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HEIMATSCHUTZ PATRIMOINE
Finestra in lingua italiana
Un caffè in compagnia
EDITORIALE
TEMI D’AT TUALITÀ
I caffè e i tea room più belli
IL COMMENTO
Il volumetto Die schönsten Cafés und Tea Rooms der Schweiz/Les plus beaux cafés et tea rooms de Suisse nato cinque anni fa si è rivelato essere la nostra pubblicazione di maggior successo: oltre 20 000 copie vendute. Evidentemente il fatto di esserci concentrati sulla qualità delle sale e sull’arredamento dei locali presentati ha fatto vibrare una corda presso molte persone. C’è molto interesse per questa tipologia di esercizio pubblico. Negli ultimi cent’anni caffè e team room sono diventati apprezzati luoghi in cui gustarsi qualcosa di buono, scambiare due chiacchiere o rilassarsi. Per questa seconda edizione, abbiamo di nuovo percorso tutte le regioni della Svizzera alla ricerca di quelli più belli. Le cinquanta schede del volumetto comprendono alcuni locali dalla veneranda reputazione, altri con interni storici splendidamente conservati e altri ancora, più recenti, con potenziale per diventare dei classici. Questo numero della nostra rivista è dedicato alla qualità dell’arredamento dei caffè, alle sfide che comporta la loro gestione e ad aspetti particolari della cultura legata al consumo di caffè. La sezione dell’Heimatschutz dei Cantoni San Gallo e Appenzello interno presenta inoltre una propria serie di ritratti di esercizi pubblici meritevoli di essere visitati. Troverete infine le ultime novità per quanto riguarda le proposte di smantellamento della protezione della natura e del paesaggio a opera del mondo politico e la prevista iniziativa popolare di Pro Natura, BirdLife Svizzera, Fondazione svizzera per la tutela del paesaggio e Heimatschutz per fermare le costruzioni fuori delle zone edificabili. Peter Egli, Redattore
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Densificare a ogni costo? Quando la sera torno a casa, non posso fare a meno di notare i numerosi cantieri e le paline poste in vista nel mio tutto sommato tranquillo quartiere di Lucerna immerso nel verde. Secondo una valutazione immobiliare di Wüest & Partner, è un’area in cui stiamo assistendo a un forte aumento dei prezzi degli immobili. Il piano regolatore da poco approvato ha fornito le basi per l’auspicata densificazione urbana e fin qui tutto bene, se non fosse che ciò apre le porte anche a una razionalizzazione degli spazi puramente speculativa. I vecchi edifici vengono acquistati, dispendiosamente ampliati, rinnovati e riaffittati a prezzi molto più alti. La densificazione si riduce spesso a un aumento della metratura affittabile nei luoghi in cui sorgevano i vecchi edifici, nonché all’abbattimento degli alberi e alla riduzione delle aree verdi. Vivibilità degli spazi L’Heimatschutz Svizzera vuole promuovere una densificazione di qualità. Per questo ha redatto una presa di posizione in dieci punti riassumibili in un unico concetto: l’urbanizzazione deve orientarsi in direzione della massima «vivibilità degli spazi». Che cosa significa? La vivibilità degli spazi, il sentirsi a casa, si realizza quando le peculiarità locali sono tutelate e promosse. Ogni identità è sempre relativa a uno specifico luogo in cui le persone possono sentirsi a loro agio. Per il filosofo Jürgen Habermas lo spazio pubblico si distingue da quello privato innanzitutto poiché nel primo la comunità collettiva può articolarsi e interagire. Ecco, questo è un concetto che mi piace. Oggi, nel gelido panorama della politica mondiale, favorire le interazioni umane è più importante che mai. Come ha detto il giornalista gastronomico Christian Seiler, i ristoranti sono biglietti da visita tanto della vita pubblica quanto di quella individuale. I circa 24 000 esercizi presenti in Svizzera non sono frequentati solo da persone che vogliono
nutrirsi. Ci si mette ai banconi per un espresso al volo, il lunedì mattina, ancora assonnati, si scambiamo le opinioni sui risultati delle partite domenicali, e la sera, durante una birra dopo il lavoro, si incontrano sconosciuti che magari non si voleva nemmeno troppo conoscere. In ogni caso, in questi spazi pubblici fioriscono le interazioni tra le persone. Dalla discussione animata al brusio di sottofondo, dalla sbornia triste a quella allegra tra amici: tutto questo significa vivere gli spazi e sentirsi a casa. Nella seconda edizione, aggiornata e rivista, del volume bilingue Die schönsten Cafés und Tea Rooms der Schweiz/Les plus beaux cafés et tea rooms de Suisse, l’Heimatschutz presenta cinquanta esempi di architettura di qualità da visitare in tutte le regioni del paese. Trovate il tagliando d’ordinazione allegato a questo numero. Adrian Schmid, Segretario generale dell’Heimatschutz Svizzera
FORUM I PIÙ BEI CAFFÈ E TEA ROOM DELLA SVIZZERA 6
Non solo caffè La Svizzera non offre una cultura del prendere il caffè equiparabile a quella di Vienna, Budapest o Buenos Aires, ma forse proprio per questo sorprende la ricchezza di locali degni di nota presenti nel nostro paese. Questi luoghi semipubblici in cui deliziare le papille, scambiare quattro parole o godersi una pausa dalla frenesia della vita quotidiana stanno avendo un crescente successo e sono ormai una presenza fissa, non solo nei grandi centri urbani, ma anche nelle piccole località. A ciò si aggiunge la riscoperta sul piano internazionale del caffè in quanto bevanda nobile. Françoise Krattinger, Heimatschutz Svizzera
A cinque anni dalla prima edizione, l’Heimatschutz Svizzera ha deciso di aggiornare il suo volumetto Die schönsten Cafés und Tea Rooms der Schweiz/Les plus beaux cafés et tea rooms de Suisse. Le tendenze che si delineavano nel 2013 si sono nel
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frattempo confermate, per cui anche i locali di lunga tradizione sopravvivono con crescente difficoltà nei nuclei storici, sempre più cari. La clientela è inoltre diventata più selettiva in fatto di qualità del caffè. Se in Italia, e quindi anche nella Svizzera italiana, si rimane molto ancorati alla consuetudine dell’espresso, nel corso dell’ultimo decennio la cosiddetta «terza ondata» del consumo di caffè ha investito Vienna e poi tutta l’Europa centrale. Ma anche a sud delle Alpi le cose stanno cominciando a cambiare e chi vende caffè deve prestare un’attenzione sempre maggiore a tutte le fasi di produzione di questa bevanda, assurta a un prestigio non dissimile da quello del vino. In questo contesto, la brama del nuovo ha spesso come conseguenza che mode passeggere incidono sugli interni di bar, caffè e sale da tè a discapito di un’attenzione alla qualità dell’arredamento dei locali. I cinquanta esempi della nuova edizione completamente rivista del nostro volumetto dimostrano tuttavia che le cose non devono sempre andare così. Il caffè come luogo di socializzazione La «prima ondata del caffè» risale addirittura al XIX secolo, quando in Europa si generalizzò l’abitudine di consumare questa bevanda e sorsero quindi specifici luoghi di socializzazione: in Italia i classici bar, mentre al Nord una tipologia di locali che in Svizzera è ben rappresentata, per esempio, dalla Confiserie Schiesser a Basilea o dalla Confiserie Sprüngli a Zurigo. L’effetto stimolante del caffè era così diverso da quello dell’alcol servito nelle osterie da influire anche sulle modalità di interazione tra i clienti. Nella Svizzera tedesca è addirittura possibile tracciare un parallelo tra l’introduzione del consumo generalizzato di caffè e i primi moti femministi, poiché se non era ben visto che una donna frequentasse le osterie, essa poteva tranquillamente socializzare negli esercizi pubblici in cui si serviva il caffè. Questi hanno quindi un’importanza storico-sociale e sono al contempo beni culturali con un’identità specifica dovuta a interni caratteristici curati dagli abili artigiani dell’epoca. Anche in Ticino, sul confine fra mondo germanico e italianità, sono nati locali come il Ravelli di Locarno o il Grand Café Al Porto di Lugano, in cui si tennero alcuni incontri determinanti per l’esito della Seconda guerra mondiale e che è in seguito entrato nel novero dei prestigiosi «Locali storici d’Italia». La seconda ondata: il trionfo del consumo globale Partita dagli Stati Uniti per conquistare mezzo mondo, la «seconda ondata del caffè» risale agli anni Novanta, anche se nell’area culturale italiana la resistenza è stata caparbia. È l’ondata delle catene quali Starbucks, che hanno reso popolari nuove ricette, come pure il caffè da asporto. Il caffè non era più una semplice bevanda corroborante, ma un segno distintivo di una sorta di élite del consumismo globale. L’evoluzione architettonica dei caffè Starbucks negli ultimi due decenni è interessante. Fino al 2008 la strategia era simile a quella dei ristoranti McDonald’s: un’offerta e un arredamento che rappresentassero il marchio, ma inseriti in edifici storici di aree con un grande flusso di persone. Quando un sondaggio condotto nel 2008 ha rivelato che la clientela tendeva ad associare Starbucks alla realtà dei fast food, si è deciso di adeguare l’aspetto dei punti vendita ai vari contesti regionali. La sede di Seattle ha incaricato i suoi progettisti di studia-
re in loco le abitudini e le esigenze di diciotto mercati promettenti distribuiti su tutto il globo. Con l’inaugurazione della Starbucks Reserve Roastery in settembre di quest’anno a Milano – la prima succursale della catena in Italia – si è tuttavia compiuto un passo supplementare. Nell’ex Palazzo delle Poste progettato da Luigi Broggi e costruito nel 1901 in Piazza Cordusio, i clienti assistono a una vera e propria performance in cui vengono messe in scena tutte le tappe della preparazione del caffè. L’immensa tostatrice Scolari con i suoi imponenti contenitori verniciati di verde e un silo di ottone di sei metri attirano l’attenzione di ogni visitatore. I chicchi verdi vengono introdotti nel sistema di torrefazione passando attraverso tubi che sfilano sopra le teste dei clienti per poi finire tostati nei sacchi di iuta. Un esercito di baristi macina il caffè e lo prepara in bella vista ai banconi rivestiti di marmo. Tutta questa messinscena è stata ideata da Liz Muller, Chief Design Officer della Starbucks. Quello che si potrebbe scambiare per il set cinematografico di un film di Tim Burton è a detta della signora Muller un omaggio alla cultura italiana dell’espresso, una celebrazione dei 47 anni di storia durante i quali Starbucks ha accumulato la sua esperienza. Un’interpretazione tutta americana della tradizione del caffè italiano si insedia così nel luogo da cui questa tradizione è partita. La terza ondata: il ritorno della qualità artigianale Anche in Svizzera esistono aziende che puntano sulla messinscena della preparazione del caffè, poiché i clienti non si accontentano di vedere servita la bevanda desiderata, ma vogliono poter seguire tutte le fasi di lavorazione a opera di professionisti qualificati. Gallus Hufenus a San Gallo dispone per esempio di un proprio impianto di torrefazione. Pionieri dell’offensiva di recupero qualitativo nel mondo del caffè, i responsabili di questa impresa hanno pure fondato in centro a Basilea l’accademia del caffè Kaffemacher. Nel frattempo diventata indipendente e riconosciuta a livello internazionale dalla Specialty Coffee Association, questa scuola forma professionisti della torrefazione e dell’estrazione del caffè. Esistono poi campionati mondiali suddivisi in discipline e accanto all’estrazione con le classiche macchine da bar, adatte soprattutto per l’espresso, si stanno facendo strada metodi alternativi, quali il cold brew, il nitro coffee, elaborate procedure per il caffè filtro e addirittura il caffè alla spina. L’intento è di mettere in risalto le quasi 800 note aromatiche racchiuse nel chicco e arricchire l’offerta di bevande a base di caffè. Resta da sperare che questa nuova tendenza alla valorizzazione possa estendersi anche a una maggiore sensibilità per gli interni dei caffè tradizionali, testimoni di importanti capitoli di storia e dell’abilità di artigiani ammirevoli. Vi invitiamo quindi a scoprire alcuni di questi splendidi luoghi grazie alla nostra nuova pubblicazione! → La pubblicazione Die schönsten Cafés und Tea Rooms der Schweiz/ Les plus beaux cafés et tea rooms de Suisse (seconda edizione, aggiornata e rivista, bilingue tedesco-francese) può essere ordinata su www.heimatschutz.ch/shop
A COLLOQUIO CON POLA RAPATT E DANIEL HÄNI 13
«La qualità non è un’ideologia» Gerbergasse 30 nel centro storico di Basilea: un tempo qui si trovava la Banca Popolare Svizzera. In seguito l’edificio ha consentito di realizzare un’idea originale. Dal 1999 la società «unternehmen mitte» vi gestisce il più grande caffè della Svizzera. Ce ne parlano i consoci Pola Rapatt e Daniel Häni. Marco Guetg, giornalista, Zurigo
Come definireste in breve la vostra società «unternehmen mitte»? Daniel Häni: Si tratta di un’interpretazione del XXI secolo di quello che erano i caffè tradizionali. È un crogiuolo di iniziative, discussioni, riflessioni, ma anche di ozio. Quando va bene, si viene baciati da una musa. È un luogo da cui si irradiano stimoli culturali. Pola Rapatt: È un’azienda che appartiene a sé stessa. Gli utili rimangono nella società e vengono investiti in progetti futuri. Invece di massimizzare il profitto, creiamo le premesse per concretizzare nuove idee. Che significa «interpretazione del XXI secolo di un caffè»? Häni: Non è un tradizionale caffè alla viennese, bensì un locale pensato per le esigenze di oggi e di domani. Per esempio, non c’è l’obbligo di consumare, dedichiamo una giornata ai bambini e da poco tempo proponiamo persino una zona offline. Siamo stati i primi a offrire l’accesso gratuito a internet ai nostri ospiti anni fa, e ora siamo i primi ad avere una zona in cui rimanere disconnessi. Un caffè oggi è visto come un luogo in cui ci si incontra, si beve, si chiacchiera, si legge, si lavora… Rapatt: Esatto! Esiste una cultura dei caffè. Ed è in questo senso che consideriamo il nostro caffè uno spazio culturale. Teniamo ad accogliere i nostri ospiti innanzitutto come persone e non come clienti. Per questo evitiamo anche di esporre cartelli che pubblicizzano questo o quest’altro. E funziona? Häni: Benissimo! Un buon esercente non impone ai suoi ospiti qualcosa che loro non vogliono. Situati in pieno centro, dove tutto quanto è orientato al consumo, siamo diventati un’oasi per chi desidera staccare.
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Rapatt: L’ambiente dell’ex area degli sportelli è questo, ma sullo spiazzo davanti all’edificio e nel «non fumare» funziona diversamente: si viene accolti e serviti.
Perché siete contro una determinata politica aziendale? Häni: No, semplicemente perché la Wander SA non vuole lanciare un’Ovomaltina bio.
Qual è il posto più confortevole? Häni: Nel bel mezzo, sulle Lounge Chair di Charles e Ray Eames.
La vostra storia comincia nel 1999. Che cosa è rimasto delle idee di allora e che cosa è invece cambiato? Häni: Siamo rimasti fedeli alla visione di una libertà con responsabilità. Il nostro successo è dovuto al fatto che, nel limite del possibile, ci affidiamo alla responsabilità di ognuno. Le persone – partner commerciali, collaboratori e ospiti – si sono dimostrate straordinariamente responsabili. Lo stesso vale per la nostra struttura della proprietà, fondata su un’idea di responsabilità individuale senza vantaggi personali. Quello che è cambiato è la cultura del caffè. Se nei primi anni del nuovo millennio quasi la metà della gente ordinava un latte macchiato, oggi ancora pochi lo fanno. Anche il consumo di alcol è sceso parecchio. Gli incassi, in passato soprattutto serali, si sono spostati sulla fascia diurna, anche per via del divieto di fumo. La clientela è cambiata pochissimo. Continuano a venire giovani e anziani di qualsiasi ceto sociale e affiliazione politica.
Quando la società è stata fondata nel 1999, si diceva anche che il progetto avesse a che vedere con il movimento basilese degli spazi culturali. Che cos’ha di così particolare Basilea? Häni: Negli anni Ottanta avevo partecipato ai movimenti di occupazione e la mia idea era che bisognasse cercare il dialogo. In questo modo siamo riusciti più volte a firmare contratti con i proprietari e a ridare vita a immobili che altrimenti sarebbero rimasti vuoti. Non era una realtà prettamente basilese, ma è stato importante riuscire a trattare, per esempio, con la Banca Popolare Svizzera nel 1989: invece di occupare l’area Schlotterbeck accanto alla stazione, tra il 1990 e il 1993 l’abbiamo avuta in affitto. Il corollario è stato che appena otto anni dopo siamo riusciti ad acquistare la sede centrale della banca a Basilea. Chi ci avrebbe mai scommesso? Oggi è una proprietà con uno statuto giuridico molto particolare. L’edificio appartiene a una fondazione che l’ha acquistato per circa dieci milioni di franchi evitando che cadesse nelle mani di speculatori e voi avete un contratto d’affitto a lungo termine con questa fondazione. Häni: Esatto, abbiamo firmato un contratto che si apparenta a un diritto di proprietà con la Fondazione Edith Maryon. Loro garantiscono che l’edificio rimanga a nostra disposizione a lungo termine e noi siamo i soli responsabili dell’azienda. È una soluzione che soddisfa tutte le parti. La consiglio. Ospitate anche eventi culturali? Rapatt: È una domanda che non amiamo molto! Per noi la cultura è tutto quanto succede tra le persone. Siamo una piattaforma, un salotto. Comunque sì, ci sono anche i classici corsi, spettacoli teatrali, letture pubbliche, proiezioni e festival. Quando si parla di caffè, il pensiero salta subito alle condizioni di produzione. Quale strategia applicate voi? Rapatt: Puntiamo sulla miglior qualità possibile dei chicchi e sulla formazione dei collaboratori. E per quanto riguarda la provenienza e i metodi di produzione del caffè? Rapatt: La torrefazione viene eseguita da un’impresa ora indipendente ma che è partita come progetto della nostra «unternehmen mitte», la Springroasters, che gestisce una piantagione propria. È tutto commercio ecosolidale e biologico. Quando un caffè è biologico, non significa però per forza che sia buono. Häni: Davvero? Guardi che la qualità non è un’ideologia. È un principio che applicate a tutti gli alimenti? Rapatt: Nel nostro assortimento non è rimasto quasi più nulla che non sia biologico. L’unica eccezione è l’Ovomaltina, ma abbiamo intenzione di liberarcene.
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Ci sono anche desideri che non siete riusciti a realizzare? Rapatt: Volevamo aprire un locale da ballo dove prima c’erano le casseforti. Una «banca del ballo», con una discoteca o un bar da cocktail, in modo da animare le ore notturne. Finora il progetto non è andato in porto. All’inizio era stato formulato il desiderio di creare un «laboratorio dell’incerto» e poco tempo dopo è proprio nel vostro caffè che ha preso vita l’iniziativa popolare per un reddito di base incondizionato. Häni: Sì, l’iniziativa l’abbiamo lanciata da qui. La nostra società è stata la base di questa spedizione. È stato un progetto enorme per i parametri svizzeri e l’abbiamo portato avanti senza l’appoggio di alcun partito, ottenendo un’eco che si è spinta ben oltre i confini nazionali. La domenica della votazione era qui riunita la stampa di mezzo mondo. È stato un colpaccio. Che cos’è successo invece con il laboratorio? Rapatt: Abbiamo voluto sviluppare un’applicazione destinata in primo luogo alla Germania, per aiutare la gente a capire il funzionamento della democrazia diretta. L’idea ha subito attecchito sul piano politico-istituzionale ed erano addirittura disponibili dei fondi, ma poi non se n’è fatto nulla. Perché? Perché alla fine nessuno di noi si era davvero preso a cuore il progetto per farlo avanzare. Spiegateci com’è pensato un «laboratorio dell’incerto». Rapatt: Noi lo definiamo come first world development. Si tratta di un circolo di amici – o forse potremmo dire i parenti elettivi della «unternehmen mitte» – che si riunisce a intervalli irregolari alloggiando nell’appartamento per gli ospiti. Häni: Le buone idee non si possono forzare, ma si può creare un’atmosfera propizia. Un’altra particolarità del nostro approccio collaborativo sono le sessioni di gruppo di riflessione sullo stato d’animo. Suona come qualcosa di psico-esoterico… Ma non lo è! Semplicemente, ognuno esprime il suo stato d’a-
nimo in presenza degli altri membri del gruppo e racconta quello che gli è successo. Gli altri ne prendono atto senza commentare. Accogli quello che viene detto dagli altri e gli altri accolgono quello tu dici. Può sorprendere, ma dopo una sessione del genere quasi tutte le domande trovano una risposta. Qual è oggi il bilancio delle vostre attività economiche e culturali? Rapatt: Ora il caffè buono lo si trova anche altrove, ma a noi piace essere lungimiranti e avere successo. Per molti aspetti abbiamo avuto un ruolo precursore, mentre in altre cose siamo in ritardo, ma ne siamo consapevoli e ci impegniamo! E come prevedete invece che sarà il futuro? Diciamo, tra vent’anni? Rapatt: A quel punto si sarà in chiaro sul fatto che l’economia deve essere al servizio delle persone e non l’inverso! Pola Rapatt, 34 anni, è cresciuta in Germania, nella Ruhr, e ha una formazione in euritmica. Nel 2010 si è trasferita in Svizzera, dove ha fondato un’agenzia «per cose belle». Oggi è consocia, insieme ad altre tre persone, della «unternehmen mitte», in seno alla quale ha cominciato come imprenditrice responsabile del caffè all’aperto Kaffee-Mobil. Daniel Häni, 52 anni, è il suo partner. Nel 1999 era tra i cofondatori della «unternehmen mitte» e da allora ne è consocio. In seno all’azienda si occupa di progetti e della comunicazione. Si è fatto conoscere in Svizzera e all’estero soprattutto come uno dei responsabili dell’iniziativa popolare per un reddito di base incondizionato.
LUOGHI PREZIOSI E RICCHI DI STORIA 16
I più bei ristoranti e caffè di San Gallo La sezione dell’Heimatschutz di San Gallo e Appenzello Interno ha dato inizio a una serie sulla rivista culturale della Svizzera orientale Saiten dedicata ai più particolari interni di caffè, ristoranti e bar. Una guida un po’ diversa dal solito… René Hornung, giornalista, San Gallo
Per decenni, la locanda Hörnli, sulla piazza del mercato di San Gallo, è stata gestita dalla stessa famiglia. Poi è subentrato un gruppo di investitori. Evidentemente non sapevano nulla della storia di questa casa costruita negli anni Trenta, come non sapevano che si trattava di un edificio e di una Gaststube pro-
tetti. I nuovi padroni di casa non hanno avuto remore a ricorrere ai barattoli di vernice e hanno ridipinto di bianco tutto il rivestimento in legno, non senza inorridire i servizi dei beni culturali della città. Si è sollevato questo caso in occasione di una riunione congiunta dei servizi dei beni culturali e del gruppo dell’Heimatschutz della città di San Gallo in cui si discuteva appunto del fatto che – come ha constatato Katrin Eberhard, allora collaboratrice dei beni culturali, poi responsabile dell’edilizia cittadina – molti ristoratori non hanno idea della ricchezza storica e del valore dei locali che hanno in gestione. Così è nata l’idea – che cadeva a proposito nell’Anno europeo del patrimonio culturale 2018 – di una serie di contributi sulla rivista culturale Saiten per presentare caffè, ristoranti e bar dagli interni particolari. Consci del fatto che l’allestimento degli interni rischia sempre di essere smantellato dopo un cambio di gestione, sovente per far spazio a un arredamento più «moderno», questo inventario – non certo completo – ha lo scopo di sensibilizzare gerenti e proprietari. Ciò che si perde con un «ammodernamento» lo si capisce infatti solo quando le pareti di legno sono ormai già state riverniciate, i fregi intagliati o i rivestimenti murali e dei soffitti sono stati rimossi, l’illuminazione d’epoca è sparita e sale di pregio sono state rovinate trasformandole in fumoir. Esistono ancora locali davvero speciali Riunito in seduta, il gruppo dell’Heimatschutz ha innanzitutto redatto una lista di possibili locali. Due membri, dopo aver preso atto della situazione, hanno rilevato come esistono ancora edifici con il classico rivestimento di pannelli di legno, caffè viennesi e sale da tè degli anni Quaranta-Cinquanta. Inoltre, ci sono diverse architetture particolari degli anni Settanta e spazi contemporanei che sono meglio di ciò che mediamente si vede in giro. Tuttavia, la lista alla fine è stata accorciata. Dei settantacinque locali iniziali più di trenta sono stati espunti in modo da mantenere unicamente i posti davvero speciali. Per molto tempo non è stato chiaro che tipo di pubblicazione sarebbe stata utile e finanziabile dalla sezione dell’Heimatschutz. Alla fine si è optato per una collaborazione con il mensile culturale Saiten, che da settembre dedica alla serie due pagine di ogni numero. La sezione dell’Heimatschutz copre le spese per la redazione dei testi e per le fotografie, mentre Saiten offe lo spazio e si occupa dell’impaginazione. Gli interni sono illustrati con foto in bianco e nero, cui si aggiungono alcuni primi piani dei dettagli. I testi raccontano la storia dell’edificazione dei locali, per quanto sia possibile ricostruirla. Non è sempre facile, poiché di solito non sono richiesti permessi di costruzione per le modifiche degli interni, che quindi non sono documentate negli archivi. In alcuni casi è possibile rintracciare chi ha preceduto gli attuali gerenti e così ripercorrere almeno le modifiche degli ultimi decenni. Non si tratta di recensire il bar che serve il miglior caffè o il ristorante con il menù più sofisticato, ma di sensibilizzare i gerenti su quanto siano speciali gli spazi che occupano e renderli quindi orgogliosi dei loro locali. All’inizio non si sapeva se sarebbe stato possibile. I redattori e i fotografi non avevano idea dell’impresa in cui si stavano imbarcando. Come avrebbe reagito la padrona di un’osteria di periferia di fronte all’arrivo dell’Heimatschutz pronta a tessere le lodi del brutalismo ar-
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chitettonico di Heini Graf? Cosa avrebbe risposto il gestore di un caffè arredato con pannelli di acero madroso (a occhio d’uccello) all’Heimatschutz che gli dice quanto è unico il suo locale? E come l’avrebbe presa il responsabile di un locale alla moda vedendo l’Heimatschutz puntare il dito contro i colori troppo accesi scelti per un edificio Art Nouveau? Il grande interesse degli esercenti I timori erano perlopiù infondati: «Ovunque siamo stati accolti benissimo, le reazioni dei gerenti e dei clienti sono state molto positive», dice la fotografa e direttrice della sezione Monika Ebner, che porta avanti con grande piacere questo incarico insieme al suo partner, il fotografo Emanuel Sturzenegger. Anche l’autore di questo testo e il giurista Beat Fritsche confermano che gli esercenti sono molto interessati al progetto e che la maggior parte di loro conosce bene la storia e le particolarità dei locali gestiti. Per il momento la serie andrà avanti per un anno. Oltre alle versioni stampate in bianco e nero, gli interni si possono vedere a colori sul sito www.saiten.ch e sulla pagina della sezione regionale dell’Heimatschutz www.heimatschutz-sgai.ch. Se si riuscirà a trovare un finanziamento, la serie potrebbe anche tradursi in una pubblicazione a se stante.
CAFÉ SCHOBER, ZURIGO 20
Una pasticceria tra moda e tradizione A Zurigo, in una casa del centro storico, la famiglia Guggisberg gestisce la Conditorei Café Schober, un autentico caffè in stile neo-barocco. Dietro le quinte, i proprietari lavorano sodo per fare quadrare i conti e tenere in vita l’attività. Abbiamo fatto un sopralluogo. Beat Grossrieder, giornalista, Zurigo
«Qui la protezione dei beni culturali deve essere pragmatica», spiega sorridendo Roland Guggisberg mentre indica la porta d’ingresso. Ci troviamo nel negozio del Café Schober a Zurigo, sotto un lampadario vecchio centotrent’anni, tra il viavai di avventori e personale. Racchiuso tra mura antiche (alcune del XIII secolo), il locale è stretto e lo è anche la porta che
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conduce all’esterno del locale. «L’ingresso non abbiamo potuto modificarlo. La porta originale è larga appena sessantacinque centimetri e chiaramente non rispetta le norme attuali.» Intanto noi ci spostiamo per fare largo a un pasticcere che si destreggia verso il bancone con in mano un vassoio di meringhe appena sfornate. Lo storico ingresso non consente l’accesso alle sedie a rotelle e anche la maggior parte dei passeggini, spiega Guggisberg, sono troppo grandi per passare e devono rimanere all’esterno. Sua moglie, Barbara Guggisberg, è la nipote di Theodor Schober jr, l’ultimo leggendario patron del caffè. Oggi, l’imponente edificio di sei piani sulla Napfgasse, nel centro storico di Zurigo, è proprietà di una comunione ereditaria. Per sessantasei anni Schober jr è stato l’anima della casa e ha portato avanti l’attività, insieme alla moglie, fino all’età di novantadue anni. Prima di lui, Theodor Schober sr fu devoto a questo caffè per sessant’anni, da quando lo fondò nel 1842 come Eberle’s Süsskramladen. In seguito, nel 1975 ci fu un’interruzione dell’attività, ci racconta Guggisberg nella Zürich-Stube, una delle tre sale barocche della casa. Theodor jr dovette lasciare per motivi di salute «e così si abbassarono le serrande, tutto finito». Siccome in famiglia vigeva una rigida struttura patriarcale, era impensabile che una delle tre figlie potesse assumersi la gestione, anche se gli Schober vivevano in quello stesso edificio. La casa era però a malapena abitabile: mancavano sia il bagno sia la cucina e le prozie si accontentavano di una «tolettatura» alla bell’e meglio. Nel 1992, i servizi sanitari comunali fecero traslocare l’ultima anziana inquilina in una casa di riposo. Che cosa si poteva fare allora con un simile immobile? Da un lato si tratta di un tesoro di famiglia, colmo di meraviglie: come il negozio del 1890 accuratamente conservato, il curioso lampadario con cinque lampade a gas e cinque elettriche (l’edificio fu allacciato alla rete elettrica solo nel 1893) e il primo forno elettrico da panettiere in Svizzera (progettato da Schober sr e realizzato da Schober jr intorno al 1920). D’altro canto l’edificio è un peso: gli spazi sono ristretti e contorti, le possibilità di rinnovare e ampliare sono limitate, ogni cambiamento deve essere concordato con la protezione dei beni culturali. Anche se tutto è stato sistemato per organizzare le attività nel modo più razionale possibile, spiega Guggisberg, poiché il caffè si estende su tre livelli (pianterreno, mezzanino e piano rialzato), il personale è costretto a salire e scendere continuamente le scale. Siccome i fornitori non possono parcheggiare i furgoni nella piazzetta antistante durante le ore di punta mattutine, è stato installato un montacarichi sotterraneo. Il calore prodotto dagli impianti di refrigerazione viene disperso in maniera ecologicamente sostenibile. Considerando anche la ristrutturazione dei sette appartamenti avvenuta nel 2008–2009, l’investimento complessivo è stato di sei milioni e mezzo di franchi. Un quarto del denaro è stato destinato alla parte gastronomica, gestita da Michel Péclard, che ha investito la stessa cifra. Così, l’edifico è stato sistemato per affrontare il futuro, gli appartamenti sono stati tutti facilmente affittati, ma questo non garantisce la redditività della parte gastronomica. Anche se il Caffè Schober è segnalato su tutte le guide turistiche, le esigenze della clientela sono cambiate. La specialità della casa ai tempi di Schober jr era il paté di carne e anche i dolci erano
venduti in gran quantità, oggi però le persone sono molto più attente alle calorie. Inoltre, di questi tempi la ristorazione deve fronteggiare problemi strutturali quali la concorrenza delle grandi catene come Starbucks o il cambio sfavorevole del franco rispetto ai prezzi e agli stipendi del resto d’Europa. Ma la cosa più importante per un caffè in un edificio protetto come monumento storico è «un gerente adatto all’impresa e viceversa», sottolinea Guggisberg. Non un locale alla moda Dopo la chiusura del 1975 il famoso autore e regista Werner Wollenberger si impegna per la conservazione del Caffè Schober. Conquistati dal fascino del posto, Dölf Teuscher, dell’omonima dinastia di pasticceri, e Felix Daetwyler si propongono come gerenti. Collegano i due piani (quello superiore era stato la prima sede del negozio di coloniali Schwarzenbach) e creano un’atmosfera che ricorda il noto bar Kronenhallen. Con un tripudio di fiori finti, trasformano il caffè in un «paradiso dei golosi e del dopo sbornia», come si legge sul sito web. Poco inclini a farsi carico dei necessari e urgenti investimenti, nel 2008 lasciano l’attività, ripresa da Péclard. Sebbene sia considerato un intraprendente innovatore che ha portato al successo locali come la Pumpstation (Utoquai) e il Fischers Fritz (Wollishofen), dieci anni dopo lascia anche Péclard. Ma il Café Schober non è un locale alla moda che cambia a seconda di come tira il vento. Con quasi centoquaranta coperti e cinquantacinque posti all’aperto, conta un totale di venti dipendenti e genera un fatturato di circa tre milioni di franchi l’anno. L’affitto annuo ammonta a 235 000 franchi netti. Péclard informa allora i media che oltre a dover fronteggiare una perdita annua di 200 000 franchi, i proprietari dell’immobile gli impongono diverse limitazioni. Intende allora trasformare il caffè Schober nella filiale zurighese della celeberrima pasticceria parigina Ladurée. Le specialità della casa esposte sul bancone diverrebbero così i colorati macaron, la versione francese del famoso luxemburgerli zurighese della tradizionale pasticceria Sprüngli. Ripensando a questi piani, Roland Guggisberg fa un gesto di disapprovazione. Si era reso evidente il dilemma fondamentale per un locale come il caffè Schober: «il fascino dell’autenticità di un luogo storico non è percepito da tutti allo stesso modo e aprirsi un po’ alle tendenze del momento potrebbe allora servire a equilibrare la situazione». Una cosa però è chiara: il locale non deve essere occupato da una catena alla moda, come sta vieppiù succedendo nel centro storico, anche se questi soggetti sono in grado si «sborsare una volta e mezzo l’affitto degli altri». Guggisberg intende fare tutto il possibile affinché lo Schober rimanga un caffè. Adesso è alla ricerca di un nuovo gestore ed è aperto anche a forme alternative, in modo da «alleggerire un po’ la pressione economica che grava sul locale». Fortuna e sfortuna Dal 1976 l’edificio è entrato a far parte dei monumenti da proteggere. Il fatto che il caffè Schober si trovi nella città di Zurigo e non da qualche altra parte nel cantone, spiega Guggisberg, è una fortuna e allo stesso tempo una sfortuna. Il contesto economico è senz’altro migliore, ma i contributi cittadini per la protezione dei monumenti sono significativamente più bassi. Durante i lavori di ristrutturazione dell’edificio, solo il costo del
sistema antincendio ha superato di varie volte il contributo ricevuto dalla città, racconta Guggisberg mentre conduce i visitatori attraverso la porta di legno barocca che dalla Zürich-Stube conduce alla tromba delle scale. Questa porta, a prima vista poco appariscente, in realtà è stata fatta su misura. Si tratta di un modello «Panik Tribloc». Da fuori presenta il classico stile locale in noce, ma all’interno è un concentrato di tecnologia. Una porta come questa è in grado di resistere al fuoco per mezz’ora e in caso di evacuazione può essere aperta dall’interno molto rapidamente. «È un modello che costa 30 000 franchi», spiega Guggisberg schiarendosi la voce, «e ne abbiamo installate ben tre».
HEIMATSCHUTZ SVIZZERA UNA VITTORIA PER L’HEIMATSCHUTZ SVIZZERA 30
Fermato l’annacquamento della Legge sulla protezione della natura e del paesaggio Dall’esito della consultazione relativa alla Legge sulla protezione della natura e del paesaggio emerge che la metà dei cantoni non vuole un allentamento esagerato delle regole. Una netta maggioranza dei membri della Commissione dell’ambiente del Consiglio degli Stati ha bocciato la revisione dell’articolo 6. L’Heimatschutz Svizzera è soddisfatto e chiede ora al Consiglio degli Stati di abbandonare questa revisione inopportuna. Adrian Schmid, Segretario generale dell’Heimatschutz Svizzera
A fine marzo la Commissione dell’ambiente, della pianificazione del territorio e dell’energia del Consiglio degli Stati ha aperto la procedura di consultazione in vista di un drastico smantellamento della Legge sulla protezione della natura e del paesaggio. In settembre sono giunti i risultati. I favorevoli hanno dovuto incassare una netta e sonora sconfitta: le modifiche proposte sono state respinte dal 55 per cento dei coinvolti. Se il sostegno degli ambienti dell’economia e l’opposizione di 35 organizzazioni ambientaliste
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erano scontati, l’Heimatschutz – che aveva già previsto di lanciare un referendum – è stato sorpreso del risultato finale. Per quanto riguarda i Cantoni, ben dodici hanno rifiutato l’importante modifica dell’art. 6 cpv. 2, mentre tredici l’hanno approvata. La Commissione dell’ambiente del Consiglio degli Stati ha ora rinunciato a questo inasprimento, mantenendo soltanto la modifica all’art. 7 cpv. 3, che declassa le perizie delle commissioni federali a uno di una serie di elementi da tenere in conto nella ponderazione degli interessi da parte delle autorità. Dopo un intenso lavoro di lobbying, l’Heimatschutz Svizzera prende atto con piacere di questo esito e chiede ora che il Consiglio degli Stati abbandoni la revisione della Legge sulla protezione della natura e del paesaggio. Due iniziative popolari Le occasioni di confronto non si fermano qui. Il 31 ottobre 2018 il Consiglio federale ha presentato il progetto per la
IMPRESSUM I testi in italiano sono curati, adattati e a volte ridotti da Sándor Marazza 4/2018: 113mo anno Editore: Heimatschutz Svizzera (redazione: Peter Egli) Stampa: Stämpfli AG, 3001 Berna Grafica: Stillhart Konzept und Gestaltung, 8003 Zurigo Appare: a scadenza trimestrale Indirizzo: Redazione «Heimatschutz/Patrimoine» Villa Patumbah, Zollikerstrasse 128, 8008 Zurigo T. 044 254 57 00, redaktion@heimatschutz.ch ISSN 0017-9817
seconda tappa della revisione della Legge sulla pianificazione del territorio (LPT). Per Pro Natura, BirdLife Svizzera, la Fondazione svizzera per la tutela del paesaggio e l’Heimatschutz Svizzera le nuove regole proposte per le costruzioni fuori delle zone edificabili non basteranno ad arrestare il boom edilizio che si è scatenato in queste aree. Per questo è previsto il lancio di un’iniziativa popolare. Verso fine anno l’Heimatschutz Svizzera pubblicherà inoltre una presa di posizione sulle costruzioni fuori delle zone edificabili. Pro Natura, BirdLife Svizzera, la Fondazione svizzera per la tutela del paesaggio e l’Heimatschutz Svizzera si rifiutano di accettare l’allarmante stato attuale delle cose e le proposte politiche che mirano a smantellare la tutela del territorio. Attraverso una seconda iniziativa popolare, in fase di preparazione, rivendicano la conservazione dei paesaggi, maggiori superfici e risorse per salvaguardare la biodiversità, come pure la protezione del nostro patrimonio paesaggistico, naturale e architettonico.