9
JAN-FEB-MAR 2017
2017
JAN-FEB-MAR
Hyperkulturemia is a meeting point, a platform where young people from around the world can speak their mind. It is a common space in which you share different cultures, where you learn about places, where you discover artists, where you reformulate questions, where you change perspectives. A medium open to everybody, free for everybody.
come in and sit, talk, share, change, learn and think
https://issuu.com/hyperkulturemiafanzine
INTERVISTA AD ALEX PINNA Matilde Ferrarin Digital and social media manager Venezia, Italia
EL ABRAZO DEL AZUL. DE GIOTTO A CHAGAL Gabriela Giménez Profesional de la Cultura Málaga, España
ALL ART HAS BEEN CONTEMPORARY. TEMPORALIDADES Y ANACRONISMOS Ramon Melero Historiador del Arte Cazorla, Jaén, España
LA FINE DEL MONDO Alessia Nardi Laureata in Arti Visive Firenze, Italia
BEYOND MATERIALIZATION, TOWARDS A DEMATERIALIZED DESIGN Katia Porro M.A. Candidate in the History of Design and Curatorial Studies Program at Parsons Paris The New School West Palm Beach, Florida ARTSEVILLA: HACIA UN MODELO PARTICIPATIVO E INTEGRADOR EN EL SISTEMA GLOBAL DEL ARTE Irene Villén Licenciada en Historia del Arte. Gestora Cultural Sevilla, España
JAN- FEB-MAR 2017
Ramon Melero Historiador del Arte Cazorla, Jaén, España Gabriela Giménez Profesional de la Cultura Málaga, España
Katia Porro M.A. Candidate in the History of Design and Curatorial Studies Program at Parsons Paris The New School West Palm Beach, Florida
Irene Villén Licenciada en Historia del Arte. Gestora Cultural Sevilla, España
Alessia Nardi Laureata in Arti Visive Firenze, Italia
Matilde Ferrarin Digital and social media manager Venezia, Italia
Fotografía realizada durante una de las numerosas visitas que está recibiendo el Templete de Bramante en el complejo de la Real Academia de España en Roma en este último año, ya que después de un largo periodo de limitación de las aperturas al público se ha producido un cambio de política cultural gracias a la llegada de la directora Ángeles Albert, que ha marcado el inicio de una nueva etapa en la gestión del complejo monumental y de una institución con 143 años de historia. Dr. Antonio López García, Arqueólogo y Gestor Cultural en la Real Academia de España en Roma
Have you recently visited an exhibition and would you like to write a review? Or maybe you are interested to share your research with the world? Would you like to publish the interview that you did to that artist? Become a contributor! Hyperkulturemia is looking for new collaborators, If you are interested please contact us at hyperkulturemiafanzine@gmail.com https://issuu.com/hyperkulturemiafanzine
Alex Pinna è nato ad Imperia e vive e lavora a Milano. Ha studiato pittura presso l'Accademia di Belle Arti di Brera e dal 1993 ha preso parte a numerose mostre personali e collettive in Italia e all'estero. Dal 1997 ha sempre partecipato alle piÚ importanti fiere d'arte. Le sue opere fanno parte di collezioni pubbliche e private.
Matilde Ferrarin - Figurine dagli arti esageratamente lunghi, personaggi fragili e inquietanti al tempo stesso. Esserini sempre in bilico tra ironia e dramma, tra ripiegamento e dinamismo. Si potrebbe definire la tua “scultura” più come la ricerca di uno stato che di una forma? Alex Pinna – Esattamente. Queste rappresentazioni che faccio non sono la ricerca di una fisicità classica che ormai è definitivamente esaurita e superata nel linguaggio scultoreo, bensì la “tridimensionalizzazione” di momenti intimi più o meno intensi (meglio se meno...). M. F. - I tuoi “piccoli eroi” sono appena abbozzati: sono poco più che linee che si insinuano ballando nello spazio. Eppure, nella loro angustia, sembrano letteralmente divorare lo stesso spazio fisico, ribaltandolo e sospendendolo. È un tentativo di dar vita anche al vuoto, all'assenza? A. P. - Sì, l'opera tridimensionale ha soprattutto questa potenzialità che mi affascina, cercare di modificare lo spazio inserendovi un catalizzatore di senso che giochi non tanto sulle dimensioni quanto sull'energia data dal contrasto tra pieno e vuoto. È importante ridefinire il senso di ciò che è pieno, sottolineando il vuoto che lo completa, oppure inserendo un punto che diventa focale come nella prospettiva quattrocentesca.
M. F. - Eliminando fino allo stremo i dati anatomici, intendi far affiorare il non conosciuto e il non visibile dell'essere, dare una paradossale fisicità anche a ciò che è nascosto o potenziale? A. P. - Ormai il nostro corpo non ha più una connotazione precisa, ci siamo abituati a riduzioni, cancellature, somme, correzioni di ogni genere, per cui il togliere dati anatomici non può che portare verso un canone ideale. Se non hai il naso non si può dire se questo sia bello o brutto, a meno che tu non sia o voglia essere Pinocchio. M. F. - Eppure queste “creature” (intese proprio in senso etimologico di “presenze in embrione”) comunicano storie di voli, di cadute, di tensioni. Palesano un'intenzione esibitiva, attoriale, recitativa. Danno vita a piccole scene magiche. Ma cosa vogliono narrare oltre la loro perdizione e il loro smarrimento? A. P. - Sono specchi innanzitutto di me e poi di chi li guarda. Ad esempio l'equilibrista senza braccia, venti anni fa mi sembrava quasi paradossale, mentre ora più invecchio e più mi assomiglia, il gioco di equilibrio diventa sempre più difficile e la possibilità di lasciarsi cadere appare sempre più eventuale. M. F. - A volte sembrano sviluppare un racconto che esse portano dentro di sé e relazionarsi con il mondo attraverso la loro chiusa interiorità. Riducendole a simulacri scarniti, a frammenti volatili, vuoi rifarti agli archetipi, a ciò che è ancestrale, mitologico, favolistico? A. P. - Ho scelto di lavorare con la fisicità umana anche per non creare barriere con un pubblico più vasto ed eterogeneo possibile, questo mi è costato molto con un certo tipo di critica, ma ho avuto bambini che abbracciavano le mie sculture nelle fiere. Direi che nel computo dareavere sono decisamente a debito.
M. F. - Il loro essere sospese in una sorta di dimensione senza luogo e senza tempo non li porta ad essere entità metafisiche, enigmi visivi, indizi di ignoto? A. P. - Per assurdo mi sembra che abbiano più forza nel momento della non azione, quasi come se la pigrizia, il lento dondolio di una gamba potesse acquisire in un periodo frenetico come il nostro, una sorta di ipercontenuto. Fermarmi diventa l'unico modo per prendere atto di una corsa (soprattutto mentale) che ormai è per me, soltanto fine a se stessa. Da fermo riesco a pensare ad altre strade possibili da percorrere, nel silenzio trovo stimoli per ascoltare dei nuovi suoni. M. F. - Usi molteplici materiali: il bronzo, il ferro, la corda, il vetro, l'alluminio. Lo fai per sfuggire ad un codice linguistico unico o per cogliere un mondo che si dilata fino a diventare inafferrabile? A. P. - Per due motivi principalmente. Per non annoiarmi ripetendomi e quindi annoiare e per cercare di trovare in ogni materiale o in ogni linguaggio il punto critico più radicale, fino a che il vetraio o il marmista non mi dicono che non ha senso che sia così fragile o così pesante. Ma proprio in quel momento posso entrare in un territorio inesplorato o quasi. Fino a quando non succederà, non sono così sicuro che non si deva smettere di tirare la corda.
Matilde Ferrarin Digital and social media manager Venezia, Italia. matilde.ferraringmail.com
El abrazo del azul
de Giotto a Chagall
1. Amantes azules, 1914. Óleo sobre papel montado en cartón.
Marc Chagall pintó los Amantes azules en 1914 en París, antes de volver a Rusia y que la Gran Guerra y la Revolución lo atraparan allí hasta 1922. Es una de las pinturas, tan comunes a su imaginario de los años 1910, que representan parejas de enamorados. Él era un joven judío, de Vítebsk –actual Bielorrusia-, que estudiaba pintura en el taller de Lev Bakst en San Petersburgo entre 1909 y 1910 cuando conoció a Bella Rosenfeld, también judía y de Vítebsk, quien estudiaba Literatura. Desde que se conocieron, les empezó a unir un profundo e incondicional amor que quedó reflejado en los escritos autobiográficos de ambos, Mi vida, y Las luces iluminadas. Al encontrar los Amantes azules en la exposición que ha acogido la delegación del Museo Ruso en Málaga, de verano a invierno de este año, encontré una pintura que me sorprendió por la intensidad de su color azul [imagen 1]. No me pareció que se tratara de una gradación de azul usual en la pintura contemporánea. Se trataba de un azul y una pintura que eran en algo radicalmente primitivos.
2. Capilla Scrovegni, Padua, Giotto. 1305.
3. Abrazo ante la puerta dorada, Capilla Scrovegni. Giotto. 1305.
Se relacionaban directamente con los ejemplos más clásicos de azules de ultramar que ofrece el archivo de la Historia del Arte: las páginas miniadas de libros medievales como las Ricas horas del Duque de Berry, de los Hermanos Limbourg, o el incomparable azul de lapislázuli que cubre la bóveda de la Capilla Scrovegni que Giotto decora en Padua [imagen 2]. Pero más allá del azul, que es el que primero nos atrae hacia la imagen, hay algo en la representación de las dos figuras humanas que también nos traslada al primitivismo. Parecen esquematizadas, se vuelven esenciales, un símbolo. Hay muchas representaciones de besos y abrazos de parejas en la Historia del Arte; éste es el beso de dos personas apartadas de lo terreno, de dos santos casi. ¿Dónde habíamos visto antes este beso? Encontramos nuestro referente visual en la propia Capilla Scrovegni, en la escena del Abrazo ante la puerta dorada que San Joaquín y Santa Ana se dan en el Protoevangelio de Santiago, entre los conocidos como apócrifos [imagen 3].
4. Padre y abuela, Marc Chagall. 1914.
Esta intuición que nos sugiere el simple acercamiento visual nos hace preguntarnos si verdaderamente existe un vínculo consciente de Chagall hacia Giotto y el Trecento. ¿Se puede, en ese caso, entender el uso del azul en ambos con un mismo sentido? En cuanto a la primera pregunta, las primeras consultas a Mi vida, del pintor ruso, sorprenden pues desde la primera página evoca la imagen de infancia de su aldea natal, Vítebsk, que siempre recordó con la misma fascinación y que le parecía comparable a las ciudades de los frescos toscanos. Lo que interesa a Chagall tanto de su recuerdo infantil como de lo que encuentra en los primitivos italianos es el estudio de lo volumétrico. Su memoria es inesperadamente arquitectónica. Chagall evoca “iglesias, vallas, tiendas, sinagogas sencillas y eternas, como los edificios de los frescos de Giotto”. Pero, cabe preguntarse, ¿esta asociación tan intensa de Vítebsk con la pintura del Trecento italiano es también patrimonio de su infancia? ¿Cuándo recibe Chagall esta formación visual en el protoRenacimiento italiano? No parece plausible que los pintores toscanos le acompañaran en su imaginario desde la infancia en una aldea de la Rusia zarista de fines del XIX. Los canales de difusión de imágenes en la Rusia decimonónica eran limitados. Hay constancia de que Chagall vio unas ilustraciones de la revista Niva en la escuela elemental, pero en sus números, sólo hay escenas del paisaje rural ruso y, como contribución europea, algún retrato francés decimonónico de lenguaje ecléctico. Tampoco resulta posible pensar que conoció a los primitivos italianos a través de la colección del Louvre, pese a que, en sus primeros meses en París, la estudia concienzudamente. En los fondos del Louvre no había ningún Piero della Francesca; tan sólo un único Masaccio; y dos atribuciones al taller de Giotto. Una representación muy poco reseñable del arte del Trecento para generar esta educación visual tan arraigada. Es en el entorno cotidiano de Montparnasse, donde Chagall se introduce en la Italia del XIV. En Montparnasse, en el edificio de La Ruche convivió con los vanguardistas que más tarde serían llamados de la “Escuela de París”: Archipenko, Delaunay, Brancusi, Léger, Apollinaire, o Modigliani. Este último resulta ser el instructor en primitivismo italiano en este círculo. Había estudiado arte de 1902 a 1903 entre Venecia y Florencia, tras conocer de cerca el arte de los pintores del Trecento y del primer Quattrocento.
5. Autorretrato, Van Gogh. 1889.
Quienes describieron el interior de su taller parisino se refieren siempre a las reproducciones y a los estudios sobre sus artistas favoritos –Giotto, Cimabue, Simone Martini- que colgaban de las paredes de su habitación. Y no sólo Modigliani; la vanguardia parisina de los años 1910 profesaba un respeto e interés muy serios a las expresiones artísticas del primitivismo. Además de los adeptos al arte negro, al arte íbero, etc., un buen número de artistas estudiaron el primitivismo artístico europeo e italiano. Otro visitante frecuente de Montparnasse precisamente entre 1910 y 1912, el futurista Carlo Carrá, dedicó estudios monográficos a Giotto y Paolo Ucello. La formación de Chagall en el estilo del primer clasicismo italiano se debe a lo que aprendió como parte integrante de aquel hervidero cultural de la vanguardia parisina. Vista la conciencia que Chagall, entonces, tenía de Giotto y otros pintores del periodo, queda preguntarse, ¿en qué sentido utilizaron uno y otro el color azul? Volviendo a sus escritos, Chagall da cuenta de dos usos predominantes del azul en su obra. Uno primero asociado a la melancolía y la tristeza, como es común en general a la vanguardia, por ejemplo, en Picasso. Este primer sentido del azul lo asocia a la imagen de su padre, figura triste e introvertida, que le inspira esta asociación de la tristeza con el color azul [imagen 4]. “Todo me parecía misterioso y triste en mi padre. Imagen inalcanzable. Siempre cansado, preocupado, tan sólo su mirada ofrecía un reflejo suave, de un azul grisáceo. Con su uniforme, grasiento y sucio por el trabajo, (…) regresaba a casa alto y flaco. La noche entraba con él”. Sin embargo, hay una nota positiva en el desánimo, y tiende un puente hacia el otro sentido que da al azul. Dice que “cuando observaba a mi padre debajo de la lámpara, soñaba con cielos y cuerpos celestes, mucho más allá de nuestra calle. Toda la poesía de la vida se condensaba en la tristeza y el silencio de mi padre”. En esta segunda acepción, es donde se reúne con el azul de Giotto, y con una utilización más honda del azul en cuanto a su capacidad para comunicarnos mundos inalcanzables. Hay una referencia similar en los escritos de Van Gogh, quien afirma que, si quisiera pintar a un amigo, a un artista “que sueña grandes sueños”, haría “un fondo con el azul más fuerte que puedo producir (…) y así la cabeza luminosa, sobre el fondo azul opulento, adquiere un efecto místico, como la estrella en el profundo cielo”. Llama la atención cómo encuentra el azul idóneo para alguien con una capacidad imaginativa innata, y cómo, en su autorretrato de 1899, hace notar el contraste de su cabello rubio sobre un fondo azul vivo [imagen 5].
6. Sobre la ciudad, Marc Chagall. 1924.
Esta asociación que tradicionalmente se ha hecho del color azul con lo espiritual, irreal, y con los estados, de algún modo, oníricos, se puede justificar, por un lado, en la propia naturaleza. El azul es uno de los colores más presentes en ella; nos rodea desde el mar y desde el cielo y, sin embargo, pese a la gran conciencia que tenemos de él, mantiene una lejanía sensorial insalvable, nunca llegamos a tocar el azul. Además, su propia cualidad física, como color frío, nos atrae y nos extrae corporalmente de lo real, mientras que los tonos cálidos nos apartan de sí, y nos empujan a nuestro espacio en lo terreno. En la Capilla Scrovegni, Giotto emplea el azul de lapislázuli o ultramar con esta connotación. El pigmento del lapislázuli llegó al puerto comercial de Venecia en periodo medieval y se convirtió en uno de los productos más codiciados de la Ruta de la Seda. No sólo lo encarecía su difícil obtención, limitada a las minas afganas, sino la laboriosidad de su preparación como pigmento. El lapislázuli es una piedra que ofrece gran resistencia a la luz, y gran dureza al ser molida; su conversión en pigmento tratable se demoraba varios días. Giotto expande este azul por la bóveda de cañón de la capilla y, lo que finalmente vemos en ese manto del que emanan estrellas, no es el cielo, como fenómeno geográfico, sino un testigo del Paraíso mismo. Cristo, la Virgen, y los profetas se asoman a través de sendos tondos desde el mundo celeste y miran hacia abajo.
Utiliza el elemento más precioso de que disponía para ofrecer la imagen más decantada que era capaz de hacerse de lo divino. Plenamente ligada a ello, aparece la otra acepción del azul que Chagall siempre vincula a su amada Bella. En sus memorias, que son fuertemente cromáticas, asocia el amor –que para él forma parte de otro mundo más profundo, apartado de lo terreno- al azul: “Sólo debía abrir la ventana de mi dormitorio y fluían adentro el aire azul, el amor y las flores con ella”, con Bella. Efectivamente, hace varias menciones al azul del amor y añade que el sentimiento de Bella lo eleva sobre lo cotidiano. A menudo aparece ella volando, mientras él la sujeta –El paseo, 1917-; o ambos sobrevuelan la ciudad y el campo en esta lejanía espiritual de lo mundano –Sobre la ciudad, 1924 [imagen 6]. Así ocurre aquí: el azul está ejerciendo su poder, se repliega sobre sí, y encierra a los dos amantes en un círculo privado que los esquematiza y los convierte en símbolo. El azul no sólo aparece en el fondo de este óleo sobre papel, sino que invade el rostro del personaje femenino y la frente y la ropa del masculino. El azul, el amor, que es intangible como “el aire” al que lo vincula el pintor, está envolviendo a los enamorados y los aparta de lo terrenal. Superan el dualismo del mundo, como aseguraba Bella -“mi vida se vertió en el cauce de la vida de otra persona”, en Las luces iluminadas-, y se transforman en dos partes de un ser híbrido, inmateriales, imaginarios y elevados cuanto más profundo es el azul que les rodea.
Gabriela Giménez Profesional de la Cultura Málaga, España ggimenezdelariva@gmail.com
Ramón Melero Guirado Historiador del Arte rmeleroguirado@gmail.com El único camino para nosotros de llegar a ser grandes, y, si es posible, inimitables, es la emulación de los antiguos¹. En mayo de 1755, Winckelmann comienza una cruzada contra la estética de corte francesa, contra el despotismo, una lucha que lucía orgullosa el estandarte escrito en caracteres latinos noble sencillez y la serena grandeza. Salta la primera pregunta, volvemos a leer: “El único camino… para… ser inimitables, es la emulación” Es decir ¿Winckelmann pretende llegar a ser inimitable imitando? Esto nos plantea a su vez otras dos cuestiones ¿En algún momento dejó de pervivir la antigüedad en el arte y el pensamiento occidental? Y en el caso de conseguir alcanzar esa noble sencillez de los antiguos ¿estaríamos verdaderamente ante un proceso de mímesis puro? ¿O se trataría más bien de una apropiación y consecuente traducción de un momento cultural, enmarcado concretamente en el espacio-tiempo? Para llegar a responder la primera pregunta sólo tenemos que volver la vista atrás: la visita de Dante a los grandes hombres de la Antigüedad²; la genealogía de Cicerón a mano de Giovanni Boccaccio³ o los poemas de Petrarca sobre la Segunda Guerra Púnica⁴, por ejemplo, nos revelan la tendencia de tomar el modelo clásico como fuente de referencia. En la historiografía tradicional son estos tres autores toscanos⁵ los que inauguraron en la primera mitad del siglo XIV el renacer del mundo clásico siglos después de su supuesta caída en el siglo V⁶, fueron los que abrieron las puertas del Humanismo y prepararon la coyuntura perfectamente situada en el espacio (Toscana/Italia – siglo XIII-XIV).
1. Winckelmann, Johann J. Reflexiones sobre la imitación de las obras griegas en la pintura y en la escultura (traducción y notas de Salvador Mas). Madrid: Fondo de Cultura Económica, 2008, p. 17. 2. En el Canto IV de la Divina Comedia, Dante y Virgilio visitan entre muchos otros a Homero, Horacio, Ovidio, Lucano y Eneas. 3. Genealogia Deorum Gentilium, 1360. 4. Africa, 1342. 5. Existen varias hipótesis acerca del lugar de nacimiento de Bocaccio, aunque generalmente se da por aceptado el pueblo toscano de Certaldo. El Profesor V. Branca ofrece una amplia bibliografía sobre este asunto en su libro “Giovanni Boccaccio. Profilo biográfico”. Florencia, Sansoni, 1977. 6. El límite cronológico de la Antigüedad se ha identificado comúnmente con la caída del Imperio Romano. Para más datos sobre este momento y su discusión historiográfica vid.: PIERROTI, Nelson “El paso de la Antigüedad a la Edad Media. ¿Ruptura o Continuidad? Un análisis historiográfico”. Clio, 34, 2008. * Este pequeño ensayo toma prestado por título la frase que recoge la obra de Maurizio Nannucci con el mismo nombre, realizada en tubos de neón entre los años 1999 y 2000.
Pero a pesar de la errónea visión separatista que la historiografía nos ha impuesto con los años, la realidad es que la mirada a la antigüedad permaneció viva en la Historia del Arte a través del tiempo, y por supuesto también, durante la Edad Media⁷. La visita a equis marmoreis o arcubus triunphalibus⁸ que contempla la guía de turismo medieval Meravilia Urbis Romae deja constancia de ese gusto por lo antiguo en torno al siglo XII. También en la corte de Carlomagno, Eginardo interpretaba a Vitruvio⁹, entre otro sinfín de ejemplos que podríamos traer a colación. Las herencias culturales y por ende, Estudio de Joaquín Sorolla, Museo Sorolla artísticas, son fruto de la historia, una Foto: autor historia lineal y diacrónica, consecutiva siglo tras siglo, año tras año, segundo tras segundo. El imaginario artístico colectivo se genera estratigráficamente, sedimento tras sedimento, sólo a través de este proceso podremos recurrir a la experiencia anacrónica que nos muestra Aby Warburg en su Atlas Mnemosine¹⁰, sólo así podemos alcanzar una memoria artística que nos transporte en el tiempo, que produzca resultados complejos de interacción, sólo a través de la visión diacrónica podemos utilizar el anacronismo¹¹. Esto resolvería al mismo tiempo otra de las problemáticas presentes en este contexto: la periodización de la historia del arte, generalmente derivado de la visión acotada y fraccionada del tiempo que tiene la historiografía tradicional ¿Estamos ante una historia del arte o varias historias del arte?¹² Reincidimos sobre el carácter diacrónico y lineal que acumula recursos y experiencias en la memoria. ¿Acaso hoy es gótico y mañana Renacimiento? ¿Y en tal supuesto, el Renacimiento del mañana será absolutamente impermeable al gótico de hoy? Ciertamente no. Nietzsche en 1876 habla del arte en época antigua y moderna como un fenómeno en dos momentos históricos que se asisten y armonizan uno con otro. O Edwin Panofsky, que nos cuenta en sus estudios de iconología del 39 cómo la cultura occidental se compone de una compleja red de símbolos conectados entre sí.¹³ ¿Pero podemos excavar en la estratigrafía de la memoria artística para emular a los antiguos? ¿Es posible esa imitación? ¿O se trataría más bien de una reinterpretación? Esta era la segunda pregunta. El umbral espaciotiempo juega un papel fundamental a la hora de resolver esta cuestión: la visión de Escopas durante el siglo IV a.C. en la pequeña isla de Paros no es la misma que la de Picasso durante el siglo XX mientras vivía en París, aunque ambos realizaran una ménade, o un fauno, o un minotauro, o a Leda y el cisne.
7. PANOFSKY, Erwin. Renacimiento y renacimientos en el arte occidental. Madrid: Alianza Universidad, 1991, p.38. 8. PLANCK Stephen “Mirabilia Urbis Romae”, circa 1490. 9. ASSUNTO, Rosario. L’Antichità come futuro. Milano: V. Mursia & Milano, 1973, p.32. 10. WARBURG, Aby. Atlas Mnemosyne. Madrid: Akal, 2010. 11. En en ese sentido, además de los trabajos de Aby Warburg, son especialmente interesantes los de Walter Benjamin y Carl Jung, y aún menos conocido el trabajo de Joaquín Torres García en el que nos propone su propio Atlas Mnemosine, con el título de Structures y realizado en 1932. Esta obra consiste en un álbum de recortes donde se yuxtaponen imágenes que interaccionan libremente por el eje cronológico, un ensayo gráfico donde un barco y el interior de una catedral gótica pueden situarse en una misma página. Vid. Por ejemplo: PÉREZ-ORAMAS, Luis (Com.) Joaquín Torres García. Un moderno en la Arcadia (Exposición celebrada del 25.10.2015 al 15.02.2016 Museum of Modern Art de Nueva York; del 19.05.2016 – 11.09.2016 en Fundación Telefónica, Madrid y del 10.10.2016 al 05.02.2017 en Museo Picasso Málaga), Madrid: Ediciones El Viso, 2016. 12. PANOFSKY, Erwin. 1991 (7). 13. PANOFSKY, Erwin. Estudios de iconología, Madrid: Alianza Editorial, 2005.
O por ejemplo el véneto Antonio Canova, que escribe varios tratados de escultura en los que subraya la pureza del blanco de la estatuaria clásica. Canova conoce muy bien la escultura de Grecia y Roma, la mide, hace calcos, la estudia minuciosamente, pero no la copia, la reinterpreta desde la óptica de un caballero del XVIII. Porque el blanco de la escultura clásica no es tan puro, ni tan sencillo como decía Winckelmann, de hecho no era blanco¹⁴. ¿Pero qué tiene que ver todo esto con Picasso? Pues que Picasso, al igual que sucedió con muchos de sus contemporáneos¹⁵, fue otro artista, un artista que vivió el siglo XX desde el protagonismo, que jugó ese papel de reintérprete del legado, de la historia y de la memoria artística. Porque ante todo debemos recordar que ALL ART HAS BEEN CONTEMPORARY, y por tanto, creado genuinamente desde la contemporaneidad y su fugacidad. “Cada época tiene su arte propio.- Todos los clásicos han sido contemporáneos a su época – han reflejado toda la vida de su época – han sido hombres de su época. – Nosotros también debemos ser hombre – como ellos – del presente, de nuestra época”. Joaquín Torres-García.
Ramon Melero Historiador del Arte Cazorla, Jaén, España rmeleroguirado@gmail.com
14. Tras varios años de estudio, la Universidad de Múnich y la Gliptoteca de la misma ciudad, llevaron a cabo un estudio sobre el color de los dioses que concluyó con chocantes resultados y que pudimos ver en la exposición El color de los dioses: BRINKMANN, Vinzenz y BENDALA, Manuel (Com.) El color de los dioses (Exposición celebrada del el 18 de diciembre de 2009 al 9 de junio de 2010 en el Museo Arqueológico Regional de Alcalá de Henares), Madrid: Comunidad de Madrid, Servicio de Documentación y Publicaciones, 2015. 15. Fundamental para conocer en detalle la reinterpretación del clasicismo por los artistas modernos el catálogo de exposición: GREEN, Christopher y DAEHNER, Jens, Modern Antiquity: Picasso, de Chirico, Léger, and Picabia (Exposición celebrada del 02.11.2011 al 16.01.2012 en la Getty Foundation, Los Angeles) Los Angeles: Getty Foundation, 2011. 16. ALL ART HAS BEEN CONTEMPORARY, hace referencia a la obra de neón realizada por Maurizio Nannucci en 1999 que se encuentra en el Museo de Bellas Artes de Boston. 17. TORRES-GARCÍA, Joaquín New York. Montevideo: Fundación Torres-García y Hum, 2007, p. 101.
Teste di pietra, Ashnounak, 3000 BC, Louvre
La fine del mondo
Lo scorso 18 ottobre si è finalmente giunti all’inaugurazione del “Nuovo” Centro per l’arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato. La grande “ciambella dorata” esterna abbraccia e accoglie dentro di se la struttura originale, progettata nel dal architetto fiorentino, Italo Gamberini, noto esponente del Razionalismo. Il progetto di ampliamento della sede espositiva è risultato necessario a causa del cambiamento avvenuto durate la storia del centro. Il Pecci, infatti, nato come centro espositivo accoglieva presso di se, per lo più mostre temporanee, tuttavia col passare del tempo è andato sempre più formando tramite donazioni, lasciti e acquisizioni, una propria collezione che non trovando spazio per essere fruita è finita per rimanere confinata nei magazzini del centro.
Il Gran Opening, tuttavia, presenta soltanto un’ opera appartenente alla collezione permanente, le altre opere sono state selezionate dal direttore nonché curatore Fabio Cavallucci esclusivamente per questa esposizione inaugurare. Al termine dell’esposizione, il 19 marzo prossimo, lo spazio verrà poi ripartito, fra collezione e mostre temporanee, dando così la possibilità al pubblico di riscoprire una selezione di opere davvero uniche ed inedite. La scelta di intitolare “La fine del Mondo” la mostra inaugurare, di uno spazio da troppo tempo chiuso e dal passato non troppo fortunato, può apparire soprattutto in un’epoca come quella attuale come una scelta azzardata dai rimandi pessimistici se non addirittura catastrofisti, ma non è così. Il centro infatti fin dall’esterno con la sua forma così simile ad un disco volante ci proietta in un tempo e uno spazio lontano dal nostro, una sorta di viaggio a ritroso nel tempo che ci permette di rivivere ere e tempi passati, e di guardare il percorso dell’umanità con distacco e oggettività, scoprendoci piccoli di fronte all’ universo. Proprio come un viaggio nel tempo si articola la visita alla mostra, impossibile da realizzare soffermandosi su ogni singola opera, in totale 52, che toccano e intrecciano tipologie artistiche differenti ( video, sculture, pittura e installazioni e perfomance) con il mondo scientifico (magnetismo, geologia, geografia astronomica…). Proprio per la sua natura complessa e variegata, la scelta del “percorso” da intraprendere durante la visita può essere diverso e personale, questo infatti segue le inclinazioni del visitatore proponendo di esplorare tematiche di volta in volta nuove. La prima opera che ci accoglie alla sommità delle scale che conducano nel grande “ventre della centro” è la scultura del duo composto da Giovanna Amoroso e Istuan Zimmerman. Fin dal primo sguardo quest’opera ci colpisce, ci troviamo infatti di fronte a una coppia di Austrolopitechi, nostri lontani progenitori che avanzano insieme, abbracciati. Il duo di artisti fondatori di Plastik Studio, lavorano coniugando aree disciplinari diverse, all’aspetto artistico, manuale e decorativo uniscono lo studio scientifico accurato e l’eccezionale realismo che rendono le loro opere, perfette ricostruzioni pronte per essere inserite in musei di scienze naturali. Le due statue sono state ricostruite attraverso gli studi effettuati sui ritrovamenti di orme fossili avvenuti nel 1978 a Laetoli, durante una spedizione archeologica. L’estrema vicinanza delle orme, ha portato a dedurre che i due ominidi avanzassero non soltanto l’uno accanto all’altro ma che fra di essi vi fosse un contatto fisico, che “romanticamente” possiamo immaginarci come il primo gesto d’ amore della storia dell’umanità.
Entrando nella prima parte della mostra ci troviamo poi di fronte a grandi opere che si dislocano nello spazio. Immediatamente rimaniamo colpiti dalle due grandi installazioni di Thomas Hirshhorn, Break- Through (I e II). L’artista svizzero si pone di fronte all’arte non con un intento estetico, infatti le sue opere non sono belle o piacevoli hanno però un valore simbolico. L’opera è costituita da due grandi accumuli di rovine, crolli del soffitto dal quale fuoriescono scotch, gommapiuma e cartone. A prima vista ci fanno pensare subito a una situazione di pericolo, ma ad un esame più attento ci accorgiamo del trucco e che i materiali utilizzati sono totalmente innocui. Queste opere sono immersive, coinvolgendo l’osservatore simboleggiando la distruzione e la fine ma allo stesso tempo ricordano anche il caos primogenito da cui tutto ha inizio. Nello stesso ambiente sono presenti altre due grandi opere : le grandi mappe di Qui Zhijie e l’installazione di Jimmie Durham. Le grandi mappe dell’artista cinese sono state realizzate specificatamente per il centro, sono mappe concettuali e visive allo stesso tempo, non riproducono continenti realmente esistenti ma solo una sorta di “isole che non c’è”. I luoghi rappresentati in questi atlanti immaginari ci raccontano la nostra storia , le nostre origini e soprattutto l’evoluzione del pensiero dell’umanità, dal punto di vista della filosofia della religione ma anche della politica. Pietrified Forest di Jimmie Duraham, artista di origine nativo americana, è un’installazione che fin dal titolo richiama la foresta pietrificata presente in Arizona nel grande parco nazionale, nei terreni degli Apache e dei Navajo, tuttavia la pietrificazione in questo casto caso non è di un ambiente naturale, ma al contrario di un ufficio. Un assemblaggio di oggetti, la riproduzione di un ambiente familiare ricoperto da una coltre di polvere di cemento; ecco come si presenta l’opera, nella quale riconosciamo una serie di applicativi tecnologici (fax, pc…) che ci permettono immediatamente di “datare” lo spazio agli anni 80/90 del novecento. La volontà dell’artista è quella di colpire immediatamente il visitatore che si pone di fronte alla sua opera, l’ufficio reso totalmente inutilizzabile, fossilizzato, ci parla di un ipotetica fine, di un evento catastrofico che tuttavia innesca in noi un sentimento contrario, un’ estremo compiacimento. Questa impossibilità di utilizzo impone l’interruzione di una routine che tutti noi conosciamo e soffriamo dalla quale l’artista con questo espediente riesce a liberarci. Oltrepassando questo primo grande ambiente e imboccando il secondo, più racchiuso, più simile agli spazi propri di un museo, senza saperlo siamo già sulla strada di un percorso a ritroso nel tempo. Entriamo infatti inconsapevolmente all’interno di una delle opere più suggestive della mostra, Transarquitetonica di Enrique Oliveira. L’opera si configura come un vero e proprio viaggio nell’architettura, e negli spazi del Centro stesso infatti l’opera pensata come Site Specific, grazie alla sua forma e alla sua struttura permette una riappropiazione degli spazi, congiungendo la nuova struttura con quella originale, un’unione fra naturale e artificiale che ci permette di rivivere il percorso dell’umanità, che dalle stanze, torna prima alle capanne , alle grotte e alle caverne fino al tronco dell’albero e alla sue radici. L’opera in un primo momento crea nel fruitore un senso claustrofobico quasi di oppressione, in quanto lo spazio va via via restringendosi e si fa sempre meno illuminato, così il visitatore si trova costretto ad incurvarsi e a strizzare gli occhi per poter continuare il suo percorso senza sapere cosa lo aspetta .Tuttavia il visitatore conclusa l’esperienza, riacquisisce il suo spazio e la sua libertà e prende consapevolezza del “viaggio” appena compiuto.
Accompagnati dalle grandi radici dell’opera precedente, ci addentriamo all’interno degli spazi della struttura originale, qui veniamo accolti in sottofondo dall’installazione video dell’artista islandese Bjork, che ci introduce in una sala dedicata al mondo minerale. La grande e bellissima collezione minerale di Adalberto Giazotto, occupa la parte centrale della sala, incorniciata alle pareti da fotografie e quadri, fra quali è presente l’opera di Darren Almond. Il trittico dell’artista inglese intitolato Present for exposed II segue la volontà dell’artista di indagare il desiderio umano di misurare il tempo. Protagonista principale dell’opera è il Perito Moreno un enorme ghiacciaio mobile della Patagonia che negli anni è divenuto uno delle maggiori attrazioni dell’Argentina. Il ghiacciaio a seguito dei mutamenti climatici che stanno sempre più modificando il nostro pianeta ha mostrato una profonda crepa, che tuttavia, inaspettatamente ha rivelato un secondo ghiacciaio ancora più antico che spicca per il suo azzurro brillante e che ci dimostra inconfutabilmente come anche quei luoghi che noi consideriamo paradisi incontaminati non siano immuni dall’azione dell’uomo. Proseguendo nella sala antigua veniamo immediatamente colpiti dall’opera posta al centro della sala sala: Magnetism di Ahmed Mater. L’artista di origine araba, molto impegnato nel campo della cultura dell’arte contemporanea in Arabia Saudita affronta nelle sue opere il tema religioso, infatti quest’opera è costituita da un piccolo magnete nero di forma quadrata intorno al quale è stata posizionata della limatura di ferro che grazie alla forza magnetica crea disegni e coreografie che alludono al pellegrinaggio dei fedeli mussulmani verso il Ka’Ba il famoso monumento conservato presso la Mecca. La forza attrattiva, viene riproposta anche all’interno dello spazio museale; le opere collocate intorno all’opera di Mater, come M Opus di Hanne Darboven relative all’utilizzo pacifico dell’energia nucleare e 3x3 di Analivia Cordeiro che codifica i movimenti in una danza a ritmo binario, sono come richiamate da una forza potente e misteriosa. Nella sala successiva convivono in armonia perfetta, tre declinazioni diverse di Arte rappresentanti presente, passato prossimo e passato remoto. Troviamo così opere di video art, come quella di Urculo, Agneska Polka e Isabelle Cornaro, insieme ad opere ritenute fondamentali per la contemporaneità come Boccioni con Forme uniche nella continuità dello spazio, Lucio Fontana con Concetto spaziale e Marcel Duchamp con la sua ruota di bicicletta e lo scolabottiglie e infine reperti archeologici come la Venere di Savignano e una estesa collezione di Amigdale. Continuando nella nostra visita ci imbattiamo in una fra le opere più suggestive della mostra, Carlos Garaicoia, con la sua installazione Come la Terra vuole assomigliare al cielo ci ritroviamo letteralmente proiettati nella visione notturna della città dell’Avana. Una stanza completamente buia, illuminata soltanto dalle piccole luci poste sotto i nostri piedi, proprio come indica il titolo, terra e cielo si sovrappongono facendoci perdere i punti di riferimento e creando in noi un senso di spaesamento momentaneo, che si dissolve poco dopo per lasciare spazio allo stupore e alla meraviglia che l’installazione suscita.
Lasciata indietro l’oscurità della sala precedente, torniamo al percorso della mostra soffermandoci sull’opera di Kadir Attia Chaos + repair = Universe. L’opera esposta in mostra possiede in se un valore sia etico che estetico, l’artista crea un mondo di infinite possibilità, piccoli pezzetti colorati uniti assieme da del filo di rame a formare un globo che se osservato da vicino rivela un’ incredibile luminosità dovuta alla superfice specchiante che si riflesse all’infinito su se stessa. L’artista algerino nella sue opere fa costante riferimento al tema della riparazione, intesa come concetto fulcro del genere umano e della vita stessa; un universo che vive attraverso un continuo ciclo di caos e distruzione mosso da un’ innato impulso di recupero che tuttavia conserva le tracce delle sue ferite secondo il principio entropico. Nella sala successiva caratterizzata da parete di un color ciano, ritroviamo una selezioni di opere che sono caratterizzate da un senso di inquietudine e di tristezza. Al centro della sala è presente l’installazione di Tadeusz Kantor che riproduce una serie di manichini inespressivi che siedono ai banchi di scuola, l’opera intitolata La classe morta fa riferimento a quei bambini, mai divenuti adulti a causa del sopraggiungere della seconda Guerra Mondiale. Alle pareti sono esposti una serie di ritratti di donne di Marlene Dumas, una coppia di quadri dell’artista polacco Andrzej Wroblewski e un grande opera di Francis Bacon. Lasciando poi l’ultima sala degli spazi originali del centro, caratterizzata dalla presenza di numerosi video ci soffermiamo sull’installazione di Santiago Sierra, 2205 state crimes. L’artista spagnolo attivo nell’arte sia nella sfera sociale che politica, non vuole con le sue opere denunciare ma bensì dichiarare la realtà attraverso una presa di coscienza dell’ingiustizie della violenza. Nell’installazione riproposta in mostra, due voci rispettivamente di un uomo e di una donna, leggono in lingua araba i nomi, proiettati su uno schermo, delle vittime degli scontri avvenuti l’8 giugno e il 26 agosto del 2015 durante l’attacco di Israele a Gaza. Nell’opera di Santiago Sierra il minimalismo delle forme coincide con il desiderio di un massimo impegno nella veicolazione del messaggio. Completiamo il percorso di visita ritrovandoci nuovamente nei nuovi spazi, terminando così il nostro “viaggio” con il punto di partenza. Prima però di lasciare il centro parliamo delle due ultime opere davvero intense e significative. La prima è l’opera dell’artista cinese Cai Guo Qiang , intitolata Head On composta da 99 riproduzioni di lupi.
L’opera è stata commissionata all’artista dalla Deutsche Back per essere ospitata presso gli spazi del Guggenheim di Berlino, ed essere un emblema dalla travagliata storia della città. Il branco di lupi, simbolo per eccellenza di ferocia e coraggio, forti della loro coesione come gruppo corrono insieme spiccando un salto tanto alto da sembrare un volo, che tuttavia si interrompe bruscamente quando gli animali si imbattono in un ostacolo; un muro trasparente contro il quale inevitabilmente uno dopo l’altro si infrangono. Ciononostante ripresi dalla caduta i lupi si rialzano e sono pronti nuovamente a seguire i loro due leader, il maschio e la femmina alpha, che passo dopo passo li riconducano al medesimo inevitabile destino, anche se una speranza di cambiamento c’è, ed è impersonata da un lupo che staccatosi dal branco non segue più i suoi compagni ma ulula alla luna. L’opera mette quindi in luce, attraverso l’utilizzo simbolico di animali comportamenti propri della società umana, come la collettività possa essere facilmente manipolata e mal indirizzata e con quanta facilità questo possa avere un effetto catastrofico per la collettività. La seconda opera è quella di Robert Kusmirosky, intitolata XXX, appositamente pensata e realizzata per la mostra, indaga attraverso la passione dell’artista per il collezionismo il tema della memoria e del ricordo, ma anche quello della transitorietà della vita dell’uomo sulla terra. Uno spazio completamente bianco che accoglie sulle sue pareti oggetti quotidiani anch’essi dipinti del medesimo colore, vuole creare nel visitatore che attraversa la sala, la sensazione di trovarsi nell’ultimo istante della sua vita terrena. Gli oggetti che adornano la sala sono quindi allo stesso tempo personali e collettivi, in quanto raccontano la storia del singolo ma sono legati alle esistenze di tutto il genere umano. Lo spazio che ospita l’opera può quindi apparire un po lugubre e nostalgico, mentre invece è uno spazio vivo e vissuto quotidianamente dal centro. Esso infatti è composto da gran numero di sedie che vengono utilizzate dal pubblico durante i numerosissimi eventi organizzati presso il Centro.
La Fine del Mondo è a mio parere una mostra ben strutturata e organizzata, che lega in maniera davvero eccelsa le opere con gli spazi del centro, creando una sinergia forte che il visitatore percepisce durante il percorso di visita. La multidisciplinarietà delle opere esposte è inoltre un altro punto di forza, l’unione di arte e scienza, permette davvero una comprensione a 360° del progetto espositivo. Mi auguro quindi, che l’unione fra il rinnovamento degli spazi e questa grande mostra, possa davvero essere un nuovo inizio per il Centro Pecci, come una fenice che rinasce dalle sue ceneri, sappia mettersi alle spalle le difficoltà del passato riuscendo a rinnovarsi non solo esternamente ma anche internamente, riuscendo a coinvolgere e a creare un senso di affezione nei riguardi in primo luogo dei cittadini pratesi, ma e soprattutto, a livello italiano e internazionale. Mi auguro che questo Centro possa essere il motore capace di rimettere in moto una città un tempo punto di riferimento dell’industria tessile ed oggi alla ricerca di una nuova identità.
Alessia Nardi Laureata in Arti Visive Firenze, Italia nardi.alessia.1989@gmail.com
BEYOND MATERIALIZATION, TOWARDS A DEMATERIALIZED DESIGN In 1967 Lucy Lippard and John Chandler wrote an essay titled “The Dematerialization of Art” exploring the then current state of art and its expansion. Lippard and Chandler wrote: “During the 1960s, the anti-intellectual, emotional/intuitive processes of art making characteristic of the last two decades have begun to give way to an ultra conceptual art that emphasizes the thinking process almost exclusively… As more and more work is designed in the studio but executed elsewhere by professional craftsmen, as the object becomes merely the end product, a number of artists are losing interest in the physical evolution of the work of art. The studio is again becoming a study. Such a trend appears to be provoking a profound dematerialization of art, especially art as object, and if it continues to prevail, it may result in the object’s becoming wholly obsolete.”
In our contemporary moment, the world of design is appearing to parallel the avant-garde art movements of the twentieth century more and more. We have now reached a time where designers’ practices have moved away from being a field of materiality, away from being a field of finished products. If design is typically perceived as a field of utilitarian objects, it is curious then to take note of the current expansion of design. Of course, the disappearance of the design object is not a new concept and can be traced back to Italian Radical Architecture group Superstudio’s idea of a life without objects in 1972. Even groups such as Archigram and their paper architecture projects, or the various films presented by designers in the seminal exhibition Italy: The New Domestic Landscape at the Museum of Modern Art in 1972 tended to lean away from a design practice of objects. When design as a field was still in its infancy, designers were already exploring various mediums in their practice. However, today designers have incorporated performance into their practice where objects are secondary to the work, if even present at all. As Lippard and Chandler stated about the dematerialization of art, the design object seems to be becoming obsolete. Two contemporary designers whose practices pose particularities for the field of design as a whole are Judith Seng and Tim Miller. With Seng and Miller the disappearance of the design object in favor of action, ideas and a world void of materiality arises. Judith Seng, a designer who began her practice with the production of furniture, has moved to a design about process expressed through performances by actors or dancers. Seng’s practice seems to be more similar to choreography than design. However, unlike Seng who still works with objects, sometimes final products the result of said performances, Tim Miller has transcended a design [practice based on objects. Miller’s design is a design of discourse and language. Through several performances Miller explores identity and the individual through the construction of dialogue. Design in this sense has begun to resemble the expanded field of art in the latter part of the twentieth century when performance became a common medium of artistic expression.
ACTING THINGS: JUDITH SENG’S DESIGN WHERE ACTING TRUMPS THINGS
Figure 2. Screen still from Judith Seng’s Acting Things IV, 2013. http://www.judithseng.de/projects/acting-things-iv/
Judith Seng is a contemporary designer whose practice ranges from furniture making to theatrical performances and choreographed dance. In 2011 Seng began her exploration of new approaches to design by exploring performance as a way of creating objects, resulting in a series called Acting Things. This series “investigates knowledge of process design beyond the tradition of management thinking. Based on the assumption that process design can learn from the skills of performative arts, different production experiments are set up in which material and processes become mutually dependent: the material that is to be worked on generates a process which then in turn will shape the material.” Seng’s inspiration for this series derived from the observation of a maypole dance, a traditional dance that is performed on the first of May in Southern Germany. The questions that were raised for Seng were: “What if an object would be created out of a dance? And what if we look at production processes as if they would be a dance?”. Acting Things I, the first performance of this series, took place in Berlin where she laid pieces of wood and tools on a theatre stage and invited participants to assemble and design their own furniture before all eating together at the tables and chairs created. This was just the beginning of Seng’s exploration of the possibilities of production processes around objects. After the event, the objects were mere traces of the actions emphasizing the temporality of the process it took to make the product. Acting Things II followed this project in 2012 where Seng introduced dance into the process of producing an object. Seng used a professional dancer to manipulate the form of wax through dance to explore the relationship between action and material and how this interplay develops like a dialogue (Fig. 1).
Acting Things III-IV adapted this model in which Seng used models to manipulate the wax forms thus creating finished objects through the process of choreography and dance. Throughout the event and the process, a transformation and retransformation of material occurs and expresses Seng’s interest in a process based design. In 2013 Seng presented Acting Things IV – Material Flow at Design Miami/Basel (Fig 2). Over the course of seven days, dancers performed with wax and as they moved the material took shape as a result of their bodies and gestures. The material was defined by the dance which was in constant transformation over the course of the fair, leaving the final shape a trace of the dance itself. When speaking of her work, Seng says:
“
My work deals with objects and spaces and how they reflect, initiate and possibly change sociocultural processes. Sometimes, the work manifests as objects that attempt to influence such processes or make them visible. Other times, I directly design the process by which an object or space is created. I thus work both with material whose physical existence can be sensually experienced, and with immaterial systems and processes that are often beyond sensual perception and cannot be directly experienced. Whereas materialized results can be revisited over time, a process is ephemeral and may appear never to have taken place at all if it is not documented and thereby materialized – only then can it be continued and be shared beyond the memories of those involved.
”
Although Seng’s practice does also include functional pieces of furniture, it is clear that she is also exploring the boundary of what can be considered part of a design practice: a design practice that is not centered on the object. When speaking about the link between her furniture work and choreographed projects such as Acting Things Seng states:
“
When I create objects or spaces my interest is rather in processual aspects that are caused by the material artefact; being this how they were made, or what social cultural behaviors are triggered or revealed by the object. In that sense, processual works like Acting Things are just expanding my way of working with materials, objects and processes.
”
Thus, in the expansion of the field of design and dematerialization of the design object, Judith Seng has introduced performance and dance as a way to develop a practice that is about process rather than objects.
Figure 1. Screen still from Judith Seng’s Acting Things II, 2012. http://www.judithseng.de/projects/acting-things-ii/
ACTING THINGS: JUDITH SENG’S DESIGN WHERE ACTING TRUMPS THINGS
Figure 3. Screen still from Tim Miller’s Covers, 2012. http://tim-miller.co.uk/Covers-1
Tim Miller, a London based designer who studied at the Royal College of Art, has developed a practice that seems to epitomize this idea of a dematerialized design. Miller is a designer whose practice frankly doesn’t seem like design in its most widely used sense at all. Central to his work are humans, as he explores notions of discourse and identity through different mediums such as performance and acting. Miller did originally begin his practice as a designer working with objects. In an early project Trailer, he explored eight different ways to use a single object in various situations. Soon thereafter Miller quickly abolished the object from his practice all together. Rather than manipulating an object from multiple angles, Miller now builds and manipulates a discourse. Thus, speech and action then become design objects, if you will. Two projects of Miller that demonstrate this notion of dematerialized design are Covers and Interview In Progress. Covers was a project manifested in a short film that explored the presentation of the self through text and performance (Fig 3). A number of actors that applied for the role of an ‘interviewee’ were then asked to perform their cover letters in front of a camera. The film exposed a dialogue between the ‘real’ and ‘acted’ self and is made clear in the awkward moments when the actors break their act. In a vague listing posted on a casting call website, Miller wrote, “Tim Miller is a creative business dealing with reality and is looking for employees to assist with the creation and realization of a project in London. Time Miller is looking for interviewees for an interview.” Thus, in an attempt to explore identity and self-representation, Miller designed a platform in which actors subjected themselves to a personal discourse that is then shaped by questions posed by the interviewer. This project led to Miller’s thesis project Interview in Progress.
Figure 4. Screen still from Tim Miller’s Interview in Progress, 2012. http://tim-miller.co.uk/Interview-in-Progress
For Interview in Progress (Fig 4), actors were invited onto a stage to rehearse a job interview. Their speech and responses were shaped and reshaped by a panel of screenwriters and fiction directors. This project examined the commodification of the self within the job interview process. For Miller, speech and language are transformed into a design object as he applies the same design methodologies to shape people and discourse. When Miller has been asked about why he considers himself a designer he says: “I consider myself a designer due to an interest in the design process. In this light, it might be possible to consider film and theater as ‘designed’ representations of alternative or possible realities… [projects] such as Covers, can be seen as research that reveals situations in life that are designed and the gaps between these moments. I do not believe design should be considered medium-specific but more as a process or research-based way of thinking.” In this sense, design is no longer about a completed object, but rather a process, or a way of thinking.
CONCLUSION Both Judith Seng and Tim Miller’s practices serve as examples of a process oriented design, or a design where objects are no longer at the core of the practice, if even existent at all. Limiting design to a field of sculptural chairs is outdated. This expansion of design from a field of objects to a field of processual thought and research allows us to see what truly exists at the core of design: the human experience. As Lippard and Chandler speculated about the future of art in 1967, we must now consider designers such as Seng and Miller who have developed practices where the object is wholly obsolete.
 
Katia Porro M.A. Candidate in the History of Design and Curatorial Studies Program at Parsons Paris The New School Paris, France katiaporro@newschool.edu
ARTSEVILLA: HACIA UN MODELO PARTICIPATIVO E INTEGRADOR EN EL SISTEMA GLOBAL DEL ARTE
Convocatoria Solo Projects. Fotografía: Javi Arán.
Hace unas semanas acababa la segunda edición de ARTSevilla y, en pleno proceso configurador del nuevo evento, cabe echar la vista atrás para valorar la consecución de los objetivos y el éxito del modelo planteado. Con respecto a la primera edición, ARTSevilla16 destacó por seis aspectos fundamentales: en primer lugar, el cambio de formato que sustituye la feria de arte tradicional por un lugar de encuentro y convivencia entre jóvenes promesas, artistas consagrados y profesionales de la cultura en general. Otra de las novedades fue el valor dado al centro histórico de Sevilla como marco configurador del evento, contando con varias sedes repartidas en el mismo. En tercer lugar cabe destacar la implicación de otros espacios artísticos y culturales de la ciudad, desde reconocidas galerías de arte a espacios alternativos y museos. Por otra parte, ha resultado muy significativo el avance en lo que respecta a internacionalización, dado que el evento ha contado con participantes de dieciocho nacionalidades. Cabe sumar a esta lista la amplitud y variedad de la oferta formativa, constituida por unas destacadas Jornadas Culturales, así como talleres y actividades complementarias. Finalmente, la apertura al gran público: más allá del visitante especializado, el evento ha atraído también al ámbito familiar y el sector estudiantil. ARTSevilla16 se ha dividido principalmente en tres líneas de acción: la expositiva, la formativa y la editorial. Este artículo se centrará en el primero de esos puntos.
Performance “Todo al Rosa” de Zaida Cordero. Fotografía: Noelia Arrincón.
Para la implantación del modelo que el equipo de ARTSevilla se había propuesto llevar a cabo en la segunda edición del evento, resultaba indispensable que el germen expositivo principal procediese de algunas de las actuales fuentes más importantes de las que emana la creación: facultades y escuelas de enseñanzas artísticas. Este núcleo principal, que tuvo como sede la Sala de Exposiciones habilitada en el antiguo convento de Santa Inés, se vería complementado por espacios e iniciativas concretas que le dotarían de sentido, como veremos a continuación. Allí, hemos contado con la participación de la Universidad Complutense de Madrid, Camberwell College of Arts de Londres, Berlin University of The Arts (Universität der Künste Berlin), Escola Superior Artística do Porto, Minzu University y Central Academy of Fine Arts de Pekín (ambas representadas por Chinese Friendly), y la Universidad de Sevilla como anfitriona de excepción. Santa Inés, escaparate de nuevas generaciones de artistas a nivel internacional, no dejó de lado a los experimentados veteranos que han querido compartir sus nuevas líneas de trabajo y proyectos en expansión: hemos tenido el placer de contar con la Cátedra de Arte y Enfermedades de la Universitat Politècnica de València, la Asociación de Mujeres en las Artes Visuales (MAV) y FAR (Foro Arte Relacional). Líneas que apoyan grandes causas y que promueven valores humanos fundamentales.
Instalación en Fundación Tres Culturas por Redwane Jabal. Fotografía: Carlos Godot
Así pues, este espacio principal estaba planteado para la participación de estudiantes, artistas consolidados y profesores, con la intención de generar un ambiente de diálogo en el que compartir ideas y desarrollar nuevos proyectos. En este sentido cabe destacar la iniciativa Medialab (programa de mentoring para artistas ofertado dentro de las actividades paralelas), con la que se ha intentado reforzar la conexión entre artistas emergentes con artistas ya consolidados y profesionales del sector. La presencia en el evento de centros superiores de estudios de bellas artes supone para sus alumnos una gran oportunidad al formar parte de un evento expositivo internacional. Precisamente, uno de los puntos fuertes del Encuentro radicó en la conexión entre lo académico y el mundo laboral y profesional. Además, supuso una gran ocasión para que las universidades y escuelas especializadas mostrasen su potencialidad formativa. Cabe destacar el caso concreto de la Berlin University of The Arts.
The Guest. Carlos Martínez García (artista invitado) + Miguel Ángel Cardenal
La participación de una selección de seis alumnos cuya producción artística era acompañada por la de su reconocido profesor, Martin Gerwers, estaba muy en conexión con el modo en que se rigen y estructuran estas enseñanzas en esa determinada universidad. Concretamente, dar prioridad a la libertad creativa y fomentar el desarrollo de proyectos individuales desde los niveles iniciales gracias a un plan académico que otorga vital relevancia al sistema de tutorías. La Cerámica destacó como material elegido por las estudiantes de la Camberwell College of Arts Soonjinn Moon y Hanna Redpath. Más adelante, el profesor Yao Junjie iniciaba el debate en torno a la sostenibilidad en el arte tomando como argumento una obra de Ai Weiwei mientras lo arquitectónico y espacial luchaba por ganar espacio temático a las reminiscencias mitológicas entre los alumnos de la Universidad Complutense y la Universidad de Sevilla.
Partiendo de Santa Inés, la iniciativa integradora The Guest planteó una propuesta innovadora a galerías de arte y otros espacios culturales de la ciudad (sumando un total de veintiuno), haciéndoles formar parte del Encuentro desde sus propias sedes. Estos espacios, para su programación especial, invitaron a un artista no local a estar presente con su obra y compartir la programación habitual. El resultado fue el de crear un recorrido cultural distribuido por toda la ciudad, con la intención de implicar en el Encuentro a los profesionales que durante todo el año trabajan por acercar al público el arte contemporáneo. Así, por ejemplo, pudimos disfrutar de la obra de Carlos Martínez García, Guillermo Oyágüez o Marcelo Fuentes como artistas invitados. El trabajo curatorial en el trasfondo de la unión expositiva entre la exposición programada y la obra del artista invitado ha resultado sublime en varios casos. Finalmente, dos exposiciones centradas en proyectos concretos, así como las convocatorias para instalaciones, performances y videocreación han complementado la oferta expositiva. El éxito del formato propuesto para 2016 ha sido palpable en el número y variedad de visitantes. Ello indica que su elección nos ha ayudado a eliminar posibles barreras existentes con respecto al arte contemporáneo entre personas que no están familiarizadas con él. El objetivo principal, que era diversificar las oportunidades de divulgación del arte contemporáneo abriendo fronteras y estimulando la creación, el diálogo y la reflexión, incorporando buena parte del tejido que compone el panorama artístico sevillano, ha sido alcanzado. Además, esta iniciativa ha ayudado a poner en valor ciertos espacios con poco uso regular, que forman parte del rico patrimonio histórico de la ciudad. Jornadas Culturales. Diálogos por Belleda López. Fotografía: Sonia Chacón
Senseless Book de Hanna Redpath. Fotografía: Irene Villén
El evento ha sido posible gracias al apoyo de las instituciones que han cedido sus espacios para el desarrollo de la actividad y a un equipo que cree profundamente en el potencial del arte para el desarrollo y el cambio social. Bajo el formato de “Encuentro Internacional de Arte Contemporáneo”, Sevilla ha contado con la presencia de artistas tanto emergentes como consolidados, investigadores y profesionales de ámbito nacional e internacional. Todos ellos, reunidos gracias a la amplitud de posibilidades de participación: expositiva (a través de universidades, proyectos expositivos e iniciativas artísticas concretas) o formativa, gracias al programa de jornadas, talleres y actividades desarrolladas en paralelo. Una solución que mantiene y refuerza, además, la conexión e integración de numerosos espacios culturales existentes en la ciudad. El de “encuentro” es, sin dudas, el modelo de evento cultural al que queremos pertenecer y luchamos por defender con vistas a su consolidación para los años venideros.
Irene Villén Licenciada en Historia del Arte. Gestora Cultural Sevilla, España irenevillen@gmail.com
Also experiencing the Stendhal syndrome and a reverse writer’s block? ✦
Become a contributor! ✦ If you are interested please contact us at hyperkulturemia fanzine@gmail.com
Good luck, enjoy and thanks!
Coordinated by Ramón Melero Guirado Designed and edited by Matilde Ferrarin