8
NOV - DEC 2016
COSA FA UN ILLUSTRATORE? Nataly Crollo Illustratrice / Pittrice Bari, Italia
ARTE IMPURO: DESNUDOS EN LAS COLECCIONES REALES. LA SALA RESERVADA DEL MUSEO DEL PRADO Irene Díaz-Roncero Fraile Historiadora del arte y guía oficial de turismo Madrid, España
CARLO BERNARDINI: INTERVISTA Matilde Ferrarin Laureata in Storia dell’Arte Verona, Italia
DESCUBRIENDO BULGARIA Javier González Profesor de Historia Madrid, España
FLAYED NETWORKS: SKIN AFTER THE INTERNET IN DONNA HUANCA’S SCAR CYMBALS Alec Kerr MA History of Art, University College London London, UK
JOAQUÍN TORRES GARCÍA. UN MODERNO EN LA ARCADIA Ramón Melero Guirado Historiador del Arte Cazorla, Jaén, España
AI WEIWEI LIBERO Alessia Nardi Laureata in Arti Visive Firenze, Italia
The Working Class Aaron Bradbrook Photographer | Journalist | Filmmaker www.aaronbradbrook.com Beginning in 2015, The Working Class came into fruition through document ing prof e s s iona l a r t i s t s presenting as part of Adelaide Fringe. However, unlike common production photography, the series focuses on the moment the artist exits the stage after performing. Sweaty and dirty, the artist emerges seeping with exhaustion and emotion. The Working Class emphasises the extreme, yet often euphoric realities of what it means to be an artist working at the worlds largest arts festivals: The Adelaide and Edinburgh Fringe Festivals. To date, no other photographer has attempted to create a photographic survey of this kind and scale. Controversially titled The Working Class, the series examines the role of the artist as entrepreneur and key facilitator of a small to medium sized business, often as sole trader, working within the greater economy. The title references the bluecollar workers of the industrial revolution, who used skilled physical labour as a means to generate income. By re-contextualising this term and applying it to this select group of Fringe artists, the series challenges a commonly held perception that artists are a ‘drain on the economy,’ unskilled and non-vital to economic enhancement. By associating them with the working class, this series highlights their value, and the value of the arts and culture within broader Australian and international society. *Supported by the Adelaide Fringe Artist Fund a selection of photographs from The Working Class will be exhibited for the first time in a large-scale site specific installation during the Adelaide Fringe 2017.
NOV-DEC 2016
Alec Kerr MA History of Art, University College London London, UK
Matilde Ferrarin Laureata in Storia dell’Arte Verona, Italia Javier González Profesor de Historia Madrid, España
Irene Díaz-Roncero Fraile Historiadora del arte y guía oficial de turismo Madrid, España
Ramón Melero Guirado Historiador del Arte Cazorla, Jaén, España
Alessia Nardi Laureata in Arti Visive Firenze, Italia
Nataly Crollo Illustratrice / Pittrice Bari, Italia
Quando mi chiedono cosa faccio nella vita di solito rispondo "l'illustratrice" e dopo qualche secondo di silenzio la domanda successiva è "cosa fa un'illustratrice?", "Realizza le immagini dei libri per bambini" è la risposta più semplice e immediata, ma in realtà l'illustrazione non riguarda solo i libri e quelli illustrati non sono solo per bambini, se non voglio lasciare che si confonda l'illustrazione con la pittura il dialogo diventa di poco più articolato, perché non sono poi così diverse, all'apparenza.
Cosa fa un
illustratore
QUOTE TEXT FRAMES Le parole sono QUOTE un modo di Loremdisegnare ipsum dolore sit i amet, consectetur adipiscing elit. disegni un altro modo di scrivere
L'illustrazione è un'immagine o un insieme di immagini che accompagnano un testo, per chiarirlo, commentarlo e facilitarne la comprensione. Senza perdere di vista la spiegazione dell'enciclopedia, completo l'informazione collocandola nel suo luogo di origine: nella storia dell’Arte.
... si parla di illustrazione per definire quella tipologia di arte applicata che meglio si adatta alle nuove tecniche di stampa, dal 1800 in avanti. Se l'immagine creata non è utile alla narrazione o all'espressione di un messaggio perde il significato, diventa qualcos’altro. Come spiegava Bruno Munari, c'è una definizione specifica per ogni mestiere, ma la linea che separa lo scultore dal designer, il pittore dall'illustratore è sempre più sottile, forse per chi osserva ma non per chi opera. Nella massima libertà lo scultore può essere un designer, un muratore o un architetto. Io sono illustratrice, a tratti pittrice e, quando produco oggetti in legno per la vendita, una decoratrice, anche le opere create hanno una loro definizione. Oggi credo si ecceda nell'utilizzo delle parole "Arte" e "artista", non conservano più un valore assoluto, ma del resto l'Arte è figlia del proprio tempo, vive dei tumulti, delle scoperte, delle conoscenze e delle tecniche contemporanee, l'artista è sperimentatore e testimone del suo tempo, si esprime come meglio può attraverso i mezzi a sua disposizione, anche qui Munari mi illumina di praticità. Allora l'Arte appartiene a vari settori, dalla danza e si può
pittura alla musica, dalla fotografia alla consacrare a opera d'arte un film senza tempo di Federico Fellini nel suo ambito cinematografico, così come un quadro di Rembrandt del 1600. ... forse la mia massima aspirazione è consacrare anche una mia illustrazione.
Affermo, quindi con certezza, che il libro illustrato, nel proprio ambito di appartenenza, può distinguersi da altri perché è un "capolavoro", perché è in grado di dare emozioni alla stregua di un dipinto o di una cappella affrescata e perché, come diceva Italo Calvino, racconta storie che servono a capire chi siamo e dove siamo, a cogliere alcuni aspetti universali dell'animo umano. Ancor più la considerazione che Marcel Duchamp fa dell'arte tradizionale chiarisce il motivo per cui relaziono il fare artistico all'illustrazione: «Considero la pittura come un mezzo di espressione, e non come un punto d'arrivo. E lo stesso per il colore, il quale non è che uno dei mezzi di espressione e non il fine della pittura. In altri termini la pittura non deve essere esclusivamente visiva o retinica. Deve interessare anche la materia grigia, il nostro appetito di comprensione». L'illustrazione è un mezzo di espressione e un linguaggio di comunicazione universale, tra le sue competenze rientrano vari ambiti, il mio, il più delle volte, è il libro illustrato. Lo considero una dichiarazione di intenti da parte dell'autore, dell'illustratore e dell'editore, che sostituiscono il singolo artista.
QUOTE
QUO TE
Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit. Morbi maximus dui eu nulla cursus porttitor. Vivamus dignissim ullamcorper turpis, nec imperdiet orci scelerisque.
Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit. Morbi maximus dui eu nulla cursus porttitor. Vivamus dignissim ullamcorper turpis, nec imperdiet orci scelerisque tristique.
QUOTE TEXT FRAMES handrawn La sua qualità è determinata sempre da quel percorso creativo, non affatto semplice, di ideazione, progettazione, studio, approfondimento, ripensamento (tormento) da cui si realizza un prodotto emozionale nel quale tutti i linguaggi (testo, illustrazione e grafica) sono cosÏ Lorem ipsum dolor sit amet, ben amalgamati da farlo apparire un'opera unica, dove leconsectetur parole sonoadipiscing un modo elit. di disegnare e i disegni un altro modo di scrivere, come spiega Fabian Negrin, parlando del suo mestiere e, in forma utopica, dell'illustrazione ideale, che avrebbe una tale relazione di osmosi con il testo che vista da sola non sarebbe comprensibile.
QUOTE
StorieQUOTE che servono ipsum dolor sit amet, aLoremcogliere alcuni consectetur adipiscing elit. aspetti universali Morbi maximus dui eu nulla dell'animo cursus porttitor. umano.
Non avrebbe senso che testo e immagine dicano la stessa cosa, sarebbero una ripetizione inutile e ridondante di un solo concetto e poi non ci si deve soffermare troppo su quelle parti di testo su cui probabilmente l'immaginazione del lettore opererà guidata dall'autore stesso, se lo dice Quentin Blake posso solo crederci. L'illustratore, piuttosto, deve seminare piccoli indizi, aggiungere nuovi messaggi, portare il visibile allo stesso livello del testo, deve essere consapevole che le sue opere hanno il grande limite di dover essere stampate e quindi vanno concepite sapendo che i colori subiranno delle variazioni, che convivranno con l'ingombro del testo, che saranno impaginate nel limite del formato scelto e allestite in base alle
Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit. Morbi maximus dui eu nulla cursus porttitor.
disponibilità economiche che l'editore è disposto a investire ... e che gli originali saranno
ipsum dolor sit amet, tetur adipiscing elit.
sempre più belli del prodotto pubblicato. Mi hanno insegnato che un buon illustratore deve conoscere la prospettiva, deve leggere e osservare di tutto e che possedere un proprio stile è
un'arma a doppio taglio perché il rischio è di creare libri copie del primo, è utile piuttosto
QUOTE
curare un linguaggio personale per rendersi riconoscibili, mentre lo stile può cambiare in
QUOTE
base alla storia da illustrare. Di solito, dopo aver letto il testo e averlo riletto diverse volte alla mente si affacciano innumerevoli idee, eteree e geniali finché non vengono trasportate su carta. In questa fase, dopo aver conosciuto il formato del libro, è
essenziale
lavorare sullo storyboard, utile a mettere in relazione tutte le immagini e a comporre o modificare il ritmo narrativo, perché un libro prenda vita deve avere ritmo. L'illustratrice Anna Castagnoli, nel suo blog,
QUOTE TEXT FRAMES handrawn
spiega che si deve lavorare sull'intero progetto
e non su un'immagine per volta, calcolando le pagine come multiple di quattro.
sum dolor sit amet, consectetur g elit. Morbi maximus dui eu nulla orttitor. Vivamus dignissim ullamrpis, nec imperdiet orci scelerisque.
QUO TE
Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit. Morbi maximus dui eu nulla cursus porttitor. Vivamus dignissim ullamcorper turpis, nec imperdiet orci scelerisque tristique.
Forse la mia massima aspirazione è consacrare una mia illustrazione.
QUOTE
Il foglio di lavoro è la doppia pagina, le sue dimensioni sono il limite imposto, anche se l'immagine è pensata per essere riprodotta su una facciata, il libro si sfoglia tenendone aperte
QUO TE
contemporaneamente due, è importante considerare la loro successione ed equilibrare l'illustrazione in rapporto con la precedente e la successiva, il testo ha un peso importante quanto il linguaggio iconico, la
Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit. Morbi maximus dui eu nulla cursus porttitor. Vivamus dignissim ullamcorper turpis, nec imperdiet orci scelerisque.
parte bianca di un foglio è parte della composizione, così come il lavoro grafico di impaginazione è parte fondamentale di tutto il processo, perché è in grado di legare il linguaggio iconico con quello testuale, crea l'identità del libro, ne facilita la comprensione e rende scorrevole la lettura.
In fine, tutto il lavoro è messo alla prova dalla costruzione della copertina, che in buona parte contribuisce al suo successo sullo scaffale della libreria. Serve ad attirare l'attenzione e ad accattivare i compratori, che spesso non corrispondono ai lettori.
Se, secondo Kveta Pacovska, il libro illustrato è la prima galleria che un bambino può visitare, progettarlo, come pensava Munari, è una grande responsabilità perché la società del prossimo futuro è composta da adulti che ora sono bambini e quello che resterà impresso nella loro mente oggi formerà il loro carattere domani.
QUOTE TEXT FR Nataly Crollo Illustratrice / Pittrice Bari, Italia natalycrollo@gmail.com
A
ARTE IMPURO
Desnudos en las Colecciones Reales
La Sala Reservada del Museo del Prado
El desnudo siempre ha sido un tema controvertido en el arte, a pesar de su omnipresencia desde los mismos orígenes del mismo (véase la Venus de Willendorf). Parece contradictoria la libertad de representación del cuerpo humano de nuestros antepasados grecorromanos si la confrontamos al ataque al desnudo que comenzará con la expansión del cristianismo en Europa, que extenderá la cobertura del cuerpo hasta las muñecas y los tobillos (claro ejemplo en las tallas románicas de los Cristos crucificados que adornarán las iglesias medievales occidentales europeas) mientras el viejo Imperio Romano Oriental se debatía entre las tres grandes iconoclastias que pondrán límite incluso a la misma representación de las personas, cubiertas o no. Si bien a partir del Gótico las formas humanas se comienzan a naturalizar y el cuerpo vuelve tímidamente a comenzar a asomar por debajo de las vestiduras, aún se tardará tiempo en alcanzar la recuperación total del desnudo, que prácticamente no reaparecerá hasta que maestros italianos como Michelangelo Buonarotti, Tiziano, Donatello y otros grandes del Quattrocento y del Cinquecento retomen en el Renacimiento esta temática por tanto tiempo denostada y relegada por pecaminosa.
Sin embargo y a pesar de que el arte avanza a pasos agigantados, no parece que la mentalidad de la sociedad logre hacerlo a la misma velocidad, pues los cuadros de cuerpos desnudos no podrán ser equiparados a los vestidos y, por tanto, no podrán ser mostrados al público. Es en el siglo XVI cuando se populariza la idea de creación de las llamadas “Salas Reservadas”. La idea de creación de salones específicos para una función concreta no era desde luego algo inusual; podemos recordar que en el Palacio Real madrileño existirá una saleta dedicada solamente a fumar, otra que servirá como vestidor, otra diferente para el almuerzo del rey y otra dedicada a la cena. Otras salas y lugares como las construcciones de los Caprichos del Retiro o del mismo parque de “El Capricho” son ejemplos más que suficientes para recordar el interés de las clases nobles por la escenografía teatral que rodea a las artes, que sorprende, que habla del misterio, lo romántico y lo oculto y anima a perderse en lo desconocido. La creación de las Salas Reservadas para la contemplación de los cuerpos desnudos en soledad resulta ser en realidad una simple extensión de la escenografía de las salas, salones y salettas reales decoradas temáticamente, exhibiendo
las colecciones más extravagantes. Sin embargo estas estancias también cumplen una segunda función: alejar los cuadros pecaminosos de los ojos no entrenados y aptos para su contemplación. No todos los ojos pueden ver todas las cosas. Y sólo los ojos autorizados van a poder disfrutar de los cuerpos desnudos, que permanecerán ocultos a una población considerada demasiado inculta, vulgar y bestial como para ser capaz de adivinar cualquier significado más allá de los genitales humanos. El desnudo, junto con la mitología, van a ser imágenes desterradas del interior de las iglesias desde que el concilio de Trento en su XXV sesión pusiera coto al tipo, temática y estilo de las representaciones a ser exhibidas en el interior de las iglesias. Esto va a reducir las posibilidades de los artistas para recurrir a figuras alegóricas, simbólicas y mitológicas que puedan aleccionar a los feligreses sobre vicios y virtudes (véase el ejemplo de las pinturas mitológicas alegóricas del cimborrio de la Catedral de Tarazona, analizado The Tarazona Cathedral, número 2 de Hyperkulturemia, que fueron cubiertas por ser consideradas inapropiadas: paganas y desnudas). La pérdida de la memoria mítica clásica y la preferencia de santos y vírgenes, preferentemente vestidos en su totalidad, va a acostumbrar al ojo del espectador a considerar como pecaminoso cualquier cuadro que muestre alguna parte del cuerpo de forma más o menos explícita. No serán de hecho raros los juicios e interrogatorios de los inquisidores a pintores como Veronese, que el 18 de Julio de 1573 fue conminado en Venecia por el Santo Oficio a rediseñar el cuadro de la Última Cena (hoy Cena en casa de Leví) por considerarse que representaba a personajes grotescos contrarios a la santidad de la imagen y la ortodoxia. Por no hablar del “secuestro” inquisitorio de la Maja Desnuda de Goya, que fue retirada de los ojos de cualquier espectador casual por ser considerada escandalosamente inmoral.
Si bien las colecciones reales esquivarán la censura eclesiástica, las Salas Reservadas serán un elemento común en la mayoría de palacios y Museos europeos, y en España destacará la que se creará en el siglo XVIII en el Museo del Prado. Carlos III, aquejado de un arrebato de religiosidad, pidió a Anton Raphael Mengs que realizara una selección de las pinturas más indecentes y pecaminosas entre las que decoraban las residencias reales. La intención primaria del rey fue quemarlas, pero la intercesión de Mengs en defensa de las pinturas permitió su preservación so pretexto de su valor pedagógico, de tal forma que fueron llevadas al primer gabinete o “sala reservada” para pinturas de cuerpos desnudos creada en la Real Academia de Bellas Artes de San Fernando. Aparte de la selección de Mengs, la sala de la Academia se enriqueció con el préstamo de 37 obras procedentes de la colección real entre los años 1792 y 1796. Dentro de estas pinturas se reconoce la mano de grandes maestros como Veronese, Rubens o Tiziano. Volverán solo al Prado estas obras en 1827, con la promesa estricta dada al Rey que ninguno de sus cuadros sería expuesto al público vulgar e indocto, de tal forma que se reproduce la “sala reservada” que ya existía en la Academia. La apertura de la Sala se reservaba exclusivamente a personas provistas de un pase especial, que podían acceder a las pinturas de cuerpos desnudos sólo bajo pretexto de estudio de las formas y colores de los pintores. La Sala no contaba con ningún tipo de planteamiento museográfico, clasificación artística u estilística más allá de la temática del desnudo. La “inmoralidad” es la regla de clasificación, pues, que se utilizó en el Museo del Prado como criterio museográfico de una institución claramente arraigada en las ideas del Antiguo Régimen, que daba la espalda a la incipiente modernidad europea debido al carácter conservador de Fernando VII, cuyos años de reinado coinciden con la existencia de la Sala Reservada del Museo.
Fue en 1838 cuando finalmente el director del Prado, José de Madrazo, decide eliminar la Sala Reservada e integrar las pinturas junto al resto de la colección. Tarea que no debió de resultar sencilla, pues la colección de pinturas inmorales seleccionadas por los reyes, pintores y demás consejeros ascendía a 72 en el momento que fueron redistribuidas. Con el fin de la Sala Reservada del gran Museo Nacional español se puso punto y final a la demonización pública del desnudo en el arte. Hoy en día sería inconcebible pasear por cualquier gran museo sin observar cuerpos desnudos por el camino. ¿Qué pensarían los reyes del Antiguo Régimen al observar al “vulgo” contemplando semejantes obras? ¿Qué habría hecho el Santo Oficio al respecto? Por suerte para nosotros, el Santo Oficio pereció en 1834, casualmente sólo 4 años antes de la eliminación de la Sala Reservada. Si la Inquisición hubiera seguido existiendo, es posible que los últimos inquisidores hubieran muerto de un infarto al conocer la pecaminosa decisión de nuestro gran Museo.
Irene Díaz-Roncero Fraile Historiadora del arte y guía oficial de turismo Madrid, España irenedrf@gmail.com
CARLO BERNARDINI intervista
La parola dell'artista attesta sempre in presa diretta le idee, le passioni, le motivazioni che stanno alla base del suo operare. Interpellarlo, sollecitarlo sulle ragioni del proprio fare vuol dire arrivare a comprendere meglio i meccanismi mentali e fattuali che portano alla realizzazione del suo lavoro. È un saltare le trame interpretative o le puntualizzazioni di comodo, per andare un po' irriguardosamente “dietro le quinte” e cogliere un sapere prossimo alla fonte, alla strutturazione di un'idea. Non è un’intervista, ma un dialogo in cui si misurano uno sguardo critico e uno artistico, uno che si fonda sulla teoria e uno sulla pratica.
Matilde
Ferrarin - Una hai det volta to che la fibra come “ ottica è un dise gno fat to con pastello un bianco s u un scuro”. foglio Quindi u n a scrittur genera a che uno s p a z i o nuo facend vo, o perc e p i r e invisibi territo li, vuo ri ti senz ambien a form ti domi e, nati da l buio. tuo è u n atto d Il emiurgi lux”) co (“Fi at o un modo trasport per arci in una dim altra, in ensione un luog o di pen siero? Carlo B ernardin i - Le f luce in orme d fibra o i t t i c a tendo trasfor n o a mare le coo percet r dinate tive d ell'oss ervato insieme re allo spa z i o i n contenu cui son te o di o c ui dive esse ste ngono sse il co n t e n itore. N tanto on è l'inst a l l a zione trasform a arsi in funzion spazio, e dello quanto lo spaz contien io che la e a tr a s f ormars funzio i in ne de ll'insta llazion L'idea è quell e. a di an nullare fisicità la dello s p a z i compl o real e, ice l' o s c urame dell'a nto mbien t e , e qui permet ndi tere a lla pe rsona attraver di sare un l u o g o come u sorta di na spazio 'm entale'.
e luc i d ne ni g e zio s a i l d e i di r non tuo o , t r o I t po cer gli . rap , F a n à t M di ou M. di ra. fon ran u o t u t on r a e e p t t s n i l i in ch in ci a sch l'ar e u e l n b r n a le ra co a. nim fanno re a a a tan c n r r o e e e F c p e m per eva aterial i co c o z a a f m sp e a vin n om Fla ell u c n d i a t è n D e una ite tica resc t m e o o i t u t l e , fl a ite al erm fibr P m i , l o e. La È ia, ion em l z re. r g a e t z s o s s z s e e to ali me por teri non a o p e a c r sm a re ne un , tr sse o o e i i r s d a ie vi ens e tr are p n l i r f e a p con rpo le i o c b i s ? tra pos lità co a i u t t t i le e spir dia e luc à t i a c ca fisi na otti n u i a e ibr uce iem a l a f s l n L i a za . ce eh lliz u h B a l t c s o ri C. la o ent a c ; n m a end r e c s l e i t s e s s e e o fi a nic ur a st u p ' e m l r è fo ili e Qu bra sib i m vec v o n . ' l i l e a e età al luc che pri a ri l o e r e p n na at una gio zio i m a r e z p n e im iz e e im , divi all luc t a s a l e i m l r r h c c fe de allo fisi e” ra, r u o e t o n t t e r ca to lin ula può um a in ro t c e e r n c c e o a u t d l un di “ a scul di i a t d o r m n so di for iseg m u r a d e na n u n io in e . U re le luz o i o rno z s e a a t s p s s e la za er ui ' c r a v e s e n gando t t in a t u ien ogo oni c u b l , o am nic uità u n i '. t n con o in u azio p s o rn ra l inte e n e eg luc
M.
F. - I l t dar uo si ten l sio s u ne, l d avoro fig ina l'en sem ure mi bra geo ergia. ent s m ran m o Son , l etri cam o ne o a che s l l em bia o s q p n uel re paz S on o la le io os stru c e r he eal mp ttur qu e e re l ell ae ine e ne dis e re la fun egn che z t i te e one lo and L'o . sca att per o ttan ad rav v mo o ti ive lum ers stra nta a i n d spa allo vir o iu zi na ra tua c l s am li. om orta spa pre ess zio di sen a ? plu in ti rali in t Ă d uno i s t ess C. o B. par Ho ten rea d lizz o ent d ato al rat mo a pun cos lti nel to trui lav l'a d t ori i i line mb in v i ien sta e te mo do se n te: di tra tale e li l l o l che o s pa ho ge zio om r o , tutt c col e le etr pre lim ich r e a n cis a s do e ser e, ang bid o fig vis ola i m i u bil zio en re ed i a ne sio util c d n hiu ali izz una sor den and ta d o dat o u di mo l'al a n o obi noc tro cch e u t c l io vis t are om ta . In i v o f e l u e o na mu tog un o v e linee raf d a t ico si n rad sov o pun dop d o s i r t o a app pia ppo di nel te nev ari l'in e v a s , a n t alla no o, co anc me zio ora com n , e es in gen e im ntra un era o n l t d nd ip risu cal o o ltat e i d licava e o ffe no nel di ttiv osco lo s u n p a tess a p io, lura m e n t o sp e litĂ azi il o. di s pa zi fon
è atore v r e s s dell'o orie cchio 'o L traiett . e F r . i M egu elle a ins o t t fini d e n r t o s c o c dai ta ono di vis c i s t e n u che re p lo coglie a è quel e o v e i t t m for obie a Il tuo . ” i guarda t n a e g h a c “v lui fare rre co u d e a n o a c r e i p d l'o si che dentro i e t r a e viv i d a de stesso z n e o i u r s e p l i es o con n a c i f modi rsi? sposta i, lavor i e i m lo Nei . iente, b B m a . ' C nell re di e ando d n i i c m de cam e può e r zion o a t l a l t a t t spe ins rs i re l' a sposta v i r d e e s h s o anc suo o, ma n r a dal e t z s z 'e e l l l o a d tev i la mu che s e n e r v e i s d i v e ve e forme e L azi ch p . s o i n l r g e ea int te in bas o n a llega r o u t c t u r st e ono o, s ente i n b g e m l'a dis e te al n e estion u m q a t t a l e al dir d ppunto a che a e ì t s t o e c g g so ta, tore di vis o t n spetta u p o l l l e e d a to d o dell vimen t o n e m m i uta ogn di un m a d n sione o s p e s r i r p r co l'im ad ndo a d anti , v a a m d r fo e empr s e r e. esse divers i n o i z a install
li tele deg e l : a r o E anc so la M. F. ttraver a , e v do tica esordi nocroma o m e n ), zzazio (o grigia sensibili a c n a i b erficie pria della sup una pro a t s i u q c o ine a propri l'immag n u , omia ià qui fision o. C'è g s o n i m u nto l ite movime e è il lim h c o l l e a di qu lla la ricerc ione su s s e l f i r bile, la ? del visi ce e buio u l a r t e confin linea di o nei e nascon r e p o e t ues di C. B. - Q n l'idea o c a t n a ni nov ll'unità primi an ione de s i v i d “ na sive creare u entità vi d i e u d a ossia lla stess visiva”, e d o n r e e all'int bili autonom adri visi u q i d a t i trat ni opera. S ondizio c e s r dive he al in due e reale c c u l n i a e, si di autonom ubstrato s n u a d mposti lature di e buio, co v a t n e r t sotto a mi fosforo monocro i e d o e Eran da line pittura. i t a s r e attrav a s ul bianchi ce bianc u l i d e line na bianche, edeva u v i s o al bui afico, il r g bianco; o t o f negativo o balugini sorta di n u a v a a divent ature. L l bianco e v e t n tra le ta ben leggero non era e h c o d l fon va parte de ra face u t t i p dalla foro, coperto to di fos a r t s b u s ire il orta fuoriusc questa s o t n u p va ap tutta la che crea u s o s e inio est inta di balug linea dip a l e r t n ie, me e e superfic eva luc t t e m e o non bra. di bianc nea d'om i l a n u a diventav
M. F. In ins fin tal l a z i o e le “ con n i te Ligh i n t b e su nute i fibr ox” n u per n a : ficie o a fo fil m :c rma OL , un a F (o a rib pDc di vetr a l t a lente al li o cap me TuH ghD a n c D o c e d ng vis i ò i cr sfug i v e c h i i are gen llus te: e si v spe o ede un ri). cch ap in dist i , par r a d finito ors e i on gio do den i. È co pp tro un d i am i u sco la en mp com lterio D , o si re p p os ulte ass izio rior zione o ne e dim viag della e l ens luce a gio io e st d ? U ran ne pe e ntro n ian u te? rce:v n a m a ulD pla C. B. sp e r i Mi int er me ma n t a essa teri mo a z li cer lto co d , oltre i o n e la i a c ed lla o altr creare n i i m sin fibra ple ate o e : r xigl g rial ass i co ie tra ca ligh , s m upe Dng e ac essa rfic fi illus ciai i OL lm) o oria F (op e che me l e n sd D te l su opp cal a li pe lum n ian ea in r o di l inte escen fi c i u ce D, el res e eH san par un D D r c so l o op ola rme m er lo qua i sp nt le lli mu c'è la metro essore e ov de l ntro di alle e fro uce. Q nt L al uan d o ben ight b almen ci s te e l' o x i , op ri ma ba era in si può speHo ve og sta po ni s der chi l o e u c sp o a cam en stam parte bia D me , , neg t r i ento and la geo d e i o me per tuH tria cez si alla o sv vi i on s i a t r a e di u sta. La nisce na s que form nostr st'e f o r m a a a ffeH din o in a H r staDca am ica. av un ers a p erc o ezio ne
Le geometrie di luce (luce fredda, lineare, cristallizzata) di Carlo Bernardini (Viterbo, 1966) interagiscono letteralmente con lo spazio preesistente, con la sua struttura e la sua storia. Le fibre ottiche che egli impiega danno vita ad una architettura potenziale, alternativa, che accende di interminabili vibrazioni il silenzio del vuoto: sono linee di tensione verso l'ignoto, esili presenze che trascinano nella loro ansia d'infinito quanto più spazio possibile. Non sono usate come riflettori o come “illuminazioni di quinta”, per esaltare le apparizioni o movimentare uno spazio chiuso alla maniera del Bernini. Quelle di Bernardini sono strumenti di costruzione, non di teatro. Esse trasformano in opera lo spazio stesso: lo coinvolgono, lo ripensano, lo trasfigurano, ne superano perfino i limiti. Così la loro severità formale dà la sensazione di modificarsi in stretta relazione con lo sguardo dello spettatore e di assumere sempre una posizione diversa a seconda degli spostamenti del suo sguardo. La conseguenza è che lo spazio si fa fluido, aperto, molteplice e che la medesima struttura lineare finisce per dilatare l'intero campo visivo.
Matilde Ferrarin Laureata in Storia dell’Arte Verona, Italia matilde.ferrarin@gmail.com
Descubriendo
Bulgaria una sorpresa en la Europa del este
Con increíbles paisajes de montaña, excelentes playas bañadas por el Mar Negro, numerosas ciudades históricas y una red de espectaculares monasterios, Bulgaria cuenta con una magnífica oferta de atracciones a lo largo y ancho de todo el país. Pero, incluso para muchos viajeros experimentados, Bulgaria no aparece marcada en su lista de destinos visitados, y pocos serán los que conozcan las maravillas que esconde su territorio, a pesar de ser uno de los mejores destinos que podamos encontrar en el continente europeo. Y es que, por encima de cualquier cosa, Bulgaria es tierra de aventuras, donde gran parte de su atractivo reside en su desconocimiento, favoreciendo que viajemos con muy pocas ideas preconcebidas, logrando ser sorprendidos gratamente. El país, con poco más de siete millones de habitantes, ocupa parte de la mitad oriental de la Península Balcánica y, aunque es pequeño en extensión, está singularmente dotado por la naturaleza. Cruce de pueblos y destinos, Bulgaria ofrece al visitante valiosos vestigios de las más remotas civilizaciones y culturas europeas, desde tracios, griegos y romanos, a bizantinos, turcos y soviéticos, lo que hace que no carezca de un rico patrimonio y una extraordinaria historia, tal y como demuestran sus más de
200 museos y 160 monasterios, su decena de sitios declarados Patrimonio de la Humanidad por la UNESCO, su rico folklore o, incluso, una gastronomía de gran personalidad. Pero, además de su fascinante historia y su magnífico patrimonio, Bulgaria alberga otro gran secreto: ser el mayor productor mundial de aceite de rosa. Y para celebrar esta distinción, el país acoge un festival anual dedicado a las rosas de Kazanlak durante la temporada de cosecha, que atrae a grandes multitudes
locales para ver los interminables campos floridos y a sus habitantes desfilando con los tradicionales trajes rojos y blancos, justo antes de coronar a la Reina de la Rosa en un alarde de gran vistosidad y alegre ambiente que festeja la eclosión de la hermosa flor convertida en todo un símbolo del país búlgaro.
Y
es que con todos estos atractivos, el país balcánico difícilmente podrá dejar indiferente a nadie, siendo culpa, en buena medida, de su gente. Aún con un idioma complicado y un alfabeto extraño, el cirílico, y siendo un país donde muy poca gente habla una lengua extranjera, en Bulgaria no será difícil hacerse entender, pues casi todos los que se crucen en el camino estarán decididos a ayudar, siendo la amabilidad y la hospitalidad, como en pocos lugares, una de las principales señas de identidad de sus habitantes. Y
si a todo ello le añadimos que se trata de uno de los países más económicos de Europa, y en el que no se conoce, por el momento, lo que es el turismo de masas, hacen que podamos decir que estamos ante un destino fuera de lo común, una joya desconocida alejada de las rutas turísticas habituales y una gran secreto del viejo continente aún por descubrir. Entre tantas virtudes, Sofía, considerada la tercera ciudad europea más antigua, aparece como su resplandeciente capital. Situada en el occidente del país, a las faldas d e l m o n t e Vi t o s h a , h a conseguido un equilibrio de
fusión entre lo viejo y lo moderno, que permite encontrarnos las ruinas de la antigua Serdika romana conviviendo con las inmensas moles construidas en el reciente pasado soviético. Su principal monumento es, en cualquier caso, la Catedral de Alejandro Nevski, una espectacular construcción formada por un conjunto de cúpulas doradas que fue levantada para conmemorar la ayuda militar de Rusia en la guerra de liberación de 1877-78, y cuyo interior es uno de los más increíbles lugares que el viajero podrá encontrar a lo largo de todo el globo terráqueo.
A poco más de cien kilómetros de la capital, el Monasterio de Rila, fundado en el siglo X por el monje Ivan Rilski, hoy San Juan de Rila, es el centro espiritual del país. Gracias a las generosas aportaciones de los sucesivos reyes búlgaros, el monasterio floreció hasta que las incursiones otomanas lo destruyeron a finales del siglo XV. Reconstruido tiempo después, quedó devastado de nuevo en un pavoroso incendio a mediados del siglo XIX, a partir del cual se reconstruyó para darle el impresionante aspecto que conserva en la actualidad. Pero si su exterior presenta
una armoniosa estructura con un conjunto de cúpulas y arcos decorados con frescos y rayas de colores, el interior fascina con sus magníficos murales de representaciones bíblicas que fueron pintados entre 1840 y 1848 por algunos de los mejores artistas de la época. Además, el anexo Museo del Tesoro contiene parte de la historia del mayor complejo monástico de Bulgaria, con importantes colecciones de monedas, armas, joyas y vestimentas, además de la espectacular Cruz de Rafael en la que fueron tallados con aguja más de mil quinientos personajes, el mayor del
✦ Con un territorio de 110.912 km², Bulgaria se sitúa en el lugar 15.º de Europa por su superficie ✦
tamaño de un grano de arroz, lo que a lo largo de doce años provocó que su creador quedase completamente ciego. En el centro del país, la segunda ciudad en importancia, Plovdiv, resurge de sus ruinas como el principal centro cultural del país de las rosas. Fundada por los griegos en tiempos de Filipo II de Macedonia, acabaría siendo dominada por los romanos, que le dejaron buena parte de su impronta patrimonial actual.
Así, a lo largo de su casco histórico, podemos encontrar desde el estadio romano al odeón, sin olvidarnos de su impresionante teatro romano, uno de los mejores conservados en todo el continente europeo. Además, Plovdiv conserva una importante huella de otro pasado más reciente, el llamado Barrio Vi e j o , f o r m a d o p o r empinadas calles empedradas con hermosas casas de estilo resurgimiento nacional, muchas de ellas construidas por ricos mercaderes a mediados del siglo XIX.
como atestigua su recién inaugurado Museo Regional de Historia que, junto al teatro romano, muestra gran cantidad de objetos que ponen de relieve la importancia que tuvo la ciudad tantos siglos atrás. Pero quizás lo que más sorprenda de Stara Zagora sean las moradas neolíticas mejor conservadas de Europa, gracias a que quedaron congeladas en el tiempo tras el devastador incendio que sufrieron en torno al 5.500 a.C. y que permiten hacernos una idea bastante aproximada de cómo era la vida hace unos ocho mil años.
A pocos kilómetros de la anterior, Stara Zagora se reivindica como el otro gran centro de la cultura romana en Bulgaria, tal y
Ta m b i é n e n l o s alrededores de Plovdiv, el visitante podrá recorrer las boscosas laderas de los montes Ródope que
a l b e rg a n e l s e g u n d o monasterio más importante del país: el Monasterio de Bachkovo. Fundado en el año 1083 por los hermanos Bakouriani, sus magníficos frescos y arquitectura han convertido este extraordinario monasterio en uno de los indispensables a visitar en nuestra ruta por este país de los Balcanes. Herencia medieval del espíritu religioso, dentro de sus paredes se escribieron las obras literarias más renombradas de la época, a la par que un icono de la Virgen María, considerado milagroso, permitía que muchos fieles acudieran a r e z a r a e s t e l u g a r, tradición que todavía se ha mantenido hasta las fechas más presentes.
Más hacia el norte, tras atravesar el Valle de las Rosas, antaño considerado sagrado por albergar las tumbas de numerosos reyes y nobles tracios, Veliko Tarnovo se muestra al visitante como una de las ciudades más interesantes de Bulgaria. De bella arquitectura y abundantes monumentos históricos, su pintoresca situación en la ladera de una montaña permite que sus casitas colgadas se asomen sobre los meandros del río Yantra, provocando una de las postales más sobresalientes del país y evocando a los destellos de su grandeza pretérita pero inolvidable. Y es que esta ciudad fue la capital del reino búlgaro durante más de doscientos años y, posteriormente, en 1879, acogió la sede de la primera asamblea nacional de la Bulgaria libre, hoy reconvertida en uno de sus principales reclamos turísticos visitables. Pero, sin duda alguna, es la fortaleza de Tsarevets la que disfruta del honor de ser el primer monumento de la localidad, ya no sólo por sus impresionantes vistas sobre la ciudad y
por acoger los restos del Palacio Real y la sorprendente Iglesia del Patriarcado del siglo XIII, sino porque su posición estratégica nos cuenta la historia de unas murallas flanqueadas por torres almenadas que hicieron del lugar una plaza fuerte inexpugnable. A las afueras de la ciudad, a poco más de cuatro kilómetros, el pueblo de Arbanasi atesora uno de los mejores exponentes de Bulgaria: la Iglesia de la Natividad, cuyo sencillo exterior del siglo XVII oculta un fantástico interior en el que sus muros y techo abovedado están recubiertos por bonitos murales de santos y escenas bíblicas. También en los alrededores de la antigua capital, el Monasterio de Preobrazhenski o de la Transfiguración, con una decoración exterior única en todo el país, así como la ciudad romana de Nikopolis ad Istrum, fundada por el emperador Trajano, permiten hacernos una idea del esplendor que Bulgaria debió tener en tiempos pretéritos.
Más hacia el este, camino de la costa, es necesario realizar una pausa en Madara para visitar a su famoso jinete, que declarado Patrimonio de la Humanidad, fue labrado en la roca durante el siglo VIII para representar a un rey a caballo, acompañado de un perro de caza, que clava su lanza en un león. Ya en la costa del Mar Negro, Varna, la tercera mayor ciudad búlgara, se abre al visitante como el principal destino de sol y playa. Pero, además de sus famosos resorts turísticos, también sus ruinas romanas y su Catedral de la Asunción bien merecen una parada en el camino. Eso sí, es Nesebar, situada más hacia el sur, la que se lleva toda las distinciones. A menudo llamada la “perla del Mar Negro”, la ciudad está situada en una pequeña isla conectada al continente por una calzada. Originalmente fue un asentamiento tracio, que acabó bajo el dominio de griegos y romanos, seguido por los bizantinos, los cruzados, los otomanos y los reyes de Bulgaria, dejando
todos ellos su impronta en el lugar. Hoy en día, Nesebar es una ciudad-museo única, famosa por sus impresionantes iglesias de la Edad Media, como la espléndida Basílica del Pantocrátor, que con su construcción en piedra y ladrillo y una decoración con incrustaciones de turquesa, conforman el mejor edificio bizantino conservado en el país. Por último, al norte de Sofía, el pueblo de Belogradchik está rodeado por algunas de las formaciones rocosas más impresionantes de Bulgaria. Formadas hace milenios, esta fortaleza natural sirvió de ciudadela para romanos, búlgaros y otomanos. Y a poca distancia, la Cueva de Magura se alza como la más espectacular tanto por sus formaciones de curiosas formas como por sus pinturas rupestres que datan del II milenio a.C., en las que se pueden contemplar representaciones de soles y estrellas, cazadores con arcos, animales varios y escenas rituales relativas a la fertilidad.
Con todo ello, hoy Bulgaria es una muestra todavía visible de la suntuosidad histórica y del pasado ilustre de un país en el que tracios, griegos, romanos, bizantinos o protobúlgaros, entre otros, prodigaron lo mejor de su cultura. Y es que la desconocida Bulgaria, un país sin grandes multitudes ni grandes pretensiones, todavía se siente como una verdadera aventura. Sin duda, un mágico destino aún por descubrir.
Javier González Profesor de Historia Madrid, España javier_glezz@hotmail.com
Flayed Networks
Skin After the Internet in
DONNA HUANCA’S
SCAR CYMBALS
The malleability of the flesh that is encouraged by new technologies is a well-explored concept. Most immediately, we can recall Ryan Trecartin’s movies, where groups of brightly coloured and elaborately costumed actors announce their fluid identities in a frenzied argot. The characters appear in acid-washed make-up and metallic wigs, changing gender and personality as easily as they change their clothes. The body becomes an intuitive extension of the performative gestures of the characters’ personalities, expressed through semiotic equivalence: ‘We might try to interpret a car commercial as a hairdo, an ideology as a designer skin tone, a banking situation as a cheekbone, copyright issues as a jaw line, or maybe an application as a facial agenda.’ The instrumentalising effects of technology are nothing new. In Camera Lucida, Roland Barthes writes about the bodily twists one undergoes, subconsciously or not, when placed in front of the camera lens: ‘once I feel myself observed by the lens, everything changes: I constitute myself in the process of “posing,” I instantaneously make another body for myself, I transform myself in advance into an image.’ There is a disconnect between the interior sense of self and the one produced by the act of being photographed. This slippage has returned with the so-called postInternet.
Brought into general usage through writings by Artie Vierkant, Marisa Olsen and Gene McHugh, the postInternet can be roughly defined as the changing set of social and cultural conditions brought about by the mainstreaming of the Internet. In the age of constant surveillance, screen cultures, and social media, there is a particular emphasis on the treatment of the physical form as it is mediated through digital technologies. Artworks such a s Tr e c a r t i n ’s m o v i e s , Amalia Ulman’s four-month Instagram performance Excellences and Perfections (2014), and Celia Helman’s Chat Random (2014) series of webcam portraits address how the performative and gestural contortions one presents to the camera in the
fabrication of an online presence. Conversely, Hito Stereyel’s How Not to be Seen: A Fucking Didactic Educational .MOV File (2013) meditates on surveillance, resolution, and control, and the tactics of camouflage as resistance to institutional systems of visibility and the policing of identity along the polarities of race, gender, sexuality, class, and politics. Artists like Ed Atkins, Jon Rafman, and Eva and Franco Mattes address the emotional vacuity and mortal failures that result from the dematerialisation of the body through mediation. All of these artists speak to a fear of the body’s fragility, the performative twists that one must undergo as they are inflicted by regimes of p e n e t r a t i n g v i s i b i l i t y,
representative mediation, and authoritarian delimitations. To say the artistic reaction to culture after the internet has been widely pessimistic is restating the obvious. Met with these issues, is the concept of materiality still relevant in the age of digital ubiquity? And, more immediately, within the context of increasingly immaterial, transient, and global regulatory systems that pervade cultural production, is there space for the body to exist on its own (explicitly material) terms? It’s not coincidence that most of the artists I’ve cited primarily work through screen media. Must we be trapped in cliches of the human body made redundant or irrelevant by technology, the process of obsolescence through dematerialisation?
A recent showing in London addresses the place of the body in the age of the digital, and attempt to undo some of these well-trodden issues by returning to the primacy of flesh and skin as the site of experience. Produced for the Zabludowicz Collection’s autumn commission, Donna Huanca’s Scar Cymbals is less explicit about its relationship to current networked connections, but is instead a multisensory reinvestiture of the skin as the surface on which identity is inscribed and as the interface against which we experience the world. Performers wander the space impassively, dressed only in nude-coloured bodysuits, cut with strategic holes, and clad in body paint that recalls
mineral hues: lapis lazuli, amethyst, sulphur, coral. They wander the space of the s t a r k - w h i t e g a l l e r y, navigating a central labyrinth and inhabiting a huge three storey glass building that occupies one wall. A buzzing soundtrack of low-frequency sound vibrates through the space. As one penetrates into the back rooms, we are confronted with sculptures of hanging skin-like materials: strips of latex, leather, plastic, and fake hair are draped in totem-like sculptures. Human-scale, they appear to be bodies turned inside out, or rendered in the ultra-low resolution of their constituent parts. A central totem seems to sense visitors’ movements, and produces an atmospheric
drone of noise rises and falls as one walks around it. Large curtains of clear plastic hang from the ceiling, painted in gestural swirls of ultramarine pigment, and scents of cedar and incense are piped from small boxes along the wall. The multisensory environment, the deliberate movements of the performers, the stillness of the air, the monumentality of the space (the Zabludowicz Collection is housed in a converted Methodist church) - all contribute to an almost spiritual resonance. Rather than prompting thoughts about the ephemerality of existence, however, the show demands that one look at the immediacy of their own physical body.
Unlike the previous works, Huanca isn’t necessarily talking ‘about’ the Internet explicitly. Rather it speaks to the set of physical and immaterial conditions that characterise our understanding of performance, gesture, surface, and interface, and the physical and emotional spaces that facilitate these strategies after the Internet. The performers are given minimal instruction; they respond to their space within the context of the present moment. In their impassive and deliberate movements, they provide a radical undoing of the postInternet conventions of self-presentation: these are not Trecartin’s colourful characters,
with their appeals to the camera for recognition, nor are they the disappearance of the body through mediation or fleeting gesture. Rather, they are a reassertion of the physical form through visceral presence, confronting the audience with a radical authenticity through transparency. F o r Huanca, skin becomes the cladding the enwraps experience and environmental interaction. Rather than the grounded weight of fleshy bodies that rematerialise experience, Huanca seems to address the body’s capability to leave a trace that registers the body’s absence: as the performers wander the space, they leave
imprints and smears from the paint on their bodies, transferring the prosthetic layers onto the glass panels and plastic sheets that fill the space. As the layers accumulate, they become the extended history of bodily gestures, semiotic traces of the body being revealed as the layers of latex paint and makeup are rubbed off. The outer casings of the performers are shed as a mark of their having-been-there, and one wonders if, given enough time, they would be stripped to the bone - the scrape of their skin against the wall becoming a wound that penetrates the body. This peeling-back of the skin is not revelatory:
one room contains a rack of discarded bodysuits, still stained by the pigments that were on their surface but now evacuated of the warm bodies that filed them. They resemble a rack of drying neon leather more than a pile of discarded clothes. If the paint functioned as a decorative cladding, concealing the body beneath colourful layers even as it expressed its tactile mutability, then the impression is that the act of revelation is ultimately one of self deflation: nothing is left of the body, only the thin film that contained it. We are left with sense of absence, that despite the physical presence of the performers they are unable to provide an emotional connection. Despite the demands for intimacy, drawn not only from their physical presence and semi-nudity but also their relentless posing behind glass seductively recalling, among other things, bus-stop advertisements, website banner ads, and Amsterdam’s Red Light district - there is a qualitative failure to touch as they are abstracted to flayed hides and colourful wounds imprinted on the walls. Technology is no longer legible. It is the featureless black box, the inner workings of which we don’t understand. It works, we are told by Apple marketing campaigns, as if through magic. Traditional social and relational exchanges become entangled in these inscrutable machines, ensuring the constant mediation of experience: my exterior personality is filtered through Instagram, my social circle through Facebook, sexual relationships through Tinder, labour through LinkedIn and Uber. We are used to these systems and networks facilitating our day-to-day. They operate below the level of immediate apprehension, Like when one is aware of their leg only when the muscles cramps up, these are operations that are only apparent at the point of their failure: when intimacy and experience return unrecuperated, despite our investment in them through the prostheses of smartphones and browsers. In these alienating conditions, it is no surprise that the relative stability of the body - with all its hair and mass and disgusting secretions, the familiar tactility of the skin’s surface - becomes again the locus of subjective knowledge.
Increasingly, we are sold on the idea of a cyborg existence, of utopian dreams of the boundless potential of technology. Perhaps we need to be reminded that, at least for the moment, we are still limited by our physicality. Like the cramped leg, Huanca’s exhibit makes one viscerally aware of the dead weight that comprises one’s body, and the thinned surface that encases it.
Alec Kerr MA History of Art, University College London London, UK ars.kerr@gmail.com
Torres García
Un moderno en la Arcadia
Construcción arquitectórnica con figuras, 1915.
Joaquín
Escultura, pintura, teoría, constructivismo, futurismo, tradición, modernidad, vanguardia, anacronismo, símbolo, infancia, primitivismo, abstracción, figuración, centro, periferia, identidad, migración, materialidad, rusticidad, reencuentro, conciliación. La complejidad de la obra de Joaquín Torres García (1874 – 1949) pone sobre la mesa conceptos aparentemente tan dispares como estos. Términos de ida y vuelta que interaccionan, que se repelen y que vuelven a unirse con una fuerza magnética. La obra de Joaquín Torres García nos hace replantear eternos debates ¿abstracción o figuración? ¿Tradición o modernidad? Diatribas que caen en el sinsentido cuando interpretamos, por ejemplo, una de sus estructuras en blanco y negro. La obra de Torres García se desarrolla en un triángulo cuyos vértices vienen marcados por la temporalidad, la geografía y la forma. El Museo Picasso Málaga ha inaugurado una retrospectiva dedicada al artista latinoamericano, la meta de
un recorrido de tres etapas que partió hace más de un año d e s d e N u e v a Yo r k . S u curador, Luis Pérez-Oramas, nos propone un viaje por los grandes dilemas en Torres García mediante una amplia selección de obras que arrancan desde la Barcelona de principios del 1900 y que culmina en una Montevideo portuaria, tradicional y asfixiada en la búsqueda de su propia identidad. Al igual que Torres García, su obra migra por una cartografía atemporal que baila con el anacronismo, permeable y al mismo tiempo impermeable a la contemporaneidad, porque como justifica el propio comisario “las formas son nómadas y viven solo cuando migran”. El ingreso a la exposición lo preside una obra que irradia el más inmaculado de los
clasicismos, el fresco del muro meridional de Mon Rèpos, donde se representa La Tierra, Eneas y Pan, 1914, flanqueada por dos pequeñas construcciones arquitectónicas en madera realizadas en torno a ese año. El hecho de que estas dos obras nos recuerden el lararium familiar de una domus romana no es de extrañar, porque el clasicismo tan evidente en estos años nunca se escapará de su obra.
Lararium de Boscoreale, Museo Walters de Baltimore
© Museo Picasso Málaga
Desde ese momento, un barrido visual nos transporta al ambiente cabaretero barcelonés dels Quatre Gats, donde un Torres García se retrata a sí mismo como burgués de pipa y bombín. Por estos años Pablo Picasso compartía los mismos ambientes y compañías que el artista uruguayo, Barcelona era una ciudad moderna, cosmopolita, con un puerto muy activo, un lugar donde se estaba construyendo un gran templo cristiano que desafiaba cualquier historicismo. Torres García conoció la ciudad moderna en Barcelona, y fue allí precisamente donde queda fascinado por el skyline de altas chimeneas de ladrillo rojo y el estrepitoso ruido de la grúa y el engranaje, visiones que abordará desde perspectivas bien distintas en Nueva York y París. Estos paisajes urbanos se caracterizan por un cierto
Torres García, Calle de Nueva York, 1920.
horror vacui, composiciones de vertiginosa verticalidad donde las líneas esbozan elementos que podemos identificar como escaleras, tejados, grúas, números, ruedas, tranvías, letras y relojes. Mosaicos urbanos como una suerte de abstracción híbrida, antesala del constructivismo que veremos unos años más adelante. Todo se cubre con una pátina salvaje de tierra y metal que nos recuerda al cromatismo grecorromano. Durante los dos primeros años de la década de los 20, Torres García vive en Nueva York, una ciudad cuyo ritmo le deslumbra, cuya vida él mismo imaginaba “múltiple, gigante, maquinística, dinámica y libre”. En un primer momento la metrópoli le infunde fascinación y energía, pero más tarde experimentará desencanto y horror. En la exposición se dedica un espacio relevante a
este breve intervalo de tiempo en el que Torres García comienza a realizar los j u g u e t e s A l a d d i n To y s , proyecto que quedará relegado a un segundo plano por la importancia que le cede a unos paisajes urbanos distintos, espacios donde se densifica la presencia de letras y números, calles en la que las gentes son parte del engranaje del consumismo, de la publicidad y de vitrinas repletas de información sobre la mejor oferta.
Torres García, Tete Abstraite, 1929
Para Torres García no existe oposición entre figuración y abstracción ya que todo se basa en la construcción: construye la paradójica Tête abstraite en 1929, que nos recuerdan a la que hizo Kandinsky en ese mismo año, Quatre figures rouges avec paysage, o Dos figuras misteriosas. En este momento también realiza numerosas composiciones sobre madera, donde se ensamblan planos de color rojo, blanco, azul o amarillo y donde comienzan a aparecer pequeñas figuras esquemáticas, que nos dan una sensación de profundidad entre una forma y otra.
Tras algunos vaivenes por Italia el artista se traslada a París en 1926, rozaba la cincuentena y al fin creyó encontrar y encontró el lugar exacto en el momento justo. Allí se acercará al ambiente constructivista, trabajará con Mondrian, Arp, Va n t o n g e r l o o , L é g e r , Kandinsky, Málevich y Russolo entre otros grandes representantes de los movimientos geométricos de vanguardia. Este momento
culminará en 1930 con la inauguración en la Galerie 23 de la Première Exposition internationale du Groupe Cercle et Carré. Pero Torres García no se siente cómodo en la abstracción y el neoplasticismo puro, las formas que articulan sus lienzos y tablas gozan de una materialidad y rusticidad sin parangón, jugando con la paleta de colores primarios de un modo sucio y sombrío.
Kandinsky, Empor, 1929
© Museo Picasso Málaga
Sorprendentemente es en París donde Torres García se mira en el espejo de América Latina, la identidad de su memoria es continental: asume formas y lenguajes que engloban la totalidad del pueblo latinoamericano y no necesariamente en las raíces de una nación (Uruguay). Así Torres García excava en la estratigrafía de Sudamérica incorporando formas de la cultura indígena a partir del desarrollo nostálgico y evocador al que se somete cuando se enfrenta a los materiales de arqueología prehispánica de los grandes museos parisinos. Sus composiciones se tornan t o t é m i c a s , c a rg a d a s d e símbolos, es el momento en el que la obra del artista encuentra una identidad, se
define y llega a calar en el imaginario artístico colectivo. Joaquín Torres García vivió la modernidad barcelonesa, neoyorkina y parisina, pero para él la modernidad no consistía en crear un tiempo nuevo, sino identificar en el presente la manifestación de una temporalidad sedimental, porque las herencias culturales y por ende, artísticas, son fruto de la historia, una historia lineal y diacrónica, consecutiva siglo tras siglo, año tras año, segundo tras segundo. El imaginario artístico colectivo se genera estratigráficamente, sólo a través de este proceso podremos hacer uso de una memoria artística que nos transporte en el tiempo, que
produzca resultados complejos de interacción, sólo a través de la visión sedimentaria de la experiencia podemos utilizar el anacronismo. Y en ese sentido, además de los trabajos de Aby Warburg, Walter Benjamin o Carl Jung, Joaquín Torres García nos propone su propio Atlas Mnemosine, con el título Structures, realizado en 1932. Un álbum de recortes donde se yuxtaponen imágenes que interaccionan, diálogos imposibles hechos posibles, fotogramas libres que van adelante y hacia atrás en el eje cronológico, un ensayo gráfico donde un barco y el interior de una catedral gótica pueden situarse en una misma página.
Este tratado sobre la temporalidad no sólo se puede ver por primera vez en la exposición, sino que además podemos consultarlo mediante un dispositivo táctil que nos permite pasar sus páginas y desgranar las más sorprendentes analogías. La muestra continúa con una espectacular sala dedicada a sus pinturas en blanco y negro, obras que se corresponden con sus primeros años en Montevideo tras haber abandonado París y Madrid. Estas composiciones podrían recordarnos al constructivismo de sus contemporáneos de Cercle et Carré pero en este caso gozan del arraigo indoamericano de los pétreos muros de la ancestral ciudad preincaica de Tiahuanaco (Bolivia), o de la fortaleza ceremonial Inca de Sacsayhuamán (Perú).
© Museo Picasso Málaga
Fortaleza Inca de Sacsahuaman
Torres García, Pez, 1942
El debate torresgarciano se vuelve aún más complejo cuando llegamos a este momento de su vida, Joaquín Torres García tras más de cuarenta años en el extranjero intenta promover el arte moderno en Uruguay llevando a cabo una serie de iniciativas intelectuales que abarcan desde conferencias o apertura de estudios hasta la realización de exposiciones. El asunto es mucho más profundo, se trataba de la búsqueda de una identidad artística, de asociar a un país una estética. Se consiguió, el lenguaje se popularizó y democratizó, tomó símbolos como el ancla, el sol o incluso el mapa de América invertida como emblemas de un país, un colorido imaginario que hoy está realmente asumido por un pueblo, un pez que al igual que la paloma picassiana se alza como verdadero icono de su identidad cultural. La impronta torresgarciana fue y sigue siendo tan intensa en el arte contemporáneo uruguayo que imposibilita el parricidio de Torres, huir de él. Entre los principales logros de esta exposición no solo está el hecho de inaugurar ese puente artístico entre Latinoamérica y Málaga sino hacer legible la complejidad de un personaje huidizo, inclasificable y migrante.
Ramón Melero Guirado Historiador del Arte Cazorla, Jaén, España rmeleroguirado@gmail.com
Ai Weiwei Libero ∾
Lo scorso 23 settembre si finalmente è aperta presso Palazzo Strozzi a Firenze la prima grande retrospettiva italiana dedicata alla poliedrica figura di Ai Weiwei, architetto, artista, blogger e attivista politico. La mostra intitolata AI WEIWEI LIBERO curata da Arturo Galansino, nuovo direttore della Fondazione Palazzo Strozzi, che rimarrà aperta fino al 22 gennaio, si era già fatta annunciare nei giorni antecedenti l’inaugurazione attraverso la presenza sulla facciata del palazzo quattrocentesco, dell’installazione site specific Reframe. L’opera Refreme come indica il titolo si pone come nuova cornice del palazzo, adattandosi
perfettamente alla teoria di bifore della facciata, sottolineando più che comprendo le simmetrie e le architetture quattrocentesche . L’opera fornisce un nuovo punto di vista sulle cose, questa è frutto del forte interesse manifestato da Ai weiwei negli ultimi sei mesi durante i suoi viaggi in Grecia e nel Medio oriente riguardo al tema dei migranti, e diviene simbolo identitario dell’umanità e dei suoi diritti. La migrazione come problema contemporaneo che sconvolge l’Europa viene affrontato dall’artista attraverso quest’opera che si presenta fin da una prima occhiata come una punto di salvataggio che si pone la
duplice finalità di essere grido di allarme e invito alla ricerca di una soluzione. La mostra si apre nel cortile del palazzo, con l’opera R e f re c t i o n , r e a l i z z a t a dall’artista in occasione della mostra presso la prigione di Alcatraz nel 2014. L’opera realizzata da pannelli solari, utilizzati in Tibet dalla popolazione per cucinare, rappresenta una grande ala metallica che a causa del suo enorme peso non si può vibrare in aria. Questa occupa la parte centrale del cortile, divenendo simbolo della privazione della libertà.
Ad accentuare tale significato vi è la chiusura totale del cortile che rimanda a un’ideale cella di prigionia come quella ricostruita dall’artista all’interno dell’ascensore del palazzo, in ricordo dell’ambiente della segregazione da lui subita per 81 giorni. Proseguendo al piano superiore la prima sala ci accoglie con una sorta di arco trionfale realizzato in biciclette. L’opera intitolata Stacked è un installazione site-specific, che vede assemblate 950 biciclette della famosa marca Forever.
L’ i n s t a l l a z i o n e d i c h i a r a discendenza duchampiana si carica di numerosi significati; infatti le biciclette Forever fra le più utilizzate in Cina negli anni della gioventù dell’artista divengono simbolo di libertà, come mezzo di spostamento a buon mercato, ma allo stesso tempo rimandano all’idea di staticità a causa dell’assenza delle parti mobili.
L’artista attraverso l’uso di materiali del passato cinese, che stanno inevitabilmente perdendo il loro significato, come in questo caso le biciclette, denuncia il tema dell’inquinamento effetto del radicale cambiamento sociale ed economico della Cina degli ultimi decenni. La seconda sala è dedicata alle opere r ealizzate a s eg u ito d el terremoto della regione cinese dello Si Ciuan del 12/05/2008 che portò alla morte di circa settantamila persone in grande maggioranza bambini e studenti.
Il crollo delle scuole di nuova costruzione a causa di utilizzo di materiali scadenti, porta Ai weiwei, a seguito di una lunga e attenta indagine, alla denuncia della responsabilità dello stato cinese nella tragedia, contrapponendosi ad esso e diventando un dissidente politico.
L’opera Snake bag è composta da 360 zainetti che formano un serpente appeso alle pareti, questo rimanda ai sopralluoghi che l’artista fece nei luoghi del terremoto dove fra le macerie trovò un numero enorme di zainetti, quaderni e libri degli studenti rimasti vittime.
Egli realizza questo enorme serpente dalla presenza inquietante che diviene il simbolo della censura e del tentativo di insabbiamento compiuto dallo stato cinese riguardo alle proprie responsabilità verso le vittime del terremoto. L’altra opera presente nella sala è Rebar and Case ed è costituita da contenitori realizzati nel pregiato legno huali che alludono alle piccole bare dei bambini vittime del terremoto, al loro interno e sopra di esse, sono presenti delle riproduzioni di marmo di tondini di ferro piegati, rinvenuti fra le macerie. Le riproduzioni realizzate in un materiale alto e nobile per eccellenza come il marmo hanno lo scopo di monumentalizzare questi oggetti d’uso, che a causa del loro uso insufficiente hanno portato al crollo degli edifici. La terza sala dedicata al legno, ci accoglie con una carta da parati dorata decorata da motivi kitch, che rimandano alla vita e al lavoro di Ai weiwei. Le telecamere di sorveglianza con cui il governo cinese spia l’artista nel suo studio di Pechino, le manette che rimandano alla sua prigionia, l’uccellino di simbolo di twitter, mezzo di comunicazione prediletto dall’artista e infine uno strano animale che sembra un lama e che attraverso complicati giochi di pronuncia cinese, diviene la parola chiave sul web per indicare la censura dello Stato cinese. Sono dislocate nella sala diverse opere della serie del mobilio impossibile, mobili non più utilizzabili nella sua originale funzione d’uso ma modificati per diventare altro. Questa serie composta per esempio dall’opera Grapes, composta da un agglomerato di 34 sgabelli uniti fra loro senza l’ausilio di colla o chiodi ma soltanto attraverso l’incastro o l’opera Table with two legs on the wall, sono un chiaro riferimento al progresso cinese che ha sostituito oggetti della tradizione artigianale, simbolo della Cina preindustriale con oggetti nuovi realizzati in serie con materiali plastici. Questi oggetti esemplificano la situazione cinese in bilico fra passato e presente come l’opera Map of china, realizzato con scarti del resistentissimo legno-ferro, rinvenuti da antichi templi della dinastia Ching, che assume un chiaro riferimento politico, rappresentando la Cina secondo quella che è l’idea dei politici e non la reale visione di essa, comprendendo anche l’isola di Taiwan.
La sala successiva è una delle sale centrali dell’esposizione dell’artista, dedicata ai ritratti dei dissidenti fiorentini realizzati con mattoncini colorati e a due sculture. Questa sala è la rilettura dell’artista del Rinascimento Italiano, grande fonte di ispirazione e parte integrante della sua formazione artistica, che tuttavia diviene spunto per affrontare i temi a lui cari come la contrapposizione fra cultura alta e bassa, fra tecnologia e natura. Così le sculture dalle forme geometriche che hanno come riferimento i disegni leonardiani realizzati per il trattato “De divina proporzione” di Luca Pacioli del 1497, sono state ispirate dai giochi dei numerosissimi gatti che Ai weiwei ha nel suo studio di Pechino e i ritratti di fiorentini illustri riproduzioni di opere d’arte, diventano immagini ludiche e pop. Fra le grandi sale dell’esposizioni sono presenti anche ambienti più raccolti e intimi come le due piccole salette che ospitano piccoli oggetti realizzati con materiali preziosi ma dai forti riferimenti politici come il ruyi, antico talismano realizzato in finissima porcellana, costituito da riproduzioni di organi interni di un pollo, simbolo di denuncia del mercato di organi umani di cui la Cina è sede principale, le manette di giada e le grucce di cristallo in riferimento alla sua prigionia. Sono inoltre presenti una serie di opere in porcellana realizzate per volere dell’artista presso la cittadina di Jingdezhen specializzata nella produzione tradizionale in tale tecnica, dove sono rappresentate riproduzioni di resti di ossa in ricordo delle vittime dei campi di lavoro dell’epoca della Rivoluzione Culturale oppure le trentadue tessere di corrispondenti alle regioni cinesi sulle quali si ripete il motto Free Speech in contrapposizione alla censura. Nella sala dei vasi è presente l’opera Han Dinasty vases with Auto paint, dove una serie di vasi antichissimi di 2000 anni sono stati immersi nel latte di vernice metallizzata, tipiche delle grandi e lussuose macchine divenute status simbol dei nuovi ricchi cinesi, divenendo oggetti dal gusto pop simili a quelli di produzione di massa.
Sulla parete di fondo della sala è invece riproposto un trittico, realizzato anche in questo caso tramite mattoncini di Lego, una celebre performance che l’artista realizzò negli anni novanta. L’ a r t i s t a v e s t i t o c o n i tradizionali abiti dei lavoratori e lo sguardo impassibile distrugge volutamente un antico vaso cinese. La distruzione volontaria del valore culturale vuole dimostrare che la modernizzazione può essere un processo doloroso e violento, denunciando il disinteresse dimostrato dallo Stato cinese di fronte all’arte e alla tradizione del paese in funzione di una rapida e r e m u n e r a t i v a industrializzazione. Proseguendo nella esposizione si ritrovano quelli che sono i temi centrali del lavoro di Ai We i w e i ; n u o v a m e n t e attraverso opere come i due tappeti Blossom e Iron glass, rispettivamente un tappeto di fiori di porcellana e un prato
realizzato da fili d’erba di ghisa, l’artista attraverso la contrapposizione fra il finissimo artigianato cinese simbolo della tradizione, e l’ideale moderno di produzione di massa, di scarsissima qualità e dai costi bassissimi, per la quale la Cina è divenuta celebre in tutto il mondo, torna a denunciare la censura e l’oppressione dello Stato, proponendo un’ideale di libertà e resistenza. A tale proposito, la famosa serie Study Propective è una dei massimi esempi di contrapposizione dell’artista cinese al sistema e al potere, egli propone infatti una serie di quaranta fotografie in cui viene rappresentato il suo dito medio di fronte a importanti luoghi simbolo del mondo. In occasione della mostra fiorentina l’artista ha realizzato una nuova foto che raffigura l’atto di sfida di fronte al Palazzo Strozzi e riprodotto in grande scala sulla facciata del Mercato centrale cittadino.
L’ e s p o s i z i o n e a l p i a n o superiore si conclude infine con una sala dedicata alla vicenda riguardante lo studio a Malu Town. Nel 2008 lo Stato cinese con la volontà di creare un distretto artistico chiede all’artista di realizzare il suo studio presso la località rurale ma a causa del suo ruolo politico, a pochi giorni dall’inaugurazione gli viene recapitato un ordine di demolizione. L’artista decide comunque di organizzare un party per festeggiare il completamento dello studio, e nonostante gli venga impedito di parteciparvi, l’evento ha seguito e in tale occasione vengono serviti agli ottocento partecipanti, granchi di fiume, la cui pronuncia è molto simile alla parola “armonia” famoso slogan utilizzato dal potere cinese. In ricordo di questo evento l’artista ha realizzato per la mostra un’opera composta da millecinquecento granchi in porcellana. Altro riferimento
alla vicenda è dato dalla realizzazione dell’opera Souvenir da Shangai, infatti durante la demolizione dello studio Ai weiwei riesce a recuperare parti della macerie che assembla insieme a un letto di palisandro della dinastia Ching. A questo punto, terminato il piano nobile, l’esposizione si sposta negli spazi sottostanti del palazzo presso la Strozzina. Questa parte è dedicata ad un excursus cronologico, in larga parte realizzato attraverso le opere fotografiche e ai documentari che l’artista ha realizzato nel corso della sua carriera artistica. Si inizia quindi dalle fotografiche degli anni di New York per proseguire con i documentari sul terremoto dello Si Ciuan, sul suo studio di Fake 258 a Pechino, alla famosa serie di fotografie leg Gun e al documentario relativo alla sua prigionia.
A mio parere la mostra Ai weiwei libero, primo esperimento della nuova direzione della Fondazione Palazzo Strozzi si può considerare più che egregiamente riuscito. L’unificazione per la prima volta degli spazi del palazzo e la messa a nudo della struttura originale
quattrocentesca, permettono di riscoprire una sede espositiva davvero unica; inoltre la cartellonistica, gli apparati didascalici e l’utilizzo di video/ documentari rendono la visione e la comprensione della visita accessibile e godibile a tutti, addetti ai lavori e non. Mi
auguro, quindi che questo sia solo il preludio di una riscoperta del arte contemporanea in una città come Firenze, che per troppo tempo è rimasta legata all’arte rinascimentale senza aprirsi alle nuove possibilità che l’arte dei nostri giorni offre.
Alessia Nardi Laureata in Arti Visive Firenze, Italia nardi.alessia.1989@gmail.com
Also experiencing the Stendhal syndrome and a reverse writer’s block? ✦
Become a contributor! ✦ If you are interested please contact us at hyperkulturemia fanzine@gmail.com
Good luck, enjoy and thanks!
Coordinated by Ramón Melero Guirado Designed and edited by Matilde Ferrarin