni agli altri e per condividere messaggi. Connettere passioni è, in generale, un po’ la storia della mia vita e sono ancora più contenta di poterlo fare includendo tutte le mie idee sulla sostenibilità, la mia consapevolezza e quello che credo sia giusto e possibile fare nei confronti del pianeta».
Arc’teryx Alpine Academy Una prospettiva femminile
BY EVA TOSCHI
PHOTOS ANETTE ANDERSSON
Arrivo a Chamonix per la Arc’teryx Alpine Academy giovedì pomeriggio. L’Alpine Village, cuore dell’evento che batte sotto lo sguardo del Monte Bianco a Parc Couttet, è già pieno di vita: c’è chi si iscrive alle clinic, chi prende materiale e vestiario da testare, chi prova qualche boulder al muro, chi è semplicemente steso sul prato a bere una birra.
Io mi dirigo alla Maison des Artistes dove sta iniziando un meeting di benvenuto per i media. Di questo incontro ci sono due cose che mi restano impresse. La prima, è una frase detta per spiegare lo spirito di questo evento: «Se l’alpinismo è l’arte di salire le montagne, allora l’Academy vuole trasmettere quest’arte a più persone possibile». Ed io aggiungo: se l’alpinismo è un’arte, allora l’Academy è una residenza artistica, perché come mi giro vedo creatività, innovazione, comunicazione, ispirazione. L’altra cosa che mi ha stupita è che tutti gli speaker dell’incontro sono donne: atlete, designer, creative che sono dietro i prodotti che ogni giorno vengono utilizzati dagli alpinisti (e dalle alpiniste) in tutte le situazioni, anche le più estreme, in cui si trovano quotidianamente. Ma la vera particolarità, quello che mi ha veramente stupita positivamente, è che nessuno ha messo un’etichetta “rosa” su quest’incontro. Non era un meeting al femminile, in cui vengono tirate fuori magicamente dal cappello le donne dell’azienda per fare bella figura. Il fatto che su quel palco ci fossero solo donne, peraltro molto giovani, era solo un dato di fatto. Erano professioniste, creative, atlete fortissime e sì, per caso erano anche donne. Onestamente e personalmente è così che si mettono i fondamenti per la parità di genere: essendo trattate alla pari; essendo rispettate per quello che facciamo e non prese in considerazione solo per portare la cosiddetta quota rosa. E in un momento storico in cui
sembra che nell’industria outdoor non ci siano mai né budget né interesse per le necessità femminili, essere testimone di quest’onda di cambiamento è una bella boccata d’aria fresca.
Comunque, a prescindere da quello che succede dietro le quinte dell’industria, per capire dove sta andando il cambiamento bisogna essere parte della comunità che ha più peso e importanza in questo settore: l’utilizzatore. Così venerdì mi ritrovo a partecipare alla clinic Women’s Mountaineering 2: un corso di alpinismo organizzato dalle donne, per le donne. A partecipare sono donne, ragazze di differenti età e nazionalità. Le nostre guide, anch’esse donne, hanno anche loro età diverse e differenti background. Nel chiedere un po’ alle ragazze perché hanno voluto partecipare a questa clinic, la risposta che ricevo più spesso è perché sono stufe di seguire i loro partner di alpinismo (maschi o femmine che siano) e che hanno voglia di imparare per poter, un giorno, tenere loro la corda da leader. Riscontro spesso - ma non intendo fare generalizzazioni perché casi diversi esistono - che le donne si svalutano (e vengono svalutate) di continuo, che soffrono di sindrome dell’impostore, che temono di imporsi per paura di non essere all’altezza, soprattutto in un mondo machista come quello dell’alpinismo. Ma la verità è che le capacità le possediamo e dobbiamo solo trovare l’ambiente giusto dove poterle esprimere.
L’ambiente che si è creato in questo corso è stato perfetto per imparare e utilizzare quelle capacità. Le guide ci hanno mostrato, ci hanno insegnato e ci hanno fatto provare, lasciandoci sperimentare e commettere i nostri errori (sempre in sicurezza) senza mai sentirci giudicate. Ci hanno fatto prendere in mano la corda, la nostra vita e quella della compagna a cui ci siamo legate.
Mi spiace dirlo, ma purtroppo questo non accade così spesso quando si va in montagna con i ragazzi. Spesso siamo costrette a stare zitte, ascoltare (cose anche sbagliate) e seguire. Soprattutto nei livelli medio-bassi dove basta avere poca esperienza e un po’ di presunzione per ergersi a galli del pollaio. Spero che corsi come questi siano le fondamenta per un cambiamento che oggi più che mai è necessario e che non può essere avviato da nessuno, se non da noi. Qualche giorno dopo l’Academy sono andata in montagna con un mio socio. Eravamo legati da pari, da amici e tra di noi questo era molto chiaro. Ma per gli altri non era così. Ero quella che veniva portata, solo perché ero dietro. «Lasciamo passare la guida»: ecco cosa ho sentito quando abbiamo passato un gruppo di ragazzi. Sì, perché se un uomo e una donna vanno insieme in montagna o sono guida e cliente o sono morosi. E sia mai che sia la donna la leader della cordata.
Questo è quello che succede nella fascia intermedia del frequentatore della montagna. Ma per capire cosa invece succede a un livello più alto, ho voluto parlare con Ines Papert, che oltre a essere stata tra le prime donne ad affermarsi in un ambiente dominato dal testosterone, è la promotrice di una clinic per giovani donne che vogliono diventare professioniste di montagna: come guide o come atlete.
Ines, quando hai iniziato a praticare attività outdoor sei stata ispirata da qualche donna? Della tua famiglia o non? Nella mia famiglia nessuno arrampicava. Ho iniziato ad arrampicare solo in tarda adolescenza perché mi sono trasferita sulle Alpi per avere modo di sciare vicino a dove lavoravo. Da lì ho capito che sciare è meraviglioso, ma l'arrampicata è la mia vera passione. Quindi all'epoca avevo 20 anni: 30 anni fa non
c'era quasi nessuna donna che praticasse l'arrampicata in montagna. Era una situazione così rara e la gente, ovviamente, mi giudicava. Ma io non li ho mai ascoltati. La zona della Germania in cui vivevo era molto old school e l’aria che si respirava era vecchia e machista. La montagna era un campo di gioco solo per uomini. No country for young women. Una volta che però ho mostrato il mio valore in qualche modo sono stata accettata. Non si può limitare un certo tipo di sport o di attività a un genere, l’ho sempre pensato e di conseguenza ho fatto quello che ho sempre sentito di voler fare. Oggi, per fortuna, è molto diverso. Sto tenendo una clinic con tre giovani alpiniste e tutte loro stanno ottenendo il supporto dei club alpini di appartenenza. Queste ragazze non imparano solo facendo, commettendo errori stupidi e, a volte, rischiando la vita, ma imparano dalle basi. Questo è qualcosa che io non ho potuto fare, ma che avrei desiderato all'epoca. Vedo un grande migliora-
mento nel modo in cui le persone si approcciano verso le donne in montagna.
Perché pensi sia importante tenere clinic come questa? Cosa vuoi trasmettere a queste ragazze? Ho sempre pensato che tutta l'esperienza che ho acquisito nel corso degli anni possa e debba essere condivisa: negli anni passati abbiamo avuto altre clinic, le abbiamo chiamate Mountain Progression, ma non è mai stata di così alto livello come oggi. Ma queste ragazze vanno scovate, perché non si mettono in mostra. Le abbiamo cercate e abbiamo chiesto loro di unirsi e partecipare. Possono crescere e diventare delle ottime alpiniste e io ho voglia di aiutarle nel farlo. A un certo punto della vita è giusto cominciare a pensare di condividere, perché altrimenti cosa resta? Certo, una grande lista di prime ascensioni e di tutti i ricordi e le esperienze che ho fatto. Non andranno mai persi, ma questo è solo per me stessa, capisci?
E mi sento un po' egoista. Quindi ora sono in un periodo della mia vita in cui penso che sia bene condividere la mia esperienza con tutti. È arrivato il momento di restituire.
Ho un figlio di 23 anni e le ragazze a cui insegno hanno più o meno la stessa età: potrei essere loro madre, non è bello? Allo stesso tempo ho un po’ paura per loro. Fino a che punto posso e voglio spingerle per farle crescere? Perché le ragazze in generale, le arrampicatrici in generale, non sono molto sicure di loro stesse. I ragazzi spesso ingigantiscono quello che sono capaci di fare mentre le ragazze fanno esattamente il contrario. Poi se le sproni a fare, loro ci riescono, anche con grande margine.
In che modo pensi che sia diverso uno spazio di apprendimento, come la tua clinica o un'altra, tutto al femminile? Perché essere una professionista di montagna, guida o atleta, a volte per le donne non è nemmeno una possibilità. Per questo hanno bisogno di un sostegno speciale. E visto
che ci sono passata posso aiutarle, sia in campo tecnico che per tutto il supporto che sta alla base, come trovare uno sponsor giusto. Quello che dico sempre loro è che non devono ammazzarsi per soldi. Il marchio giusto non pretende questo da te. Sono fortunata ad aver trovato un marchio come Arc'teryx che mi dice sempre: "Ehi, non importa quanto abbiamo pagato o quanto abbiamo investito in un progetto, l'unica cosa che ci aspettiamo davvero è che tu torni sana e salva a casa”. Questo è quello che ci si dovrebbe aspettare da un brand che ti supporta.
Una curiosità: hai mai voluto diventare guida alpina? Sì, quando ero giovane avevo anche cominciato a frequentare i corsi. Poi sono diventata madre. Ho pensato se riprendere o meno, ma alla fine ho trovato già appagante la mia carriera da atleta professionista. Oggi, a 50 anni, ho trovato nuovi modi per trasmettere la mia passione e per insegnare, e va bene così.
In cordata, oltre i propri limiti
BY CHIARA BERETTA
Anche se le condizioni non sono ideali, anche se si parte da background e capacità alpinistiche diverse, è la sintonia della cordata a rendere un’uscita in alta montagna indimenticabile. Lo hanno scoperto, scalando la cima orientale del Piz Palü, l’atleta Ortovox
Lena Koller, la Communication Manager di Ortovox
Tanja Gutheil e l’autrice freelance Marlies Czerny
La montagna è maestra di vita, si dice. Ho sentito questa frase così tante volte che ormai mi suona terribilmente stucchevole. Eppure, a volte capitano tra le mani e sotto gli occhi delle storie che, a dispetto del mio tentativo di originalità, mi riportano alla mente proprio quelle parole. Ci ho pensato immaginando Lena Koller, Tanja Gutheil e Marlies Czerny che procedono legate verso la cima orientale del Piz Palü e, tra labirinti di crepacci e creste sferzate dal vento gelido, si aggrappano, più che alla corda, alla fiducia reciproca e alla forza del gruppo. Che poi, non è la cosa migliore che possa accadere a qualunque cordata in alta montagna?
Conosciamo meglio le protagoniste di questa storia. Marlies Czerny è autrice freelance ed è già stata su tutti i quattromila delle Alpi. Tanja lavora come Communication Manager in Ortovox, marchio fondato nel 1980 a Monaco di Baviera e pioniere nel settore della sicurezza in montagna: è molto sportiva, ma ancora alle prime armi quan-
do si tratta di ghiacciai e creste. Lena invece è atleta Ortovox e sta seguendo il corso di formazione per diventare guida alpina.
Date le premesse, è facile immaginare il primo ostacolo che il gruppo ha dovuto superare: selezionare un’uscita alpinistica che fosse piacevole e alla portata di tutte, nonostante i background diversi. «Scegliere un itinerario che sia fattibile per tutte pur risultando comunque avvincente, richiede attenzione e sensibilità. Ma, se si riesce a trovare il giusto equilibrio, ogni partecipante potrà compiere grandi passi in avanti e imparare molto», ha raccontato Marlies.
La scelta ricade alla fine sulla cima orientale del Piz Palü, una «prima volta» per tutte. Straordinario palazzo di ghiaccio, il Piz Palü svetta a quasi 3900 metri nell’Engadina, al confine tra Italia e Svizzera. Delle sue tre cime di granito, separate da cascate di ghiaccio a picco, quella orientale ha fama di essere la più semplice da scalare, ma anche la più bella: un compromesso perfetto. «È spettacolare e assolutamente
impressionante. Davanti a un ghiacciaio ci si sente così piccoli e insignificanti», ha raccontato Tanja.
La scalata inizia dopo una notte nel rifugio Berghaus Diavolezza. Le condizioni non sono delle migliori: il Piz Palü è avvolto dalle nuvole e da nord-ovest soffia un vento pungente. La cordata raggiunge il ghiacciaio del Pers e procede schivando i numerosi crepacci. La situazione, estremamente comune nelle uscite alpinistiche, richiede insomma concentrazione e senso di responsabilità, oltre che una generosa dose di onestà e lucidità. Al di là del chiedersi in continuazione qual è la direzione giusta da prendere e il punto migliore a cui assicurarsi, ci sono altre domande che affiorano alla mente: se le condizioni peggiorano, se cambiano ancora e rapidamente, la cordata sarà in grado di affrontare l’ascesa? Ci stiamo ancora divertendo? Ha senso andare avanti? «In pochissime ore si impara una quantità incredibile di cose. Per me sono proprio queste decisioni a rendere l’esperienza così insolita e affascinante», ha confermato Tanja, che, arrivata alla prima sosta, dopo la ripida ascesa sul granito ghiacciato e l’incontro ravvicinato con una crepaccia periferica tra le rocce, sente di avere raggiunto il suo limite. La circolazione sanguigna rallentata alimenta il malessere e i dubbi. «Mi chiedevo se ce l’avrei fatta. Stavo così male, non sentivo più le dita dal freddo e non sapevo cosa avrei dovuto aspettarmi».
Ma il bello e la forza della cordata è che, appunto, non si è sole. E se serve, possiamo chiedere e ricevere aiuto. Tanja ha fiducia nelle sue due compagne, che sono certamente alpiniste più esperte di lei. Ma, soprattutto, anche le sue due compagne hanno fiducia in Tanja. E quello di cui abbiamo bisogno, a volte, è solo una parola di incoraggiamento, un buon consiglio: che qualcuno, insomma, ci ricordi che anche noi possiamo credere in noi stesse. Ma senza pressioni, senza l’ansia della perfor-
mance. «Ho la sensazione che tra donne l’atmosfera sia più rilassata. A mio parere le donne sono più sensibili, più empatiche, si prendono cura l’una dell’altra e sanno apprezzare l’esperienza condivisa», conclude Tanja.
Le tre donne ripartono. Quando incrociano la cordata di uomini che era partita poco prima di loro, e che ha deciso di tornare indietro, si fermano di nuovo a riflettere. Controllano ancora una volta il meteo, si confrontano su ciò che vogliono e che ha senso fare. In effetti le raffiche di vento stanno diventando più intense e la visibilità cala. Ma le tre decidono, insieme, di proseguire: aggiungono un altro strato di isolamento sotto la loro giacca Westalpen, alzano il cappuccio e riprendono a camminare. Dopo la gelida ma splendida arrampicata sulla cresta rocciosa, ad attenderle c’è la ripida scalata sul firn, da affrontare con chiodi da ghiaccio. «Per un attimo ho sudato freddo. L’ultimo tratto era decisamente più ripido di quanto mi immaginassi», ha raccontato Tanja. Le condizioni erano tutt’altro che ideali, è vero. Eppure, di fronte all’elettrizzante scoperta che si può avanzare con fiducia e sicurezza superando i limiti che credevamo di avere e imparando dal gruppo, è chiaro che non è di certo la bellezza del panorama a rendere un’avventura indimenticabile.
Ho la sensazione che tra donne l’atmosfera sia più rilassata. A mio parere le donne sono più sensibili,
più empatiche, si prendono cura l’una dell’altra e sanno apprezzare l’esperienza condivisa" "
In his boots
Il primo Millet Tour Du Rutor Extreme di Marc Radua
Nella stanza d’albergo ad Arvier, mentre fuori è ancora buio, la sveglia suona alle 5. A spegnerla e ad alzarsi dal letto è Marc Radua, giovane promessa dello sci alpinismo e atleta spagnolo del team Millet: in quel momento ancora non lo sa, ovviamente, ma sta per classificarsi al primo posto nella categoria U23 del Millet Tour Du Rutor Extreme. Quel giorno, ad attendere per la prima volta lui e il compagno francese Noé Rogier, c’è infatti l’unica tappa italiana de La Grande Course 2024, il circuito internazionale delle gare più prestigiose di tutto l’Arco Alpino e della Cordigliera dei Pirenei: il Tour du Rutor, appunto, tra le più spettacolari competizioni del nord-ovest che, dopo aver subìto un’enorme evoluzione nell’arco di più di un ventennio, quest’anno torna alle origini.
La gara è un grande motivo di orgoglio per gli abitanti dell’alta Valle d’Aosta ed è molto sentita da tutti. Ogni due anni più di cento volontari lavorano duramente per far sì che l’evento si realizzi al meglio e il tifo è certamente tra i più calorosi. Sono tanti quelli che puntano la sveglia all’alba per raggiungere le vette prima degli atleti, per incoraggiarli e omaggiarli al loro passaggio. Il percorso si snoda lungo i comuni di Arvier, Valgrisenche e La Thuile. In particolare, quest’anno c’è grande attesa per la traversata storica, che risale al 1933: dal “lato wild”
BY EVI GARBOLINO
del Monte Bianco (La Thuile) fino a Valgrisa, la Mecca dello sci fuoripista nella conca di Aosta. È il tracciato della prima edizione assoluta: già in programma nella passata edizione, non se ne era poi fatto nulla a causa del meteo sfavorevole. Una competizione in ambiente, lontana dagli impianti, con passaggi alpinistici molto tecnici, creste esposte, canali ripidi e salite degne dei migliori scalatori al mondo. È “autentico sci alpinismo”: così commentano tutti, dagli spettatori agli atleti.
Ma se c’è chi si prepara a fare il tifo già da prima dell’alba, c’è anche chi si prepara a gareggiare. Torniamo allora da Marc Radua, con il quale abbiamo trascorso le ore precedenti alla partenza. Mettiamoci nei suoi panni e proviamo a capire in che modo l’atleta si prepara al via di un evento di questa portata.
Suona la sveglia, dunque, e sono le 5 del mattino. Apri gli occhi e sai che questa è una mattina diversa dalle altre della stagione, perché sei giovane e, per questo, forse un po’ inesperto nell’affrontare una gara come questa. Per un atleta U23, anche se preparato, non è semplice correre una competizione così lunga e che richiede competenze tecniche ben diverse dalle solite gare. Sei abituato a correre per un’ora e mezza, due al massimo, con uno sforzo fisico limitato e tempi di recupero ben
più lunghi tra una gara e l’altra. Può spaventarti un po’, ma allo stesso tempo ti rende impaziente di cimentarti in qualcosa di nuovo e di ritrovarti fuori dalla tua comfort zone, in territori incontaminati. È da tempo che aspetti la possibilità di metterti in gioco su tracciati che sui Pirenei mancano.
Tre ore al via. Dentro di te non vedi l’ora di trovarti sulla linea di partenza. Ti lavi e scendi a fare colazione, scambi due chiacchiere con il tuo compagno di squadra, cerchi di mangiare al meglio per non fare mancare nulla al tuo corpo: un po’ di porridge, un buon caffè e succo di frutta, poi tocca agli ultimi preparativi. Inizi a pensare a una strategia e ti rendi conto che sei abituato a correre da solo, mentre in questi tre giorni non sarà così. Non siete due sciatori fedeli da tempo, con esperienze condivise alle spalle: vi siete conosciuti durante la stagione ma l’unica cosa che davvero vi accomuna sono i risultati alle gare. Eppure, oggi dovrai fidarti e aiutare il tuo compagno, perché al traguardo arriverete insieme. Collaborare per gareggiare come un team, in sinergia: non sono aspetti secondari e non si costruiscono in poco tempo, ma sei fiducioso. Lui è un atleta molto preparato, del tuo stesso team, con la tua stessa grinta e c’è una buona chimica tra voi: perché non dovrebbe funzionare?
Sali in macchina, una quarantina di minuti ti separano da La Thuile e dalla linea di partenza. Sono le 6.30, poche nuvole, la temperatura è buona. Sai che le previsioni dei prossimi giorni non saranno altrettanto favorevoli e che la tua determinazione fisica e mentale saranno messe a dura prova. Sei un atleta esperto, pronto ad affrontare la montagna, ma sei anche felice di poter partire con il sole, almeno oggi. Qualche galleria lungo la strada e poi, dietro una curva, appare il Monte Bianco nella sua immensità
Torni in camera per prepararti. I primi raggi di sole finalmente filtrano dalle tende e noti che alcuni atleti stanno già caricando il materiale nel pullman che li condurrà a La Thuile. È incredibile come il tempo sfugga la mattina di una gara! Indossi la tuta, attacchi il numero sulla gamba destra e sullo zaino, che riempi con tutto il necessario. Prima Artva, pala e sonda, poi i ramponi e il telo termico, qualche barretta e le pelli di ricambio. Hai una lista nella testa che va rispettata, quasi un rituale che ti accompagna alla gara, perché tutto quello che viene prima del via è altrettanto importante di quello che viene dopo. Allacci gli scarponi, prima le scarpette. Le stringi con vigore. La luce in cielo si alza e la tensione con lei. Indossi l’orologio e il casco, prendi sci e bastoni, infili la giacca ed esci dalla stanza. Scendi le scale e saluti i ragazzi di Millet che stanno per fare colazione per poi salire lungo il percorso e all’arrivo della tappa a Valgrisenche, per dare supporto a te e alla manifestazione. È bello sentirsi parte di una famiglia e, pensi, nella tua carriera è la prima volta che percepisci così tanto sostegno: le persone del team hanno fiducia nel processo e soprattutto negli atleti, al di là del risultato. Ti mettono in condizione di poter correre al meglio. È una sensazione condivisa non solo dagli altri atleti della squadra, ma anche dagli organizzatori dell’evento. Barbara Luboz, vicepresidente del Comitato Organizzatore della manifestazione, ha raccontato che Millet non solo so -
stiene la gara dal 2009, ma aiuta concretamente con dedizione l’organizzazione, i volontari, i ragazzi dello sci club durante l’anno. Ti senti fortunato.
Sali in macchina, una quarantina di minuti ti separano da La Thuile e dalla linea di partenza. Sono le 6.30, poche nuvole, la temperatura è buona. Sai che le previsioni dei prossimi giorni non saranno altrettanto favorevoli e che la tua determinazione fisica e mentale saranno messe a dura prova. La neve fresca e il vento possono rendere le condizioni molto complicate. Sei un atleta esperto, pronto ad affrontare la montagna, ma sei anche felice di poter partire con il sole, almeno oggi. Qualche galleria lungo la strada e poi, dietro una curva, appare il Monte Bianco nella sua immensità. Il sole ha già illuminato i suoi 4.810 metri, che spettacolo! Guardandolo, ripensi alle 15 ore a settimana che passi sulla neve, alle fatiche di questa stagione e a come hai cominciato a praticare lo sci alpinismo. Hai sempre amato la montagna in tutte le sue sfaccettature e il tuo destino è stato quello di essere osservato e chiamato a gareggiare. Lavoro e dedizione, ce l’hai messa tutta. Tutti hanno contribuito affinché tu oggi fossi qui: la tua famiglia, il tuo allenatore, i tuoi compagni di allenamento, ma anche gli organizzatori della manifestazione che hanno tracciato il percorso nei minimi dettagli. Ora è il momento, sei qui a correre insieme al team Millet una delle gare più famose delle Alpi, a più di mille chilometri da casa. Basterà tutto que-
sto a ottenere un buon risultato?
L’auto si ferma. La tensione si fa più viva. Alzi lo sguardo e davanti a te svetta il Rutor con i suoi 3.486 metri. Tra qualche ora sarai in salita verso la vetta attraverso un ripido canale con il tuo compagno di squadra. È il momento di concentrarsi. Sistemi lo zaino in un angolo, metti le pelli e vai a scaldarti, da solo. Qualche ripetuta lungo la pista di rientro, per preparare i muscoli e sciogliere la tensione. Nonostante sia una gara di tre giorni, l’intensità sarà alta e devi farti trovare pronto.
Ore 7:45. Ultimi tre scatti, recuperi lo zaino, infili le pelli di scorta nella tuta, lasci la giacca e ti avvicini al controllo materiale insieme al tuo socio. Sarete in grado di agire come una vera squadra? Ora ne sei certo: hai massima fiducia nelle sue capacità. Entri in griglia, il cuore batte forte. Respiri, ti calmi, ti concentri. L’ansia sale. Ti sposti a sinistra della linea di partenza, non ami stare al centro. Ultimi minuti, muovi gli sci impazientemente. La montagna ti sta chiamando e tu rispondi con gratitudine ed eccitazione per l’opportunità di vivere un’esperienza pura, una sfida con te stesso.
Pochi istanti prima del via, ti tornano alla mente le parole di Marco Camandona: “Una volta passati gli atleti, una volta tolte le bandierine, non resterà che la montagna, nuda come l’abbiamo trovata, in tutta la sua bellezza”. È così che vuoi correre oggi.
Dieci, nove, otto... apnea, respiri. VIA.
Don’t touch the Rock
A Silverton con Meghan Hicks
BY FILIPPO CAON
PHOTO ELISA BESSEGA
In Colorado abbiamo incontrato Meghan Hicks, atleta e volto iconico dell’ultrarunning americano, che ci ha raccontato la «sua» Hardrock: una gara di 100 miglia che gira attorno alle San Juan Mountains, nell'angolo più aspro e remoto dello Stato
Andare negli Stati Uniti negli ultimi anni è diventata una questione esistenziale. Le ragioni sono due: la prima è che continuo ad avere dannatamente voglia di ritornarci, la seconda è che, almeno per me, è anche difficile. Il viaggio in sé diventa la fine di un percorso lungo mesi, passato a costruire progetti, proporli, a spedire e-mail. Il viaggio, insomma, è la ciliegina sulla torta di un percorso molto lungo e affannoso, fatto di desideri, soddisfazioni, delusioni, incazzature. È diventata una cosa esistenziale e, forse, il modo per sentirmi accomplished. Fintanto che riuscirò ad andare, penso ingenuamente, sarà perché qualcuno è ancora interessato a quello che ho da raccontare. È puerile, forse, ma per me è così. Dai miei viaggi negli Stati Uniti, oltre alle foto e ai ricordi, ho sempre cercato di tornare con dei concetti, anzi, facciamo meno: con un concetto. E quel concetto l’ho quasi sempre trovato nascosto tra le parole delle persone che ho intervistato.
Meghan Hicks abita su Reese Street, una parallela della via principale. La casa è antica e sembra fatta di cartapesta, la strada è sterrata. Io ed Elisa parcheggiamo davanti e quando Meghan esce noto che è vestita dello stesso colore della casa. Ha un pile di Melanzana, un’azienda di Leadville che produce solo su prenotazione, e un paio di fuseaux neri. Oltre a essere editrice
di iRunFar – il più importante blog americano, e quindi mondiale, di ultra trail – Meghan è una forte atleta, più volte finisher di Hardrock 100 (di cui recentemente è entrata a far parte del direttivo), è anche stata detentrice del record sul Nolan’s 14, uno degli FKT più duri e storici non solo del Colorado, ma del Paese. Lei era la persona da intervistare.
«Tutto è iniziato quando io e Bryon siamo venuti qui per la prima volta per Hardrock, attorno al 2009, e poi quando iRunFar ha iniziato a coprire la gara, nel 2011 credo», racconta. «Così abbiamo iniziato a passare qua più mesi dell’anno e alla fine abbiamo acquistato la casa. Là dove inizia la collina sono public lands, il che significa che non potrà mai esserci costruito nulla, il che è una buona cosa perché significa che sono protette per sempre. In America ci sono vari livelli di protezione delle public lands, in alcune le aziende private possono estrarre petrolio, possono farci pascolare gli animali, in altre terre non puoi fare nulla, nemmeno tenere dei sentieri».
Ultrawest parla della relazione tra le città minerarie e l’ultrarunning: Boulder è stata fondata durante la corsa all’oro di Pikes Peak, Leadville durante la Silver Rush, e questa storia si ritrova nella relazione con
le gare come Leadville e Hardrock o Pikes Peak Marathon, che percorre il Barr Trail che un tempo era un sentiero minerario. Qual è la relazione tra queste due cose in Colorado? La storia del West in America è quella di queste terre originariamente popolate da una grande varietà di tribù indigene. Poi, un paio di secoli fa, gli europei, che avevano colonizzato gli Stati Uniti orientali, iniziarono a venire verso ovest, popolandolo per l’agricoltura, per le miniere. Credo che il modo giusto di dirlo sia: per cercare una nuova vita. C'erano persone, nella costa est, che cercavano una vita lontana dalle grandi città, e così iniziarono a venire verso ovest. Così in posti come Silverton, nell'epoca d'oro, la popolazione raggiunse numeri tre, quattro volte quelli di oggi: erano luoghi in rapidissima crescita. L'economia mineraria segue il prezzo dei minerali e l'efficienza con cui vengono estratti. Così, alla fine i metalli preziosi che vennero trovati qui diventarono economicamente insostenibili a causa dei metodi di estrazione che venivano utilizzati e molte di queste città vennero chiuse. O, meglio, le grandi miniere vennero chiuse, causando un rallentamento nella vita di
queste città tra il 1940 e il 1960. Poi nuove cose iniziarono ad accadere nel West americano, dove gli sport outdoor diventarono qualcosa di importante: la mountain bike è nata nelle città attorno a Silverton qualche decennio fa e la stessa cosa è successa con il trail running, con l'escursionismo. Sembra un cliché detta così, ma queste città trovarono una nuova vita grazie a queste nuove opportunità. Se tante gare di ultra running e di trail running sono sorte in antiche città minerarie o "città western", forse è una coincidenza.
Qual è il tuo rapporto con la gara? Penso di avere corso per la prima volta Hardrock nel 2015 e poi l’ho corsa altre tre volte. La prima volta che venni qui, sette anni prima, molto prima di avere le capacità di correrla, ne rimasi molto influenzata: da lì iniziai ad andare a correre di più in montagna e a fare più dislivello. Hardrock, in qualche modo, ha condizionato il mio amore per le grandi montagne. Poi c’è iRunFar, con cui ci occupiamo della copertura della gara dal 2011. Il modo in cui lo facciamo si è sviluppato di anno in anno, ma sempre cercando di avere un focus sui corridori, catturando le storie della gara, dall’inizio alla fine. Cer-
care di capire come si sono allenate le persone e in che modo la gara si sviluppa chilometro per chilometro. Questa è la nostra relazione con Hardrock: cercare di capire quale sia l’esperienza degli atleti, là fuori.
Puoi spiegare cosa sono Hardrock e il suo spirito? Hardrock è una gara di 100 miglia che circumnaviga le San Juan Mountains in Colorado, nell'angolo sud-ovest dello stato, che è la zona più remota, aspra, e meno popolata.
L’evento nacque grazie a un gruppo di persone ormai trent'anni fa, con l'obiettivo di collegare diverse aree della storia mineraria del Colorado. Così Hardrock collega le quattro principali città delle San Juans: Silverton, Lake City, Ouray e Telluride. La gara inverte la direzione ogni anno, ma inizia e finisce sempre a Silverton, proprio qua, dall'altro della strada, di fronte alla scuola.
È sempre stata piccola, e resterà sempre piccola perché qui le public lands sono molto protette e precludono l'organizzazione di grandi eventi. Inoltre, la gara stessa vuole mantenere una forte dimensione comunitaria. Gli organizzatori vogliono conoscere il nome di ogni persona
che partecipa incoraggiandola a tornare, anche se non per correre, almeno da volontario o per fare assistenza o da pacer a un altro corridore. Ogni gara ha una propria intenzione e un proprio obiettivo, e uno degli obiettivi di Hardrock sono proprio le sue persone: creare una community che voglia tornare qua anno dopo anno e che voglia portare avanti la storia e la tradizione di Hardrock.
Sto piangendo! Ahah! Sì, beh, meglio se inizi a qualificarti per Hardrock.
Che impatto ha avuto sull’evento il fatto che sia una no-profit? Hardrock è un’organizzazione no-profit, il che significa che tutto viene dato in beneficenza. E come tale ha un race director che gestisce queste entrate e un board, di cui faccio parte da un anno e mezzo. Le persone naturalmente non percepiscono uno stipendio. Ad Hardrock nessuno è mai stato pagato per quello che faceva: non è una possibilità di carriera, non c’è un’azienda che può trarre profitto da questa cosa, piuttosto è un progetto che si porta avanti per passione. Questo vale per tutti quelli che ci lavorano.
Qual è la differenza tra Leadville e Hardrock? La mia esperienza con Leadville è molto minore che con Hardrock. Sono stata là diverse volte, sia come giornalista che come pacer, ma non ho mai avuto la stessa esperienza. È interessante, secondo me, che entrambe le gare siano nate con lo stesso spirito e la stessa intenzione. Se chiedi agli inventori di Hardrock, ti risponderanno che Leadville era il modello che hanno seguito. Entrambe le gare sono nate durante le crisi economiche delle città minerarie del Colorado, e anche delle ex città minerarie, che avevano grandi problemi economici. Entrambe volevano risollevare le sorti della città. Leadville poi è diventato un evento molto più grande, con un intero circuito di gare, e questo naturalmente ha portato una crescita significativa. Anche Leadville Trail 100 però è una no-profit e ha una fondazione che investe il profitto nell’educazione della Lake County. È vero, Leadville è stata acquistata da un’azienda, che però ha fatto davvero un buon lavoro sia per la gara che per la fondazione.
Che differenza c’è tra le montagne del San Juan e il Sawatch Range? Siamo sempre nelle Colorado Rockies, che risalgono a un periodo ge-
ologico di circa 65 milioni di anni fa, in cui dei movimenti portarono alla formazione di questa catena disposta nord-sud: il Sawatch è il perfetto esempio, con questa barriera completamente verticale di montagne. Il Sawatch, dove si svolge Leadville, per gli standard del Colorado ha una grande prominenza: le montagne, oltre a essere alte di quota, sono anche molto grandi, perché partono da un livello più basso rispetto a quelle del San Juan. Quando corri un percorso come il Nolan’s, devi continuare a scendere e a risalire per collegare una cima all’altra. Il San Juan invece è diverso: le forze che lo hanno creato sono le stesse, ma ha anche un’importante storia vulcanica. Silverton si trova infatti nell’antica caldera di un vulcano molto attivo che collassò creando questa valle. Guardando la mappa è evidente la conformazione più circolare del San Juan rispetto a quella verticale del Sawatch, che si trova a diverse ore di auto. Arrivando qui, nel San Juan, la quota media è più alta e quindi i dislivelli sono minori. Ma al di là di questo, direi che soprattutto danno una sensazione diversa. Qui ci sono meno persone, è più selvaggio. Il Sawatch sembra più educato e popolato, anche per la sua vicinanza con Denver.
The Pill Base Camp Back to the Future
Anteprime, connessioni, incontri e molto altro
BY LISA MISCONEL PHOTOS COSIMO MAFFIONE
Giugno è finito e ha portato con sé un’altra edizione di The Pill Base Camp: la sesta in totale, la terza estiva, la prima milanese. Non starò a ripetere quanto a The Pill piacciono le sfide, specialmente se prese con lo spirito giusto, senza temere troppo di fallire. È così che nascono le cose grandi: quando nessuno se lo aspetta e pochi ci credono veramente. È così che una rivista di outdoor ha riunito i maggiori player del settore sotto lo stesso tetto a Milano, al BASE di via Bergognone: proprio al centro della città, nelle stesse vie che durante l’anno ospitano eventi come la Design Week e la Fashion Week.
Quando parlo di player del settore, parlo di tutti coloro che sono coinvolti in questo ambito: brand, agenti, team ricerca e sviluppo, marketing, atleti, retailer, commessi, buyer, marketer, artisti, fotografi, scrittori, giornalisti, influencer, corridori, climber, esperti di materiali, appassionati e pure curiosi… Insomma, tutta la community outdoor. È un po’ questo il bello di Milano, in fondo: è alla portata di tutti e casa di altrettanti. È freschezza e rivoluzione, e noi non potevamo che tentare questo sodalizio.
Nasciamo all’aperto e lì ci muoviamo. È ciò di cui scriviamo e il soggetto predominante delle fotografie che amiamo valorizzare nelle pagine della nostra rivista. Così, anche il nostro evento è nato all’aperto, prima immersi in metri di neve a Pila in gennaio, con gli sci e lo snowboard ai piedi, poi in una calda giornata di fine giugno a Finalborgo, correndo vista mare negli aspri sentieri del finalese. In inverno continuiamo a portare centinaia di sci e snowboard per farli provare a tutti i professionisti, non importa quanti centimetri di neve ci arrivino in testa o quanti gradi ci riservi l’alta quota. L’estate invece porta con sé bellissime giornate, ma anche tremendi temporali e maltempo improvviso e così, sopra alle nostre teste e scarpe nuove, abbiamo messo un tetto. È stato, per primo, quello dello Sport Center di Courmayeur nel 2023: ai piedi del Monte Bianco, circondati da vette innevate e boschi rigogliosi. Lì abbiamo corso sui sentieri, lungo i fiumi, abbiamo arrampicato in una falesia che abbiamo raggiunto a piedi, abbiamo camminato fino ad un rifugio per gustarci le luci dell’alba. Sono momenti che hanno reso la seconda edizione estiva di The Pill Base Camp indimenticabile.
MA.
Ma a noi non piace accomodarci. Courmayeur è stata una bella storia, non alla portata di tutti per motivi geografici e forse troppo orientata allo svago. Un evento di due giorni che è possibile visitare anche in giornata deve trovarsi in un posto comodo, dove anche chi ha meno tempo possa ritagliarsi un momento e creare poche ma buone connessioni. Insomma, deve trovarsi a poche ore di treno o volo da qualsiasi città italiana o europea ed essere facilmente raggiungibile da tutti. Milano è pur sempre una città, questo lo sappiamo bene. È però una città fresca, giovane, piena di energia e di contaminazioni, dove esistono community di runner che si svegliano alle 5 di mattina per passare del tempo all’aria aperta e climber che dopo il lavoro si allenano in una delle sei palestre della zona. È una città di alpinisti e appassionati escursionisti che non temono il lungo viaggio per raggiungere le amate vette. Mi piace dire che chi vive in città ed ama il mondo dell’outdoor è chi veramente lo dimostra, chi si deve impegnare per inseguire la propria passione perché non la trova sotto casa. E allora questa volta, invece di portare Milano all’outdoor, abbiamo voluto portare l’outdoor a Milano.
Cosa ci aspettavamo? Difficile dirlo. Le uniche certezze erano la bellezza della location, la passione del nostro team, le migliaia di messaggi emozionati dei futuri partecipanti, gli importanti brand che hanno scelto di buttarsi con noi in questa avventura. Più di 3000 persone domenica 16 e lunedì 17 giugno hanno passeggiato tra il profumo del legno di pino degli stand presenti al BASE. I visitatori si sono suddivisi in professionisti durante la mattinata e il primo pomeriggio (tra questi, oltre 500 negozianti), e appassionati nella seconda metà della giornata. Il focus come sempre è stato su running, sia road che trail, hiking e alpinismo con scarpe, scarponi, abbigliamento, attrezzatura e accessori. I brand erano un centinaio, ognuno con la propria identità espressa senza eccessi tramite l’esposizione del puro prodotto e un sorriso pronto a spiegarlo.
Oltre al prodotto, dove abbondavano le anteprime della prossima stagione 2025, con dibattiti accesi e sentiti tra brand e buyers, non potevano
mancare le storie: dopotutto, siamo comunque The Pill Outdoor Journal. Per questo una zona talk è stata riservata appositamente alla nostra Ilaria Chiavacci, colonna portante fra le voci che leggete fra queste pagine, e a vari ospiti: dalle realtà imprenditoriali Alternative ADV e FiloBlu nel campo del marketing, ai volti d’ispirazione di The Walking Nose, Amedeo Cavalleri di Brocchi sui Blocchi e Lorenzo Barone.
Dagli Stati Uniti è volata la runner finisher di TSP Solo, nonché atleta per Reebok, Lydia Oldham, seguita da un dibattito sull’ultrarunning europeo e americano che ha visto protagonisti il nostro Filippo Caon, scrittore, ultrarunner e fondatore di una running community, e Francesco Puppi, atleta Nike Trail, personaggio centrale del panorama dell’outdoor europeo e grande amico di The Pill. Non è finita qui: oltre ai talk, al prodotto e agli stand, abbiamo ospitato la prima italiana di Into the Unknown, l’ultimo film che vede protagonista il leggendario Kilian Jornet, che ci ha tra l’altro tenuto
a fare un saluto speciale proprio agli spettatori presenti al The Pill Base Camp tramite un video messaggio.
Anche la prima milanese di Ultrawest, il docufilm di Filippo Caon ed Elisa Bessega, è stato un successo. Infine, non potevano mancare le ormai sempre più apprezzate community run, social run o test run, come vogliamo chiamarle: ben quattro distribuite fra il test del primo giorno sul Monte Stella, dove è stato possibile correre con le anteprime della stagione SS25, le morning run di Reebok con Lydia Oldham e Nike e il gran finale sul Monte Stella in compagnia di Francesco Puppi, rimasto poi fino al tramonto a condividere idee e pensieri con gli appassionati runner.
Sotto un cielo rosato, alcuni ragazzi con gli occhi che brillano ascoltano parlare una delle loro ispirazioni dopo averci corso insieme: c’è un modo più genuino per coronare due giorni di scambio, connessioni, storie e incontri? Secondo noi no. Abbiamo ottenuto numeri che ci hanno dato soddisfazione, volti sorridenti all’uscita
della fiera, strette di mano, abbracci. A noi piace creare connessioni e raccontare storie: che questo poi si tramuti in ciò che chiamiamo business è un grande traguardo, ma non l’unico, e questa sesta edizione ci ha arricchito di stimoli e insegnamenti che continueremo a perseguire insieme a nuovi obiettivi.
Quando ci rivediamo? Non fra molto. Il prossimo appuntamento (segui il sito thepillbasecamp. com per gli aggionamenti) sarà domenica 24 e lunedì 25 novembre 2024: un Expo a Milano con focus su Ski e Snowboard, ma con anche un’importante parte Running e Hiking. A seguire, le ormai d’obbligo date invernali di Pila e Folgaria, rispettivamente il 20, 21, 27 e 28 gennaio 2025. Infine, a maggio 2025 (date da confermare) ci rivediamo per l’edizione estiva, sempre a Milano. Nell’attesa, ci trovate in edicola con le nostre immancabili storie di avventura o in giro a qualche evento. Come riconoscerci? Birra in mano e t-shirt bianca The Pill!
See you Outside.
Sui sentieri di Tignale
La vista sul lago, il profumo di limone
BY LISA MISCONEL
La nostra amata Italia è un Paese che il mondo sogna, dipinge, ricorda. Ciò che di più iconico abbiamo è sicuramente il patrimonio culturale e paesaggistico: case colorate, strade strette, Ape 50, qualche Vespa, magari 50 Special. Quando parliamo di outdoor, tutto gira però attorno a paesaggi e suggestioni diverse: ci concentriamo più su tutto ciò che è bosco, montagne, sentieri ghiaiosi. Sì, perché l’Italia è anche quello! Questa primavera però, abbiamo riscoperto come questi due ideali possono unirsi in un luogo capace di contenere entrambi, bilanciando sapori di Italia iconica con paesaggi di Italia inesplorata. Lo abbiamo fatto insieme a Touring Club Italiano e Cisalfa Sport e, come promesso, ora ve lo raccontiamo.
Innanzitutto vi starete chiedendo cosa unisce le due realtà di Cisalfa Sport e Touring Club Italiano. Un’azienda leader nella vendita di prodotti sportivi e outdoor, una fondazione no profit che tutela il paesaggio, il patrimonio artistico e culturale e le eccellenze economico-produttive dei territori. La risposta si trova nel semplice:
vivere gli spazi in modo etico, responsabile e sostenibile, e possibilmente farlo praticando uno sport o un’attività. È così che ci siamo ritrovati a Tignale, un comune formato da sei borghi che se non te li vai a cercare, fidati, non li trovi. Un comune premiato Bandiera Arancione dal Touring Club Italiano per l’etica, la qualità e il rispetto nello sviluppo di un turismo culturale-ambientale. Arroccato qua e là, Tignale si espande a sud del più noto Comune di Tremosine. Il lago lo si ammira dall’alto, dove l’aria tira più fresca e gli autisti tedeschi sulla Gardesana sembrano sparire. Le strade sono strette e proprio per questo vediamo sfrecciare (si fa per dire) Ape 50 e Vespe, come in un dipinto stereotipato. E proprio quando crediamo di non riuscire ad essere più iconici di così, ci arriva il profumo delle limonaie, e gli ulivi tutt’intorno ci ricordano che non serve spostarsi poi così a sud per assaporare quell’Italia che il mondo sogna. Un luogo dove correre, fare escursioni, immergerci nel bosco al fresco e allo stesso tempo bere limonate appena spremute e reintegrare con chili di pane e olio. Potrebbe essere il paradiso?
Lasciando indietro la poesia che evocano certi pensieri: noi qui, oltre a stupirci, abbiamo anche camminato, ovviamente. I sentieri sono quelli della bassa via del Garda, dove ci si può perdere nei boschi di latifoglie che nascondono al suolo sentierini poco frequentati. Sono quel tipo di sentieri amati dai trail runner, quelli stretti e selvaggi ma sempre corribili, che si rendono perfetti anche per gli escursionisti che vogliono passare ore in cammino senza pensare troppo a dove mettere i piedi. Dove finiscono questi sentieri? Quasi sempre a sbalzo sul lago, dove si scorge la costa frastagliata del Garda Occidentale e si può ammirare il Monte Baldo di fronte. Ci sono tunnel risalenti alla Grande Guerra, un sottobosco ricco di funghi, fiori mai visti. C’è anche una gara di trail che passa di qui, si chiama BVG Trail (Bassa Via del Garda) ed è una di quelle gare che mi dispiace non aver conosciuto prima. Come nostro solito, l’esplorazione non si è limitata ai luoghi: ne abbiamo approfittato per mettere alla prova una selezione di prodotti che abbiamo trovato da Cisalfa Sport. Oltre ai pezzi più basici come t-shirt, cappellino e shorts, abbiamo provato il softshell Mountain Hike e
lo zaino Freedom 15 di 8848 The Outdoor Company, brand disponibile in esclusiva da Cisalfa Sport (dove si trovano anche i migliori brand dedicati all'outdoor tra cui The North Face, Salomon, Columbia, Millet e Patagonia). Si tratta di un marchio di abbigliamento & travel adventuring polivalente in look e funzionalità che, a nostro avviso, è perfetto per il tipo di esplorazione che abbiamo fatto a Tignale. Hiking, trail running e, perché no, anche qualche attività al lago! Parliamo di una gamma di prodotti di buona qualità in grado di soddisfare molteplici utilizzi e con un ottimo rapporto qualità-prezzo. Riempiti gli occhi di meraviglia, le gambe di dislivello e i capelli di foglie, è tempo di rientrare. Ad aspettarvi, potete immaginare questo scenario: il sole scalda le pietre delle strette e ripide stradine e sull’angolo, di fronte al municipio, un rumore meccanico vi attira. Avvicinandovi, osservate un signore in canottiera bianca - insomma, la vera canottiera della salute! - che macina del mais con un antico mulino, ancora oggi in funzione per richieste speciali di amici e parenti. Nella stanza un’Atala e una Vespa 50 Special. Ancora ti chiedi come mai l’Italia è il posto più bello dove correre?
Door to Trail a Milano? Lasciati ispirare
BY CHIARA BERETTA
PHOTOS DENIS PICCOLO
The Pill, Runaway, Sonic Step Society, Pizza Run Club ed Every Single Street Milano firmano otto nuovi itinerari trail per i runners milanesi, in collaborazione con koomot. Che anche fuori città, quando si tratta di trovare la strada giusta per la prossima avventura outdoor, ha una marcia in più
La giornata di lavoro è quasi finita, il traffico milanese dell’ora di punta ricomincia a ruggire e tu guardi con impazienza l’orologio per sapere quando potrai augurare a tutti buona serata, chiuderti la porta dell’ufficio alle spalle e indossare finalmente le scarpe da corsa. O magari sei rimasto a casa, curvo sul pc o sul libro del prossimo esame, e non vedi l’ora di uscire, sudare, sfogare le energie represse sfrecciando a grandi falcate sull’asfalto. Ancora, forse stai pianificando il prossimo allenamento cercando faticosamente di ritagliarti almeno un paio d’ore tra un impegno e l’altro: prima di colazione, forse in pausa pranzo, per chi ha il fegato di sfidare le temperature estive di Milano.
Comunque sia, a un certo ci sei: scarpe, cappellino, l’immancabile occhiale da sole. Manca solo un itinerario diverso dal solito. L’ispirazione giusta. Ed è qui che arriva in soccorso komoot, che con i suoi 40 milioni di utenti sparsi in tutto il mondo è la più grande piattaforma digitale per trovare, pianificare e condividere avventure all’aria aperta, running incluso. L’app permette di avere (letteralmente) a portata di mano i tracciati più vicini al punto in cui ci si trova, con tutte le informazioni tecniche utili: dalla lunghezza alla difficoltà, fino all’eventuale dislivello. Non mancano le indicazioni su come prepararsi al meglio: di quanta acqua avremo bisogno? Basteranno un paio di gel energizzanti? Komoot è al fianco degli utenti in cerca di ispirazione per le uscite outdoor ovunque
essi si trovino, ad alta o a bassa quota. Ma, l’ho detto nelle premesse, a volte per andare a correre in montagna bisogna aspettare il weekend, mentre dal lunedì al venerdì si resta incastrati in città. Per fortuna l’ispirazione giusta non manca nemmeno in questo caso.
Realizzati in occasione del The Pill Base Camp, per chi vuole un assaggio di trail a Milano su koomot ci sono otto nuovi percorsi firmati da Runaway, Sonic Step Society, Pizza Run Club, Every Single Street Milano e da The Pill, ovviamente. I due itinerari tracciati da noi sono per lo più su superfici asfaltate: uno più facile al Monte Stella, l’altro più impegnativo a Porto di Mare, nella zona sud-est della città. Sale e scende tra la Montagnetta e il Parco Industriale Alfa Romeo - Portello anche il percorso suggerito Runaway, l’iconico store milanese specializzato in running e trail. Con gli amici di Pizza Run Club si va a ovest, al Parco delle Cave: dieci km tra acqua e alberi per chi ha già un buon livello di allenamento. È di una decina di km e per corridori già abbastanza allenati anche il secondo itinerario di Pizza Run Club, questa volta alla scoperta del Parco Nord. Il progetto Every Single Street Milano ispira i runners cittadini con due tracciati a Milano Sud: Ticinello Dreaming e Barona Gravel & Turf, in zona Gratosoglio. Per chi si trova nei pressi del Parco Lambro, infine, c’è il tour di Sonic Step Society: poco più di 6 km di lunghezza e una trentina di metri di salita.
Trova i percorsi più vicini a te
Terminato il trail cittadino, è il momento di allargare l’orizzonte. Il weekend, o ancora meglio le tanto attese vacanze, prima o poi arrivano per tutti, no? Per orientarsi agevolmente tra i vari tracciati di corsa e trekking (ma non solo) a disposizione in Italia e all’estero, su komoot c’è l’opzione “Percorsi”.
Una volta cliccato, non resta che selezionare la tipologia di sport che ci interessa (corsa, escursionismo, ciclismo, ecc.) e il punto di partenza per visualizzare sulla mappa gli itinerari dei dintorni, entro un raggio di km deciso dall’utente. La ricerca è ulteriormente personalizzabile: si possono filtrare i percorsi anche per altitudine, durata, difficoltà e tipo di tracciato (ad anello o andata e ritorno). Lungo il tragitto sono poi indicati i punti di interesse, come bar e rifugi, e gli Highlight: resi graficamente come punti rossi, sono i luoghi particolarmente consigliati dalla community di komoot. C’è anche la possibilità di pianificare la propria uscita outdoor da zero cliccando su “Pianifica”, certo, ma è sempre bello prendere ispirazione dagli itinerari di altri utenti, eventualmente adattandoli alle proprie esigenze e preferenze. Una volta trovato e definito il tour adatto, si può salvare l’itinerario nel proprio profilo
komoot in modo da avviare la navigazione in un secondo momento. La navigazione, disponibile anche in modalità offline, si attiva sbloccando la komoot Map. Il costo varia in base al pacchetto (3,99 euro per Regione Singola, 8,99 euro per Pacchetto Regioni e 29,99 euro per Pacchetto Mondo) ma è in ogni caso una tantum: si paga una volta, si utilizza per sempre. Chi ha un dispositivo Garmin, invece, sarà felice di sapere che dal 2023 esiste la funzione “Invia a dispositivo”, disponibile su smartwatch e ciclocomputer Garmin compatibili con l’app komoot scaricabile dal Garmin Connect IQ Store. In questo caso, dopo aver individuato l’itinerario sull’app o sul sito komoot, non resta che cliccare su "Invia a dispositivo" per visualizzare il percorso sull'app komoot Connect IQ. Chi ha uno smartwatch Garmin ha inoltre a disposizione una funzione aggiuntiva, perché può modificare e aggiornare il tour senza dover terminare e riavviare l'attività in corso.
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I PERCORSI DI TRAIL
RUNNING INTORNO A TE – OVUNQUE TU SIA.
GAREGNANO
LAMPUGNANO
SAN SIRO
5
SELLA NUOVA
PORTELLO
1.
LORENTEGGIO
BARONA DERGANO
PORTA GARIBALDI
2.
4. 1 3 6
GORLA TURRO
LORETO CITYLIFE
CITTÀ STUDI
PORTA VENEZIA
4
CORVETTO
2 8 7
Montagnetta by The Pill
TIME 00:14
DISTANCE 2,01 km
AVERAGE SPEED 8,7 km/h
Porto di Mare by The Pill
TIME 01:00 DISTANCE 9,25 km
AVERAGE SPEED 9,2 km/h
3.
Montagnetta / Portello by Runaway
TIME 00:43 DISTANCE 7,52 km
AVERAGE SPEED 8,6 km/h
Parco Lambro by Sonic Step Society
TIME 00:38 DISTANCE 6,25 km
AVERAGE SPEED 7,8 km/h
PORTA GENOVA
NAVIGLI
PORTA ROMANA
TALIEDO
FORLANINI ORTICA
LAMBRATE
5.
Parco delle Cave by Pizza Run Club
TIME 01:18
DISTANCE 10 km
7.
Barona Gravel & Turf by Every Single Street
AVERAGE SPEED 8,9 km/h TIME 00:49 DISTANCE 7,62 km AVERAGE SPEED 9,4 km/h
6.
Parco Nord by Pizza Run Club
8.
Ticinello Dreaming by Every Single Street TIME 01:08 DISTANCE 10,4 km AVERAGE
Mudonnina Trail
Una gara trail di 2 km? Non scherziamo
BY STEFANO JOKER LIONETTI
LAURA MARCHINI
Inutile girarci troppo intorno, quando noi che abitiamo a Milano diciamo che siamo appassionati di trail running la gente si mette a ridere. E anche se fa un po’ male ammetterlo, non si può biasimare nessuno: allenare il dislivello e la corsa su sentiero in una città particolarmente piatta e generosa di cemento non è esattamente la cosa più semplice.
PHOTOS
Però non si dica che non facciamo di necessità virtù: quel poco che abbiamo lo sfruttiamo fino al midollo e se è purtroppo vero che non abbiamo la montagna, abbiamo però la montagnetta. Un agglomerato di macerie della Seconda Guerra Mondiale che abbiamo ricoperto di terra e trasformato in un parco, con un vertiginoso dislivello positivo di ben quarantacinque metri. All’anagrafe Monte Stella, ma nessuno che vive a Milano l’ha mai chiamato così: per noi è semplicemente la Montagnetta, con quel vezzeggiativo che ci prendiamo già in giro da soli.
Nasce quindi nel 2023 (edizione zero) il Mudonnina Trail, che quest’anno con la sua prima edizione ufficiale e 200 iscritti ha dimostrato che anche a Milano si può organizzare un evento di trail running senza che sia una barzelletta o una gara di serie B, anzi. Questo anche grazie al fatto che, nonostante la sfortunata morfologia di questa città (o forse proprio a causa sua), siamo davvero tanti ad amare questa disciplina.
L’idea è di Runaway – negozio che concentra intorno a sé un folta community di appassionati che ha saputo crescere negli anni, facendo scoprire a molti il lato oscuro della corsa in mezzo alla natura – insieme a Almostthere, associazione che ha una forte expertise nell’organizzare eventi sportivi a Milano e dintorni. Il format è estremamente semplice: un loop di circa 2 km e una manciata di metri di dislivello, da fare in staffetta con un altro runner estratto a caso, per un totale di 6 giri da distribuirsi nelle coppia a piacere. La scelta più gettonata è quella di un giro a testa, in questo modo si può dare tutto e poi riposare (o così si crede ingenuamente), prima del prossimo giro.
Possiamo essere molto sinceri: detta così non sembra una cosa particolarmente impegnativa. Voglio dire, correre 2 km al massimo delle proprie possibilità, che sarà mai, sono solo 2 km e poco meno di 100 m di dislivello. Già me li vedo i commenti sarcastici sui milanesi che hanno fatto una gara di trail running di soli 2
km (come se peraltro la performance si misurasse esclusivamente in distanza, ma questa è un’altra storia). Ma la verità è che in quei 2 km tu devi dare tutto, non hai il tempo né il modo di conservarti per poi spingere alla fine, devi dare tutto e la gente parte per quei 2 km come fossero 200 metri in soglia anaerobica.
Poi alla prima curva c’è subito una rampa che sale di trenta metri tagliando le gambe a più di metà dei partecipanti e da quel momento è una sofferenza infinita: non lo avresti mai pensato che 2 km avrebbero potuto essere così lunghi, credimi. Io non ho corso il Mudonnina Trail.
Stavo all’ultima curva a incitare la gente prima del rettilineo finale e non ho mai visto tanti cadaveri scomposti, sporchi di fango e col volto rosso di fatica tutti insieme; ed era solo il primo loop. L’edizione zero dello scorso anno si tenne un paio di giorni dopo la Lavaredo Ultra Trail, io avevo appena corso 120 km e ricordo di aver pensato distintamente che quella cosa che stavo guardando fosse incredibilmente più dura.
Ma la bellezza di questo format è che comunque, dopo poco più di un’ora di pura fatica, è tutto finito, almeno per me che di solito di ore ne passo in giro troppe. E a quel punto iniziano a circolare le birre e la musica in diffusione lascia spazio ai gruppi che suonano dal vivo.
Il Mudonnina Trail è una grande festa, si va per stare in compagnia, rivedere persone che non vedevi da tempo e fare amicizia con moltissime nuove zanzare. Ma che sia chiaro, il Mudonnina Trail è una gara di trail running a tutti gli effetti e non è da prendere sottogamba: il premio è forse leggermente blasfemo ma pagherei per averlo sul mio caminetto, se avessi un caminetto.
Aggiungo un’ultima cosa. Milano è una città in cui sembra sia già stato fatto tutto e allora non vale la pena fare nulla di nuovo, ma ultimamente mi rendo conto che invece c’è ancora spazio per cose nuove e belle e fatte con il cuore.
Mind The Canal, pulsioni e logica
BY FRANCESCA CASSI
PHOTOS ANDREA SCHILIRÒ, LAURA MARCHINI, MARTINA ZILIO
22 aprile 2024, Venezia. Sono partiti
dalla Punta della
Dogana alle 5.30, poi sono svaniti nel labirinto di canali, ponti e calli.
Quaranta ombre che attraversano all’alba i vicoli silenziosi.
Un labirinto è, per definizione, un percorso tortuoso fatto di meandri, incroci, spesso anche di biforcazioni ingannevoli, false piste, deviazioni che non conducono alla meta. I labirinti suppongono dei percorsi iniziatici, dei disorientamenti, delle scoperte di sé stessi, un’identità trovata.
Ma non solo: suppongono l’incontro con l’alterità, a volte lo scontro, cacce, astuzie, trappole, incroci e persino giochi infantili. Chi entra in un labirinto sceglie le pulsioni e simultaneamente una logica. Sceglie il gioco e la mistica, i rischi e la saggezza. Passa da un luogo psichico a un altro, da un ambiente emozionale a un altro.
Il labirinto è l’enigma per eccellenza. Ora, immaginiamo un enigma dentro all’enigma. Avremo così la nona edizione di Mind the Gap: un enigma dentro a un labirinto. Il 22 aprile 2024 è andata in scena Mind the Canal, a Venezia, powered by
Runaway e Diadora. In questo caso, il miglior modo per affrontare un labirinto di canali, ponti e isole è stato quello di correrci veloce attraverso.
L’enigma
Per chi non avesse familiarità con il format Mind The Gap, vale la pena spenderci tre parole. È una gara, sì. E come tutte le gare, per vincerla devi arrivare primo. Ma correre veloce non basta - aiuta, certo, ma non è condizione sufficiente.
MTG è una checkpoint race: c’è una partenza e da qualche parte c’è anche un arrivo, ma non c’è un percorso prestabilito, né indicatori di distanza, solo una serie di checkpoint dai quali devi obbligatoriamente passare. Il concept sviluppato a Milano nel 2019 unisce l’ignoto di un percorso sconosciuto all’oscurità, producendo quella peculiare sensazione di pericoloso entusiasmo.
Mind the Gap impegna ogni fibra del runner. Richiede l’utilizzo del corpo e della mente e implica sia l’eccitazione della gara, dell’ignoto, che la sicurezza della community che pervade lo stretto gruppo di runner che ha la fortuna di parteciparvi.
A tutte le edizioni di Mind The Gap, infatti, si accede esclusivamente su invito. Non a caso invitational only è uno degli immancabili claim dell’evento. L’altro? Fa balà l’oeucc, che in dialetto milanese significa: stai attento, stai in campana.
Mente, cuore e gambe
Dopo otto edizioni notturne milanesi, Mind the Gap è così approdata a Venezia, trasformandosi in Mind the Canal. I runner si sono avventurati tra quei palazzi e ponti in cui tutto esiste molte, infinite volte. Tutte le parti di Venezia si ripetono, simili ma non uguali, e qualunque luogo di essa può essere un altro luogo. Soltanto due cose nella città sembrano esistere uniche, una volta sola: il cielo in alto e l’acqua in basso.
L’appuntamento era alla Punta della Dogana alle 5.30 del mattino. Mind the Gap si corre nelle ore buie, silenziose e fresche durante le quali le vie sono vuote. L’aria era fredda e carica di umidità, mentre un vento gelido spazzava le strade. Un sogno mattutino, collettivo, entusiasta. Nel buio qualcuno si sfregava le mani nel tentativo di scaldarle, altri giravano e rigiravano la mappa appena ricevuta che rivelava la localizzazione dei checkpoint. Un momento cruciale, in cui mentre il corpo si prepara la mente deve memorizzare e mettere insieme tutti i pezzi, per poi rendere il movimento il più efficace possibile, senza che tra un checkpoint e l’altro vengano dispersi tempo ed energie inutilmente.
Infine, il via. In un attimo tutti sono scomparsi tra calli e campi, i piedi leggeri sulle pietre nere e umide, con solo una striscia di lungo riva a separarli dall’acqua salmastra della laguna. Mente, cuore e gambe all’opera. Chi da solo, chi in gruppo,
tutti invischiati nella stessa ragnatela disegnata da Runaway, nello stesso mondo attraverso-lo-specchio che è una gara in una città deserta, un momento come privato ritagliato nella realtà di tutti i giorni.
Otto chilometri, cinque checkpoint e diciannove ponti dopo, Romain Wyndaele e Margherita Vitali tagliavano il traguardo. Ma in ogni caso, quando la community è così stretta, la gratificazione della vittoria è sempre condivisa. Il massimo impegno, con cuore e gambe, è un valore per l’individuo quanto per il gruppo che lo circonda.
Mind the Canal ha forse saputo rappresentare al meglio l’idea alla base del concept milanese. L’enigma dentro al labirinto, l’unione di una community diversificata, un contrasto tra solidarietà e competizione in una città dalle sfumature complesse e uniche.
Hai voluto la bicicletta?
BY CHIARA GUGLIELMINA
Il
pianeta Terra, il mondo in cui viviamo, sta cambiando. Drasticamente. Ogni cosa, dai sentieri che percorriamo alle rocce che scaliamo, dai ghiacciai che attraversiamo alla neve che sciamo, non è più la stessa. È logico, se cambia il luogo in cui viviamo, cambierà anche il nostro modo di viverlo.
Nel 2024, avventura e sostenibilità vanno di pari passo, com’è giusto. Io non ho una mountain bike elettrica. A dire il vero, una mountain bike non ce l’ho proprio. Ho però “La Sfinita”, un’Atala comprata per pochi euro dal rottamaio del paese. È pesante, con il telaio blu e una grande cesta sulla ruota anteriore. La uso per andare a fare la spesa. Fa fatica lei, faccio fatica io.
Di recente, grazie a mia suocera, ho iniziato ad andare per boschi in bicicletta. Lei ha un e-bike, uno dei primissimi esemplari. Pesante ma funzionale. Mi porta ovunque, specialmente se usata a potenza minima. In salita mi dà una mano con i dislivelli più impegnativi. In discesa mi ha accompagnato in un’esplorazione insospettabile. Dietro casa, magnifica.
Nel sottobosco dell’alta Valsesia, all’ombra di larici e abeti, un fitto muschio ricopre sentieri poco battuti. Un dedalo di passaggi dimenticati unisce piccoli centri abitati sospesi nel tempo. Lì, un vecchio zappa la terra nell’orto, una donna stende i panni al sole e qualche bambino gioca con un pallone liso. Mi sono chiesta, pedalando tra loro con una batteria attaccata al telaio, se fosse sostenibile il mio pedalare, il mio conoscere. E se fosse, quel modo di andare, vera esplorazione o mera illusione.
Mi sono chiesta, pedalando con una batteria attaccata al telaio, se fosse sostenibile il mio pedalare, il mio conoscere. E se fosse, quel modo di andare, vera esplorazione o mera illusione. Grazie alla Swattona (è così che ho chiamato la bici di mia suocera) ho potuto percorrere distanze più lunghe, su terreni più impegnativi e sconnessi, con minore sforzo rispetto alla pedalata tradizionale. Ma è tutto qui? L’essenza dell’esplorazione sta solo nel superare sfide fisiche?
O, piuttosto, riguarda il vivere esperienze significative, il connettersi con la natura, il conoscere le comunità locali?
Nel superare una spessa radice che invadeva il percorso, mi è sembrato di barare. Grazie alla Swattona (è così che ho chiamato la bici di mia suocera) ho potuto percorrere distanze più lunghe, su terreni più impegnativi e sconnessi, con minore sforzo rispetto alla pedalata tradizionale. Ma è tutto qui? L’essenza dell’esplorazione sta solo nel superare sfide fisiche? O, piuttosto, riguarda il vivere esperienze significative, il connettersi con la natura, il conoscere le comunità locali? Sono domande difficili.
Da un lato temo per la magia di certi luoghi, incastonati in un universo parallelo dove le cose importanti della vita hanno ancora peso. Là, dove ci si alza la mattina per raccogliere il carciofo piantato in autunno e per coltivare il cavolo per l’inverno, non vorrei vedere ciclisti in gruppo, come gregari al Tour de France, su biciclette elettriche. Mi sento di nuovo incoerente, mi sento spesso incoerente. D’altronde, l’incoerenza è la condanna della mia generazione. Nel preciso istante in cui scegliamo di fare qualcosa di buono, facciamo inevitabilmente qualcosa di sbagliato. Scelgo una dieta vegetale per ridurre le emissioni di CO2 causate dagli allevamenti intensivi di bovini? Sostituisco la carne rossa con della quinoa? Sembra ottimo. Invece contribuisco a impoverire la dieta delle popolazioni andine da cui proviene. A causa dell’assurda crescita della domanda nei Paesi occidentali, una coltivazione dissennata non solo ha snaturato il prodotto, ma anche impoverito il terreno creando più miseria di prima. Mentre in Occidente impazzano hamburger di quinoa,
in Sud America le popolazioni che la coltivano non possono più permettersi di mangiarla. Ricorrendo a scelte più economiche e meno salutari. Capite il dilemma? Qualsiasi scelta sembra sbagliata. E anche scegliere di non scegliere, se fosse possibile, sarebbe sbagliato.
Torniamo alle nostre pedalate all’aria aperta. L’altro giorno, mentre salivo un sentiero nuovo con la Swattona, mi si è posata un’ape sul manubrio, di fianco al mignolo. Mi ha fatto pensare alla democrazia. Nelle colonie di api, la regina non decide tutto da sola. Le api operaie prendono decisioni collettive su questioni vitali come la scelta del luogo per costruire un nuovo alveare. Questo consente alle api, a tutte loro, di vivere un’unica realtà accessibile, partecipativa e controllata dalla maggioranza degli esseri viventi. Mi domando se lo stesso discorso si possa applicare alle bici elettriche. Le e-bike offrono infatti un mezzo per ampliare le possibilità di esplorazione, consentendo a una più ampia gamma di persone di accedere a luoghi remoti e di immergersi in avventure che altrimenti potrebbero essere fuori dalla loro portata. In questo senso, le e-bike potrebbero essere viste come un’opportunità per democratizzare l’esplorazione, rendendola più accessibile e inclusiva.
Le e-bike offrono un mezzo per ampliare le possibilità di esplorazione, consentendo a una più ampia gamma di persone di accedere a luoghi remoti e di immergersi in avventure che altrimenti potrebbero essere fuori dalla loro portata. In questo senso, le e-bike potrebbero essere viste come un’opportunità per democratizzare l’esplorazione, rendendola più accessibile e inclusiva.
Personalmente combatto ogni giorno per trovare un compromesso accettabile in questo mare di contraddizioni che ci inghiotte. Ci annega. E ci leva il respiro.
Ho fatto diverse ricerche. Lo sapete quali sono i settori che emettono più gas serra?
Le emissioni globali di CO2 dipendono, per l’11,9%, dal trasporto su strada e per il 5,8% dall’allevamento. Solo per riportare un esempio. A rigore di logica viene da pensare che forse, tutto sommato, è meglio scegliere di andare al lavo-
ro in sella alla Swattona e continuare a sostenere l’allevatore locale acquistando, di tanto in tanto, un hamburger. Lasciando la quinoa sugli scaffali dei supermercati. Non ho la risposta, di nuovo.
Credo semplicemente che l’unico, ma utopico approccio possibile sia quello di un’alimentazione totalmente autoprodotta e a chilometro zero. Un grande orto, un campo di segale, qualche gallina e un paio di vacche.
Dove questo non è pensabile, praticamente ovunque, ha senso iniziare dai piccoli gesti. Se anche solo la metà della popolazione, almeno per gli spostamenti brevi, iniziasse a usare una bicicletta, seppur elettrica, sarebbe un enorme successo. E offrirebbe un'alternativa più ecologica e salutare dell'automobile. È tuttavia fondamentale che l'uso delle e-bike avvenga in modo responsabile e rispettoso dell'ambiente e delle comunità locali. Ciò significa adottare pratiche di guida sostenibili, rispettare le norme e i regolamenti locali e avere consapevolezza degli impatti delle proprie azioni sull'ambiente circostante. In definitiva, anche se l’uso della Swattona può cambiare il modo in cui esploro gli angoli dietro casa, non lo rende meno autentico o significativo. Rimango io, sola, in sella a una bicicletta, a confondermi col sottobosco. No, non mi sono dimenticata del litio. Mentre faccio colazione con spremuta d’arancia e fiocchi d’avena, a fornire energia alla “mia” Swattona sono le batterie al litio. La produzione eccessiva di queste batterie può avere conseguenze negative sull’ambiente. L'estrazione di materiali come il litio, il cobalto e il nichel può causare deforestazione, inquinamento delle acque e sfruttamento delle risorse in paesi in via di sviluppo. Inoltre, lo smaltimento delle batterie al litio rappresenta tutt’oggi una sfida significativa, con il rischio di contaminazione ambientale e di danni alla salute umana. Tuttavia, sono felice di leggere che si sta già lavorando a soluzioni alternative. In America un'azienda ha annunciato piani per adottare la fibra di canapa, un materiale presente in abbondanza, naturale ed economico, ottenuto da scarti agricoli, come componente principale per le nuove batterie, con l'obiettivo di implementare il cambiamento entro il 2028-2030.
Ho pensato di andare per boschi con chi ne capisce davvero. Matteo ha corso come professionista per diversi anni nel team Specialized Italia. Uno tra i migliori rider enduro MTB italiani che ha collezionato, in carriera, 71 vittorie. Ha ottenuto ottimi piazzamenti anche in alcune gare dell’Enduro World Series. L’ho visto pedalare: il motore ce l’ha nelle gambe. Eppure, ha usato e usa anche le e-bike. Il giorno delle foto, Teo e Tia sono scomparsi dietro la prima curva. Ma in quei cento metri insieme li ho osservati bene. E li ho lasciati liberi nel loro elemento, rubandogli qualche scatto con discrezione.
Ho pensato di andare per boschi con chi ne capisce davvero. Matteo ha corso come professionista per diversi anni nel team Specialized Italia. Uno tra i migliori rider enduro MTB italiani che ha collezionato, in carriera, 71 vittorie. Ha ottenuto ottimi piazzamenti anche in alcune gare dell’Enduro World Series. L’ho visto pedalare: il motore ce l’ha nelle gambe. Eppure, ha usato e usa anche le e-bike. Il giorno delle foto, Teo e Tia sono scomparsi dietro la prima curva. Ma in quei cento metri insieme li ho osservati bene. E li ho lasciati liberi nel loro elemento, rubandogli qualche scatto con discrezione.
Io sono una creatura che supera di poco il metro e mezzo e che non raggiunge i quaranta chili eppure, in mountain bike, sono goffa come una foca. E più che parlarvi di api e canapa non posso fare molto. Ho pensato quindi di andare per boschi con chi ne capisce davvero. Matteo e Mattia sono due amici. A dire il vero, uno dei due esce con me da una decina d’anni, niente di serio. Mentre l’altro, Matteo, ha corso come professionista per diversi anni nel team Specialized Italia. Uno tra i migliori rider enduro MTB italiani che ha collezionato, in carriera, un totale di 71 vittorie. Ha ottenuto ottimi piazzamenti anche in alcune gare dell’Enduro World Series. L’ho visto pedalare: il motore ce l’ha nelle gambe. Eppure, ha usato e usa anche le e-bike.
Il giorno delle foto, Teo e Tia sono scomparsi dietro la prima curva. Ma in quei cento metri insieme li ho osservati bene. Volevo imparare ogni cosa. Un uomo in sella è perfetto. Simmetrico. Elegante. A tempo. E per quanto un telaio possa avere fascino, diventa completo solo con un paio di ruote attaccate e qualcuno, sopra,
capace di guidarlo. Come un marinaio e la sua barca. Questo ho capito. E li ho lasciati liberi nel loro elemento, rubandogli qualche scatto con discrezione.
Alla fine della giornata avevo delle domande per Teo. Gli ho offerto una birra e abbiamo chiacchierato per un po’. Fuori dal bosco ora, al calar del sole.
«Tengo a specificare che l'e-bike è stata una svolta fantastica per il mondo del ciclismo», dice Matteo Raimondi. «Grazie alla pedalata assistita moltissime persone si sono avvicinate o sono tornate a questo sport. Molti, dopo anni di stop, hanno ripreso a pedalare. Alcuni, che avevano appeso la bici al chiodo perché stanchi di farsi aspettare dagli amici in cima alle salite a causa del poco tempo per allenarsi, hanno ritrovato la passione. Altri, che a causa di problemi di salute non potevano sottoporsi a sforzi estremi, sono tornati a pedalare. Il problema è l’abuso. È una tristezza incredibile vedere ragazzini di tredici anni con biciclette elettriche da diecimila euro. La bici è fatica. La fatica ti tempra e ti rende più forte, ogni volta. Trovo che sia educativo fare fatica».
Sono convinta che non esista, nella follia di quest’epoca tremendamente moderna, una risposta completamente giusta o una del tutto sbagliata. Credo, in realtà, che ci sarà sempre qualcosa di sbagliato anche nelle cose più giuste. Così come in un bosco coesistono zone d’ombra e zone di luce. È compito nostro individuare, tra le migliaia di strade percorribili oggi, quella più luminosa. Ricordando che la serenità, la coerenza e l’etica, rappresentano un equilibrio tra ciò che vogliamo e ciò di cui abbiamo bisogno.
Andrea Una storia d’amore su strada sterrata
BY EVA TOSCHI
PHOTOS JEREMY BERNARD
La climber Nina Caprez, il fotografo Jeremy Bernard e la loro figlia Lia si sono imbarcati per un viaggio in Marocco sulle ruote di Andrea con il progetto di incontrare e connettersi con le comunità locali attraverso l’arrampicata. Il viaggio, tuttavia, prende una svolta inaspettata su una strada sterrata e tortuosa tra emozioni, sacrifici e grandi gioie. La storia è diventata il film Andrea: presentato da Arc’teryx e prodotto da Clustr Films, è stato proiettato in anteprima a inizio luglio alla Arc'teryx Academy a Chamonix.
A volte sono gli anni che passano, a volte degli eventi, altre degli incontri: fatto sta che a un certo punto della vita alcuni individui smettono di pensare solo a loro stessi e decidono di aprirsi e donarsi senza riserve, con la consapevolezza che una volta aperta la porta può entrare tutto, senza filtri. La chiave di questa apertura per Nina e Jeremy è stato l’incontro reciproco, avvenuto nel momento giusto, quando oltre alla crescita individuale erano pronti a dedicarsi ad altro. A qualcosa di più grande del sé. Andrea non è la storia di una persona, né di due –anche se da queste tutto parte, ma di una moltitudine di persone le cui vite si intrecciano lungo le strade sterrate del Marocco. A percorrerle è un Unimog che porta con sé una famiglia e un muro d’arrampicata e che lascerà un segno indelebile nella terra su cui fermeranno le sue gomme tassellate.
Cosa ha portato Andrea in Marocco? Jeremy: Volevamo viaggiare, ma non sapevamo esattamente dove quando abbiamo iniziato a lavorare su Andrea quattro anni fa. Pian piano il progetto si è delineato: abbiamo deciso di voler portare l’arrampicata nei posti che visitavamo. Così abbiamo costruito un muro che potesse essere montato ogni volta che parcheggiavamo e con il quale potevamo connettere con le persone e farle provare a scalare.
Nina: Abbiamo optato per il Marocco perché volevamo andarci da sempre e perché sarebbe stato un ottimo test
per provare a guidare Andrea off-road. Lì le strade sono larghe, perfette per una prima esperienza e sono abituati a gente che viaggia così. Poi parlare la stessa lingua, il francese, permette di abbattere il primo muro. Visto che, inoltre, viaggiavamo con nostra figlia, volevamo affacciarci a questa vita di nomadismo nel modo più semplice e sicuro anche per lei. Come sono cambiati i vostri progetti e sogni da quando siete diventati una coppia? J: Quando ci siamo conosciuti eravamo piuttosto egoisti e concentrati sulle nostre passioni: la fotografia e l’arrampicata. Poi c’è stata un’evoluzione che ci ha portati dove siamo, ma entrambi eravamo aperti al cambiamento ed era quello che desideravamo, insieme. I desideri mutano anche dalle persone che incontri lungo il cammino.
N: Il nostro obiettivo, anche se non ne abbiamo mai parlato apertamente, è di rimanere onesti con noi stessi e di rispettarsi reciprocamente. Sono delle regole non scritte che ci siamo dati. Abbiamo un background differente e abbiamo bisogno che le cose che facciamo ci rendano profondamente felici. Io ho bisogno della mia dose di arrampicata e della libertà che mi porta per avere una vita equilibrata, come penso che Jeremy abbia bisogno di dedicarsi alla sua arte creativa, la fotografia. Non siamo dei pazzi avventurosi, ma ci piace veramente scoprire e dedicarci a nuove cose. Inoltre amiamo le persone e ci piace cono -
scerne di nuove e questo ci rende felici e curiosi.
E il vostro rapporto è cambiato durante o dopo il viaggio? N: Non so se è cambiato per il viaggio o per l’essere diventati genitori. Mentre lavoravamo con le persone nei villaggi, dopo il terremoto, ho conosciuto un nuovo uomo. Lati di Jeremy che non avrei mai potuto conoscere se non ci fossimo trovati in una situazione di crisi come quella. Sono rimasta molto sorpresa di quanto si sia mostrato forte e di quanta responsabilità si sia caricato. Quando abbiamo avuto Lia e abbiamo scoperto della sua malattia al cuore, abbiamo passato tre mesi molto stressanti prima di poterla far operare. In quella situazione ho conosciuto un uomo molto solido. Abbiamo passato un’esperienza di vita intensa e in quei casi o crolli sotto il troppo peso o fai di tutto per tornare ad avere una vita normale. Ma la normalità è può essere strana: quando siamo tornati dal Marocco abbiamo faticato molto a tornare alla vita ordinaria. Sapevamo di volerne di più, di quello che avevamo vissuto. Comunque, queste esperienze ci hanno aiutato a conoscerci meglio e ci siamo scoperti complementari. E poi, quando abbiamo qualcosa in mente, ci lanciamo.
J: Tra di noi non c’è un bisogno di leadership. Io forse sono più quello dietro alle quinte e Nina, anche come atleta e personaggio pubblico, è più quella sotto i riflettori, ma questo non ha mai creato disequilibri. Siamo un
team. E anche Pauline (la ragazza alla pari che si prende cura di Lia, nds) ne è diventata una grande parte.
Nel film avete detto che non vi siete protetti abbastanza emotivamente durante questa esperienza. Cosa avreste dovuto fare? Cosa fareste con il senno di poi? J: Forse avremmo dovuto proteggerci, ma alla fine va bene così. Di certo ti trovi nella situazione di voler proteggere la tua famiglia e per questo sarebbe stato meglio sapere cosa aspettarsi nei posti che visitavamo. Ma tornando indietro non farei diversamente. Non farei le cose a metà, ma donerei totalmente, così come abbiamo fatto. Anche se non abbiamo iniziato il progetto con questa idea, ci siamo trovati a vivere con le persone dei villaggi terremotati e a condividere tutto con loro. Non facevamo loro visita: vivevamo assieme. Tornerei e farei esattamente lo stesso. Stiamo pensando di tornare e se mai lo faremo andremo lì con le nostre tende e vivremo con loro. Questo è sicuro.
N: È stata una grande esperienza e ci ha permesso di crescere. Ma è nel nostro modo di essere: faremmo lo stesso e lo stesso ancora. Non certo come degli stranieri che arrivano lì per dare una mano ma non entrano in contatto con le persone.
Questa esperienza ha cambiato il vostro modo di dare agli altri? N: Come abbiamo detto fin dall'inizio, non vogliamo diventare una grande organizzazione. Abbiamo i nostri rispettivi lavori. È un grosso investimento, è un grande impegno. Non ci sentiamo abbastanza forti o non abbiamo l’energia per fare altro. Quindi vogliamo continuare a fare cose come questa: andare dove ci porta il cuore e dove ci portano gli incontri sulla strada. Ed è per questo che l'abbiamo fatto con un'energia così potente, perché è stata completamente guidata da ciò che abbiamo incontrato. Incontriamo, ci fermiamo, diamo tutto e poi passiamo ad altro. Se facessimo missioni umanitarie tutto l’anno non avremmo l’energia che abbiamo avuto in Marocco. Ci piace andare, dare tutti noi stessi e riusciamo a farlo anche perché sappiamo che abbiamo la nostra vita, diversamente sicura, a casa. Si va ad arrampicare, l’energia torna ad alti livelli e poi, perché no, possiamo tornare carichi per fare altro.
J: Anche se le cose hanno preso una svolta inaspettata durante il viaggio, noi non vogliamo diventare una missione umanitaria ma rimanere un progetto di avventura sportiva. Vogliamo condividere con chi incon-
triamo i valori dello sport. Non si sa mai cosa ci serba il destino, ma non vogliamo andare in zone di guerra e fare finta di aiutare. Non è il nostro modo di fare le cose. L’obiettivo rimane quello di viaggiare, unirsi a progetti locali già avviati e contribuire portando il nostro. Per fare le cose bene bisogna attenersi al proprio.
Come è stata la reazione dei locali alla scoperta dell’arrampicata?
N: Era una bolla d’amore; uno spazio sicuro di gioco. I ragazzi marocchini erano estremamente talentuosi perché passano tutta la loro giornata a muoversi in mezzo alle montagne, naturalmente. Erano dannatamente bravi. Hanno subito capito il gioco delle prese, dei colori, del risolvere il problema e anche della competizione. È stato molto interessante vedere come sia facile il gioco dell’arrampicata e quanta felicità e valori possa portare. I genitori, dopo aver visto i figli, sono venuti da noi e ci hanno ringraziato per aver dato loro qualcosa con cui evadere dalle tristezze e difficoltà con cui convivono nel quotidiano. Abbiamo pensato per un momento di continuare a viaggiare senza il muro, ma poi abbiamo ricordato l’energia positiva che porta con sé e non possiamo farne a meno. Non possiamo immaginare di
Per Lia lì in Marocco non era la situazione più comoda o divertente. Eravamo sempre impegnati ad aiutare che non ci siamo potuti dedicare a lei quanto avremmo voluto.
viaggiare senza il muro, perché anche se non lo si apre per settimane può esserci un momento e un luogo in cui c’è bisogno di quello che crea.
J: Vedere i loro bambini svagarsi e star bene ha permesso anche ai genitori di aprirsi con noi. È come se il muro d’arrampicata potesse creasse uno spazio sicuro, di connessione e condivisione.
Ci sono state donne ad approcciarsi all’arrampicata? N: Dovevamo “staccare” i bambini dal muro, ma in qualche occasione siamo riusciti a dedicarci alle donne. La cultura è comunque diversa e non abbiamo mai voluto giudicare né spingere per fare qualcosa contro le loro tradizioni. Se vediamo che la situazione lo permette, come è successo in Grecia, ci dedichiamo alle donne, ma lasciando loro lo spazio che necessitano. Anche mostrare l’equilibrio che c’è all’interno della nostra coppia, il fatto che non ci siano ruoli definiti, in qualche modo può essere d’ispirazione. Per me poi è stato molto liberatorio poter scalare, tracciare boulder ed essere me stessa come donna e come scalatrice.
Jeremy in che modo la tua arte – la fotografia – si combina con questo progetto? J: Scattavo e riuscivo a far stampare le foto a Marrakech perché ogni giorno avevamo qualcuno che faceva avanti e indietro per rifornire i villaggi di ciò di cui avevano bisogno. Poi, una volta stampate le foto, gliele consegnavamo: ma succedeva sempre la notte, in una situazione di caos, insieme alla consegna delle provviste. È stato molto bello perché con alcune persone non riuscivamo a comunicare con le parole e siamo riusciti a farlo così, con il viso. Poi chissà, magari alcuni di loro le avranno usate per
accendere il fuoco ma non importa, è stato bello così.
È difficile per te vivere un’esperienza profonda e riuscire a creare al tempo stesso? J: Sì. È molto personale e sento che quello che ho fatto negli ultimi quindici anni è stato inseguire la neve, imbarcarmi in tutti i viaggi e cercare di catturare la luce migliore con la neve migliore. Poi qualche anno fa ho incontrato una giornalista che mi ha fatto conoscere una prospettiva diversa della fotografia e ora sento sempre più che sono appassionato di fotografia quando sono profondamente connesso con le persone e quando sto lasciando qualcosa. Questo è ciò che amo fare ora, perché il mio percorso personale sta andando da un'altra parte. Ho un nuovo viaggio in corso, che in qualche modo prescinde dal mondo outdoor. Voglio ancora farne parte; ho ancora molti lavori legati ad esso. Ma voglio anche fare un'altra esperienza. Creare qualcosa e averne un ricordo. Scattare foto e cercare di catturare i momenti più belli. All'inizio usavo lo sci e la fotografia per viaggiare e sciare. Era un'accoppiata perfetta. E ora uso la fotografia per incontrare, connettermi e conoscere le persone. A volte non parlo troppo e non mi è facile gestire e trasmettere le emozioni. Il mio modo di condividere e conservare i ricordi è anche quello di scattare foto.
È stato difficile decidere di esporre Lia al pubblico? J: Sì, ma non è stata una scelta. Quando abbiamo dovuto affrontare il problema di Lia, Nina ha deciso di parlarne pubblicamente. Io non sono abituato a esporre la mia vita personale, ma Nina lo ha fatto da subito, fin dall’inizio della sua carrie-
ra. Penso che sia uno dei motivi dei suoi successi perché parla con il cuore, dice la verità e va sul personale. Quando abbiamo iniziato a raccontare il problema di Lia eravamo soli e non potevo immaginare come saremmo riusciti ad affrontarlo. Ma iniziare a parlarne ci ha aiutato molto, perché siamo entrati in contatto con un sacco di persone che avevano affrontato o stavano affrontando lo stesso. Per cui, quando è nata l'idea del film, ci siamo detti che avremmo dovuto fare lo stesso per dare un po’ di speranza a chi si ritrova nella nostra situazione o peggio. Può essere molto positivo lasciare andare e non tenersi tutto per sé. Raccontare (l’inizio del)la storia di Lia ci ha aiutato a chiudere un capitolo e poterlo riguardare, anche per affrontare i problemi della vita di ogni giorno. Ho amici che hanno deciso di condividere quello che stavano passando e il dolore è ancora tutto lì. Nina, nel film hai detto che ti sei sentita in colpa come madre: in che modo? N: Per Lia lì in Marocco non era la situazione più comoda o divertente. Eravamo sempre impegnati ad aiutare che non ci siamo potuti dedicare a lei quanto avremmo voluto. Così mi sono sentita un po’ in colpa, soprattutto quando è caduta dal letto, ha perso dei denti e siamo dovuti correre al pronto soccorso. Sai, era davvero troppo: ero stanca, stavo vivendo troppe emozioni. Ma quando siamo tornati a casa e l'ho vista evolversi mi sono detta che, in realtà, la cosa più importante per i bambini è dare loro amore. E questo non è mai mancato. Ma è la prima volta che sono madre ed è giusto pormi delle domande e imparare durante il processo.
Andrea: dietro le quinte
Due parole con Maxime Moulin, direttore del film prodotto da Clustr Films
Maxime, com'è stato filmare qualcosa di così personale e intimo su qualcuno? Che tipo di legame si è creato con Nina e Jeremy durante questo lavoro? M: Quando abbiamo parlato di realizzare questo film con Jérémy e Nina, abbiamo subito voluto creare un film sincero e personale. Si è instaurata una fiducia reciproca, sapendo che durante il montaggio avremmo potuto scegliere di scartare alcune parti e mantenere il controllo su ciò che sarebbe stato incluso nel film. Conosco Jérémy da 10 anni, lavoriamo spesso insieme e siamo buoni amici. Non conoscevo Nina personalmente, sapevo solo che fosse una leggenda dell'arrampicata. Abbiamo discusso a lungo e avevo bisogno che mi concedessero l'accesso alla loro vita privata, senza filtri. È anche per questo che abbiamo deciso che si sarebbero filmati da soli per due anni, catturando momenti della loro vita.
Ho tonnellate di filmati che abbiamo scelto di tralasciare durante la realizzazione del film.
Personalmente, ho cercato di trasmettere la trasformazione di Nina e l'emergere del personaggio di Jérémy. È stato proprio quando ho iniziato a lavorare al montaggio che il progetto ha preso una piega molto emotiva per me. Ho passato ore da solo davanti al computer, molto commosso, a volte piangendo, perché la loro cruda sincerità mi ha toccato profondamente. Ma il processo di editing è stato piuttosto duro per me; era così travolgente che spesso avevo bisogno di fare un passo indietro mentalmente. Ho lasciato che le mie emozioni mi guidassero.
L'amore funziona in infiniti modi e naturalmente è chiaro che "Andrea" è una storia d'amore, ma può dirmi qualcosa di più a riguardo? Quali tipi di amore? Fin dall'inizio ho voluto raccontare una storia d'amore, una storia di vita. Un film che mescola momenti semplici della vita, a volte difficili e a volte felici, in modo piuttosto crudo. Volevo davvero tracciare un parallelo tra i miei personaggi che vivono le loro avventure, in modo che chiunque potesse relazio -
narsi e riflettere sulla propria vita e sui propri progetti di vita.
Per me, Andrea è il loro progetto di vita, come il matrimonio lo è per altri, è un simbolo di ciò che due persone possono creare attraverso la loro relazione/amore. Il film rappresenta l'amore come un progetto comune, qualcosa che si costruisce ogni giorno. È felicità, ma anche momenti difficili, e soprattutto è vivere.
Ci puoi spiegare un po' la logistica e il backstage? Avete un fatto divertente o una storia nella storia? Il progetto è iniziato due anni fa e a volte è stato piuttosto caotico. Mi sono ammalato a causa di un batterio (è tutto a posto, niente di grave) all'inizio delle riprese principali e non sono potuto andare in Marocco, quindi ho diretto le riprese a distanza. Durante il viaggio, c'è stata una caviglia slogata, delle persone si sono ammalate... Anche le riprese in condizioni di terremoto sono state molto dure per le squadre, sia fisicamente che mentalmente.
Credo che queste condizioni abbiano favorito un'ambientazione molto intima. E il film è diventato un modo per liberarci psicologicamente.
Femminismo a passo di ultra
Ida-Sophie Hegemann
BY ILARIA CHIAVACCI
A Cortina d’Ampezzo sta per partire, alle undici di sera, la 120 chilometri della LUT, la mitica Lavaredo Ultra Trail, e la perla delle Dolomiti è piena zeppa di trail runner: c’è chi partecipa alla gara, ma anche chi è qui solo per guardarla e per godersi la miriade di eventi che ci sono in città.
Verso sera, ad esempio, lo store di The North Face su Corso Italia scoppia di persone: l’occasione è la proiezione del cortometraggio “Karwendel”, racconto dell’ultima impresa in ordine temporale dell’ultra runner Ida-Sophie Hegemann. L’atleta, che fa parte del team TNF, ha completato in 10 ore e 42 minuti un percorso di 65,5 chilometri e oltre 5000 metri di dislivello: uno degli High-Altitude Trail più duri d’Europa, il Karwendel Höhenweg, settando un nuovo FKT (Fastest Known Time).
Questi percorsi, al pari di quello della LUT, sono per i trail runner richiami ossessivi, come quello delle sirene per Ulisse: più sono iconici, più sono difficili, più i runner smaniano per correrli e, possibilmente, stabilire nuovi record e vincere. Hegemann non fa eccezione e il richiamo del Karwendel è stato per lei forte: perché è un trail duro e famoso, ma anche perché rappresenta idealmente un ponte tra le sue due realtà: la Germania, dove è nata e cresciuta, e Innsbruck, dove attualmente vive.
«C’è stato un punto in cui dai miei calcoli (la sera prima di ogni gara Ida-Sophie calcola i tempi parziali e se li appunta a penna sul braccio, ndr) sapevo di aver già percorso un terzo della distanza, e già questa era una bella sensazione. Poi ho visto comparire Innsbruck sotto di me ed è stato incredibile, perché era come se potessi avvertire la città, la mia città, che si stava svegliando in quel momento mentre io avevo già percorso tutta quella strada».
"Il trail running significa moltissimo per me: mettermi alla prova costantemente, deformare i miei limiti e soprattutto fare tutto questo nella natura più selvaggia e incontaminata."
Il trail running vive di nomi, di percorsi iconici, di oggetti, di simboli e, perché no, anche di un po’ di misticismo: «Il trail running significa moltissimo per me: mettermi alla prova costantemente, deformare i miei limiti e soprattutto fare tutto questo nella natura più selvaggia e incontaminata. Mi piace gareggiare, ma amo anche correre da sola e un'impresa come quella per il FKT rappresenta questo spirito. In un certo senso è stata un’esperienza mistica: nonostante le nuvole e il caldo estremo, mi sono
trovata immersa in un'atmosfera davvero bella, sono stata accompagnata da un'alba incredibile e ho visto moltissimi animali, come camosci e stambecchi. Ancora una volta, mi sono ricordata di quello che amo particolarmente di questo sport, ovvero stare da sola nella natura e spingermi sempre oltre».
Il giorno della partenza la sveglia è settata per l'una e mezzo del mattino: «Ero molto nervosa, potevo sentirlo nel mio stomaco». Ida-Sophie Hegemann parte alle 3:40, buio pesto, frontale accesa. «Quando provi un FKT il tracciato viene monitorato da un GPS in maniera molto rigida e non sei autorizzato a fermare l'orologio durante tutto il trail: quella del Karwendel è una valle difficile e, una volta che sei dentro, venirne fuori non è uno scherzo. Questo è un aspetto che è importante non sottovalutare per capire a fondo il percorso».
Normalmente alpinisti anche esperti percorrono tutto il sentiero in una media di sei giorni, fermandosi a dormire nei rifugi. Ecco: Ida-Sophie voleva essere la prima donna a completarlo tutto in un unico push e nel minor tempo possibile. «L'ho fatto perché voglio incoraggiare altre donne a farlo, a prendersi dei record e a praticare sempre più discipline per troppo tempo considerate come esclusivamente maschili. Nelle
gare mi capita spesso di correre più veloce degli uomini e, quando capita, è particolarmente fastidioso perché, quasi sempre, fanno di tutto per non farsi superare da una donna. Per noi oggettivamente realizzare imprese di questo genere è complicato. Basti pensare a quando abbiamo il ciclo, per dirne una: è un aspetto che gli uomini non hanno bisogno di considerare, ma noi sì e non possiamo certo calcolare i tentativi di record o le gare a cui partecipare in base a questo. Ma non è solo questo: è importante abbattere tutte quelle barriere che collocano certe discipline, come il trail running o l’ultra trail, in un posto non a portata delle donne semplicemente perché si tratta di sport duri. L’allenamento e la forza fisica ovviamente contano, ma è la tenuta mentale a fare veramente la differenza in questo genere di imprese».
Ed è stata la tenuta mentale a garantire all’atleta di portare a casa l’intero percorso addirittura in un tempo inferiore a quello ipotizzato inizialmente, ovvero 11 ore. «Quando avevo ancora moltissimo percorso di fronte a me ho cercato di calmare i ragionamenti nella mia testa, di conservare le energie. La sera prima, come faccio sempre, avevo calcolato i tempi parziali che avrei voluto raggiungere e me li sono scritti a penna sul braccio in una sorta di best case e
worst case scenario. Questo è il mio trucco per monitorare la situazione e tranquillizzarmi. La parte di percorso attraverso Frau Hitt è stata veramente difficile, c'era molta nebbia e quello è un tratto particolarmente duro da correre: è molto tecnico ed esposto, devi essere molto attento a dove metti i piedi. Personalmente preferisco correre che arrampicare: ho cercato di trovare dei buoni appigli a cui aggrapparmi e su cui fare leva sperando di non cadere, ma ancora la testa reggeva bene.
Tutta la parte tra lo Stempeljoch e fino a Lafatscherjoch è stata invece molto dura: è stato il primo momento in cui la mia mente ha iniziato a vacillare, perché sapevo di trovarmi a più di metà del percorso, ma il tratto che mancava da fare era veramente tosto. Quel pezzo è molto irregolare, con tantissimi saliscendi e non importa quanto veloce tu corra, in quel punto non riesci a progredire velocemente e questo è frustrante, soprattutto mentalmente. Questo pezzo mi ha veramente sfiancata e, quando l'ho terminato, ero veramente esausta».
Gli atleti del calibro di Ida-Sophie però hanno i loro trucchi e quello dei tempi parziali è solo uno: per arrivare in fondo, l’atleta ha tirato fuori il suo asso nella manica. «Da quel momento in poi ogni chilometro è stato una battaglia: ho cercato di rimanere completamente concentrata e di pensare a come sarebbe stato arrivare alla fine, ma devo ammettere che in quegli ultimi 20 chilometri ho avuto un sacco di dubbi sul fatto che ci sarei potuta riuscire. In più momenti ho pensato che sarebbe stato più semplice mettersi a sedere e piangere piuttosto che fare un altro passo. Ma in una parte della mia testa avevo anche il desiderio di fare un buon tempo e questo mi ha dato la motivazione per andare avanti, anche se ogni passo mi provocava veramente molta sofferenza. Quando mi trovo in questi momenti, cerco di dividere il percorso in segmenti e di procedere uno step per volta: possono essere dieci o cinque chilometri, in questo caso mi sono concentrata sul portarne a
casa tre alla volta, per non pensare ai venti che invece avevo ancora davanti. Nella parte della discesa ho cercato soprattutto di focalizzarmi sul non cadere, perché il terreno era molto sdrucciolevole ed ero veramente spaventata. In più, per un difetto che ho da quando sono bambina, non sento dal mio orecchio sinistro e questo significa che non ho molto equilibrio: cosa che, su percorsi molto tecnici come il Karwendel, può rappresentare un problema. L'allenamento in queste situazioni è importantissimo: mi aiuta a fidarmi del mio corpo e a sapere che starò in equilibrio e che devo credere in me stessa, perché ci sono riuscita molto bene nelle settimane e nei mesi passati».
Ancora una volta, è la testa a portare questi atleti e atlete a raggiungere i loro obiettivi e i loro record. «Quando ho raggiunto Scharnitz ho realizzato che ero riuscita a completare il percorso in meno di 11 ore, che era il tempo che mi ero prefissata e che, quindi, in qualche modo avevo superato anche me stessa. Quel momento è stato surreale, non riuscivo pienamente a rendermi conto del fatto che fosse finalmente finita. La cosa speciale degli FKT, rispetto alle gare normali, è che tu stabilisci un record, ma chiaramente questo non rimarrà per sempre: io spero che questo incoraggi e ispiri altre donne a correre questo stesso trail e a prendersi il mio record, a sfidare se stesse e a battere il mio tempo. Io, poi, farò di tutto per riprendermelo».
Spero che questo
incoraggi
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donne a correre questo stesso trail e a prendersi il mio record, a sfidare se stesse e a battere il mio tempo. Io, poi, farò di tutto per riprendermelo" "
altre
Inseguendo la Lavaredo Ultra Trail
BY FILIPPO CAON
PHOTOS ALEXIS BERG
La LUT è la grande festa del trail italiano, e di certo non potevamo perdercela. L’attesa, la gara, tutto quello che ci gira attorno: il racconto (sincero) dalle montagne e dalle strade di Cortina
È una mattina di giugno del 2007 a Palus
San Marco, sulla strada statale che collega Auronzo a Misurina, in valle Ansiei. Il parcheggio della casa colonia San Giovanni Paolo II – l’unico edificio nel raggio di miglia – è particolarmente affollato di persone in abiti da corsa, alcuni in abiti escursionistici. Qualcuno ha montato un gonfiabile nero in mezzo al prato.
È la partenza della prima Lavaredo Ecomarathon, dall’anno seguente rinominata Lavaredo Ultra Trail. Guardando le fotografie di quella prima edizione, niente, ma davvero niente, avrebbe lasciato intendere che quell’evento sarebbe diventato uno dei più grandi al mondo, se non la determinazione e la vena di Cristina Murgia e di Simone Brogioni. Negli anni la LUT è cresciuta, prima spostando la partenza ad Auronzo e, solo in un secondo momento,
a Cortina, accompagnata di volta in volta da polemiche e malumori. Nonostante questo, guardandosi indietro, la Lavaredo è forse l’evento che meglio rappresenta il percorso fatto dal trail italiano negli ultimi 15 anni. Ma adesso ci fermiamo qua con la storia, che riprenderemo altrove.
La settimana di LUT inizia davvero il giovedì pomeriggio, quando tutti hanno preso possesso dei propri appartamenti o hanno montato la tenda nella piazzola giusta. Ma per gli addetti ai lavori inizia prima, il mercoledì, e per i meno fortunati il martedì: per loro però, è il caso di dirlo, finisce anche prima. Così come UTMB, LUT è soprattutto la scusa per organizzare eventi collaterali per i media e per le aziende: non potendo avvenire in concomitanza con le gare più importanti, questi vengono organizzati nei giorni precedenti, col ri-
sultato che il venerdì sera, quando la gara inizia, tutti gli altri sono già andati a casa. È un fatto curioso di come funzioni questo sport. Il venerdì sera, una volta consegnati tutti i pettorali, l’expo chiude e inizia la transumanza dei furgoni aziendali verso Vittorio Veneto. Restano a Cortina gli appassionati, i corridori e le loro famiglie.
Alla quarta Lavaredo Ultra Trail che seguo ho finalmente capito cosa mettere nello zaino per la notte – quest’anno, che è stata tra le più miti degli annali della gara. Comunque, sono preparato a tutto e ne sono particolarmente soddisfatto. Mi sento inspiegabilmente preparato anche all’astinenza di sonno e sospetto che a differenza di altre volte ne avrò particolarmente bisogno. Quest’anno, infatti, c’è tutto il Trento Running Club: sia a correre sia a fare assistenza, oltre che a molestare i corridori con un campanaccio, tutta la notte, tra una birra e l’altra.
Il parterre quest’anno vanta dei nomi nuovi. L’anno scorso la concomitanza con i mondiali aveva privato la LUT 120 di alcuni grandi atleti, mentre quest’anno ci sono anche Tom Evans – già vincitore di Western States nel 2023 e terzo a UTMB nel 2022 – e Thibaut Garriver. Sono tornati anche Hannes Namberger, già due volte vincitore, e Andreas Reiterer. Non è partito, invece, Germain Grangier: a causa di un incidente prima della gara, è stato costretto a tornare a casa prima del via.
I primi passano straordinariamente presto al primo ristoro di Ospitale, di fronte a una ormai indissolubile crew di seguitori di gare con gli occhi puntati sull’orologio e pronta ad accettare scommesse su ritiri e deflagrazioni: Alessandro e Marcello in rappresentanza di Buckled, Davide e Adam in rappresentanza di Destination Unknown, il sottoscritto in rappresentanza di The Pill e della Provincia Autonoma
di Trento, e Tommaso in rappresentanza di tutte le cose di cui sopra, più almeno un altro paio. A parte noi, notiamo che c’è molta più gente del solito alle aid station. Fino all’anno scorso, ai ristori ci ritrovavamo in tre o quattro, con l’unico intento di assorbire tutto il freddo della val di Landro e della conca di Misurina. Quest’anno l’organizzazione ha persino predisposto un piccolo ristoro per gli assistenti e per gli spettatori, con tè gratis e musica per tutta la notte. C’è anche da dire che questo genere di servizi diventa sempre più necessario dato che ormai da tempo si va nella direzione del grande evento di stampo UTMB.
Poi la via crucis, accompagnata ad ogni tappa da una perdita di motivazione: Misurina, Cimabanche e infine Col Gallina, dove espiare i propri peccati. Quest’anno bisogna salire presto per trovare parcheggio: se andate a Cortina in questi mesi avrete modo di vedere cosa significa organizzare un evento come le Olimpiadi del 2026. Cantieri, ponti, modifiche alla viabilità, nuove infrastrutture, nuovi impianti di risalita. Siamo abituati a vedere cantieri sul Passo Falzarego ormai dal 2021, ma mai come quest’anno hanno reso difficoltosa la logistica dell’evento. In realtà sospettiamo che sia in buona parte frutto del terrorismo dell’organizzazione, ma nel dubbio lasciamo Cimabanche alle prime luci del giorno.
A Col Gallina iniziano le scene più desolanti, il sole comincia a picchiare presto e per la prima volta si prospetta un sabato torrido, laddove eravamo abituati a prendere vento e drizzling rain. Dopo essere stati insieme tutta la notte, a Col Gallina passano in prima posizione Namberger e Evans. Il primo sembra più affaticato, mentre il secondo pare più che altro attendere il momento giusto, che evidentemente non
Poi iniziano ad arrivare tutti gli altri, fino agli ultimi agonizzanti. A Col Gallina c’è da riempire borracce, tagliare anguria, sfamare gli affamati e dissetare gli assetati, e poi ci sono le sedute psicologiche, i training motivazionali, le pedate nel culo da dare a chi si vuole ritirare. Col Gallina non finisce mai e sembra quasi una fase della vita. Poi il sole inizia a scendere sotto alla Gusela del Nuvolau, e così si cerca di raccogliere le lattine vuote e le bucce di anguria lasciate in giro, e si inizia a tornare verso il paese, più stanchi e più ricchi di quando lo avevamo lasciato.
è ancora arrivato, ma che d’altronde non arriverà mai: termineranno in quest’ordine, rispettivamente due minuti sotto e un minuto sopra al record. Mai giocata invece la gara femminile, in cui Rosanna Buchauer ha corso costantemente da sola, con un tempo incalcolabile su Giuditta Turini.
Poi iniziano ad arrivare tutti gli altri, fino agli ultimi agonizzanti. A Col Gallina c’è da riempire borracce, tagliare anguria, sfamare gli affamati e dissetare gli assetati, e poi ci sono le sedute psicologiche, i training motivazionali, le pedate nel culo da dare a chi si vuole ritirare. Col Gallina non finisce mai e sembra quasi una fase della vita. Poi il sole inizia a scendere sotto alla Gusela del Nuvolau, e così si cerca di raccogliere le lattine vuote e le bucce di anguria lasciate in giro, e si inizia a tornare verso il paese, più stanchi e più ricchi di quando lo avevamo lasciato.
L’atmosfera che si respira a Cortina i giorni precedenti la gara è unica, è un’occasione per incontrare persone che non vediamo da tanto tempo. Oltre a questo, la LUT continua ad essere la grande festa del trail italiano, e si percepisce sia in Corso Italia che a Col Gallina, il sabato mattina. Lavaredo Ultra Trail appartie-
ne alla storia del nostro sport e si sente (come e perché, dicevamo, ve lo racconteremo tra qualche settimana). Ciononostante, Cortina non può piacere davvero del tutto a un appassionato di outdoor. Intendiamoci, è forse il posto più bello al mondo, e senza dubbio l’angolo più bello delle Dolomiti: è aperto e circondato da cime molto diverse tra loro che danno la possibilità di praticare qualunque sport di montagna. Cortina è davvero stupenda, oltre a essere il motivo per cui LUT è diventata LUT. Ha un solo problema: c’è Cortina. I prezzi sono altissimi, sia per mangiare una pizza che per affittare una camera (per fortuna gli organizzatori mettono a disposizione un servizio navetta che collega il centro alla pista di atterraggio di Fiames, cinque chilometri a nord, in valle di Landro, in cui passare la notte gratuitamente). Rispetto a Chamonix, dove i negozi sono a misura di atleta, a Cortina questo tipo di clientela sembra quasi fuori luogo. Insomma, forse è grazie a Cortina che LUT è diventata LUT, ma è anche a causa di Cortina che forse non diventerà mai UTMB: per il resto, ci sarebbe quasi tutto. Non c’è un altro posto così in Italia e dovremmo prendercene un po’ più di cura, tutti noi.
Andreas Reiterer
Il ritorno in La Sportiva e il sesto posto a LUT
BY LISA MISCONEL
A tu per tu con l'atleta altoatesino che quest’anno è tornato alla Lavaredo Ultra Trail con spirito e colori nuovi
Andreas Reiterer non ha bisogno di presentazioni, se le lunghe distanze sono il vostro pane. Altoatesino con base ad Hafling, Merano, è un corridore dalle poche, pochissime parole, e molti più fatti. Dopo un passato da sciatore, si è avvicinato alla corsa rendendosi presto conto della sua propensione verso il mondo ultra e diventandone uno dei nomi più noti. Il 2024 ha significato per lui una vittoria a Chianti Ultra Trail, ma anche un risultato poco soddisfacente ai campionati europei di Annecy, complice forse il fatto che proprio in quei giorni è diventato papà.
Con Moritz (questo il nome del piccolo Reiterer) tranquillo a casa, Andreas torna a Cortina per un’altra Lavaredo Ultra Trail. Ci torna però con uno spirito nuovo, forse anche perché ci torna insieme a La Sportiva, brand che per primo ha creduto in lui e che lo ha riaccolto in famiglia dopo la triste fine del tentativo di Dynamo di creare un team professionistico nell’ultrarunning. Un ritorno che ha portato energie positive sia all’atleta che al team e che dimostra ancora una volta il legame speciale dell’azienda fiemmese con i suoi portabandiera.
L’anno in corso, nonostante la disfatta francese, portava buon auspicio per Andreas, che è riuscito a condurre la gara fino al novantesimo chilometro dove una crisi gli ha rovinato il sogno della medaglia. Una ripresa negli ultimi venti chilometri gli ha comunque portato il sesto posto, sicuramente non ciò a cui ambiva, ma ugualmente un risultato degno di nota. Abbiamo fatto due chiacchiere con lui qualche giorno prima del via: abbiamo parlato della sfida che rappresentava per lui il chilometraggio, superiore di 40 chilometri al suo preferito, oltre che del suo lavoro in hotel e delle scarpe che ha utilizzato e che avrebbe utilizzato di lì a qualche giorno.
Come va la nuova vita da neo papà e atleta élite? Devo dire benissimo! Non posso dire che mi sia allenato meno o che abbia dormito meno, perché abbiamo fortuna ed il piccolo Moritz dorme tanto...
Quest’anno torni un po’ a casa: l’anno scorso eri comunque qui, ma con altri colori. Sì, l’anno scorso ero con un altro team che si è esaurito prematuramente e in maniera abbastanza negativa. Con La Sportiva mi sento di nuovo accolto, è un team con il quale ho da sempre un bellissimo rapporto.
"Non ho cambiato nulla nei miei allenamenti, so che è comunque una distanza che posso correre. Ciò che devo cambiare è il come faccio la gara, perché sono uno che ogni tanto non corre in maniera intelligente. Queste sono gare in cui la testa conta molto, e spero che la mia età ed esperienza questa volta mi aiutino nella gestione"
La tua distanza preferita sarebbero gli 80 km, lo hai detto più volte in varie occasioni. LUT ne richiede un po’ di più... hai messo in atto una preparazione specifica o diversa per questi km in più? Non ho cambiato nulla nei miei allenamenti, so che è comunque una distanza che posso correre. Ciò che devo cambiare è il come faccio la gara, perché sono uno che ogni tanto non corre in maniera intelligente. Queste sono gare in cui la testa conta molto, e spero che la mia età ed esperienza questa volta mi aiutino nella gestione.
Quando capisci se la giornata è buona o meno? Sulla linea di partenza lo sento già se sto bene o no... Se parto e sento che le gambe non ci sono, sicuramente non sarà una giornata facile. Il bello delle gare lunghe tuttavia è che tutto può cambiare: dopo due ore magari potrei sentirmi al meglio delle mie possibilità, cosa che in una gara corta non potrebbe succedere.
Parliamo di LUT. Cosa ti fa tornare ogni anno? È semplicemente la gara di trail più importante in Italia, e come motivazione mi basta. È un obiettivo, l’idea di vincerla o salire sul podio mi motiva ogni anno. In più il percorso è bellissimo anche al di là della gara.
Qual è la tua parte preferita? Se sto bene la Val Travenanzes, ma se non sono in buone condizioni si potrebbe subito trasformare nella peggiore.
Un ricordo speciale di questa gara negli anni? Ho tanti ricordi, ma sicuramente l’anno scorso quando siamo scesi dalle Tre Cime con l’alba è stato magico. Per una volta mi sono girato e ho ammirato il cielo, e normalmente non è una cosa che mi permetto di fare (ride).
Parlando di allenamenti, come li gestisci? Penso che non sia importante fare sempre e solo ore e ore di allenamento... È importante avere continuità. Il mio ultimo infortunio è stato cinque anni fa e da lì ho sempre corso, questo potrebbe essere il mio punto di forza. Chi si infortuna facilmente è costretto a fare poco, fermarsi spesso. Io poi l’inverno alterno molto con lo scialpinismo. Anche come ore, non faccio sempre 20 ore a settimana. Ho continuità, ma come quantità vario sempre.
Anche perché lavori, anche... Sì, la mia famiglia ha un albergo. Volendo avrei potuto scegliere di fare solo l’atleta, ma lavoro volentieri e non lascerei la mia famiglia. Non lavoro ogni giorno, ma mi sposto tra cucina e manutenzione e mi piace.
Cosa rende LUT, LUT? La LUT ha un percorso fra le Dolomiti, è una gara bellissima, speciale. Gli organizzatori sono fantastici: li conosco bene e ogni anno mi accolgono con il cuore.
Con cosa correrai? Prodigio Pro. Ho corso Chianti con le Prodigio, mentre ad Innsbruck ho corso con le Prodigio Pro, così come agli Europei.
TEXT FILIPPO CAON
PHOTOS ELISA BESSEGA
Non sparate al pianista Parte 2
BY FILIPPO CAON
PHOTOS ELISA BESSEGA
Torniamo in Colorado per la seconda e ultima tappa del viaggio, parte di un progetto di RunTrento, alla scoperta di come l’ultrarunning abbia cambiato il destino di alcune città delle Rocky Mountain
«Chi sa se ritornerò mai in questo posto». Ci trovavamo nel mezzo di una bufera di neve nei pressi della Climax Molibdeno, era inizio novembre e l’oscurità era da poco scesa sul Tenmile Range. La strada era bianca e non si vedeva a più di dieci metri. Io e Noah proseguimmo a passo d’uomo verso la I-70 superando di tanto in tanto dei bilici sbandati a bordo strada. Leadville ormai era alle spalle, e le luci di Denver di fronte a noi, provati e confusi, a confortarci.
Otto mesi dopo sono di nuovo qua, in Harrison Street, a Leadville, steso su un materassino nel bagagliaio di una GMC, per cercare di riposare prima della quarantesima Leadville Trail 100 Run, la seconda 100 miglia della storia. Placo l’ansia leggendo un libro intitolato "Leadville Trail 100. History of the Leadville Trail 100 Mile Running Race" di Marge Hickman e Steve Siguaw: un mattone di 400 pagine che probabilmente mi verrà requisito in aeroporto e catalogato come oggetto contundente. Leggo i racconti della prima edizione, leggo del primo ristoro di Lady of the Lake, che oggi non c’è più, e di quei primi pionieri, traditi dall’aria sottile dei tremila metri delle Colorado Rockies.
In agosto, Leadville ha un’aura del tutto diversa che in inverno: al City on a Hill per un caffè si fa la coda sul marciapiede, i negozi sono aperti e gli affittacamere sono pieni. Leadville, oltre alla 100 miglia, negli anni ha sviluppato un’intera serie di gare che
impegna la città per tre mesi, spalmando eventi ogni weekend durante tutta l’estate. Al contrario di Silverton, dove l’organizzazione di gara e l’amministrazione locale delle public lands limitano la partecipazione a 140 atleti, Leadville Trail 100 nel corso degli anni ha aumentato il numero di eventi, delle quote e di partecipanti fino a 750.
Dalla prima edizione del 1983 la gara è cambiata molto. Nel 1994 venne organizzata la prima Leadville Trail 100 Mile Mountain Bike Race, e a partire dal 2010 vennero create le Leadville Race Series, che oggi includono Silver Rush 50 MTB, Silver Rush 50 Run, Leadville 10K, Leadville Trail Marathon e Heavy Half Marathon. La creazione delle Race Series rispondeva, tutto considerato, all’idea iniziale di Chlouber di portare soldi in città per far crescere la comunità e la qualità di vita nella Lake County.
Al contrario della vulgata della fondazione della gara, essa era stata ori-
ginariamente ideata non da Chlouber ma da Jim Butera, che nei primi anni Ottanta propose al Colorado Ultra Club di organizzare la prima 100 miglia dello stato. Inizialmente Jim Butera ideò un percorso che avrebbe dovuto collegare le città di Aspen e Vail, entrambi ex centri minerari trasformati in resort sciistici tra anni Sessanta e Settanta. Per questioni di permessi l’idea si arenò e venne accolta in un secondo momento dalla città di Leadville grazie alla figura di Ken Chlouber, un ex minatore e ultrarunner, che in quel momento era in carica come consigliere presso la città di Leadville. Le prime due edizioni si tennero nella città sotto la direzione di Butera, e solo a partire dal 1985 Chlouber sarebbe subentrato nella direzione della gara.
Il punto di svolta fu il 2013 quando la gara venne acquistata da Lifetime Fitness: Ken Chlouber e Marilee Maupin uscirono dalla direzione e subentrarono come consulenti, mantenendo
una quota di minoranza dell’evento. Lifetime cercò di far crescere la gara arrivando nel 2013 a 1200 partecipanti, a fronte però di una percentuale sempre minore di finisher. L’ingrandimento esponenziale della gara ebbe conseguenze negative sulla qualità dell’evento e portò a un progressivo allontanamento della comunità dell’ultrarunning da Leadville.
Siguaw e Hickman scrivono: «A Leadville Trail 100 […] accadde esattamente ciò che Chlouber voleva evitare, trovando un investitore che la rilevasse per inondare la comunità di Leadville di atleti e sponsor». Durante l’edizione del 2013, continuano Siguaw e Hickman, c’era «spazzatura lungo tutto il percorso: gel, bicchieri, involucri sul sentiero. […] L’edizione del 2013 fu un disastro totale».
Quell’anno, la comunità dell’ultrarunning americano si sollevò contro l’organizzazione della gara e contro Lifetime Fitness, e le critiche imperversarono su riviste, blog e social
networks. Dale Garland, race director di Hardrock 100, decise di rimuovere Leadville dalla lista di gare qualificanti di Hardrock, sostenendo che questa si era allontanata dai propositi iniziali e dai principi dello sport. Stan Jensen, curatore dello storico blog run100s.com, rimosse Leadville dalla sua lista delle 100 miglia americane: oggi è difficile comprendere la portata di quel gesto, ma il peso del blog in una comunità così piccola era talmente significativo che lo stesso Ken Chlouber telefonò a Jensen per risolvere la cosa. Oltre alla community dello sport, anche gli abitanti di Leadville espressero disappunto per l’ingrandimento della gara, ritenuto insostenibile per le ridotte dimensioni della città. Dopo il 2013, l’organizzazione fece un passo indietro e ridusse il numero di partecipanti a 750 atleti, numero mantenuto ancora oggi; Stan Jensen reinserì la gara nella lista e il nome di Leadville venne riabilitato nella comunità dell’ultrarunning.
Il modo in cui gli atleti, i media e la città si sollevarono collettivamente di fronte al tentativo di commercializzazione promosso da Lifetime dice molto del modo di vivere questo sport negli Stati Uniti, e di come il senso di tradimento vissuto da una piccola comunità sia in grado di modellare e ridirezionare scelte aziendali.
L’ultrarunning americano era, ed è tuttora, uno sport che appartiene prima di tutto chi lo corre e a chi lo vive, e solo dopo, in modo più velato e indiretto, alle aziende.
La vicenda di Lifetime ci racconta qualcosa anche di come Leadville e le altre città rurali delle montagne del Colorado non vedano nel turismo di massa uno strumento di arricchimento economico, ma piuttosto un mezzo di impoverimento identitario, e di come siano sufficientemente autonome e coese da rifiutare, quasi unilateralmente, ogni tipo di crescita esponenziale. Leadville, come Silverton e Ouray, ha cercato un sistema di sviluppo più omogeneo e lento, che porta le persone a instaurare un rapporto più profondo non solo col territorio, che è un concetto relativamente astratto, ma anche con la comunità e con le persone che vivono quel luogo. Leadville Trail 100 Run, dopotutto, era nata per questo.
Per quantificare l’indotto economico sulla città di Leadville portato dalle Race Series, nel 2013 il Colorado Mountain College condusse uno studio mirato che calcolava un’entrata media di 15 milioni di dollari all’anno. Il tema era già stato affrontato dallo stesso Steve Siguaw in un articolo uscito su Ultrarunning Magazine datato gennaio 1990 e intitolato "The Economic Impact of the
Leadville Trail 100 Mile", in cui Siguaw riportava un sondaggio condotto sugli atleti nel 1989, in cui veniva calcolata una spesa media di 548 dollari per atleta, e quindi con un indotto minimo totale attorno ai 140 mila dollari soltanto per i partecipanti, escludendo famiglie, amici e assistenti. Questo, continuano Siguaw e Hickman, «solo per dimostrare come una singola scintilla possa trasformare ciò che sarebbe potuta diventare un’altra città fantasma, Leadville, Colorado, in uno dei centri più vitali per lo sport in tutte le Rocky Mountain». La prima presenza occidentale nell’alta Arkansas Valley risale all’anno 1860, quando un tale Abe Lee decise di inoltrarsi fino ai confini occidentali dell’allora Territorio del Kansas alla ricerca dell’oro. Abe Lee e i suoi uomini si fermarono a un centinaio di miglia a ovest di Denver, nella grande prateria dall’Arkansas River compresa tra il Sawatch Range e il Mosquito Range e battezzata da loro California Gulch, dove oggi sorge Leadville.
Negli anni Sessanta venne fondato un primo insediamento di tende e baracche che prese il nome di Oro City. Tuttavia, dopo il boom iniziale, l’oro presente sul letto del fiume Arkansas si esaurì e l’accampamento venne progressivamente abbandonato riportando la pianura allo stato in cui
si trovava quindici anni prima. Negli anni Settanta seguì poi un secondo boom dell’attività mineraria nella valle dell’Arkansas. Horace Warner Tabor, un imprenditore dell’est che si era trasferito con la famiglia a Oro City per aprire il primo emporio, scoprì che i giacimenti di carbonato di piombo presenti a est della città contenevano un’alta quantità di polvere di argento; Tabor conservò il segreto e progressivamente acquistò buona parte dei terreni che circondavano il Gulch.
Ufficialmente, la nuova “città del piombo”, Leadville, venne fondata da Horace Tabor e August Meyer nell’anno 1877, inaugurando la seconda grande corsa mineraria del Colorado, non più all’oro, questa volta, ma all’argento, la Colorado Silver Rush.
Negli anni Ottanta dell’Ottocento la città crebbe al punto da avere sei banche, cinque chiese, tre ospedali, e un teatro dell’opera. Nel 1880 arrivò la luce a gas e la città raggiunse dimensioni quattro volte superiori a quelle attuali, al punto da superare per estensione la città di Denver, allora già capitale dello stato. La popolazione si aggirava attorno alle 35mila persone, quando oggi supera a malapena le duemila. Attorno a Leadville sorse una costellazione di città minerarie, oggi fantasma, tra cui Winfield, giro di boa della gara.
A fine Ottocento, Leadville era divenuta il centro del boom del West americano, e nella fresca aria dei tremila metri giravano in carrozza intellettuali europei, cantanti d’opera e ballerini internazionali. Oscar Wilde, che vi soggiornò nel 1888, la descrisse come la città più ricca al mondo, oltre che come la più selvaggia: Leadville contava sessanta saloon e le sparatorie erano frequenti. Al Silver Dollar Saloon, che ancora oggi sorge in Harrison Street, proprio di fronte al negozio delle Leadville Race Series, sopra al pianoforte si leggeva: «Non sparate al pianista. Fa del suo meglio».
Con l’esaurimento dell’argento l’attività mineraria si spostò sull’estrazione del molibdeno. Nel 1915 venne fondata la Climax Molybdenum e insieme ad essa l’omonima città, anch’essa fantasma, quattro miglia a nord di Leadville. La Climax tenne in vita la città fino ai primi anni Ottanta del Novecento quando, con la chiusura della miniera, cadde in una rapida e apparentemente inarrestabile crisi. Da lì, la storia la conosciamo: nuove cose iniziarono ad accadere nelle Colorado Rockies, lo sport arrivò, e con esso nuove persone, nuove vibrazioni e nuove possibilità.
Il 28 agosto del 1983 venne sparato il primo di una nuova serie di colpi di fucile a Leadville: non quello di un fuorilegge, ma quello di Ken Chlouber, che dava il via alla prima Leadville Trail 100 Run.
La storia della Climax è talmente sentita nelle Colorado Rockies che in ogni libreria o negozio di cianfrusaglie dello Stato si trovano libri che la raccontano, uno su tutti: "Climax. The History
of Colorado's Climax Molybdenum Mine". Oggi il Far West, la retorica del lavoro e della miniera si ritrovano in ogni cosa che riguarda sia la città che la gara. Ken Chlouber, che se non è il fondatore è nondimeno la figura che ha determinato ciò che LT100 è diventata, ha inserito Leadville in un immaginario western tutto suo, mai cinematografico e, anzi, sempre e necessariamente vero. Per Chlouber, l’ultrarunning è la metafora della vita in miniera e, va da sé, della vita nel west: «Scavate nel profondo come loro hanno scavato nell’oscura profondità della terra, con grinta, fegato e determinazione». E ancora: «Siete meglio di ciò che pensate di essere e potete fare più di ciò che pensate di poter fare». Il giorno prima della gara si tiene un grande briefing obbligatorio per tutti i corridori e gli assistenti. È organizzato nel campo da football del liceo, poco fuori dalla città. Viene montato un grande palco da concerto al centro del campo, con un maxischermo sul fondo
e una platea di sedie disposte al centro del campo in due navate. Sopra e ai lati del palco sono appesi tre grandi striscioni che recitano i motti della gara: The Race Across the Sky, Dig Deep e Grit Guts Determination. Il briefing è un torrone di un’ora e quaranta, ma è molto partecipato e sentito da tutti. Si susseguono una serie di interventi di scarso contenuto informativo, più che altro ispirazionale. Parlano la race director, un tale non meglio definito, il capo della polizia della Contea.
Dare la parola a un poliziotto al briefing di un evento sportivo, negli Stati Uniti, oggi, è uno di quei gesti che se non si può dire che abbia un significato politico, senza dubbio contribuisce a inserire l’evento in un orizzonte culturale abbastanza chiaro. E insieme ad esso i continui rimandi al valore del lavoro e della famiglia, e poi l’onnipresente fucile, l’orgoglio, il divieto a mollare. Chlouber, dopotutto, fu senatore presso il Senato del Colorado per il Partito Repubblicano dal 1996 al 2004.
È importante però capire che la retorica di Chlouber, e di conseguenza della gara, non viene letta e accolta da tutti i partecipanti in modo unilaterale, non è un congresso di partito: al briefing, la maggior parte degli atleti, per lo più trentenni bianchi, democratici, vestiti in flanella e provenienti dalla città, ascoltano quelle parole col sorriso, allo stesso tempo rispettosi di quella storia, ma per forza di cose distaccati da essa.
La miniera e la Climax appartengono alla storia di Leadville, ma chi vive la città oggi appartiene per lo più a una nuova civiltà. Al briefing c’è un’umanità piuttosto frammentata e allo stesso tempo mescolata e ben amalgamata, e si vedono cappelli da cowboy, pantaloni mimetici, camicie in flanella, pile Patagonia, ciabatte Hoka, stivali di cuoio. Insomma, l’America, con tutte le sue tendenze e le sue facce, compressa in un campo da football ad ascoltare le storie di un vecchio cowboy.
Leadville, come Silverton, è un posto in cui il passato e il presente del Colo-
rado si innestano in modo rispettoso, al contrario del Front Range, in cui la cultura emergente è diventata quella dominante e ha involontariamente soffocato ogni tendenza reazionaria. Insomma, sebbene queste differenze siano abbastanza evidenti, a Leadville si respira un grande senso di unione e di comunità: le aid station avvolte in una nuvola di fumo di marijuana e gente che stende bolle di sapone giganti ascoltando musica tecno e ballando alla luce di fari stroboscopici – anche a Sugarloaf Pass, a mezzanotte.
Su Pipeline, una tagliafuoco in mezzo alla foresta attraversata da una conduttura del gas sotterranea, c’è una fila di camper e pick-up con persone che campeggiano, grigliano e fanno assistenza ai corridori. Lapo, il mio pacer, mi spiega che ora fanno assistenza per la gara, ma vengono qua tutti i weekend, a grigliare per due giorni e a fare festa, coi bambini e gli amici. Che dicevo sul campeggio?
Sulla linea di partenza, all’alba, prima di partire, una ragazza con una voce dolce e tremolante canta l’inno nazionale: diventa un momento di raccoglimento collettivo, come per dirsi: okay ragazzi, abbiamo gridato e detto stronzate per due giorni, ma ora siamo tutti qua, su questa linea di partenza, e stiamo per fare questa cosa. È un momento di intimità collettiva, che ha poco a che fare con la nazione, con Donald Trump o il football americano: è l’America nel suo senso più cordiale e unito e in quel momento, nonostante il mio sguardo defilato, emoziona anche me.
In Italia abbiamo la tendenza a considerare le gare americane come gare americane, trascurando che sono in realtà molto diverse tra loro non solo per il percorso, ma anche e soprattutto da un punto di vista culturale, e uso questa parola in modo molto serio. Western States nasce nella California degli anni Settanta perché un hippie un giorno decise di correre a piedi una gara a cavallo. La Summer of Love era nata e morta a poche miglia da quelle montagne qualche anno prima, era nata l’arrampicata sportiva e nella Bay Area nascevano Apple e Microsoft: era in generale un momento di grande fermento. Oggi a Western States gli organizzatori vestono camicie hawaiane e a nessuno importa un granché di fare grandi discorsi motivazionali: insomma, è la California. Leadville è nata soltanto sei anni dopo, ma sulle montagne più sperdute del Paese e nel momento più depresso della loro storia. Vogliamo tutti gareggiare in America come se tutto fosse uguale, ma queste gare, a modo loro, rappresentano vol-
ti diversi di una nazione che se da un lato è coesa, dall’altro ha differenze molto grandi. Poi la community dello sport è sempre la stessa, le facce che si ritrovano alle gare sono quelle, ma alcune differenze si vedono: a Leadville partecipano ad esempio molti marines e molti militari, tutti chiaramente affetti dalla sindrome di Dunning-Kruger, quella distorsione cognitiva per cui un individuo poco esperto tende a sovrastimare la propria preparazione. Così per la città capita di vedere degli omoni da quintale che senza aver mai corso un passo in vita loro vengono a correre la “gara più alta d’America” per scoprire di che pasta sono fatti, e nella maggior parte dei casi lo scoprono sulla salita per Hope Pass, di cui difficilmente vedranno la cima per la seconda volta. Nelle altre 100 miglia di che pasta sia fatto un marine non importa granché a nessuno, e tutto sommato neanche qui: loro sono fuori luogo e saltano subito agli occhi, ma intanto ci sono, mentre alle altre gare no.
Leadville incute timore, ma allo stesso tempo per molti è il debutto sulla distanza, per alcuni è persino la prima ultramaratona. Come ci tengono a sottolineare gli organizzatori al briefing pregara, Leadville è una delle 100 miglia con la percentuale di finisher più bassa tra le ultramaratone americane: sebbene sia comprensibile in una gara in quota e senza requisiti di accesso, è sorprendente se si considera lo stile corribile del percorso. In questo, Leadville è una gara quintessenzialmente anni Ottanta. Se non fosse mai esistita e qualcuno dovesse crearla oggi, per la prima volta, non penserebbe mai a un percorso simile. È un out and back, il che significa che si corre per metà percorso, e una volta arrivati dall’altra parte ci si gira e si torna indietro per la stessa strada. Si corre per lo più su strade bianche, su sentieri morbidi e lunghi tratti di asfalto, ai piedi di Mount Massive e Mount Elbert, le due cime più alte delle Rocky Mountains. Il punto più alto della gara è Hope Pass, a 3800 metri di quota, che si raggiunge
per una salita alpina di circa mille metri di dislivello. Da lì si scende fino alla città fantasma di Winfield. Il resto della gara oscilla tra i 3000 e i 3400 metri e resta sempre al di sotto della timberline, la linea degli alberi. Il percorso attraversa praterie e boschi di pini gialli e di betulle, costeggia laghi e attraversa torrenti, ma non scala nessuna montagna, non taglia nessuna cresta, non accumula migliaia e migliaia di metri di salita. In questo è anni Ottanta: oggi consideriamo del tutto normale salire di corsa fino a 4000 metri e fare gare di 35 ore con dieci, dodicimila metri di dislivello su terreni impraticabili, ma quarant'anni fa tutto questo era semplicemente ritenuto impossibile, e il percorso di Leadville sembrava già al limite.
Forse non è la gara più bella al mondo (è molto bella), ma è una gara di corsa, e nelle gare di corsa bisogna correre, e quel che è certo è che a Leadville bisogna correre tanto. Insomma, è una 100 miglia: e non tanto perché sia lunga 160 chilometri e diano una fibbia a chi la finisce, ma perché è l’archetipo stesso della 100 miglia, non solo come gara o come percorso, ma anche come evento, come concezione, come spirito e come mood, soprattutto.
«Non capisco perché la chiamino The Race Across the Sky. Across the sky… corri sul fondo valle per 80 chilometri poi ti giri e torni indietro. Conosci il Nolan’s 14? Quello, quello sì che è attraverso il cielo… The Race Across the Sky».
Spiegare Leadville a un italiano è abbastanza complicato. Negli ultimi anni l’interesse per queste gare è aumentato anche in Europa, e il loro stile ha iniziato ad affascinare anche i corridori delle Alpi: le storie di fibbie e di sentieri polverosi raccontate da chi tornava dall’America hanno aperto gli occhi di molti oltre il cancello. E c’è chi quell’atmosfera ha provato a imitarla, chi a captarla, chi a scopiazzarla: ma lo spirito più intimo e profondo, la vera essenza di queste gare, il motivo per cui sono ciò che sono, la loro aura leggendaria e il timore e la reverenza che suscitano, sono cose ancora oscure e misteriose.
Qualche tempo fa, a Trento, mi sono trovato a guardare per l’ennesima volta un vecchio film su Anton Krupicka a Leadville; ma questa volta sulla sedia accanto alla mia, invece del gatto, c’era seduto lui. Guardavo quelle immagini e pensavo che su quei sentieri ora ci avevo corso anche io e che la persona su quello schermo, che mi aveva fatto sognare quella fibbia, ora era seduta a fianco a me.
Non mi abituerò mai a correre gare come Leadville, e non realizzerò mai del tutto il fatto di esserci riuscito. Come d’altronde capita con tutte le cose tanto tanto lontane che, dopo averle ammirate a lungo, tutt’a un tratto diventano vicinissime e reali. Ma forse è proprio questo il motivo per cui faccio ciò che faccio: per tirarle giù da
lassù, dal posto in cui stanno, in cui ce le abbiamo messe noi, e vedere che in fondo sono solo delle gare di corsa.
Sono tornato a Leadville perché appartiene alla tradizione di questo sport, perché ci sono leggende e racconti dietro a questa gara, immagini e fotografie che hanno segnato un’epoca. Per la prima volta, qui a Leadville, ho sentito di correre non sui miei, ma sui passi di qualcun altro, di tutti quelli che per quarant’anni si sono trovati sotto a quella stessa linea di partenza, con le mie stesse preoccupazioni e i miei stessi pensieri. Uno su tutti: arriverò in fondo?
Ci sono sapori che restano attaccati alla pelle come un’abbronzatura che schiarisce con la prima doccia. Andrebbero scritti subito, con le gambe ancora dure e sporche di terra e gli occhi rossi e le lacrime secche sulle guance, ma poi arrivano il freddo e la stanchezza. Ho iniziato a scrivere queste parole tre settimane dopo la gara e sembrava passata già un’eternità. Le finisco ora, mesi più tardi. Riguardo le fotografie per ricostruire quell’atmosfera, indos-
so un cappellino da baseball e un paio di Levi’s sbiaditi, ma qui è tutto così diverso. Mi alzo dalla sedia della scrivania e vado in soggiorno a riempirmi la tazza di caffè. La fibbia è appoggiata a un blocco di porfido sopra alla libreria: io la guardo, lei mi guarda. È soltanto un pezzo di metallo ed è tutto quel che resta, e i chilometri fatti per andare a prenderla sono svaniti uno alla volta mentre li correvo.
Iniziare a scrivere è stato talmente difficile che a un certo punto è diventato essenziale. Ho letto, studiato, guardato e ascoltato ogni racconto su questa gara, e quando poi sono arrivato in città, mi è sembrato di essere nella storia di qualcun altro, anche se era la mia. Questa è una storia vera, dopotutto.
«Come sei arrivato all’idea di questo reportage?» mi chiede Meghan. Non so bene cosa rispondere, mi interessava. Forse per Sergio Leone, gli spaghetti e tutto il resto, forse perché dello sport in sé non mi interessa poi così tanto, ma delle storie che ci sono dietro sì. Mi sembrava soltanto una bella storia da raccontare.
LAST WORD
BY DAVIDE FIORASO PHOTO JEREMY BERNARD
“Le entità non dovrebbero essere moltiplicate oltre il necessario”. Si tratta di uno dei principi più conosciuti del teologo Guglielmo di Occam, il cui famoso “rasoio” concretizza l’idea che sia opportuno, dal punto di vista metodologico, eliminare nettamente le ipotesi più complicate. Il principio può essere formulato come segue: «a parità di fattori, la spiegazione più semplice è quella da preferire». In sostanza, ci ricorda di scegliere i modelli più semplici per qualsiasi fenomeno che possiamo osservare: dunque, se vedete delle luci che si muovono nel cielo di notte, pensate a entità esistenti e conosciute come aeroplani, satelliti o stelle caden-
ti prima di prendere in considerazione i dischi volanti.
Il pensiero di Occam è stato uno strumento di progresso scientifico oltre che principio ispiratore per i nostri pensieri fino a oggi, anche se il mondo moderno sembra aver perso di vista questo concetto elementare. Di moltissime cose non c’è nessun bisogno: di complicati regolamenti, di norme cervellotiche, di istruzioni inutili. Non c’è bisogno di un pulisci ananas, di un separa tuorli, di un affetta mele. Oltre all’accortezza di introdurre solo ciò che serve – e di realizzare bene ciò che si introduce - si possono però individuare alcune regole per la semplicità:
ordinamento, coerenza, regole costitutive. Evitare le ripetizioni. Se qualcosa è già stato detto o descritto è inutile dirlo o descriverlo di nuovo, conviene fare riferimento a quanto c’è già.
Arrivando ai giorni nostri, ci ha pensato John Maeda, autore del bestseller “Le leggi della semplicità”, a raggruppare in dieci principi gli elementi base per affrontare la quotidianità.
Come? Attraverso una riduzione ragionata, l’organizzazione, i risparmi di tempo. Ma anche la conoscenza, le emozioni, i fallimenti. La semplicità consiste nel sottrarre l’ovvio aggiungendo significato.
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