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APRIL - MAY - JUNE 2017
CHRISTO E JEANNE-CLAUDE: DAL NOUVEAU REALISME ALLA LAND ART. LA GENESI DI THE FLOATING PIERS Alessandro Arcioni Studente della Laurea Magistrale in Storia delle Arti e Conservazione dei Beni Artistici, Università Ca’ Foscari Venezia, Italia
BETWEEN THE BODY AND GARMENT, BEYOND ANTHROPOMETRIC PHOTOGRAPHY: SOMALI PORTRAITS OF GEORGES RÉVOIL IN FRENCH NATIONAL COLLECTIONS. Adeline Barré Graduated in Art History Paris, France
INTERVISTA A PAOLO SCIRPA Matilde Ferrarin Digital & Social Media Strategist Venezia, Italia
LIBERANDO LOS ESPACIOS CARCELARIOS: NUEVOS USOS DE LA PRISIÓN PANÓPTICA EN ESPAÑA Begoña Ibañez Doctora en Historia del Arte Granada, España
LA POESIA VISIVA Alessia Nardi Operatrice della didattica museale e Mediatrice Culturale Firenze, Italia
RULED BY INVENTION: THE CREATIVE POWER OF FASHION IN THE GALLERY Ellie Porter Researcher London
THE BEST BOGUS BOTANICAL GARDEN Eline Verstegen, Chiara M. Villa, Rosie Jenkins Curators London
«Había llegado a ese punto de emoción en el que se encuentran las sensaciones celestes dadas por las Bellas Artes y los sentimientos apasionados. Saliendo de Santa Croce, me latía el corazón, lo que en Berlín llaman “nervios”. La vida estaba agotada en mí, andaba con miedo a caerme». Así describía el novelista francés, Henri-Marie Beyle, de seudónimo Stendhal, sus sensaciones en su visita a Florencia a principios del S. XIX. Recogiendo el testigo de su percepción, intento dar una visión ilustrada a esas pasiones, recuperando una idea que ya tuve durante mi estancia en Nápoles, el año que cursé en la “Accademia di Belle Arti”. Nuevamente en el extranjero, esta vez como emigrante, acompañado de ciertos temores e incertidumbre, a veces adquiridos en el pasado y que forman parte irremediable de uno mismo, uno no puede dejar de apasionarse al afrontar nuevas experiencias y retos, lidiando con dificultades y perseverando, a la vez que se descubren y disfrutan nuevos lugares, gentes y culturas sin olvidar tratar de encontrar la belleza que siempre hay a nuestro alrededor, aunque a veces escondida y que da cierto sentido a la existencia. José Luis Tejero, ilustrador español actualmente asentado en Manchester, UK. www.tejerostudio.com
APRIL - MAY - JUNE 2016 Eline Verstegen, Chiara M. Villa, Rosie Jenkins Curators London
Adeline Barré Graduated in Art History Paris, France
Begoña Ibañez Doctora en Historia del Arte Granada, España
Ellie Porter Researcher London
Jose Luis Tejero Fuentes Ilustrador Granada, España
Matilde Ferrarin Digital & Social Media Strategist Venezia, Italia
Alessandro Arcioni Studente della Laurea Magistrale in Storia delle Arti e Conservazione dei Beni Artistici presso Università Ca’ Foscari di Venezia Venezia, Italia
Alessia Nardi Operatrice della didattica museale e Mediatrice Culturale Firenze, Italia
CHRISTO E JEANNE-CLAUDE dal Nouveau Realisme alla Land Art
la genesi di
THE FLOATING PIERS
Questo territorio non sarà mai più lo stesso. Qui ci sarà per sempre un prima di Christo e un dopo Christo
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on queste entusiastiche parole pronunciate a caldo, Luigi Di Corato (Direttore della Fondazione Brescia Musei), commentò l’apertura al pubblico di The Floating Piers, l’incredibile installazione realizzata da Christo e Jeanne-Claude nel Nord-Italia: 70˙000 metri quadrati di tessuto giallo dalia sostenuti da 3 chilometri di pontili galleggianti, che dal 18 giugno al 3 luglio 2016 invasero le acque del Lago d’Iseo. In sole due settimane, questa infatti la normale durata dei loro progetti, quasi un milione e mezzo di visitatori percorse le passerelle, consegnando a tale avvenimento il premio di evento artistico di maggior successo in Italia nel 2016. Chi, fino a quel momento, aveva ritenuto impossibile camminare sulle acque, si dovette ricredere: Christo aveva infatti compiuto il miracolo… artistico. Conosciuto soprattutto per i suoi empaquetage, Christo Vladimirov Javacheff nacque il 13 giugno 1935 a Gabrovo, nella Bulgaria oppressa dal regime comunista.
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ormatosi presso l’Accademia di Belle Arti di Sofia tra il 1953 e il 1956, nel 1958 riuscì a espatriare, nascosto in un vagone carico di medicinali e forniture ospedaliere, raggiungendo Parigi. Sarà proprio nella città bagnata della Senna che, nell’ottobre dello stesso anno, incontrerà Jeanne-Claude Denat de Guillebon con la quale inizierà un sodalizio amoroso e artistico portato avanti per tutta la vita e proseguito anche dopo la sua scomparsa nel 2009: i loro progetti e creazioni successive a questa data recano infatti, e recheranno sempre, la firma di Christo and Jeanne-Claude. Nati lo stesso giorno, quasi come premonizione di un destino già scritto, i due artisti si collocano di diritto nel lungo elenco di personalità della storia dell’arte accomunate tanto da passione amorosa quanto da comuni intenti artistici, come Jean Arp e Sophie Täuber, Jackson Pollock e Lee Krasner, Robert e Sonia Delaunay, Willem ed Elaine de Kooning, Frida Kahlo e Diego Rivera, solo per citarne alcuni.
Dopo i primi ritratti, realizzati su commissione e firmati ancora con il nome di famiglia Javacheff, Christo si avvicinò al movimento artistico del Nouveau Realisme (seppur con le debite differenze, versione europea del New Dada americano), di cui entrerà a fare parte solo dal 1963. Fondato dal giovane critico Pierre Restany, così recitava il manifesto della neonata corrente redatto su carta monocroma blu, rosa, oro e firmato, tra gli altri, da Arman, François Dufrêne, Raymond Hains, Yves Klein (Yves Le Monochrome), Martial Raysse, Daniel Spoerri, Jean Tinguely e Jacques de la Villeglé: «Il giovedì 27 ottobre 1960 i nuovi realisti hanno preso coscienza della loro singolarità collettiva. Nouveau Rèalisme = Nuovi approcci percettivi al reale». Sarà infatti proprio questo ritorno di interesse nei confronti della realtà e dell’oggetto quotidiano, rivalutato e fatto assurgere a vera e propria opera d’arte, a caratterizzare l’esperienza artistica di Christo e Jeanne-Claude dall’idea, il progetto, alla concretizzazione nell’opera compiuta. Di fondamentale importanza, tanto per le poetiche dell’oggetto quanto per le altre sperimentazioni artistiche del secondo dopoguerra, sarà inoltre l’influenza esercitata dall’Avanguardia dadaista; senza le geniali intuizioni di Marcel Duchamp (Fontana, 1917), Man Ray (L’enigma di Isidore Ducasse, 1920), Hans Arp e altri, movimenti artistici quali Nouveau Realisme, New Dada, Pop Art, Arte Concettuale, Minimal Art, Arte Povera e Land Art, solo per citarne alcuni, non avrebbero avuto infatti la stessa potenza espressiva e capacità di sradicare le certezze sul concetto di Arte e di oggetto artistico: «tutti i materiali, al di là di pittura e scultura, hanno la stessa dignità artistica; essi non esprimono significati perché rappresentati, ma perché presenti in tutta la loro vissuta fisicità. Non vedo per quale ragione non si abbia il diritto di utilizzare vecchi biglietti, pezzi di legno fradicio, contromarche di guardaroba, filo di ferro, pezzi di ruote, bottoni, vecchie assi trovate nei cumuli di immondizie, come materiali alti» (Kurt Schwitters,1920). Nel 1958, sulla base di tali premesse, Christo iniziò a realizzare i primi Packages e Wrapped Objects firmati con il suo nome di battesimo: oggetti quotidiani, abbandonati nelle discariche poiché privi ormai di qualunque valore d’uso, vennero recuperati e tradotti in enigmatici oggetti artistici, ready-made promossi alla dignità dell’arte attraverso la scelta dell’artista. Il gesto dadaista-nouveau realista di riscoperta dell’oggetto e del suo significato diventa però duplice in Christo: non solo, scegliendo materiali di scarto, egli conferisce nuovamente importanza all’oggetto in sé e alla sua storia ma, impacchettandolo e celandone le forme, crea anche curiosità e attesa nei confronti di qualcosa che si pensa di non conoscere ma la cui natura invece si è solo dimenticata. Una lettura socio-politica di tale processo, per nulla forzata e calata nell’esperienza autobiografica dell’artista, potrebbe inoltre portare a contrapporre le due grandi forze di capitalismo e comunismo: il recupero degli oggetti in disuso e abbandonati sarebbe una critica nei confronti della logica capitalistica dell’acquisto in serie, il celare l’opera rinvierebbe invece alla sensazione di isolamento e all’atmosfera repressiva e opprimente della cultura comunista.
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l 1961 segnò un punto di svolta nella poetica artistica di Christo e Jeanne-Claude: dopo la prima collaborazione per Stacked Oil Barrels e Dockside Packages al porto di Colonia, le loro creazioni iniziarono a mutare dimensioni, divenendo a tratti monumentali, e a essere realizzate o collocate all’esterno, interagendo con l’ambiente circostante. Da questo momento, pur mantenendo un’impostazione e un significato nouveau realista, la loro arte indagherà lo spazio e il territorio come mai era stato fatto fino a quel momento, intervenendo sui materiali tanto naturali quanto artificiali, gareggiando e sfidando i limiti della natura e
iscrivendosi così a pieno titolo nella storia della Environmental Art o Land Art. Collocata temporalmente, secondo la periodizzazione e categorizzazione artistica, tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, la Earth Art potrebbe invece essere considerata come la prima forma d’arte manifestatasi, frutto del pensiero e dell’ingegno umano: non sono forse, infatti, da considerarsi tali anche il complesso megalitico di Stonehenge, la Valle dei Re in Egitto, le Piramidi, la città di Petra e le statue dell’Isola di Pasqua? Senza scomodare tali illustri e antichi predecessori, interventi più recenti vennero invece realizzati, per esempio, da Michael Heizer nella
regione del Mormon Mesa, Nevada: Double Negative (1969-1970), due fenditure regolari lunghe 457 metri, profonde 15 metri e larghe 9 metri, solcavano la terra dando l’impressione di far parte di un’unica linea interrotta bruscamente dalla gola del canyon; un lavoro in “negativo”, dove fu rimosso materiale piuttosto che essere accumulato. Oppure Alberto Burri: tra il 1984 e il 1989 realizzò il Grande Cretto in Sicilia. Nel luogo ove una volta sorgeva la città di Gibellina, rasa al suolo dal terremoto del 14 gennaio 1968, si erge oggi un gigantesco monumento in ricordo delle vittime: costruito cementificando le
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acerie della memoria storica di quel paese), il Cretto si caratterizza per una serie di fratture di cemento su 8000 metri quadrati di terreno. Ogni fenditura, larga tra i due e i tre metri e alta un metro e mezzo, sembra al contempo ripercorrere e ricreare, almeno nel ricordo, le vie e i vicoli della vecchia città, ma anche riportare alla mente le spaccature prodotte dall’evento sismico. Nel 1970 Robert Smithson realizzò Spiral Jetty: una spirale di 450 metri di diametro, vago richiamo ai gorghi marini delle incisioni e stampe giapponesi, costituita da 60˙000 tonnellate di terra,
rocce di basalto e cristalli di sale che si inoltrava per 1450 metri nel Great Salt Lake, nello Utah. Tra il 1973 e il 1976 Nancy Holt realizzò Sun Tunnels: quattro tunnel di calcestruzzo vennero posati sul terreno del Great Basin Desert (Utah) in modo da formare una grande X, le cui diagonali misuravano ciascuna 26 metri. Sulla parte superiore di ogni cilindro era stata inoltre praticata una serie di fori, predisposti per catturare il movimento degli astri e proiettare all’interno un gioco di luci e ombre, quasi da primitivo osservatorio astronomico. Oppure il famosissimo quanto incredibile The
Lightning Field (1977), realizzato da Walter De Maria nel New Mexico centrooccidentale: 400 pali appuntiti in acciaio inossidabile, lucidati a specchio, distanti l’uno dall’altro 65 metri, formavano un rettangolo con una base di 1,6 chilometri e un chilometro di altezza; una gigantesca “trappola” per fulmini, un campo energetico predisposto per attirare e scaricare a terra le folgori durante i temporali. I pali specchianti inoltre riflettevano la luce del sole, le tonalità dell’alba e del tramonto e, proiettando a terra le loro ombre, si trasformavano in meridiane.
La prima vera occasione per sondare i limiti dimensionali delle proprie installazioni sitespecific in un contesto urbano si presentò nel 1962 quando, a Parigi, Christo e JeanneClaude proposero The Iron Curtain – Wall of Oil Barrels. Realizzata senza un regolare permesso nonostante i vari tentativi fatti dagli artisti in questo senso (primo e unico caso nella loro storia lavorativa), tale “cortina di ferro” bloccò per otto ore la viabilità in Rue Visconti: la sera del 27 giugno Christo e Jeanne-Claude chiusero infatti la strada con 240 barili di petrolio di capacità compresa tra i 50 e i 200 litri ciascuno, creando una barricata artistica alta 4,3 metri, larga 3,8 metri e profonda 1,7 metri. Più politicamente allusiva rispetto alle altre loro installazioni temporanee, la sua ideazione ricevette impulso dalla costruzione del muro di Berlino (agosto 1961). Posta in essere mentre nella capitale francese si svolgevano manifestazioni di protesta contro le decisioni del governo della Repubblica Democratica Tedesca (Germania Est), la barricata poteva essere letta anche come forma di critica nei confronti del concetto del petrolio come fonte di scambio e profitto e dell’ingerenza e strapotere economico che iniziavano ad acquisire le grandi industrie petrolifere che, poiché i barili erano stati presi e utilizzati come tali e non ridipinti, erano facilmente riconoscibili. In aggiunta, l’installazione, esteticamente considerabile quasi come il particolare di un dipinto puntinista ingrandito a dismisura, costituiva un gesto artistico importante perché faceva uscire l’arte dagli spazi ufficiali della galleria, del museo e della collezione privata e la portava nelle strade della città.
Il trasferimento a New York nel 1964 segnò un punto di non ritorno: le loro creazioni, forse influenzate dalle vastità e dagli sconfinati spazi americani, iniziarono ad assumere proporzioni veramente colossali. Numerosi sono infatti i punti che, oggi come allora, caratterizzano l’arte di Christo e Jeanne-Claude rendendoli artisti unici nel loro genere. Da sempre interessati all’interazione con lo spazio e l’ambiente circostante, urbano o rurale che sia, essi “prendono in prestito” il territorio per la durata di poche settimane, solitamente due, restituendolo a opera conclusa. A differenza infatti di altri land artist, come Michael Heizer e Walter De Maria, Christo e JeanneClaude non si appropriano del territorio realizzando installazioni destinate a durare nel tempo ma, dopo la breve parentesi di pochi giorni (o poche ore), riportano l’ambiente alle condizioni precedenti al loro arrivo. Le loro sono quindi brevi ed effimere trasformazioni del territorio, quanto basta però per lasciare il loro ricordo ben impresso nella mente. Essi giocano con i materiali naturali (terra, acqua, aria) e artificiali (plastici, metallici) sui quali agiscono e con i quali interagiscono creando un perfetto e armonioso connubio. Ogni progetto, unico e irripetibile (non vengono infatti mai riproposte idee già realizzate in passato), costituisce quindi un’esperienza nuova ed eccezionale. Ogni installazione è pensata per un periodo particolare dell’anno: a seconda infatti di come essa possa apparire una volta completata, delle condizioni metereologiche che caratterizzano un determinato luogo, della fruizione da parte del pubblico e di altre variabili, l’opera può essere progettata per l’inverno (come The Gates – New York
City, poiché altrimenti gli alberi in fiore di Central Park avrebbero reso impossibile vedere il colore del tessuto utilizzato), per la primavera ( c o m e i n S u r ro u n d e d Islands, per evitare gli uragani che in autunno si abbattono sulla costa della Florida), per l’autunno o per l’estate. Il tentativo è quindi quello di creare una sinergia e sintonia perfetta, tanto materica quanto cromatica, tra tutti gli elementi coinvolti: acqua, terra, aria, neve, pioggia, vento, tessuto plastico utilizzato per avvolgere o coprire, ganci metallici e blocchi di cemento impiegati per ancorare la struttura, il tutto inondato dalla luce delle diverse ore della giornata; infiniti contrasti cromatici che portano a una differente percezione dell’opera d’arte. Opera d’arte che non è solo la creazione in quanto tale che, da idea e progetto, si concretizza in installazione presente, quanto il rapporto che essa instaura con l’ambiente circostante, con il clima, con la gente del luogo, con i visitatori. L’opera non presenta più né le qualità bidimensionali di una pittura
né quelle tridimensionali di una scultura; la modalità di fruizione scelta è completamente differente. L’installazione può essere vista dall’alto (da una collina, da una montagna, da un edificio, da un aereo) o dal basso ma, soprattutto, diventa tattile. Non si adotta più l’ormai superato schema visivo e frontale con cui fare
esperienza dell’opera; non vi è più un unico punto di fuga o esclusivo punto di vista da cui osservare: può essere uno o infiniti e sempre diversi, vi è un policentrismo, una perdita del centro di pollockiana memoria, l’opera avvolge e coinvolge lo spettatore che si trova completamente immerso in essa.
L’esperienza che si vive, perché l’opera d’arte va vissuta e non contemplata passivamente, coinvolge tutti i cinque sensi: dal vedere il tripudio di forme e colori all’udire lo scrosciare o frangersi dell’acqua sul tessuto, dall’odorare i profumi portati dal vento all’assaporare l’arsura di un pomeriggio estivo. Ma tra i
cinque sensi, uno risulta predominante: il tatto. Se la Scuola di Vienna, nella seconda metà dell’Ottocento, aveva infatti elaborato la teoria della pura visibilità12 come modalità primaria tramite la quale avvicinarsi all’opera d’arte, in tale circostanza si potrebbe azzardare invece una “teoria della pura tattilità”: «adoro
la possibilità di esplorare lo spazio fisicamente e farne esperienza tattile» (Christo). A differenza dei normali artisti, Christo e JeanneClaude collaborano con chiunque possa essere coinvolto nell’evento artistico: galleristi, collezionisti, critici d’arte ma, soprattutto, gli abitanti del luogo interessato, i proprietari dei terreni attraversati dalle loro creazioni, i lavoratori e le maestranze locali e gli ingegneri. Nelle loro opere si assiste infatti a un perfetto connubio tra arte e ingegneria, tanto da poter quasi parlare di “ingegneria artistica”: adoperata cioè, non per realizzare qualcosa di duraturo e utilizzabile, come è compito della normale scienza ingegneristica, ma per creare qualcosa di effimero, che stupisca, inutile nel senso di non più utilizzabile dopo la rimozione dell’opera. Una ingegneria che si fa quindi strumento prediletto dell’azione del Kunstwollen: «We do work of joy and beauty. I would do nothing except for beauty and art, and everything that has a meaning is simple
propaganda: there is commercial propaganda, political propaganda, religious propaganda,… the work is the work itself and It means art, and art deals with aesthetics and you need to be educate in art» (Christo). I progetti di Christo e Jeanne-Claude sono sempre ambiziosi e spettacolari, sconfinano e sondano i limiti dell’utopia, ma riescono sempre a concretizzarsi. I due artisti propongono infatti idee che il nostro senso comune, orientato all’efficienza, non saprebbe come interpretare; tutte le realizzazioni sembrano frutto di fantasie eppure, ogni volta, succede sempre la stessa cosa: ciò che era ritenuto inimmaginabile e non realizzabile, viene spazzato via da una realtà inconfutabile. L’energia creativa degli artisti rimane infatti sempre focalizzata sul fattibile e sul tecnicamente possibile. Di fondamentale importanza è poi il rapporto che Christo e JeanneClaude instaurano con le istituzioni del territorio scelto poiché comunque solo grazie alle loro autorizzazioni sarà possibile rendere concreta l’opera. Anche per questo motivo, infatti, alcuni progetti si protrassero negli anni oppure vennero abbandonati e poi ripresi o anche, purtroppo, si arrivò alla rinuncia da parte degli artisti stessi (si veda, come esempio più recente, l’abbandono di Over the River – Project for Arkansas River, Colorado, come forma di protesta nei confronti dell’elezione a nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America di Donald J. Trump). Come molte cose nella vita, anche le loro creazioni sono effimere, fugaci e temporanee, sia per non stravolgere eccessivamente il paesaggio interessato o mutare le abitudini quotidiane della gente del luogo, sia per mantenere viva e attiva una certa curiosità e perché, come ama ripetere Christo: «la bellezza è come la vita di un fiore». Una volta terminata la durata dell’installazione, i materiali impiegati vengono poi rimossi e riciclati dalle stesse industrie produttrici che si impegnano al loro
reinserimento e conferimento di nuovo valore d’uso. Ciò che rimane sono quindi i disegni, i bozzetti, i plastici e i collage realizzati da Christo e da lui utilizzati come unica forma di autofinanziamento: tutti i progetti finora realizzati sono stati infatti esclusivamente finanziati tramite la vendita di tali prodotti. Sulla base di tali premesse, Christo e Jeanne-Claude, i “nomadi dell’arte”, hanno realizzato, in oltre quarant’anni di attività, alcune tra le più incredibili opere di Land Art mai viste fino a questo momento: Wrapped Coast, One Million Square Feet (1968-1969) vide l’impacchettamento di 2,4 chilometri di costa rocciosa presso Little Bay, Sydney (Australia), con 92˙900 metri quadrati di tessuto sintetico anti erosione, oppure Valley Curtain (Rifle, Colorado, 1970-1972) con 18˙600 metri quadrati di tessuto arancione che, come all’ultimo atto, calarono sul palcoscenico del mondo, o Running Fence (California, 1972-1976), grande serpente bianco animato dal vento, o The Pont Neuf Wrapped (Parigi, 1975-1985), per il quale il critico David Bourdon parlò di rivelazione attraverso il celare, oppure Surrounded Islands (Biscayne Bay, Florida, 1980-1983) in cui undici isole al largo di Miami vennero circondate con 603˙870 metri quadrati di tessuto in polipropilene rosa fluttuante sulla superficie dell’acqua, o The Umbrellas (Giappone-Usa, 1984-1991) che, all’alba del 9 ottobre 1991, vide 3100 enormi ombrelli schiudersi al sole inondando di una marea gialla e blu i territori di Ibaraki e della California, o Wrapped Reichstag (Berlino, 1971-1995), grandioso impacchettamento della sede del potere legislativo tedesco oppure, infine, The Gates (New York, 1979-2005), in cui una serpentina di tessuto arancione si snodava e si espandeva all’interno di Central Park, creando sublimi contrasti cromatici con il candore della neve.
Ultimo in ordine di tempo, ma non per questo meno importante, è stato lo spettacolare allestimento di The Floating Piers – Project for Lake Iseo (2014-2016): dopo quarant’anni di assenza, esso ha rappresentato il ritorno in grande stile di Christo e Jeanne-Claude in Italia. Pensato e progettato sin dal 1970 per il Rio de la Plata (Argentina) e, successivamente, per la Baia di Tokyo (Giappone, 1996-1997), esso è divenuto realtà tra il 18 giugno e il 3 luglio 2016 nelle acque del Lago d’Iseo: per sedici giorni è stato infatti possibile percorrere i tre chilometri di pontili galleggianti e fluttuanti sulla superficie dell’acqua da Sulzano a Monte Isola e tutt’intorno all’isola di San Paolo.
Costituite da 200˙000 cubi in polietilene ad alta densità, le passerelle erano larghe 16 metri e alte 50 centimetri, digradanti ai lati; bagnando e risalendo le sponde dei pontili secondo il proprio moto ondoso, l’acqua creava quindi un perfetto connubio e una totale simbiosi con il materiale “estraneo”, che però tale non pareva e che sembrava immergersi ed emergere con cadenza regolare. Ancorati al fondale del lago tramite cavi metallici collegati a blocchi di cemento, i pontili erano stati ricoperti con 70˙000 metri quadrati di tessuto color giallo dalia tendente all’arancione o al giallo brillante: un incredibile effetto cromatico che variava a seconda
delle ore della giornata, delle condizioni metereologiche e dell’azione bagnante dell’acqua (suggestione tanto cara e ricercata da qualunque pittore impressionista). L’impatto era spettacolare: una immissione cromaticamente “violenta” ma allo stesso tempo “dolce”, poiché riusciva ad armonizzarsi perfettamente con gli elementi naturali circostanti. Unica raccomandazione da parte dell’artista: «Voglio che le persone camminino scalze! L’idea è di camminare sull’acqua. La cosa bella di questo progetto è che si camminerà su una strada pedonale e poi, tutt’a un tratto, ci si renderà conto di stare camminando sull’acqua. Passa una barca, e non ci si accorge che si sta avvicinando. È un progetto molto sensuale. È un progetto molto tattile. All’inizio molti si sentiranno mancare l’equilibrio, perché non è come camminare su un ponte. L’esperienza della fluidità dell’acqua sotto i piedi è qualcosa di intraducibile, di magico. L’energia del movimento fluido dell’acqua contro la solidità della struttura apre una vasta gamma di sensazioni». Come tutte le installazioni realizzate da Christo e Jeanne-Claude, anche The Floating Piers, ad accesso rigorosamente gratuito, non ha inizio quando si posa il piede sul tessuto giallo sfavillante; l’attesa, il viaggio per raggiungerla, sono già essi stessi momenti imprescindibili dell’opera d’arte. Come disse Christo: «l’opera d’arte non sono i Piers, ma il viaggio: chi c’è andato la porterà nella mente per tutta la vita». Anche in questa occasione infatti, una volta terminato l’evento artistico, i materiali sono stati reinseriti nel ciclo industriale. Ciò che è rimasto, ancor più vivo in chi tale esperienza l’ha vissuta, è la memoria, il ricordo personale e collettivo di una incredibile esperienza sensoriale, di una totale immersione nell’opera d’arte e la consapevolezza che quel territorio non sarà mai più lo stesso, ma rimarrà per sempre legato al nome di Christo e JeanneClaude. Tale creazione è tattile, ma allo stesso tempo intangibile, possedibile da tutti e da nessuno: «tutto finisce nella vita. La cosa importante di questi progetti è che prima o poi finiscono, nessuno può possederli. La libertà non è possesso». The Floating Piers, seppur per un tempo effimero come la bellezza, ha quindi mostrato e dimostrato come l’arte possa essere e vivere in mezzo a noi, coinvolgerci e costituire una parte fondamentale della nostra vita.
Alessandro Arcioni Studente della Laurea Magistrale in Storia delle Arti e Conservazione dei Beni Artistici presso Università Ca’ Foscari di Venezia Venezia, Italia 866117@stud.unive.it
1. Georges Révoil, Young Somali wearing an amber necklace, 1881, print on albumen paper on cardboard, Musée du Quai Branly, n°PP0020770.1
The Musée du Quai Branly in Paris preserves the collections that the French traveler George's Révoil gathered during his third trip to Somali in 1881. Among them are portraits taken by himself, presenting indigenous men and women [ill.1]. Framed to the bust on a white background, they illustrate, in sepia colours, Révoil's will to come to meet these populations, who occupied one of the rare territories of the African continent that remained uncharted from European colonial powers. The faces and bodies that he captured emerge on the albumen paper
and glass plates, expressing at a time the ambivalences of the explorer's photographic gaze on Somalis physical, corporeal and clothing identities, as well as the issues on which Révoil's relationship with the “African Other”, e.g. the last “inhabitant of earthly paradise" and flesh of Western expansionist dreams was established. Although the Somali territories were remarkably difficult and hostile, this did not keep European nations from focusing on them. On the 20th of June 1880, a ministerial decree once again
authorised the young traveler to wander about in Somali. This land, too barren, too deserted, of which Révoil wrote severely, asserting that nothing could be grown except “the field of the dead” was paradoxically in the midst of Italian, English and French rivalries. All had already perceived the great interest of it's geographical position in the developing trade with Asia. It was indeed in this decisive context of international competition that Révoil was mandated by the State to lead a scientific exploration that would last for about two years.
“I have not been happier in my measurement tests. Despite my complacency for the Somalis, despite my assiduous nursing of the sicks, despite my promises and gifts, none has wanted to let himself touched.”
Furthermore, the prominent Society of Anthropology of Paris (SAP) showed a keen interest towards the possible contributions that such an expedition could bring into the discipline. To this end, it c o m m i s s i o n e d G e o rg e s Révoil with a field mission to conduct. Thus, when the anthropologist Paul Topinard announced Révoil's departure to the members on the first of July 1880, he reported that the explorer left with the “instruments” and “instructions” deemed essential to the good practice of Anthropology and achievement of its initial goal, e.g. the scientific study of human races. Such instructions probably followed those that Paul
Broca, the father of Anthropology and the founder of the Society launched in 1865. From 1871 onwards, the “permanent commission for anthropological instructions” relied on Broca's instructions and asked independent travelers, such as Révoil to apply them. By the end of the century, anthropology remained predominantly based on an anatomical and medical approach towards humanity. Therefore, these instructions and their institutional teaching mainly aimed at the systematization and standardization of the process of characterization of the various physical types of
humans all around the world. For its mechanical nature, reproducibility and assumed objectivity, the photographic medium logically became one of the favorite tools for the practicians of physical anthropology and anthropometry. In order to lead a proper comparative and typological analysis of the bodily Other – here rationalized as an object of racialist and racist scientific conceptions of the time –
2. Georges Révoil, Group of Somali, 1881, print on albumen paper on cardboard, Musée du Quai Branly, n PP0020761
Broca required that the sitters were bare headed with a strictly frontal view of the face or face seen from the profile. Moreover, the sitters had to pose naked “as much as possible” with their arms lingering along the body. Similarly, the color of the skin, eye, capillary system, should be indicated and their features carefully measured. At last, to ensure the seriousness of the results, photographs should be well framed obviously, lit, and of sharp definition. The Bulletins of the SAP testifies of Georges Révoil's preparatory work. In order to meet the institution's scientific requirements, he
had “become familiar with anthropometry” while being trained to master “the most advanced processes of photography”. De facto, the traveler knew how to handle the camera according to the rules defined by anthropologists. However, an attentive glance at the Révoil's photographs may reveal that they do not represent a similarly rigorous intent in the precision as it was predefined by the o ff i c i a l a n t h r o p o m e t r i c criteria. Often deployed in pairs following a similar scheme to the plates for anatomical comparison, the pictures do not always show the same person. In addition,
the framing is often limited to the display of the bust and the head. As a result, Révoil's pictures do not always depict the entire body of the sitter. The craniological approach that predominated in the establishment of racial distinctions in the nineteenth-century France could perhaps enlighten this first deviation from the rules of anthropometric photography. The relatively natural poses taken by the sitters nonetheless contradicts that. As a matter of fact, the photographer seems to have not coerced them into a more conventional, rigid, and standing attitude [ill.2].
The existence of group portraits turns out to be a distinct feature as well as the absence of complete nudity. The sitters are dressed in fabrics that traditionally covered their body or even h a i r. T h e y a l s o w e a r imposing jewels, which further disrupts the overall vision that one should have had of their anatomy. A thorough observation of the real work conditions might offer some ease in
better understanding Révoil's unexpected emphasis on Somalis clothing and adornment. These pictures in fact represent the direct contact that occurred between the local populations and the European explorers. In March 1881, the Bulletins of the SAP published a letter sent by Révoil from the British colony of Aden.
He reported Somalis resistance in taking part in this anthropometric exercise: “I have not been happier in m y m e a s u re m e n t t e s t s . Despite my complacency for the Somalis, despite my assiduous nursing of the sicks, despite my promises and gifts, none has wanted to let himself touched.” As a preparation to his mission, Georges Révoil had previously studied Broca's advice in patience, persuasion, as well as in manipulation through the trade of some “particularly desired, insignificant object” to convince the people of Somali to allow that kind of physical contact. Given the widespread reluctance of the locals to pose, one could claim that these strategies, more than anything, reflect a particular weakness of the thinkers of the anthropological method: their inability to consider their objects of study beyond the theoretical value attached to them. As for the other obstacles to the making of these pictures, they could belong to the religious and cultural realms.
Islamic belief, as “the only religion of the Somalis”, opposed to image making and also, more generally, what one could call a cultural feeling of modesty, should have kept Somalis from wanting to have their body measured and their image taken. It remains however doubtful whether the photographer had solely conceded the presence of the elements of clothing, jewelry, fabrics or else, in his portraits. He could have as well had a specific purpose in mind by choosing to keep such elements in his pictures. An album entitled “Souvenirs de voyage au p a y s Ç o m a l i ” ( Tr a v e l souvenirs of Çomali country) gathering forty-eight of his pictures taken during his exploration in Somali – preserved at the French National Library – sets out Révoil's complex approach to anthropometric p h o t o g r a p h y. T h e captions concerning each picture in this compendium are divided into two categories highlighting his interest not only in physical types, but also in
Somali accessories and apparel. Some comments also paraphrase several costume descriptions that Révoil had made during his first travel report Voyage au Cap des Aromates (1880). The fact that certain captions might have been affixed to the album after the publication of this book should not be overlooked. But the comparison between the text and images indicates
Révoil's underlying sensibility to his sitters' appearance, from both physical and material points of view. In group photographs, for instance, the dresses of lightweight fabric give the impression of melting with the white background. Most probably they were used as an aesthetic instrument to showcase the dark skin and emphasize the face.
Furthermore, by looking all at the similar direction, sitters posed in a way to let the viewer observe the same side of their heads while subtly comparing their distinct features [ill. 3]. Clothing and jewels that would have been previously considered as disruptive elements are used to serve the process of racial distinction. Therefore, they take part in staging the body within the limitations that the anthropometric method imposed on the fieldwork. Georges Révoil's work is in fact, halfway between two photographical genres specific to anthropology and the human sciences that are epistemologically linked to it.
The effort of the explorer to give an account of the physical diversity that resided in Somali, certainly echoes his primary mission that consisted there in gathering anthropological datas. Nevertheless, his photographs tend to suggest more of a “scientific impression” rather than truly constituting an anthropometric study material and resemble somewhat to the category of “exotic scenes and types”. This kind of photography was interesting for geographers and ethnologists for the information that it eventually provided about the cultural varieties of Humans, whereas anthropometric pictures preoccupied with merely
mapping their “natural” diversity. However to understand more in-depth Georges Révoil's ethnographic interest towards the Somali appearance that shows up tangible in his photographs, it is also judicious to consider other forms that testimony his third trip over there. Alongside the geographical and commercial surveys that he did in the name of the French Government, and his photographs, the explorer also collected a large number of objects for the Museum of Ethnography of Trocadéro, in Paris. Among the ones that have come down to us today, a third solely comprehends textiles, clothing and ornaments.
3. Georges Révoil, Group of Somali, 1881, print on albumen paper on cardboard, Musée du Quai Branly, n °PP0020763.
4. Georges Révoil, Wealthy Somali woman wearing the Markam, the Djilbert and Koured, 1881, print on albumen paper on cardboard, Musée du Quai Branly, n PP0020774.
Nevertheless Révoil's archeological and ethnographic notes published in 1884 points out that in time, many of them have been lost. In this book, Révoil took as specimen some Somali necklaces and amulets that he had brought back to France. Unfortunately of this part of his collection at the Museum of Ethnography not a single trace has been found yet. In some of his notes however,
Révoil devoted many passages to the detailed description of Somali inhabitants' look. Through the study of their “physical, intellectual and moral characteristics” specific criteria of Ethnographythe traveler offered to demonstrate that these populations were the living testimony to “the imprint of races of which archeology reveals the existence”. Révoil was indeed
one of the firsts to show interest in the archeological remnants in Black Africa. As a forerunner, he claimed to have located in Somali the ancient Egyptian country of Punt, as well as the vestiges of the Greek civilisation, which led him to interpret the Somali body and clothing as valid elements corroborating his convictions. Under his pen, Révoil transcended Somali white, “fairly clean dresses” – in the words of Arthur Rimbaud – in peplum and togas. Their amulets became the tangible evocations of those worn by the Punt princesses and the veil on their head or earrings, the indisputable resurgences of an archaic silhouette [ill. 4]. “[these] earrings […] absolutely resemble the jewels that are discovered everyday at the excavations of the Roman, Greek and Egyptian monuments. Not only the j e w e l e r y, b u t a l s o t h e costumes recall this period of time […]” Thus, the portraits by Révoil derogate from the anthropometric rule through careful inclusion of various items belonging to the Somali appearance.
“[these] earrings […] absolutely resemble the jewels that are discovered everyday at the excavations of the Roman, Greek and Egyptian monuments. Not only the jewelry, but also the costumes recall this period of time […]” Therefore, he makes a traveler’s atypical and highly personal vision of the Somali population. Still anchored in the anthropological classification system of his times, he subtly utilizes clothing and adornment as racial status markers. But instead of representing the people of Somali eternally caught in the assumed savagery that was then associated to Black Africans, Révoil places them in the historical course of civilizations, which used to be until then an Occidental privilege. These collections offers a summary of anthropological issues raised in 1880's such as the impracticability of anthropometric methods. The profound dichotomy that existed between anthropologists and travelers for the longest time also appears here in the duality of the anatomical approach of the study of Other– such as initially required in Révoil photographs – and the concrete but highly symbolic reality of the African apparel .
Adeline Barré Graduated in Art History Paris, France barreadeline91@gmail.com
Sources : National Archives, Pierrefitte-sur-Seine, France File F/17/3009/2 « Georges Révoil » French National library, Paris, France WE 11 I - RÉVOIL Georges, Souvenirs de voyage aux Pays des Çomalis, 1880-1881 (29 p.), don Roland Bonaparte Articles TOPINARD Paul « Deuxième partie : Instructions particulières » in Bulletins de la Société d'anthropologie de Paris, IIe Série. t.8, 1873. DE RIALLE M. « Instructions anthropologiques sur l'Asie centrale » in Bulletins de la Société d'anthropologie de Paris, IIe Série. t. 9, 1874. [S.A] Bulletins de la Société d'Anthropologie de Paris, IIIe Série, t.3, 413e séance, july 1st 1880. [S.A] Bulletins de la Société d'Anthropologie de Paris, III° Série, t.3, 416e séance, october 21st, 1880. REVOIL Georges « Nouvelles d’Aden » in Bulletin de la Société d’Anthropologie de Paris, march 3rd, 1881. HAMY Ernest-Théodore, « Quelques observations sur l'anthropologie des Çomalis » in Bulletins de la Société d'Anthropologie de Paris, III° Série, t.5, 1882. [S.A] « Une exploration française sur le côte orientale d'Afrique. -M. Georges Révoil dans le pays des Çomalis. » in Le Petit Journal, n°7098, june 2nd 1882. VERNEAU René « Musée d'ethnographie du Trocadéro » in L'Anthropologie, january/February 1896. Books DARWIN Charles, On the origin of species, Londres, John Murray, 1859. BROCA Paul, Instructions générales sur l'anthropologie (anatomie et physiologie), Paris, V. Masson et fils, 1865. BROCA Paul, Mémoires d'anthropologie, Paris, Reinwald, T. 2, 1874. BROCA, Paul, Instructions générales pour les recherches anthropologiques sur le vivant, Paris, G. Masson, 1879. REVOIL Georges, Voyage au Cap des Aromates (Afrique orientale), Paris, E. Dentu, 1880 REVOIL Georges, La Vallée du Darror, voyage aux pays Çomalis (Afrique Orientale), Paris, Challamel Aîné, 1882. REVOIL Georges, Notes d'archéologie et d'ethnographie recueillies dans le Çomal, Paris, E.Leroux, 1884.
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intervista a paolo scirpa
È la luce che disegna il buio o è il buio che disegna la luce? La voragine è una sottrazione dal pieno-luce o è un pieno-luce che sottrae vuoto-buio e lo definisce, lo circoscrive, lo fa essere? Corrado Maltese, 1977
Matilde Ferrarin - In un'intervista rilasciata a Carla Lonzi, Lucio Fontana affermava: “io buco, passa l'infinito da lì, passa la luce, non c'è bisogno di dipingere”. Anche i tuoi Ludoscopi si propongono di andare oltre la superficie, dando l'idea di “pozzi luminosi”: solo che questi spazi infiniti sono anche fittizi, ottenuti con l'uso di “congegni” fatti di tubi al neon e specchi. Sei interessato a suscitare un senso di “meraviglia illusiva” o di messa allerta proprio nei confronti di ogni inganno percettivo? Paolo Scirpa - Il Ludoscopio, definito da Corrado Maltese (1984) "il Grande Ambiguo", è una struttura con una visibile ma inesistente abissalità, uno spazio-luce, un vuoto-pieno, dove il vuoto ha lo stesso valore del pieno perché esso esiste grazie al pieno e viceversa. La tridimensionalità illusoria del Ludoscopio suscita certo meraviglia. Il gioco ottico "percorribile", dato da una serie di mutazioni di figure geometriche elementari e dalla loro moltiplicazione prospettica, provoca una suggestione quasi misterica, un invito anche alla riflessione sulla nostra situazione fisica e culturale. Esso induce a dubitare di tutto ciò che vediamo e a sospettare che la nostra visione del mondo sia solo inganno e illusione
Paolo Scirpa autore di ludoscopi elettromeccanici a profondità virtuale, dispone luci policrome neonescenti per tracciare orientamenti intermittenti nello spazio immaginario cui invita. I corpi metaspaziali di Scirpa si illuminano di trasparenze boreali pulsanti e suggeriscono il cammino senza fine dell’ignoto. Carlo Belloli, Milano 1987
M. F. - Ma ci sono anche i Cubi multispaziali (del 1987), che aprono la strada ad una visione prospettica plurima o, meglio, ad una dimensione spaziale che pare farsi dinamica, aerea, data da vortici di luce simili a “celle alveolari“. Qui, rigore e vitalità, nitidezza e sublimazione convivono. Le sagome rivelano la possibilità di mutarsi, di diventare qualcosa di diverso. Sembrano spazi limitati, ma allo stesso tempo spalancati oltre ogni limite. Sono viaggi verso una dimensione ancora tutta da esplorare, tragitti che indagano l'idea di mistero, se non addirittura di trascendenza?
P. S. - Nei Cubi multispaziali, i vortici luminosi indicano un viaggio oltre lo spazio limitato, verso una nuova dimensione e la luce, energia vitale, diventa l'elemento unificante della realtà. In essi vorrei esprimere il bisogno di trascendenza, il desiderio di un viaggio in cui il tangibile diviene intangibile e l'essenza prende il posto dell'esistenza. Sono installazioni al neon che comunicano un senso di allegria, volentieri ci si accosta a loro: mi hanno sempre colpito i bambini che, con la loro spontaneità, hanno delle reazioni gioiose, attratti e affascinati da questi tunnel di cui non vedono la fine.
M. F. - Sia nei Ludoscopi che nella strutture cubiche, più collochi fasci di luce, più questa luce tocca un buio insondabile, che noi seguiamo a perdifiato. Nelle varie strutture per te è fondamentale introdurre sempre uno slittamento simbolico che fa immaginare altre possibilità visive ed esistenziali?
P. S. - Certamente. Le mie immagini virtuali, i miei panorami di scatole (nelle opere di denuncia come la Megalopoli consumistica, La Galera del benessere, il Grande Tabellone consumistico bifrontale), le voragini geometriche di luci al neon dei Ludoscopi sono "messaggi" lanciati nel mare sconosciuto del nostro futuro e un invito a dare al mondo un nuovo senso. Per loro stessa natura i Ludoscopi dovrebbero dialettizzarsi con uno spazio più ampio e caratterizzato. Avendo sempre più l'esigenza di simulare uno spazio infinito ed essendo limitato ad operare nel piccolo formato, a volte li propongo in fotomontaggio, come progetti di installazioni in grande scala.
M. F. - Nella tua opera non manca mai, però, uno spirito ludico, dato dal continuo trapasso tra pieno e vuoto, consistenza ed essenza, ragione ed emozione. È come se le tue immagini avessero un'ambiguità, una polivalenza, che le rinnova nel momento stesso in cui giriamo loro intorno o le muoviamo (con gli occhi) per scomporle e ricomporle. Dov'è l'inizio, dov'è la fine? Esse ci ricordano tutto (luoghi, geometrie, fantasie), senza ripetere nulla. Vuoi far diventare anche lo spettatore artefice, sperimentatore di situazioni acrobatiche? P. S. - Il fruitore dovrebbe certo interagire con la sua immaginazione osservando i percorsi prospettici di spazio-luce dei miei Ludoscopi, divergenti e convergenti in un punto. L'illusione ottica è data dagli specchi coassiali sulle strutture semplici di segno-luce al neon che creano "un tunnel verso l'ignoto... come un terminale video orientato non si sa dove... dove c'è assenza di gravità e forme..." (Bruno Munari, 1981). Sono sempre affascinato dalla nettezza e linearità della luce al neon e dalla possibilità di piegare a forme inconsuete e varie il tubo di vetro che diventa, per questo, elemento scultoreo, luminoso, concettuale. M. F. - Ciò che si percepisce con più forza nella tua opera è la lievitazione, la leggerezza, l'assenza di peso delle tue costruzioni. Tutto sembra provenire o galleggiare su un profondo mare di luce. È l'immaterialità della luce che sostiene la materialità dei segni e delle forme? È il suo mondo spirituale che ci mostra la prossimità di un “oltremondo”? P. S. - La moltiplicazione delle strutture luminose è il tentativo di rappresentare umanamente l'infinito come la nostra moderna tecnologia ci permette. L'infinito nello spazio simulato è un'idea che ha nutrito a lungo i miei pensieri e la mia dimensione interiore. L'idea di labirinto, per eccellenza emblema universale della ricerca dell'infinito, può sintetizzare questo anelito dell'uomo ed essere motivo di riflessione e di ricerca della propria identità.
M. F. - Ha scritto Italo Calvino che ogni cosa si presenta al nostro sguardo infinitamente problematica. Perciò vedere è soprattutto vedere il problema, tentare di penetrare la sua complessità. Vedere (e far vedere) è anche per te il modo ineludibile di interpretare le cose, di decifrare una realtà che si sta trasformando sempre più in pura immagine? P. S. - Il processo di ricerca che ho maturato via via negli anni ha riguardato l'approfondimento problematico dell'immagine e al tempo stesso le esperienze compiute in tal senso su diversi materiali. La realtà che tento di far vedere è quella dell'esistenza dell'uomo nella sua più vera condizione. Il mio è un invito a un viaggio dell'anima verso la trascendenza. Vorrei suggerire la speranza che le barriere che separano gli uomini possano venire abbattute e che si possa sfuggire alla dilagante superficialità e incomunicabilità.
Matilde Ferrarin Digital & Social Media Strategist Venezia, Italia matilde.ferrarin@gmail.com
A comienzos del siglo XIX, la sociedad asiste a un cambio fundamental en el modo de percibir el mundo: la figura del espectador va a cobrar un papel fundamental, situándolo en el eje central de todo, consiguiendo de esta manera el control sobre lo que le rodea, puede ser desde una obra de arte a un edificio que debe vigilar. Gracias a esta nueva forma de visión no hay ningún detalle que pueda desvanecerse, dotando al individuo de una mirada llena de poder. Será este marco donde se sitúa el panóptico, una tipología de edificio que se convertiría en realidad a finales del siglo XIX. El sueño de vigilar sin ser visto consigue materializarse en este modelo de prisión, el “Ojo que todo lo ve”. Un sistema sencillo pero tremendamente efectivo, una forma circular con una alta torre en el centro desde donde controlarlo todo. Michel Foucault ofrece una clara visión de lo que supone esta construcción en su obra Vigilar y castigar:
“Este espacio cerrado, recortado, vigilado, en todos sus puntos, en el que los individuos están insertos en un lugar fijo, en el que los menores movimientos se hallan controlados, en el que todos los acontecimientos están registrados, en el que un trabajo ininterrumpido de escritura une el centro y la periferia, en el que el poder se ejerce por entero, de acuerdo con una figura jerárquica continua, en el que cada individuo está constantemente localizado, examinado y distribuido entre los vivos, los enfermos y los muertos —todo esto constituye un modelo compacto del dispositivo disciplinario”.
La figura de Jeremy Bentham (1748-1832) es absolutamente capital para entender la reforma penal ilustrada y su mayor aportación a la misma es la prisión panóptica. En 1786 visita a su hermano Samuel en Krichev (Rusia) y mientras contempla el trabajo que está llevando a cabo, la construcción de una fábrica en la que el sistema de vigilancia se hiciera desde el centro, decide aplicar la idea original para crear un modelo de prisión perfecta. La obra de Bentham, Panóptico, se publica en 1791 y no nace sólo como una idea de reforma penitenciaria, sino que también tiene un propósito más práctico: quiere contribuir al debate de dicha reforma, tanto en los aspectos técnicos como en los económicos.
Pero lo más interesante es la solución arquitectónica que propone Bentham para construir dicha prisión, destacando la importancia de que el edificio se levante sobre una planta circular, ya que no hay ninguna otra forma que permita una vista completa de todas las celdas para su vigilancia, por eso es la configuración más eficiente, la que permite una vista de 360º desde una torre colocada en el centro. Durante los primeros años de la década de 1820, España fue el país donde las ideas de Bentham parecieron más susceptibles de tener un impacto directo. Para los intelectuales españoles, libres de las restricciones de un gobierno absolutista, la figura del jurista inglés resultaba particularmente atractiva dada su visión pragmática y secular de la sociedad, y en pocos años se publicaron una gran cantidad de traducciones de sus trabajos, como las de Ramón de Salas o Toribio Núñez. A partir de este momento, los postulados benthamianos tendrán cada vez una mayor acogida en el campo de la prisión española, como se puede seguir comprobando hoy en día ya que muchas de ellas han sufrido una completa transformación, convirtiéndose en diferentes espacios culturales y conservando de esta manera la arquitectura del edificio panóptico.
Uno de los ejemplos más sobresalientes es la Antigua Cárcel de Vigo, construida en 1880. Lo que en principio iba a ser una simple prisión, acabará por convertirse en un Palacio de Justicia con juzgados, celdas y un pequeño albergue para los guardias. El edificio es de planta hexagonal irregular, y dispone una primera crujía rectangular y paralela a la calle, donde se alojan las dependencias judiciales y administrativas. Tras dichas dependencias se sitúa la sala semicircular de vigilancia, de la que parten los tres brazos de galerías, unidas en sus extremos por un cuerpo periférico que abarca los cinco lados externos del inmueble.
El proyecto de rehabilitación realizado respeta la fisionomía original del antiguo edificio, así que mantiene su esquema radial, aunque se ha modificado su fachada posterior dotando al nuevo museo de un paseo peatonal. Pero sobre todo destaca el panóptico central rematado con una cúpula acristalada, del que parten las tres galerías y los antiguos cuatro patios. El Museo de Arte Contemporáneo MARCO, con un espacio expositivo de 10.000 metros cuadrados divididos en cuatro plantas y un edificio anexo, queda inaugurado el 15 de noviembre de 2002.
La Cárcel Correccional de Oviedo también se puede contemplar hoy rehabilitada para un uso muy diferente. Construida entre 1886 y 1905, esta prisión contaba con una planta en estrella, un cuerpo poligonal en el que convergen cuatro brazos de galerías celulares, y un quinto brazo más corto donde se situaban las dependencias auxiliares. Este cuerpo central de vigilancia es el verdadero núcleo del edificio, cubierto por una gran cúpula que posee una estructura de acero, apoyada sobre un tambor que en su zona superior presenta amplios ventanales para iluminar el espacio y hacer más sencilla la labor de vigilancia. Entre los años 2005 y 2009 tienen lugar las tareas de rehabilitación con el fin de trasladar allí el Archivo Histórico de Asturias, quedando inaugurado en marzo del año 2010. Su estructura original se ha conservado por completo, por lo que hoy en día se puede contemplar el edificio en todo su esplendor y admirar su impresionante esquema panóptico; también se han conservado cuatro celdas como testigo de la vida carcelaria, así como un espacio expositivo con diferentes aspectos de la historia de la prisión. En la Antigua Cárcel de Badajoz se encuentra otro de los ejemplos más interesantes, aunque en este caso no ha corrido la suerte de ser rehabilitada en su totalidad. Fue construida en 1958 sobre el recinto de un antiguo baluarte militar. En este caso contiene un plan en estrella, con la rotonda central de la que parten seis galerías radiales. Cuando deja de funcionar como prisión en 1994 se procede a realizar un proyecto museográfico, pues el futuro de esta construcción sería albergar el Museo Extremeño e Iberoamericano de Arte Contemporáneo. En las obras de rehabilitación para convertirla en museo se prescindió de las naves radiales, pero se mantuvo la torre del panóptico, por tratarse del elemento más significativo. De manera que hoy todo lo que queda de la antigua prisión es la rotonda, “la esencia de Bentham”, pero desgraciadamente se han sacrificado las radiales, desapareciendo la posibilidad de realizar una lectura del edificio con su significado completo.
Un último caso sobre el que merece la pena detenerse, sobre todo para abogar por su futura rehabilitación, es la Antigua Cárcel de Zamora, construida a finales del siglo XVIII y clausurada definitivamente en 1995. Contiene un plan que coloca a la rotonda de vigilancia en el centro y de ella parten cinco galerías de celdas. Es especialmente llamativo ya que este edificio se usó como el impresionante escenario de la obra cinematográfica Celda 211, dirigida por Daniel Mozón en 2009 y con la que consiguió ocho premios Goya. La película se rodó íntegramente dentro de este espacio, y las imágenes de la prisión, que se puede considerar como una protagonista más, tanto exteriores como interiores son muy precisas, admirando el cuerpo central de la misma, el panóptico, con todo lujo de detalles. Desgraciadamente, hoy en día el edificio se encuentra en estado de ruina, esperando su oportunidad de rehabilitación antes de que sea demasiado tarde. Son innumerables los ejemplos que se quedan por el camino en lo que a España se refiere, como la antigua prisión de Salamanca, convertida hoy en el centro de arte Domus Artium; la prisión semicircular de Lugo, que se encuentra en la actualidad en proceso de restauración, al igual que la Cárcel vieja de Murcia, que sufría peligro de desplomarse por completo; la cárcel modelo de Valencia, que alberga hoy el Complejo Administrativo del 9 de octubre, y que fue escenario de la obra de Luis García Berlanga, Todos a la cárcel; la antigua cárcel de partido de Segovia, rehabilitada como el espacio cultural La Cárcel-Centro de Creación, siendo escenario, entre otras actividades, de la película Las trece rosas de Emilio Martínez-Lázaro; o la prisión provincial de Palencia, que tras una espectacular rehabilitación, acoge hoy el Centro Cultural Lecrác.
El ideal del Panóptico ha tenido un desarrollo de tanta importancia que es imposible ignorarlo, está presente en la arquitectura y la cultura que nos rodea en la actualidad, aunque no todas las edificaciones que llegaron a materializarse hayan corrido la misma suerte. En el principio del Panóptico hay mucho más que una ingeniosidad arquitectónica; hay un acontecimiento en la historia del espíritu humano, es la solución de un problema técnico que a través de él dibuja todo un tipo nuevo de sociedad.
Begoña Ibáñez Moreno Doctora en Historia del Arte Granada, España bibanez@correo.ugr.es
La Poesia Visiva è un movimento artistico che nasce nei primi anni Sessanta a Firenze in un contesto in cui l’elemento tecnologico cominciò ad assumere un peso sempre più crescente all’interno del pensiero, dell’azione, della società e degli artisti d’avanguardia. Fu intorno al 1963 che un gruppo di artisti denominato Gruppo 70 decise di dare inizio al movimento della Poesia Visiva. Questi avevano una provenienza diversificata e fin dalla fondazione il Gruppo appariva “poliedrico”. Al gruppo originario costituito dai poeti Eugenio Miccini e Lamberto Pignotti, i pittori Antonio Bueno, Alberto Moretti, Silvio Loffredo e i musicisti Sylvano Bussotti eGiuseppe Chiari, si aggiunsero successivamente altri membri quali Lucia Marcucci, Luciano Ori, Achille Bonito Oliva, Emilio Isgrò, Ketty La Rocca, Franco Vaccari,Antonino Russo, G. Battista Nazzaro e Felice Piemontese. Nella primavera del 1963 il Gruppo 70 diede vita al primo convegno dal titolo Arte e comunicazione, presso il Forte Belvedere di Firenze, le cui conclusioni avranno seguito ben oltre i confini fiorentini. Il Convegno ebbe un approccio interdisciplinare e vide la partecipazione di molteplici personalità di spicco provenienti da diversi ambiti e orientamenti specifici, per affrontare il problema del rapporto esistente fra atto/ esperienza estetica in un universo comunicativo in continuo mutamento. Fulcro centrale del convegno fu l’analisi degli effetti prodotti dai mass media , veicolati da mezzi tecnologici; si cercò di indagare il rapporto presente fra comunicazione e arte e che portò ad affrontare la relazione più specifica esistente fra
atto/ esperienza estetica in un universo comunicativo in continuo mutamento. Fulcro centrale del convegno fu l’analisi degli effetti prodotti dai mass media , veicolati da mezzi tecnologici; si cercò di indagare il rapporto presente fra comunicazione e arte e che portò ad affrontare la relazione più specifica esistente fra arte e tecnologia. Il Gruppo 70, protagonisti estremisti della Poesia Visiva, rifiutando però di lasciarsi includere in posizione precise e predeterminate dello sperimentalismo, cercando di compiere un “opera di Sfondamento” nei riguardi
dello schema comunicativi, agendo in una zona neutra quale era la galleria d’arte, utilizzando e consumando immagini ed icone che gli permettono di essere immediatamente efficaci e popolari ma che, allo stesso tempo, gli impedivano di potersi inserire in un contesto strettamente letterario. Alcuni mesi dopo, nel dicembre del 1963, la Galleria Quadrante di Firenze propose la mostra: Tecnologica e fu qui che il gruppo esordì esponendo le prime forme di Poesia Visiva.
Fu quindi con questa prima mostra che si prese piena consapevolezza di come anche la poesia potesse uscire dai luoghi propri e convenzionali, quali la pagina stampata, per proporsi in altri contesti, come quello della galleria d’arte , divenendo oggettivo visivo, potendo quindi essere esposto e presentato al muro come fosse un manifesto. Il mutamento così radicale del mezzo comunicativo portò innegabilmente a uno s c o n v o l g i m e n t o dell’approccio con l’opera, con il suo messaggio e contenuto.
“[…] è innegabile che un libro si può sempre chiudere, mentre un quadro o un manifesto ostentano maggiormente la loro presenza” (L. Pignotti)
Tale esperienza diviene sempre così centrale nel secondo convegno di Forte Belvedere intitolato Arte e tecnologia del giugno 1964. La proposta di un’arte tecnologica era già nettamente maturate e aveva raggiunto una definizione più chiara e sistematica rispetto all’incontro dell’anno precedente e ci si concentrava sul rapporto esistente fra l’arte tecnologica e i mass media , soffermandosi sull’interesse mostrato dagli artisti nell’ adottare i codici tecnologici con il solo scopo di metterli in crisi.
Alla nuova sfida tecnologica, la Poesia Visiva rispose in modo diretto e deciso, scegliendo l’utilizzo di una serie di tecniche linguistiche e artifici retorici che proponessero l’unione variabile dell’elemento visivo con quello verbale così che esso potesse bene inserirsi nell’ambito della comunicazione sociale modificandone dall’interno la logica sia semantica, sintattica che grammaticale. Veniva quindi creandosi un linguaggio che non si identificava con nessuno di quelli utilizzati singolarmente dai vari esponenti dei gruppi ,
ma che tentava di realizzare uno spazio autonomo dove tutti questi potessero interagire per giungere ad unica accettazione, con l’intento di rendere complice il pubblico. A tale proposito vi furono felici esperienze come in occasione di Poesie e no, realizzate in diverse città italiane, in cui emerse prepotentemente l’idea di coinvolgere il pubblico oppure le esperienze cinematografiche di Volerà nel ’70 e nelle performance di Homo tehnologicus e jukebox.
Le proposte creative della Poesia Visiva furono accolte con particolare entusiasmo in Toscana , ma solo da un numero molto ristretto di centri di promozione culturale come la Galleria Numero e la Galleria l’indiano. Nonostante ciò la variegata esperienza del gruppo non si arrestò entro i confini di origine e molto significativa fu la collaborazione con i poeti visivi di altre città italiane. Contemporaneamente il contesto internazionale cominciò e ad interessarsi al valore innovativo della
poetica del gruppo, si susseguirono anni ricchi di p a r t e c i p a z i o n i sovrannazionali e già nel 1965 vennero chiamati ad esporre a Malmo, poi nel 1970 ad Amsterdam alla mostra Koncrete poezie e l’anno successivo ad Anversa. Ma fu il 1972 fu poi l’anno delle grandi opportunità per il gruppo, che partecipò all’Espoiticion exhaustiva de la nueva poesia a Montevideo , a Documenta V a Kassel e infine alla XXXVI Biennale d’Arte di Venezia. Trascorso il primo periodo pioneristico e sperimentale,
alcuni membri del gruppo originario decisero di fondare un movimento di Poesia Visiva Internazionale, che rimase attivo dal 1972 al 1974. L’intento era quello di infondere nuova linfa al movimento per portare la sperimentazione verso nuove vie ; Il gruppo denominato Gruppo dei Nove , vide la partecipazione italiana di Marcucci, Miccini, Ori, Perfetti Sarenco e artisti di varia provenienza europea: Francese (Jean Francois Bory), Olandese ( Herman Damen), Belga( Alais Arias Misson e Paul d Vree) che parteciparono nei primi anni
settanta a molteplici esposizioni sia in Italia che all’estero. Emerge quindi con chiarezza come l’attività dei poeti visivi e in particolare nel caso del Gruppo Fiorentino, non può essere univoca a causa dei molteplici aspetti relativi agli sviluppi che essa ha avuto nell’arco della sua breve parabola. I mass media hanno portato alla ridefinizione di comportamenti, alla creazione
di nuovi linguaggi e alla modifica strutturale dei rapporti sia individuali che collettivi. La costante abitudine di essere sovraesposti ad informazioni e notizie , spesso divergenti fra loro, provenienti da diversi generi e ambiti, ha portato lo spettatore ad uno stato di assuefazione, con una conseguente posizione di passività. È in questa circostanza che si inserisce
l’attività di coloro che per primi hanno “formalizzato” la Poesia Visiva allo scopo di contrastare il diffondersi dell’adattamento disinteressato al contesto circostante e al desiderio indotto di bisogni non necessari a puro scopo consumistico, attraverso strumenti propri della comunicazione mediatica, scomponendo i materiali iconico verbali e ricomponendoli in messaggi di valore opposto.
“Si può dire che Poesia Visiva in simile contesto raffigura proprio la migliore ritorsione contro l’abuso delle immagini, una ritorsione per di più operata nel rispetto delle legge del contrappasso: quale che è fatto è reso. La Poesia Visiva, si disse argutamente, rappresenta in ultima analisi una merce respinta al mittente” ( L. Pignotti)
Tale operazione prende il nome di “collage largo” in contrapposizione alla definizione di collage stretto riferibile all’ambito della composizione poetica. Il Punto di forza di tale processo, risulta essere la scelta di unire materiali visivi con materiali verbali, unire ad immagini largo consumo un uso della parole quasi “volgare”, che permette di raggiungere il vasto pubblico. Ciò che i Poeti visivi hanno quindi tentato di realizzare è il passaggio, da un linguaggio per così dire “morto” perché inadatto ad esprimere una società in rapida evoluzione, verso un linguaggio “vivo” e attuale. La combinazione d’immagine e parole risulta essere la peculiare forma si espressione nonché la principale innovazione della Poesia Visiva, la quale si esplica in un rapporto di piena e completa parità, dove l’uno integra l’altro, scambiandosi i ruoli e supplendo l’uno alle mancanze dell’altro. Proprio questa peculiarità permette di distinguere nettamente la Poesia Visiva e Poesia Concreta. La Poesia Concreta, infatti si caratterizza per una particolare attenzione nei riguardi dei valori plastici e visivi della composizione, ossia nella disposizione delle parole nello spazio vuoto della pagina. La Poesia Visiva è quindi un fenomeno di prima linea , del tutto nuovo, ma ciò nonostante , riconosce l’importanza del clima culturale delle Avanguardie del Novecento che hanno contribuito a realizzare nuove esperienze creative. Se mettiamo poi a confronto la Poesia Visiva con un movimento ad esso coevo che come questa prende ispirazione dai prodotti della nuova società di massa, ossia la Pop Art nord americana possiamo osservare che il materiale e le idee da cui prendono ispirazione per le due diverse correnti sono grosso modo , gli stessi: il boom economico, i meccanismi del sistema capitalista, gli espedienti pubblicitari e i mezzi di comunicazione.
Anche le tecniche utilizzate dai i due movimenti per molti casi si equivalgono: entrambi mirano alla spersonalizzazione e tendono alla produzione seriale o tecnologica attraverso l’uso del collage, delle serigrafie e della commistione di diverse tecniche. Tuttavia le differenze risultano più numerose analogie, tre sono le principali:
delle
1. Scelta delle dimensioni delle opere 2. Utilizzo dei codici comunicativi 3. Materiale ideologico Nel primo caso la Pop Art si caratterizza per certo gigantissimo nella realizzazione delle opere d’arte in grado di attrarre l’attenzione dello spettatore/ consumatore per le sue elevate dimensioni. La poesia Visiva invece si caratterizza per la scelta delle dimensioni più ridotte , dovuto all’utilizzo di materiali come riviste, giornali, spartiti, fumetti ecc.. questi inoltre vengono assemblati nello spazio dello studio, privilegiando la manualità dell’artista e non come nel caso degli artisti americani che delegavano la realizzazione delle loro opere a laboratori qualificati. Per quanto riguarda la differenziazione dei codici comunicativi , mentre i pop artisti non sono interessati ad alcuna riflessione nei riguardi della parola e anche in quei casi in cui essa venga inserita, attraversi slogan e ballons, come l’artista Roy Lichtenstein, queste non vengono in alcun modo rielaborate o caricate di significati, ma vengono apposte come semplici didascalie o come suoni onomatopeici dell’immagini. Gli artisti verbo-visivi invece nell’elaborazione delle loro opere utilizzano volutamente un doppio codice , che unisca linguaggio verbale e iconico, essendo essi complementari e necessari per la piena comprensione del messaggio.
Riferendosi infine alla carica ideologica , possiamo evidenziare come la Pop Art, non vi sia in alcun modo un intento polemico nei riguardi della società contemporanea, ma solo una presa visione, un ”istantanea” della società americana nel pieno boom economico, ossessionata nella continua produzione e riproduzione dei merci, che ben poco si interessa alla tragedia delle guerre che avvengono al di fuori dei propri confini come quella del Vietnam. Anche nei casi in cu vengono affrontati temi sensibili, come per esempio nelle opere di Andy Warhol 129 die in Jet relativa ai disastri aerei, o
Elettric chair, riferita alla morte , l’intento non è quello di sensibilizzare la popolazione ma si tratta piuttosto di un comportamento totalmente autoreferenziale , tutto concentrato sulla propria autopromozione. L’ideale Pop non lascia possibilità né alla critica né ai sogni, nessun altro futuro è possibile né auspicato. Gli artisti della Poesia Visiva al contrario si contraddistinguono per la carica ideologica p r o r o m p e n t e . L’ e s p e r i e n z a artistica risulta fortemente moralista, vuole sempre
comunicare un messaggio etico e politico, attraverso opere come Bianco Napam di Ketty la Rocca o Vietnam di Eugenio Miccini, in cui si rende partecipe la collettività, denunciando i mali e le tragedie delle società contemporanea così che se ne possa effettuare una riflessione e d elaborare una soluzione. I prodotti della Poesia Visiva, per consapevole scelta ideologica, sono rimasti sempre al di fuori del ambito speculativo dei grandi mercati, il loro essere volutamente ‘non commerciali’ li ha portati a rimanere esclusi dal favore del mondo della critica.
Gli artisti verbo-visivi hanno perduto la propria battaglia politica e sociale contro una popolazione che ha smarrito i suoi principi ideologici e che procede verso un’omologazione culturale. La complessità del linguaggio, quest’ultimo progressivamente impoveritosi, è venuta meno e la comunicazione pur avendo assunto un ruolo totalizzante, permettendoci un’incessante conoscenza di ciò che accade in ogni parte del pianeta, ci lascia totalmente estranei di fronte agli orrori e alle catastrofi che si svolgono sotto i nostri occhi.
L’arte o meglio ‘il fare arte” sono diventati, al tempo stesso fine e mezzo, dovendosi inserire per sopravvivere all’interno del sistema culturale quotidiano, questo ha portato a un radicale cambiamento dei suoi significati rispetto al secoli passati.Infatti, non essendo possibile all’interno del sistema mediatico, avere la possibilità di esprimere attraverso l’informazione il valore estetico dell’opera d’arte, unico modo per veicolare la propria virtù artistica è attraverso la sua presentazione e la sua comprensione. La Poesia Visiva ha tentato di proporre un’alternativa, un modo
Alessia Nardi Operatrice della didattica museale e Mediatrice Culturale Firenze, Italia nardi.alessia.1989@gmail.com
nuovo per riuscire a sfruttare le immense potenzialità dei mezzi comunicativi che il XX secolo ha messo a nostra disposizione. Dunque, la sconfitta in questa dura battaglia, che mai avrebbe potuto essere vinta, non ha comunque impedito che alla P o e s i a Vi s i v a , v e n i s s e r o riconosciuti i propri meriti, ha anzi permesso che tale esperienza entrasse a far parte della storia d e l l e N e o - Av a n g u a r d i e , proponendosi come ultimo felice episodio, in cui un gruppo di artisti abbiano riconosciuto attraverso degli scritti un ideologia comune.
During the course of writing this article I’ve stumbled across numerous conflicting answers to the quite unanswerable question ‘is fashion art?’ A Guardian article published in 2003 places designer and founder of the Fashion and Textiles museum, Zandra Rhodes, against Alice Rawsthorn, British design critic and former Director of the Design museum, to conclude that both ‘yes’ and ‘no’ are justified responses. Zandra argues that, yes, fashion is an art form, if not an ‘applied
art’ and that certain fashion designers, citing Ossie Clark as an example, would have very much expected their garments to be preserved in museums. Why should something practical (a piece of clothing) have less artistic or cultural value than a painting? To deflate an object on this basis seems tenuous – although functional, high fashion, and consequently, the fashion we choose, buy and use, is the most visual and obvious signifier of our beliefs, identity and to what ‘tribe’ we belong. Unlike
painting, we don’t only observe fashion – it’s an art we all participate in knowingly or unknowingly. Alice Rawsthorn presents art and fashion as distinct entities with very different purposes and values. Art, she states, has the ability to project a ‘subtle forlorn beauty’ difficult to evoke in fashion. Fashion is, after all, a system that creates material desire as much as it interrogates or comments upon the world around us. The crux of Rawsthorn’s commentary is that fashion is
fashion, and art is art, but that’s not to say the most finely crafted pieces aren’t exhibition-worthy. Over recent years several designers including Jean Paul Gaultier at the Barbican, Alexander McQueen at the V&A and Oscar de la Renta at the de Yo u n g M u s e u m , S a n Francisco, have been the focal point of some of the decade’s most innovative and impactful exhibitions. Despite this the status of
fashion within the museum remains undecided. Not bound to any clear prescriptive rules, contemporary fashion curators can use innovative methods of interpretation, unearth new narratives and shed new light on ‘old’ subjects. The fashion exhibition has the power to redefine the curated gallery space as an installation in its own right. The birth of the museum as we know it today
coincided with the formation of the shopping centre and the mass production of fashionable garments. As a result of fashion’s associations with ‘feminine excess’ during the late Victorian period garments remained absent from museum collections until the early twentieth century when historical dress and contemporary fashion items were accessioned by the Victoria and Albert Museum.
By ‘Feminine excess’ I refer to the imagined anti-feminist concept of the unbridled 19th century woman unable to control her desire for all-things-frivolous.
This type of ‘excessive’ shopper was frequently satirised in the Victorian p r e s s . T h e V & A’s n e w acquisitions were certainly a sign of gradually changing ideals. Following a supportive speech by the President of the Board of Education at Harrods in 1913 an anonymous commentator expressed hope that ‘The [V&A’s] collection would stimulate the imagination of the present and the future’.
It’s fair to say that the V&A’s mesmerising Fashion & Textiles collection, comprised of 75,000 objects encapsulating a time period of over 5000 years, has successfully affirmed the creative and educational potential of fashion in the museum. Whilst the establishment of museums dedicated solely to the display of fashion such as Bath’s Museum of Costume or the Palais Galliera in Paris,
has transformed the reputation of fashion items from ephemeral commodity to complex and revealing artefact, fashion is still often viewed as a museum misfit. Not quite painting, sculpture or decorative art, the presence of clothing in the gallery poses a direct challenge to tradition.
Not bound to convention contemporary fashion presents an ideal subject for curatorial experimentation.
It seems that fashion curators can flex the rules of the ‘art exhibition’ to develop immersive, engaging projects that connect with wide audiences. The V&A’s ‘Alexander McQueen: Savage Beauty’ exhibition, for example, attracted an astounding 493,043 people – the exhibition was so popular that by the final two weekends visitors could be seen queueing until 12 am to experience this feat of curation before its finale. The V&A also succeeds in enlivening fashion by focussing on the stories of objects, tracing the biographies of owners through garments on display. Monica Maurice’s striking red wedding dress, for example, which featured in the V&A’s ‘Wedding Dresses 1775-2014’ exhibition, could not have been further from the white/cream-coloured gown and veil seen on more traditional brides of the 1930s. Given the nonconformity of this choice of dress it is unsurprising that Monica was first woman to be registered as an electrical engineer – the only one until 1978 in fact. It is not uncommon to overhear surprised exclamations or nostalgic comments from visitors encountering such objects. These intensely personal responses seem unique to fashion. There are plenty of case studies, which clearly demonstrate fashion curators pushing boundaries. The Barbican’s 2014 exhibition ‘The Fashion World of Jean Paul Gaultier: From Sidewalk to Catwalk’, for instance, projected audio visuals onto the blank faces of mannequins. Normally static models adopted a selection of facial expressions and human voices, challenging the recurrent criticism of fashion exhibitions as impaired by ‘lifeless’ mannequins. Independent fashion curator Judith Clark’s 2005 V&A exhibition, ‘Spectres: When Fashion Turns Back’, injected life into her objects using very different methods. ‘Spectres’ explored concepts of memory and nostalgia through the medium of fashion by adopting the haunted visuals of the fairground, the circus and the cabinet of curiosity. Clark’s concept was separated into six themes, each demonstrating in different ways our continual reuse of past ideas and images to create visions of an ideal, yet impossible future.
Themes were presented on three enormous rotating cogs – a metaphor for the cyclical nature of the fashion system - and audiences were invited to view specific objects through peepholes with distorted lenses. The surreal effect did not end there, prosthetic limbs ornamented with crystals, created by British jeweller Naomi Filmer, were displayed as if precious objects throwing into question ideas of beauty and materialism. As also evidenced by her most recent exhibition at the Barbican, ‘The Vulgar: Fashion Redefined’, Clark aims ‘to highlight the relevance of historical dress to contemporary projects through themed shows’. The curator’s fully immersive, thematic approach to the curation of fashion highlights the experimental scope of this subject matter. A closer look at the display and interpretation of fashion in museum and gallery spaces exposes the curator’s role in determining, or rather, re-evaluating an object’s meaning. The researcher, interpreter and even consumer of fashion might perceive a particular object to be a work of art, but what does the designer think? Do the creators of fashion consider themselves artists? The acclaimed designer Cristobal Balenciaga famously stated ‘A couturier must be an architect for design, a sculptor for shape, a painter for colour, a musician for harmony and a philosopher for temperance’. There can be no surer way to decipher whether the designer conceived his work as art. Soon to be the subject of a retrospective at the V&A, Balenciaga’s pieces are often considered timeless – quite a contrast to fashion’s popular representation as fleeting and trenddriven. The designer’s 1964 ‘chou’ hood for example captured the textural properties of sculpture by encircling the face in swathes of stiff voluminous material known as ‘silk gazar’. This firm but pliable material was developed by Balenciaga in collaboration with the Swiss fabric house of Abraham in the 1960s. Like many of Balenciaga’s creations, the theatrical ‘chou’ hood showcases both the artisanal skills of a craftsman and the awe-inspiring qualities of a grand painting. The intertwined characteristics of fashion and art are here hard to question.
In a similar vein, but with much more commercial undertones, Yves St Laurent’s Mondrian collection offers one of the most explicit examples of fashion and art’s complex relationship. St Laurent transferred Piet Mondrian’s abstract painting, comprised of thick black lines and blocks of primary colour, to the surface of an A-line shift dress. The iconic Mondrian day-dress featured on the front cover of Vogue in September 1965 and rapidly became a staple of the style-conscious 60s’ wardrobe. Mondrian’s most distinctive paintings focus on utopian concepts of harmony and order responding directly to the chaos and disruption of the First World War.
His paintings extract all cultural, religious or social reference, and instead present a visual language accessible to all. The mass reproduction of St Laurent’s day-dress transformed Mondrian’s socially driven abstraction into an affordable commodity. In an unexpected way, this aligns with the artist’s original intention – to create a comprehensible, popular aesthetic with a direct public impact. I imagine we will never know whether the procurers of Yves St Laurent’s day-dress were really aware of the historical significance of Mondrian’s painting, but it must be said that fashion might actually be the most effective vehicle for distributing powerful visual metaphors. There are countless more examples of fashion designers reinterpreting existing works of art in their designs. Vivienne Westwood’s Watteau-inspired gowns and corsets warrant an article of their own. Whilst many designers define themselves as artists there are plenty more who are tentative about the subject. When asked ‘Do you feel like an artist?’ during an interview with i-D magazine Yohji Yamamoto, a designer who has been described specifically as an artist operating through the medium of fashion, responded ‘I don't know. I've always been very careful with the word "art". What is art? Something that can pierce your heart and change your life? It is a precious word, it is dangerous to use it inappropriately. If fashion was art, it would not be fashion.’ Whether fashion can be defined as ‘art’, it seems, is very much in the eye of the beholder. What is certain, however, is that innovative fashion curation can open up museums and exhibition spaces to new audiences, displaying, celebrating and interrogating a system which affects us all.
Ellie Porter Researcher London ellieleahporter@gmail.com
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The Best Bogus Botanical Garden Curatorial Statement
“Satisfying our growing desire to rejuvenate and revitalize, ‘Greenery’ symbolizes the reconnection we seek with nature, one another, and a larger purpose.”¹ Leatrice Eiseman, Executive Director of the Pantone Color Institute describes here the meaning of 15-0343, better known as “Greenery”, or also Pantone’s colour of the year 2017. Arguably, their choice is not a surprising one, given that almost daily articles are published that relate to a heavily promoted nearly biophilic lifestyle. These articles might be seen in response to the growing awareness of our burgeoning disconnection from nature. Our “urban-induced alienation”², fostered by a massive digitization and a sound understanding of ecological challenges, has led to an idealisation of the natural world as a place soon to be lost where one can find refuge from daily distresses and rediscover one’s self and place in the world. Although nature has been considered
the preeminent bourgeois escapist cure since centuries, the “back-to-nature revival” ³ in contemporary popular culture is remarkable.
The exhibition “The Best Bogus Botanical Garden” then aims to foreground art practices that explore this shifting relationship humans have with nature. More specifically, the participating artists simulate the very nature we have become distanced from, either by manipulating organic elements in new forms, or by inventing their own materials. To further enhance the illusory character of the works of art, the exhibition is designed to be a fully immersive environment. “The Best Bogus Botanical Garden” will literally transform the white cube
gallery space into a botanical garden, completely artificial, or bogus, in the sense that it will not contain any living organism: either its elements will be artworks, or they will be fake decor pieces. By devising the exhibition design as such, the curators are aware they are placing themselves on the slippery slope that is creating something. Concerns around the curator-as-artist have been voiced throughout the history of curating exhibitions, especially since Harald Szeemann’s curatorial stance as a creative partner of the artist. Curators who similarly intervene, have often been accused of an arrogant prioritizing of their own agendas or expression and of a “colonization of artistic practices”⁴ that produce meaning. Nevertheless, counterarguments which assert that every curator recontextualizes the artwork, note that the curator does not claim this artistic authorship, or plead for a rethinking of the artists and curators dichotomy as more egalitarian cultural producers are equally often formulated.
¹ PANTONE, “Color of the Year 2017”, http://www.pantone.com/color-of-the-year-2017, consulted 8 December 2016 ² POOLE, Steven, “Is Our Love of Nature Writing Bourgeois Escapism?”, The Guardian, 6 July 2013 ³ Ibidem ⁴ VIDOKLE, Anton, “Art Without Artists?, e-flux, no. 16, May 2010, http://www.e-flux.com/journal/ 16/61285/art-without-artists/
In line with this, the curators of “The Best Bogus Botanical Garden” do not even pretend to act as artists. They realize they have chosen a definitely idiosyncratic approach to the exhibition, possibly limiting the possibilities of the artworks, but firmly believe that this bold stage-setting and play with modes of display will not only provoke discussions about the undermining of the artist’s and/ or curator’s position, but will also provide a unique way of looking at the artworks. In this sense they wish to evoke, through the staging of a fictional environment, the embodied atmosphere (in Gernot Böhme’s interpretation of the concept) of a botanical garden, whilst at the same time they are aware of and
playing with the notion of the construction itself. Pivotal in this entire project then stands the concept of “simulation”. Borrowing from Jean Baudrillard, the simulating process weakens the “truth/ f a l s i t y d i ff e r e n t i a l ”⁵: t h e simulation of both the artists and the curators blurs the boundaries between the original (i.e. nature and a botanical garden, respectively) and the simulacra (i.e. the individual artworks and the exhibition display). The idea of effacing what is real and what is replicated is particularly interesting here because we are no longer that familiar with the original in the first place.
In line with this, attention is almost automatically drawn to the materiality of the atmosphere and artworks. The way both are produced becomes crucial to convincingly convey the illusion. Contrary to minimal or conceptual projects, the physical object thus stands at the heart of this exhibition. It could be said that TBBBG is an exhibition that functions via its materiality, particularly when considering that “with materiality, the experience of the viewer is essential, providing completion of art through bodily perception.”⁶ This condition is particularly vital when considering the interrelationship between the physical attributes of the gallery space and the exhibited artworks.
⁵ BAUDRILLARD, Jean. ‘Simulacra and Simulation’. The University of Michigan Press. 1994. ⁶ MURDOCH MILLS, Christina, Materiality as the Basis for the Aesthetic Experience in Contemporary Art, University of Montana Press, Montana, 2009, p.5
• In this page: Maren Simon, Untitled (from the •
•
series “Findings”), 2016 Next page: Giovanni Castell, No.4 (from the series “In Lucem Edere”), 2016
The aesthetic experience of the visitors is, in fact, strictly bound to an ontological co-dependence between the material presence of the immersive environment and that of the artistic objects, whose reception would be unavoidably altered by their placement in a more conventional white cube space. In this situation, the objectual quality of each artwork is exalted precisely by its association with the surrounding simulated environment and its multi-sensorial impact upon the visitors. Admittedly, this very materiality also goes hand in hand with the notion of ‘kitsch’. By using a mode of display that could arguably be considered decorative, and the abundance of plastic which could lead one to think about a bad taste in gimmicky objects, the exhibition aura is tainted by hints of kitsch. However, being aware of this, the curators have decided to play with it in a tonguein-cheek kind of way, as the sentimental and ironic character of kitsch matches with their exhibition concept that responds to a longing for a nature nearly lost with artificiality. Interestingly, kitsch has its origins in cheap mass-production, and considering the exhibition space (a commercial gallery), this adds another layer to “The Best Bogus Botanical Garden”. The natural world essentially does not have a specific owner, but by recreating it in a setting devised for consumption, this becomes an option. But then again, it is all bogus.
Eline Verstegen, Chiara M. Villa, Rosie Jenkins Curators London
The Best Bogus Botanical Garden 23 March - 13 April 2017 Heliumcowboy Artspace, Hamburg www.thebestbogusbotanicalgarden.com
• In this page: Sadie Weis, Sci-Copia, 2015 • Previous page: Liz Orton, Syzygium Guineense, (2012)
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Coordinated by Ramón Melero Guirado Designed and edited by Matilde Ferrarin