Groenlandia
Un’enorme isola ghiacciata a metà tra nord Europa e America, un set perfetto malgrado ghiaccio, orsi bianchi e temperature sotto lo zero
The King of Lastè
Daniele Felicetti si sveglia ogni mattina con un obiettivo ben chiaro in mente curando ogni dettaglio della propria performance sportiva
Iceland Ice Climbing
Cinque amici che accidentalmente compongono la crew perfetta. L’obiettivo? Arrampicare quante più possibile cascate di ghiaccio
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EDITO
BY DAVIDE FIORASO PHOTO ANDERS MØLLER VESTERGÅRD
l’ambiente impatti sulla salute. Tuttavia, come inevitabile che sia, nei paesi che dispongono di risorse inferiori, la cura delle malattie fisiche finisce per essere la priorità più urgente.
Sono sempre più numerose le storie di persone che soffrono di eco ansia, ovvero l’angoscia che nasce dal constatare che il mondo sta andando a rotoli. Tra i tanti aneddoti sul tema, parto da una singolare testimonianza riportata in un articolo del New York Times. Alina Black, 37enne di Portland, racconta di venir assalita da angoscia e senso di colpa a ogni cambio pannolino del suo bebè, consapevole che quel gesto quotidiano contribuisce all’inquinamento del pianeta e alla crisi climatica. Al mattino, dopo aver allattato, Alina cade in un buco nero, affondata dalle notizie su siccità, incendi ed estinzioni di massa.
Lo spunto di riflessione l’ho avuto qualche settimana dopo, imbattendomi in un reportage sul ciclone Idai, la tempesta tropicale che nel marzo 2019 ha colpito l'Africa centro-orientale causando gravi inondazioni in Malawi, Zimbabwe e Mozambico. Le
donne di quel documentario, non solo non avevano mai avuto pannolini da buttare (e per i quali chiedere perdono al mondo), ma vivevano in uno stato di perenne allerta e devastazione. È qui che mi sono chiesto: ma quelle donne, provano la stessa preoccupazione per il futuro del pianeta provata da Alina Black? Chi è già pesantemente colpito dalla crisi climatica ha tempo e modo di soffermarsi sulle proprie sensazioni? O sopravvivere è già di per sé talmente impegnativo da non lasciare spazio alle inquietudini interiori?
Le risposte le ho trovate su diversi articoli di approfondimento, tutti concordi nell’affermare che l’eco ansia non è un lusso occidentale. Che la salute mentale non è appannaggio esclusivo di coloro che vivono nei paesi sviluppati del nord globale. Chiunque, indipendentemente dal suo status, riesce chiaramente a comprendere come
A volte, per combattere l’ansia climatica, viene suggerito alle persone di fare meditazione, costruire resilienza, creare spazi in cui condividere i propri sentimenti. O perché no, passare all’azione. Ristabilire un contatto con la natura è un altro dei suggerimenti che viene dato a chi soffre di ansia climatica. Ma questa strategia, per quelle popolazioni che da sempre vivono un rapporto ancestrale e di simbiosi con la terra, non ha molto senso. “La soluzione all’eco ansia in questi paesi è un maggiore sostegno per aiutare le popolazioni a superare e gestire le crisi climatiche che devono affrontare. Le popolazioni ricche devono agire per ridurre la loro impronta di carbonio e fornire sostegno ai paesi a basso reddito, in modo che possano superare i disastri climatici, compensando in parte questa enorme ingiustizia” afferma la professoressa Mala Rao. Alla fine di queste letture, quello che ho capito è che tutti soffriamo in egual modo. Ciò che cambia è l’assistenza alla quale abbiamo accesso e il margine di azione per invertire la rotta. La povertà estrema e la vulnerabilità, sono elementi che necessariamente finiscono per avere priorità nella scala delle preoccupazioni, ma sono anche quelle più facilmente visibili e sanabili. Vivere nel nord del mondo, con tutti i privilegi annessi, non fa delle nostre ansie qualcosa di irrilevante. La soluzione, però, non sta solo nelle buone azioni quotidiane che ci fanno sentire in pace con noi stessi, ma nell’esigere dai nostri governi risposte appropriate alla gravità della situazione. Un’attenzione che sia istituzionale, collettiva e globale, così come la catastrofe che stiamo vivendo.
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THE DAILY PILL APERTE LE CANDIDATURE PER IL DYNAFIT TRAIL HERO
Dynafit è alla ricerca di runner amatoriali per il "Dynafit Trail Hero”, un programma che offre agli atleti selezionati attrezzatura, formazione con esperti e partecipazione ad eventi e gare. Le candidature sono aperte fino al 31 marzo 2023 e sono rivolte ad atleti di età superiore a 18 anni slegati da contratti di sponsorizzazione e provenienti da Europa e Nord America. I Trail Hero faranno parte del team per un anno e parteciperanno a diverse gare, con grandi opportunità di crescita professionale. In cambio, i runner condivideranno sui social media le loro giornate di allenamento e la loro attrezzatura.
POLARTEC PRESENTA LA NUOVA TECNOLOGIA SHED LESS FLEECE
Polartec ha sviluppato la tecnologia Shed Less Fleece per ridurre drasticamente la dispersione di frammenti di fibra durante il lavaggio domestico. I test, svolti su capi di grandi dimensioni con un ciclo di 20 lavaggi, dimostrano come la diminuzione dello spargimento di microfibre raggiunge una media dell’85% rispetto ad un tessuto tradizionale. Shed Less Fleece è stato applicato sul Pile Polartec 200 Series che ha dimostrato come questa tecnologia mantenga intatte tutte le caratteristiche chiave del pile.
LONE PEAK FAMILY: LE NOVITÀ WINTER DI ALTRA
La società americana Altra Running ha recentemente annunciato tre nuovi modelli della sua iconica linea Lone Peak: Lone Peak All-WTHR Hiker 2, Lone Peak All-WTHR Mid 2 e Lone Peak All-WTHR Low 2. Queste calzature sono state progettate per offrire ancora più comfort, aderenza e traspirabilità, con la presenza di feature come l’utilizzo della Original FootShape Fit, l'intersuola in schiuma Altra EGO e la suola antiscivolo MaxTrac. Questi modelli hanno tutte le carte in regola per essere molto versatili, sia a livello tecnico sia estetico. Si adattano bene per una vasta gamma di attività, dalle escursioni più difficili alle passeggiate casual.
SCARPA E POLITECNICO DI TORINO INSIEME PER UN NUOVO PROGETTO
Il Politecnico di Torino e SCARPA inaugurano una collaborazione finalizzata ad elaborare un modello di analisi dell’isolamento termico per gli scarponi da alpinismo. Il progetto triennale nasce dall’esigenza di studiare l’isolamento del piede a temperature estreme e definire in questo modo una scala di valutazione del comfort termico in condizioni di freddo severo, per realizzare calzature ancora più sicure e performanti. Ai test hanno partecipato con entusiasmo alcuni atleti del Team di alpinisti di SCARPA come Mario Vielmo e Paolo Marazzi.
STEFANO GHISOLFI LIBERA EXCALIBUR 9B+
Nuova impresa per il climber The North Face Stefano Ghisolfi che il 3 febbraio è riuscito a liberare Excalibur (9b+), una delle vie più dure d’Italia. “Difficile immaginare una linea più perfetta, ammetto che il processo è stato estremamente difficile, dalla prima volta in cui ho capito la beta e ho pensato che fosse impossibile, fino alla partenza quando mi sono sentito sicuro. La cosa migliore però sono state le persone con le quali l’ho condiviso, che sono tra i migliori climber del mondo ma soprattutto con i miei amici. Sono anche fiducioso di proporre il 9b+ come grado, è sicuramente la più difficile di tutte le mie prime salite” commenta Stefano.
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PATROL ULTRALIGHT E2 25, IL NUOVO ZAINO AIRBAG DI SCOTT
Di recente, il PM Scott Winter Piero Berbenni e il Communication & PR Nicola Gavardi sono andati sulle Orobie bergamasche per raccontare il nuovo zaino Patrol Ultralight E2 25. Tra le key feature c’è l’utilizzo dell’Alpride E2 Airbag System, uno dei sistemi airbag completamente elettronici più leggeri presenti sul mercato. Un’altra caratteristica è sicuramente la realizzazione in tessuto Dyneema, noto per la sua estrema resistenza e leggerezza. Il risultato è uno zaino ideale per gli appassionati di freeskiing.
STRAVA ACQUISISCE FATMAP
E LA SUA TECNOLOGIA DI MAPPATURA 3D
Strava ha annunciato l’acquisizione di Fatmap, l’applicazione che ha sviluppato una tecnologia di mappatura 3D a livello globale che sarà abilitata in tutti i servizi di Strava, dando la possibilità di scoprire e pianificare le proprie avventure outdoor con guide locali, punti di interesse e info sulla sicurezza. L’investimento di Strava è volto a fornire un’esperienza digitale con una qualità sempre maggiore per ispirare e motivare ancora di più la sua community a godersi la natura in piena attività sportiva.
L’AMBASSADOR FERRINO ANDREA LANFRI CONQUISTA DUE VOLTE L’ACONCAGUA
Il 16 gennaio Andrea Lanfri ha raggiunto l’Aconcagua, la cima più alta del Sud America, alta 6962 metri. Tuttavia, dopo aver raggiunto il campo 3 ed essere ripartito verso la vetta, si sono persi i contatti con lui e il navigatore è rimasto fermo a quota 6745 metri per sette ore. Così, sabato 21 gennaio Lanfri è ripartito per raggiungere nuovamente la croce di vetta e fare qualche foto dell’impresa. Questa è la terza cima affrontata da Lanfri delle Seven Summit e l’atleta ha già programmato la successiva: l’Elbrus.
10 PER 100: DECIMO ANNIVERSARIO
DELLA BOUTIQUE COLMAR A CHAMONIX
Quest’anno, Colmar festeggia un doppio anniversario: oltre al centenario dell’azienda, infatti, il 2023 è anche il decimo anno dall’apertura della boutique di Chamonix (FRA). Un traguardo che il brand ha deciso di celebrare insieme ai clienti più affezionati. Tra questi anche il primo che nel tempo è diventato un affezionato fan del brand e del negozio. A lui è stata donata la giacca Chamonix, realizzata in edizione numerata e dedicata a tutte le vittorie in Coppa del Mondo di Pinturault, come segno di stima e di ringraziamento.
SCARPA RAFFORZA LA COLLABORAZIONE CON BODE MILLER
La rinnovata partnership tra SCARPA e lo skier Bode Miller è stata ufficializzata nei giorni scorsi in occasione della prima visita dell’atleta nella sede dell’azienda ad Asolo. “Sono molto felice di proseguire questa collaborazione con SCARPA, una realtà dalla grande storia, che si proietta nel futuro”, sottolinea Miller. “Questo primo anno di lavoro è stato particolarmente intenso e sono convinto che insieme potremo dare un contributo importante nello sviluppo di prodotti ancora più innovativi e sostenibili.”
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Muoversi in montagna comporta delle responsabilità. Noi ci impegniamo a prepararti al meglio. Dal 1980.
ai crinali possono presentarsi accumuli di neve ventata.
1.MANASTASH
BIGFOOT FLEECE JACKET
I l marchio giapponese di outerwear, fondato a Seattle nel 1993, presenta questa giacca in morbido pile dichiaratamente ispirata agli anni ’90. Include una membrana antivento foderata, chiusura con zip integrale a due vie, tasche scaldamani con cerniera e aperture sui polsi. Toppa con logo in tessuto.
4.GERBER
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Uno strumento innovativo creato per gestire i compiti più importanti che ogni campeggiatore deve affrontare. 11 strumenti, ognuno con uno scopo definito: estrattore per picchetti, lama a filo liscio, sega, forbici, punteruolo, apribottiglie, lima. Un robusto moschettone integrato nel telaio lo rende facile da agganciare.
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2.OUTDOOR FELLOW
W INTER FIR CANDLE
Niente evoca la memoria come l'olfatto, e con questa fragranza Outdoor Fellow ha voluto ricordare il profumo invernale delle conifere innevate. Note di abete, neve fresca, ginepro, chiodi di garofano, cipresso selvatico e patchouli. Per ogni candela venduta, il 5% dei proventi viene donato a The Trust for Public Land.
5.JETBOIL
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Simile ad altri sistemi di cottura Jetboil che incorporano il bruciatore all-weather, ma con un rapporto cup-to-fuel senza uguali. Con il suo recipiente FluxRing da 1,8 litri, Sumo è il fornello a gas formato famiglia ideale per gruppi numerosi. Un top di gamma performante in situazioni estreme e a temperature molto fredde.
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La tua cucina da campo all-in-one. Chuck Box Camp Kitchen è uno strumento utile a conservare, trasportare e organizzare tutto ciò di cui hai bisogno per goderti la cucina all'aperto: 5 vani portaoggetti, cassetto estraibile per piccoli oggetti come spezie e spugne, cassetto portautensili a 4 scomparti, chiusura a sgancio rapido.
6.SCARPA
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Novità SS23 di SCARPA nella categoria Mountain Elite, Ribelle Tech 3 HD è l’evoluzione dell’iconico e innovativo scarpone per l’alpinismo fast&light. Con maggiore tecnicità ed efficienza, rappresenta il più rivoluzionario scarpone da montagna all-round. Peso ridotto e vocazione alla performance per una sfida agli standard di categoria.
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8.VOLLEBAK
S OLAR CHARGED PUFFER
Dopo il successo della Solar Charged Jacket (Best Inventions 2017 secondo la rivista Time), Vollebak ritorna con qualcosa di ancora più ambizioso: la versione Puffer, pensata per i luoghi più freddi e bui della terra. Con un tessuto impermeabile a 3 strati e dettagli ultra resistenti, immagazzina la luce solare, si illumina al buio e tiene al caldo fino a -40°C.
10.KELTY
LOWDOWN COUCH
Dopo l’iconica Low Loveseat, Kelty presenta la nuova sedia da campeggio per 3 persone. Seduta bassa, schienale leggermente reclinato ed un design “rilassato” per farti godere ancora più comodamente i tuoi momenti di pausa attorno al fuoco. Sacco per il trasporto multifunzione che funge anche da tappetino imbottito per cani.
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8.PARBAT
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Estremamente affidabile e resistente, disegnato per le condizioni più estreme. Profilo aerodinamico che offre libertà di movimento durante l'arrampicata su roccia e ghiaccio. Chiusura rapida superiore, accesso frontale, daisy chain e cinghia per fissare la corda. Tessuto impermeabile ULTRA400 per la massima protezione contro gli elementi.
11.COTOPAXI
H ALCON DEL DIA CHALKBAG
Tutte le caratteristiche che ti aspetteresti da un portamagnesite di alta qualità: apertura strutturata di facile accesso, chiusura con coulisse regolabile, fodera in morbido pile e passante elastico per la spazzola. Tasca in rete sul retro e tasca multimediale con cerniera progettata per adattarsi agli smartphone di oggi.
9.CARHARTT FIRM DUCK APRON
Dal bricolage al barbecue alla manutenzione della bicicletta, è concepito per diventare il miglior grembiule da lavoro che tu abbia mai avuto. Tessuto Cotton Duck da 407g/m², coste a tripla cucitura, pettorina multiscomparto con chiusura a cerniera, tasche utility e portautensili. Vestibilità personalizzata con cinghie incrociate sulla schiena.
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Con la collezione Zebru Responsive, Salewa si è spinta ancora oltre, integrando nel tessuto Fresh Merino la tecnologia Responsive. Baselayer a manica lunga con design a mappatura corporea, composto da finissima lana Merino con l’aggiunta di fibre Tencel lyocell ad alta resistenza. Termoregolazione avanzata per gli sport alpini ad alta intensità.
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Conosciuto per la sua magistrale interpretazione del classico abbigliamento maschile americano, Beams Plus è una private label del retailer giapponese Beams. Dalla collezione esclusiva con J.Crew questa giacca reversibile realizzata con tessuto esterno in nylon ripstop stampato con motivo paisley. Fodera in morbido shearling.
4.ERIC JACKSON X BLACK
DIAMOND DAWN PATROL 25
Zaino da 25 litri che rende omaggio allo stile di Eric Jackson. Caratterizzato da una stampa mimetica Sitka personalizzata e tessuti riciclati al 100%, Dawn Patrol è dotato di un set completo di funzionalità che lo rendono versatile nel backcountry, tra cui una tasca separata di facile accesso per il kit di sicurezza.
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2.CARHARTT X RUMPL
Da Portland, Oregon, a Detroit, Michigan, inseguendo il motto “Get Back to the Land”. Otto diversi stili per una collezione che celebra i 50 anni del motivo Duck Camo di Carhartt e propone due nuove Puffy Blanket (ispirate ai cantieri di lavoro) in colorazioni fluorescenti giallo e arancione con serigrafie riflettenti.
5.STANLEY X PENDLETON
LEGENDARY CLASSIC BOTTLE
L’incontro tra due brand intramontabili. La classica bottiglia Stanley si lustra delle iconiche “stripes” che hanno reso famosa la Yakima Camp Blanket, la più venduta di casa Pendleton. Costruita per durare, questa bottiglia in acciaio inossidabile 18/8 ha un isolamento a doppia parete. Il tappo a vite a prova di perdite funge anche da tazza.
3.SMITH X HIGH FIVES
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Smith torna nuovamente a collaborare con la fondazione High Fives per onorare la vita e l'eredità del leggendario CR Johnson, pioniere del movimento freeski tragicamente scomparso nel 2010. Maze, uno dei caschi da neve più popolari, si propone in questa versione verde oliva con motivi reggae e l'iconico leone, simbolo dello spirito indomabile di CR.
6.OREGON STATE
PARKS
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Per celebrare i 100 anni dell’Oregon State Parks, Danner ha realizzato una collezione esclusiva a sostegno delle prossime generazioni di esploratori. Il classico Jag Hiker di ispirazione retrò in una colorazione che si rifà alle lussureggianti foreste del Pacific Northwest. Per ogni paio saranno donati 50$ alla Oregon State Parks Explorer Series.
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7.NICOLE MCLAUGHLIN X DIEMME MAGGIORE MULE
Lo storico calzaturificio italiano ha annunciato il lancio della sua ultima collaborazione con Nicole McLaughlin, designer newyorkese il cui lavoro si focalizza sull'esplorazione dell'upcycling e della moda sostenibile. Il suo stile inconfondibile ha reinventato il modello Maggiore utilizzando suole Vibram e materiali di scarto.
10.MERRELL X YOGI BARE
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Merrell e Yogi Bare hanno unito le forze per creare un tappetino da yoga unico nel suo genere: lavabile, pieghevole ed ecologico, progettato per accompagnarti ovunque. Base in gomma naturale da 2mm e strato superiore in microfibra stampato con inchiostri e coloranti a base d'acqua. Include una custodia in RPET resistente all'acqua.
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8.PATAGONIA PROVISIONS X MIIR MACKEREL TOMO
Prendendo il nome dal termine giapponese "compagno", Tomo di MiiR è pensato per conservare e trasportare la tua bevanda (calda o fredda che sia) fino a quando non è pronta per essere versata in due tazze twist-off. Pratica maniglia roll-stop che facilita il trasporto ed un simpatico design personalizzato per Patagonia Provisions.
11.K2 X BRAIN DEAD RECKONER 112
K2 e Brain Dead per una collezione limitatissima che dimostra l’approccio dirompente del collettivo artistico californiano. Grafiche che prendono spunto dal post punk, dai fumetti underground e dallo spirito della sottocultura in uno sci da freeride all terrain (Twin Rocker con anima Double Barrel) che può fare veramente di tutto.
9.SNOW PEAK X JINS RUBBER SUNGLASSES
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Con un lancio celebrato negli store di Portland e Brooklyn, Snow Peak ha presentato la nuova capsule realizzata in collaborazione con il principale marchio giapponese di eyewear: Jins. 5 diversi occhiali da sole che incarnano i principi entrambi i brand: qualità, lunga durata, ed un occhio di riguardo al design, elevato e minimalista.
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L’ultima “joint-adventure” del marchio canadese Ciele Athletics vede protagonista la 001 di Norda, già oggetto di rivisitazione da parte di Satisfy e Ray Zahab. Nuova colorazione Gravel Edition per la prima scarpa da trail running senza cuciture in Dyneema a base biologica con esclusivo comparto suola-intersuola by Vibram.
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INVISIBLE GROUND A snowboard film about vulnerability
After tragic avalanche accidents, professional snowboarders Xavier De Le Rue and Elias Elhardt deeply question their motivation for the potentially life-threatening pursuit of freeriding, which they have dedicated themselves to. During several days in the mountains together, they share their personal experiences with being exposed to risk and what being vulnerable actually means to them. By questioning unrealistic ideas of control, Invisible Ground sets out to explore how to obtain a reasonable balance between the love for adventure and a misguided drive to expose oneself.
DIRECTED by Elias Elhardt FILMED & EDITED by Christoph & Phillip Kaar
Duration: 30min. / Premieres & Festivals: Fall 2022
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BY DAVIDE FIORASO
E LAN PUNTA A ESSERE CARBON NEUTRAL ENTRO IL 2030
Negli ultimi 10 anni Elan ha lavorato sodo al proprio dossier sostenibilità. Azioni che sono già state riconosciute da Green Star, il primo certificato di genere per la contribuzione alla neutralità climatica. Dopo aver aperto la strada ad un nuovo standard nella tecnologia di stampa digitale, il punto focale sarà la ristrutturazione della sede centrale per renderla autoalimentata al 100%. Altro obiettivo riguarderà gli acquisti di materie prime: le componenti dovranno provenire sempre più da produttori sloveni. Oggi il 99% dei materiali impiegati nella produzione di sci arriva dall’Europa, il 68% di questo da meno di 400km.
P ATAGONIA: PASSI AVANTI NEL PROGETTO DI TUTELA DEL FIUME VJOSA
A giugno 2022 il governo albanese aveva firmato un accordo con Patagonia che sanciva l’impegno a collaborare per l’istituzione del Parco Nazionale del fiume Vjosa. Appena 6 mesi dopo è stato raggiunto un altro passo storico: la consegna dello studio di fattibilità da parte del team di esperti. Il documento si concentra sulla protezione a lungo termine dell’ecosistema e della biodiversità, attraverso analisi, linee guida e proposte di modelli che consentano la gestione ambientale, lo sviluppo del “turismo green” e di forme di produzione agricola sostenibile nei territori che costeggiano l’ultimo fiume selvaggio d’Europa.
G ARMONT INTERNATIONAL E ACBC:
I NSIEME PER UN FUTURO PIÙ SOSTENIBILE
Camminare in natura con il minor impatto ambientale sarà, per Garmont, uno dei principali impegni delle prossime stagioni. È da questo presupposto che nasce la collaborazione con ACBC, azienda B-Corp leader nella progettazione e produzione di prodotti sostenibili. La prima fase ha visto lo sviluppo di una capsule che sarà in vendita da luglio 2023. Con l’occasione, Garmont ha lanciato il laboratorio di sperimentazione Uncharted nel quale svilupperà progetti che hanno l’obiettivo di aprire strade ancora inesplorate, pensando ad un futuro più sostenibile.
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FIRST UP FIRST DOWN
TIGARD 130 BOOT
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P ROSEGUE IL PROGRAMMA O NE FOR ONE DI ROSSIGNOL
Continuerà fino al 30 aprile il programma One for One di Rossignol: per ogni nuovo paio di sci venduto, l'azienda ne donerà uno ricondizionato a organizzazioni benefiche. Un progetto che mira a prolungare il ciclo di vita degli sci e sostenere organizzazioni di volontariato impegnate a fornire la possibilità di vivere gli sport invernali a comunità svantaggiate. Una iniziativa perfettamente in linea con le più ampie ambizioni sociali e ambientali che il gruppo Rossignol ha implementato attraverso Respect, il programma che definisce il ruolo della compagnia nella lotta al cambiamento climatico.
E OG, HIGG E OIA PER PREPARARE L'INDUSTRIA DELL'OUTDOOR A ESSERE PIÙ SOSTENIBILE
Proprio come l'industria dell'outdoor, anche la misurazione della sostenibilità continua ad evolvere. È in questo contesto che European Outdoor Group (EOG) annuncia la partnership con Higg e Outdoor Industry Association (OIA). Questa armonizzazione consentirà alle aziende di progredire in modo coerente allineandosi a standard e sistemi di misurazione comuni che aiutino a promuovere una produzione più sostenibile. Ad oggi oltre 150 membri combinati di OIA o EOG utilizzano gli strumenti e i dati dell’Higg Index come guida verso i loro obiettivi.
M AMMUT FIRMA UN ACCORDO C ON CLIMEWORKS
M ammut compie un passo significativo verso il suo obiettivo di diventare Net Zero entro il 2050, diventando la prima azienda del settore outdoor a firmare un accordo con Climeworks, pioneristica compagnia svizzera che opera nella rimozione dell'anidride carbonica dall’atmosfera tramite specifici impianti DAC (Direct Air Capture) che filtrano e rimuovono CO2 per essere immagazzinata in profondità nelle formazioni rocciose. Nel suo accordo pluriennale Mammut sosterrà la rimozione di 200 tonnellate di anidride carbonica.
T HE NORTH FACE CON POLARTEC P ER RIPENSARE CIRCOLARE
A più di 30 anni dal lancio dell’iconico Denali Fleece, continua la storica collaborazione tra The North Face e Polartec tramite un tessuto in pile riciclato al 100% per la linea Alpine, la prima delle collezioni Circular Design del brand di VF Corporation. Durante lo sviluppo della collezione Alpine Polartec, The North Face ha riprogettato le rifiniture e le chiusure per minimizzare gli step di smantellamento. Il risultato?
Prodotti che si possono disassemblare in 6 secondi per un 97% di materiali che possono essere riutilizzati.
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SOLO ULTRA ESP PHOTOCROMATIC ALU LENS
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ATHLETE: Michele Guarnieri
PHOTO: Federico Ravassard
LOCATION: Val di Thures, Sauze di Cesana
Yosuke Aizawa a capo della linea Revolution di Colmar
L’azienda monzese sigla un nuovo accordo con il designer giapponese fondatore del brand White Mountaineering.
Il designer Yosuke Aizawa torna a lavorare con Colmar a soli due anni dalla collaborazione White Mountaineering X Colmar A.G.E., dove gli stili dei due brand si sono fusi in piena sintonia. Tuttavia, questo nuovo accordo non è una semplice collab: Colmar ha scelto Aizawa per le prossime stagioni Revolution, la linea più ricercata della collezione Colmar Originals. Alla base di questa scelta c’è una profonda fiducia, sviluppatasi grazie alla condivisione di valori come l’amore per la neve, per la vita outdoor, l’impeccabile know how su materiali performanti e il gusto raffinato ed elegante applicato su capi tecnici.
Yosuke Aizawa, in particolare, ha uno stile riconoscibile nato dalla fusione dell’estetica e della cultura giapponese con quella occidentale. Questo perché il designer è molto legato alle zone di origine del padre, più precisamente alla città di Fussa (nei pressi di Tokyo) che si trova vicino ad una base americana, una presenza dalla forte impronta occidentale.
Entrambi i brand sono nati con una solida base di valori e con una forte identità, caratteristiche fondamentali per una collaborazione funzionale.
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BY LUDOVICA SACCO
Infatti, Colmar esiste da oltre 100 anni ed è un'icona nell'industria dell'abbigliamento tecnico, mentre White Mountaineering è stato fondato nel 2006 da Aizawa che ha sperimentato sulla scena mondiale look tecnici ispirati alla montagna, unendo praticità, tessuti performanti e funzionalità.
La collezione Revolution fonde quindi le due anime, proponendo un’interpretazione contemporanea e glamour dell'abbigliamento tecnico. La linea comprende capispalla uomo e donna in raffinati tessuti tecnici di diverse lunghezze e pesi, con colori ispirati alla natura e tonalità color block che richiamano il gusto essenziale giap -
ponese di Aizawa. Oltre allo stile iconico, i capi risultano anche morbidi, confortevoli e pratici. I capispalla vengono inoltre accompagnati da felpe caratterizzate da tagli funzionali e vestibilità rilassate. Infine, non poteva mancare maglieria dallo stile tipicamente outdoor e una serie di pantaloni in interlock elasticizzato e morbido.
Questa collaborazione è davvero un esempio lampante di come la tecnologia e il design possano unirsi per creare un prodotto che soddisfi i trend attuali ma soprattutto rispetti in maniera impeccabile i valori condivisi di entrambi i brand.
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BY LUDOVICA SACCO
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Salewa Sella 26L Backpack
Salewa ha recentemente lanciato uno zaino per accontentare gli sciatori più esigenti: compatto, stabile e super confortevole. Incuriositi dalla novità, abbiamo fatto qualche domanda ad Alessio Innocente, Salewa Product Manager Equipment.
Qual è la caratteristica determinante di questo zaino? Il sistema di trasporto composto dallo schienale Dry Back Contact con canali di ventilazione 3D che permettono una buona traspirabilità e schiena asciutta. Altre feature particolari sono gli spallacci Split Shoulder Straps e la fascia a vita anch’essa con struttura “Split”, che seguono i movimenti dello skier senza limitarli.
A chi si rivolge? Agli skier più esigenti che amano esplorare la montagna e i suoi pendii sugli sci.
Cosa lo differenzia da uno zaino come il Randonnée o il Winter Mate? Sella è dinamico e compatto, progettato per chi cerca performance sugli sci. Ha una doppia modalità per fissare gli sci (di cui una “on-thego” per posizionarli allo zaino senza doverlo togliere) e un fit stabile per le discese più impegnative. Il suo tessuto Regen Robic è robusto e tenace, composto al 100% da nylon riciclato. Randonnée invece dispone di un volume di carico maggiore, adatto a tour più lunghi e dove è richiesta più attrezzatura. Infine, Winter Mate è il compagno ideale per chi ama esplorare il paesaggio invernale e godersi le discese innevate.
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Di quante e quali tasche esterne dispone lo zaino? Ne è prevista una per il kit valanga? Sella dispone di un compartimento frontale dedicato per l’attrezzatura di emergenza per renderla accessibile in modo rapido e sicuro. Inoltre, sono presenti anche una tasca superiore, una tasca separata con accesso sul fondo e una taschina sulla fascia a vita dove tenere la cinghia per il fissaggio degli sci “on- the-go”. Il massimo dell’accessibilità è dato però dall’apertura con zip “all-a- round” a tre cursori.
Questo zaino può essere adatto anche ad altre attività? Certamente.
Il doppio porta picche, la rete integrata porta casco o la tasca sul fondo separata, ad esempio, lo rendono un prodotto adatto anche all’alpinismo.
Il sistema di trasporto è un altro esempio di versatilità in svariate attività, tra cui l’hiking.
Perché lo avete sviluppato in un’unica misura? Il focus sul sistema di trasporto stabile, la bilanciata compattezza e il volume adatto a portare con sé il necessario hanno portato i nostri tester ad apprezzare particolarmente questa misura.
Ci sono differenze fra il modello da uomo e quello da donna al di fuori delle dimensioni? Mi piace sempre dire che uno zaino va indossato, non trasportato. Infatti, negli anni i nostri designer hanno posto alcuni accorgimenti sul sistema di trasporto per seguire al meglio anatomie differenti.
Come ha reagito il mercato in questa stagione invernale? È un prodotto compreso ed apprezzato dai consumatori? In questi primi mesi nei negozi ci ha dato delle belle soddisfazioni e chi lo ha messo in spalla già da inizio stagione ne è soddisfatto.
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L’outdoor torna ad amare la lana
Le qualità di questa fibra naturale in termini di termoregolazione, traspirabilità e resistenza sono uniche. The Woolmark Company insieme a Sease punta a riportare la lana come protagonista dell’outdoor, complice anche una tecnologia militare risalente al 1800.
Le pareti del Kulm Country Club di Saint Moritz sono tappezzate di immagini di sciatori vintage. Sci infiniti, di legno e corda, e un’infinità di maglioni di lana. Ragazze sorridenti con pullover avvitati dalle fantasie nordiche, uomini con dolcevita in monocromo. Era come si sciava, o si frequentava la montagna, un tempo. Prima dell’avvento del poliestere, verso la fine degli anni Trenta del Novecento, non esistevano gli “indumenti tecnici” come li conosciamo oggi: gusci, piumini, maglie termiche e l’impermeabilità data dal Gore-Tex. Oggi ci sembra impossibile fare a meno di quella fibra prodigiosa che è il poliestere: rigidità, flessibilità e, non da ultimo, un costo contenuto, rendono questo materiale molto gettonato. A questo va aggiunto che è iper versatile, consente cioè di “imitare” le qualità di un gran numero di fibre naturali, dalla seta al pelo animale fino alla lana. Queste imitazioni, col tempo e con la ricerca, sono diventate sempre più convincenti e il risultato è che oggi possiamo disporre di una fibra forte, resistente alle abrasioni e alle lacerazioni e in grado di sopportare numerosi lavaggi senza che ne venga modificata la vestibilità, se opportunamente lavorata, può essere inoltre anche traspirante. Insom-
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ma una fibra prodigiosa che presenta tutte le qualità che sono essenziali per l’abbigliamento outdoor. Il grosso problema degli indumenti realizzati a partire dal poliestere però è che sono altamente inquinanti: questa fibra dei miracoli è infatti un derivato del petrolio e, sebbene l’industria tessile si stia attrezzando per produrre alternative più sostenibili da un punto di vista ambientale, come l’Econyl ricavato dalle reti da pesca riciclate, la presenza di fibre tessili prodotte ex novo dai petrolati è ancora altissima. Questo genere di materiali sono energivori: la
sumo di CO2 e, come se non bastasse, disperdono microplastiche ad ogni lavaggio. Il paradosso è che il successo di una fibra del genere dipende dal fatto che è in grado di imitare le qualità delle fibre naturali come la lana, che per contro richiede meno energia per essere prodotta, è più facilmente riciclabile, non produce microplastiche, è 100% biodegradabile, è durevole nel tempo ed è anche responsabile della sopravvivenza di molte comunità vulnerabili che in varie parti del mondo si sostentano grazie all’allevamento
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di pecore o capre per la sua produzione. Certo, costa di più, è uno di quei materiali che definiamo “premium”.
Il motivo per cui mi trovo a Saint Moritz è quindi quello di capire come il mondo dell'outdoor abbia compiuto un giro intorno a se stesso e ora sia la lana ad essere lavorata in modo tale da poter imitare le qualità delle fibre sintetiche. Già perché durabilità, controllo della temperatura e traspirabilità sono qualità che questa fibra da sempre ha e che sono state mutuate da quelle sintetiche, ma i progressi in termini di ricerca e sviluppo oggi sono stati in grado di lavorarla in modo che sia anche idrorepellente e anti raggi UV. The Woolmark Company, che è l’autorità globale della lana Merino e una filiale della Australian Wool Innovation, compagnia no-profit fondata da più di 60.000 allevatori di pecore Merino, investe in ricerca e sviluppo su tutta la filiera e sostiene progetti di brand impegnati su questo fronte a livello globale: il motivo per cui ci siamo riuniti a Saint Moritz è la presentazione della collaborazione con il marchio Sease, vincitore nel 2022 del premio The Woolmark Company Awards for Innovation. A Sease va infatti il merito di aver investito per riportare la lana come protagonista nel mondo dell’outwear grazie al tessuto laminato Solaro Sunrise, elemento cardine dei completi classici da uomo e in grado di regolare la termoregolazione e la traspirazione. La lana infatti non fa sudare, è resistente e versatile: forse non è leggera come le fibre sintetiche, ma a meno di non dover scalare il Nanga Parbat si può chiudere un occhio.
«La nostra missione è quella di sostenere il mondo lana, che significa sostenere l’innovazione, che rappresenta il futuro di ogni prodotto», racconta Francesco Magri, Regional Manager, Central & Eastern Europe di The Woolmark Company. «La nostra azienda è costituita da allevatori
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di pecore, quindi da chi produce la lana, ma non produce il capo finito. Il nostro lavoro come The Woolmark Company è quello di andare ad individuare dove può essere il futuro di questa fibra, e lo abbiamo visto molto bene in Sease, marchio che ha una visione futuristica della lana e del suo utilizzo, riportandola nello sportwear di alta gamma» chiude Magri.
«La filosofia di Sease è quella di creare una crasi tra la tradizione sartoriale maschile e l’aspetto funzionale dell'abbigliamento tecnico» spiega il founder di Sease Franco Loro Piana. «Il tessuto più adatto a questo scopo è il Solaro: che è un tessuto che esprime al massimo questo concetto perché deriva da una tecnologia militare creata intorno al diciannovesimo secolo dagli inglesi per le guerre tropicali, contiene infatti una tecnologia anti-UV che riflette il sole, e poi si è evoluto in un tessuto sartoriale utilizzato per gli abiti da giorno. Lo hanno indossato gli uomini più
eleganti al mondo, da Gianni Agnelli al Principe Carlo, ma anche i soldati durante l’epoca coloniale. La lana, che è una fibra cava, ha nella sua proprietà principale la termoregolazione: è per questo che anche nel deserto i locali si vestono di lana, perché mantiene la temperatura corporea bilanciandola con quella esterna quindi è particolarmente adatta anche a temperature rigide, inoltre è un tessuto iper resistente, ma anche estremamente elegante e con questo noi facciamo di tutto, dai capi da sci o snowboard a quelli per la vela, è il nostro tessuto iconico». Il Solaro è effettivamente un tessuto molto elegante: la sua cangianza naturale lo rende nobile. Questo è dovuto al fatto che questa sia una fibra ottenuta dalla mescola di tre colori: il blu e il giallo che si intersecano tra loro e si uniscono al filo orizzontale, che è rosso e che è quello conferisce la cangianza infine unendo altri colori non primari poi si estende la cartella colore.
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Alproof Series by Deuter
Una cosa è certa: gli sport invernali che si praticano lontano dalle piste sono cresciuti di popolarità negli ultimi anni, stimolati anche dalla pandemia e dalla necessità di fuga nell’outdoor.
L'aumento degli sport di libertà, praticati in ambiente innevato, come il freeride e lo sci alpinismo, ha fatto crescere la domanda di attrezzature di sicurezza. Per rispondere a questa necessità Deuter presenta per questa stagione invernale due nuovi zaini da sicurezza in valanga dotati della tecnologia airbag di classe mondiale di Alpride. La serie Alproof combina l'alta qualità della lavorazione, dei materiali e della comodità di traporto ormai famosa in Deuter con l’affidabilità dell’ingegneria svizzera di Alpride, per creare una nuova generazione di zaini airbag.
Alproof Lite
Così, da questo know-how e dalla necessità sempre più impellente di creare un prodotto su cui poter contare al 100% nelle situazioni backcountry che lo richiedono, nasce Alproof Lite (20 SL e 22), uno zaino per sciatori freeride che desiderano uno zaino airbag leggero e tecnico. È dotato del nuovissimo sistema airbag da valanga Alpride E2 completamente elettrico con tecnologia a supercondensatore: uno dei sistemi elettronici più leggeri in circolazione e che non è influenzato dalle basse temperature. Il leggero sistema dorsale
BY EVA TOSCHI
Alpine di Deuter, gli spallacci ergonomici e le alette imbottite sui fianchi con passanti per l'attrezzatura si combinano per creare una vestibilità compatta e aderente che è davvero confortevole e genera un'efficace ventilazione sulla schiena. L'effetto complessivo è quello di consentire un movimento ben controllato in tutte le situazioni, anche su terreni impegnativi. La cintura in vita, la cinghia sternale regolabile con precisione e in particolare la cinghia di sicurezza per le gambe lavorano insieme per evitare che lo zaino venga strappato via da una valanga.
Uno scomparto principale con apertura a conchiglia a tutta lunghezza ospita il supercondensatore e uno scomparto rinforzato per la sicurezza contro le valanghe con tasche organizzate per un facile accesso in caso di emergenza. Per una migliore organizzazione, inoltre c'è una tasca interna con clip per le chiavi e una tasca suddivisa con cerniera sulla parte superiore con una sezione foderata in pile per riporre gli occhiali e un'altra senza pile per riporre le cinghie dell'attrezzatura. Anche l'esterno dello zaino è ben organizzato, con
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due cinghie modulari (stivabili) per l'aggancio diagonale degli sci o per fissare uno snowboard sul davanti. È dotato di speciali attacchi per piccozze e bastoncini e di un'innovativa sacca per caschi staccabile. Entrambi gli zaini, 22 e 20 SL, sono leggeri, contando circa 2400 grammi incluso il sistema airbag.
Alproof
L'Alproof è invece il più grande della linea airbag. È stato progettato per gli appassionati di scialpinismo e splitboard che si aspettano tanto dal loro
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sione laterali aiutano a stabilizzare i carichi più grandi e possono essere utilizzate anche per fissare gli sci in un telaio ad A. Un'altra differenza è rappresentata dai manicotti isolati per il tubo di idratazione su entrambi gli spallacci, che consentono di montare la maniglia di attivazione sul lato destro o sinistro, a seconda delle preferenze, e di infilare il tubo di idratazione attraverso il manicotto sull'altro spallaccio. Essendo leggermente più grande e con caratteristiche aggiuntive, l'Alproof è anche un po' più pesante: la versione SL da 30 litri pesa 2620 grammi e la versione da 32 litri 2660 grammi, compreso il sistema airbag.
Sullo sviluppo del prodotto
equipaggiamento di sicurezza quanto dalle loro prestazioni. Dal punto di vista estetico, l'Alproof è simile all'Alproof Lite, ma presenta alcune caratteristiche in più. Grazie alle sue dimensioni maggiori, 30 litri nella versione SL e 32 litri nella versione Regular, può ospitare un sistema di idratazione da 3 litri nello scomparto principale ed è dotato di uno scomparto separato per l'attrezzatura da valanga con manicotto rinforzato per la pala e tasche organizer, oltre a una tasca interna con cerniera per gli oggetti di valore. Le cinghie di compres -
“Durante lo sviluppo del prodotto Alproof, la nostra attenzione era chiaramente rivolta alla sicurezza. È stata una sfida integrare il nuovo sistema Airbag E2 di Alpride nello zaino, che richiede una costruzione piuttosto complicata e molto accurata; inoltre, questi zaini devono essere molto robusti e resistenti per soddisfare i requisiti delle norme e i requisiti di Alpride stessa. Anche la sicurezza in caso di emergenza è stata un tema centrale nella progettazione. Ad esempio, tutte le parti rilevanti per la sicurezza sono evidenziate in arancione brillante, il compartimento di sicurezza, l'attuatore del sistema, l'attacco del cosciale, la copertura del sistema, i comandi del sistema e, naturalmente, l'airbag gonfiato per una facile individuazione in caso di valanga.”
“La nostra attenzione si è concentrata anche sulla maneggevolezza e sulle pratiche funzioni specifiche per lo sport, come l'attacco per gli sci e il trasporto sicuro del casco. Naturalmente, nonostante tutti i requisiti dell'attrezzatura, il sistema dorsale è davvero eccezionale.
È un pacchetto leggero che si appoggia in modo sicuro e così confortevole che non ci si accorge del carico" dice Steve Buffinton, Deuter Product Design & Development.
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Blizzard presenta Hustle 10, per avventure senza compromessi
La stagione 2022/23 è stata aperta con il lancio di Hustle, un modello che offre una soluzione innovativa per i freerider in cerca di pendii intoccati sui quali disegnare linee sempre nuove, lontani da impianti e folle. Questo però comporta nuove sfide, come la risalita con pelli in cui gambe e allenamento giocano un ruolo importante. Gli sci da freeride sono spesso troppo pesanti per un lungo avvicinamento, mentre i modelli da ski touring sono invece troppo leggeri e mancano di galleggiamento e reattività. Per questo, Blizzard ha sviluppato la collezione Hustle, che offre una soluzione equilibrata dal peso ridotto senza compromettere le prestazioni in discesa. Questi sci sono perfetti per i fan del big mountain che farebbero di tutto per essere al posto giusto al momento giusto, non importa se questo significa partire prima dell’alba o
salire grandi dislivelli. Il nome Hustle esprime perfettamente lo spirito di questi sci e dei loro rider.
Equilibrio delle prestazioni con il Trueblend Free Woodcore
La chiave del successo di questa innovativa gamma di sci risiede nella costruzione Trueblend Free Woodcore. Questa combinazione di faggio, pioppo e legno di pauwlonia crea un equilibrio perfetto tra leggerezza e prestazioni in discesa. Il flex flessibile della punta e della coda facilita l'ingresso in curva e il rilascio di potenza, mentre una rigidezza maggiore al centro garantisce stabilità e una presa di spigolo perfetta. Il risultato è una sciata sicura e confortevole per i freerider che cercano la neve fresca. Un nuovo concetto di sci leggeri per avventure fuori pista.
Il carbonio è il materiale ideale per un'ammortizzazione leggera e stabile, ed è proprio per questo che la tecnologia Carbon D.R.T. (Dynamic Release Technology) è stata incorporata nella loro costruzione. Questa soluzione, testata e apprezzata negli sci della collezione Blizzard da freeride, offre un miglior sostegno, maggiore affidabilità e prestazioni incrementate senza compromettere il divertimento. Lo shape progressivo è fondamentale per la loro versatilità, con un flex del Trueblend Free Woodcore che si adatta perfettamente alla forma, una punta "early rise", una coda rockerata e un camber moderato. La sciancratura semplifica ulteriormente il controllo, rendendo Hustle uno sci dalle possibilità illimitate. Sono disponibili tre modelli con larghezze diverse (11, 10 e 9) e cinque lunghezze, con un peso di soli 1750 grammi per l’Hustle 9 da 180 centimetri. Infine, l’estetica prevede un’alternanza di zone opache e lucide con sezioni trasparenti che lasciano a vista gli elementi in legno e carbonio.
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Scarpa Maestrale
Re-Made e il progetto Re-Shoes
Il nuovo scarpone da scialpinismo e le iniziative del brand di Asolo dimostrano che una visione imprenditoriale e produttiva più sostenibile è possibile.
SCARPA è da sempre un punto di ri ferimento non solo per gli appassiona ti di montagna, ma anche nel mondo dell’industria sostenibile. L’azienda, infatti, si impegna a promuovere valo ri riguardanti il rispetto della natura che si sono concretizzati in progetti di riciclo, riutilizzo di scarti, messa a punto di materiali di origine biologica e contenimento dell’impatto sul Pianeta. Recentemente, siamo stati accolti ad Asolo dal presidente dell’azienda Sandro Parisotto e da Tiziano Giordano, CSR & Sustainability Manager, per conoscere a fondo queste iniziative e nuovi processi. Ma soprattutto, abbiamo scoperto qualcosa di più su Maestrale Re-Made, il nuovo scarpone sostenibile da scialpinismo di SCARPA.
Il Maestrale Re-Made sarà in vendita in edizione limitata. Come mai lo definite un prodotto sostenibile? Tiziano Giordano: Il Maestrale Re-Made è realizzato con plastiche rigenerate selezionate e provenienti dagli scarti di produzione dello stampaggio. Lo definiamo sostenibile proprio per il minor impatto ambientale, attualmente misurato con LCA dell’Università di Bologna.
Questi materiali riciclabili ed ecologici intaccano le performance dei prodotti? T.G. Il nostro modo di
innovare è legato alla realizzazione di scarpe performanti e rimane la guida delle nostre decisioni. Come per i materiali vergini anche i materiali green devono superare tutti i test di performance interni.
È possibile realizzare una scarpa totalmente ecologica? T.G. Non esiste una calzatura al 100% sostenibile ed ecologica, il nostro impegno è di continuare a migliorare per ridurre gli impatti lungo l’intera catena del valore.
Quali difficoltà incontrate nell’unire la sostenibilità a caratteristiche tecniche? T.G. L’ambizione di realizzare un progetto di economia circolare come “Re-shoes” fa parte di un percorso iniziato nel 2019. Abbiamo analizzato l’intero ciclo di vita dei nostri prodotti iconici, in questo caso specifico la Mojito, e da qui sono partite una serie di nuove iniziative in chiave sostenibile quali Mojito Bio e Mojito Planet. Riunire più partner del-
la nostra filiera sullo stesso obiettivo ha reso possibile disegnare un progetto concreto e di valore, approvato dal programma Life.
Come avviene la produzione delle calzature Re-Shoes? Che tipo di scarpe sono quelle “giunte a fine vita” che vengono riciclate? T.G. Il progetto prevede la produzione e messa in commercio di un nuovo modello di calzatura SCARPA realizzato attraverso la raccolta, la selezione e il riciclo di scarpe giunte a fine vita. Questo tramite una procedura che consente di ricavare materie prime seconde dalle calzature usate e da scarti di produzione per creare nuovi prodotti riciclati di alta qualità, diminuendo così lo smaltimento e l'uso di materie prime vergini e mirando ad azzerare i rifiuti post-lavorazione. In una prima fase il progetto prevede il coinvolgimento di alcune zone di Italia, Germania ed Austria, per raccogliere dai consumatori
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15mila paia di scarpe usate del modello Mojito; successivamente le calzature raccolte entreranno in un sistema di riciclo virtuoso e porteranno alla realizzazione di altrettante paia di nuove calzature, con un range di utilizzo di materiale riciclato nel nuovo modello tra il 50 e il 70%. Grazie a tale processo si punta ad una riduzione, rispetto ai processi standard, del 52,4% di gas serra, del 50% di sostanze chimiche, del 65% di consumo di acqua, del 54,5% di energia.
Come avviene il processo di riciclo delle scarpe? Si possono riciclare tutte le parti di una scarpa? T.G. Il processo si baserà sulla dissoluzione selettiva della pelle per idrolisi e il liquido ottenuto verrà poi utilizzato per conciare della nuova pelle senza l’aggiunta di sostanze chimiche. La produzione di pelle riciclata si baserà sul processo Evolo che attualmente permette di raggiungere fino al 20% di contenuto riciclato a livello industriale. Un’attenzione specifica verrà poi dedicata alla gestione degli scarti di gomma pre-consumo generati durante il processo di taglio delle parti di scarpe. Esistono suole ecologiche? T.G. Possiamo dire che anche per le suole è possibile avere grandi attenzioni al fine di ottenere una riduzione degli impatti, riducendo gli scarti e riutilizzandoli per altri processi. Con il progetto Re-Shoes, riutilizziamo scarti produttivi per il battistrada ma anche come riempitivo dell’intersuola.
Quando la sostenibilità sarà alla portata di tutti? Sandro Parisotto: Credo che i consumatori di oggi siano disposti a spendere qualcosa in più pur di acquistare prodotti sostenibili. Indubbiamente i prodotti realizzati con processi e materiali sostenibili possono avere un costo di partenza più alto ma spesso durano di più e alla lunga consentono un risparmio notevole. In ogni caso credo che in futuro l’aumento della domanda di questi prodotti
contribuirà alla diminuzione del costo di produzione, e quindi del prezzo di acquisto finale.
Quali sono gli highlight del Green Manifesto di SCARPA per quanto riguarda Ricerca e Sviluppo? T.G. Il Green Manifesto è il programma che enuncia i principi sostenibili dell’azienda, concretizzandoli in nuove iniziative dedicate alle persone, al risparmio energetico ma anche allo sviluppo di prodotti con un minore impatto ambientale ma che mantengono performance e durabilità.
Quanto fatturato investe ogni anno SCARPA in progetti legati alla sostenibilità? S.P. La sostenibilità non è semplicemente una voce o un progetto cui destinare un determinato budget, bensì uno dei punti cardine su cui ruota l’attività di SCARPA, dunque sarebbe limitante quantificare tale impegno. Il Green Manifesto, lanciato all’inizio del 2021, ha rappresentato un pilastro fondamentale poiché ci ha consentito di mettere “nero su bianco” i principi sostenibili dell’azienda per concretizzarli in nuove iniziative, finalizzate ad allineare l’attività di SCARPA ai migliori standard internazionali.
Quest’anno avete lanciato un piano di investimenti da 12 milioni di euro destinati allo sviluppo del business con un particolare focus sulla sostenibilità, su quali altre innovazioni si sta concentrando il brand per il futuro? S.P. Ogni anno depositiamo 4 domande di brevetto europeo e investiamo il 4/5% del fatturato in ricerca e sviluppo. È proprio su questo fronte che stiamo producendo gli sforzi maggiori, per arrivare a mettere in commercio calzature sempre meno inquinanti e impattanti a fine vita a patto che siano sempre performanti.
Come aiutare l’utente a riconoscere tra progetti davvero sostenibili e greenwashing? T.G. Oggi “essere green” è molto di moda, alcune azien-
de pensano infatti che basti far finta di dimostrare un attaccamento all’ambiente e al pianeta per guadagnare punti in reputazione e immagine aziendale. Non sempre è facile capire quando si tratta di greenwashing, sicuramente ci sono dei segnali che possono aiutare l’utente come quando non vengono fornite informazioni o dati significativi che supportino pubblicitario, quando vengono date informazioni e dati dichiarandoli certificati quando invece non sono riconosciuti da organi accreditati e autorevoli, quando vengono enfatizzate singole caratteristiche dei prodotti pubblicizzati ritenendole di per sé sufficienti a classificarli come prodotti, quandi le indicazioni sul prodotto sono talmente generiche che il loro significato può venire frainteso dai consumatori, quando vengono inserite etichette false o contenenti parole o certificazioni contraffatte. Bisogna verificare la presenza di sistemi di gestione ambientali certificati, come gli standard EMAS e ISO 14001 ma anche certificazioni di prodotto come il GRS, ovvero Global Recycled Standard per quanto riguarda chi si occupa di materiali riciclati. Questi strumenti di marcatura ed etichettatura dimostrano l’aderenza delle aziende ai regimi di tutela ambientale e risparmio energetico.
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La sostenibilità non è semplicemente una voce o un progetto cui destinare un determinato budget, bensì uno dei punti cardine su cui ruota
l’attività di SCARPA, dunque sarebbe limitante quantificare tale impegno.
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desiderio di scoprire nuovi luoghi e nuove avventurose linee che presentino le migliori condizioni di neve possibili. Ecco allora che entrano in gioco le mappe 3D di Fatmap, l’app che consente di esplorare zone che non avete mai toccato, in tempo zero e dal vostro telefono o laptop. Avete una giornata libera che volete passare sugli sci? Basterà scorrere la mappa in cerca di ispirazione fino a trovare qualche spot che sembri promettente. Il passo successivo sarà vedere come appaiono quei percorsi dall'inizio dell'escursione fino al punto più alto per poi valutare il modo in cui tornare al punto di partenza, tutto semplicemente e velocemente attraverso la mappa. Quando si seleziona un itinerario, viene visualizzato un menu con una scala di difficoltà (facile, difficile, molto difficile, estremo). È inoltre possibile sapere il
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grado di pendenza delle linee. Alcune domande da porsi e a cui Fatmap può rispondere sono: com’è l'avvicinamento? Ci sarà qualche terreno particolarmente impegnativo o difficoltoso da prendere in considerazione? Come ho intenzione di battere la traccia di salita? Cosa dice il bollettino valanghe? Questi, e molti altri ancora, sono alcuni quesiti a cui Fatmap potrà dare soluzione attraverso l'uso di mappe topografiche e dell’analisi del terreno. Una volta superato questo primo, importante, passaggio sarà possibile stabilire un piano d’azione, un percorso preciso, e salvarlo sul proprio account in modo da averlo sempre sotto controllo il giorno stabilito per l’escursione. Inutile dire che le decisioni finali riguardo la sicurezza in montagna vanno sempre prese in tempo reale e
sul campo in base a come si presenta la situazione nel momento in cui la vivrete, ma sicuramente avere già un piano e un'immagine chiara di quel che andrete ad affrontare in testa non può che rendere la giornata all’aria aperta più facile e piacevole.
Analizzando i dati del percorso scelto sarà anche possibile organizzare la giornata in modo ritrovarsi a sciare la linea scelta nell’ora esatta che desideriamo in modo da godere appieno della montagna e delle sue condizioni. Una volta stabilito il piano principale (e forse anche un piano di riserva che è sempre bene avere a portata di mano) si può scaricare la mappa sull’app per accedervi facilmente anche offline nel caso in cui la connessione fosse pessima o inesistente.
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The Triple Line: inutilità e bellezza
In tedesco si dice "etwas für die Katz machen". Letteralmente “fare qualcosa per il gatto”. Un gatto gioca, si diverte e ci diverte... E questa azione non ha alcuno scopo se non quello di divertirsi. È un discorso affrontato spesso nella storia dell’alpinismo e non, quello della ragione che spinge le persone a fare ciò che fanno. Oggi spesso si va alla ricerca della clip perfetta, della foto da milioni di likes, delle views, della fama. Poter vivere di montagna e di sport grazie all’attenzione mediatica è una cosa che per molti atleti, professionisti ed appassionati, è stata la svolta, ma c’è chi si chiede se questo non abbia un po’ spostato il focus da ciò che è importante, la passione.
Samuel Ortlieb (Sämi) è uno skier svizzero con una visione artistica molto fine. L’interazione fra skier e terreno è qualcosa che lo affascina ed è per questo che riesce sempre molto bene nei suoi progetti. Ma uno così le cose le fa perché è ciò che gli piace. Uno così per raggiungere una fama mondiale con una clip e delle foto si è organizzato la sera prima chiedendo al fotografo “Ehi, domani che fai? Partiamo alle 5.” Tutto ciò che era preparato e pianificato era la sicurezza e la tempistica per riuscire nell’azione più che il reportage della stessa. A uno così, se gli chiedi cos’è la cosa più bella che gli rimane del progetto, ti risponde questo: “La cosa migliore è stata quella di essere lì per quella piccola avventura che da tanto volevo portare a termine assie-
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me ai miei amici. E il kebab che abbiamo mangiato dopo essere rientrati era delizioso.” Due elementi, l’essere presenti, e l’essere tornati a casa assieme che sono estremamente semplici ma sono anche la vera essenza del vivere la montagna.
Abbiamo fatto due chiacchiere con Ruedi Flück, fotografo che ha partecipato ed immortalato la tripla linea e che assieme a Sämi ci ha raccontato qualche retroscena e curiosità su quella giornata.
21 marzo 2021. L’idea si era insinuata in Sämi ormai da qualche tempo. Il fratello David gli aveva parlato di una linea che partiva da una montagna pittoresca ed interessante benché non fosse la più alta. Tre canali e tre skier che li sciano simultaneamente, uno scenario semplice quanto pazzesco. Un primo tentativo primaverile era fallito l’anno prima, ma quel giorno finalmente le condizioni sembravano perfette. Il team era composto da lui, due amici e leggende locali, Domi Rhyner e Janic Cathomen, dallo snowboarder Micha Schölkopf ed dal fotografo Ruedi Flück. Il luogo? Rimarrà segreto. È da qualche parte nel Glarnerland, est della Svizzera. Sappiamo che ci vogliono un paio di ore di avvicinamento e che non è una cima che scegliereste per una scialpinistica, a meno che voi non siate Sämi e che abbiate una particolare propensione per la ricerca di singolari strutture naturali con cui interagire.
Com’è andata?
Ruedi: Ci siamo incontrati alle 5. Non avevo idea di cosa stavamo andando a fare ma conosco abbastanza bene Sämi da essere certo che quando dice di avere una buona idea, si rivelerà una buona idea. Siamo partiti così presto perché l’avvicinamento era molto lungo e le ore di luce in quel luogo sono poche, di conseguenza la finestra temporale in cui avremmo dovuto agire era di
due, tre ore. Siamo arrivati lì alle 9 e dopo esserci assicurati che la situazione valanghe fosse sicura, gli skier sono partiti nella risalita, ognuno di loro lungo il canale dal quale sarebbero poi sceso. Non potevano vedersi e l’unico contatto era attraverso la voce che si trasmetteva via radio o con delle urla da un canale all’altro. L’unico modo per salire era dal davanti, poiché sul retro vi era un muro verticale. Piccola curiosità: lo snowboarder Micha è salito per filmare tutto con il drone, per poi scendere in solitario per il canale di destra a progetto completo, per questo se fate attenzione riuscite a vederlo in cima al canale di destra mentre filma ed attende il suo turno.
Sembra impossibile che siate riusciti a portare a casa questa avventura in un solo tentativo. Cos’è stata la cosa più difficile?
Sämi: Capire quando provarci. Aspettare il giusto innevamento. Avere pazienza ed aspettare perché tutto fosse in condizioni ottimali. Non mi piace forzare le cose, specialmente quando si tratta di linee importanti, non mi piace giocare con la mia vita e quella degli altri. Ruedi: Il timing e le circostanze. Devi avere un po’ di fortuna e devi beccare la giornata perfetta che è una cosa difficilmente pianificabile e prevedibile, deve succedere e basta. Per quando riguarda la parte fotografica abbiamo veramente avuto fortuna e tutte la valutazione e le scelte fatte si sono rivelate efficaci.
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il giusto innevamento.
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Avere pazienza ed aspettare perché tutto fosse in condizioni ottimali.
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BY EVA TOSCHI PHOTOS BARTEK PAWLIKOWSKI
Doo Sar A Karakoram Ski Expedition
Due amici, due grandi montagne e due discese con gli sci: questa è la ricetta base di Doo Sar, che poi viene migliorata con tutti gli ingredienti (speziati) che i due alpinisti polacchi incontrano lungo il loro cammino.
In un presente dove sembra che tutto sia stato detto, tutto sia stato fatto, c’è ancora spazio per l’esplorazione? Dove bisogna andare e cosa bisogna fare per incontrarsi con l’ignoto? Questa è la domanda con cui parte il documentario Red Bull “Doo Sar” che ci porta in spedizione con Andrzej Bargiel e Jedrek Baranowski fra le remote montagne del Karakoram. A supportare e documentare i progetti ambiziosi di Andrzej e Jedrek un affiatato team composto dal film maker e pilota di drone Jakub Gzela, Darek Zaluski e il fotografo Bartlomiej Pawlikowski.
Il gruppo arriva in Pakistan in primavera l’impatto con la realtà post-pandemica è subito molto forte. Dall’isolamento dettato dalle necessità sanitarie il contrasto con lo stile di vita dell’Asia meridionale è spiazzante. È bello, finalmente, vedere in giro gente senza le mascherine, riconoscere volti, scontrarsi con sorrisi. Cominciano i preparativi per il primo obiettivo: sciare l’ancora inviolato Yawash Sar II Peak, un 6000 della Ghidims-Dur Valley.
I locali non capiscono che sono lì a sciare per sport. Sembra così strano, adoperarsi così tanto senza un “motivo”. Ma il motivo, noi lo conosciamo, è sempre lo stesso: mettersi faccia a faccia con i propri limiti, con le proprie paure, conoscersi, crescere.
L’avvicinamento alla montagna dura svariati giorni, durante i quali il team polacco instaura un bellissimo rapporto con i portatori, che anche se stanchi, approfittano di qualsiasi
momento tranquillo per imparare a sciare. Non è un caso che lo Yawash Sar II non sia ancora stato salito: arrivarci costa tantissimi sforzi. In un momento di grande crisi di tutto il team è la natura stessa a dare una spinta, una motivazione: compaiono delle orme del leopardo delle nevi, che li porta in avanti, in tutti i sensi. Ma arriviamo al dunque: la montagna dei sogni si palesa e finalmente iniziano le danze.
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BY EVA TOSCHI PHOTOS BARTEK PAWLIKOWSKI
Andrej e Jedrek iniziano a salirla, ma dopo poco quest’ultimo, che non ha esperienza a quelle quote, deve mollare. I due restano in contatto via radio e Andrej, che ricordiamoci ha effettuato la prima discesa del K2 con gli sci nel 2019, prosegue la sua scalata verso la cima. Andrzej Bargiel è così il primo a salire e a sciare lo Yawash Sar II, con solamente qualche calata dalla vetta per via del ghiaccio incontrato nella parte sommitale. I due amici si ricongiungono a metà parete e sciano insieme fino alla base della montagna. Si celebra la riuscita della spedizione, che è un successo di team di cui fanno parte anche i portatori, con una partita a calcio: Pakistan contro Polonia. Il risultato? Non ci è dato saperlo. Il secondo obiettivo del viaggio è il Laila Peak, un altro 6000 questa volta già sciato ma non di meno stupefacente che si trova nella Hushe Valley. Se lo Yawash Sar II ha rappresentato il sapersi fermare, riconoscere i propri limiti e lasciare volare chi può, il Laila Peak e la sua salita rappresenta la lealtà verso la cordata, l’attesa, il riuscire insieme. Infatti anche stavolta Jedrek va in crisi per via dell’altitudine ma Andrzej si ferma ad aspettarlo e a motivarlo. Arrivano in vetta, insieme. Per via delle condizioni sono costretti a lasciare gli sci a 150 metri dalla vetta ma una volta recuperati, si godono una bellissima sciata su neve primaverile, molto diversa da quella incontrata sullo Yawash Sar II. Il modo perfetto per concludere una spedizione, un’esperienza di vita, che non lascia solo il segno perché entra nella storia dell’alpinismo. Perché, in fondo, e forse nemmeno così tanto in fondo, non importa se una vetta sia stata già salita, o una valle già esplorata: l’ignoto lo incontriamo dentro di noi. È solo che a volte dobbiamo andare molto lontano da casa, in posti remoti, per scoprirlo.
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THE PILL STORIES
BY LUDOVICA SACCO
Surviving a 4-meter burial
Ogni tanto anche ai più esperti di montagna capitano situazioni pericolose, spesso diverse da quelle a cui solitamente ci si prepara. Situazioni che richiedono non solo un’enorme esperienza, mente lucida e la massima attenzione, ma anche un grande spirito di improvvisazione.
Ed è proprio ciò che è capitato a Tim Banfield, fotografo di arrampicata su ghiaccio, e alle sue due compagne di avventura e climber Michelle Kadatz e Maia Schumacher. Parliamo di un salvataggio impossibile, raccontato nell’episodio 3 della serie di corti “Mammut Aspects | Stories from Avalanche Terrain” sul canale YouTube di Mammut e nell’intervista che Alex Phillips ha fatto a Tim Banfield su mammut.com.
Ma partiamo dall’inizio.
È una giornata primaverile come tante e i tre decidono di esplorare nuove vie, un’occasione per Tim per scattare qualche foto alle amiche mentre fanno ice climbing. Nessuno però si aspetta il pericolo a cui stanno andando incontro. Il primo errore è stato il sottostimare i segnali di avvertimento delle temperature calde e i piccoli dettagli sulle previsioni delle valanghe. Tim, Michelle e Maia partono comunque in esplorazione con ai piedi i loro sci da backcountry, fino a quando un’enorme placca di neve si stacca, investendo Michelle come un’onda dalle dimensioni raccapriccianti.
Quattro metri. Ben quattro metri di neve hanno sepolto l’arrampicatrice, lasciando l’eventualità di sopravvivenza quasi sotto lo zero. Sicuramente chi ci legge lo sa molto bene: la probabilità di salvarsi sotto due metri di neve è circa del 3%, figuriamoci sotto quattro metri. In quel maledetto momento, inizia il calvario. Tim utilizza il suo A.R.T.VA per trovare l’amica provando a rimanere il più lucido possibile ma scivola e cade durante ricerca: “Non posso farmi male” pensa. “Anche se mi infortuno leggermente, le possibilità di sopravvivenza di Michelle calerebbero perché sarei ancora più lento a spalare.”
Un tetto di 4 metri di neve sopra la testa è incredibilmente pericoloso, per uscirne servirebbero coordinazione dei soccorritori e diverse braccia per potersi dare il cambio a scavare e risparmiare energie. Ma non c’è abbastanza tempo. Tim e Maia devono raggiungere rapidamente Michelle, senza che la buca crolli loro addosso. Dopo un metro di scavi, i due costruiscono una piattaforma di atterraggio per far uscire la neve, con Tim che scava verso il basso e Maia che spala la neve più lontano. C’è paura dell’enorme rischio di valanghe secondarie e dell’ipotermia ma non ci si può fermare. Non ancora.
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I due continuano a scavare sotto i piedi fino a creare una via d’aria per l’amica, coprendole la testa con una sorta di tenda in modo che non le arrivi altra neve in faccia. Gli ultimi 50100cm sono i più difficili, per cui Tim spala letteralmente a testa in giù per buttare fuori la neve ancora più velocemente. Con i dovuti accorgimenti sulla propria temperatura corporea, non appena Tim e Maia raggiungono Michelle le cedono le proprie giacche per diminuire il rischio di ipotermia. Liberata Michelle, arrivano i soccorsi in elicottero che raggiungono i tre per portarli, finalmente, al sicuro.
Un salvataggio impossibile su carta, magistralmente eseguito da persone che conoscono bene la montagna. Una storia che ci fa capire che l’esperienza e l’accortezza non sono mai troppe e che non bisogna mai sottovalutare la potenza della natura. Dopo questa escursione, Tim ha apportato delle modifiche alla sua must have list in montagna. Un esempio è variare e aumentare i dispositivi di comunicazione da portare con sé, proprio perché durante questa brutta esperienza i tre ne avevano solo uno e sia Tim che Maia non sapevano come usarlo e tutto ciò ha portato a perdere del tem-
po prezioso durante il salvataggio. Un bello spavento che ha scosso le coscienze di Michelle, Maia e Tim, portando quest’ultimo a condividere questa storia con guide ed esperti di valanghe per sensibilizzare maggiormente sui protocolli di soccorso e incoraggiare ad essere ancora più preparati quando si esplora la montagna.
Si è conclusa nel migliore dei modi una storia di coraggio, enorme determinazione e un forte amore per la vita. Una storia che ci dimostra che i miracoli ogni tanto accadono e sono persone come queste a farli avverare.
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The Pill Base Camp Winter Edition 2023: Sestriere
BY LUDOVICA SACCO
PHOTOS AMEDEO GARRI & GIAN LUCA VANZETTA
L’unconventional business camp di The Pill per outdoor store e brand.
Lunedì 16 e Martedì 17 Gennaio 2023 le piste di Sestriere hanno accolto oltre 450 professionisti alla terza edizione (più precisamente la seconda invernale) del nostro evento, il The Pill Base Camp. Due giornate dedicate a test e presentazioni di prodotti del prossimo inverno 2024. 208 negozi outdoor italiani hanno potuto confrontarsi con 61 brand per conoscere e testare le novità della prossima stagione invernale.
Per 304 negozianti il villaggio si è dimostrato un vero e proprio campo base dove poter fare tappa per prendere nuovi attrezzi da testare tra sci, snowboard, attacchi, scarponi, maschere, occhiali, abbigliamento, zaini e accessori. Lungo l’intero evento ci ha accompagnato un tempo variabile fatto di neve e sole, con nevicate tali da potersi divertire in fresca e provare le novità Winter 2024 in condizioni ideali.
Non solo test ma anche presentazioni, experience e la cena all’I.GLOO, il locale situato proprio accanto al Base Camp. Qui si sono susseguiti una serie di appuntamenti indoor molto interessanti tra cui Lorenzo Alesi e Alice Linari che hanno proiettato il film “On Our Way” in collaborazione con Blizzard-Tecnica. Dopo la visione del corto e un piccolo spazio di Q&A con il pubblico, è salito sul palco l’esperto Web & E-commerce Marco Sepertino che ha diretto il talk “Social & Paid Traffic: meglio amici che nemici” con temi come i vantaggi e svan -
taggi di un negozio fisico, come posizionarsi e differenziarsi sul web, come utilizzare i social come business e molto altro.
I momenti di experience e informazione hanno poi lasciato spazio al relax e al gaso generale con i Monkey Sound, un trio rock che ha dato il via alla cena, seguiti poi da un dj set che ha fatto esplodere il locale. Chi ci ha seguito sui social sa bene cosa è successo!
Il martedì si riparte come il giorno precedente con test, coffee break e confronti tra buyer e brand. Alle 7
alcuni fortunati negozianti selezionati hanno avuto la possibilità di partecipare all’experience by Tecnica e Blizzard: una pellata condotta da una guida esperta.
Poi colazione al rifugio e via a disegnare linee in discesa con arrivo al Base Camp giusto in tempo per l’apertura del villaggio. Alle 16.30, puntuali come orologi svizzeri in previsione della chiusura delle piste, del The Pill Base Camp non era che rimasta una piazza di neve liscia ma che si porta con sé tante emozioni ed un’infinità di prodotti testati e di strette di mano.
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I numeri di questa:
• 1230mq di villaggio outdoor
• 61 brand espositori
• 231 professionisti iscritti (agenti, agenzie, media, influencer, referenti dei brand)
• 156 ragioni sociali negozi iscritte
• 208 insegne negozi iscritte
• 304 negozianti iscritti
• 11 ski tester della Outdoor Guide di The Pill
• 7 snowboard tester della Snowboard Guide di The Pill
• 553 persone partecipanti
Save the date! Il prossimo The Pill Base Camp Winter? Lunedì 15 e Martedì 16 Gennaio 2024. Ma non dimenticate il The Pill Base Camp Summer (running & hiking) questo giugno a Courmayeur.
Un grazie a tutti i negozianti presenti e ai brand che hanno reso il The Pill Base Camp possibile. 32, Amplid, Anon, Arbor, Armada, Arva, Bataleon, Bent Metal, Black Crows, Blizzard, Borealis, Burton, Capita, Dalbello, Dragon, DPS, Drake, Dynastar, Easy, Elan, Faction, Fatmap, Ferrino, Fischer, Fix, Fristchi, Funky, Giro, Gnu, Grizzly, Hannah, Jones, Julbo, K2, Kästle, Lange, Lib Tech, Mammut, Marker, Movement, Never Summer, Nidecker, Nitro, Nordica, Northwave, Oakley, Osprey, Parbat, Picture, Plum, Flow, Ride, Rossignol, Tecnica, Treksa, Union, Völkl, Wanderer, Yes, Salomon e Stranda.
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A lezione di consapevolezza
BY LISA MISCONEL PHOTOS PIETRO BAGNARA
Perché a volte queste parole vengono avvolte in una storia fatta di lana che si chiama Ortovox, ed è allora che esse vengono trasformate in fatti concreti: fisici, cartacei, digitali. È in questo in cui l’azienda tedesca ha deciso di investire maggiormente per perseguire qualcosa che va ben oltre il marketing ma anzi, è intrinseca nella sua storia... Una storia di lana e responsabilità.
Ortovox nasce nel 1980 con l’impegno per la sicurezza che la contraddistingue e che porta avanti tuttora. Tre sono i punti focus di questa azienda: sicurezza, sostenibilità e l’elemento della lana. In primo luogo, la sicurezza, un impegno che va oltre la semplice produzione di attrezzatura ma vuole trasmettere conoscenza e consapevolezza in modo che la qualità dei dispositivi non sia fine a sé stessa.
La sostenibilità viene seguita da ben 7 specialisti all’interno dell’azienda in modo che nulla venga lasciato al caso ma che da una grande consapevolezza derivino scelte ed azioni responsabili. L’impatto di ogni prodotto è stimato e Ortovox punta ad azzerarlo nel futuro prossimo.
Infine l’elemento della lana, presente nei capi del marchio sin dal 1988. Un materiale soggetto alla Ortovox Wool Promise, che non scende a compromessi e che mette qualità e responsabilità al primo posto. Viene garantito un compenso equo ai fornitori i quali devono assicurare determinati standard rispetto alla qualità di vita delle pecore.
Prendere la strada più impegnativa per educare a vivere la montagna con consapevolezza e contribuire alla crescita di un consumatore attento. Siamo bombardati da immagini adrenaliniche di super sciatori che scendono da ripidi pendii a velocità elevate, a record, a sfide contro il meteo, all’effetto wow. Ma quando si tratta di preparare lo zaino, o scegliere la meta per una gita i video e le musiche che ci tengono con gli occhi sognanti servono a poco. Ci vuole coraggio e tenacia per perseguire concretamente la strada della prevenzione. Ed anche una certa passione.
Parola ai maestri d’alta quota
Non a caso, chi rappresenta questa realtà sono persone come Daniele Fiorelli e Maurizio Zappa: guide, istruttori di guide e del soccorso alpino, tecnici di elisoccorso. È qualcuno che attorno a questo tipo di attività ci ha costruito la sua vita per “arrivare a chiudere il cerchio”, così dice Daniele. Maurizio invece, che è stato fra i fondatori della Scuola Nazionale di Soccorso Alpino ed fra i primi a dare vita al servizio di elisoccorso, ha anche formato i primi soccorritori adoperandosi per dare origine alle prime basi del soccorso, nello specifico, quella di Sondrio. Nonostante questo immenso bagaglio, quando parla di consapevolezza Maurizio lo fa in modo tranquillo.
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Parlare di sicurezza e sostenibilità è una cosa che ormai fanno in tanti. Un tema che quasi annoia, poiché affrontato quasi sempre alla stessa superficiale maniera, con le stesse filastrocche. Tuttavia, non è sempre così.
“Per valutare devi avere delle basi più o meno solide di conoscenza, nivologia, metodi. Ma anche l’utente amatoriale se si mette con la testa giusta riesce ad avere i mezzi per non mettersi nei guai. Sai com’è la storia, se non sai che il leone è carnivoro, magari lo accarezzi.”
Emerge da entrambi che purtroppo da sempre è diffusa la falsa credenza che se in montagna ci si va da sempre e non è mai successo nulla, allora questo è sinonimo di bravura e conoscenza. Al contrario, l’unica cosa che può dare sicurezza è una base solida di conoscenze ed esperienze fatte di valutazioni corrette piuttosto che di giornate fortunate. Le guide esistono per questo: oltre che per accompagnare, per educare.
Safety Academy, la strada della prevenzione
Proprio riguardo alla tematica dell’educazione, ecco che le guide entrano in gioco per la Ortovox Safety Academy: 95 date, località ampiamente distribuite e diversi livelli a cui poter prendere parte sia su neve che su roccia.
“Lo spirito del progetto, lanciato da Ortovox ormai nel lontano 2008, è quello di creare una connessione tra azienda e consumatore in cui il professionista diventa il mezzo e lo strumento per educare l’appassionato ad un approccio responsabile alle attività in ambiente” spiega Giovanni Pagnoncelli, Marketing & Professional Manager in Ortovox.
In questi camp è possibile apprendere nozioni in materia di neve e valanghe, utilizzare apparecchi e materiali in modo corretto ed efficace, gestire situazioni di emergenza e sviluppare osservazione e capacità decisionale. Per poter condurre questi corsi di formazione nel migliore dei modi, guide e azienda si ritrovano in più occasioni, fra cui le più recenti sono quelle del Ortovox Safety Academy Pro Team Meeting di Arco e del Safety Academy Pro Team & Press Meeting di Passo del Tonale. In queste occasioni le guide hanno potuto consolidare le proprie conoscenze su tutto il background dei prodotti che utilizzano quotidianamente e sulla filosofia alla base di ogni scelta ed iniziativa aziendale.
“È il confronto che fa crescere tutti, non solo i professionisti.” “Il valore di giornate come il meeting è quello della condivisione” dicono Maurizio e Daniele. Infatti, oltre al rapporto con l’azienda
che li supporta e li promuove, è fondamentale per queste figure il confronto con i colleghi. Colleghi che si riuniscono per queste circostanze provenendo da tutto il centro-nord Italia, dal Piemonte al Trentino Alto Adige fino all’Emilia Romagna. Per professionisti del loro livello, momenti di incontro come il Pro Team Meeting sono il miglior aggiornamento, dove, come dice Daniele: “Più girano le esperienze (da non confondersi con le informazioni, che è una cosa ben diversa) più il bagaglio cresce grazie ad un aggiornamento che più che tecnico è esperienziale.”
“Il meeting di Arco ha incluso un po’ tutto questo con l’ambizioso obiettivo, in soli due giorni, di informare, condividere, creare gruppo, entusiasmo, motivazione ed un rapporto forte e solido tra azienda e professionisti coinvolgendoli negli obiettivi, nei valori e inel messaggio d’azienda legato a sicurezza e salvaguardia delle nostre montagne.” Così scriverà Giovanni Pagnoncelli al termine del meeting di Arco.
Qualche mese dopo sulle nevi del Tonale, in una giornata limpida e poco ventosa, siamo stati coinvolti anche noi di The Pill e abbiamo ora il compito di comunicare queste realtà. Dopo aver conosciuto storia, valori e ultime novità sui prodotti del marchio, siamo stati accompagnati dalle preziose parole e dai consigli delle guide, ognuna con un incredibile storia e bagaglio sulle spalle, fino a 2000m dove ci aspettava il campo di esercitazione. L’importanza della valutazione di una gita, dell’attenzione a dettagli come la batteria del dispositivo ed al controllo dell’attrezzatura. Un paio di guanti in più può rivelarsi un salvavita come un A.R.T.VA scarico diventa fatale. L’esercitazione guidata dai numerosi professionisti presenti è culminata in una piccola lezione di nivologia sul campo da parte del nivologo e meteorologo Gianluca Tognoni.
Oltre alla Safety Academy, l’azienda ha anche investito in progetti come il Lab Snow, la versione digitale dei corsi in presenza. Si tratta di una piattaforma interattiva gratuita accessibile dal sito ufficiale. A livello territoriale sono previsti campi di allenamento fissi, mobili, check point e “Educational Trails” che avranno una delle prime applicazioni a Montespluga in collaborazione con Homeland. Infine il tanto trascurato ma che si rivela alla fine essenziale supporto cartaceo rappresentato dai Guide Book, che si pongono l’obiettivo di rendere accessibile questa consapevolezza a chiunque.
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Ice Climbing Ecrins: La Sportiva ed il valore dell’appartenenza
Proud. Grateful. Family. Emotions. Sharing. Inspiration. Passion.
Non si parla di performance, né di competizione. Da questa edizione di Ice Climbing Ecrins gli atleti La Sportiva si portano a casa dei ricordi e delle emozioni ben più importanti e questo traspare sia dalle parole che scelgono per accompagnare le loro fotografie dell’evento, sia dagli sguardi che abbiamo visto in quei giorni ghiacciati. Infatti, l’icona trentina ha scelto di riunirsi per il Mountaineering Team Meeting durante il festival di ice climbing giunto ormai alla sua 33esima edizione in modo da poter partecipare allo stesso tempo anche alle competizioni ed eventi collegati. Non solo! Ha voluto anche aprirci le porte di uno dei momenti più importanti per l’azienda e la sua vision, il meeting, il clinic prodotto ed il test sul campo. Tutti abbia-
mo visto cos’è successo l’ultima volta che atleti e brand si sono riuniti nella valle di Sadole, alla fine dell’estate. Condivisione, ricerca, unione. Se c’è una cosa che rende l’azienda veramente unica (oltre alle scarpette, scarpe, scarponi, s’intende) è la community. Non importa la lingua, il paese o lo sport praticato, la famiglia La Spo riunisce atleti da ogni dove tutti con lo stesso orgoglio e senso di appartenenza.
A metà gennaio, a L'Argentière-la-Bessée (FR) c’erano quasi tutti: dal re del ghiaccio e del dry Jeff Mercier, all’icona Tamara Lunger, dal silenzioso Fabian Buhl al meno silenzioso François Cazzanelli. E poi ancora c’erano Citros, Federica Mingolla e potremmo parlare della storia dell’arrampicata e dell’alpinismo dei giorni nostri solo nominando tutti i presenti. Ci siamo trovati in un caratteristico locale nelle alpi francesi, dove
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“C’è una cosa che ho imparato in tutti questi anni in montagna, ed è che l’elemento in assoluto più importante dopo la passione è il partner. Che sia di cordata, di vita o, come in questo caso, lo sponsor.
Valori, attitudini ed idee devono muoversi nella stessa direzione, solo così si crea la magia. Non c’è superpotere più forte del legame col proprio partner.”
- TAMARA LUNGER
BY LISA MISCONEL PHOTOS FEDERICO MODICA
l’atmosfera era riempita dalle chiacchiere talvolta in inglese, francese, spagnolo o italiano. Dalle risate, dagli abbracci e dagli sguardi. Per fare di un gruppo una squadra ci vogliono momenti di condivisione informali che portano ognuno a sentirsi a proprio agio ed esprimere i propri pensieri, elemento necessario e fondamentale al clinic prodotto che si sarebbe tenuto l’indomani.
Infatti due anni fa, tra le mura degli HQ in Val di Fiemme, è iniziata la storia del nuovissimo G-Tech, modello di punta dell’intera collezione
FW22: lo scarpone da alpinismo e ice climbing più leggero mai creato che toglie 200g per piede dal precedente modello raggiungendo i 620g. Per presentarlo, testarlo e discuterlo, oltre agli atleti è giunto dalle Dolomiti gran parte del team dal marketing all’R&D. La giornata inizia con un’introduzione da parte di Francesco Delladio, quarta generazione della famiglia, che ricorda come il rapporto con gli atleti sia per l’azienda da sempre il fulcro dello sviluppo di nuovi prodotti e tecnologie e dell’importanza del background territoriale che rappresenta la Val di Fiemme. La parola poi passa ai membri del team ricerca e sviluppo. Ci raccontano che per riuscire ad ottenere la combinazione perfetta fra leggerezza, calore e performance tecniche, il team è partito da qualcosa di esistente, la scarpetta interna degli scarponi da sci. Con materiali e costruzione simili ma adattati alle diverse esigenze, passo dopo passo con anni di test e miglioramenti si è arrivati ad ottenere quella che il team R&D ha definito la Formula 1 degli scarponi. In grado di accompagnare atleti ed appassionati in diverse attività dall’avvicinamento, all’alpinismo, all’arrampicata su ghiaccio in tutta leggerezza e garantendo calore grazie al BOA esterno. Lo stesso permette di allentare la chiusura nei momenti di inattività consentendo al sangue di fluire liberamente. Atleti come Fabian Buhl e François
Cazzanelli hanno partecipato attivamente alla progettazione e realizzazione di questo prodotto fornendo input ed idee in primo luogo e testandolo poi sul campo nelle proprie attività dall’ice climbing all’alpinismo a 6000m. Si scambiano pareri, si esprimono dubbi e si osserva come fanno i bambini con un nuovo giocattolo. È qui che il team raccoglie i feedback e si confronta su tutti gli elementi e sul lavoro effettuato, qui ma soprattutto ad Aiguille, dove nel pomeriggio gli atleti vengono sguinzagliati per testare il prodotto facendo ciò che sanno fare meglio: arrampicare!
Varchiamo l’entrata del parco giochi che nella più romantica delle lingue recita “Cascade de Glace”. Un ruscello scorre a fianco di alti muri di ghiaccio sui quali spiccano i colori sgargianti del brand portati dalle decine di atleti che fra ghiaccio e roccia si muovono nella danza del climbing e del dry tooling. Lo spettacolo è unico: la varietà di atleti di quel calibro riuniti in un unico luogo scambiando pareri e pensieri e arrampicando insieme con assoluta complicità crea un’atmosfera sospesa di magia. C’è Anna Torretta che arrampica assieme a Kurt Astner, venti anni dopo aver salito assieme Polar Circus in Canada. C’è Stefi Troguet che fa sicura all’ormai amica Tamara Lunger che in parete affianca i movimenti di un disinvolto e spettacolare Jeff Mercier che sale fra l’ammirazione di tutti i presenti alla base.
E c’è anche Federica Mingolla, che poco tempo dopo scriverà così:
“È da meeting come questi che poi dentro di me prendono forma i progetti.”
C’è forse risultato più grande del creare nella mente di questi atleti questo tipo di pensieri? Un evento che va oltre il grandissimo traguardo a livello di sviluppo prodotto che l’azienda può fieramente aggiungere alla lista dei momenti importanti per la sua incredibile community.
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Condivisione, ricerca, unione. Se c’è una cosa che rende l’azienda veramente unica è la community. Non importa la lingua, il paese o lo sport praticato, la famiglia La Spo riunisce atleti da ogni dove tutti con lo stesso orgoglio e senso di appartenenza.
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Life at Tarfala Hut
4 giorni di split fra le più alte cime della Svezia
BY TOMMASO BERNACCHI PHOTOS MATS DROUGGE
Ho avuto il piacere di partecipare ad uno splitboarding trip nella Lapponia svedese: 4 giorni di esplorazione e curve in un terreno completamente nuovo per me.
Il tour è stato organizzato da Mats Drougge, founder di Stranda Snowboards, e coordinato da Fred di Upguides, una guida francese che da anni lavora in Svezia.
Dopo un treno notturno da Stoccolma incontro Mats, le guide e i miei quattro compagni di viaggio a Kiruna, l’ultima vera e propria città prima delle infinite terre bianche della Lapponia. Non è molto grande, mi ricorda vagamente una di quelle cittadine che si vedono nei film ambientati in paesi come l’Alaska. Poco spazio per il design e l’architettura, qualche bar e naturalmente uno di quei negozi outdoor dove trovare tutto il necessario per sopravvivere nel selvaggio nord. Una particolarità di Kiruna è che la città viene letteralmente spostata ogni tot anni per via della miniera di ferro sottostante. Quando il terreno inizia a diventare instabile Kiruna trova una nuova collocazione per permettere l’estrazione del ferro.
Il piano è quello di raggiungere l’area del Kebnekaise e trascorrere 4 notti nei rifugi esplorando la zona con le
nostre splitboard, alla ricerca di belle discese. Il gruppo è molto vario e ognuno di noi ha qualche storia da raccontare, così iniziamo subito ad andare d’accordo, saliamo sul bus in direzione Nikkaloukta, da lì inizia l’avventura.
Nikkaluokta è la porta d'ingresso verso il selvaggio nord: le strade terminano qui, lasciando spazio a un mare bianco. Da qui si dipanano più vallate separate da promontori poco elevati. In fondo spicca la vetta di Kebnekaise (2120 metri), la cima più alta della Svezia.
L’ambiente è molto diverso rispetto a ciò a cui sono abituato… Vedo infatti numerosi gruppi di sciatori di fondo dotati di slitta su cui trasportano il necessario per le notti in rifugio. Si tratta di un tipo di turismo sciistico del tutto inusuale per uno come me abituato allo scialpinismo sull’arco alpino.
Una volta arrivati, le guardie forestali ci avvisano di un inconveniente: viste le temperature troppo elevate degli ultimi giorni, mai viste qui in questo periodo (grazie mille global warming), lo strato di ghiaccio in alcuni punti di passaggio si sta sciogliendo, rendendo molto difficile il trasporto dei viveri e delle stesse persone verso i vari rifugi. Per fortuna però in poco tempo riusciamo a trovare una via alternativa e siamo in grado di compiere il trasferimento di 19km in motoslitta verso il primo rifugio, la STF Kebnekaise Mountain Station dove trascorreremo la notte. Da qui in avanti non utilizzeremo più alcun motore che non siano le nostre gambe per spostarci.
La STF Kebnekaise Mountain Station conta 220 letti, si potrebbe chiamare rifugio di lusso vista la presenza di un ristorante e di una sauna. È la ri-
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prova del grande flusso turistico che caratterizza queste zone, un flusso che però sembra essere molto rispettoso dell’ambiente e del lavoro degli altri. Dopo una breve risalita pomeridiana per guadagnarci qualche curva, la notte passa tranquilla, un ultimo check dei set up e degli zaini per la mattina successiva dopo di che briefing con le guide per controllare le previsioni meteorologiche e per pianificare l’itinerario. Le condizioni non sono delle più favorevoli, dopo il caldo è arrivato il vento che significa ghiaccio, crosta, duro. Ci aspetta una traversata piuttosto intensa lungo la valle Tarfalavagge per raggiungere quella che sarà la nostra casa per i prossimi 4 giorni: Tarfala Hut.
La mattina arriva ed è tempo di avviarci, appena ci addentriamo tra le betulle ecco che alla nostra sinistra compare un branco di alci, si muovono al trotto, silenziose, sebbene a una cinquantina di metri da noi, grazie al vento e alla neve che assorbono i rumori. È sempre bello imbattersi in quelli che sono i veri padroni di casa. La traversata è dura e mi permette di riflettere sul vero significato di affidabilità dell’attrezzatura. I materiali infatti vengono sollecitati parecchio durante questi itinerari. Sono abituato a fare la maggior parte dell’itinerario sul morbido, in condizioni meteo al-
meno discrete, solitamente se le condizioni non sono ottimali non si esce invece qui è tutto molto diverso, bisogna uscire perché dobbiamo raggiungere la meta prestabilita, non senza valutare i rischi ovviamente, ma vento o meno è necessario spostarsi per poter sfruttare la giornata seguente. L’itinerario è abbastanza semplice, senza dislivello, ma reso quasi impossibile dalle forti raffiche di vento che, complici ghiaccio e zaino pesante, mi buttano per terra 2-3 volte.
Con qualche difficoltà arriviamo a Tarfala Hut, dove rimarremo per qualche giorno con l’obiettivo di svolgere delle gite qui intorno. Lo scenario è incredibile. Un mare bianco, circondato da un anello di montagne, tra cui spicca il Kebnekaise.
Il rifugio di Tarfala è proprio come me lo aspettavo: essenziale nei servizi, richiede spirito di adattamento e bisogna collaborare e partecipare al suo mantenimento. Questo significa andare a prendere l’acqua al pozzo (un buco nel ghiaccio del lago) e spalare quando necessario. Le notti passano tranquille, a lume di candela con qualche gioco da tavolo e tantissimo storytelling. Durante queste serate ho l’occasione di conoscere meglio Mats che ha la grande capacità di trasmettere una grande passione per lo snow-
board e per lo shaping delle tavole. Si nota sin da subito la sua grande cultura sull’argomento. L’ultima sera del mio soggiorno, quando ormai non ci speravo neanche più (le previsioni non davano molte chance di incontrarla), è finalmente apparsa l’aurora boreale. Uno spettacolo incredibile, reso ancor più bello dall’effetto sorpresa.
Durante i giorni successivi riusciamo a portare a casa delle curve decisamente belle, in uno scenario completamente inusuale per me. Le immense e spigolose montagne di casa che di solito fanno da cornice alle mie uscite vengono sostituite da pendii più bassi e morbidi. Da quando sono arrivato qui non riesco tuttavia a distogliere lo sguardo da un canale che sembra (e lo sarà) epico, obbiettivo dell’ultima giornata del viaggio.
Quella che sto vivendo è un’esperienza davvero incredibile, sicuramente l’interpretazione più appropriata della parola skitouring: conoscere nuove zone, dormire in veri e propri rifugi isolati dalla civiltà per sciare, sciare, sciare. Come sempre, torno a casa con il cuore pieno di emozioni, di nuove amicizie e di ricordi. E sapere come il surf e lo snowboard possano, oltre al gesto in sé, donare così tanto è sempre un regalo non così scontato.
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Come sempre, torno a casa con il cuore pieno di emozioni, di nuove amicizie e di ricordi.
E sapere come il surf e lo snowboard possano, oltre al gesto in sé, donare così tanto è sempre un regalo non così scontato.
Lena Stoffel
BY LUDOVICA SACCO
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"Voglio ispirare le persone a viaggiare in modo responsabile, sostenere le imprese locali e lasciare i luoghi così come li hanno trovati"
Come ti sei avvicinata al mondo dello sci? Sono originaria dell'Algovia, vengo da un piccolo villaggio vicino a Leutkirch. I miei genitori sono sciatori appassionati e mi ha messo sugli sci già in tenera età. Hanno sempre accompagnato me e mio fratello alle gare e hanno anche allenato molti bambini del distretto regionale. Quindi diciamo che mi sono appassionata fin da bambina ed è sempre stato una parte fondamentale della mia vita.
Hai continuato a gareggiare molto all'inizio della tua carriera. Come sei passata al freeride e freestyle? Sì esatto, ho gareggiato da adolescente nella nazionale giovanile FIS. Tuttavia, una volta finito il liceo non volevo più sciare solo attraverso dei paletti e quindi ho deciso di intraprendere un percorso diverso. Mi sono trasferita a Innsbruck per studiare e sono venuta a contatto con la scena del freeride e del freestyle a cui mi sono presto appassionata. Ho partecipato a concorsi regionali durante i miei studi e poco a poco le gare sono diventate sempre più internazionali. Nel 2010 ho gareggiato nella categoria slopestyle agli X-Games di Tignes e mi sono classificata quinta. Ho anche sciato in alcune gare di freeride, perché sciare fuori dalle piste battute è sempre stata una cosa divertente per me.
Quando e perché hai smesso di gareggiare?
Nel 2011 purtroppo ho avuto il mio primo infortunio al legamento crociato e al menisco. Ho lottato per tornare in pista e avevo intenzione di qualificarmi per le Olimpiadi del 2014 a Sochi. Ma poi ho avuto un secondo infortunio sempre allo stesso ginocchio nel 2013. Quindi l’inverno successivo ho deciso definitivamente di smettere di gareggiare ma continuare comunque a sciare nel modo in cui mi piace di più: lontano dalle piste e in fresca. Con Aline Bock sono andata in Norvegia in primavera per filmare un progetto. In questo modo è nato Way North con cui in qualche modo abbiamo colto nel segno e il film è stato ben accolto. L’unione di due donne, sci e snowboard era abbastanza inusuale ai tempi. Tutto ciò ci ha aperto un nuovo mondo e ci siamo lanciate in numerosi altri progetti negli anni successivi.
Si tratta di film principalmente ambientati nel backcountry. Che cos'è che ti affascina così tanto dello sci fuori pista? È abbastanza facile rispondere. È la natura, le montagne e la pace che donano. Non sciare in mezzo alla folla e al tempo stesso esplorare bellissime montagne. Ovviamente in fresca.
Uno dei progetti in cui sei stata recentemente coinvolta, Vanishing Lines, è uscito lo scorso inverno e racconta qualcosa in più del semplice sciare. Di cosa parla il film? È stato veramente un grande progetto e sono state felice di averne fatto parte. L'idea è venuta da Mitch Tölderer, uno snowboarder di Innsbruck che sta vivendo in prima persona il cambiamento in atto qui in Tirolo. Il film tratta fondamentalmente della protezione dell'ultima natura selvaggia, non solo qui in Tirolo, ma in tutte le montagne, principalmente nelle Alpi. Viene raccontato grazie all’esempio dei piani che esistevano per la fusione dei ghiacciai Pitztal e Ötztal. Fortunatamente si può dire "esistevano” perché questi piani ora non sono più sul tavolo grazie alle petizioni e alle iniziative dei cittadini. Come viene rappresentato questo nel film? Si vedono immagini spaventose di grandi cantieri nella bellissima natura selvaggia e, in contrasto, bellissimi scatti di Mitch che scia in un canalone nel Karwendel e io che faccio delle belle discese in Kalkkögeln. I ghiacciai sono ecosistemi altamente sensibili e dei grandi serbatoi di acqua. Ecco perché è importante proteggerli.
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Gli impianti già esistenti avvicinano le persone alla montagna. Tanti quindi scoprono la bellezza della natura in alta montagna e penso che sia un'opportunità coinvolgere attivamente tutte queste persone nella sua salvaguardia.
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Quindi dovremmo smettere del tutto di usare gli impianti di risalita per sciare? No, non credo. Penso che ci siano davvero delle opportunità fantastiche qui nelle aree sciistiche. Gli impianti già esistenti avvicinano le persone alla montagna. Tanti quindi scoprono la bellezza della natura in alta montagna e penso che sia un'opportunità coinvolgere attivamente tutte queste persone nella sua salvaguardia. Penso che dovremmo cercare di sostenere il più possibile le piccole stazioni sciistiche e andare a sciare anche in quelle. Sono solo favorevole a migliorare responsabilmente ciò che è già presente e non a costruire sempre di più. Dopotutto, abbiamo abbastanza chilometri di piste.
Come ti approcci ai viaggi e all'impatto ambientale che hanno questi spostamenti alla ricerca della neve ora che è altamente minacciata dai cambiamenti climatici? Adoro sciare su montagne diverse e conoscere culture differenti. Mi sono sempre sentita privilegiato di poter mostrare la vera magia di questi luoghi attraverso i miei occhi e attraverso la posizione che ricopro come sciatrice. Pertanto, voglio ispirare le persone a viaggiare in modo responsabile, sostenere le imprese locali e lasciare i luoghi così come li hanno trovati. Per quanto viaggiare abbia plasmato me e il mio legame con la natura, soprattutto in Giappone ma anche in Norvegia, posso sempre trovare questa bellezza anche sulla montagne di casa. D'altra parte capisco sicuramente la contraddizione. La neve come risorsa finita è decisamente minacciata e viaggiare molto lontano solo per trovarla, soprattutto in aereo, aggrava davvero la situazione. Quindi sto cercando di ridurre al minimo il mio impatto e mostrare attraverso il mio lavoro quanto è bello e quanto sia importante proteggere la nostra natura.
Di recente sei diventata vicepresidente di Protect Our Winters (POW) Austria. Come sei entrata in contatto POW e di cosa si occupa l'associazione? Sono stato ambasciatrice di POW per molto tempo. Per me è stata un'esigenza fondamentale essere coinvolta in una ONG che cerca di unire gli interessi naturali di tutti gli appassionati di sport invernali e di montagna e quindi proteg-
gere anche tutti i nostri amati parchi giochi. POW si occupa principalmente di sensibilizzazione. Vogliamo coinvolgere tutti gli appassionati di outdoor e dare a questa comunità una voce comune e forte. Questioni importanti per noi includono il lobbying diretto con i responsabili politici, nonché iniziative educative e discussioni sul tema della mobilità. Dopo i difficili tempi della pandemia abbiamo ripreso a tenere workshop nelle scuole chiamati "Hot Planet, Cool Athletes Workshops”. Gli ambasciatori POW sono fortemente coinvolti, tengono i vari corsi diventando dei veri e propri role model e fantastici "protettori del clima”. Poi cerchiamo di migliorare strutturalmente il tema della mobilità, in particolare il viaggio verso i nostri amati luoghi dove pratichiamo scialpinismo, arrampicata, escursionismo e snowboard.
Come unirsi o sostenere POW? Siete attivi a livello internazionale? Sul sito web di POW protectourwinters.org è possibile diventare membro e scoprire in quali altri modi essere coinvolti. POW è internazionale, c’è una comunità in molte città che si riunisce regolarmente, in luoghi come Monaco, Innsbruck e Graz, così come in tutta Europa e nel mondo.
Come riconosci la crisi climatica quando ti sposti per sciare? La riconosco attraverso i fenomeni meteorologici anormali che stiamo vivendo. Ovunque io vada, e parlando con la gente del posto, sembra che gli inverni siano sempre più secchi un anno e poi, l'anno successivo, ci sono invece intense nevicate. Sembra che il meteo come lo conoscevamo stia cambiando o semplicemente scomparendo. Soprattutto, vedo molti cambiamenti a casa mia, a Innsbruck, con il ghiacciaio dello Stubai che continua a ritirarsi.
Quali sono i tuoi prossimi progetti? Ho in programma un viaggio a Piermont per uno shooting in una valle priva di impianti di risalita e particolarmente ricca di tradizioni. È un vero paradiso per lo scialpinismo quando c'è la neve. Cerco solo di trascorrere più tempo possibile in montagna, è da lì che vengono le buone idee, così come il mio impegno con POW e i miei progetti personali.
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Imagine: Prompt IA, Fotografia, Outdoor
BY MATTEO PAVANA
Quando sento parlare di Intelligenza Artificiale (Artificial Intelligence in inglese) mi si proiettano automaticamente due immagini precise nella testa. La prima è super mainstream, trattasi della serie televisiva di Jonathan Nolan “Person of Interest” che presumo tutti voi già conosciate. La seconda è il discorso di Jay Tuck al TEDx di Amburgo, dal titolo “Artificial Intelligence: it will kill us”. Sì, beh, non un titolo granché rincuorante, ma consiglio a tutti voi di vederlo.
Per chi proprio non ne sapesse nulla, per Intelligenza
Artificiale s’intende una disciplina che studia se e in che modo si possano realizzare sistemi informatici intelligenti in grado di simulare la capacità e il comportamento del pensiero umano. È un programma, un algoritmo, scritto per mano umana, che si corregge e si migliora, in maniera del tutto autonoma, a un ritmo esponenziale e ad una qualità ancora oggi difficilmente comprensibile. Sostanzialmente esso stesso sviluppa il proprio modo di pensare, di ragionare, di operare. L’Intelligenza Artificiale è ormai al centro delle scelte tecnologiche di imprese e governi, nonché parte della vita quotidiana di tutti noi. Senza entrare troppo nello specifico, fate finta che l’IA sia un supercomputer con poteri sovrumani.
Quello che sta succedendo adesso, da un anno a questa parte, è che stanno diventando accessibili le prime intelligenze artificiali in grado di creare o modificare immagini. Non tutti ne sono a conoscenza, ma esistono sintetizzatori elaborati come Midjourney (o altri come DALL-E, Stable Diffusion, ecc.) in grado di creare immagini incredibili, di qualsiasi tipo, in qualsiasi stile e, cosa fondamentale, alla velocità di un “Invio” sulla tastiera. Produrre immagini con uno di questi strumenti non è per nulla complicato, basta sapere dare il comando desiderato al programma (il cosiddetto prompt) che interpreta le parole e renderizza le immagini. Io stesso inserendo come input “ice climber, on a huge orange ice candle in the mont blanc massive, with blue clothes, drone shot”, ho ottenuto quattro immagini diverse, ma simili tra loro. A questo punto il programma permette di generare altre quattro immagini nuove, generare altre immagini simili a partire da una delle quattro
appena ottenute o, nel caso in cui foste soddisfatti con uno dei primi quattro risultati, fare l’upscale e scaricare l’immagine sul proprio computer.
Questa tecnologia sta già influenzando i settori della creatività: dalla moda al design, dall’arte alla fotografia. È solo questione di tempo prima che anche il mercato dell’outdoor, nelle sue declinazioni, ne subisca il fascino e, quindi, le conseguenze. In che modo?
Nel caso circoscritto a Midjourney, è stato testandolo che sono rimasto sconcertato dalle sue potenzialità. Trattandosi di una versione beta, quindi non definitiva, gli output che si ottengono sono davvero promettenti. Con un nuovo prompt “female skimountaineer portrait, low depth of field, blue eyed, red patagonia hat, blonde hair, studio lights”, ottengo una risposta che ha dell’incredibile.
Come se ciò non bastasse, l’Intelligenza Artificiale si migliora di giorno in giorno quanto un essere umano migliora se stesso in anni. Si sta parlando di una tecnologia i cui ruoli e poteri appaiono senza limiti. A questo punto presumo sia più che normale che qualsiasi fotografo inizi a preoccuparsi. L’Intelligenza Artificiale renderà superfluo questo lavoro? D’altronde perché un’azienda dovrebbe investire in risorse esterne quando, assumendo un coder (o come vengono definiti adesso director di IA), avrebbe risultati migliori (magari non adesso, ma in futuro non lo escludo) e a un costo inferiore?
Eppure è solamente la storia che si ripete. Con l’avvento della fotografia digitale e dei programmi di elaborazione di immagini, primo tra tutti Photoshop, la fotografia
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analogica, considerata da molti come la “vera fotografia”, si eclissò poiché troppo lenta, antiquata e costosa. L’IA pare che sia la risposta immediata alla domanda del “più veloce, più conveniente”, niente poco di meno degli attuali e folli meccanismi capitalistici. Magari la fotografia di alcuni ambiti manterrà vivo e inalterato il criterio di autenticità, ma i settori che hanno già perso quel valore in passato sono destinati ad essere inghiottiti inesorabilmente nel mulinello del nuovo sistema. Pare che solo i fotografi, o più in generale i creativi, che saranno in grado di importare le skills di IA nel proprio workflow potranno lavorare e vivere di fotografia, di arte.
Per quanto riguarda la montagna e il settore dell’outdoor non mi esprimo fiducioso. Ritengo la Natura e l’Amo-
re i valori più alti a cui noi esseri umani possiamo ambire e non mi serve indagare più di quanto non abbia già fatto finora per dire che non c’è né Natura né Amore in tutto questo. Entrambi i capisaldi dell’Umanità verranno messi ulteriormente in crisi; secondo Jay Tuck fino al punto di non ritorno: quello della nostra estinzione.
La direzione di questo settore, come tanti altri, è il binario senza deviazioni di un treno in corsa sfrenata. Ci sarà sicuramente spazio per l’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale, nonché una spaccatura nel mercato tra domanda e offerta, creando nuove figure di lavoro. In certi settori il livello raggiungibile da un’IA sarà invece irraggiungibile dal 99% degli esseri umani. Forse ci sarà un ritorno più prepotente all’analogico come strumento per fare foto-
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grafia, parallelamente con un’auspicabile e desiderata decrescita dei prezzi delle pellicole. Ma queste, al momento, rimangono solo delle mie semplici supposizioni.
Tutto questo è un battito di ciglia rispetto a quello che avverrà col tempo: strani tempi ci attendono. Magari, spaventano pure. Parlandone, avrò anche contribuito ad accelerarne il processo, ma quello che invece davvero vorrei fare con questo articolo, oltre a mettere a conoscenza della tematica, è sensibilizzare verso confini ben più ampi: sarà e rimarrà sempre compito delle persone, degli esseri umani, scegliere la strada da seguire, la causa per cui battersi. La mia rimarrà amare la Natura, proteggerla, e con la mia fotografia aspirare ai valori dell’utilità, dell’etica e della giusta bellezza. E magari sopravvivere alla tecnologia.
Steve Polyak, molto prima di chiunque altro, ci aveva visto lungo. “Before we work on artificial intelligence why don’t we do something about natural stupidity?”
Ah, digitando questo comando è uscito questo:
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Pace&Bene, Matteo Pavana
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Impact Studio The Upcycling Way
in marketing e comunicazione presso Outback 97, un’agenzia che rappresenta brand outdoor. È qui che, vedendo i numeri del reparto resi e dispiacendosi nel vedere prodotti di altissima qualità venire scartati perché difettati, ha iniziato a sperimentare con materiali e cucito dando vita ad Impact Studio, un progetto di recupero creativo sostenibile.
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ITW BY LISA MISCONEL TO LEONARDO PLEBANI
Cos’è Impact Studio? È un progetto di recupero creativo sostenibile che utilizza materiale di recupero come punto di partenza. Ogni prodotto, oggetto, materiale difettoso viene rivalorizzato mediante un canone estetico pulito ed un design semplice dando vita a pezzi unici e immediati. Ogni concept inizia da una semplice ma mai scontata riflessione: quella del difetto, che una volta capito e compreso porta alla definizione del progetto e conseguentemente si trasforma in un oggetto totalmente nuovo. Il bello del difetto è che non altera le proprietà intime ma solo quelle estrinseche di un prodotto. Ogni prodotto unisce un background fatto di passioni e interessi: montagna e sartoria.
Come nasce l’idea di Impact Studio? É un’idea maturata in te nel tempo oppure qualcosa ti ha ispirato? L’idea non nasce per caso ma per esigenza. L’agenzia per cui lavoro rappresenta brand outdoor e gestisce ogni aspetto dalla parte commerciale al marketing fino al customer service. Ogni prodotto difettoso/usato/rotto che rientra passa dalle mie mani. Vedere la quantità di articoli che sarebbero diventati rifiuti mi è sempre dispiaciuto, al punto che un giorno decisi di portare a casa un materassino delaminato per provare a dargli una seconda chance. Vedendo mia mamma cucire, pensai che avrei potuto dare una seconda vita ed utilità a quel prodotto difettato, e
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Il concetto base di Impact Studio è quindi usare prodotti pesantemente o sfortunatamente usurati per renderli fortunatamente e fottutamente belli. I prodotti Impact non sono dei Must Have ma sono dei Must Done.
così creai un astuccio con chiusura roll-top. Da lì ho continuato a creare e sperimentare con il materiale che riuscivo a recuperare e, quando documentandomi mi resi conto di essere l’unico a riutilizzare quegli specifici materiali ebbi la spinta per iniziare questo nuovo percorso dal nome Impact Studio.
Qual è l’obiettivo di questo progetto? Impact Studio si propone di allungare la vita di tutti quei materiali, oggetti e componenti tecnici che altrimenti verrebbero buttati, sensibilizzando e promuovendo un esercizio creativo semplice e replicabile da chiunque abbia voglia di reinventare un prodotto piuttosto che trasformarlo in rifiuto.
Cosa si intende con il termine upcycling? Per upcycling si intende riutilizzare oggetti e materiali di scarto per creare prodotti di maggior qualità, reale o percepita.
Credi che nel mondo outdoor e fashion ci sia mai un utilizzo improprio e per soli fini di marketing del termine upcycling? Più che un utilizzo improprio del termine, credo che in molti casi ci sia una conduzione sbagliata che insegue ancora il mondo e modello del “fast fashion”. L’upcycling è un esercizio creativo sconnesso dalle previsioni di mercato. È un po’ come quando si scia in neve fresca, ognuno sceglie la propria linea in base a sensazioni e volontà. Lo stesso vale per me quando scelgo un materiale per farlo
rinascere: gioco, sperimento, taglio, unisco e molte volte sbaglio. Tuttavia c’è da dire che utilizzare queste iniziative come strumento di marketing è comprensibile, e da un certo punto di vista ha anche la sua importanza. Più se ne parla, più le persone si interessano e richiedono questi prodotti. Maggiore è la domanda, più grande deve essere l'offerta e, alla fine, le aziende potrebbero creare un vero e proprio business da questo argomento.
Credi possa essere esteso su larga scala in modo da creare una vera e propria realtà funzionante per la tematica upcycling nel senso più vero della parola? L’upcycling è in qualche modo connesso al concetto di rifiuto. Se riu -
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scissimo a creare una vera economia sostenibile, etica e innovativa eliminando a priori il concetto di rifiuto forse riusciremmo ad evitare tanti sprechi e a valorizzare ancora di più l’essenza vera e spontanea dell’upcycling che mira a creare un prodotto di valore seguendo un istinto di progettazione orientata alla salvaguardia dello stesso.
Ti senti di definire i tuoi capi parte del trend gorpcore? Quanto questo trend può incidere nel cambiamento di mentalità in riferimento all’industria dell’outdoor? Certamente si! Il gorpcore non è altro che l’atto di indossare abbigliamento tecnico da escursionismo e da montagna all’interno del contesto della città. La moda
utilitaristica è ormai in voga e negli ultimi anni lo stile gorpcore ha preso il sopravvento. Forse questo trend è sempre esistito tra i cultori della montagna con l’unica differenza che se quindici anni fa qualcuno avesse indossato delle Salomon SpeedCross 3 GTX in città sarebbe stato deriso e definito un “muntagni”. Ora invece è parte di un trend. Le nuove collaborazioni tra marchi di escursionismo e marchi di lusso stanno modificando alcuni equilibri, talvolta in maniera a mio avviso negativa: un caso, è quello in cui il marchio di lusso emula l'estetica montanara, ma quando è il contrario e i marchi di moda funzionali puntano a conquistare il nuovo pubblico di lusso è un'altra storia (spiacevole).
Lavori da solo? O hai creato un team? Io creo ed il team è composto da Dario e Marco. Dario lavora come grafico mentre Marco come fotografo. MUA, Stylist e modelle/modelli vengono selezionati in base all’articolo prodotto.
Quanto è importante per te mostrare e documentare il tuo lavoro in modo corretto? L’occhio vuole la sua parte, e questo richiede un processo fondamentale e molto difficile da gestire. Penso a quanto siamo bombardati di immagini e input quotidianamente, e cercare di fare qualcosa di originale e innovativo diventa sempre più difficile. Non ci piace troppo ragionare sulle cose, quello che ispira e convince tutto il team viene messo in opera.
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Credi che sia possibile in un fu turo non troppo lontano, che il recupero e riutilizzo prendano il posto dell’acquisto ingiustifica to di nuovi prodotti da parte dei consumatori? Forse dovremmo chiederci perché i consumatori facciano acquisti ingiustificati. Se ad un utente vengono proposti sempre e costantemente prodotti nuovi che, poco si differenziano da quelli proposti nella stagione precedente, esso sarà disorientato e spinto alla sola azione del comprare di più. Anziché essere accompagnato ed istruito, il consumatore viene allontanato sempre di più dall’esercizio del riciclo e del riutilizzo. Rallentare e far appassionare gli utenti finali ad un vero messaggio green è l’unica svolta
less, by design): cura e riparazione, rivendita e upcycling.
Come essere responsabili nei confronti dell’ambiente? La riparazione può essere una soluzione? Comprando meno. È difficile trovare centri di riparazione di terze parti che possano certificare un certo livello di qualità, accessibilità economica e che siano in grado di effettuare le riparazioni con un volume sufficiente e in un certo lasso di tempo. Tutti questi fattori entrano in gioco e alla fine sono pochi i centri di riparazione in grado di soddisfare tutte le richieste in modo costante.
Progetti importanti per l’anno nuovo? O brand con cui ti piacePer quest’anno puntiamo ad organizzare il primo evento Impact connesso ad un workshop. Mi piacerebbe molto collaborare con aziende del mondo furniture, infatti il prossimo progetto riguarda proprio l’unione tra design d’interni e materiali tecnici. Sono stato contattato da Arc’teryx, il quale, interessato al progetto ha iniziato ad inviarmi giacche e pantaloni fallati rovinati o scoloriti. Mi piacerebbe che un giorno questo scambio e supporto diventasse una vera e propria collaborazione per spingere l’upcycling in tutta Italia. Al di là di questo caso specifico, il team Impact Studio è aperto a tutti i brand.
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Paolo, il protettore dei fondali
BY ILARIA CHIAVACCI PHOTOS FEDERICO RAVASSARD
Pescatore, figlio di pescatori e nipote di pescatori:
Paolo Fanciulli è nato Talamone, paesino arroccato nel lembo più meridionale della maremma Toscana, è figlio e nipote di pescatori e la sua storia è stata raccontata da Safy Farah, che è nata a Minneapolis ed è una giornalista di Pop-Up Magazine, prodotto editoriale specializzato in racconti multimediali che, insieme a Patagonia, ha realizzato il documentario “The Art of Activism” sulla storia di Paolo e del suo impegno per salvare i fondali della sua Talamone dalla pesca a strascico. Come dicevamo Talamone, che si trova in provincia di Grosseto, gode di una posizione incredibile, sta sopra a un promontorio che si apre sulla baia omonima: l’acqua è di un blu quasi innaturale e, storicamente, questa porzione di costa è stata da sempre ricchissima di pesce, cosa che ha garantito per molto la sussistenza economica della comunità locale, basata fondamentalmen-
te su due asset: turismo e pesca. Paolo nella sua storia li ha intrecciati entrambi a doppio filo, unendovi però un terzo, fondamentale, tassello: quello dell’attivismo.
Tutto è cominciato intorno al 1986, quando Paolo ha iniziato la sua personale crociata contro la pesca a strascico: questo metodo di pesca utilizzato nella pesca industriale distrugge letteralmente l’ecosistema. Le reti infatti raschiano il fondale devastando e asportando qualunque cosa incontrino sul loro percorso: non solo pesci, ma anche invertebrati, coralli, alghe e posidonie lasciando dietro di sé fondali dilaniati, che saranno in grado di riprendersi solo dopo molto tempo. Le praterie di Posidonia oceanica ad esempio, di cui le nostre coste sono ricche e che ospitano ecosistemi complessi, possono andare interamente distrutte anche con una sola passata di reti. Per evitare tutto ciò in Italia in teoria
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Paolo Fanciulli ha fatto della sua professione anche una missione, quella di salvaguardare l’ecosistema marino dalla pesca a strascico industriale.
la pesca a strascico sarebbe vietata sottocosta, ovvero entro le tre miglia marine, ma questo purtroppo non impedisce ai pescherecci di strascicare anche nelle zone vietate, facendo danni irreparabili e azzerando non solo l’ecosistema presente, ma distruggendo anche le prospettive di pesca futura anche a chi, come Paolo, ancora conduce questa attività nel pieno rispetto del mare e della sua fauna. La tutela della biodiversità marina infatti è un altro fondamentale tema legato all’invasività della pesca industriale che, per sua natura, non è selettiva: nelle reti infatti non finiscono solamente pesci commestibili, ma anche specie che non hanno alcun interesse commerciale perché non sono edibili dall’uomo, ma allo stesso tempo rivestono un’importanza vitale per l'ecosistema nel quale sono inseriti. Non solo: la pesca industriale immette nell’atmosfera anidride carbonica, contribuendo all’accelerazione del cambiamento climatico.
Tornando a Paolo: tra la metà degli anni Ottanta e la fine degli anni Novanta il pescatore inizia la sua personale battaglia contro i pescherecci industriali con delle armi che definiremo “soft”: inizia infatti a scrivere sui giornali per far prendere coscienza alle persone del problema, ma si rende ben presto conto che l’informazione non basta, i pescherecci se ne fregano di cosa pensa l’opinione pubblica e continuano a frequentare la costa toscana. È allora che Paolo capisce che deve parlare la loro stessa lingua. “Siccome nessuno mi ascoltava sono arrivato, nel 1990, ad attaccare
un porto: quello di Santo Stefano. Questo ha dato un grande segnale. Dopodiché sono stato denunciato, ma per attaccare un porto non sono andato da solo: ho portato con me moltissimi altri pescatori artigianali oltre a Greenpeace e al WWF, perseguendo costantemente la mia causa: preservare il nostro mare dalla distruzione dei fondali” racconta Paolo. Anche un gesto così eclatante però non è bastato: "Visto che attaccare un porto non era abbastanza mi sono messo ad attaccare i pescherecci io stesso: da solo, di notte, con dei gommoni e con l’appoggio della procura, che finalmente sequestrava le barche. Quando però non avevo le forze pubbliche con me, Carabinieri e Guardia Costiera, attaccavo le barche anche da solo, perché loro non potevano esserci tutte le notti. Ho fatto di tutto: ho affondato barche, ho messo del filo spinato e delle bombe sott’acqua, ho rischiato la vita molte volte.” E questi erano i metodi “hard”, la svolta nei confronti di un attivismo più “pacifista” è arrivata nel 2005, grazie alla collaborazione con la Regione Toscana e con l’Arpat, l’Agenzia regionale per la protezione ambientale, che hanno supportato Paolo mettendo in mare grandi blocchi di cemento.
L’idea infatti, piazzando dei blocchi di cemento sul fondale, era quella di creare un ostacolo per le reti, che vi sarebbero rimaste impigliate. Con i fondi messi a disposizione della Regione Paolo è riuscito a rendere ai pescherecci la vita più difficile, ma non a sufficienza per costringerli a spostarsi altrove: i blocchi erano infatti
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Tutto è cominciato intorno al 1986, quando Paolo ha iniziato la sua personale crociata contro la pesca a strascico: questo metodo di pesca utilizzato nella pesca industriale distrugge letteralmente l’ecosistema.
troppo pochi e, seppur con difficoltà, le reti riuscivano a passarci in mezzo. Non solo: dopo poco le amministrazioni locali hanno smesso di finanziare il progetto. C’entra la mafia, Paolo ne è convinto e lo racconta a Safy Farah e a Patagonia. “A questo punto ho avuto un’idea: avrei dovuto convincere le persone a collaborare tramite il passaparola. Dopotutto sono stato io, nel 1992, a inventarmi il business della pesca-turismo in Italia: ogni giorno ospito persone sulla mia barca, mostro loro le bellezze della baia, ma spiego anche in cosa consista la pesca sostenibile e cosa invece danneggia il mare. Grazie alla solidarietà che ho riscontrato in persone provenienti da tutte le parti del mondo siamo riusciti a comprare 800 blocchi di cemento e, in quel tratto di mare, abbiamo impedito la pesca illegale per il 90 per cento.” L’impegno di Paolo però, benché fruttuoso, rimaneva comunque solitario: ecco che, per attirare ancora di più l’attenzione sul problema della distruzione dei fondali, ebbe l’idea di mettere in male non semplici blocchi di cemento anonimi, ma opere d’arte. Dieci tonnellate di pezzi d’arte per fermare la pesca a strascico illegale. Questo avrebbe portato non solo un beneficio all’ecosistema, ma anche alla costa, che si sarebbe così arricchita di un altro spunto turistico. Questo suo enorme impegno ambientale ha portato Paolo a ricevere dei premi e, durante la cerimonia in cui gli è stato conferito uno di questi, a conoscere il proprietario di una Cava di marmo vici-
no Carrara che, una volta ascoltata la sua idea, decide di aiutarlo con 100 blocchi di marmo da cui ricavare delle sculture. “A quel punto però dovevo passare da dei blocchi di marmo a delle sculture, mi mancava il passaggio artistico. Ancora una volta l’aiuto è arrivato dal mio lavoro.” A parte la scultrice Emily Young, che Paolo ha contattato via mail e che ha accettato subito di prendere parte al progetto, gli altri artisti sono arrivati tramite il passaparola generato dai turisti che incontrava. “Ogni giorno raccontavo la mia storia e il mio progetto ai turisti che ospitavo sulla barca, coinvolgendoli e spiegando loro che la vita del mare parte dai fondali. Questo ha dato vita a un tam tam e, alla fine, sono stati gli stessi artisti a contattarmi e a proporsi di aiutarmi: hanno offerto il loro lavoro gratis in cambio del pesce pescato e cucinato da me.”
È così che in poco tempo Paolo è riuscito a raccogliere 39 sculture giganti che ha piazzato a protezione del fondale della baia di Talamone, dove sono tornate le alghe e i pesci insieme alle tartarughe e le aragoste e dove ogni giorno accompagna i turisti per insegnare loro cosa significa la pesca sostenibile, far ammirare la costa e anche le bellissime sculture sottomarine. “Il mare è di tutti e il mio sogno sarebbe quello di non salvare solo questo mare, ma tutti i fondali: tutti gli altri luoghi in cui i miei colleghi pescatori sono costretti a smettere di lavorare perché la pesca industriale ha distrutto tutto.”
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È così che in poco tempo Paolo è riuscito a raccogliere 39 sculture giganti che ha piazzato a protezione del fondale della baia di Talamone, dove sono tornate le alghe e i pesci insieme alle tartarughe e le aragoste.
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Disagio e ravanage nell'artico
BY MARTA MANZONI PHOTOS FILIPPO SPINELLI
Powder da urlo, vista da Grande Nord e gente che rischia la vita per un selfie. Non è andata così. Il mio viaggione alle Lyngen Alps, località molto gettonata in questi ultimi anni dagli scialpinisti che se lo possono permettere, è finita ancora prima di iniziare, quando un maestro di sci mi è venuto addosso e mi ha rotto il crociato. Sono partita comunque, con mia sorella e degli amici.
All’aeroporto una signora un po’ creepy ci spezza l’entusiasmo ma ha ragione: “state attenti perché il pericolo valanghe è alto e nelle ultime settimane purtroppo sono morti alcuni skialper.” Mi sale l’ansia, e non se ne va. Fuori è bello, ma il tempo fa schifo. I fiordi però si vedono. Il bianco sconfinato si perde nel blu. Le montagne sono dei panettoni ripidi, che si pucciano nel mare. Sono basse ma sembrano alte.
C’è uno in bici, non giovane ma figo, che ha lo zaino con sopra gli sci e fa l’avvicinamento così. Poi ci sono tanti italiani come noi che girano con i macchinoni, cozzano con lo skyline wild e non hanno nulla di sostenibile. Comunque di ambiente parliamo tanto, per esempio c’è una ragazza con noi che è un’attivista. Un giorno andiamo al supermercato e lei, Adele, fa dumpster diving: si tuffa dentro il bidone dietro il super e riemerge con di tutto. Banane e arance ancora incartate, formaggio neanche scaduto, verdura in ottime condizioni e un botto di altra roba. Salviamo tanto cibo che altrimenti finirebbe in di-
scarica e ci sembra di aver fatto la nostra buona azione quotidiana, in più abbiamo pure risparmiato qualche soldo (qui costa tutto un fottio e ci siamo caricati le valigie di olio, vino, parmigiano, sughi e altra roba incastrati in mezzo agli scarponi, una bottiglia a Filippo si è aperta e ora ha il Gore-Tex che sa di birra).
Questa attività, per alcuni ludico-ricreativa per altri necessaria, è legata all’ideologia freegan, uno stile di vita anti-consumista che unisce veganesimo e recupero di cibo, nata negli States negli anni novanta e ora sempre più diffusa in particolare nei paesi scandinavi, molto meno in Italia. Oh, questi della generazione Z ne sanno una più del diavolo. Tipo un’altra volta ho avuto questa conversazione con un’amica che ha dieci anni meno di me e mi ha detto che lei non compra più vestiti nuovi e che il vintage è la tendenza più cool del momento. Anche le Lyngen sono diventate di moda e in effetti spaccano. Segue parentesi culturale.
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Le Alpi di Lyngen sono un massiccio delle Alpi scandinave situato a est di Tromsø, nel nord della Norvegia, al di sopra del Circolo Polare Artico. Si trovano in gran parte sulla penisola di Lyngen, parzialmente tagliata dal fiordo di Kjosen. Il massiccio culmina nel Jiehkkevárri (1833m), che è anche la vetta più alta della contea di Troms. Acqua e neve. Mare e montagna. Il tetto di alcune case è ricoperto d’erba e arbusti, usata come isolante per proteggersi da freddo e pioggia, una tradizione centenaria. Come dice Fabio, che qui c’è già stato nel famoso 2018, quando la polvere c’era e pure il sole, avere due giorni di bel tempo consecutivi da queste parti non è semplice e quindi tanto vale farsene una ragione, convivere con cieli nuvolosi, vento e magari anche una bella nevicata. Sei hai culo becchi una finestra e ti ricarichi di tutta la bellezza norvegese. Le pelli loro le mettono comunque tutti i giorni, anche con un tempo che non è granché e neanche la neve, riescono a trovare una gita che valga la pena fare. Sempre attenti alla sicurezza e valutando tutti i pro e soprattutto i contro.
È bello vederli uscire, soffrire, infiammarsi e tornare con il sorriso. Mi alzano il morale, basta poco. Secondo Fabio è questo lo spirito per qualsiasi viaggio, adattarsi ed esplorare, qualcosa di bello si tira sempre fuori. Ci sono le foto di Filippo che parlano. Cuciniamo, chiacchieriamo, guardiamo video di discese epiche e giochiamo a Jenga. Vediamo l’Aurora Boreale. Al diavolo i medici, domani vado anche io. Siamo nel bosco, gli sci sul prato senza neve, ravano, sono già sudata. Qualche chiacchiera. La fila si disperde subito. Mi lancio all’inseguimento di mia sorella e degli altri. È durissima, una via crucis senza croce. Hanno un passo da alieni. Inizia a nevicare. Mi accontento di una cima che non è la cima. Loro vanno su e tornano giù zuppi. Poi via, si scende. Belle risate. Vere e guadagnate. Arraffiamo le birrette. Per
Chiara skialp vuol dire accettare di non controllare la natura, spingersi solo fin dove decide lei. Essere pazienti. Rivedere le scelte, anche quando è frustrante.
Obbliga noi cittadini, che ci siamo a fatica presi qualche giorno di ferie e ci aspettiamo altrettanti giorni di condizioni e gite top, a rallentare e accogliere le cose come sono. Non conta la vetta ma come ci arrivi. Per molti della ciurma la gita più bella è la “doppio canale, doppia esposizione”. Il nome della cima è Store Lakselvtinden. All'inizio è come trovarsi sulle nostre Alpi, se non fosse che il canalone, molto ampio, ha la vista sul fiordo. Risalendo si sbuca su un piccolo plateau. A sinistra parte un secondo canale, con un saltino di roccia poco dopo la partenza, facilmente superabile. Poi neve fino a dove c'è un pezzo di cresta nevosa esposto che porta sulla cima. Il bello è l’ambiente, con tanti piccoli ghiacciai tutto intorno. Le montagne catturano lo sguardo che fantastica sopra di loro. Non c’ero ma ho fatto parte della festa. Francesca, Marco, Adele, Fabio, Chiara, Filippo e Andrea, mi avete dato molto di più della cima. Riportando tutto a casa, ne siamo usciti più vivi che mai.
Per Chiara skialp vuol dire accettare di non controllare la natura, spingersi solo fin dove decide lei.
Essere pazienti.
Rivedere le scelte, anche quando è frustrante. Obbliga noi cittadini, che ci siamo a fatica presi qualche giorno di ferie e ci aspettiamo altrettanti giorni di condizioni e gite top, a rallentare e accogliere le cose come sono. Non conta la vetta ma come ci arrivi.
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Pain without gain Henri Aymonod
BY FILIPPO CAON
PHOTOS MATHIS DUMAS
Se googlate «Henri Aymonod» la prima foto che vi uscirà è di lui che macina gradini accanto a una vigna con un casco da bici in testa e un paio di bastoncini. Non è una fotografia che resterà negli annali di questo sport: non ci sono montagne e ghiacciai, non c’è un romantico sentiero in mezzo al bosco, non ci sono roccette a strapiombo su qualche fiordo norvegese o su un lago svizzero. Ci sono soltanto lui e i metri di dislivello che gli restano da correre stampati sulla sua faccia, sofferenza pura, senza estetismi. Questo è il chilometro verticale, ma in generale penso di poter dire corsa in generale: lo sport meno cool del mondo: dolore senza ricompensa. Per questo è il più affascinante.
Ciao Henri, l’ultima volta ti aveva intervistato Francesco Puppi, era una buona intervista perché andava un po’ oltre le classiche domande, mi pare che in Italia si racconti poco la personalità di un atleta e ci si concentri più su risultati e gare, che va benissimo ma è un po’ noioso. Lo dico da giornalista, ma sei tu l’atleta, quindi dovrei chiederlo a te. In realtà sì. Mi sembra spesso che si voglia provare a salire sul carro dei vincitori. Ti vengono tutti a cercare quando ottieni un bel risultato, ma nei periodi di preparazione, tipo questo, ci sono molti meno giornalisti interessati che vogliono realmente capire non solo la parte delle gare e delle vittorie ma più il tipo di approccio che un atleta può avere. Le interviste spesso sono del tipo “come è andata la gara?”, “hai vinto, sei contento?” e così via.
Anche noi ci sentiamo sempre in dovere di fare tante domande ma in realtà raramente chiediamo davvero qualcosa. Ti annoi a fare le interviste? Ahah. Eh, in parte sì sinceramente. Quella con
Francesco era stata una bellissima intervista, noi siamo anche molto amici. Però le classiche interviste di report sono tutte uguali. Come dici tu è un modo di raccontare molto didascalico, in quel caso non interessa molto a nessuno sapere come hai approcciato la cosa o il percorso che hai fatto. Poi noi parliamo di sport ma la dedizione è qualcosa che va oltre alla corsa in sé, sarebbe bello fare qualcosa che ispiri non solo il mondo dei garisti ma in generale il mondo outdoor.
Nell’intervista con Francesco dicevi che le teorie di allenamento vengono costantemente validate e poi superate, che siano interessanti ma passino in secondo piano rispetto alle esperienze, al processo. Come ti alleni? O meglio, come valuti il miglioramento e di cosa si fida il tuo cervello durante il processo? L’atleta allena l’allenatore, non il contrario. È un dialogo costante per cui si crea un rapporto di reciproca fiducia. Gli allenatori di una volta non lo percepivano. Mi alleno con Paolo Germanetto, il CT della nazionale, e io e lui ci sentiamo ogni giorno, cambiamo programma in corso d’opera e in generale è tutto molto flessibile. Certo, ci siamo posti un obiettivo a lungo termine, che è importante, e una serie di obiettivi minori, ma per il resto mi fido del processo indipendentemente dai problemi che possono esserci in mezzo: lui è molto attento a come mi sento e cerca di lavorare sulla base di quello, ma per riuscirci il dialogo è fondamentale, se esegui solamente un ordine preimpostato a lungo andare diventa controproducente. È un rapporto che richiede anni e non esiste una formuletta magica. L’allenatore è quasi uno psicologo di cui ti fidi ciecamente, ma solo perché si sono creati dei presupposti su cui basare quella fiducia.
E invece l’imprevisto come lo vivi? Da un punto di vista psicologico? L’infortunio è un imprevisto. È come quando visualizzi una gara: pensi a dove puoi attaccare, dove possono attaccare gli altri, ma poi al 90% la situazione in gara cambia. Devi essere in grado di concentrarti su quello che stai facendo e non sugli altri. L’infortunio è tanto simile, non devi ragionare a breve termine, devi più che altro guardare oltre: capire cosa hai fatto di sbagliato, perché è quasi sempre dovuto a un errore di allenamento, e cosa fare per superarlo. Ma non vale la pena prenderlo come qualcosa di negativo: i problemi sono altri. Cercare di essere focalizzati sull’obiettivo, chiaro se è tanto vicino alla gara devi pensare a cosa hai fatto prima, l’infortunio non cancella tutto quello che hai fatto prima. Devi cercare di restare positivo, recuperarlo e dare tutto il giorno della gara.
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Ti vengono tutti a cercare quando ottieni un bel risultato, ma nei periodi di preparazione, tipo questo, ci sono molti meno giornalisti interessati che vogliono realmente capire non solo la parte delle gare e delle vittorie ma più il tipo di approccio che un atleta può avere.
Se non ricordo male sei stato negli Stati Uniti con gli atleti The North Face. Dove sei stato? Bishop, California. Eravamo là con gli atleti di The North Face. Ho incontrato atleti di tutte le discipline, facciamo sport diversi ma ti accorgi come le mentalità siano simili e c’è da imparare un po’ da tutti. È stato bello, abbiamo parlato di progetti personali. E poi sono stato in Slovenia con James Poole (anche lui intervistato su The Pill, numero 56 ndr.) per la nuova campagna di The North Face. Io ero là con gli sci, James ha corso. È stato un altro bel momento, sembrava di essere in un set cinematografico. Avevo fatto altri video ma erano tutti molto più semplici, invece lì c’era una troupe, è stato divertente. Come ti senti in contesti come questi? Voglio dire, come vivi l’essere atleta e il dover fare questo genere di cose semplicemente perché ti vengono richieste? A partire anche dalle interviste. Io le vivo sempre come delle opportunità. James non lo conoscevo ad esempio. Poi di solito le facciamo in off season per cui la stagione è finita e hai un po’ di voglia di staccare la spina. La Slovenia era in un periodo ideale. Avevo fatto i mondiali, ero stato in America, ero infortunato. Poi è bello fare cose non legate solo alla corsa, altrimenti diventa ridondante. Anche negli Stati Uniti è stato bello parlare con gli altri atleti non soltanto del loro sport ma di come vivono la vita in generale. Stessa cosa in Slovenia, parlando coi registi e gli operatori: è diverso, cambi i temi, ti confronti con altri cervelloni e tutti hanno qualcosa da insegnarti anche se fanno qualcosa di diverso da quello che faccio tutti i giorni. È sempre molto bello.
Invece molto più legato alla tua disciplina, uscirà un video su
di te e sul vertical di Fully, cosa rappresenta per te questa gara?
Il vertical è uno sforzo in cui riesco a esprimermi bene. Penso che la VAM, la velocità ascensionale media, usata anche in altre discipline, sia un buon parametro il nostro sport: e l’idea di fare 1000 metri di dislivello in una mezz’oretta è qualcosa che mi piace e mi appartiene. Questo probabilmente a causa del contesto in cui vivo e sono cresciuto: i sentieri in Val d’Aosta sono molto ripidi. Coi miei fratelli gemelli per gioco facevamo a chi arrivava prima in cima a una montagna, e per farlo tagliavamo i sentieri e salivamo dritti. Fully mi affascina da tanti anni, e penso che qualunque corridore di trail, in generale, dovrebbe provare, questo perché è difficile trovare un percorso così ripido e lineare con degli appoggi così buoni, e in generale il percorso è davvero perfetto. Oltre al contesto, le vigne, la vecchia centrale idroelettrica. Ci sono passati tutti gli atleti più forti della corsa in montagna e averlo vinto per tre volte di fila è davvero incredibile. La mia idea sarebbe quella di fare la mia miglior performance su un chilometro verticale proprio su questo percorso, su cui penso di poter ancora migliorare, e così è nato il progetto per The North Face.
Dai: scarpe. Esce qualcosa di nuovo? The North Face ha rivisto molto la Vectiv, sembra cambiata parecchio. Sì, io mi trovo bene. Sono stati i primi a usare il carbonio nelle scarpe da trail e poi hanno iniziato a farlo anche gli altri, ma il carbonio è sempre difficile: nell’atletica e nella strada l’appoggio regolare aiuta, nel trail è difficile usare bene il carbonio perché tende a far risultare le scarpe o troppo secche o a farle rimbalzare troppo, rendendo difficile usarle in discesa. Rispetto al primo modello
le nuove bilanciano molto di più il carbonio con la parte di ammortizzazione, e in generale la scarpa risulta più comoda.
Le Vectiv erano un po’ durette, sebbene dopo qualche chilometro cambiassero tanto e cedessero. La parte superiore è migliorata? Sì, oltre all’intersuola si è ammorbidita anche la tomaia. È sviluppata con un nuovo materiale, più traspirante e più contenitivo. È lo stesso materiale che si usa per le racchette da tennis, così si deforma molto meno, cosa che prima un po’ accadeva soprattutto dove stringevi la scarpa. Adesso si stringe meglio, e anche l’allacciatura è migliorata. Non mi sentirei nemmeno di confrontarla con la vecchia. In più ci sono due versioni: quella da sky, che è più leggera e ha meno carbonio, e poi quella per le ultra che è più abbondante e in generale più morbida, che uso tanto in allenamento, sebbene abbia una piastra più spessa. A me le scarpe piacciono, mi trovo bene.
Ti porto i saluti del Fabione, mi ha detto "salutami quel matto dell’Aymo". Ahah grande il Fabio, salutamelo.
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Poi è bello fare cose non legate solo alla corsa, altrimenti diventa ridondante. Anche negli Stati Uniti è stato bello parlare con gli altri atleti non soltanto del loro sport ma di come vivono la vita in generale.
Invisible Ground A snowboard film about vulnerability
BY EVA TOSCHI PHOTOS THEO ACWORTH
Queste sono le parole con cui inizia “Invisible Ground”, il documentario supportato da Picture e Smith e creato dallo snowboarder e filmer Elias Elhardt che, finalmente mi permetto di dire, parla profondamente delle scelte che si trova a prendere chi, come Xavier De Le Rue e lo stesso Elias, decide di fare della montagna, e del rischio a essa connessa, la propria vita. Ed è proprio di questa vita al limite, sia a livello emotivo che sul piano materiale, e piena di contraddizioni, che Elias e Xavier parlano in una conversazione onesta e spiazzante.
I n un mondo dove viene spesso messo in mostra solamente il lato “giocoso” dello sciare in neve fresca, dove è normalizzato l’esporsi al rischio per portare a casa qualche ripresa cool, anzi, dove di rischio nemmeno si parla perché sennò come si fa a con-
fezionare e vendere questa disciplina ai consumatori, sentire parlare due pro rider di tutto il retroscena è disarmante. E ad oggi era più che necessario, aggiungerei.
Elias e Xavier parlano inizialmente del loro approccio personale alla disciplina: il primo sempre più concentrato sul lato giocoso, il secondo invece affascinato dalla possibilità di mescolare lo snowboard all’alpinismo. Si parla di bellezza, della ricerca della bellezza nell’esporsi agli elementi crudi. Per Xavier, è proprio questa ricerca di insicurezza, lontano dai comfort della vita moderna, che lo porta a riconnettersi col proprio essere animale. Ed è proprio questa sensazione di precarietà, dove in un certo senso bisogna lottare per la propria vita, il motivo che lo ha spinto a fare quello che ha fatto negli anni. Per sentirsi animale e di conseguenza sentirsi libero.
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“Che sensazione incredibile. Scivolare, volare sulla neve fresca e profonda. Chiunque l'abbia provato, sa cosa intendo. Quando tutto va bene. Ma se va male?”
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Perché in fondo, non siamo che esseri vulnerabili, capaci di grandi cose, ma al tempo stesso piccoli, fragili, limitati. E forse è proprio grazie all’abbracciare questa nostra fragilità che possiamo fare qualcosa di buono. In questa vita o nella prossima.
Dopo aver condiviso le proprie visioni di freeriding, Elias e Xavier iniziano a portare il discorso su un altro livello: si va nel profondo e si inizia a parlare delle esperienze che si tendono a cancellare piuttosto che condividere. Si parla di morte, della morte vista in faccia, dello scavare sotto una valanga e tirare fuori un corpo di un amico, o di un ragazzino di 15 anni.
“Quando si lotta per la vita, il freeriding appare così inutile.”
Oltre al trauma, innegabile, scaturito da queste esperienze si riflette sul ruolo e sulla responsabilità che hanno i pro rider nel comunicare questo stile di vita al limite che appare così bello dall’esterno. Ed è proprio per questo motivo che sono necessarie narrazioni, come questa proposta in Invisible Ground, che mettono in luce l’altro lato della medaglia.
Nel parlare di incidenti in valanga, viene ricordato l’incidente di Xavier dove non ha perso la vita per miracolo. Ai tempi, aveva già una figlia di tre anni eppure dalla finestra dell’ospedale si ritrovava, dopo pochissimo tempo, a contemplare le montagne innevate sentendo di voler essere là, nonostante tutto. Una cosa folle, se si pensa che proprio dopo quell’incidente Xavier ha spinto al massimo in montagna. Diversa però è stato la risposta all’incidente in cui ha perso la vita il suo amico, che ha avuto un
impatto differente su di lui perché, come viene detto nel documentario, anche l’esito è stato diverso.
È però evidente che nonostante gli eventi più dolorosi, chi ama la montagna, chi si nutre di questo (in tutti i sensi) la domanda che si pone, a volte anche mentendo a sé stesso, è come poter continuare a fare quello che lo appassiona senza far soffrire le persone vicine. Perché alla fine della giornata non sono importanti le grandi imprese ma i rapporti con gli altri, che anch’essi sono un nutrimento fondamentale per una vita degna di essere vissuta.
Qual è quindi il modo, la ricetta se esiste, per vivere questa disciplina inutile a allo stesso tempo necessaria, nel modo più sano possibile?
Andare in montagna con umiltà, vivere delle esperienze che ci fanno capire quanto siamo fragili piuttosto che quanto siamo fichi e capaci di grandi imprese. Riconnetterci al nostro lato più animale, come dice Xavier, perché in questo modo diventiamo dei predatori, del nostro ego, e diventiamo così al tempo stesso prede. Perché in fondo, non siamo che esseri vulnerabili, capaci di grandi cose, ma al tempo stesso piccoli, fragili, limitati. E forse è proprio grazie all’abbracciare questa nostra fragilità che possiamo fare qualcosa di buono. In questa vita o nella prossima.
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The equator and the ice
BY ILARIA CHIAVACCI PHOTOS ANDRÉS MOLESTINA & ANNA NICOLE ARTEAGA
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C’è un unico ghiacciaio che si trova sulla linea dell’equatore, ed è quello ospitato dal vulcano Cayambe, in Ecuador. In totale in tutto il paese però di ghiacciai ce ne sono sette e, data la posizione della nazione, incastrata tra la Colombia e la parte settentrionale del Perù, si tratta di ghiacciai tropicali. Cotopaxi, Chimborazo, El Altar, Antisana, Ilinizas, Carihuairazo e Cayambe costituiscono uno spettacolo raro e bellissimo, ma sono scarsamente studiati e documentati. I turisti si concentrano perlopiù sul Chimborazo e sul Cotopaxi, ignorando gli altri, ma anche di queste due montagne in realtà si esplora poco. Per questo documentare la vita e lo stato di salute, parecchio precario, di questi sette ghiacciai è diventato un progetto e una missione di vita per due fotografi locali, Andrés Molestina e Anna Nicole Arteaga. Ventisei anni Anna, trentasette Andrés, entrambi hanno scoperto la passione per la montagna da adulti, entrambi ne sono rimasti folgorati e hanno deciso di farne una professione. Si sono conosciuti poi tramite un’amica comune, una delle uniche due donne che in Ecuador svolgono la professione di guida in montagna, e insieme hanno deciso di dare vita ad “Ephemeral Landscapes”, un progetto che va oltre il semplice raccogliere testimonianze foto e video per farne una mostra o un documentario, ma ha il fine ultimo di sensibilizzare le persone e fare qualcosa di concreto per salvare questi ghiacciai, o quello che ne resta.
Andrés ha iniziato a fotografare ghiacciai nel 2017, poco dopo essersi scoperto un appassionato di alpinismo. “Non avevo mai fatto niente di simile al mountaineering prima, molto
trekking e camping magari, ma non mi ero mai approcciato ad un ghiacciaio prima che uno dei miei più cari amici mi invitasse a salire sul Cayambe, uno dei vulcani più famosi dell’Ecuador. Di solito si inizia l’ascensione di notte, perché fa più freddo e il ghiaccio è stabile: il rischio di cadere in un crepaccio è minore. Solo che appena siamo arrivati al campo base, alle 11 del mattino, pensando di riposarci e partire la notte, la guida ci ha detto che le condizioni meteo sarebbero peggiorate in fretta, e che saremmo dovuti partire in quel momento. Ero spaventatissimo perché non lo avevo mai fatto prima, ma mi sono fidato e così abbiamo iniziato a salire: siamo arrivati in cima verso le 6 e mezza del pomeriggio con un tramonto incredibile. Non riuscivamo a vedere la città sotto di noi, ma c’era un mare di nuvole spettacolare e la linea dell’equatore di fronte a noi: era un paesaggio talmente spettacolare che è stato amore al primo sguardo. È stata come un’epifania, mi ricordo che ho pensato: Mio Dio, ma dove sono stato per tutto il resto della mia vita?”. L’esperienza è stato un vero turning point nella vita di Andrès, che qualche mese dopo ha iniziato a lavorare per una compagnia che organizza escursioni di trekking, scattando per loro durante i viaggi e avendo così l’opportunità di salire più volte su molte delle montagne più belle dell’Ecuador, come Cotopaxi, Chimborazo e Antisana. “Lavorando con loro ho avuto l’opportunità di arrampicare su queste montagne molte volte e ho iniziato a notare che stava succedendo qualcosa ai ghiacciai. L’esempio più lampante era il posto in cui di solito ci mettiamo i ramponi per iniziare ad arrampicare sul ghiaccio: sul Cotopaxi lo facevamo di fianco a un’enorme parete di ghiaccio, di cui ho scattato una foto la prima volta che ci sono salito. Con il passare dei mesi mi sono reso conto che il muro
di ghiaccio vicino al quale ci fermavamo per prepararci alla salita sul ghiaccio stava scomparendo. Non solo: i crepacci diventavano via via più larghi e il paesaggio cambiava inesorabilmente. A quel punto ho iniziato a raccogliere informazioni, ho fatto degli incontri con i glaciologi del paese: è venuto fuori che la maggior parte dei nostri ghiacciai rischiavano di scomparire nel giro di 10 anni, soprattutto quelli più piccoli, mentre per i più grandi l’orizzonte poteva arrivare forse a 30 anni. Ho sentito l’impellenza di fare qualcosa. E, se non c’è moltissimo che come privato possa fare, ho creduto che una delle cose più importanti fosse sensibilizzare le persone circa quello che stava succedendo ai ghiacciai di casa. È un problema che investe tutto il mondo chiaramente, ma in Ecuador abbiamo solo sette montagne con ghiacciai tropicali e due di loro sono veramente in condizioni pessime. Anzi, non sono neanche più considerati ghiacciai, ma giusto del ghiaccio in cima a una montagna.”
Gli altri ghiacciai considerai tropicali si trovano in Colombia, Messico e Perù, ma il Cayambe è l’unico ad essere sulla linea dell’equatore e lo scopo del progetto è quello di mostrare il veloce deterioramento dei ghiacciai tropicali, più fragili per natura e collocazione. Documentare questi territori però non è cosa semplice, perché molte delle zone che i due fotografi devono attraversare sono totalmente inesplorate che serve una preparazione alpinistica di un certo tipo per portare a termine in sicurezza le spedizioni. “Abbiamo già molte fotografie di tutti e sette i ghiacciai, ma non siamo ancora in grado di completare tutti e sette i loop a 360 gradi. Di Cotopaxi abbiamo fotografato quasi l’80 per cento, ma degli altri magari ci fermiamo al 60. Portare avanti questo progetto comporta spingersi
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Questo equilibrio precario e millenario si sta per incrinare in maniera irreversibile: salvarlo è diventata la missione, fotografica e di vita, di Andrés Molestina e Anna Nicole Arteaga, che documentano quanto si stanno ritirando i sette ghiacciai tropicali presenti in Ecuador.
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attraverso strade che non sono mai state percorse fino ad ora, o almeno noi non conosciamo nessuno che l’abbia fatto. Ogni viaggio è una scoperta e un’avventura e la logistica è molto complessa."
Chiedo perché non si avvalgono di guide ed è Anna a prendere la parola, per spiegare nel dettaglio la realtà della comunità outdoor dell’Ecuador: “Le guide qui portano i turisti in cima al ghiacciaio e li riportano giù, non esplorano le altre parti della montagna: fanno attenzione che siano idratati e che non gli succeda nulla o non cadano in qualche crepaccio, ma non fanno esplorazione vera e propria."
“Ho iniziato a realizzare i 360 loop di ogni ghiacciaio da solo, per fortuna Anna si è unita al team: adesso siamo io, lei e i ghiacciai. Siamo già stati fortunati a trovare delle mappe, che qui in Ecuador risalgono agli anni settanta, ottante e novanta, sono molto datate. Stiamo usando una combinazione tra quelle, Google maps e GPS di Garmin per provare a orientarci e scattare foto della parte più bassa dei ghiacciai. Il problema principale però è che per il momento abbiamo veramente poche risorse, stiamo portando avanti il progetto con le nostre forze. Non abbiamo sponsor e facciamo tutto passo dopo passo: due settimane fa il governo dell’Ecuador ha lanciato un bando per vincere dei fondi per un documentario, speriamo di riuscire a vincerlo.”
“In Ecuador c’è un problema di consapevolezza a tutti i livelli, ed è proprio questo il nostro obiettivo: educare le persone a proposito dell’importanza dei ghiacciai” riprende la parola Anna. “Vogliamo far comprendere quale grosso problema sia per tutti quanti il fatto che stiano scomparendo. Come questo ha degli effetti sulle risorse idriche, ma anche sulle praterie e sui raccolti. Credo che una delle ragioni principali per cui non riusciamo a trovare fondi è perché la maggior parte delle persone qui in Ecuador non capisce il problema o semplicemente se ne disinteressa. Molte persone che vivono in città non hanno connessione con la natura, la sentono una cosa distante. Ma se ti piace frequentare la montagna, fare backpacking ed esplorare,
non puoi rimanere indifferente. Però in Ecuador non ci sono neanche studi recenti in merito ai ghiacciai.”
Andrés: “Il paese non ha fondi per finanziare gli studi sui ghiacciai, quindi gli ultimi risalgono a 8-10 anni fa. Il nostro governo non ha soldi a sufficienza per finanziare i viaggi dei glaciologi e le persone non sono abituate a passare molto tempo fuori nella natura, non si rendono conto di cosa stia succedendo alle nostre montagne. Quello che trovo veramente triste è che, per la maggior parte, non gli interessa. Stiamo condividendo foto e informazioni con il Ministero della Cultura e del Patrimonio: i glaciologi hanno accesso a tutto quello che sta succedendo attraverso i nostri occhi. Siamo una piccola nazione e, anche a livello globale, credo si sappia molto poco di noi anche rispetto alle realtà più conosciute, come può essere il Cotopaxi: quando ho fatto il 360 loop sono stato il primo a farlo, nessuno ci aveva provato prima.”
Anna: “Ci sono molti più turisti che si approcciano al Cotopaxi rispetto al Chimborazo perché è più vicino alla capitale: i danni al suo ghiacciaio avranno un forte impatto anche sull’economia locale. Le vite di molte persone che lavorano nel turismo dipendono dalla salute del suo ghiacciaio, che si sta ritirando a vista d’occhio. Le mappe mostrano che l’inizio del ghiacciaio doveva essere a 4600 metri di altitudine, ma a 5100 ancora non c’è traccia del ghiaccio. Cotopaxi è un vulcano attivo: questo fa sì che la montagna sia calda e provochi uno scioglimento del ghiaccio più veloce, ma è triste vedere come una delle montagne simbolo dell’Ecuador stia perdendo il suo ghiacciaio e ci sia così poco interesse intorno a questa cosa. Per noi la cosa fondamentale è quella di completare il primo round di 360, ma dietro ogni spedizione c’è una preparazione molto meticolosa, oltre all'equipaggiamento che chiaramente ci serve. Abbiamo bisogno dei 4x4 per arrivare, del cibo disidratato e dei fornelli da campo, che sono cose banali, ma non qui: non è qualcosa che le persone fanno abitualmente in Ecuador. Noi stessi procediamo per tentativi, capendo di volta in volta come fare gli zaini in maniera più efficiente, come renderli più leggeri e funzio -
nali. Cerchiamo di fare almeno una spedizione al mese, ma qui in Ecuador il meteo è imprevedibile, cambia in maniera molto repentina. Quando Andrés è andato sull' El Altar ha trascorso cinque giorni in tenda perché non ha mai smesso di piovere. Entrambi stiamo mettendo molto in questo progetto, non solo in termini di impegno ed energia, ma anche di risparmi personali. In più ci alleniamo ogni giorno, per essere sicuri di riuscire a camminare con gli zaini e portare tutto quello che ci serve. Dobbiamo essere preparati sia fisicamente che mentalmente, abbiamo fatto ogni tipo di corso, da quello per le valanghe, a quello di sopravvivenza fino a quello di decision making e orienteering.”
Anche Anna infatti ha subito una sorta di epifania nei confronti della montagna, non è qualcosa che le è appartenuto da sempre: “Sono nata in Ecuador, ma ho vissuto negli Stati Uniti per molto tempo, a New York, un ambiente totalmente diverso. Durante un viaggio a casa, in occasione le vacanze di Natale, mio padre, che è un pilota e che ha un aeroplano ultraleggero, mi ha portata a fare diversi voli intorno ai vulcani. È stato lì che ho iniziato a guardare le montagne da un’altra prospettiva e ad esserne incuriosita e affascinata. Una mia amica, proprio quella del corso sulle valanghe che ci ha presentati, mi ha fatto notare che in alcune delle mie foto avevo scattato delle valanghe senza neanche rendermene conto. Sono tornata a New York, ma poi nel 2020, quando è iniziata la pandemia, sono voluta tornare a casa per cambiare la mia vita e fare sempre più cose legate all’outdoor. Così a gennaio 2021 ho preso parte a una spedizione con una scuola di escursionismo in una zona molto remota delle Ande: per me è stato molto duro, perché non avevo mai fatto niente di simile e il percorso non era facile, ma è stato qualcosa che ha cambiato la mia vita. Quel viaggio è stato la conferma che tornando in Ecuador avevo fatto la scelta migliore e che c’erano infinite possibilità per me come fotografa nella mia terra. Dopo poco ho iniziato a lavorare con la scuola di escursionismo, prendendo parte alle escursioni e realizzando reportage, ma ho anche iniziato ad arrampicare e ad andare in mountain bike."
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Prendersi Il Mondo Ovunque Sia
BY MARTA MANZONI PHOTOS ANDERS MØLLER VESTERGÅRD
La neve che corre attraverso le vene. Code di balene che saltano all’orizzonte delle Lyngen Alps. Un fotografo outdoor e uno sciatore estremo. Una classica, rivoluzionaria, avventura di scialpinismo. L’artico. Una luce inimitabile e rara, da custodire. Il sole qui è speciale, ancora più prezioso: vive per poco, illuminando in perfetta intesa con la luna. Anders Møller Vestergård ha circa quattro ore a disposizione per scattare Eivind Wergeland Jacobsen che disegna i suoi sogni sulla neve. Un’unica, lunga, golden hour, prima che il buio si mangi di nuovo tutto. Come sempre nel suo lavoro, Anders Vestergård è solo, ma in ottima compagnia. È novembre, un periodo eccezionale per sciare queste piccole, grandi montagne norvegesi che come onde emergono e si rituffano perpetuamente nell’oceano, in un infinito movimento.
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Com'è andato il progetto? Eivind: La giornata è iniziata molto presto, verso le due del mattino: volevamo essere pronti per quando sarebbe spuntata la luce, inoltre avevamo due ore di auto da fare. La scelta del periodo non è stata casuale: la settimana seguente infatti, sarebbe iniziata la notte polare. Sapevamo che avremmo avuto solo quattro ore di chiaro, un’eccezionale golden hour durante la quale il sole sarebbe affiorato per circa un’ora. La montagna che abbiamo scelto per il progetto si chiama Holmbukttind, ed è alta 1666 metri: le cime qui sono più basse delle Alpi ma sono altrettanto ingaggianti. Con le pelli siamo partiti dal livello del mare, quindi abbiamo fatto un po’ di dislivello. Le prime tre ore sono state molto impegnative da un punto di vista mentale: era notte fonda e non vedevamo minimamente dove stavamo andando. Per fortuna conoscevo già il percorso e lo avevo salvato sul mio orologio, il che è stato un bene: sul ghiacciaio c’era molta nebbia e nuvole basse, e sarebbe stato facile perdere l’orientamento. Dieci ore le abbiamo trascorse in montagna e alla fine siamo rientrati a casa verso le cinque di pomeriggio, davvero una giornata infinita!
Quali sono stati le maggiori difficoltà che hai incontrato nel realizzare gli scatti fotografici? Come ti sei organizzato? Anders: Avevo circa dieci chili di attrezzatura fotografica con me, nulla di insopportabile ma comunque un bel peso, visto che di solito quando prepari lo zaino per andare in montagna cerchi sempre di essere il più leggero possibile, e infatti ero piuttosto lento rispetto a Eivind. Non c’è stata neve per buona parte dell’inizio dell’itinerario, quindi abbiamo dovuto portare gli sci e gli scarponi sullo zaino per parecchia
strada. Un’altra grande sfida per ogni fotografo outdoor è il freddo: le mani sono sempre congelate! Quel giorno in cima c’erano meno venti gradi, ma in realtà devo dire che non ho avuto troppo freddo. Anche la stanchezza si è fatta sentire: ci siamo svegliati davvero presto e dopo qualche ora iniziavo a essere un po’ provato. Risalire la montagna totalmente immersi nel buio non aiuta ad essere motivati! Vedere sorgere il sole mi ha dato però un’energia fantastica, esattamente quello di cui avevo bisogno per ricaricarmi! Anche la gestione del tempo non è un fattore da sottovalutare: all’inizio ero un po’ stressato perché sapevo che avrei avuto a disposizione davvero poche ore di luce e dovevo sbrigarmi per raggiungere la vetta, mentre dall’altra parte avrei voluto dedicare la giusta attenzione e lo spazio necessario per ogni fotografia. Piano piano però mi sono reso conto che ce l’avrei fatta e mi sono tranquillizzato.
Il giorno dopo la gita di scialpinismo hai visto anche le balene... Quali emozioni hai provato? Anders: Mi avevano detto che novembre è il mese migliore per vedere le balene a Skjervøy, così ho pensato di approfittarne. Ho alcuni amici che lavorano sulle barche e che mi potevano accompagnare e devo dire che è stata un’esperienza davvero straordinaria, ero super eccitato: anche in questo caso la luce era favolosa, e vedere saltare orche assassine e megattere è stata un’emozione speciale, molto intensa.
Come fotografo, pensi mai che ti stai perdendo qualcosa, non stai vivendo appieno il momento, perché sei concentrato sullo scatto? Anders: Certo, è uno dei punti più delicati per i fotografi,
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un conflitto che esiste sempre. Di solito sugli sci riesco a godermi il momento, e anzi penso che fare foto offra un valore aggiunto alla giornata. Durante il whale watching invece ero molto concentrato nello scattare una fotografia quando ho sentito i miei compagni sulla barca urlare perché avevano visto una balena saltare in un altro punto, e io me lo sono completamente perso.
Sei un grande fotografo. Pensi che le foto rubino l'anima delle persone? Anders: No, penso solo di catturare i sentimenti delle persone. Spero di lasciare loro un bel ricordo, qualcosa di cui essere felici.
Quali montagne preferisci sciare?
Eivind: Le Lyngen Alps sono uniche al mondo, sbucano dritte fuori dal mare, sono basse ma sembrano alte, ti permettono di spaziare con la creatività e hanno infinite opportunità quando scegli le linee, inoltre offrono uno scenario davvero incredibile: Jiehkkevarri è la montagna più alta, sulla quale ho fatto un paio di prime discese, la mia preferita. Di solito però quando faccio una discesa sono soddisfatto per un po’ ma poi mi viene subito voglia di sciare un altro pendio.
Qual è l'aspetto peggiore dell'essere un fotografo outdoor? Anders: Forse il fatto che mentre fotografi non puoi sciare le belle linee che stanno disegnando gli atleti che tu invece devi immortalare! Ma tra le due cose preferisco realizzare una buona fotografia piuttosto che sciare un bel pendio, quindi va bene così.
Lavorare come fotografo outdoor
è il sogno di molti…Pensi di essere un privilegiato? Anders: Sì, assolutamente! Credo di non essere autorizzato a lamentarmi. Dall’altra parte bisogna
anche chiarire che è comunque un lavoro tosto.
Chi è il miglior sciatore di sempre secondo te? Eivind: Vivian Bruchez, ha molta tecnica e un eccezionale senso dell’estetica.
E il migliore fotografo? Anders: Tim Tadder, mi piace il suo stile!
In chi o in che cosa vorresti reincarnarti in un'eventuale prossima vita?
Anders: In un delfino, sembra proprio che se la spassino!
Eivind: In una capra di montagna. Corrono su e giù dalle montagne, super veloci e con grande eleganza!
Cosa diresti al te stesso di dieci anni
fa? Anders: Credo che non ci siano parole che avrebbero fatto andare le cose diversamente. Direi semplicemente di vivere, cadere e rialzarsi, sempre.
Eivind: Forse è un cliché, ma direi di non avere paura di seguire i propri sogni.
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La gestione del tempo non è un fattore da sottovalutare: all’inizio ero un po’ stressato perché sapevo che avrei avuto a disposizione davvero poche ore di luce e dovevo sbrigarmi per raggiungere la vetta, mentre dall’altra parte avrei voluto dedicare la giusta attenzione e lo spazio necessario per ogni fotografia.
The High Life
BY ILARIA CHIAVACCI PHOTOS PIERRE CADOT
A PATAGONIA STORY
Sarah Cartier gestisce uno dei rifugi più impervi d’Europa e lo fa in compagnia dei suoi due figli: Armand, di tre anni, e Camille, di 10 mesi. Patagonia le ha dedicato un documentario.
A pochi chilometri c’è la scintillante Chamonix, con i suoi negozi blasonati e i ristoranti super chic dove si mangia la fonduta migliore, ma dalla conca di Charpoua tutto questo non è che un brusio di sottofondo, una presenza in lontananza. Charpoua è una valle incastonata in mezzo ad alcune delle vette francesi più belle: si affaccia sul lato destro della Mer de Glace, che in francese significa "mare di ghiaccio", e tutto intorno svettano l'Aiguille Verte, 4122 metri d’altitudine, e Les Drus ,3754 metri. A nord c’è la cresta delle Flammes de Pierre e a sud-ovest la catena Moine-Nonne-Evêque-Cardinale. Il panorama qui toglie il fiato ed forse è proprio per questo che, nel 1904, è stato costruito un minuscolo rifugio, incastonato in cima ad un isolotto di roccia, lo storico Refuge de la Charpoua.
Costituito da una stanza sola e tuttora senza acqua o elettricità, è stato costruito con tavole di pino portate sulle spalle dai membri del Chamonix Alpine Sports Club. Oggi il Refuge de la Charpoua è una tappa fondamentale per gli alpinisti che scalano Les Drus: si colloca infatti come punto di partenza e di arrivo di molte vie storiche, ma anche solo arrivare fin qui è un’impresa. Dalla stazione ferroviaria di Montenvers si inizia a salire, ma alla fatica si aggiunge l’attraversamento del ghiacciaio: l’avvicinamento al rifugio prevede infatti di addentrarsi nelle morene e arrampicarsi in molti punti. Difficile che qui arrivino escursionisti poco esperti. Sarah Cartier non è una di questi:
originaria di Chamonix ha deciso di abbandonare, almeno in estate, la cittadina, con i suoi negozi e i suoi ristoranti con la fonduta, per gestire il Refuge de la Charpoua. Il motore di tutto è stata la voglia di Sarah di lavorare in autonomia: voleva essere il capo di se stessa, vivere il più possibile a contatto con le sue montagne, e fare qualcosa di avventuroso.
Oggi il Refuge de la Charpoua è una tappa fondamentale per gli alpinisti che scalano Les
Drus: si colloca infatti come punto di partenza e di arrivo di molte
vie storiche, ma anche solo arrivare fin qui è un’impresa. Dalla stazione ferroviaria di Montenvers si inizia a salire, ma alla fatica si aggiunge
l’attraversamento del ghiacciaio: l’avvicinamento al rifugio prevede infatti di addentrarsi nelle morene e arrampicarsi in molti punti. Difficile che qui arrivino escursionisti ed escursioniste poco esperti ed esperte.
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Le Refuge de la Charpoua soddisfaceva in pieno tutti e tre questi requisiti e così Sarah lo gestisce da ben otto anni: da metà giugno fino a fine agosto è lei ad offrire vitto e alloggio agli escursionisti. Fornisce informazioni sulle condizioni della montagna visto che la osserva quotidianamente e costantemente e presta i primi soccorsi in caso di necessità. Sarah tiene testa non solo alla montagna, ma anche ai commenti sessisti che spesso, in un mondo tradizionalmente dominato dagli uomini come quello dell’alpinismo, riceve ancora. Già perché una donna che svolge un lavoro duro tutta da sola e lo fa in compagnia dei suoi figli piccoli, nell’universo tendenzialmente machista che è l’alpinismo, viene percepita come un animale raro. A Sarah non è mai saltato per la testa di abbandonare l’una o l’altra cosa: la sua passione e il suo lavoro o la sua famiglia. Dal disgelo fino a che le temperature non scendono e il ghiaccio e la neve sbarrano l’accesso a Les Drus, la sua famiglia sta con lei.
Cruciale è il sostegno di Noé, il suo compagno, con il quale ha trovato il modo di portare avanti sia la sua vita familiare, che la sua vita in alta montagna. La prima volta che è salita fino al rifugio da mamma ha portato il piccolo Armand legato sulla schiena e ha trascorso quella prima estate con lui, tra il lavoro e la bellezza delle cime e della fauna che le abitano: Armand in particolare ha sviluppato una passione per i choucas, i gracchi alpini, il cui verso il piccolo ha imparato ad imitare prima ancora di imparare a parlare. “Ogni anno, quando vengo qua su, non lo faccio perché lo voglio, ma perché ne sento il bisogno” racconta Sarah in “The Charpoua Way”, il documentario che Patagonia le ha dedicato. “Sono
una host d’alta quota: preparo la zuppa a 2800 metri, gestisco le prenotazioni e parlo con gli alpinisti. Questo è un angolo di paradiso e chi si spinge fin qui viene a cercare la libertà.”
Certo, vivere senza né acqua né elettricità, con i bagni fuori costituiti da qualche blocco di granito in croce, non è quello che comunemente si può definire comfort, ma è ciò che fa sentire bene e protetta Sarah e la sua famiglia. Questo è un rifugio nel vero senso della parola: una capanna incastonata nelle montagne dove si condivide tutto: cibo, calore ed esperienze. Da un lato c'è la cucina, con il tavolo di legno vecchio di cent’anni, dall'altro ci sono due tramezzi di legno che fungono da separè per una dozzina di letti a castello. Tutto nel
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“Ogni anno, quando vengo qua su, non lo faccio perché lo voglio, ma perché ne sento il bisogno” racconta Sarah in “The Charpoua Way”, il documentario che Patagonia le ha dedicato.
“Sono una host d’alta quota: preparo la zuppa a 2800 metri, gestisco le prenotazioni e parlo con gli alpinisti: questo è un angolo di paradiso e chi si spinge fin qui viene a cercare la libertà.”
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rifugio è organizzato in modo da non sprecare neanche un centimetro di spazio, ma allo stesso tempo per garantire, a chi lo gestisce e agli alpinisti, di stare il più a loro agio possibile. In una capanna così piccola però la privacy non è il punto forte, soprattutto se ci sono anche due bambini. Nell’estate del 2022 infatti, ad Armand si è aggiunta Camille, di appena 10 mesi. Per questo, dal 1904, il rifugio ha subito delle leggere modifiche: intorno alla terrazza è stata sistemata una rete per prevenire gli incidenti ed è stata annessa alla struttura principale una minicamera da letto, costruita dal marito di Sarah e calata in posizione da un elicottero.
La sveglia, per Sarah e per i bambini, suona ogni mattina alle 6:45, quando va preparata la colazione delle 7 e bisogna mettere a posto quello che hanno lasciato gli escursionisti che sono partiti per l’ascensione alle 2 del mattino. Il lavoro, nel resto della giornata, è quello tipico di un host: lavare i piatti, rifare i letti, tenere traccia delle fatture e poi iniziare a cucinare per la cena. Sarah cerca di svolgere la maggior parte dei suoi compiti al mattino, in modo che i bambini possano rimanere in camera, oppure finisce di svolgerli con Camille legata a lei da una fascia sulla schiena. Se il tempo è bello, Sarah mette fuori il box per far giocare i bambini, se non lo è, prepara un impasto e aiuta Armand a creare delle sculture che rappresentano i rumori della tempesta che sente fuori. Dopo pranzo è il momento di passeggiare ed esplorare, poi è l'ora del pisolino e del bagno. Più tardi, danno il benvenuto ai nuovi ospiti per la notte e preparano la cena prima di lavare i piatti e andare a letto. A Sarah piace pensare di portare a termine dei compiti tanto semplici quanto essenzia -
li: ospitare, servire cibo, prendersi cura delle persone e dover chiedere aiuto se necessario. Sono tutte cose meravigliose da insegnare ai giovani. “Quando alcuni degli scalatori si rendono conto che sto crescendo i miei figli qui da sola, mettono tutto in prospettiva e dicono che scalare Les Drus non è poi tutta questa grande impresa. Ma la verità è che io li ho portati qui per egoismo: il rifugio è come se fosse il mio terzo figlio, non mi sentivo ancora pronta a lasciare questa vita, so che ho ancora molte avventure da vivere qui. Questo però è un bel posto dove crescere i propri figli, perché qui imparano il senso di libertà, il contatto con la natura, ma anche il concetto stesso di famiglia. Perché un rifugio significa proprio questo: un posto dove sentirsi al sicuro, una piccola bolla fatta di legno.”
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“Quando alcuni degli scalatori si rendono conto che sto crescendo i miei figli qui da sola, mettono tutto in prospettiva e dicono che scalare Les Drus non è poi tutta questa grande impresa. Ma la verità è che io li ho portati qui per egoismo: il rifugio
è come se fosse il mio terzo figlio, non mi sentivo ancora pronta a lasciare questa vita, so che ho ancora molte avventure da vivere qui.”
The King of Lastè
BY LISA MISCONEL PHOTOS CAMILLA PIZZINI
Daniele Felicetti vive a Forno di Moena, in Val di Fiemme. È un atleta, di quelli veri. Di quelli che si svegliano la mattina con un obiettivo ben chiaro in mente, che cura ogni dettaglio della sua vita in favore della sua performance sportiva. La sveglia suona alle 6, poi sale al lavoro sulle piste di Bellamonte e conclude con l’allenamento sul Lastè, una cima che sale più di 70 volte durante l’inverno.
In una ventosa giornata di dicembre, siamo saliti a cima Lastè con il suo “re”. Lì abbiamo capito che la disciplina è una cosa semplice se ami quello che fai. Che i sacrifici per certe persone non sono veramente sacrifici. Giorgio Winkler, alpinista che portò a termine grandi salite in libera nel secolo scorso, diceva che “niente riesce se non ci si mette dell’impegno” e Daniele rappresenta alla perfezione questa visione. Pianifica minuziosamente ogni sua giornata dalla sveglia all’ora di andare a letto. Dai grammi di pasta alle ore di sonno. E la cosa bella è che nessuno gli dice di far-
lo, se non la sua esagerata passione e dedizione. Com’è iniziato tutto? Nascendo in val di Fassa, è stato naturale e ho da sempre amato e vissuto quella montagna che vedevo e vedo tuttora dalla finestra di casa. Mio padre correva, e così anche io all’età di 8 anni ho iniziato con le prime gare campestri. Nel 2009 all’età di 14 anni, per puro caso, ho partecipato alla mia prima gara di vertical, la Costolina a Ziano di Fiemme. Ho ancora una foto di quella giornata in cui ho scoperto quella che sarebbe diventata la mia grande passione: unire la fatica della corsa alla bellezza della natura e della montagna.
E lo scialpinismo? Fin da piccolo gareggiavo nello sci alpino, ma a 16 anni lasciai le competizioni. Poco dopo mi avvicinai allo scialpinismo. Scoprii che potevo allenarmi rimanendo a contatto con gli sci. Ho sempre vissuto questa disciplina come il perfetto allenamento per la mia attività di corsa, ed ho preso parte alle classiche
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Giorgio Winkler, alpinista che portò a termine grandi salite in libera nel secolo scorso, diceva che “niente riesce se non ci si mette dell’impegno” e Daniele rappresenta alla perfezione questa visione.
gare notturne come il Sellaronda. Come vivi l’agonismo? Parlare di agonismo per me non significa solo parlare di gare, ma anche di allenamenti, di routine, di progetti. È il pensiero fisso della mia vita ed il motivo per cui mi alleno ogni giorno con costanza. Se so che faccio tutto bene prestando attenzione ad ogni dettaglio, so che la gara avrà poche possibilità di andare male.
Non è una cosa da tutti, devi averlo dentro questo senso della disciplina. Sacrificare determinate cose ed essere estremamente preciso in altre è da pochi. Tutti parlano di sacrifici ma per me che ho scelto di fare dello sport la mia vita i sacrifici non esistono. L’allenamento è incluso in quella che definisco la parte “obbligata” delle mie giornate. Per me questa è la chiave: integrare l’allenamento nel dovere, in qualcosa di automatico ed essenziale come può essere la colazione o il lavoro. Per chi lavora, l’organizzazione è un punto necessario: il tempo libero a disposizione è contato e deve essere gestito al meglio, a differenza di un professionista che forse a tutti questi dettagli non deve farci caso.
Hai sempre avuto questa visione? Non è sempre stato così, tutto è cambiato dal 2019: in quattro giorni a stretto contatto con colui che oltre ad essere un compagno ed amico considero anche il mio mentore, Filippo Beccari. L’ho sempre detto: ho imparato di più in 5 giorni con lui che in una vita di allenamenti e sport. Ci siamo conosciuti alle gare, e un giorno abbiamo deciso che avremmo percorso assieme la Monte Rosa Sky Marathon. Ci siamo preparati assieme per un unico obbiettivo e nei giorni della gara mi ha trasmesso il suo modo di vedere le cose, di vivere l’agonismo e lo sport. È cambiato qualcosa dentro di me e non sono più stato lo stesso. L’attenzione e la cura di ogni dettaglio della mia vita è partita da lì.
C’è stato un brusco salto di qualità nella tua carriera o è stato un percorso graduale? È stato tutto molto graduale, dalla prima gara ai tre terzi posti ai mondiali under 23 di Sky Running in Andorra 2017. Nel 2019 il primo posto
alla Latemar Mountain Race ed il secondo posto alla Monte Rosa Sky Marathon con Filippo. Nel 2021 ho ottenuto il secondo posto alla Saslong Half Marathon ed il 10 posto alla Dolomites Sky Race nel 2022.
La gara più bella? E quella che ti ha dato più soddisfazione? 2019, Monte Rosa Sky Marathon. Lì ho ottenuto un secondo posto con Filippo Beccari. Correre una gara in team ti dà quel valore in più perché condividi tutto, dalla preparazione all’arrivo. Ci eravamo preparati bene in quota e quando abbiamo raggiunto Capanna Margherita e poi il traguardo dopo 5 ore sul Monte Rosa è stato bellissimo. Dolomites Sky Race 2021, 14esimo posto. Questa è la gara che mi ha dato più soddisfazione nonostante il mio decimo posto del 2022: debutto nella gara di casa, un livello altissimo, sono riuscito a battere atleti di un certo spessore.
Da quanto fai parte della famiglia Dynafit? Sono entrato in contatto con il marchio nel 2014 tramite un piccolo negozio locale che aveva organizzato una giornata di test. Con un messaggio il titolare del negozio mi disse che Dynafit cercava “giovani rampanti”, quel messaggio ce l’ho ancora impresso nella mia memoria. Mi sono proposto e da lì la collaborazione è iniziata e continua ancora oggi dopo quasi dieci anni. Mi sono da sempre trovato molto bene con il materiale ma anche a livello personale. Mi sento libero di fare il mio nel modo in cui mi piace farlo.
Sappiamo che lavori sulle piste... Com’è la tua giornata tipo? La mia giornata inizia molto presto, perché mi piace fare tutti i miei rituali
Un mio amico un giorno mi diede questo nome appunto perché in una stagione raggiungo la cima 70-80 volte, quasi sempre trovandomi lassù da solo a causa dell’orario. Conosco ogni metro di questa salita perché è la mia palestra ed ufficio durante il giorno.
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con calma. Dare da mangiare al gatto, fare colazione, prepararmi le cose per l’allenamento serale, partire per il lavoro dove inizio alle 8. Svolgo la mia attività sulle piste da sci di Castelir, Bellamonte, come controllo sicurezza piste e conseguente manutenzione e valutazione dei rischi. Alle 17 timbro il cartellino, mi cambio al volo e parto con le pelli in direzione Lastè sulle stesse piste dove lavoro durante il giorno. Ripetute, cambi di ritmo, solitudine e concentrazione, e la luna mi fa compagnia.
Qual è la cosa che più ti piace di questi allenamenti? Sicuramente quando c’è la luna piena è tutto un’altra cosa. Dopo tutte le volte (più di 70 a stagione) che sali la notte, avere la luna piena ti fa sembrare quasi di essere lì di giorno. Riesci a vedere le cose e l’atmosfera è magica. Ci sono periodi che parto già col buio e periodi in cui parto con la luce ed arrivo con il tramonto. Ma, ti dirò, per quanto mi piaccia molto, anche se come discorso è poco poetico, a me del tramonto interessa relativamente. Sono molto più concentrato su ciò che mi dà l’allenamento.
Probabilmente vedi più tramonti tu in una stagione che certe persone in una vita e tutti dallo stesso posto: il Lastè. Per questo ne sei il re: The King of Lastè. Un mio amico un giorno mi diede questo nome appunto perché in una stagione raggiungo la cima 70-80 volte, quasi sempre trovandomi lassù da solo a causa dell’orario. Conosco ogni metro di questa salita perché è la mia palestra ed ufficio durante il giorno Il bello del tuo lavoro è che comunque sei sempre all’aria aperta in montagna, con le persone... Mi piace molto perché mi permette di rimanere all’aria aperta, di mettere gli sci anche durante il lavoro e stare a contatto con le persone. Allo stato attuale non lo cambierei neanche per fare l’atleta professionista. Certo, ci sono le giornate no, quelle più stancanti, ma mi aiuta a rimanere concentrato e mi dà la serenità di avere tutto sotto controllo.
Come unisci allenamenti e lavoro? Unire allenamenti e lavoro è più facile di quel che si pensi. È un po’ una questione di abitudine. Diciamo
che l’unica difficoltà secondo me può esserci dal punto di vista del recupero, perché non essendo un professionista il giorno di riposo sei comunque operativo e non a casa sul divano o fare un massaggio.
Hai però anche provato anche a fare l’atleta a tempo pieno. Sì, ci ho provato per due estati ma non ha funzionato per una questione mentale. Non mi dava la giusta serenità. Secondo me combinare sport e lavoro a livello mentale ti dà tanta forza, perché ti mette in condizione di dover curare ogni dettaglio. Devi incastrare tutto e così rimani sempre concentrato. C’è più cura ed attenzione per arrivare all’obiettivo. Vivere una vita in cui l’unico dovere è l’allenamento per me appiattisce tutto e non mi rende così performante. Mi mancano stimoli e non ottengo i risultati che cerco. Avere tutto quel tempo libero non fa per me.
Progetti per il nuovo anno? Per quanto riguarda lo scialpinismo parteciperò al Trofeo 4 Valli che è per me sempre un ottimo allenamento. Inoltre tornerò a gareggiare assieme a Filippo Beccari in occasione del Sellaronda Skimarathon e lì sarà una bella tirata di collo. Per la stagione estiva invece confermerò le mie gare preferite, le classiche: Dolomyths Run Skyrace e Transpelmo. Punto a fare molto bene la Sierre Zinal e a concentrarmi più su gare di sola salita su distanze di 20km che sento più mie ed in cui voglio veramente dare il 100%.
Unire allenamenti e lavoro è più facile di quel che si pensi. È un po’ una questione di abitudine. Diciamo che l’unica difficoltà secondo me può esserci dal punto di vista del recupero, perché non essendo un professionista il giorno di riposo sei comunque operativo e non a casa sul divano o fare un massaggio.
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Greenland, a wild thing!
TEXT ILARIA CHIAVACCI PHOTOS MAURIZIO MARASSI
Questa enorme isola ghiacciata a metà strada tra il nord Europa e il continente americano è una meta gettonata per lo skialp. Il fotografo Maurizio Marassi ci dimostra che è anche un set perfetto e un posto ospitale malgrado ghiaccio, orsi bianchi e temperature sotto lo zero.
Se sei un fotografo e un videomaker, ma anche un ex atleta della nazionale italiana di wakeboard nonché un super appassionato di outdoor, tendi a procurarti i clienti che ti portino a scattare nei posti più remoti e selvaggi del pianeta. È quello che è successo a Maurizio Marassi, che raggiungo via WhatsApp mentre è in Giappone, per farmi raccontare del viaggio incredibile che ha fatto in Groenlandia. Maurizio in Groenlandia ci è finito con lo skier e influencer Axel Blanch.
"Io amo tutte le attività che si possono fare nell’ambiente montano: sci, scialpinismo, arrampicata, sono cose che ho sempre fatto ed è stato normale per me iniziare a scattare in queste situazioni. Quando poi la fotografia è diventata una professione ho provato sempre di più a far coincidere le due cose. In questo caso è stato perfetto: fare skialp nell’artico. Puoi sciare in molti posti che sono già definibili come artico, ma solo in Groenlandia lo fai in mezzo ai ghiacciai: neve e ghiaccio sono la costante di tutto l’anno. Non ci sono neanche alberi, è un’isola di neve che si tuffa dritta dritta nel mare."
Sono comprensibilmente poche le storie scattate quaggiù perché solo arrivarci è un’impresa. Ci si arriva solo dalla Danimarca o dall’Islanda, c’è un solo aeroporto interna-
zionale nel centro dell’isola, dove non c’è assolutamente nulla, e per raggiungere le altre località del paese l’unico modo è prendere degli aerei minuscoli. Inizialmente volevamo andare a Ilulissat, a Disko Bay, ma in quel periodo c’era ancora troppo ghiaccio: è un posto pazzesco perché esce proprio un ghiacciaio sul mare, ma per noi che ci siamo mossi sempre in barca a vela sarebbe stato pericoloso per via dei troppi iceberg, avremmo rischiato di rimanere intrappolati. Quindi ci siamo spostati a Nuuk, la capitale, che è tutta circondata da fiordi e che abbiamo potuto esplorare con la nostra barca a vela. Volevamo che il viaggio fosse il meno impattante possibile: non abbiamo fatto heliski, cosa piuttosto comune in Groenlandia, ma abbiamo navigato il più possibile a vela, raggiungendo le location a piedi. Durante tutte le due settimane abbiamo mangiato solo prodotti locali e pescato quello che ci serviva. Il vantaggio di navigare in mezzo ai fiordi era anche quello di trovare posti il più possibile incontaminati.
La Groenlandia non è tutta incontaminata? Lo è, solo che per loro fare chilometri e chilometri con le motoslitte rappresenta un divertimento e quindi lasciano tracce ovunque. Sull’isola principale non è semplice trovare tratti
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senza tracce: muoverci in barca a vela ci ha permesso di poter esplorare le isolette che compongono i fiordi. Cosa che sembra più semplice a dirsi che a farsi: orientarsi è piuttosto complicato, per questo il primo stop è stata un’isoletta un po’ più grande che ospita un campo tendato: lì abbiamo incontrato la nostra guida, Adam, che ci ha aiutato a scegliere i posti migliori dove scattare. Essendo così a nord il sole sorgeva a nord-est e tramontava a nord-ovest ed è una cosa che per i primi giorni ci ha mandato un po’ in confusione, perché non capivamo dove potesse essere la neve migliore. Adam si è rivelato fondamentale per capire le condizioni della neve a seconda di come girava il sole: perché la cosa bizzarra era che tutti i pendii a nord prendevano molto più sole di quelli a sud, che la mattina e il pomeriggio erano in ombra. La cosa più interessante però dell’avere Adam con noi, è che è un Inuit e quindi tra-
scorre gran parte dell’anno in tenda sui fiordi, così abbiamo potuto entrare veramente in contatto con la cultura di questo paese incredibile.
Gli Inuit conducono un tipo di esistenza veramente ancestrale, soprattutto se paragonata a quella della maggior parte degli occidentali. Questo popolo vive letteralmente in mezzo al ghiaccio tutto l’anno. Basano la loro vita sulla caccia e sulla pesca, a cui sono particolarmente legati: la Groenlandia è un enorme isola-ghiacciaio e loro per spostarsi usano principalmente l’aereo o le barche, le strade ci sono solo nella capitale, Nuuk, ma dove finiscono le case finiscono anche le strade. Ogni persona quindi ha una barca con cui si sposta per fare qualunque cosa, ma principalmente cacciare o pescare. Sono tutti cacciatori, come Adam. Le loro prede preferite sono le foche, oppure gli orsi polari.
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Sull’isola principale non è semplice trovare tratti senza tracce: muoverci in barca a vela ci ha permesso di poter esplorare le isolette che compongono i fiordi.
Come foche e orsi polari? Non sono specie in via d’estinzione? Gli Inuit hanno un permesso speciale per poterli cacciare. Gli orsi bianchi in tutta la Groenlandia sono cinquemila mentre la popolazione è in totale di quarantamila, compresi i danesi che vivono lì: praticamente c’è un orso ogni otto persone. Non solo: un orso è in grado di sfamare una famiglia per diversi mesi. Una cosa per noi assurda, ma che lì è la normalità, è che non c’è il controllo bagagli negli aeroporti interni: le persone nel bagaglio a mano possono avere sia fucili che coltelli che serviranno loro per cacciare.
Cosa che in ogni caso non deve essere semplicissima. No, non lo è. È anche difficilissimo avvistarli: Adam in tutti i suoi anni da guida non ne ha mai visto uno vivo. Per cacciarlo devono andare nel mezzo dell’ice sheet, ovvero questa enorme distesa di ghiaccio che sta nel centro dell’isola, e non sulla costa, perché gli orsi cacciano le alci che si spostano nel centro dell’ice sheet. Gli Inuit piantano lì le loro tende circondandole con dei recinti elettrifi cati perché l’orso polare, essendo un cacciatore, dà la caccia a qualsiasi cosa
e senza recinto elettrificato c’è il rischio di trovarsi un orso fuori dalla tenda o, peggio, un orso che attacca la tenda. Per cacciarli poi materialmente gli Inuit si vestono completamente di bianco, si allontanano a piedi dalle tende e si mettono poi uno di fronte all’altro per aspettare che un orso arrivi per cacciare uno dei due e, quando questo è sufficientemente vicino, gli sparano.
Una volta fatto tutto ciò poi se lo devono anche riportare sull’aereo. Esatto, una volta cacciato devono tornare a piedi alle tende e poi caricare la preda in stiva. Adam ha anche la licenza per cacciare le balene.
Anche le balene? La balena azzurra è in via d’estinzione e non si può cacciare, altri tipi di balena invece non lo sono e la loro caccia è consentita, viene anche servita in alcuni ristoranti. Così come le foche, ne esistono di diverse razze e non sono tutte in via d’estinzione. Poi loro di tutti questi animali non
ti con le pellicce, ma non solo: a Nuuk, dove ci sono degli ski lift, ho visto dei bambini che utilizzavano una pelle di
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vono veramente nella natura e di quello che la natura può offrire loro, ovvero gli animali che ci sono o le fonti d’acqua. I ghiacciai fanno sì che ci siano tantissime fonti, quindi loro riescono ad avere acqua buona da bere che proviene direttamente dal sottosuolo e infatti sono molto attenti, a Nuuk, a non inquinare la falda, perché è acqua che imprigionata da milioni di anni nel sottosuolo.
Gli Inuit saranno comprensibilmente allarmati dall’alzarsi delle temperature e dal riscaldamento globale. Negli ultimi anni in Groenlandia sta succedendo l’opposto che in tutto il resto del mondo: nevica tantissimo e fa molto più freddo, però sono ci hanno spiegato che il loro più grande incubo non è tanto lo scioglimento dei ghiacci, anche se chiaramente anche quello è importante, quanto quello del permafrost. Tutto quello che hanno, tutte le loro città e le loro case, è appoggiato su uno strato di roccia congelata. Se si sciogliesse il permafrost le case sprofonderebbero nel fango. L’altra cosa che li allarma è il modificarsi dell’ecosistema: l’alzarsi delle
temperature, se dovesse verificarsi in maniera importante, comporterebbe uno spostarsi degli animali più a nord e loro si ritroverebbero senza prede, quindi senza cibo. La cosa paradossale però, in un paese del genere, è che nessuno può adottare delle politiche chissà quanto sostenibili: loro per forza di cose devono spostarsi con una barca a motore, devono riscaldare le loro case il più possibile, spostarsi in motoslitta, oppure in aereo o in elicottero. Il riscaldamento delle case è tutto a olio combustibile, perché non hanno il geotermico come in Islanda.
Deve essere stata un’esperienza veramente incredibile. Sulla barca eravamo totalmente isolati, siamo stati senza connessione per due settimane senza vedere nessun altro. È stato molto bello perché eravamo concentrati al cento per cento in quello che stavamo facendo e, essendo completamente sconnessi dal mondo, l’unica cosa che potevamo fare era guardare fuori dall’oblò e vedere se c’era la luce giusta per scattare. Non avevamo distrazioni e potevamo cogliere dei momenti
che, se non fossimo stati così immersi nell’ambiente, non avremmo colto. Poi con il fatto che in quel periodo dell’anno inizia ad albeggiare alle tre del mattino e il sole tramonta alle undici di sera, praticamente lavoravamo diciotto ore il giorno: durante la giornata scattavamo lo sci, poi tornavamo in barca per cenare e, dopo cena iniziava a calare il sole e la luce del crepuscolo era perfetta per scattare ancora.
Sulla barca eravamo totalmente isolati, siamo stati senza connessione per due settimane senza vedere nessun altro. È stato molto bello perché eravamo concentrati al cento per cento in quello che stavamo facendo e, essendo completamente sconnessi dal mondo, l’unica cosa che potevamo fare era guardare fuori dall’oblò e vedere se c’era la luce giusta per scattare.
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Iceland Ice Climbing
BY ILARIA CHIAVACCI PHOTOS THOMAS MONSORNO
Cinque amici che accidentalmente compongono la crew perfetta: due climber, un fotografo, un videomaker e un producer hanno dato vita a un viaggio-spedizione in Islanda. L’obiettivo? Arrampicare quante più possibile cascate di ghiaccio, ma anche provare che l’amicizia è il fattore più importante nella content creation.
Anche per assonanza uno si immagina che l’Islanda sia la terra per eccellenza dove andare ad arrampicare sul ghiaccio: non solo perché il ghiaccio ce l’ha nel DNA e nel nome, ma anche per il fatto che la quantità di cascate presenti sul territorio è davvero capillare. È infatti noto che le cascate presenti sull’isola, che ha una superficie di 103 mila chilometri quadrati, sono oltre 10.000: praticamente ce n’è una ogni 10 chilometri quadrati. Gli alpinisti però sono mossi più volentieri da altre destinazioni: Canada, Giappone o Siberia. Sarà il fascino dell’esotico o del territorio appartenente a un contesto culturale completamente diverso. Fatto sta che era così anche per Dani Arnold, Martin Echser, Thomas
Monsorno, Lukas Kusstatscher e Davide Guzzardi: la destinazione per il progetto di ice climbing che state guardando in queste pagine.
Originariamente doveva essere il Kazakistan, poi le restrizioni dovute alla pandemia da Coronavirus che ancora a gennaio dello scorso anno limitavano gli spostamenti hanno fatto ricadere la scelta su un territorio più “a portata di mano”, l’Islanda appunto. La spedizione era composta da Dani e Martin come climber, Thomas come fotografo, Lukas come videomaker e Davide come logistica e produzione. Imprese del genere hanno certamente un valore intrinseco dal punto di vista del gesto atletico e alpinistico, ma soprattutto sono efficaci strumenti di divulgazione di una disciplina, come quella dell’ice climbing, che è sempre più gettonata anche tra gli amatori. Dani Arnold è infatti un nome nel climbing e nel free solo in particolare, ovvero la disciplina più estrema nell’ambito che prevede di arrampicare in solitaria e senza utilizzare corde o imbragature.
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Cinque amici che accidentalmente compongono la crew perfetta: due climber, un fotografo, un videomaker e un producer hanno dato vita a un viaggio-spedizione in Islanda. L’obiettivo? Arrampicare quante più possibile cascate di ghiaccio, ma anche provare che l’amicizia è il fattore più importante nella content creation.
La sua ultima impresa risale al 15 agosto del 2021, quando ha salito in solitaria la parete nord del Petit Dru (3733m) nel massiccio del Monte Bianco, salendo la storica via Allain-Leininger (900m TD+) in appena 1 ora, 43 minuti e 35 secondi, stabilendo quello che a oggi è il tempo più veloce conosciuto su questa vetta iconica. Va da sé che abbia un seguito notevole e che i suoi canali siano efficaci strumenti di divulgazione.
Ma torniamo alla spedizione: “Sono stati Thomas e Lukas a proporre l’Islanda,” racconta Dani “io ho pensato che fosse una buona idea: come ice climber probabilmente ci sarei dovuto andare almeno una volta nella vita! L'obiettivo per me e per Martin era quello di arrampicare il più possibile, ovviamente. Ma il nostro focus non era tanto sui livelli di difficoltà, quanto sul fare quanti più tiri possibili e tante prime salite. Si è trattato prima di tutto di un’avventura che, per me, significa alzarsi presto la mattina e uscire nella natura non sapendo cosa porterà la giornata. Questo non significa che non abbiamo pianificato il viaggio, ma ci siamo affidati molto ai climber locali, che ci hanno indirizzato su cosa andare a cercare e dove.”
Otto cascate in due settimane e una produzione foto e video ma, sostanzialmente un viaggio tra amici: “Siamo partiti con i nostri due furgoni guidando in senso antiorario per percorrere tutto l’anello dell’isola. Ovunque trovassimo qualcosa che ci stuzzicava, fermavamo i furgoni ed andavamo ad arrampicare. Davide ha organizzato il viaggio, poi ogni giorno sceglievamo una
L'obiettivo per me e per Martin era quello di arrampicare il più possibile, ovviamente. Ma il nostro focus non era tanto sui livelli di difficoltà, quanto sul fare quanti più tiri possibili e tante prime salite. Si è trattato prima di tutto di un’avventura che, per me, significa alzarsi presto la mattina e uscire nella natura non sapendo cosa porterà la giornata. Questo non significa che non abbiamo pianificato il viaggio, ma ci siamo affidati molto ai climber locali, che ci hanno indirizzato su cosa andare a cercare e dove.
cascata diversa, che riuscivamo a raggiungere qualche volta in macchina, altre volte con gli sci. Devo ammettere: l’Islanda è stata molto meglio di quanto mi aspettassi. Ad esempio, mi ero preparato per percorsi piuttosto brevi, quindi avevo portato con me solo sette chiodi da ghiaccio che, quando ci siamo trovati di fronte a una cascata di ghiaccio di 200 metri, si è rivelata la scelta sbagliata. Ne avrei dovuti avere almeno dodici, ma sette sono meglio di niente, e con un po’ di creatività ce l’abbiamo fatta. Un altro aspetto fantastico di questa terra è la varietà di situazioni con le quali ti mette a contatto: dalle cascate di ghiaccio immense,
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al mare, alla roccia basaltica, che volevo scalare fin da quando ero bambino.”
Un viaggio del genere rimane una bella memoria senza un obiettivo e una camera da presa pronti a restituire momento per momento la sintonia tra compagni e il gesto atletico. “Siamo arrivati lì senza aspettative e se non avessimo trovato le condizioni giuste avremmo fatto solo un viaggio tra amici,” prende la parola Thomas Monsorno, il fotografo che ha fissato le scalate di Dani e Martin, le cascate di ghiaccio spettacolari e l’aurora boreale. “Dani fa sempre così, è scaramantico: dice partiamo, se poi non ci sono le condizioni giuste vuol dire allora ci faremo una vacanza.” Difficile credere che non ci siano le condizioni ideali per scalare sul ghiaccio in Islanda, ma nell’alpinismo le temperature sono un fattore cruciale e le settimane individuate per la spedizione, le prime due di febbraio, rischiavano di essere già troppo calde.
“Per arrampicare in sicurezza la temperatura deve rimanere in maniera costante sotto lo zero. Di rischi non ce n’erano molti in questa spedizione, ma trovare le giuste condizioni è stato cruciale. Sia io che Lukas abbiamo seguito Dani e Martin prevalentemente a distanza, con drone e teleobiettivo. Per scalare la cascata Glymur si sono dovuti calare dalla cima: sono arrivati fino in fondo e poi sono saliti di nuovo. Era incredibile: c’era la cascata e sotto il fiume, ma era talmente alto che non si riusciva a vederne il fondo. Tra di noi quella cascata l’abbiamo soprannominata “l’inferno”. Però l’obiettivo non era lo show off sulle difficoltà tecniche, anche perché Dani nella sua carriera in free solo ha fatto ben di peggio, la nostra forza sta nello storytelling e, sostanzialmente, nel fatto che si tratti sì di una spedizione, ma anche di un’avventura tra amici. Viaggio, arrampicata e divertimento sono i cardini intorno a cui costruiamo la nar -
razione: Dani dopo tante esperienze in free solo non rischia più la vita, ma si gode il bello dell’avventura e riesce a produrre contenuti interessanti per il pubblico proprio perché sono cose che, con la dovuta preparazione, chiunque potrebbe fare.” Un viaggio epico insomma, che è stato reso ancora più speciale dalla presenza quasi costante delle northern lights. “In due settimane abbiamo visto l’aurora boreale sette/otto volte, direi un segnale di buon auspicio visto che non è così scontato vederla. Anche perché non siamo mai andati a cercarla, ma è stata sempre lei a trovare noi: ci si parava davanti mentre guidavamo, una volta addirittura mentre eravamo per strada a Reykjavik. Questi fenomeni si vedono solo con il cielo limpido, e non trovare le nuvole in Islanda è abbastanza difficile, quindi lo abbiamo preso come un segno propizio.”
Un viaggio epico insomma, che è stato reso ancora più speciale dalla presenza quasi costante delle northern lights. «In due settimane abbiamo visto l’aurora boreale setteotto, direi un segnale di buon auspicio visto che non è così scontato vederla. Anche perché non siamo mai andati a cercarla, ma è stata sempre lei a trovare noi: ci si parava davanti mentre guidavamo, una volta addirittura mentre eravamo per strada a Reykjavik. Questi fenomeni si vedono solo con il cielo limpido, e non trovare le nuvole in Islanda è abbastanza difficile, quindi lo abbiamo preso come un segno propizio».
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Non posso farci niente. Mi piacciono le parole. Mi piace scriverle, mi piace leggerle. Mi piace pronunciarle, sentirne il suono, assaporarle in bocca, masticarle. Mi piace ascoltarle, sentirle, farle mie. Mi piace conoscerne l’origine, il motivo per cui sono nate. L’esigenza per la quale sono state create. Mi piace il loro significato, ma mi piace anche cambiarlo. Da un po’ di tempo ce n’è una che mi piace particolarmente: è la
BY DAVIDE FIORASO PHOTO THEO ACWORTH
parola “accadere”, un verbo intransitivo che deriva dal latino “a” - verso - e “cadere”. Cadere verso una direzione. Come se per far avvenire qualcosa, per farlo succedere, si debba inciampare, perdere l’equilibrio, mettersi in pericolo. E allora oggi, se vogliamo davvero far succedere qualcosa, se lo vogliamo veramente, abbiamo una sola possibilità: rischiare. Cadere, forse, è l’unico modo per “farlo accadere”.
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