The Pill Patagonia Special Issue

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• PATAG O N I A I S S U E •

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A N N I

D I

B U S I N E S S

N O N

C O N V E N Z I O N A L E


Per sfatare l'idea che affari e tutela del pianeta siano agli antipodi Patagonia usa l'intera azienda come strumento per l'attivismo ambientale.


PHOTO BY KEN ETZEL


EDITO BY

DENIS PICCOLO

“I am exploring all possibilities and was wondering if you guys ever make a small edition of The Pill Magazine?” Tutto è nato da questa frase, inviatami qualche mese fa da Jelle Mull (Senior Marketing Manager di Patagonia Europa). Patagonia, da sempre, è un brand che stimiamo e da cui ci siamo sempre ispirati. Amiamo gli sport che si praticano in silenzio, lontano dalle folle, dove l'unico rumore è il nostro respiro ed il nostro palcoscenico è la natura. Dove non esistono separazioni artificiali e non esiste sfida se non la ricerca di noi stessi attraverso l'elemento primario che ci ha creati, la natura stessa. Per questo la amiamo e crediamo, esattamente come Patagonia, che la sua salvaguardia sia fondamentale per non perderci e forse, a volte anche necessaria per ritrovarci. È stato un onore ed un immenso piacere avere la possibilità di raccontare la storia, le attività e le sfide che questo brand costantemente combatte da anni per il nostro pianeta, che combatte per noi. Patagonia dona l'1% del fatturato in attività per la salvaguardia del nostro pianeta. E se noi facessimo lo stesso con il nostro tempo?

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PHOTO BY AUSTIN SIADAK


PHOTO BY DREW SMITH

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PATAGONIA ISSUE CONTENTS & CREW

EDITOR IN CHIEF

ECO SEVEN

P. 8

BEST MADE

P. 1 0

H I S T O R Y O F P A TA G O N I A

P. 1 2

PA TA G O N I A M I S S I O N

P. 2 4

RE A L IZ Z A R E IL P R O D OT TO M IGL IO R E

P. 2 6

MICRO PUFF

P. 2 8

THE FORGE

P. 3 0

NON PROVOCARE DANNI INUTILI

P. 3 4

THE STORY OF WORN WEAR

P. 3 6

E VA B O N K M E E T S W O R N W E A R

P. 4 0

L O O K I N G I N T O M AT E R I A L S

P. 4 2

Giulia Boccola Silvia Galliani

UTILIZ Z A R E IL BU SIN ESS P E R ISP IRA R E

P. 4 4

PHOTO SENIOR

1% FO R TH E P L A N E T

P. 4 6

IO NON H O PAU RA D E L LU P O

P. 5 0

Denis Piccolo | denis@hand-communication.com E D I TO R I A L C O O R D I N ATO R

Silvia Galliani | silvia@hand-communication.com E D I T I N G & T R A N S L AT I O N S

Silvia Galliani ART DIRECTION

George Boutall | george@evergreendesignhouse.com Francesca Pagliaro| francesca@evergreendesignhouse.com Diego Marmi| diego@evergreendesignhouse.com THEPILLMAGAZINE.COM

Thomas Monsorno Patte Schwienbacher Achille Mauri Matteo Pavana

S E LVA U R BA N A

P. 5 1

CIT TA D IN I P E R L ' A R IA

P. 5 2

DA M IA N O B E RTO LOT TI

P. 5 4

LUCA A L B R ISI

P. 6 0

GIA NPAO LO CO R O N A

P. 6 4

M AURO M A Z ZO

P. 6 8

ZOE H A RT

P. 7 2

Matteo Rossato Fabrizio Bertone Enrico Santillo Dario Toso

A LPINE GU ID ES

P. 7 6

C O M PA N Y E D I TO R

M OUNTA IN O F STO R M S

P. 7 8

NE VER TOWN

P. 8 0

Hand Communication Corso Francia 17, Torino hello@hand-communication.com

GREG LO N G

P. 8 2

COVER

PATAG O N IA STO R ES

P. 8 4

A LE X WE L L E R M IL A N CA M PA IGN

P. 9 2

L AST WO R D

P. 9 6

PHOTOGRAPHERS & FILMERS

Giulia Boccola, Davide Fioraso, Gianfranco Battaglia, Andrea Schilirò, Dino Bonelli, Matt Georges, Denis Piccolo C O L L A B O R ATO R S

Diego Marmi | Evergreen Design House PRINT

Grafiche Ambert Verolengo TO

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Profitti e tutela ambientale non sono necessariamente due concetti contrastanti. Fin dalla sua creazione Patagonia si impegna ad usare il business come strumento per trovare soluzioni alla crisi ecologica attraverso l’attivismo ambientale. Dall'apertura di un negozio di seconda mano di capi usati e rigenerati, ad una serata di surf e attivismo a BASE Milano, fino a una giornata dedicata all'avventura e all'attivismo, mentre il furgoncino Worn Wear girerà per tutta la città per riparare gratuitamente capi di qualunque marchio. Questi e molti altri ancora sono gli eventi organizzati a Milano dal 4 al 14 ottobre e dedicati al pubblico italiano.



ECO SEVEN B Y S I LV I A G A L L I A N I

P H O T O S B Y T I M D AV I E S , A N D R E W B U R R , A L M A C K I N N O N , B R YA N G R E G S O N

˜ FAIR TRADE CERTIFIED Il simbolo "Fair Trade Certified", garantisce che i soldi spesi per realizzare un oggetto vengano destinati direttamente ai produttori, restando quindi nella loro comunità. Patagonia, in collaborazione con Fair Trade USA, produce capi di abbigliamento che assicurano lo stesso vantaggio. Per ogni articolo Fair Trade Certified realizzato l’azienda assegna un bonus in denaro direttamente ai lavoratori degli stabilimenti che partecipano all'iniziativa e che decidono in seguito come spenderlo. Il programma promuove anche la salute e la sicurezza degli operai sul luogo di lavoro e la conformità delle aziende agli standard socio-ambientali, oltre ad incoraggiare il dialogo tra dipendenti e dirigenti.

BLUE HEART Il film documentario di Patagonia, Blue Heart, racconta la lotta per proteggere gli ultimi fiumi incontaminati d’Europa e concentra l’attenzione internazionale sul potenziale disastro ambientale che potrebbe colpire il continente. É stato pubblicato in tutto il mondo su iTunes e su altre piattaforme in streaming come fulcro della campagna Save the Blue Heart of Europe, che ha riscosso uno straordinario successo. Ad oggi, la petizione ha raccolto oltre 120.000 firme, consegnate alla sede londinese della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo per proteggere gli ultimi fiumi incontaminati d’Europa da numerosi progetti relativi alle dighe.

R E G E N E R AT I V E O R G A N I C A G R I C U LT U R E Presto Patagonia creerà la Regenerative Organic Certification per stabilire un nuovo, alto livello per l'agricoltura biologica rigenerativa. L'agricoltura convenzionale sta infatti danneggiando il pianeta, esponendo le persone a sostanze chimiche tossiche e causando sofferenze inutili agli animali che sostengono il sistema. La certificazione ha come obiettivo aprire la strada a un futuro agricolo incentrato sull'arricchimentodel suolo, valorizzando persone e animali. Non mira a soppiantare gli standard biologici esistenti, ma fornisce invece una guida dettagliata su come i produttori possano stabilire e attuare un quadro organico rigenerativo che costruisca la salute del suolo.

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P I U M A R I C I C L ATA La piuma riciclata è un mix di piuma d'oca e anatra 600-fill-power rigenerata, ricavata da capi usati che non possono più essere rivenduti. É ipoallergenica ed in grado di offrire gli stessi vantaggi di performance della piuma vergine. Le aziende partner che raccolgono e lavorano la piuma riciclata sono a conduzione familiare e condividono gli stessi valori di qualità e performance senza compromessi di Patagonia. La domanda di piuma riciclata di alta qualità sta crescendo e si auspica che ciò dia un impulso sensibile al riciclo della piuma, prelevando parte di essa dalla raccolta dei rifiuti contribuendo così a sviluppare e ad aggiungere valore al flusso del riciclo.

COTONE ORGANICO Il cotone coltivato in modo tradizionale utilizza l’impiego estensivo ed intensivo di fertilizzanti sintetici, additivi e altri composti che arrecano un danno enorme a suolo, acqua, aria e ad innumerevoli esseri viventi. Alternativa però esiste ed è il cotone organico, coltivato senza l'impiego di sostanze chimiche dannose. Il raccolto è abbondante e la qualità del cotone ottenuto è uguale o superiore a quella del cotone coltivato in modo tradizionale. I metodi impiegati nell'agricoltura di tipo organico supportano la biodiversità ed ecosistemi salubri, migliorano la qualità del terreno e spesso impiegano minori quantitativi d’acqua.

YULEX L'azienda Yulex ha sviluppato un materiale rinnovabile e a base vegetale che sostituisce il neoprene, l'elemento più nocivo delle mute tradizionali dal punto di vista ambientale. La pianta di Hevea, la principale fonte mondiale di gomma naturale, viene coltivata in piantagioni certificate dal Forest Stewardship Council e offre migliori performance rispetto al neoprene. In più non contribuisce alla deforestazione e si conferma più resistente e flessibile dei suoi equivalenti sintetici. Questo ha permesso a Patagonia di presentare le prime e uniche mute al mondo realizzate senza neoprene, che impiegano gomma naturale proveniente da fonti certificate da Rainforest Alliance.

ASSOCIAZIONI NO PROFIT Patagonia devolve l’1% del ricavato dei propri profitti in Europa a gruppi di attivisti che lottano per la tutela dell’ambiente. Ad oggi, il brand di Ventura, California, sostiene finanziariamente oltre 50 associazioni in tutta Europa, di cui 10 solo in Italia. Più di 90 milioni di dollari in contanti e in donazioni in natura sono stati destinati a gruppi di attivisti a sostegno dell’ecologia che lavorano per fare la differenza nelle rispettive comunità locali. In un mondo e in un periodo storico dove i soldi la fanno da padrone su tutto, queste iniziative possono fare la differenza e fare da traino per molte altre realtà simili.

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BEST MADE B Y S I LV I A G A L L I A N I

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1.POWDER BOWL JACKET

2 . D E S C E N S I O N I ST PAC K

3 . P OW D E R B OW L PA N T S

Realizzata con una superficie esterna in tessuto Gore-Tex di 100% poliestere riciclato, la Powder Bowl Jacket offre una resistente e una protezione impermeabile, traspirante e anti-vento di lunga durata a sciatrici e snowboarder che vivono la montagna a 360 gradi. Con una vestibilità ottimizzata ed una linea pulita ed essenziale, questa giacca è resistente ma caratterizzata da un design pensato per la massima mobilità.

Variante per lo sci e lo snowboard dell’Ascensionist Pack per l'alpinismo, questo zaino tecnico per esplorare il backcountry è stato realizzato per risultare leggero in fase di salita. È dotato di tutte le caratteristiche per trasportare le attrezzature di sicurezza da usare sulla neve durante le discese. Realizzato in nylon Cordura per un’ottimale resistenza a forature e abrasioni, l'inserto posteriore agevola il trasporto di carichi pesanti ma può essere rimosso per viaggi più leggeri.

Pantaloni realizzati in resistente tessuto Gore-Tex a 2 strati in poliestere riciclato per offrire protezione impermeabile, traspirante e anti-vento di lunga durata mentre la liscia fodera in rete con performance traspirante dona calore. Il passante posteriore sul carré fissa saldamente il pantalone al gonnellino anti-neve di qualsiasi giacca della linea Patagonia Snow. Le zip sono a prova d’acqua e dotate di struttura ultra-piatta per ridurre volume e peso.

4.MICRO PUFF HOODY

5 . G A LVA N I Z E D PA N T S

6 .T R I O L E T J A C K E T

Micro Puff Hoody offre un intenso livello di calore, simile a quello della piuma, racchiuso in un capo ultra-leggero e resistente all’acqua. La rivoluzionaria imbottitura PlumaFill replica la struttura della piuma grazie ad un innovativo materiale isolante sintetico in grado di offrire lo stesso calore e la stessa comprimibilità, ma con in più la capacità di restare caldo anche se bagnato tipica dell'isolamento sintetico.

I tecnici e dinamici Galvanized Pants sono elasticizzati, traspiranti e pronti a proteggere dalle condizioni meteo più avverse: dedicati agli esploratori dei terreni alpinistici più impegnativi. Il tessuto è elasticizzato a 3 strati, in poliestere ed elastan, per una completa libertà di movimento ed eccellente protezione impermeabile. La struttura del capo articolata e minimalista si unisce al tessuto elasticizzato per incrementare la gamma dei movimenti.

Il capo d'elite per qualsiasi attività alpinistica, la Triolet Jacket ottimizza il tessuto Gore-Tex impermeabile e traspirante a 3 strati con una superficie esterna in tessuto riciclato, in una giacca ricca di accessori per offrire performance all'insegna della versatilità quando neve, vento e pioggia non danno tregua. Le tasche scaldamani rinforzate non interferiscono con l'imbracatura o con la cintura ventrale dello zaino.

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BEST MADE B Y S I LV I A G A L L I A N I

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7. C L A S S I C R E T R O - X FLEECE JACKET

8.BLACK HOLE DUFFEL BAG

9.PERFORMANCE BETTER SW E AT E R F L E EC E JAC K E T

Anti-vento, calda e con una linea tutta al femminile, la Retro-X Jacket è realizzata in 100% poliestere riciclato al 50%. La membrana anti-vento è inserita tra la superficie esterna in pile riciclato al 50% e la traspirante fodera in rete di poliestere spazzolato. Presenta inoltre una zip integrale centro-frontale con flap interno anti-vento, una tasca verticale sul petto dotata di zip e realizzata in nylon e due tasche scaldamani con zip e foderate in rete di poliestere spazzolato.

Il Black Hole Duffel Bag consente di organizzare al meglio le attrezzature e offre la giusta quantità di spazio per un weekend avventuroso o per un viaggio più lungo. Ha un’ampia apertura per accedere allo scomparto principale, una tasca laterale con zip e delle tasche in rete sotto il risvolto di chiusura. È realizzato in esistente poliestere ripstop con lamina in TPU con trattamento altamente idrorepellente e a lunga durata.

Dotata di certificazione Fair Trade Certified per la realizzazione delle cuciture, questa giacca ad alta performance in pile di poliestere offre la giusta combinazione tra calore all'insegna della leggerezza e versatile elasticità per libertà di movimento in ogni contesto. La sezione del busto è realizzata in pile di 100% poliestere, con esterno lavorato a maglia e interno in pile mentre gli inserti laterali sono in elastan e poliestere Polartec Power Stretch lavorato come jersey.

1 0 . R 2 Y U L E X F R O N T- Z I P FULL SUIT

11.STORMFRONT PAC K

12. MIDDLE FORK PAC K A B L E WA D E R S

Un capo ad alta performance, privo di neoprene e facile da infilare, la R2 Yulex Front-Zip Full Suit è realizzata in 85% bio gomma Yulex e 15% gomma sintetica a contenuto polimerico. La gomma naturale proviene da fonti Forest Stewardship Council certificate da Rainforest Alliance. La fodera in 100% jersey di poliestere riciclato elasticizzato impiegata per braccia e gambe incrementa la flessibilità del capo e migliora i tempi di asciugatura. Temperatura ideale di utilizzo: 13-16° C.

Il più alto livello di protezione impermeabile offerto nella linea di zaini Patagonia. 100% impermeabile e immergibile in acqua, con una robusta chiusura Tizip per un rapido accesso al capiente scomparto principale e spallacci ergonomici imbottiti a basso profilo e completamente regolabili per trasportare le attrezzature in modo affidabile, tenendole protette e asciutte. Ha un porta-attrezzature laterali per assicurare il materiale in modo semplice e senza rischio di foratura del tessuto.

I waders più leggeri, comprimibili e dalle migliori performance reperibili sul mercato sono caratterizzati dai calzari con esclusiva tecnologia priva di cuciture. Vantano un tessuto impermeabile e traspirante leggero ma resistente e si ripiegano all'interno della propria compatta sacca da trasporto, con dimensioni e peso ideali per qualsiasi tipo di viaggio. La struttura con cucitura singola offre una maggiore resistenza e il cavallo rinforzato dona libertà di movimento.

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History of History of Patagonia Patagonia


PHOTO FROM PATAGONIA ARCHIVES


Avete mai pensato, non solo per quel che riguarda un aeroplano, ma per tutto ciò che l’uomo costruisce, che tutti gli sforzi industriali dell’uomo, tutti i suoi conti e calcoli, tutte le notti passate a lavorare a disegni e cianografie, culminano invariabilmente nella produzione di oggetti il cui unico principio guida è, in definitiva, un principio di semplicità?

Antoine de Saint Exupéry

Y

von Chouinard, fondatore di Patagonia, iniziò a scalare nel 1953 quando aveva quattordici anni, come membro del Southern California Falconry Club, che addestrava falchi per la caccia. Nel Club veniva insegnato ai ragazzi a calarsi in corda doppia dai dirupi per raggiungere i nidi degli uccelli. Yvon e i suoi amici divennero talmente appassionati di questo sport che iniziarono a viaggiare sui treni merci fino al limite occidentale della San Fernando Valley per provare la discesa sulle pareti di sandstone dello Stony Point.

stò una fucina a carbone di seconda mano, un’incudine e alcune molle e martelli ed iniziò ad imparare il mestiere del fabbro. Ben presto, la voce si sparse e tutti i suoi amici vollero i chiodi di acciaio al cromo-molibdeno che produceva. Prima che se ne rendesse conto, era diventato un business. Riusciva a fabbricare due chiodi in un’ora e cominciò a venderli ad un dollaro e cinquanta l’uno. Si costruì un piccolo negozio nel retro del cortile dei suoi genitori e visto che la maggior parte dei suoi attrezzi si poteva trasportare, periodicamente caricava tutto sulla sua macchina e andava su e giù per la costa della California da Big Sur a San Diego.

Fu lì che impararono a salire e scendere dalle pareti. Chouinard cominciò quindi ad arrampicare ogni weekend, in autunno ed in primavera. Incontrò così alcuni giovani alpinisti con cui diventò amico e si spostò verso lo Yosemite, dove erano state scalate solo poche delle grandi pareti.

Surfava, poi portava l’incudine in spiaggia e si metteva a modellare i chiodi a freddo con scalpello e martello prima di spostarsi in un’altra spiaggia per riprendere a surfare. Tirava avanti vendendo la sua attrezzatura home made ma i guadagni erano decisamente scarsi. Col tempo, la richiesta dell'attrezzatura di Chouinard aumentò talmente tanto che non riuscì più a fabbricarla a mano, cominciò ad utilizzare strumenti più sofisticati, stampi e macchinari. Nel 1965, si mise in società con Tom Frost, un ingegnere aeronautico e alpinista che aveva uno spiccato senso per il design e l’estetica.

Nello Yosemite, Chouinard e i suoi amici erano soprannominati i Valley Cong ed erano particolarmente orgogliosi di essere dei ribelli in quanto scalare rocce o cascate di ghiaccio non avesse alcun valore economico per la società. Gli unici chiodi disponibili all’epoca però erano di ferro morbido, fatti per essere utilizzati una sola volta per poi essere lasciati nella roccia. Le grandi pareti dello Yosemite, con ascensioni che potevano durare anche più giorni, richiedevano tuttavia l'inserimento di centinaia di chiodi. Yvon Chouinard decise quindi di creare la sua personale attrezzatura.

Durante i nove anni in cui i Frost e Chouinard furono in società, ridisegnarono e migliorarono quasi tutti gli attrezzi da arrampicata, rendendo ognuno di essi più resistente, più leggero, più semplice e più funzionale. Ritornavano da ogni viaggio in montagna con nuove idee per migliorare gli strumenti esistenti.

Nel 1957 andò nel deposito di un rigattiere e acqui-

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PHOTO BY GLEN DENNY

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Nel 1970 la Chouinard Equipment era il maggior fornitore di attrezzatura per arrampicata e alpinismo degli Stati Uniti.

Nel giro di pochi mesi dalla distribuzione del catalogo, il commercio dei chiodi si era esaurito e i dadi si vendevano ad un ritmo superiore a quello di fabbricazione. Nelle baracche di lamiera della Chouinard Equipment, il ritmo ossessivo del martello lasciò il posto allo stridio acuto della perforatrice multipla.Un altro passo importante si ebbe verso la fine degli anni ’70.

Stava però anche diventando un cattivo esempio ambientalista perché i suoi materiali danneggiavano progressivamente la roccia. La popolarità dell’arrampicata stava crescendo ma tuttavia l’interesse rimaneva sempre focalizzato sulle stesse vie percorse da tutti e sulle stesse zone principali, ed il continuo piantare ed estrarre chiodi di acciaio duro, sempre nelle stesse fragili fenditure, stava danneggiando seriamente le pareti.

Durante tutto il decennio precedente, il cosiddetto “abbigliamento sportivo” e per arrampicare consisteva in una maglietta e in un paio di pantaloni dai colori neutri, spesso acquistati in un negozio di seconda mano.

A quel punto Chouinard e Frost decisero di fermare gradualmente il commercio dei chiodi. Fu questo il primo grande passo in campo ambientalista, il primo di tutti quelli che avrebbero intrapreso nel corso degli anni. Gli affari erano a rischio perché i chiodi erano il fulcro del loro business, ma era un passo che doveva essere fatto.

Durante un tour d’arrampicata invernale in Scozia, nel 1970, Chouinard comprò una maglia regolamentare di una squadra di rugby, pensando che fosse perfetta da indossare per scalare. Essendo rinforzata per resistere agli impatti del rugby, aveva un collare che impediva che le corde dell'equipaggiamento, sfregandosi, ferissero il collo. Era blu con due strisce rosse e una gialla sul petto. Una volta tornato negli Stati Uniti la indossò per andare ad arrampicare e tutti i suoi amici gli chiesero dove potevano trovarne una simile.

Fortunatamente, esisteva un’alternativa ai chiodi: dei dadi in alluminio che potevano essere incastrati e rimossi a mano dalle fessure, anziché venir piantati con il martello. Furono introdotti nel primo catalogo della Chouinard Equipment del 1972.

La Chouinard Equipment iniziò quindi ad importare queste maglie da Umbro, in Inghilterra, e, visto il successo, successivamente anche dalla Nuova Zelanda e dall’Argentina. Altre aziende fecero lo stesso e presto saltò agli occhi di tutti il fatto che era stata lanciata una nuova vera e propria tendenza negli Stati Uniti.

Il catalogo iniziava con un editoriale sui pericoli ambientali prodotti dai chiodi. Un saggio di quattordici pagine scritto da un alpinista della Sierra, Doug Robinson.

“C’è un solo aggettivo adatto ed è pulito” scriveva Robinson. “Arrampicare solo con dadi e punti di assicurazione intermedia come protezione è un modo pulito di arrampicare. Pulito perché la roccia rimane inalterata al passaggio dell’alpinista. Pulito perché niente viene piantato nella roccia e niente deve poi esserne estratto, lasciando cicatrici nella parete e rendendo meno naturale l’esperienza degli alpinisti che verranno dopo”.

Nel momento in cui iniziarono a produrre sempre più abbigliamento nacque l’esigenza di trovare un nome per questa nuova azienda.

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Patagonia.

Come la regione che aveva appena visitato.

Non si scelse di nuovo il nome “Chouinard” perché non si voleva mescolare l’immagine della Chouinard Equipment come azienda che produceva attrezzatura per l'arrampicata a quella di una linea di abbigliamento che avesse lo stesso marchio. L’idea era che l’abbigliamento non rimanesse associato esclusivamente all’arrampicata. Yvon Chounaird, che in quegli anni aveva appena portato a termine l’impresa di scalare con i suoi amici il Cerro Fitz Roy, ebbe l’ispirazione nel 1973 per il nome della sua nuova linea di abbigliamento.

nuovo underwear come base di partenza, Patagonia diventò la prima azienda ad insegnare alla comunità outdoor il principio dell’abbigliamento a strati. Questo approccio consisteva nell’indossare uno strato interno a contatto con la pelle, per assorbire il sudore, uno strato intermedio di pile per l’isolamento termico e uno strato esterno per proteggersi da vento e umidità. Ma anche il polipropilene, come il pile, aveva i suoi problemi. Aveva una resistenza molto bassa alle alte temperature e i clienti finivano letteralmente con il fondere il loro underwear nelle asciugatrici delle lavanderie pubbliche, che generalmente hanno temperature molto più elevate di quelle domestiche. Inoltre, il polipropilene è idrorepellente e non assorbe l’acqua, per cui era difficile che il capo venisse perfettamente pulito e fosse privo di odori.

Patagonia. Come la regione che aveva appena visitato.

Per la maggior parte della gente Patagonia era un nome esotico e sconosciuto. Evocava nelle persone visioni romantiche di ghiacciai, fiordi e vette solitarie. In più aveva la particolarità di essere pronunciato allo stesso modo in tutte le lingue.

Il miglioramento del pile fu un processo graduale. La collaborazione con la Malden Mills portò a sviluppare il Synchilla, un tessuto molto più morbido da entrambi i lati e che non si infeltriva. Ma, se da un lato, le maggiori possibilità economiche del Malden Mills resero possibili molte innovazioni, dall'altro, il tessuto non sarebbe mai stato migliorato se non si fosse attivato un vero processo di ricerca e sviluppo. Da allora Patagonia iniziò ad investire in modo significativo nei dipartimenti e laboratori per la ricerca e il design. Ma il tessuto che sostituì il polipropilene fu una scoperta improvvisa e non arrivò dalla collaborazione con la loro fabbrica.

Negli anni in cui l’intera comunità degli appassionati di montagna si affidava ai tradizionali strati di cotone, lana e piume, la neonata Patagonia cercò altrove l'ispirazione e nuovi modi per proteggersi. La maglia sintetica di pile, sarebbe stato un capo ideale per la montagna, perché isolava bene dal punto di vista termico senza assorbire l’umidità. Ma il tessuto necessario a mettere alla prova l’idea non fu facile da trovare. Alla fine, Malinda Chouinard, moglie di Yvon, ebbe l’intuizione di recarsi al Merchandise Mart a Los Angeles. Trovò quello che cercava nella fabbrica Malden Mills, da poco reduce da una bancarotta in seguito al crollo del mercato delle pellicce ecologiche. Le maglie fabbricate però presentavano un paio di difetti: si sformavano, erano ingombranti e si deterioravano velocemente. Il tessuto in poliestere era però sorprendentemente caldo, in particolare se utilizzato in combinazione con uno strato esterno.

Nel 1984, mentre stava visitando una fiera di articoli sportivi a Chicago, Chouinard si trovò ad assistere ad una dimostrazione di pulitura di alcune maglie di poliestere per il football macchiate d’erba. La ditta che produceva le maglie da football, la Milliken, aveva sviluppato un procedimento che fissava permanentemente la superficie della fibra in modo da renderla idrofila. Il procedimento di impressione rendeva la fibra traspirante al massimo e il trattamento era permanente. Chouinard pensò che questo fosse il tessuto perfetto per l'underwear. Inoltre, il poliestere aveva una temperatura di fusione molto più alta del propilene e quindi non ci sarebbero stati problemi con le asciugatrici.

Nel 1980, venne creato un underwear isolante in polipropilene, una fibra sintetica molto leggera che non assorbe l’acqua. Sfruttando le qualità di questo

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PHOTO BY CHOONGOK SUNWOO

PHOTO FROM PATAGONIA ARCHIVES

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Nell'autunno del 1985 l’intera linea di biancheria fu convertita nel nuovo poliestere Capilene. Fu un grosso rischio, simile a quello dell'introduzione dei dadi in alluminio nel 1972. Nei i primi anni '80, però, ci fu un altro importante cambiamento.

per lo smog, la scomparsa della vita lungo le zone costiere, l'assottigliamento delle foreste di alghe e la dilagante urbanizzazione che invadeva il territorio lungo la costa. In aggiunta al global warming, al disboscamento in atto nelle foreste tropicali, al rapido impoverimento del terreno e all’esaurirsi delle falde acquifere. Tutto ciò trovava conferma nelle numerose spedizioni che Patagonia organizzava. Ma ci si rese anche conto che le battaglie combattute dal più piccolo gruppo di persone per salvare gli habitat naturali potevano fortunatamente produrre risultati enormi e significativi.

In un’epoca in cui tutti i capi da outdoor erano marroni, verde scuro o, proprio a volersi sbizzarrire, color ruggine, la linea Patagonia venne rivisitata e proposta nei colori più accesi. L’abbigliamento pur mantenendo la sua resistenza, passò da un'apparenza tutto sommato anonima ad un aspetto che di sicuro non passava inosservato. La rapida crescita di Patagonia tuttavia si arrestò nell'estate del 1991, quando le vendite crollarono durante la recessione. Le spese vennero ridotte, licenziando il 20% della forza lavoro. Questa fu una lezione per il brand che da quel momento si impegnò a mantenere un ritmo di crescita molto più contenuto.

La prima lezione arrivò proprio in California, all’inizio degli anni ‘70, ad un consiglio cittadino per aiutare a proteggere uno dei migliori spot surfistici della zona. Lì erano state costruite due dighe e il corso del fiume deviato. Se non si prendevano in considerazione le precipitazioni invernali, l’unica acqua che fluiva nella foce era quella di scolo dell’impianto di depurazione. Durante il consiglio, diversi esperti attestarono che il fiume era morto.

Nonostante lo shock del 1991 i valori culturali dell’azienda rimasero saldi. Il brand promuoveva gite per sciare ed arrampicare ed un numero ancora maggiore di viaggi era organizzato in modo informale da gruppi di amici che guidavano fino alla Sierra il venerdì sera e ritornavano a casa, sfiniti ma felici, in tempo per andare al lavoro il lunedì mattina.

A quel punto, Mark Capelli, un giovane studente di biologia di 25 anni, mostrò una serie di fotografie scattate lungo il fiume, nelle quali si vedevano gli uccelli che nidificavano sui salici, i topi muschiati, i serpenti d’acqua e le anguille che deponevano le uova lungo l’estuario. Mostrò perfino la foto di una trota iridea intenta a deporre le uova. Il fiume era tutt’altro che morto.

Non c'erano uffici privati, cosa che serviva a migliorare la comunicazione ma c’era una caffetteria dove i dipendenti potevano riunirsi durante il giorno ed un asilo nido di sede. La vicinanza dei bambini, che potevano giocare nel cortile e pranzare con i loro genitori nella mensa, aiutava a mantenere un'atmosfera molto più familiare che lavorativa. Non una cultura d'impresa quindi che con i suoi pregiudizi tradizionali inibisse la creatività. Ma semplicemente un impegno alla fedeltà della propria tradizione. Patagonia era ancora un'azienda relativamente piccola quando iniziò ad assumere un impegno finanziario e di intenti verso la crescente crisi ambientale. L'inquinamento strisciante di acqua e aria, la deforestazione, la lenta scomparsa dei pesci e della fauna selvatica. Ma anche le sequoie millenarie che soccombevano

Il piano di ampliamento venne bocciato. Patagonia diede a Mark un posto in ufficio, con una casella di posta ed un piccolo contributo per aiutarlo nella sua battaglia per il fiume. L’insegnamento di Mark fu fondamentale: un intervento da parte della popolazione può fare la differenza e un habitat naturale danneggiato può, seppur faticosamente, essere ripristinato. Fu di ispirazione. Patagonia cominciò quindi a fare regolari donazioni a piccoli gruppi che lavoravano per il recupero di aree degradate, anziché dare soldi alle grandi ONG con un sacco di personale, di spese e di vincoli.

L’insegnamento di Mark fu fondamentale: un intervento da parte della popolazione può fare la differenza e un habitat naturale danneggiato può, seppur faticosamente, essere ripristinato.

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PHOTO BY BERNIE BAKER

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Nel 1986 si impegnò a devolvere il 10% dei profitti annui a questi gruppi, per poi aumentare la quota all’1% delle vendite o al 10% del profitto lordo, a seconda di quale fosse il maggiore. E questo impegno è stato sempre mantenuto nel corso degli anni.

mercio per essere acquistato. Andarono così direttamente da quei pochi agricoltori che erano tornati alla coltivazione biologica ma alla fine fu un successo. Nel 1996 ogni capo Patagonia in cotone era realizzato con cotone organico e lo è ancora oggi.

Nel 1988 nacque la prima campagna ambientale nazionale, sostenendo un piano alternativo per la deurbanizzazione della Yosemite Valley. Da quel momento in poi, ogni anno, Patagonia sostiene una grande campagna di educazione su un particolare tema ambientale, prendendo anche posizione contro la globalizzazione del commercio nel caso vada a compromettere gli standard ambientali e di lavoro. Ogni diciotto mesi viene tuttora organizzato un convegno per gli attivisti "Tools for Activists" per insegnare le tecniche pubblicitarie e di marketing ad alcuni dei gruppi con cui lavorano. Nell'autunno del 1994 Patagonia prese inoltre la decisione che tutti i loro capi di cotone sarebbero stati realizzati al 100% in cotone organico entro il 1996. C’erano solo 18 mesi per convertire ben 66 prodotti in cotone organico e solo 4 mesi per produrre il tessuto. Semplicemente non c'era abbastanza cotone organico disponibile in com-

Nel corso degli anni il brand ha continuato a cercare materiali rispettosi dell'ambiente. Tutta la loro linea di abbigliamento è al momento potenzialmente riciclabile. Ed in futuro, i loro clienti potranno inviare i propri giubbotti di poliestere che saranno riciclati e trasformati in una nuova fibra che servirà per produrre nuovi capi. Le innovazioni più importanti sono avvenute negli ultimi cinque anni. I tessuti sono davvero migliorati molto, ci sono stati certo anche molti errori, ma non è mai stata persa di vista la strada. Non si è ancora smesso di arrampicare e di fare surf, attività che comportano rischi, che impegnano l'anima e che invitano a riflettere. Ancora oggi, Patagonia si impegna a seguire quella direttiva che Antoine de Saint Exupéry chiamava minimalista.

“ In qualunque cosa,

la perfezione non si ottiene quando non c’è più nulla da aggiungere, bensì quando non c’è più nulla da togliere, quando un corpo è riportato alla sua essenziale nudità.

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PHOTOS BY TIM DAVIS

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PHOTOS BY TIM DAVIS

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Patagonia Mission U

n brand nato nel 1973 da una piccola azienda che produceva attrezzature da arrampicata. E l’alpinismo è sempre nel cuore di Patagonia, anche ora che il brand ha raggiunto dimensioni internazionali. Tuttora si continuano a produrre capi di abbigliamento per la montagna, oltre che per lo sci, lo snowboard, il surf, la pesca a mosca, la canoa ed il trail running. Sport che si praticano in silenzio. Nessuno di essi richiede l'uso di motori o il chiassoso entusiasmo di un pubblico. In ogni sport, la ricompensa arriva sotto forma di grazia e bellezza conquistate con dura fatica e attraverso momenti di intima connessione con la natura ed il nostro essere più profondo. Patagonia è nata dall’amore del climber e surfer Yvon Chouinard per i luoghi meravigliosi e incontaminati del nostro pianeta, amore che si è tradotto in un'attiva partecipazione alla lotta per la loro salvaguardia e per cercare di invertire il precipitoso declino della salute dell'ambiente a livello globale. Patagonia si impegna ogni giorno per tentare di ridurre questi danni. L’impegno alla trasparenza e all'uguaglianza è forte e ha come scopo finale quello di prendere decisioni equilibrate che non siano solo favorevoli per se stesse ma anche per il pianeta. Un imprinting arrivato direttamente dal suo fondatore che si è tradotto nell’impegno del brand nei confronti dell’ambiente e della sostenibilità.

Questo approccio funziona perché gli sforzi ambientali dell’azienda sono effettivi e reali, e il brand ha la reputazione necessaria per dimostrare la propria autenticità.

Realizzare il prodotto migliore, non provocare danni inutili, utilizzare il business per ispirare e implementare soluzioni per la crisi ambientale.

Patagonia ha infatti scelto di devolvere il proprio tempo, i propri servizi e almeno l'1% delle proprie vendite a centinaia di gruppi ambientalisti in tutto il mondo che lavorano concretamente per fare la differenza.

Questa la mission di Patagonia.

Infatti per molti loro capi di abbigliamento hanno scelto di utilizzare poliestere riciclato e solo cotone organico invece del cotone coltivato con un uso massiccio di pesticidi. Anche l’approccio di Patagonia al design dei propri prodotti dimostra una netta inclinazione per la semplicità e la funzionalità. L’identità del brand è diventata dunque importante al pari del prodotto, e lo strumento privilegiato per veicolarla è stato costruire un forte immaginario inclusivo e non esclusivo, nel senso negativo del termine.

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Realizzare il prodotto migliore. Una delle cose migliori che possiamo fare per il pianeta è mantenere la nostra attrezzatura in uso più a lungo e ridurre i consumi.

rispetto alle controparti convenzionali o non riciclate. L’etica del costruire il miglior prodotto passa attraverso tutto ciò che il brand fa, non solo l'attrezzatura che vende. Un business globale che è inciso in ogni parte della cultura aziendale, dai negozi agli uffici di tutto il mondo fino al modo in cui si prendono cura dei dipendenti e delle loro famiglie. Il team manageriale di Patagonia ritiene che i figli dei dipendenti e quelli che passano attraverso il sistema di assistenza all'infanzia dell’azienda, una futura generazione di individui impegnati a livello ambientale, siano il prodotto migliore che producano.

Per questo motivo, Patagonia costruisce prodotti duraturi che non devono essere sostituiti spesso. Durando più a lungo, il loro impatto ambientale viene distribuito su un periodo di tempo più esteso. Il reparto Ricerca e Sviluppo di Patagonia è costantemente al lavoro per migliorare e innovare i materiali utilizzati in modo da garantire che l'azienda stia davvero realizzando i prodotti più resistenti, duraturi e migliori della sua categoria, che possano essere facilmente riparati. Dove possibile, vengono utilizzate materie prime che causano meno danni ambientali

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PHOTO BY FREDRIK MARMSATER


Un unico capo imbottito per fare tutto, quando lo spazio nel tuo zaino è fondamentale e quando la temperatura varia inevitabilmente. Dopo anni di ricerca l’azienda ha presentato la giacca imbottita piĂš leggera e comprimibile mai creata.

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Micro Puff N

on è una novità dei tempi moderni il fatto che l’uomo abbia sempre cercato degli indumenti protettivi, quasi una sorta di armatura, contro l’avversità degli elementi.

Anche al giorno d’oggi, forti di tutta la ricerca tecnologica attuale, si tenta sempre di produrre qualcosa di più forte, più caldo, più resistente alle forze esterne, oppure più leggero e più idoneo ad adattarsi alle varie situazioni. Patagonia ha cercato di venire incontro a questa esigenza con la collezione Micro Puff. Un unico capo imbottito per fare tutto, quando lo spazio nel tuo zaino è fondamentale e quando la temperatura varia inevitabilmente. Dopo anni di ricerca l’azienda ha presentato la giacca imbottita più leggera e comprimibile mai creata. Realizzata combinando le migliori proprietà della piuma e dell'imbottitura sintetica in un tessuto ultraleggero, il risultato ottenuto è un perfetto equilibrio tra calore, peso e comprimibilità grazie all’utilizzo di PlumaFill, un isolamento sintetico innovativo, combinato con una tecnica che impedisce all'imbottitura di compattarsi o di spostarsi. I fili in fibra sintetica sono progettati per imitare le piume ma con una differenza sostanziale, quando è bagnata, PlumaFill è in grado di mantenere il calore. I tessuti sintetici, infatti, non riescono a raggiungere lo stesso calore e comprimibilità offerto dall’imbottitura in piuma. L’imbottitura sintetica PlumaFill, invece, dotata di una struttura stabilizzante unica, grazie agli strati di filamenti ultrasottili che intrappolano il calore, offrono in questo modo lo stesso calore e la stessa comprimibilità della piuma, unite alle prestazioni dell'imbottitura sintetica in grado di mantenere il calore anche se bagnata. Abbinata al tessuto in nylon ultraleggero Pertex Quantum GL, PlumaFill è altamente comprimibile e al tocco rimane soffice come la piuma. Per stabilizzare l'imbottitura ed evitare che si sposti o si compatti, Patagonia ha lavorato nel proprio laboratorio di ricerca e sviluppo The Forge su innumerevoli materiali per trovare una soluzione unica che stabilizzasse l’imbottitura. Il brand ha infine sviluppato un modello con cuciture discontinue e deviate, per diminuire il numero di punti di cucitura e raggiungere aree più grandi, riducendo il peso complessivo della giacca ed evitando infiltrazioni di freddo.

Grazie alla lavorazione trapuntata che presenta meno tasselli, ma di dimensioni maggiori, il calore è in grado di muoversi più liberamente all'interno della giacca, offrendo così un calore uniforme. Questo fa si che la maggior parte delle persone che prova una di queste giacche per la prima volta creda davvero che si tratti di piuma, non di imbottitura sintetica.

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* Non portare nulla con te. Patagonia ha lavorato nel proprio laboratorio di ricerca e sviluppo The Forge su innumerevoli materiali per trovare una soluzione unica che stabilizzasse l’imbottitura.


The Forge Chi ama la montagna lo sa. Quando il sole sparisce oltre la linea frastagliata delle cime, la temperatura può scendere molto velocemente. Quello è il momento in cui si cerca di coprirsi il più possibile, chiudendo la cerniera, stringendosi nel proprio parka e tirando su il cappuccio come se fosse una difesa contro il vento. L’isolamento è fondamentale.

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The Forge funge da banco di prova in tempo reale per la missione di Patagonia: realizzare il prodotto migliore, non provocare danni inutili, utilizzare il business per ispirare e implementare soluzioni per la crisi ambientale.

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uello che non tutti sanno è che per arrivare a rendere una giacca il rifugio sicuro durante questi momenti ci sono decine di dettagli che si devono combinare e lavorare nel modo corretto. Ci sono voluti esplorazioni, studi e sforzi di una moltitudine di menti ed energie. Tutti i dettagli del parka sono iniziati come domande a cui è stato necessario dare delle risposte per creare uno strumento che funzioni esattamente come e quando dovrebbe. Questo pensiero, giustamente, non attraversa generalmente la mente delle persone. L’importante è che lo scopo finale, l’isolamento in questo specifico caso, funzioni. Costruire qualsiasi prodotto da zero è molto complicato e richiede un numero sorprendente di persone. La collaborazione fra i vari aspetti di un processo lavorativo è fondamentale per il successo. In realtà, lo sforzo e l'esperienza combinati è ciò che consente a chiunque di fare qualsiasi cosa. Tale soluzione pratica dei problemi è sempre stata al centro del lavoro di Patagonia, che realizza il suo design “a casa” come all’inizio della sua storia. In un piccolo capannone che fungeva da fucina, il fondatore del brand Yvon Chouinard e un paio di suoi amici e compagni alpinisti, martellavano i loro chiodi d'acciaio per prepararsi alle loro avventure pionieristiche sulle pareti di granito dello Yosemite. La regola fondamentale era e rimane tutt’oggi una sola: Fallo in modo corretto. Fallo funzionare. Fallo durare. Oggi, in Patagonia si realizzano progetti futuristici nel centro di ricerca e sviluppo avanzato chiamato The Forge, in omaggio al negozio di ferramenta originale che si trova nella sede principale del quartier

generale dell’azienda a Ventura, in California. The Forge, il centro di innovazione del prodotto, permette al team di ingegneri e designers di avere lo spazio ed il supporto per esplorare le loro idee e cercare di metterle in pratica per realizzare prodotti sempre più performanti. The Forge è uno spazio creativo focalizzato innanzitutto verso la soluzione dei problemi. Grazie a macchinari d’avanguardia, i progettisti e tutto il team di sviluppo del prodotto cercano di rispondere a domande, in un luogo in cui possono sperimentare ed esplorare un'idea cercando di arrivare al suo completamento. The Forge funge da banco di prova in tempo reale per la missione di Patagonia: realizzare il prodotto migliore, non provocare danni inutili, utilizzare il business per ispirare e implementare soluzioni per la crisi ambientale. Le idee provengono da qualsiasi luogo: montagne, oceani, fiumi, ma anche campi di cotone, centri di riciclaggio, aule, tavoli da pranzo e ambienti urbani. Un problema interessante portato alla luce da un prodotto semplice, come una maglietta o un paio di pantaloni da trekking, riceve tutta l'attenzione e lo studio possibile al pari di un prodotto tecnico di alta montagna. Ci vogliono progettisti, ingegneri, tecnici, specialisti di produzione, atleti e ambassador che lavorino a stretto contatto per raggiungere il più alto livello di sofisticazione e comprensione che The Forge è progettato per raggiungere. I progetti poi si contaminano tra loro e si formano a vicenda. Ciò consente alle soluzioni di essere trasportate, quando opportuno e utile, in diversi stili e categorie, trasportando il lavoro profondo svolto a The Forge fino al cliente.

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Non provocare danni inutili. Il lavoro di Patagonia è sempre iniziato riconoscendo per primi di essere essi stessi parte del problema. Tutti coloro che lavorano per il marchio sanno che le attività dell’azienda, dall’illuminazione nei negozi alla tintura delle camicie, creano inquinamento come sottoprodotto. Quindi ogni team lavora costantemente per ridurre quei danni. Ciò include l'utilizzo di poliestere riciclato in molti prodotti e solo cotone organico al posto del cotone classico coltivato con l’uso intensivo di pesticidi.

buttando via meno. Il programma Worn Wear di Patagonia è stato creato nel 2013 per incoraggiare le persone a prendersi cura della propria attrezzatura, a lavare e riparare secondo necessità. Worn Wear mira a mantenere l'abbigliamento, indipendentemente dalla marca, in circolazione il più a lungo possibile. Quando il momento della sostituzione arriva, Patagonia vuole che le persone investano in qualcosa che duri. Ecco perché realizza prodotti funzionali di alta qualità garantendoli a vita.

Come consumatori, estendere la vita dei nostri capi, attraverso un'adeguata cura e riparazione, è la cosa più importante che possiamo fare per ridurre il nostro impatto sul pianeta e diminuire la necessità di acquistare di più nel tempo, evitando così le emissioni di CO2, la produzione di rifiuti e l'utilizzo di acqua necessaria per realizzare quei capi.

L'obiettivo futuro di Patagonia è quello di passare dal non fare alcun danno inutile a fare effettivamente del bene, attraverso il potenziale dell'agricoltura e specificamente del organico rigenerativo. Quest'anno la società ha collaborato con un gruppo di leader del settore organico per il lancio della Certificazione organica Rigenerativa. È un altro significativo passo avanti per questo movimento e, con l'aiuto dei clienti di Patagonia, potrebbe essere un passo significativo anche per il nostro pianeta.

Mantenendo i nostri vestiti in uso solo nove mesi in più, possiamo ridurre i relativi sprechi di carbonio, rifiuti e acqua del 20-30% ciascuno, semplicemente perché stiamo producendo e

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PHOTO BY ROHN JULIAN


The Story of Worn Wear

R I PA R A R E C O M E AT TO R A D I CA L E .

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uesto è stato lo scopo di fondo del Worn Wear tour di Patagonia, che ha raggiunto 28 famose mete del turismo invernale in tutta Europa, per aiutare ed insegnare a tutti gli appassionati della neve ad allungare la vita dei propri prodotti. Come singoli consumatori, la cosa migliore che possiamo fare per il pianeta è di mantenere più a lungo le nostre cose in uso. Questo semplice atto di estendere la vita dei nostri indumenti attraverso un'adeguata cura e riparazione riduce la necessità di acquistare di più nel tempo, evitando così le emissioni di CO², la produzione di rifiuti e l'utilizzo di acqua necessari per realizzarlo. Perché riparare è un atto così radicale? Mantenere in vita qualcosa che potremmo altrimenti buttare via è quasi inconcepibile per molti persone nel periodo d'oro del fast fashion e della tecnologia che avanza rapidamente, ma l'impatto è enorme. Viviamo in una cultura in cui la sostituzione regna sovrana. Ripariamo regolarmente articoli di grandi dimensioni, come macchine e lavatrici, ma aldilà di questi esempi, quando ci si confronta con altri oggetti, risulta comunque più facile ed economico, per la maggior parte delle cose, acquistare qualcosa di nuovo. Agendo in questo modo tuttavia si crea una società di consumatori del prodotto ma non di proprietari. E c'è una differenza.

I proprietari hanno il potere di assumersi la responsabilità per i loro acquisti, dalla adeguata pulizia alla riparazione, al riutilizzo e alla condivisione. I consumatori prendono, producono, smaltiscono e ripetono, in un modello che ci sta portando verso la bancarotta ecologica.

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L'iniziativa Worn Wear incoraggia invece i clienti a prolungare al massimo la vita di ciò che indossano, riparando gratuitamente i capi di qualsiasi marchio (non solo prodotti Patagonia, dunque).

Il programma Worn Wear di Patagonia nasce nel 2013 con l'obiettivo di incoraggiare i clienti a prendersi cura dei propri capi di abbigliamento, adottando corrette modalità di lavaggio e riparandoli prontamente quando si rompono.

Prolungare la vita dei nostri indumenti, avendone cura e aggiustandoli quando necessario, è la cosa migliore che possiamo fare per ridurre il nostro impatto ambientale sul pianeta.

Worn Wear mira quindi a tenere in vita i capi di abbigliamento il più a lungo possibile.

In questo modo non sarà più necessario acquistare sempre nuovi prodotti, evitando così di generare emissioni di CO², la produzione di scarti e rifiuti, e il consumo di acqua associati ai cicli produttivi del settore tessile.

Tutti i prodotti, indipendentemente dalla marca. E quando arriva il momento di doverli effettivamente sostituire, perché usurati al punto da non essere più utilizzabili, è importante investire in qualcosa che duri nel tempo: per questo Patagonia si impegna nel realizzare i prodotti di alta qualità più funzionali possibili, garantendoli a vita.

“Basti pensare che, tenendo in circolazione ciò che indossiamo semplicemente per nove mesi in più, possiamo ridurne di circa il 20-30% la relativa impronta ambientale in termini di emissioni di CO², rifiuti e consumo idrico semplicemente scartando un minor numero di cose.

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È UN PENSIERO RADICALE, MA IL CAMBIAMENTO PUÒ INIZIARE SOLO CON AGO E FILO.

Una casetta in legno ideata per l’occasione è quindi partita Engelberg per arrivare in diverse e rinomate stazioni sciistiche come Cortina, Livigno, Val d’ Isère, Innsbruck, La Grave e Chamonix. Il team dello speciale furgone Worn Wear ha offerto riparazioni gratuite di cerniere, alette delle zip, bottoni, tessuti bucati o lacerati e altro ancora, fornendo anche preziosi consigli su come aggiustare giacche, pantaloni e maglie in modo autonomo. E, per la prima volta, è stato anche possibile far riparare capi tecnici in Gore-Tex. Il van è stato modificato a mano per raggiungere alcune delle località di montagna più impervie d'Europa ed ha ospitato attrezzature tecniche per le riparazioni, offrendo anche cioccolata calda e portando una buona dose di energia positiva sulle piste da sci. I membri del team hanno fornito inoltre consigli utili su come mantenere in buone condizioni, stagione dopo stagione, i capi e le attrezzature da sci, insegnando specifiche tecniche di rammendo, applicazione di toppe, re-impermeabilizzazione di giacche e pantaloni, e sostituzione di zip e cerniere. L'atto di acquistare di per sé non è il problema. Dopotutto, le nostre vite dipendono da un'ampia varietà di oggetti prodotti in un modo che ferisce il pianeta e non è probabile che tutto ciò finisca presto, indipendentemente da quanto ci impegniamo per ridurre il nostro impatto ambientale. preziosa aggiunta al mondo del retail. Patagonia, dal canto suo, si impegna costantemente per realizzare capi di alta qualità garantiti a vita, con provenienza responsabile, che durino anni e possano essere riparati.

Non c’è soluzione quindi? Non proprio, ridurre la nostra impronta di consumo collettivo richiederà responsabilità condivise tra le aziende che producono questi oggetti ed i clienti che le acquistano, ma le aziende devono agire in modo indipendente e razionale fin da subito. Gli eventi pop-up Worn Wear hanno avuto un tale successo che Patagonia ha deciso di renderli permanenti e proseguire quindi il tour, mettendo a disposizione non solo riparazioni di indumenti invernali e abiti tecnici da montagna ma anche di mute da surf. Il Worn Wear tour toccherà prossimamente Inghilterra, Spagna e Francia

Gestiscono la più grande struttura di riparazione di indumenti in Nord America e tutto il personale di vendita al dettaglio é addestrato per offrire semplici lavori di riparazione. Come parte della transazione, Patagonia chiede ai propri clienti di utilizzare gli strumenti che forniscono per ridurre l'impatto ambientale delle loro cose nel tempo, riparandole, trovando modi per riutilizzarle e riciclarle quando è veramente giunto il momento. Acquistando solo ciò di cui hanno bisogno, i clienti possono diminuire il loro consumo complessivo a lungo termine.

Worn Wear, insieme alla famosa campagna "Do not buy this jacket" della compagnia, ha attirato l'attenzione sul problema del consumo eccessivo, incoraggiando le persone ad acquistare solo ciò di cui hanno bisogno. La missione Worn Wear, in particolare, si adatta bene a questo, ricordando alla gente che i vestiti possono avere una vita molto più lunga di quella che a volte pensiamo.

Un acquisto diventa un investimento che consente di risparmiare denaro e aiuta a salvare il pianeta nel tempo. Mentre osserviamo i maggiori impatti dei cambiamenti climatici ogni anno e mentre ci avviciniamo ai colloqui critici sulla politica climatica globale noi come individui dobbiamo invertire il nostro attuale corso di consumo eccessivo.

Naturalmente, l'opzione migliore sarebbe quella di indossare i propri capi d'abbigliamento il più a lungo possibile, al punto che la rivendita non è un'opzione perché ormai troppo consumati. Ma non è questo il caso di molti acquirenti, i cui gusti ed interessi cambiano nel tempo, facendo di Worn Wear una

Patagonia come azienda si prende la responsabilità di realizzare prodotti di qualità più elevata e rendere la riparazione degli oggetti che vendiamo accessibile a tutti.

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PHOTO BY WOUTER STRUYF & 2016 PATAGONIA , INC.

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BY DENIS PICCOLO

Eva Bonk meets Worn Wear Era l’unica giacca tecnica che avevo e l’ho sfruttata e la sto sfruttando veramente in tantissime situazioni. Credo di averci addirittura sciato. Quando vivevo ancora a casa mia madre mi costringeva a portarla in tintoria a fine stagione. Vai a spiegarle che la stagione non finiva mai!

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Apprezzo Patagonia, perché invece trovo che la sua filosofia sia molto distante da queste politiche e l’iniziativa del Worn Wear ne è la dimostrazione. Penso sia un’iniziativa con cui mi sento totalmente in linea.

Il Worn Wear tour italiano ha attraversato le Alpi, passando da Bormio, Corvara, Cortina, Sestriere e Livigno. Ha coinvolto numerose persone, attirando curiosi, appassionati di montagna e di pratiche outdoor e clienti affezionati del brand.

La giacca di Eva è stata riparata già due volte ma per lei rimane sempre la sua preferita per andare a scalare. “Adesso essendo in un certo senso “personalizzata” mi piace ancora di più e non solo la uso perché ne ho bisogno, ma perché è unica e un po’ mi rappresenta”.

Una di queste, Eva Bonk, ha raggiunto lo speciale trailer Patagonia a Livigno per far riparare la sua storica giacca: “io non sono mai stata capace di cucire ed ogni volta che scopro che il Worn Wear Tour mi passa vicino ne approfitto per far riparare i miei capi tecnici!”

I vestiti, specialmente quelli tecnici, diventano un po’ una seconda pelle e, nonostante non sia sempre corretto legarsi alle cose materiali, è normale affezionarcisi un po’ perché alla fine sono le cose che fai, le avventure che porti a termine mentre li indossi che rendono speciali quei capi.

Eva, amante della montagna, scalatrice e amica di Patagonia di lunga data ha consegnato nelle mani dei sarti un piumino Down Hoody, “intramontabile e dai mille utilizzi”.

Al giorno d’oggi anche nel mondo outdoor, a causa della sua crescente espansione, si può assistere al nascere di dinamiche “consumistiche e modaiole". “C’è ormai una certa tendenza ad accumulare materiale e comprare cose spendibili solo in determinate situazioni.” sostiene Eva. “Faccio un esempio: prima era una solo la giacca per andare in montagna, adesso se non si ha dietro il piumino, il guscio, il windstopper ci si sente inadeguati”.

Quella giacca ha una lunga storia molto interessante e singolare. Si tratta del primo capo Patagonia di Eva, regalatole da sua madre quando ha iniziato a scalare. “L’ho indossata alle basi delle falesie per scaldarmi prima di un tentativo su un tiro, durante le sicure agli amici e anche mentre mi godevo la birra di rito dopo aver liberato il mio primo 7a” ha raccontato.

“Apprezzo Patagonia, perché invece trovo che la sua filosofia sia molto distante da queste politiche e l’iniziativa del Worn Wear ne è la dimostrazione. Penso sia un’iniziativa con cui mi sento totalmente in linea.”.

La giacca l’ha accompagnata in numerose imprese, durante la scalata sull’ Aiguille de Sialouze e sul ghiacciaio de La Meije, durante boulder ed arrampicate su vie lunghe e anche nelle lunghe notti passate in bivacco.

Il tour Worn Wear per Eva Bonk sta infatti “sensibilizzando le persone a comprare “bene” e a curarsi dei propri capi ed ha sicuramente influenzato le altre aziende che stanno prendendo Patagonia come esempio per le politiche ambientali e di riciclo”.

“Era l’unica giacca tecnica che avevo e l’ho sfruttata e la sto sfruttando veramente in tantissime situazioni. Credo di averci addirittura sciato. Quando vivevo ancora a casa mia madre mi costringeva a portarla in tintoria a fine stagione. Vai a spiegarle che la stagione non finiva mai!”

È l’inizio di una piccola rivoluzione, e tutti, nel nostro piccolo, possiamo farne parte.

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Looking into materials Cotone organico

Yulex

Quando si pensa al cotone viene naturale immaginare che sia “puro” e “naturale”, visto che proviene da una pianta. La verità è che c'è poco di puro o di naturale nel cotone quando viene coltivato in modo tradizionale.

L'elemento più nocivo delle mute tradizionali, dal punto di vista ambientale, è sempre stato il neoprene, per via del processo di lavorazione complesso e ad alto consumo di energia. Il neoprene sviluppato in origine nel 1930, viene solitamente prodotto mediante clorurazione e polimerizzazione del butadiene, sostanza petrolchimica raffinata dal petrolio greggio. Questo materiale è stato la base per la realizzazione di mute subacquee e da surf fin dall'inizio degli anni '50 e, all’epoca, non esistevano alternative concretamente adottabili.

Negli anni ’90, infatti, il 10% di tutti i prodotti chimici per uso agricolo negli Stati Uniti veniva impiegato proprio per la produzione del cotone, la cui coltivazione occupava solo l'1% del terreno agricolo. E la ricerca mostrava che l'impiego estensivo ed intensivo di fertilizzanti sintetici, additivi e altri composti arrecava un danno enorme a suolo, acqua, aria e ad innumerevoli esseri viventi.

Dal 2008 l'azienda Yulex sviluppa però un materiale rinnovabile e a base vegetale che sostituisce il neoprene. Si è scoperto infatti che la pianta di Hevea, la principale fonte mondiale di gomma naturale, viene coltivata anche in piantagioni del Guatemala certificate dal Forest Stewardship Council. Il lattice ricavato dall’Hevea, infatti, è l'alternativa che offre le migliori performance rispetto al neoprene e, in più, è ottenibile mediante un processo che non contribuisce alla deforestazione, ottenendo un elastometro naturale altamente resistente e senza effetti sensibilizzanti.

Esiste però un'alternativa: il cotone organico. Da anni ormai gli agricoltori coltivano cotone senza l'impiego di sostanze chimiche dannose. Il raccolto è abbondante e la qualità del cotone ottenuto è uguale o superiore a quella del cotone coltivato in modo tradizionale. I metodi impiegati nell'agricoltura di tipo organico supportano la biodiversità ed ecosistemi salubri, migliorano la qualità del terreno e spesso impiegano minori quantitativi d'acqua. Le coltivazioni organiche richiedono più tempo, maggiori competenze e abilità e, per ora, risultano più costose. Ma ne vale la pena.

Continuando ad essere il materiale d'elezione per un'ampia gamma di prodotti caratterizzati da severi requisiti di performance la gomma naturale si conferma più resistente e flessibile dei suoi equivalenti sintetici. La robustezza, l'elasticità e l'ottimale flessibilità si estendono così oggi anche alle mute, con eccellenti risultati: questo significa che, oltre a non contribuire alla deforestazione, il lattice Yulex rappresenta un importante passo avanti in termini di performance. Le valutazioni ambientali condotte hanno fatto emergere un ulteriore, importante vantaggio:

• Piuma 100% Riciclata La Piuma Riciclata è un mix di piuma d'oca e anatra 600-fill power rigenerata, proveniente da articoli usati che non possono più essere rivenduti (materassi, cuscini, piumoni).

poiché il polimero del poliisoprene viene prodotto direttamente dagli alberi e non negli stabilimenti, impiegando quindi energia solare invece di elettricità, il processo di lavorazione genera emissioni di CO2 ridotte dell'80% circa rispetto alla produzione del neoprene tradizionale.

É ipoallergenica ed in grado di offrire gli stessi vantaggi di performance della piuma vergine. La domanda di Piuma Riciclata di alta qualità sta crescendo e si auspica che ciò dia un impulso sensibile al riciclo della piuma in un maggior numero di paesi.

Prelevando parte della piuma dalla raccolta dei rifiuti, riduciamo gli scarti, contribuiamo a sviluppare e ad aggiungere valore al flusso del riciclo.

Lana riciclata Nella realizzazione di capi di abbigliamento e attrezzature in lana comporta un certo costo per l'ambiente. In primo luogo, la produzione di lana richiede grandi estensioni di terra per il pascolo delle pecore, a cui si aggiunge il consumo di energia, acqua e agenti chimici per convertire la lana tosata dal mantello degli animali in fibra pulita di alta qualità. Uno dei modi per ridurre l'impatto della produzione di lana è riciclare quella usata.

• Poliestere riciclato Adottare il fleece realizzato con bottiglie di plastica riciclate è stato un passo importante verso un sistema più sostenibile, in grado di sfruttare minori risorse, ridurre gli sprechi e, meglio ancora, preoccuparsi della salute della gente.

La pratica del riciclo della lana risale a centinaia di anni fa.

Oggi, con il poliestere riciclato si possono realizzare numerosi capi di abbigliamento (oltre agli indumenti in fleece anche baselayer, le shell e board shorts).

Dopo che i maglioni di lana erano talmente usurati da non poter essere più indossati, venivano raccolti e sminuzzati in singole fibre, convertite a loro volta in coperte. Al giorno d’oggi la lana viene sottoposta ad accurati e meticolosi processi di cernita per categorie di colore prima della sfilacciatura. Selezionando e mescolando i colori di tessuti e capi in lana tinta, si può eliminare completamente il processo di tintura, risparmiando così acqua e sostanze chimiche e senza dover gestire le risultanti acque di scarto.

L'utilizzo di poliestere riciclato riduce la dipendenza dal petrolio come fonte di materie prime, permette di evitare gli sprechi, riduce le emissioni tossiche degli inceneritori e aiuta a promuovere un nuovo sistema di riciclaggio per i capi in poliestere non più utilizzabili.

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Utilizzare il business per ispirare e implementare soluzioni alla crisi ambientale. Patagonia ritiene che il successo negli affari nei prossimi 100 anni dovrà venire dal lavorare insieme alla natura piuttosto che solo utilizzarla.

Yvon Chouinard forgiava chiodi da arrampicata rimovibili che hanno poi dato inizio alla rivoluzione dell’arrampicata pulita.

Nel 2002, il fondatore di Patagonia, Yvon Chouinard, e Craig Mathews, proprietario di Blue Ribbon Flies, hanno creato un'organizzazione no profit denominata 1% for the Planet per incoraggiare altre aziende a fare lo stesso. Ad oggi, i membri di 1% for the Planet hanno devoluto oltre 100 milioni di dollari a gruppi ambientalisti no profit.

Un altro modo in cui Patagonia usa il business come strumento per trovare soluzioni alla crisi ecologica è attraverso l'attivismo ambientale. Nel 2018, la prima campagna ambientale globale di Patagonia su una questione europea è stata lanciata: Save the Blue Heart of Europe. Finora, oltre 120.000 persone in tutto il mondo hanno firmato la petizione che chiede alle banche internazionali di smettere di investire nella distruzione degli ultimi fiumi selvaggi d'Europa nella penisola balcanica. Solo in Europa, il film documentario Blue Heart è stato proiettato in 30 paesi, 146 città e persino all'interno del Parlamento Europeo.

Il fondo di investimento Tin Shed Ventures è un altro tentativo di utilizzare il business per aiutare a risolvere la crisi ambientale e ispirare il cambiamento nella prossima generazione di business leader. Investe in società start-up ambientalmente e socialmente responsabili. Prende il nome dalla bottega del fabbro dove

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PHOTO BY ANDREW BURR

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1% for the Planet

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el 1972 il consiglio comunale di Ventura, California, si riunì per esaminare un ambizioso piano di sviluppo commerciale che avrebbe interessato la pianura alluvionale a nord del fiume Ventura, poco distante dalla sede centrale di Patagonia. Molti scienziati si espressero a favore del progetto, sostenendo che non avrebbe danneggiato il fiume, essendo quest'ultimo già “morto". Mark Capelli, all'epoca giovane dottorando e fondatore del gruppo “Friends of the Ventura River”, presentò invece una serie di diapositive mostrando quante forme di vita in realtà esistessero ancora nel fiume e nelle sue immediate vicinanze: anguille, uccelli, procioni. Tenne a sottolineare, inoltre, che esistevano ancora almeno 50 esemplari di steelhead che ogni anno risalivano la corrente del fiume. Si scatenò un putiferio e, alla fine, il progetto fu abbandonato.

Il successo di Capelli dimostrò come anche i piccoli gruppi a sostegno dell'ambiente hanno il potere di influenzare positivamente l’opinione pubblica. Da allora, attraverso la partecipazione all'iniziativa 1% For The Planet, Patagonia ha devoluto l'1% delle proprie vendite alla tutela e al ripristino dell'ambiente naturale. Ad oggi, più di 90 milioni di dollari sono stati destinati a gruppi di attivisti a sostegno dell'ambiente, sia a livello nazionale che internazionale, che lavorano per fare la differenza nelle rispettive comunità locali.

Nel 2002, Yvon Chouinard, storico fondatore di Patagonia, e Craig Mathews, proprietario di Blue Ribbon Flies, hanno creato un'organizzazione no profit per incoraggiare altre aziende a fare lo stesso. 1% for the Planet è un’alleanza fra aziende che hanno compreso la necessità di proteggere l’ambiente. Questi brand sono consapevoli che profitti e perdite sono direttamente collegati alla salute dell'ambiente e si preoccupano dell'impatto socio-ambientale del settore in cui operano. La loro missione è “costruire, supportare e attivare un'alleanza di imprese impegnate finanziariamente nella creazione di un pianeta sano”. Diffondere quindi una maggiore responsabilità aziendale nella comunità degli imprenditori e il riconoscimento, il sostegno e la tutela di consumatori coscienziosi che danno valore a un serio impegno per l'ambiente.

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Ad oggi, più di 90 milioni di dollari sono stati destinati a gruppi di attivisti a sostegno dell'ambiente, sia a livello nazionale che internazionale, che lavorano per fare la differenza nelle rispettive comunità locali.


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Per fare ciò tutti i membri di 1% for the Planet si impegnano a devolvere l’1% delle proprie vendite annuali a cause ambientali e supportare grazie a questo diverse ONG, organizzazioni senza scopo di lucro che proteggono terreni, foreste, fiumi, oceani e incoraggiano metodi sostenibili di produzione di energia. Ad oggi l'organizzazione conta oltre 1200 membri in 48 paesi diversi. Le prime campagne di 1% for the Planet si sono svolte a San Francisco nel 2002 nel negozio di Patagonia della città californiana. Mentre il secondo evento è avvenuto a Denver, in Colorado, nel “Fly Fishing Retailer show” nel 2003. Secondo l'organizzazione, il 2005 si è concluso con più di 200 affiliazioni all’interno dell’associazione. Grazie alla serie Making a Difference, trasmessa da NBC Nightly News, 1% for the Planet ha ottenuto ancora più attenzione mediatica tanto da aggiungere altri 50 membri nel 2006 ed arrivare ad avere un totale di 1000 iscritti nel 2009.

Nel 2010 è stato pubblicato un album musicale dal titolo 1% for per Planet, The Music, Vol.1, a cui hanno preso parte 40 artisti. L’album ha raggiunto la vetta della classifica MP3 di Amazon e si è collocato nei primi 40 album complessivi su iTunes.

Nel 2011 è stato creato un programma per i media partner composto da "artisti, atleti e attivisti" come ambasciatori dell’organizzazione.

Infine, nel 2012, sono stati più 100 milioni di dollari quelli devoluti alla conservazione ambientale. Quest'anno, l'organizzazione ha creato il programma "High Impact Partnerships" che mira a consentire alle aziende e alle organizzazioni non governative “di identificare i problemi in cui condividono le preoccupazioni e collaborare per fare più cose di quanto non possano fare da soli.” A livello nazionale, Patagonia grazie a 1% for the Planet sostiene diverse ONG e associazioni che hanno a cura la protezione del territorio italiano e dell’ambiente nostrano, dalla fauna alla flora. Io non ho Paura del Lupo, Cittadini per l’Aria e Selva Urbana sono solo alcune delle tante organizzazioni senza scopo di lucro in cui Patagonia crede e che ha deciso di sostenere, ma possiamo anche ricordare Salviamo l’Orso, Genitori Anti Smog, Comitato Val Mastallone, Simbio, Acqua Bene comune Belluno, A Sud Onlus, CDCA Centro Documentazione, Conflitti Ambientali, Circolo Lega Ambiente Lario e molte altre.

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1% for the Planet è un’alleanza fra aziende che hanno compreso la necessità di proteggere l’ambiente. Questi brand sono consapevoli che profitti e perdite sono direttamente collegati alla salute dell'ambiente e si preoccupano dell'impatto socio-ambientale del settore in cui operano.


Io non ho Paura del Lupo Io non ho Paura del Lupo è un’associazione impegnata nella divulgazione di informazioni corrette sul lupo e sulla grande fauna, in un contesto che favorisca la convivenza con le attività umane.

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onduce progetti di monitoraggio sulla presenza del lupo in Appennino e sulle Alpi, attraverso metodi di campionamento non invasivi. Qui il ritorno del lupo è stato vissuto con sorpresa ed emozione, ma anche con paura e disinformazione, a causa del conflitto con le attività degli allevatori e con il mondo della caccia. Oggi, più che mai, un’indagine sulla presenza del grande predatore è quindi indispensabile.

giorni trascorsi sulle tracce del lupo e degli altri animali selvatici sono stati tali che non erano assolutamente prevedibili all’atto della costituzione dell’associazione. La comunicazione sul lupo e sui grandi predatori è stata infatti cruciale nel creare il giusto clima per la convivenza con la fauna selvatica. Tra le varie attività svolte, l’associazione propone, attraverso i suoi canali multimediali, molto materiale video e fotografico e guide didattiche.

Così, nel maggio 2016, dopo una serie di attacchi mediatici a livello nazionale sul “pericolo” che il lupo avrebbe costituito per gli abitanti della Val Taro, un gruppo di abitanti della zona ha deciso di rispondere attivamente, riunendosi in una associazione il cui nome è la propria dichiarazione di intenti: Io non ho Paura del Lupo.

Numerose sono anche le interviste realizzate ad allevatori in Val Taro, che raccontano di come i sistemi di prevenzione adottati rendano possibile una pacifica convivenza con il lupo. A fine 2017 è stato realizzato un video dal titolo “Guida popolare al ritorno del lupo sulle Alpi” al fine di raccontare il lupo non solo agli appassionati, ma a chiunque desideri scoprire di più sul grande predatore in un territorio di nuova colonizzazione come quello alpino, e da questo video è poi nato l’evento “Il viaggio del lupo” che vedrà la luce tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019, anche grazie al contributo di Patagonia.

Fin dalla nascita è attiva su tre fronti: · la ricerca sul campo, · la diffusione delle modalità di convivenza con la fauna selvatica · la divulgazione presso il pubblico del piacere di vivere la natura. L’associazione sta perciò sperimentando uno storytelling più diretto e coinvolgente partendo dalla conoscenza quotidiana dei branchi presenti in alta Val Taro e Alpi Orientali, oggetto di monitoraggio da parte dei propri volontari, e del racconto della loro vita che “spiano” principalmente attraverso le proprie video-trappole.

Io non ho Paura del Lupo, attraverso le tante attività sul campo che hanno coinvolto centinaia di partecipanti, sta cercando di restituire al lupo una immagine corretta, equilibrata e scientificamente provata, promuovendo le buone pratiche per la difesa dell’allevamento, favorendo la consapevolezza della coesistenza uomo-natura, sviluppando strategie di comunicazione ed eventi educativi, per favorire la conservazione del lupo, il sostegno del business locale, la conoscenza del predatore tra la gente comune e la convivenza con le attività umane.

In circa due anni di attività i risultati ottenuti, il numero di persone provenienti da tutta Italia portate a vivere i territori “caldi” per il lupo, le giornate dedicate a mostrare tecniche per la protezione degli animali domestici, così come i

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Selva Urbana Selva Urbana è un’associazione ambientalista che promuove la tutela e lo sviluppo del patrimonio ambientale delle aree urbane attraverso la creazione di foreste in aree metropolitane e periferiche.

accolgono con entusiasmo il progetto, impegnandosi a partecipare ad eventi di sensibilizzazione, volti alla raccolta di fondi per acquistare e poi piantare gli alberi. Insieme al mondo sportivo e all’impegno dei climbers, Selva Urbana ha valorizzato sino ad ora 8 aree urbane, piantando oltre 900 alberi. Il 19 ottobre 2018 inizia una raccolta fondi dal nome PIANTALA! Tour. Una serie di eventi nelle palestre d’arrampicata sportiva capaci di muovere le masse verso la riduzione degli sprechi e l’aumento delle aree verdi a foresta. L’inaugurazione si terrà presso la palestra Manga Climbing insieme a Climbing Radio e Milano Montagna Festival. I climbers partecipanti aiuteranno l’associazione nella sua raccolta fondi più classica, per ogni ingresso all’evento verranno devoluti 2 euro.

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soci ed i sostenitori sono impegnati nella sensibilizzazione attraverso talks, eventi e raccolte fondi rivolte ai cittadini, amministrazioni ed aziende capaci insieme di cambiare la struttura urbana e il futuro della città. Selva Urbana nasce alle porte di Milano, nel 2013, dall’impulso di un gruppo di amici appassionati di natura e di arrampicata sportiva. Il gruppo, motivato dal cambiamento del proprio stile di vita e dall’urgenza di preservare la biodiversità, inizia ad interrogarsi su come coinvolgere altre persone nel processo di diminuzione dell’impatto ambientale e nella promozione di un diverso rapporto con la natura. Viene così ideato un progetto di ri-forestazione urbana che parte dal coinvolgimento dei frequentatori delle palestre di arrampicata sportiva dell’area milanese. Dal 2013 al 2018, oltre 1000 atleti e dilettanti climbers

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L’obiettivo di Selva Urbana è ridare al pianeta ciò che gli è stato tolto, impegnandosi per farlo trovando la miglior soluzione possibile. L’associazione ricerca finanziamenti che le permettano, insieme alle amministrazioni comunali, di piantare alberi forestali autoctoni con un alto grado di adattamento al territorio. Si pone quindi come un connettore di bisogni capace di dare spazio alla natura e di soddisfare le esigenze delle pubbliche amministrazione. Selva Urbana inoltre si propone di rendere consapevole ogni partner che sceglie di finanziare la foresta riguardo l’importanza ed il valore del suo impegno portandolo a piantare i propri alberi, sporcandosi le mani e assaggiando il gusto dell’impegno sociale. Ogni foresta di Selva Urbana viene mantenuta dall’amministrazione che si impegna per un minino di sei anni a provvedere alla crescita degli alberi.


Cittadini per l'Aria La qualità dell’aria non è un bene negoziabile, perché riguarda la nostra stessa vita. Il danno che oggi deriva nel nostro paese alla popolazione, all’ambiente, al patrimonio culturale, dall’inquinamento dell’aria è, di fatto, incalcolabile.

combustione di combustibili fossili (carbone) e dalle centrali elettriche. Con i raggi solari e gli idrocarburi può dare luogo alla formazione di ozono, e questo spiega le alte concentrazioni anche di questo gas che si registrano nel nostro paese. Ozono e NO2 hanno un’azione irritante sulle mucose di tutto il nostro organismo. Così l’esposizione a questi inquinanti causa congiuntiviti, riniti, e favorisce l’insorgenza di bronchiti, polmoniti e asma bronchiale, oltre a malattie cardio-vascolari.

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nche se i tempi per migliorare considerevolmente l’aria sono lunghi, bisogna agire subito. Ogni giorno, ognuno di noi, può fare qualcosa. Cittadini per l’Aria si batte per costruire una rete e una comunità trasversale che metta in condizione tanti, in tante parti d’Italia, di contribuire a migliorare la qualità dell’aria a livello locale, nazionale, europeo. La partecipazione attiva dei cittadini nell’individuare le politiche migliori per il miglioramento della qualità dell’aria è fondamentale in modo tale che venga riconosciuto il diritto a respirare aria pulita e ad azioni che siano coerenti con questo diritto. La lotta allo smog riparte quindi dal basso. L’associazione Cittadini per l’Aria ha rilanciato quest’anno a livello nazionale la campagna «NO2, no grazie» contro il biossido di azoto e i diesel che lo producono. E a Milano mette sotto la lente d’ingrandimento la qualità dell’aria vicino alle scuole. L’NO2 è uno dei più importanti inquinanti dell’aria cittadina, è prodotto principalmente dai motori degli autoveicoli, soprattutto diesel, dagli impianti di riscaldamento, dalla

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Già in passato la onlus aveva coinvolto 200 milanesi per misurare quando NO2 è presente nell’atmosfera. Il 96% dei campionatori posizionati in città ha registrato, per un mese, inquinamento superiore ai valori di guardia. Monitoraggi simili sono stati condotti anche a Brescia, Bologna e Roma, con l’aiuto di realtà locali. “Chiediamo ai cittadini di mobilitarsi” spiega la presidente Cittadini per l’Aria Anna Gerometta, “per l’aria e la salute". A Milano la seconda parte del progetto si è concentrata su scuole e aree giochi. Bambini e anziani sono infatti i soggetti più a rischio. Obiettivo della campagna ambientalista è limitare fortemente l’uso di auto diesel per riportare il biossido di azoto entro i limiti di legge. A settembre 2016, invece, è partita ed è tutt’ora in corso l’iniziativa “Facciamo respirare il Mediterraneo”, un altro progetto dedicato all’impatto, troppo spesso ignorato, delle emissioni navali sulla qualità dell’aria che respiriamo. Cittadini per l’Aria, inoltre, aderisce alla campagna #DivestItaly, parte italiana della mobilitazione a livello globale Divestment, per invitare tutte i soggetti economici e in primo luogo gli investitori istituzionali a non investire in azioni (e obbligazioni) di imprese legate all’industria fossile.


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Damiano Bertolotti INTERVIEW BY DENIS PICCOLO PHOTOS BY THOMAS MONSORNO

Viviamo in un mondo digitale, viviamo sui social network e molte volte ci scordiamo della vita reale. Tutte le storie che Patagonia racconta sono reali e sono fonte di ispirazione. Spesso ci dimentichiamo che le storie hanno un potere fortissimo.

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◊ Raccontiamo storie vere, perché raccogliere storie è bellissimo, ma al giorno d’oggi siamo quasi tutti di fretta e solo pochi hanno il tempo e la voglia di dedicare del tempo ad uno sconosciuto. Per me è una fonte di ispirazione e lavorare in Patagonia riesce a darmi molta soddisfazione a livello umano.

Ma qual è quindi la storia di Damiano? Damiano Bertolotti ha forse tante storie. È l’Enviro & Marketing Coordinator di Patagonia Italia ma al tempo stesso è anche un ragazzo quasi trentenne cresciuto in montagna e amante della natura. Un ragazzo di città, nato e cresciuto a Lodi, vicinissima alla caotica Milano, ma trasferitosi 4 anni fa a Bolzano dove dice di stare benissimo, “è una città fantastica circondata dalle montagne!”.

e solo pochi hanno il tempo e la voglia di dedicare del tempo ad uno sconosciuto. Per me è una fonte di ispirazione e lavorare in Patagonia riesce a darmi molta soddisfazione a livello umano. Come sei entrato in contatto con Patagonia? E qual è esattamente il tuo ruolo come Enviro & Marketing Coordinator? Ero e sono tuttora un grande fan di Patagonia. Nel 2015 ho avuto un brutto incidente durante una vacanza in montagna. Mi sono rotto sette costole ed ho subito un collasso del polmone.

Damiano, raccontaci la tua storia, le tue passioni, il tuo percorso che ti ha portato fino ad oggi. Sono un ragazzo normale, con tanti interessi ma da che mi ricordi, ho sempre amato soprattutto la natura e la montagna in primis.

Nel periodo di convalescenza non sapevo come passare il tempo, l’unico modo per impiegare le mie giornate era leggere libri. Su consiglio di un’amica ho iniziato a sfogliare “Let my People go Surfing” di Yvon Chouinard, il fondatore di Patagonia. Il libro mi è piaciuto moltissimo e da quel momento mi sono fissato come obiettivo quello di lavorare per Patagonia, un giorno.

Mio padre mi portava spesso a Ceresole Reale nel Parco del Gran Paradiso perché da bambino soffrivo d’asma, è stata la mia salvezza.I miei genitori mi hanno poi messo sugli sci, a Bardonecchia, quando avevo quattro anni. Andavamo ogni fine settimana in montagna a sciare e da allora non mi sono più fermato.

Direi che sono stato perseverante! Il mio lavoro attuale consiste nel seguire sia la parte marketing che quella “ambientalista” di Patagonia. Sono una figura ibrida, ma del resto quasi tutte le nostre campagne non sono vere e proprie attività marketing ma si tratta più che altro di attività a tutela dell’ambiente e a supporto delle comunità locali.

Mi sono laureato in Marketing all’università di Milano Bicocca e prima di intraprendere la laurea specialistica ho pensato di iniziare a guardarmi in giro per cercare uno stage in un’azienda outdoor. Non mi sarei mai visto in un ufficio in giacca e cravatta. Al tempo c’era una posizione aperta interessante in Salewa e fortunatamente sono stato assunto come “Event Marketing Intern”. Li sono rimasto due anni imparando moltissimo. Mi trovavo molto bene ma un giorno trovai una posizione aperta in Patagonia. Enviro & Marketing Coordinator Italia. Non sapevo dove si sarebbe svolto il lavoro, né credevo di avere proprio tutti i requisiti adatti ma decisi lo stesso di fare application.

Lo scorso maggio ho seguito il lancio in Italia della campagna Blue Heart. È stata una campagna molto impegnativa ma veramente interessante, nata per sensibilizzare il pubblico e proteggere gli ultimi fiumi incontaminati d’Europa concentrando l’attenzione internazionale sul potenziale disastro ambientale che potrebbe colpire il nostro continente.

E dopo 6 mesi e 5 colloqui fui preso. Patagonia è un’azienda unica.

Abbiamo lanciato una petizione volta a sensibilizzare le banche Internazionali verso questo problema in modo che smettano di investire in tali progetti idroelettrici potenzialmente distruttivi. A giugno abbiamo consegnato più di 123.000 firme alla Banca Europea per la ricostruzione e lo sviluppo e la petizione rimane aperta!

Fin dalla sua creazione, è sempre stata un’azienda attivista che cerca di proteggere, concretamente, il pianeta. Raccontiamo storie vere, perché raccogliere storie è bellissimo, ma al giorno d’oggi siamo quasi tutti di fretta

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Compriamo magliette a 5 euro e quando si rompono, dopo pochi mesi generalmente, le buttiamo. Del resto, per noi rappresentano solo dei semplici pezzi di tessuto, senza valore. Il Worn Wear vuole proprio cambiare e ribaltare questa concezione. Ed il messaggio che abbiamo tentato di lanciare è stato molto più ampio e grande di una semplice riparazione gratuita.

◊ A Livigno, a fine marzo, nevicava senza sosta da due giorni e Fred ha sbagliato a svoltare, invece di andare a destra ha girato a sinistra, ed è finito in una strada chiusa in un piccolissimo paesino.

Sappiamo che hai anche seguito l’iniziativa Worn Wear. Worn Wear è una delle mie campagne preferite di Patagonia. Lo scopo è stato quello di insegnare ai consumatori a non buttare un paio di pantaloni perché rotti o logori, non cestinare una giacca solo perché ha la zip rotta. Volevamo mostrare alle persone come i vestiti si possano semplicemente riparare e possano “vivere” ed essere usati ancora a lungo.

Non riuscivamo più ad uscire. Ci eravamo incastrati. Dopo qualche minuto il proprietario di casa è sceso a vedere e controllare cosa stessimo facendo e ci ha poi aiutato a scavare e togliere la neve per cercare di fare manovra. Dopo 4 ore siamo riusciti ad uscire!

Se tutti iniziassimo ad acquistare in modo più responsabile ridurremmo drasticamente il numero di indumenti in circolazione e, di conseguenza, l’impatto stesso che questa produzione ha sull’ambiente sarebbe molto più bassa.

Non tutti però sono state cosi “gentili”. Molte persone ci consegnavano il capo e andavano via, senza nemmeno scambiare due parole. Il vero scopo del Worn Wear, oltre ovviamente alla riparazione, era invece proprio quello di parlare con le persone. Sentire le loro storie, capire perché quella giacca o quel pantalone fossero così importante per loro.

Il Worn Wear tour italiano è andato molto bene. Abbiamo girato le Alpi, passando da Bormio, Corvara, Cortina, Sestriere e Livigno con una casetta di legno, riparando vestiti di qualunque marca, gratuitamente.

Viviamo in un’epoca caratterizzata dal fast fashion, in cui quasi nessuno si affeziona più ai vestiti. Compriamo magliette a 5 euro e quando si rompono, dopo pochi mesi generalmente, le buttiamo. Del resto, per noi rappresentano solo dei semplici pezzi di tessuto, senza valore. Il Worn Wear vuole proprio cambiare e ribaltare questa concezione. Ed il messaggio che abbiamo tentato di lanciare è stato molto più ampio e grande di una semplice riparazione gratuita.

Con me c’erano Raffaella, la nostra sarta, e Fred, di origine olandese, anche lui sarto e guidatore scelto. Il fatto più divertente era vedere come la gente rimanesse sbalordita quando spiegavamo che riparavamo vestiti gratuitamente. È stata un’iniziativa bellissima, unica, che ha avuto un grandissimo riscontro tra le persone e che spero possa essere fonte di ispirazione.

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Mi è sempre piaciuto stare all’aria aperta ed esplorare quindi i miei viaggi sono stati per lo più all’insegna dello sport e delle diverse pratiche outdoor. Torniamo a te, qual è il posto più entusiasmante che hai visitato finora? E qual è invece la prossima avventura che stai sognando e come credi si evolverà la tua storia? Ho avuto la fortuna di viaggiare molto e ho diversi posti che porto con me. Mi è sempre piaciuto stare all’aria aperta ed esplorare quindi i miei viaggi sono stati per lo più all’insegna dello sport e delle diverse pratiche outdoor. Tuttavia è difficile restringere la scelta ad un solo luogo. Se però devo scegliere alcuni posti che mi sono rimasti nel cuore in cima alla lista ci sono le isole Lofoten, in Norvegia, dove ho trascorso una settimana di sci alpinismo con mio padre due anni fa. Un luogo magico. Un altro posto stupendo sono i Paesi Baltici, che ho girato a lungo con la mia ragazza. In particolare l’Estonia del

nord è fantastica. È un paese selvaggio e ricco di foreste. Infine non posso non citare la Scozia. L’ho girata in solitaria quest’estate, partendo da Edimburgo e rientrando a Glasgow, e mi ha veramente colpito. Sono dei luoghi selvaggi, dove non ci sono grandi strade e città ma solo piccoli paesini. Le persone sono diverse, sono molto socievoli, si respira uno spirito di fraternità che noi abbiamo purtroppo perso. Parlano tanto. Ti raccontano la loro vita. Condividono le loro storie con te anche se sei uno sconosciuto. Per quanto riguarda il mio futuro invece, difficile prevederlo. Vorrei fare un’esperienza all’estero per poi ritornare in Alto Adige. Al momento non ho ancora pianificato niente, ma entro breve vorrei decidere dove e come continuare la mia storia!

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BY DENIS PICCOLO

Luca Albrisi SNOW

Luca Albrisi nasce a Milano ma ben presto sente il richiamo della montagna e si trasferisce più a nord inseguendo la sua profonda passione per le attività outdoor e in particolare per lo snowboard “esplorativo”. La sua attività nel settore è molto varia e spazia dalla scrittura al videomaking, tutti visti come mezzi di divulgazione per contribuire a una presa di coscienza ambientalista biocentrica, che metta cioè al centro la natura.

Come sei entrato in contatto con Patagonia? Potrei dire che i contatti con Patagonia sono stati in realtà due. Il primo, totalmente casuale, è stato mentre studiavo alcuni testi americani per la mia tesi di laurea in filosofia incentrata su Arne Naess, fondatore della Deep Ecology. Lessi di un imprenditore molto affine al pensiero del filosofo norvegese e, più in generale, alle idee ambientaliste che stavo studiando. Era Yvon Chouinard.

Raccontami di te, delle tue passioni, da dove vieni, di cosa fai adesso e cosa facevi prima. Sono nato a Milano dove ho vissuto per circa vent’anni anche se i miei genitori hanno sempre fatto di tutto per farmi trascorrere più tempo possibile in ambienti naturali incontaminati, in montagna o al mare.

In modo altrettanto casuale si è verificato il mio secondo incontro con Patagonia durante un viaggio a Chamonix. Qui ho avuto modo di conoscere e condividere giornate di splitboard, con alcuni dei loro ambassador e con i ragazzi che lavorano in Patagonia Europa.

Quando avevo circa dieci anni mi è stata regalata la mia prima lezione di snowboard e da allora non ho mai smesso. Ho iniziato a girovagare per l’arco alpino ogni volta che ne avevo la possibilità per poi approdare in Trentino diventando maestro di snowboard e partecipando a competizioni di freeride. Gli anni dopo la laurea sono stati dedicati allo snowboard, ovviamente, ma anche a diversi lavori nell’ambito outdoor iniziando a sviluppare competenze di tipo più narrativo scrivendo e filmando.

Più che un rapporto di “sponsorship” nel senso tradizionale del termine credo che tra di noi ci sia una condivisione di intenti e di “vision” nel rapporto tra le attività outdoor e la tutela ambientale. Questo mi ha dato una grande fiducia sul fatto che possa esistere davvero un business etico che mette al primo posto alcuni valori che considero fondamentali.

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Cosa significa per te la parola Outdoor? Outdoor rappresenta il luogo in cui noi esseri umani dovremmo sentirci più a casa. È dove abbiamo la possibilità di entrare in contatto con la materia stessa di cui siamo costituiti, senza separazioni artificiali.

Credo che molto spesso cerchiamo lontano cose che in realtà abbiamo anche dietro casa. Personalmente poi adoro lo snowboard ripido e credo di aver vissuto le avventure più intense proprio in questo genere di situazioni, però credo anche che focalizzarsi solo su quello sia riduttivo.

Le varie attività outdoor, invece, credo siano uno dei mezzi che abbiamo per ritrovare una sintonia con i luoghi di cui facciamo parte e, quindi, con la nostra più naturale posizione nel mondo.

Amo la montagna anche nella sua componente giornaliera, anche il solo essere in armonia con quel particolare luogo e in quel momento specifico per potersi godere al massimo il momento.

Parlami del tuo rapporto con la montagna. Sono nato in città e questo ha reso il mio rapporto con la montagna un po’ particolare perché è qualcosa che ho veramente desiderato e cercato per gran parte della mia vita adulta. Non mi ci sono semplicemente “ritrovato”.

Invece la prossima avventura che hai in programma? La cosa che più mi piacerebbe fare è proprio vivere in viaggio. Con la mia famiglia stiamo pensando di provare a vivere almeno 365 giorni in furgone. Il fatto di abbandonare una casa, intesa nel senso tradizionale del termine, per un anno intero mi attira molto da un punto di vista personale perché penso mi aiuterà a realizzare ulteriormente quanto le nostre vite siano condizionate dal superfluo. Inoltre pensare di lavorare e svolgere le normali attività quotidiane essendo costantemente “outdoor” è qualcosa che mi stimola davvero molto anche se ha degli aspetti gestionali decisamente complicati.

Tutto è iniziato con lo snowboard e, per quanto questa rimanga la mia attività principale in montagna, il mio rapporto con essa si è evoluto assumendo molte altre forme proprio perché considero al primo posto il privilegio di essere in questi luoghi. Andare in snowboard e splitboard e stare in montagna è stata la mia strada per acquisire un punto di vista biocentrico e con esso una maggior consapevolezza di me stesso e della mia relazione con l’ambiente.

É una bella sfida di vita e non è detto che ce la faremo, ma credo che l’importante sia mettersi nelle condizioni di provare.

Perché Split Snowboarding invece di una comoda seggiovia? Ho snowboardato e lo faccio tuttora utilizzando gli impianti ma ho sempre avuto la tendenza a spingermi fuori dalle piste battute. A cercare esperienze un po’ più “totalizzanti”. Penso che questo ci metta di fronte a noi stessi e alla reale condizione delle cose, portandoci a ripensare a noi stessi come parte dell’ecosistema dove al centro c’è la natura e non l’uomo.

Cosa farà Luca Albrisi domani? Sto attraversando un periodo un po’ particolare della mia vita, in senso generale. Sto rimettendo in discussione molto, ripartendo da alcuni capisaldi su cui ho la fortuna di poter contare: la mia famiglia, l’entusiasmo che provo nello stare “outdoor” e la passione che mi spinge a scrivere e documentare.

Per questo credo che lo splitboarding, e in generale le attività outdoor praticate in modo sostenibile, possano davvero fungere come mezzo per raggiungere quel cambio di paradigma che non ci vede più al di sopra ma come parte integrante della natura.

* Quello che ho realmente intenzione di fare nel mio domani è vivere con meno, battermi di più per le cose in cui credo e mettere al primo posto le relazioni più sincere. Desidero lasciarmi ispirare da idee e sperimentare stili di vita che siano in grado di farmi percepire ulteriormente il rapporto tra uomo e natura e il ruolo giocato dalle attività outdoor in questo.

Raccontami la tua avventura più straordinaria. Utah, California, Nevada, Nord America, Nepal e così via. Sono state tutte bellissime esperienze, ultimamente però mi sono concentrato di più sull’esplorazione di luoghi “vicini”, nell’arco alpino per avere la possibilità di vivere esperienze più complete tentando di immergermi il più possibile nei territori e nel rapporto tra uomo e natura che in questi luoghi si è sviluppato.

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Gianpaolo Corona ALPINE

"Viaggiare, conoscere persone e posti nuovi. Il mio obbiettivo è cercare sempre di essere auto sufficiente, veloce e leggero. Alla costante ricerca di esperienze stimolanti.” Questa la mission di Giampaolo Corona, nato e cresciuto in Trentino, sulle Dolomiti, le montagne di casa dove ha iniziato a scalare fin da giovanissimo. Corona è tante cose, guida alpina, tecnico di elisoccorso, alpinista. Professione e tempo libero hanno in comune la passione per la montagna e le scalate. Dal 2001 al 2017 ha partecipato a diverse spedizioni extraeuropee tra Himalaya, Karakorum e Hindu Kush, alternando scalate a “8000”, sempre senza ossigeno supplementare o portatori d’alta quota, a vie nuove e salite su montagne inviolate in zone poco esplorate tra Nepal, India e Pakistan.

Negli anni ho maturato la volontà di scalare in autosufficienza, leggero e veloce. Per arrivare a questo oltre l’esperienza, la preparazione fisica e la tecnica, ci vuole molta “testa”. Questa in particolare ce l’hai o non ce l’hai. Come sei entrato in contatto con Patagonia? Sono entrato prima nel Programma Pro Sales, poi Patagonia Italia mi ha proposto una fornitura di capi da usare durante le mie attività. Due anni fa sono stato contattato e invitato a incontrare Norbert Sandner, Patagonia Alpine and Climbing Manager Europe. Dovevo presentarmi portando con me foto e video, in inglese ovviamente. Non ho preparato nessun discorso, ho parlato a ruota libera di me, di cosa faccio e come lo faccio. Mi sono detto: meglio essere schietti e semplici. Alla fine gli sono piaciuto e ora sono un Country Ambassador. Utilizzo regolarmente capi Patagonia durante le scalate in quota ma anche nel mio tempo libero. Inoltre realizzo video che poi presento nei Patagonia Stores, promuovendo diverse iniziative ambientaliste.

Raccontami di te, delle tue passioni, da dove vieni, di cosa fai adesso e cosa facevi prima. Ho vissuto 5 anni a Courmayeur, ai piedi del Monte Bianco. Là ho scoperto l’alta quota e ne sono rimasto affascinato. Dal 2001 ho intrapreso 13 spedizioni extraeuropee scalando 9 “8000” oltre a diverse montagne mai battute prima, vie nuove e tentativi di apertura tra Nepal, Pakistan e India. Mi piace alternare le scalate di montagne altissime a tentativi su montagne più basse di quota che sono più difficili tecnicamente e si trovano in zone poco conosciute, magari mai salite da nessuno.

Fin da quando ho iniziato a scalare ho sempre visto Patagonia come un’azienda diversa dalle altre, in continua evoluzione ma fedele ai propri principi, controcorrente.

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Cosa significa per te la parola Outdoor? La parola outdoor per me significa semplicemente libertà e pace interiore. Non serve andare in altissima quota in zone remote per trovarla. È sufficiente spostarsi fuori dai sentieri battuti e sedersi su di un prato, in silenzio. Bisogna imparare ad ascoltare sé stessi prima di tutto.

zona inesplorata è quello che mi affascina di più ma è anche quello che implica una preparazione ed un impegno maggiore. In Karakorum e Himalaya ci sono ancora moltissime montagne mai salite di cui si hanno scarsissime informazioni e il solo avvicinamento risulta molto problematico. Qui entra in gioco l’importanza di scalare con il climbing partner giusto, direi che è anzi un aspetto fondamentale. Qualcuno che oltre a condividere il tuo stesso stile di scalata, condivida anche i tuoi umori e modo di fare. Un rapporto un pò come tra due coniugi che litigano ma in fondo si amano.

Raccontami la tua avventura più straordinaria. Non ho una montagna che mi è rimasta particolarmente impressa più di altre, ogni viaggio è stato diverso dai precedenti. Ognuno nella sua diversità è stato unico e irripetibile. Speciale. Le emozioni che si provano scalando in alta quota sono molto personali.

Cosa farà Giampaolo Corona domani? Sono alla costante ricerca della semplicità, dell’essenziale. Mi piace scalare veloce e con poco materiale.

Mi è capitato diverse volte di trovarmi in “situazioni limite” per esempio ad arrampicare solo sulla montagna, consapevole che in caso di incidente, anche il più banale, nessuno sarebbe venuto a salvarmi, probabilmente neanche a cercarmi in quanto in certe zone non esiste proprio un servizio di elisoccorso.

Dico sempre: “Quando pensi di avere solo l’essenziale nello zaino, c’è sempre qualcos’altro di cui puoi fare a meno”.

Tuttavia mi sentivo al tempo stesso completamente tranquillo e in sintonia con la montagna. Questo perché in primis ero in equilibrio con me stesso. Più che spedizioni alpinistiche amo chiamarle semplicemente “viaggi”.

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Attraverso i miei video cerco di trasmettere in parte quello che provo in questi momenti. A volte ci riesco, altre volte no.

Mi ripeto molte volte che vorrei fare un viaggio lasciando a casa l’attrezzatura da scalata e portando con me solo lo stretto necessario e la macchina fotografica, senza avere una meta fissa e vivendo giorno per giorno in base a quello che succede.

Invece la prossima avventura che hai in programma? Il mix alta quota, arrampicata tecnica,

Prima o poi lo farò.

Tornando a casa da questi, più che i ricordi della montagna, porto a casa esperienze vissute. Conoscere persone nuove, sia climbing partners che abitanti del luogo mi arricchisce e mi dà linfa e voglia di ripartire per nuove avventure.

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Mauro Mazzo F LY F I S H I N G PHOTOS FROM MAURO MAZZO ARCHIVES

Paziente, curioso, spartano e amante della natura, dei suoi silenzi, delle sue bellezze ma anche delle sue tante ruvidezze. Mauro Mazzo descrive così la figura del pescatore. Una figura che conosce molto bene, Mauro pesca infatti fin da quando era bambino, una passione che dalla campagna lombarda l’ha portato a diventare uno dei maggiori esperti internazionali di pesca a mosca.

A circa trent’anni ho deciso di fondare assieme a mio fratello una mia propria azienda, di cui ancora oggi sono comproprietario, e che produce, per l’appunto, tubi tecnici.

Da anni gira il mondo alla ricerca di nuovi paesaggi, di nuovi fiumi, laghi e mari in cui pescare, vivendo esperienze sempre emozionanti. La pesca è diventata per lui uno stile di vita, un modo per fuggire dai rumori della quotidianità e immergersi nella quiete di luoghi remoti dove il tempo sembra essersi fermato.

Come sei entrato in contatto con Patagonia? Ho incontrato Yvon Chouinard, fondatore di Patagonia, più di quindici anni fa in Russia durante un viaggio di pesca al salmone, e siamo diventati immediatamente amici. Da giovane avevo fatto un po’ di alpinismo, lui era uno dei miei idoli, e nella settimana passata assieme abbiamo scoperto di avere vedute simili su parecchie cose.

Raccontami di te, delle tue passioni, da dove vieni, di cosa fai adesso e cosa facevi prima. Sono nato a Milano e pesco dall’età di 6 anni. Ho iniziato nelle rogge del pavese che frequentavo nel periodo estivo e la passione per la pesca non mi ha più abbandonato. Mi sono poi trasferito in Inghilterra, seguendo una delle mie altre passioni, la fotografia.

Da allora ogni anno abbiamo fatto due o tre viaggi assieme ed ho imparato moltissimo dalla sua filosofia di vita. Il coinvolgimento con il mondo Patagonia è diventato ancora più intenso circa cinque anni fa perché ho aperto un Patagonia Store a Bormio per dare il mio piccolo contributo ad un modo di fare business davvero unico, dove rispetto per la persona e per l’ambiente non sono concetti astratti di marketing ma le fondamenta della loro filosofia.

Per alcuni anni ho lavorato come fotografo di moda per poi rientrare in Italia trovando impiego prima come magazziniere e poi rappresentante, e alla fine in un’azienda che produceva tubi tecnici.

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Cosa significa per te la parola Outdoor? Outdoor per me è evasione da tutto, sia dai luoghi che dalle persone con cui lavoro. Tutte le mie vacanze ed i miei fine settimana li passo rigorosamente sulle rive di qualche fiume preferibilmente da solo o con un gruppo molto ristretto di amici. Amo avere meno ostacoli possibili tra me e la natura che mi sta attorno.

dell’Himachal Pradesh in India per catturare il masheer a mosca. Mi sono ritrovato a vagare per le valli dell’Himalaya con una guida che si era rotta una gamba due giorni prima della partenza, a bordo di un piccolissimo fuoristrada Suzuki dove eravamo stipati in sei, trainando un pesantissimo carrello.Abbiamo percorso a piedi sentieri a dir poco impervi, perdendo in un burrone un cavallo con tutto il suo carico! Il fatto che abbia completato il viaggio indenne mi ha convinto di essere una persona davvero fortunata.

Cosa rappresenta per te il Fly Fishing? Come ha detto un giorno Yvon Choinard in un’intervista “per me la pesca a mosca non è una grande passione, è la mia ragione di vita!” Ovviamente ha calcato un po’ la mano ma sicuramente quando la si pratica ad un certo livello diventa come una droga da cui si è dipendenti.

Quali sono stati i tuoi progetti più importanti? Ho appena terminato la stesura della seconda edizione di Simple Fly Fishing, un libro nato dal desiderio di sfatare il mito che la pesca a mosca sia una tecnica molto difficile, dove per iniziare siano necessarie molte ore di lezione. Ho cercato di spiegarla nel modo più semplice possibile ed il libro ha avuto un successo insperato.

Non c’è giorno in cui non io non dedichi qualche ora alla pesca, oppure ad attività ad essa collegate. In America è uno degli sport più praticati però va detto che da loro è abbastanza diffusa la figura del pescatore mordi e fuggi, che dedica alla pesca a mosca pochi giorni all’anno, spesso in compagnia di guide.

Altro progetto a cui tengo molto è la creazione di un gruppo europeo che unisca enti e società attive nella tutela delle acque, per combattere il proliferare delle dighe e delle mini centrali idroelettriche.

In Europa la figura della guida professionale non è molto presente, e quindi chi vuole iniziare deve trovare qualcuno che gli insegni la tecnica di base, cosa che ne limita la diffusione.

Cosa farà Mauro Mazzo domani? Andrò a pesca!

Ultimamente però penso ci sia stato un avvicinamento delle nuove generazioni alla pesca. Ora sta a noi “anziani” trasmettere questa passione, è una grande sfida, perché oggi i giovani vengono bombardati da messaggi volti a far acquistare qualcosa, e non è facile veicolare contenuti non commerciali, ma penso vada seguito l’esempio di aziende come Patagonia che si batte per tenere le persone aggiornate sui problemi del nostro pianeta e sulle iniziative volte alla sua tutela.

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Questo gruppo dovrebbe inoltrare le proprie istanze direttamente alla Comunità Europea, evitando il rischio di confrontarsi a livello locale con sistemi politici che tendono a favorire più gli interessi economici locali che la salvaguardia dell’ecosistema.

Raccontami la tua avventura più straordinaria. In tanti anni me ne sono capitate diverse, ma forse il viaggio dove veramente ho pensato di non riuscire a tornare a casa è stato un giro

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Zoe Hart ALPINE

Zoe Hart, è stata la quarta donna americana ad entrare nell’International Federation of Mountain Guides Associations, il più alto livello di credibilità disponibile per le guide alpine professionali. Quando non arrampica, Zoe fa spedizioni internazionali ed in tutto il Nord America. Si considera un “scalatrice tuttofare” e sta cercando di tramandare la sua passione per l’alpinismo anche ai suoi figli.

li, ho fatto un passo indietro nei confronti della guida e dell'arrampicata. Dopo aver conseguito un master ad Harvard in “sviluppo sostenibile” Patagonia mi ha offerto una posizione lavorativa come consulente nel suo team marketing. Questo ruolo è ora diventato un lavoro appagante, vario e creativo, pieno di diversi progetti. Oggi collaboro con Patagonia su una varietà di iniziative che riguardano questioni ambientali, il marchio, gli ambassador e gli impegni linguistici, oltre a continuare ad essere un io stessa brand ambassador in modo diverso.

Raccontami di te, delle tue passioni, da dove vieni, di cosa fai adesso e cosa facevi prima. Attualmente vivo a Chamonix, in Francia, con mio marito Maxime Turgeon e i miei due figli Mathias e Mika, che hanno 6 e 5 anni. Lavoro come guida alpina ed insegnante e ho fondato una organizzazione non-profit a Chamonix, chiamata EXPLORE, che organizza escursioni per bambini nella natura.

Per me ormai Patagonia è uno stile di vita, non solo un marchio di abbigliamento. È un impegno per il futuro del pianeta, l'ambiente e il mondo che lasceremo ai nostri figli. È un modo di vivere ed una famiglia.

Come sei entrato in contatto con Patagonia? Sono entrata in contatto con Patagonia attraverso un loro ambassador, Steve House. Abbiamo trascorso un fine settimana ad un festival di arrampicata insieme, insegnando tecniche di climbing su ghiaccio. All'epoca ero una giovane scalatrice con poca esperienza. Il team di Patagonia mi ha insegnato molto e ha iniziato a sostenere i miei continui viaggi per arrampicare e le mie avventure in tutto il mondo.

Penso che il brand abbia dettato un preciso standard anche per altre aziende. Se ogni marchio outdoor combattesse con una tale passione per tutelare i luoghi che desideriamo mantenere selvaggi, quelli che vogliamo visitare, esplorare e che desideriamo tramandare ai nostri figli, la nostra società si troverebbe su di in una strada molto migliore verso un futuro ambientale sano. Mi sento fortunata ad aver trovato spazio in questa famiglia di persone appassionate.

Dopo 10 anni il mio rapporto con Patagonia è cambiato. Quando i miei figli erano più picco-

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Cosa significa per te la parola Outdoor? Outdoor può significare molte cose. Dipende dalle persone. Non sempre deve essere un qualcosa di estremo. Il mio rapporto con l’ambiente esterno è infatti variato nel tempo, in diversi periodi della mia vita.

vaggi rimasti sul pianeta prima che scompaiano. E voglio portare i miei figli con me. Quali sono stati i tuoi progetti più importanti? Il mio presente sembra riguardare l’insegnamento e l'artigianato. Insegno come professoressa presso la Scuola Nazionale di Alpinismo in Francia (ENSA). Sto creando la futura generazione di guide, cercando di dare loro gli strumenti per essere al sicuro e proteggere i luoghi che esploreranno ed in cui lavoreranno.

Dalle mie avventure più giovani come alpinista a tempo pieno alle mie esperienze di oggi come guida, ambientalista e mamma che vuole condividere con i suoi figli tutta la bellezza che l'outdoor e gli sport all’aria aperta possono dare.

Sto cercando di dare loro gli insegnamenti adatti in modo che possano seguire i loro sogni ed essere in grado di guadagnarsi da vivere con la loro passione. Lo ritengo un vero dono.

Raccontami la tua avventura più straordinaria. Ad oggi posso dire che la mia avventura più straordinaria è quella di essere mamma. Dopo anni di avventure selvagge in tutto il mondo, oggi, come madre, trovo che il potere di creare il futuro sia la più incredibile avventura selvaggia che ho mai intrapreso. E mentre i miei figli crescono e li porto a sciare, su salite a più tiri e tra i ghiacciai, vedo i loro occhi che brillano e le loro menti in costante fermento. Conosco i loro sogni pieni di idee per proteggere il pianeta e mi sento più fiduciosa.

Inoltre sto lavorando a programmi che colleghino i bambini alla natura. Spero che ciò contribuisca creare un'intera generazione di attivisti, di futuri adulti che avranno un legame più forte con la natura.

Se invece devo parlare di viaggi, sicuramente ogni posto che ho visitato in giro per il mondo mi ha lasciato qualcosa. Vivo per viaggiare e amo tutto ciò che è nuovo, diverso, scomodo e inspiegabile. Adoro incontrare sconosciuti e imparare nuove culture. Dal Pakistan alla Patagonia, ai Balcani, alla Scozia, all'Alaska e oltre, non posso onestamente scegliere un solo luogo. Adoro la bellezza selvaggia e cruda.

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Cosa farà domani? Mi concentrerò su ciò che per me conta di più: vivere semplicemente, buona etica, coscienza ambientale e dare un buon esempio ai miei figli.

In futuro mi piacerebbe visitare l’Antartide, le foreste pluviali e viaggiare in tutti i posti più sel-

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PHOTO BY JELLE MUL

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Alpine Guides Cortina Proviamo ad immaginare di giungere sulle Dolomiti ed essere i primi in assoluto ad avere l’occasione di avventurarsi su quelle montagne. Gli occhi vengono illuminati e riempiti dalla bellezza di quelle cime ancora vergini che attendono solo che il loro primo scalatore salga su pareti che ancora non sono state esplorate.

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na concomitanza di tentazioni, un mix che avrebbe fatto esplodere di voglia ed adrenalina qualsiasi avventuriero.

Già nell’800 in Dolomiti esisteva una rete stradale abbastanza estesa e l’ospitalità alberghiera cominciava ad offrire una certa qualità. Ma i nuovi viaggiatori che si affacciavano a questo mondo volevano qualcosa di più, salire su di quelle maestose montagne. Furono prima gli inglesi Gilbert e Churchill a narrarne il fascino nel libro The Dolomite Mountains nel 1864, un testo divenuto in breve un classico di letteratura alpina. Ma la vera storia delle Guide Alpine di Cortina inizia però con Paul Grohmann, pioneristico esploratore delle Dolomiti e fondatore dell’Alpenverrein, il Club Alpino Austriaco. Ai tempi per raggiungere le montagne era necessario trovare un compagno di cordata che fosse al tempo stesso conoscitore del territorio ed esperto del meteo e che sapesse muoversi in quelle vallate come a casa propria. Le guide alpine sono nate per la necessità di essere introdotti tra le guglie da chi, in qualità di pastore o cacciatore, le aveva già percorse per i più svariati motivi. La prima Guida Alpina di Cortina venne nominata da Grohmann nel 1864, si chiamava Francesco Lacedelli ed assieme scalarono alcuni dei più grossi massicci delle Dolomiti come il Sorapiš, le Tofane di Rozes e di Mezzo, il Pelmo e L’Antelao. Ben presto le cime delle Dolomiti divennero meta di alpinisti sempre più esigenti e tecnicamente più sofisticati.

Le vie di salita cominciarono a diventare le vie di discesa e le pareti divennero la nuova frontiera per gli alpinisti. Ai tempi si usava solo una corda legata attorno alla vita, ma in seguito vennero introdotti anche chiodi e protezioni poiché all’epoca era estremamente pericoloso scalare, e il solo allenamento possibile consisteva appunto nell’affrontare le grandi pareti. La piccozza era l’unico sostegno sempre presente, che si poteva incastrare in una fessura ed avvolgerli la corda attorno, oppure tornava utile per la discesa. Vivere il territorio come valligiano e metterlo a disposizione dei turisti voleva dire anche organizzare in qualche maniera una rete di sentieri e rifugi in quota, di presidiare e rendere fruibile una serie di valli che ai più erano sconosciute. Una vera rivoluzione che ha fatto nascere mestieri e competenze, rifugi e ospitalità che si tramandano ancora al giorno d’oggi. Tuttora appartenere ad un gruppo storico come le Guide di Cortina vuol dire portare sulle spalle una tradizione alpinistica e sociale, essere guardiani privilegiati di un territorio che conta circa 150 chilometri di sentieri, 850 vie di arrampicata classica, 1000 tiri di arrampicata sportiva e 31 ferrate. Una vera eredità da mantenere e della quale essere orgogliosi. Oggi, il Gruppo Guide Alpine di Cortina conta 26 guide alpine, professionisti attivi non solo nelle Dolomiti ma in tutto il mondo. Insieme con l'organizzazione di Courmayeur, il Gruppo Guide Alpine di Cortina è la più grande in Italia.

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Courmayeur Yvon Chouinard, prima scalatore e poi fondatore di Patagonia, ha iniziato a vendere attrezzi da arrampicata forgiati a mano nel 1957 attraverso la sua compagnia Chouinard Equipment. E fondamentale è stato il legame con la Società delle Guide di Courmayeur, la prima Società delle Guide in Italia, nata nel 1850, e seconda al mondo.

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atagonia ha quindi delle forti radici che affondano nell’alpinismo e nell’arrampicata e la collaborazione con diverse guide alpine rappresenta il lato tecnico dell’azienda che è sempre stato un aspetto fondamentale in termini di sviluppo e ricerca sul prodotto. E fondamentale è stato quindi il legame con la Società delle Guide di Courmayeur, la prima Società delle Guide in Italia, nata nel 1850, e seconda al mondo. Queste guide hanno accompagnato appassionati di montagna provenienti da ogni dove attraverso i luoghi più lontani e remoti del pianeta, dalla Patagonia all’Australia, dal Polo Nord all’Asia, dall’Alaska alla Nuova Zelanda.

In quest’ottica, si inseriscono il Museo Alpino “Duca Degli Abruzzi” nel cuore del villaggio di Courmayeur, ed il Rifugio Monzino, sedi, l’uno, di una grande collezione di cimeli, importante luogo di memoria storica che permette anche alle nuove generazioni di capire la cultura ed il rispetto della montagna e le difficoltà che dovremo affrontare per preservarla; l’altro, di tante attività e corsi di alpinismo e di soccorso alpino, di cui molte guide della società sono istruttori o tecnici. Tutti questi valori caratterizzano da sempre la società, e vengono quotidianamente trasmessi ai clienti ed agli appassionati di montagna ovunque li si accompagni.

Sulla scia della prima ascensione al Monte Bianco dal versante Italiano nel 1863, è stato tutto un susseguirsi di nuove imprese che hanno fatto emergere grandi figure di guida, Julien Grange, Joseph Marie Chabod, Emile Rey, Isidore Gadin, Alexis Fenoillet. Le guide di Courmayeur hanno inoltre partecipato alle prime spedizioni extraeuropee all’inizio del 1900. Era il periodo delle grandi esplorazioni artiche, antartiche, e himalayane in cui l’alpinismo assumeva sempre un ruolo più importante.

Ad oggi, i soci effettivi sono 65, di cui circa 45 in attività, e fanno conoscere ogni anno a migliaia di persone gli angoli più belli delle montagne del pianeta attraverso molteplici attività invernali come sci alpinismo, free ride, arrampicata su ghiaccio, autosoccorso in valanga, alpinismo invernale, arrampicata indoor, ed in estate corsi di arrampicata sportiva e sicurezza, alpinismo classico e moderno su vie di ghiaccio o roccia ed infine trekking.

Una vena esploratrice che hanno mantenuto anche nel dopoguerra partecipando nel 1954 alla conquista del K2. Questa vocazione pionieristica, unita all’amore ed al rispetto per la montagna, ed alla difesa delle sue peculiari delicate condizioni, contraddistinguono anche oggi l’attività delle guide di Courmayeur.

Grande parte del merito lo ha, ovviamente, il Monte Bianco con tutte le sue possibilità e sfaccettature, nel suo ambiente unico ed irripetibile. Ma certo senza tralasciare gli altri 4000 della Valle d’Aosta, dal Monte Rosa al Gran Paradiso. In tutte queste attività, le guide alpine di Courmayeur portano la propria preparazione e la propria dedizione, una grande attenzione alla sicurezza ed un costante aggiornamento.

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Mountain of Storms Si erano soprannominati Fun Hogs.

« Yvon Chouinard, Doug Tompkins, Dick Dorworth, Chris Jones e Lito Tejada-Flores.

I meno esperti, tuttavia, non sanno che il monte Fitz Roy, anche noto come Cerro Fitz Roy o Cerro Chaltén, è una montagna situata in Patagonia, al confine tra Argentina e Cile, che raggiunge un'altezza di 3.405 metri sul livello del mare.

Cinque amici che, nel 1968, decisero di intraprendere un viaggio itinerante, ed un po’ pazzo diciamolo, e documentare il tutto su un Bolex da 16mm.

Mountain of Storms documenta la loro avventura, partita accatastando tutto e tutti in un vecchio furgone e percorrendo in sei mesi un viaggio di quasi 30.000 km dalla California alla Patagonia.

Il Cerro Fitz Roy era stato scalato per la prima volta dall'alpinista francese Lionel Terray accompagnato da Guido Magnone nel 1952, nella spedizione che aveva causato la morte del grande alpinista Jacques Poincenot. Nonostante la sua bassa altitudine, il Cerro Fitz Roy è tuttora considerato di difficile ascesa a causa del granito molto compatto di cui è composto e delle condizioni climatiche estreme.

Quel viaggio ha cambiato la vita di tutti i membri del gruppo.

Le scalate quindi non sono frequenti perché richiedono un elevato livello di esperienza alpinistica.

Nessuno di loro immaginava però che quell’avventura un po’ folle non solo avrebbe avuto un enorme impatto sulle loro vite personali, ma avrebbe anche contribuito a dare vita ad un movimento, ispirando ancora oggi molti altri amanti della vita all’aria aperta e delle pratiche outdoor.

Nessuna di queste informazioni tuttavia ha fermato i cinque amici. Lungo la strada hanno surfato, hanno sciato sulla sabbia e sulla neve, hanno trascorso 31 giorni in una truna e hanno scalato il Fitz Roy.

Da questo questo road trip, diventato un po’ leggenda, ne è stato tratto un film, Mountain of Storms, inedito fino a poco tempo fa.

E cinquant'anni dopo questo film, che ha definito uno stile di vita, è diventato un grande classico.

Avrebbe ispirato molte future spedizioni, film d'avventura e documentari. E tutti i membri dei Fun Hogs sarebbero poi diventati pionieri dell'industria outdoor e famosi ambientalisti. Primo fra tutti Yvon Chouinard, storico fondatore di Patagonia.

Non solo. Yvon Chouinard, che già precedente aveva dato vita alla Chouinard Equipment, grazie a questo viaggio ebbe l’ispirazione nel 1973 per fondare la sua nuova linea di abbigliamento. Che chiamò Patagonia.

Tutto iniziò molto più semplicemente, nell’estate del 1968, quando lo scalatore e surfista Yvon Chouinard, lo scalatore e sciatore Doug Tompkins e lo sciatore più volte campione Dick Dorworth, partirono dalla California su di un vecchio van per arrivare fino all'estremità meridionale dell’Argentina, dove sarebbero stati poi raggiunti da un giovane climber britannico, Chris Jones, e dal climber Lito Tejada-Flores che avrebbe ripreso e documentato la loro avventura.

Per la maggior parte della gente, specialmente allora, Patagonia era un nome come Timbuktu o Shangri-La, lontano, interessante, per lo più sconosciuto e non proprio sulla mappa. La Patagonia nell’immaginario collettivo evocava per Chouinard “visioni romantiche dei ghiacciai che cadono nei fiordi, picchi frastagliati e battuti dal vento, gauchos e condor”. Un nome mistico e che in più aveva la particolarità di essere pronunciato allo stesso modo in tutte le lingue. Chouinard, insieme ai suoi Fun Hogs, ha avuto il merito di far desiderare disperatamente alla gente di essere "là fuori". L’impresa che hanno compiuto in Mountain of Storms ha accesso il desiderio di esplorare e sfidare i propri i limiti a tutti i timidi amanti della natura e della vita all’aria aperta. E grazie a Patagonia, agli attrezzi e agli indumenti che ha inventato e messo a disposizione di tutti, finalmente la natura selvaggia è diventata accessibile al grande pubblico.

Il loro obiettivo era aprire una via sul Cerro Fitz Roy, montagna che era stata scalata solo due volte prima di allora. “Sei mesi di viaggio, da Ventura, California, alla punta del Sud America” riassumeva lo stesso Yvon Chouinard con disinvoltura, “facendo surf lungo la costa occidentale fino a Lima, sciando sui vulcani del Cile e arrampicandoci sul monte Fitz Roy”. Semplice, no?

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PHOTO BY CHRIS JONES

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PHOTO BY ANDY CHISHOLM

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Never Town Un film che parla di surf. Un film che parla di conservazione del territorio.

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uesto e molto altro ancora è racchiuso all’interno di Never Town, l’ultimo film di Patagonia che ci ricorda che anche i luoghi più belli e incontaminati della Terra possono essere costantemente a rischio. E che ci invita ad impegnarci attivamente per preservarli.

in città sa che appena svoltato l’angolo la natura intorno prenderà il sopravvento sull’operato umano, fino ad arrivare all'oceano. L'oceano è una natura selvaggia di per sé, delimitato da coste solitarie e molto spesso inospitali. È lì che c’è il cuore del vero surf. Arroccati sul bordo vibrante di questo continente, ci sono i surfisti. Solo loro conoscono intimamente questo spazio selvaggio, attraversano il confine tra terra e acqua, avventurandosi e sfidando l'oceano ogni giorno. Non c'è gruppo meglio qualificato per essere i difensori della costa.

Girato sulle coste incontaminate e remote del continente oceanico, Never Town ci porta nel cuore del mitologico surf australiano, uno status che però non lo rende immune dalle minacce delle trivellazioni petrolifere in profondità e dagli allevamenti ittici industriali. Never Town ha come voci narranti i famosi surfisti australiani Dave Rastovich e Wayne Lynch che invitano ad una vera e propria call to action tutti coloro che vogliono che i propri posti del cuore rimangano selvaggi e incontaminati.

Never Town ci mostra come attualmente, lungo le coste meridionali e meno popolate dell'Australia, i surfisti lavorino per proteggere la loro ecologia locale dalla minaccia dell'industria moderna e dalle aziende che vogliono trasformare lo spazio selvaggio in profitto. L'industria petrolifera sta lavorando alla costruzione di impianti di perforazione in acque profonde nel Great Australian Bight. L'industria ittica vuole stabilirsi in una delle isole meridionali più incontaminate dell’Australia.

Il film è un'esplorazione di ciò che questi luoghi significano per loro, e cosa e quanto sono disposti a fare per salvarli.

“Abbiamo mitologizzato questi posti cosi tanto" dice Wayne Lynch, “che ci rispecchiano profondamente come persone, rappresentano quello che realmente siamo. Ma se li dovessimo perdere, rischieremmo di perdere anche noi stessi”.

Qui si concentrano e si radunano vari gruppi di protesta che lottano insieme per proteggere la loro striscia di costa. Le storie di questi locali che celebrano e proteggono la loro ecologia locale sono ciò in cui ci immergiamo in Never Town. Ma mentre c'è molto lavoro da fare per preservare questo modo di vivere costiero, al tempo stesso c'è anche la necessità di celebrare ciò che ancora esiste: vecchie foreste in crescita, lunghe coste deserte, onde selvagge e abbastanza tempo per attivarsi e salvaguardare questo patrimonio importantissimo.

Oltre ai due, anche Dan Ross, Belinda Baggs e Heath Joske, che ci guidano attraverso gli stupendi paesaggi delle coste dell'Australia Meridionale, dal suo confine polveroso alle profonde foreste di Victoria e Tasmania, accompagnati e cullati dalle musiche dal sound australiano di Midnight Oil, Yirrnga Yunupingu, Ziggy Alberts e Bad Dreems.

I surfisti hanno la possibilità ed il dovere di far sentire la loro voce, di battersi per preservare il loro oceano e la natura incontaminata che gli fa da cornice, la loro casa.

L’Australia è un luogo per lo più selvaggio ed incontaminato, che ci connette a chi siamo veramente. Anche chi vive

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PHOTO BY ANT FOX

PHOTO BY AL MACKINNON

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Greg Long Greg Long ha sempre avuto un legame molto profondo e radicato con l’oceano.

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ato e cresciuto nel sud della California, Greg è stato introdotto al surf e all’oceano in tenera età dal padre, un bagnino.

“Fare surf era un impegno al 100%. Mi allenavo 6 ore al giorno e monitoravo sempre ogni singola onda in tutto il mondo, lasciando perdere tutto il resto per inseguirla” racconta.

Inizia a surfare fin da giovanissimo arrivando ad essere molto apprezzato in tutta la comunità che lo vede come una stella emergente.

“Ero costantemente in movimento. C'erano grandi aspettative da parte degli sponsor e dei media”. Questa costante pressione diventa alla fine troppa per lui.

Dopo numerosi viaggi alla ricerca delle grandi onde, nel 2003, all'età di 19 anni, vince il Red Bull Big Wave Africa al Dungeon’s. La vittoria lo consacra ufficialmente fra i grandi nomi del surf.

Greg Long decide di fare un passo indietro, fa uno zaino e parte verso un qualsiasi luogo del mondo lontano dall’oceano. Al suo ritorno matura la decisione di usare il suo status di celebrità nel mondo del surf per educare le persone su questioni ambientali volte alla conservazione dell’oceano.

Nel 2012 però Long ha un incidente in Cortes Bank, un'area al largo della costa della California meridionale, dove le onde possono raggiungere anche i 10 metri di altezza. Viene travolto da una serie di enormi onde che non gli permettono di tornare in superficie e prendere aria. Sviene sott’acqua ma fortunatamente è avvistato dalla sua squadra di soccorritori e comincia a riprendere coscienza solo una volta che è issato in barca.

L'oceano è sempre stato nel suo sangue e in, quanto figlio di un bagnino, Greg ha sviluppato un profondo rispetto per il mare insieme ad un approccio metodico alla comprensione e alla navigazione attraverso le sue condizioni in costante cambiamento.

Mentre Long giace sul ponte, circondato dai suoi amici, in attesa dell'arrivo di un elicottero di emergenza, sa che l'esperienza appena vissuta lo ha cambiato per sempre.

Tuttora sta lavorando con Parley for the Oceans, Surfrider Foundation, Save the Waves Coalition e Patagonia per promuovere la consapevolezza ecologica e la conservazione dell’ambiente.

“Questo incidente mi ha costretto a rallentare ed a interrogarmi su quello che contava veramente nella mia vita” dirà in seguito Greg in un’intervista.

“L'oceano mi ha dato così tanto nella vita ed è stato il mio più grande insegnante. Ho visto molti cambiamenti nei miei 34 anni su questo pianeta, di cui 30 passati in spiaggia, e molti di questi non sono stati in positivo. Sento che è anche mia responsabilità impegnarmi per un cambiamento in meglio” dice Long.

“Gran parte della mia esistenza ruotava attorno al surf, ma ho iniziato a ragionare su che cosa davvero mi aveva spinto inizialmente a cercare onde sempre più grandi”. Sorprendentemente, Long torna a surfare poche settimane dopo il suo incidente, gareggiando a Mavericks, un famoso spot a nord della California. In seguito lui stesso dirà che non sapeva esattamente perché era tornato a competere così presto. Pensa quindi di abbandonare definitivamente le gare e riflettere su quali sarebbero state le conseguenze di quella decisione.

Greg ancora oggi compete occasionalmente e surfa le grandi onde per divertimento, ritiene però che, al di là delle numerose vittorie, il suo più grande risultato sia stato la sua capacità di usare le sue storie di vita e le lezioni che ha imparato per insegnare e ispirare negli altri la responsabilità verso i nostri oceani ed il nostro pianeta.

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Patagonia Store Milano B Y S I LV I A G A L L I A N I

“Era il 22 ottobre 2002. Ricordo che i miei capelli, oggi brizzolati, a quell’epoca erano ancora di un nero intenso. Ma ricordo anche che quel giorno era stato estremamente importante perché colleghi di molti altri negozi erano giunti da lontano, da Chamonix, da Monaco e da Ventura, sede storica del brand” racconta Matteo Diciomma. “C’era tanta gente entusiasta di vedere il primo negozio Patagonia in Italia. Ricordo molte persone orgogliose di indossare per quella serata il loro capo Patagonia preferito.”

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“Sedici anni fa questa zona era un cantiere,” continua Diciomma, “era difficile immaginare quello che sarebbe diventata in futuro, come è ora. Qui di fronte si parcheggiava in doppia, tripla fila, mentre oggi è un’area quasi pedonale, una delle più moderne e frequentate di Milano.”

atteo fa parte del team storico italiano di Patagonia e ancora oggi, dopo 16 anni, possiamo trovarlo nel punto vendita di Corso Garibaldi. In una città come Milano, sempre di corsa ed in fermento, dove edifici e palazzi crescono e cambiano a ritmi forsennati, il Patagonia Store è un punto ben saldo della comunità, da anni presente nel cuore della metropoli.

L’architetto Stefano Colombo, viaggiando molto per lavoro, era venuto in precedenza in contatto con Patagonia ed era diventato un appassionato del brand. Nel 2001 decide quindi di chiamare direttamente la sede di Ventura e proporgli quello che diventerà il futuro store. Un anno dopo apre il negozio. Matteo Diciomma ricorda bene quel periodo,

Ha sede in un immobile storico che nasce con scopi artigianali e commerciali, ad inizio 1900. Ai tempi al suo interno si disegnavano e producevano orologi da parete e lampade elettriche, pezzi speciali e fatti su misura per alberghi, ville e navi. Le testimonianze di questo passato sono ancora vive in negozio grazie a foto d’epoca che ritraggono gli operai al lavoro in quello stesso spazio che è ora il cuore di Patagonia Milano. La fabbrica in seguito chiude e viene acquistata negli anni ’90 da uno studio di architetti, lo Studio Stefano Colombo e Enrico Mercatali.

“le persone che entravano rimanevano sbalordite dalla struttura del locale. Fuori era un cantiere unico e dentro, oltre una piccola vetrina, appariva il negozio Patagonia, ricavato da una vecchia fabbrica di lampadari e mantenuta allo stato originale ma con all'interno abbigliamento che faceva sognare”.

“La prima volta che sono venuto qui mi è sembrato come di entrare in una cattedrale gotica, era tutto buio e l’unica illuminazione veniva dal lucernario” ricorda Stefano Colombo. “C’erano ancora gli attrezzi di lavoro ma non più le persone, era come se il tempo si fosse fermato.”

L’intervento architettonico realizzato ha infatti esaltato l’epoca dello stabile, mantenendo come materiali pietra, mattone, acciaio e vetro che erano elementi costitutivi dell’edificio, e mettendo a nudo molti muri originali seguendo lo spirito di Patagonia e la sua mission votata al riutilizzo.

Gli architetti ristrutturano lo spazio ma la superficie dell’immobile è enorme, si estende su ben 1000 metri quadri, quindi decidono di metterne in vendita meta, la vetrina antistante che affaccia sulla strada.

Il luogo aveva una storia da raccontare e ciò si sposava perfettamente con i valori che da sempre caratterizzano il brand californiano.

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nodo”, la scultura di Claes Oldenburg in Piazza Cadorna”.

Ora quella stessa zona è quella che in Europa che si e sviluppata di più e più velocemente negli ultimi 10 anni ma lo store Patagonia ha mantenuto nel tempo la sua anima.

Ma anche gli anniversari del decimo e del quindicesimo anno del negozio sono stati appuntamenti molto sentiti dalla comunità di appassionati di sport e pratiche outdoor, come ricorda bene Matteo.

Non solo shop ma anche punto di incontro per appassionati di outdoor e sostenibilità. “Tutti i nostri negozi, in tutto il mondo, sono luoghi d'incontro dove poter condividere esperienze, emozioni, avventure, impegno sociale ed ambientale. Facciamo del nostro meglio per veicolare questo messaggio e, al tempo stesso, cerchiamo di ispirare sempre più persone”.

“Vedere tutte quelle persone così vicine a Patagonia ed a noi, amici e clienti di vecchia data, così coinvolti nel celebrare insieme un percorso comune, è stato allo stesso tempo esaltante ed emozionante”. E di fianco agli appassionati del brand di lunga data, sempre più giovani si stanno avvicinando alle pratiche outdoor, alla tutela dell’ambiente ed ai valori di cui Patagonia si è sempre fatta portavoce.

Vendere un prodotto diventa quindi anche un mezzo per trasmettere la filosofia dell’azienda. E ha permesso a Patagonia di instaurare un reale rapporto umano con alcuni acquirenti che sono orgogliosi di possedere capi che li hanno accompagnati in mille avventure.

“Le nuove generazioni sono più sensibili delle vecchie alle tematiche che più ci stanno a cuore. Anche le associazioni ambientaliste che finanziamo e che lavorano coi noi nascono dall'iniziativa di tanti ragazzi giovani.”

“Molti clienti sono diventati poi amici, alcuni passano anche solo per fare due chiacchiere e bere un caffè!”. Attraverso numerosi eventi organizzati dentro e fuori al negozio, Patagonia ha permesso alla sua comunità di vivere la città a 360 gradi. Nel corso degli anni il team di Milano ha dato vita a diverse iniziative a cui hanno preso parte storici amici ed ambassador del marchio.

Con un occhio sempre attento al passato ma ormai proiettati verso il domani, il futuro di Patagonia Milano si prospetta positivo e lascia ben sperare. “Vorremmo consolidare il nostro ruolo come hub per la comunità di amanti dell'outdoor e degli attivisti ambientali della nostra zona” conclude Diciomma, "e magari, perché no, anche per quelli un po' più lontani!”

“Siamo andati in canoa sui navigli con Rok Rozman e abbiamo fatto il tifo per Timmy O’Neill quando ha scalato “ago filo e

“Le nuove generazioni sono più sensibili delle vecchie alle tematiche che più ci stanno a cuore. Anche le associazioni ambientaliste che finanziamo e che lavorano coi noi nascono dall'iniziativa di tanti ragazzi giovani.” Con un occhio sempre attento al passato ma ormai proiettati verso il domani, il futuro di Patagonia Milano si prospetta positivo e lascia ben sperare.

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Patagonia Store Cortina Cortina d’Ampezzo, la “regina delle Dolomiti”. É qui che Patagonia ha aperto, nell’agosto 2014, il suo settimo punto vendita europeo. “C’era molta curiosità in paese tra i residenti e tra gli ospiti che arrivavano per le vacanze estive. In generale abbiamo riscontrato un gran apprezzamento per il ritorno di un marchio storico e conosciuto a livello globale” racconta Paolo Gandini, store manager del punto vendita.

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late più impegnative,” sostiene Gandini, “ogni persona può trovare sempre il modo di vivere questa località, in un contesto dove la bellezza della natura è sovrana.”

a relazione fra il brand californiano e la città veneta è infatti di lunga data. Patagonia in Italia è nata proprio a Cortina negli anni ’80. Distribuita da Morotto Company e venduta nello storico negozio K2 Sport, da sempre un punto di riferimento nel mondo dell’alpinismo e dell’outdoor. Ora, in quello stesso negozio, ha sede il Patagonia Store. Non è di certo una coincidenza.

E sono proprio i numeri a raccontarci di un costante avvicinamento dei giovani all’outdoor, sia in estate che in inverno. “E’ vero che c’è un aumento della frequentazione della montagna da parte dei giovani, e tutto ciò è positivo,” continua Paolo Gandini, “bisogna però essere consapevoli che questo comporta anche dei lati negativi e che l’educazione al rispetto dell’ambiente e delle persone che già la frequentano dovrebbe essere una priorità imprescindibile.”

Situato in un’area alpina davvero unica, tra le più belle al mondo, il punto vendita Patagonia di Cortina offre un assortimento di prodotti del brand californiano che hanno come denominatore comune l’alpinismo tecnico. Qua si possono trovare capi per lo sci e lo snowboard, ma anche indumenti per bambini e abbigliamento sportivo e casual, attrezzatura per arrampicata sportiva, ferrate, alpinismo ed arrampicata su ghiaccio.

Il nuovo store del brand californiano soddisfa perfettamente in queste esigenze. Si pone infatti come obiettivo quello di preparare i clienti ad un’esperienza unica, appositamente creata per l’area alpina di Cortina. In modo analogo a tutti gli altri punti vendita, anche quello della città veneta segue da vicino la mission dell’azienda californiana ed il suo spirito ambientalista volto alla salvaguardia del nostro ecosistema, supportando, nel corso degli anni, diverse associazioni e attività volte al sostegno della natura.

In questi ultimi anni Cortina ha sviluppato il proprio turismo partendo proprio dall’alpinismo: sono sempre di più i turisti che visitano la Conca per provare nuove emozioni sulle maestose montagne che circondano la Valle d’Ampezzo, per cimentarsi sulle vie ferrate o sulle falesie appositamente attrezzate per l’arrampicata sportiva, oppure per scalare con i ramponi cristalline cascate di ghiaccio, o ancora calzare gli sci e lanciarsi in acrobatiche discese lungo ripidi couloir e pendii fuoripista.

“Ce ne sono talmente tante che è difficile sceglierne solo una. Si passa dall’utilizzo del cotone organico, dal riciclaggio della materia prima, dal supporto economico alle associazioni ambientaliste. Il progetto Worn Wear in particolare ha avuto molto riscontro qui. Riparare gratuitamente e dare nuova vita a capi usati (di tutti i marchi) è un passo responsabile e concreto per diminuire il nostro impatto sul pianeta.”

Cortina è una delle mete più riconosciute a livello Europeo e non solo per lo sci. Si tratta di un luogo magnifico, che va vissuto tutto l’anno, ogni stagione ha il suo fascino e regala emozioni indimenticabili.È una città notoriamente molto famosa per le sue piste da sci, ma d’estate non ha nulla da invidiare ad altre mete.

Dietro ogni capo Patagonia c’è una storia, una filosofia che mette in “prima linea” la funzionalità, la durata e l’eco-sostenibilità. Come si fa a non innamorarsene?

“Il periodo estivo riserva sempre qualche cosa di speciale: dalla semplice passeggiata lungo i sentieri immersi nei boschi, alle sca-

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Patagonia Store

Montebelluna & Co-Lab Vicino Treviso, storico distretto dell’outdoor in Italia, precisamente a Montebelluna, il 5 Novembre 2016 viene inaugurato l’Inlet firmato Patagonia, ovvero uno spazio in cui trovare sia i capi di stagione che quelli in versione outlet.

Montebelluna è un luogo dove si respira outdoor e natura a pieni polmoni e qui gli appassionati di sport e vita all’aria aperta insieme ai clienti affezionati al brand californiano e a tutto ciò che esso rappresenta e porta avanti da anni, hanno accolto con fervore l’apertura dello store.

a disposizione di quelle associazioni e comitati che si vogliono confrontare, aiutare e crescere assieme avendo lo stesso legame: l’ambiente. Le organizzazioni che necessitano di uno spazio per ritrovarsi possono utilizzare il Co-Lab a titolo gratuito, senza alcun tipo di vincolo e, in più, possono anche avvalersi dello spazio sottostante per organizzare eventi che diano voce alle loro attività.

“Non siamo I classici sales assistant che ti spingono a comprare e basta. Per noi il concetto di comunità é molto importante” sostiene Enrico Trentin, store manager del negozio di Montebelluna.

“Onestamente non é molto semplice portare il concetto del Co-Lab alle orecchie degli interessati ma ci stiamo lavorando costantemente” dice Enrico Trentin.

“Abbiamo clienti che sono diventati amici e ogni tanto passano anche solo per bere un caffè tutti insieme mentre ci raccontano le loro ultime avventure, magari vestendo i nostri capi. Abbiamo poi la fortuna di avere una storia meravigliosa ed affascinante alle nostre spalle e, se hai l’occasione di poterla ascoltare, non puoi non innamorartene!”

“Abbiamo infatti deciso di dedicare una persona del team alla coordinazione di questo spazio. Grazie a “Coltiviamo futuro”, una ONG che utilizza con costanza il Co-Lab, è stato possibile creare l’evento in cui si è discusso di monocultura e pesticidi, temi molto rilevanti nella nostra area. L’affluenza e l’interazione tra i partecipanti è stata davvero notevole e sicuramente uno stimolo per crearne altre.”

Come tutti i punti vendita Patagonia, anche a Montebelluna lo spazio del negozio é stato messo a disposizione della comunità locale per ritrovarsi e promuovere progetti legati alla sostenibilità, o anche soltanto per leggere un libro e informarsi sulle iniziative promosse dal brand.

Attraverso questi eventi ed iniziative, Patagonia cerca di “preparare” i giovani alla montagna, ospitando esperti del settore che ne decantino le meraviglie e, al contempo, li mettano in guardia dai pericoli.

“È ciò che ci rende differenti, che ci contraddistingue e che ci rappresenta da sempre” racconta Trentin. “Quindi è fondamentale coinvolgere la comunità, interagire e sensibilizzare su tematiche ambientali che ci stanno a cuore. È parte integrante dell’essere Patagonia”.

Patagonia attraverso i suoi punti vendita, il personale specializzato e le sue numerose iniziative vuole diffondere un messaggio fondamentale: è importante prendersi cura della Terra su cui viviamo e salvaguardarla, è l’unica che abbiamo, invece con azioni sconsiderate stiamo rischiando di giungere ad un punto di non ritorno.

Infine, in un’ottica di connessione sempre più stretta con le realtà ambientaliste locali, il primo piano dello store di Montebelluna è stato interamente riservato al Co-Lab, Community Lab. Uno spazio di circa 120 mq suddiviso in 4 grandi aree, con in più una cucina che tutti possono utilizzare.

“Vorremmo diventare sempre più un riferimento per la comunità locale” conclude Trentin, “ma anche per gli appassionati di outdoor e per le ONG che vogliono instaurare un rapporto di collaborazione e crescita con noi.”

Un luogo completamente indipendente, che viene messo

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Alex Weller Milan Campaign

B Y S I LV I A G A L L I A N I

Lo scorso 19 settembre, il Patagonia Store di Milano ha presentato l'evento Rompere il Paradigma. Il brand ha ospitato nel suo negozio di Corso Garibaldi una conferenza a cui hanno preso parte diverse aziende del settore, media, studenti e visitatori interessati alle pratiche di tutela dell'ambiente, tema da sempre al centro del business del marchio. Al dibattito, incentrato sulle migliori pratiche di fornitura e produzione per le aziende di abbigliamento, hanno partecipato diversi ospiti. Tra il pubblico, presente anche Alex Weller, European Marketing Director di Patagonia. Alex si occupa del marketing del brand su tutti i canali di distribuzione e comunicazione e dirige il suo team creativo negli uffici di Amsterdam. L’abbiamo raggiunto per fare due chiacchiere sulla fitta campagna di eventi che si terrà proprio a Milano dal 4 al 14 ottobre.

Ciao Alex, raccontaci cosa avverrà esattamente qui a Patagonia Milano a partire dal 4 ottobre. Abbiamo in programma numerosi eventi ed iniziative che non coinvolgeranno solo lo store Patagonia come luogo fisico. Tutti saranno ispirati dalla nostra missione aziendale di "realizzare il prodotto migliore, non provocare danni inutili e utilizzare il business per ispirare e implementare soluzioni per la crisi ambientale". Abbiamo scelto Milano perché è una città progressista dove sport all'aria aperta, design, creatività, imprenditorialità e innovazione si mescolano. Qui hanno sede molte comunità diverse, molte delle quali condividono gli stessi valori di Patagonia: l’amore per gli outdoor sports, i luoghi incontaminati e l’impegno a salvaguardare il nostro ecosistema cercando di avere il minor impatto possibile sul pianeta. Volevamo dare a queste comunità la possibilità di conoscerci in prima persona, sperando di ispirare gli altri con la nostra missione e al tempo stesso di essere ispirati dall'energia creativa di Milano, dalla bellezza naturale e dall'attivismo ambientale. La community italiana è molto importante

in Europa ed ha un forte legame e amore per l’outdoor. Avete già organizzato campagne simili in altre città europee prima di oggi? Ci sono stati due progetti simili in precedenza, a Londra nel 2016 ed a Berlino nel 2017. Abbiamo scelto queste città per lo stesso motivo che ci ha portato poi ad optare anche per Milano. Milano è una grande città progressista, sempre in fermento, e l’Italia è una nazione molto importante per noi. C’è però una differenza fondamentale, in Italia e qua a Milano, questo progetto è più grande delle due precedenti città. Qui abbiamo organizzato più eventi e l’agenda di iniziative è più diversificata. Penso che quello che sia unico di Milano è che la maggior parte delle organizzazioni che sopportiamo in Italia con il progetto 1% for the Planet abbiano sede in questa città. Il movimento ambientale italiano si concentra qua, in questa città, e si può chiaramente percepire come l’Italia sia profondamente legata all’ecologia e alla salvaguardia del suo ambiente naturale. Inoltre qui abbiamo delle ottime relazioni con le varie organizzazioni, le associazioni e gli strumenti di comunicazione (come The Pill) che si prodigano ed hanno interesse a veicolare il nostro messaggio. Grazie a tutti questi fattori abbiamo avuto la sensazione che qui avremmo potuto fare di più che a Londra e Berlino. Siamo entusiasti di aver avuto l’occasione per questo incontro più diretto con la comunità italiana e siamo orgogliosi di averlo potuto organizzare più in grande in modo da far crescere quella che noi chiamiamo “community building”. 92

Porterete questo progetto anche in altre città europee in futuro? Ci piacerebbe molto ma non c’è niente di programmato al momento, siamo focalizzati su Milano ora e vedremo come andrà questo evento. Uk, Germania e Italia sono mercati molto importanti per Patagonia e per motivi differenti. Hanno comunità diverse con cui siamo stati contenti di rapportarci volta per volta. Ma tutta l’Europa ha diverse identità che cambiano a seconda della nazione, ci sono quindi molto posti, composti da persone che praticano sports e che si preoccupano dell’ecologia con cui vorremmo interfacciarci in modo più profondo in futuro. Dopo Milano penseremo al da farsi, e se, nel caso, riproporre l’iniziativa di nuovo in una grande metropoli oppure concentrarci verso qualche comunità più piccola e specifica. Milano è una città dai molti contrasti. Moda, design e creatività si concentrano qui, ma anche imprenditoria ed innovazione. I milanesi, al tempo stesso, sono però molto attivi nei confronti dell’ambiente e della sua preservazione ed amano praticare sport all’aria aperta. Come si relazione Patagonia con i cittadini di Milano e nei confronti di questi aspetti contrastanti? Patagonia ha sempre avuto una forte identità. Le persone, nella maggior parte dei casi, scelgono di acquistare ed indossare i nostri capi per le loro caratteristiche tecniche e funzionali. Scelgono una nostra giacca, ad esempio, a seconda di aspetti specifici, come il periodo dell’anno in cui la useranno oppure il tipo di clima e l’altitudine che andranno ad affrontare.


Questo è ciò che motiva l’acquisto. Per qualcuno di essi però, anche se è amante di Patagonia ed è interessato al brand per i nostri valori riguardo i confronti dell’ambiente, forse l’apparenza della giacca è importante quanto o di più della sua funzionalità.

Non facciamo cioè ciò che normalmente i fashion brand fanno per creare un bisogno. Ci focalizziamo solo sulla funzionalità dei nostri prodotti, sull’essere seriamente impegnati a ridurre l’impatto della nostra catena di produzione.

La nostra speranza é che la gente compri i nostri prodotti perché ne hanno bisogno, non perché li desiderano e l’unica cosa su cui siamo veramente fermi è non nutrire ulteriormente il mercato del fast fashion e dei trend momentanei, non incoraggiare le persone a comprare in base ad aspetti puramente estetici. Un esempio è il fatto che non facciamo influencer marketing, non lavoriamo con celebrities, non facciamo product placement su fashion magazines.

Per noi è di fondamentale importanza usare il business come uno strumento per modificare l’impatto ambientale. E se nonostante tutto questo qualcuno alla fine decidesse di comprare una nostra giacca solo per il suo aspetto estetico andrebbe bene comunque, perché anche quello può essere uno strumento che ci aiuti a raggiungere il nostro obiettivo primario. Abbiamo riflettuto tanto se fare questa campagna di eventi durante la settimana della moda o in un altro perio-

do. Pensavamo che sicuramente avrebbe potuto essere un’opportunità per capire se ci piaccia o meno avere un dialogo anche con il mondo fashion tradizionale. L’opportunità, in quel caso, sarebbe stata quella di discutere e veicolare il nostro approccio, la nostra idea di business, spiegare in che modo realizziamo vestiti e perché, e magari continuare ad ispirare non solo altri brand di outdoor ma ogni azienda che fa vestiti. Alla fine però non volevamo che queste serie di eventi si riconducesse solo al “distruggere” l’industria fashion. L’obiettivo originale e principale era organizzare eventi che fossero al servizio della comunità e quindi farlo durante la fashion week alla fine non aveva senso. L’abbiamo spostato e ci siamo focalizzati sul fare solo un evento durante quella settimana (la conferenza Rompere il Paradigma) e spero che ci siano state persone quella sera che non ci conoscevano ma che hanno imparato qualcosa su di noi e su qual è il nostro approccio. Abbiamo sicuramente iniziato quella “conversazione” e speriamo che abbia portato le gente a pensare fuori dagli schemi e cambiare opinione su certe cose. Consumismo e moda sono due termini che vanno di pari passo. Patagonia invece lancia messaggi continui su come sia importante usare i nostri indumenti, ripararli e riutilizzarli. E rallentare i nostri acquisti per inquinare meno. Credi che la città di Milano o l'Italia in generale siano pronte per questo? Per esperienza posso dire che le persone si stanno sempre più interessando, non solo a come un capo appare e come si comporta in termini di performance, ma anche al modo in cui è stato prodotto e a chi l’ha fatto. Ma anche a quali sono i valori del brand che ha realizzato quel prodotto, quali sono i suoi scopi. Le persone sempre di più vogliono investire in idee in cui credono e che le rappresentano.

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La fascia più giovane della popolazione sicuramente oggi sembra la più attenta a cosa un azienda sta facendo, perché lo sta facendo e cosa fa con i profitti e con i soldi che i consumatori gli danno. Ovviamente non tutti a Milano si interessano a questi aspetti ma penso che ci siano molte persone che lo fanno e lo faranno in futuro. E questi sono gli individui con cui siamo interessati a parlare e relazionarci. Il nostro fine al momento non è far crescere la brand awareness, non ci interessa che una moltitudine di persone scenda in strada con il nostro logo addosso perché quello non cambierebbe niente. Ma se ci sono anche solo mille persone a Milano che si interessano di aspetti ambientali e, grazie a queste iniziative, potranno imparare come agire concretamente, come partecipare, saremo soddisfatti. Se quelle stesse persone, grazie anche a quello che hanno appreso dal brand durante questi eventi, quando avranno bisogno ad esempio di una giacca per andare a scalare o sciare, penseranno e prenderanno in considerazione Patagonia per tutti i motivi suddetti, quello sarà un buon risultato di ciò che abbiamo cercato di ottenere con questa campagna.

Quali sono le attività della campagna milanese di cui ti ritieni più soddisfatto? L’evento che nessuno si dovrebbe perdere? Ti dirò quella di cui sono stato più orgoglioso quando la campagna sarà finita! Quello che spero è che saranno una serie di eventi in inglese chiamiamo “days of adventure activism”. Lavoriamo a contatto con un sacco di persone, uomini e donne, amanti delle pratiche sportive outdoor e che sono anche attivi nella difesa del loro ambiente. Questi due aspetti si sono uniti negli eventi che abbiamo organizzato, avremo tanti importanti speaker che parleranno dell’importanza di proteggere l’ambiente ed i luoghi che amano, e cosa questo significa per loro.

Cosa amo dell'Italia? Questa è una domanda semplicissima, ovviamente il cibo. Anche se è un po’ cliche. Aggiungo quindi che amo molto anche le Dolomiti, penso sia un posto unico e fantastico, anche abbastanza sorprendete.

E grazie a questa interazione spero che nel pubblico di Milano arrivi il concetto che non possiamo dare nulla per scontato, che il numero veramente limitato di posti incontaminati che ci rimane in Europa dove praticare sport outdoor deve essere protetto.

La prima volta che ci sono stato non mi sembrava nemmeno di essere in Italia e da allora ci ritorno sempre con piacere.

Saranno delle giornate motivazionali, fra speaker, eventi e diversi workshop.

Infine il caffè italiano, non posso farne a meno.

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LAST WORD BY

S I LV I A G A L L I A N I

Uno dei tanti motivi della recente crisi ecologica deriva dall’impatto dell’uomo sull’ambiente. Siamo noi stessi il problema. Non sono i governi o le industrie, siamo noi a dire alle aziende di produrre più cose, e di renderle il più economiche e il più usa e getta possibile. Negando questo dato di fatto, però, il problema non verrà mai affrontato seriamente e non succederà mai nulla di concreto per risolvere questo stato di crisi. C'è un solo modo per invertire la rotta: acquistare meno prodotti e possederne alcuni di altissima qualità che durino a lungo e che siano multifunzionali. È una riflessione che dobbiamo necessariamente compiere prima che sia troppo tardi. È uno stile di vita che dobbiamo adottare. È una posizione che dobbiamo prendere. È necessario.

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Realizzare il prodotto migliore. Non provocare danni inutili. Utilizzare il business per ispirare e implementare soluzioni per la crisi ambientale.


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