Hyperkulturemia #11 jul sep

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JUL - AUG - SEP 2017


MARK BRADFORD, “TOMORROW IS ANOTHER DAY” - 57 A BIENNALE D’ARTE DI VENEZIA Alessandro Arcioni Studente della Laurea Magistrale in Storia delle Arti e Conservazione dei Beni Artistici, Università Ca’ Foscari Venezia, Italia

INTERVISTA A EMANUELA FIORELLI Matilde Ferrarin Digital & Social Media Strategist Venezia, Italia

EMILIO PUCCI Y EL MOSAICO DE LA VILLA ROMANA DE CASALE Ramón Melero Guirado Historiador del Arte Cazorla, Jaén, España

A CHAT WITH A YOUNG JAPANESE PAINTER Roberta Prisi Storica dell’Arte Sant'Antioco, Italia


THE FACE AND THE MASK Pier Paolo Scelsi Art Director - One Contemporary Art Venice, Italy

NO ES PAÍS PARA CIEGOS Daniel Ureña Licenciado en Historia del Arte Jaén, España

PREZIOSA E FLORENCE JEWELLERY WEEK 2017 Nora Segreto PhD Student, Université Paris-Sorbonne Firenze, Italia

LOS “INTONARUMORI” Y EL RUIDISMO Ramón Melero Guirado Historiador del Arte Cazorla, Jaén, España



JULY - AUGUST - SEPTEMBER 2017 Nora Segreto PhD Student, Université ParisSorbonne Firenze, Italia Roberta Prisi Storica dell’Arte Sant'Antioco, Italia

Ramón Melero Guirado Historiador del Arte Cazorla, Jaén, España Daniel Ureña Licenciado en Historia del Arte Jaén, España Alessandro Arcioni Studente della Laurea Magistrale in Storia delle Arti e Conservazione dei Beni Artistici, Università Ca’ Foscari Venezia, Italia

Matilde Ferrarin Digital & Social Media Strategist Venezia, Italia Pier Paolo Scelsi Art Director One Contemporary Art Venice, Italy

Dävu Novoa, fotógrafo de Menziken, Suiza www.davunovoa.com


Mark Bradford

Tomorrow Is Another Day 57

a

Biennale d’Arte di Venezia


Hephaestus I mean nobody likes to admit it Somebody threw me out of my house They told me They told me it was my mama But let me tell you somethin’ The hands dragging me to the cliff (And I kept my eyes wide open) Were not the hands of my mother. When I got up My foot was broken. Limping through the ruins of a Burned-out promise There stood Medusa Mad as hell I looked her dead in the eye And knew her. She hid me inside her crown

Con questi versi, scolpiti all’interno di classicheggianti edicole poste sulla facciata, si apre la visita al Padiglione Americano della 57a Biennale d’Arte di Venezia: Viva Arte Viva. Curata da Christine Macel, tale edizione, che già nel titolo racchiude un forte impeto vitale e un orgoglioso inno alla cultura, risulta votata a un nuovo Rinascimento, alla nascita di un nuovo Umanesimo: viva l’arte, infatti, ma un’arte che sia viva, vitale!

I was quiet, I was safe Watching Watching her turn men to stone But in a windless calm Black shades Hidin’ money-makin’ cargo Stole me out to sea In the belly of a great dark boat. Let me out, let me out Damn! I should have gotten out at the last light. A stone man can’t hear. The lust of these men would only be Satisfied by black gold and the new world. But when you ask me, All I remember is walking All I remember is falling.


«L'arte di oggi, di fronte ai conflitti e ai sussulti del mondo, testimonia la parte più preziosa dell'umanità, in un momento in cui l'umanesimo è messo in pericolo. Essa è il luogo per eccellenza della riflessione, dell'espressione individuale e della libertà, così come degli interrogativi fondamentali. Sogni e utopie, relazioni con l'altro e gli altri, legami alla natura e al cosmo, oltre che a una dimensione spirituale, trovano nell'arte il loro spazio di predilezione. In ciò, l'arte è l'ultimo baluardo, un giardino da coltivare al di là delle mode e degli interessi specifici e rappresenta anche un'alternativa all'individualismo e all'indifferenza. L'arte ci costruisce ed edifica. È un sì alla vita, certamente spesso seguito da un ma, in un momento di disordine globale. Più che mai, il ruolo, la voce e la responsabilità dell'artista appaiono dunque cruciali nell’insieme dei dibattiti contemporanei. È grazie alle individualità che si disegna il mondo di domani, un mondo dai contorni incerti, di cui gli artisti meglio degli altri intuiscono la direzione. “Viva Arte Viva” è così un'esclamazione, un'espressione della passione per l'arte e per la figura dell'artista» Christine Macel


Perfetta concretizzazione di tale pensiero e speranza si ha nell’opera di Mark Bradford, unico rappresentante degli Stati Uniti d’America nella presente edizione della Biennale d’Arte di Venezia. Il Padiglione Americano è infatti a sua completa disposizione. L’artista, nato a Los Angeles (California, USA) nel 1961, decide quindi di stravolgerne l’aspetto e di improntare la sua ricerca verso una “Social Abstraction”: pittura astratta con interesse sociale. Il confine tra arte e società, se di confine si può parlare, è infatti labile: l’arte, spesso,

sconfina nella società e la società nell’arte; dopotutto, società = esseri umani e l’arte è frutto e prodotto dell’uomo. Il compito è però difficile (non volendo scadere nel già visto e nel ripetitivo), il risultato non è così scontato ma il connubio è forte e la simbiosi totale. Mark Bradford, indossando le vesti di paladino dell’arte (ultimo baluardo, luogo per eccellenza della libertà nonché parte più preziosa dell’umanità2), riesce così a incarnare l’ideale moderno del filantropo umanista; ruolo a lui tutt’altro che nuovo. L’incipit, solenne e di

richiamo classico, è una “captatio benevolentiae”: preparare empaticamente il visitatore al cammino spirituale di riflessione e introspezione che gli è richiesto. Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate, scriveva qualcuno; e invece no. Anche qui infatti, come nella cantica dantesca, una volta varcata la soglia (del Padiglione) si entra in un Inferno, si percorre poi un Purgatorio per raggiungere, infine, il tanto anelato Paradiso. Luce e guida del percorso, appunto, la speranza.


L’invocazione, non più alla Musa ispiratrice, è rivolta a Efesto (dio del fuoco, della f o rg i a e d e g l i a r t i s t i ) . Riprendendo una tra le tante leggende legate alla divinità greca, quella che sua madre gli raccontava quando era piccolo, Mark Bradford si equipara (per sorte) al dio, quasi suo alter ego: come infatti Efesto, poiché zoppo, era stato scacciato dal Monte Olimpo sentendosi quindi reietto e abbandonato, così l’artista, afroamericano e omosessuale, ha sempre provato in prima persona cosa volesse dire essere allontanato e messo ai margini della società.

Tale condizione trova una perfetta traduzione artistica nella prima stanza del Padiglione: Spoiled Foot, enorme massa putrefacente che invade quasi completamente lo spazio costringendo e schiacciando il visitatore contro le pareti. Richiamando (almeno nel titolo) il famoso piede malato, l’opera può avere al contempo tante e differenti letture, nessuna giusta e nessuna sbagliata; come richiesto da Mark, infatti, fantasia e interpretazione devono essere lasciate libere. Un meteorite che incombe e sta per colpire la Terra, la carena di una nave, la pancia

di una balena, una roccia rovesciata, una gigantesca bolla tumorale o, perché no, la rappresentazione esterna dell’Inferno dantesco; ciò che interessa a Mark non è tanto cosa essa possa rappresentare, quanto ciò che essa può trasmettere e far provare a chi la osserva e a chi ne fa esperienza tattile (perché sì, caso più unico che raro nell’arte, l’opera si può toccare): un forte senso di oppressione, di inquietudine, di soffocamento e, come lui, ci sentiamo impotenti ed emarginati. L’opera e l’artista interagiscono con lo spazio e con il visitatore in un rapporto di mutuo scambio;


i nostri sensi sono allertati, è un’arte attiva e non più solamente contemplativa: la si può osservare da tutti i lati (ognuno diverso), girarvi attorno, passare sotto (soluzione adottata soprattutto dai bambini che, come piccoli e moderni Atlante, fingono di sorreggere l’opera), sentirne l’odore e toccarla. Insomma, viva l’arte viva! Numerosi strati di carta sovrapposti, manifesti stradali strappati, colla, legno, tela e abrasioni (realizzate con particolari macchine a pressione) costituiscono la superficie aspra e sconnessa di Spoiled Foot; materiali d’uso

comune, quotidiani, presi dalle strade o dalle discariche, vengono quindi riciclati e nobilitati facendoli assurgere a veri e propri oggetti d’arte (concetto tanto caro già ad alcune poetiche dell’oggetto della seconda metà del Novecento quali New Dada e Nouveau Realisme). Essi rappresentano l’impronta lasciata dalla Storia, la testimonianza della nostra esistenza, costituiscono la nostra memoria tattile e con la loro storia ci ricordano la nostra; dopotutto, l’arte è vita e la vita è arte. Utilizzando tali materiali l’artista può quindi

esclamare: «I (e quindi tutti noi) was here» 3 . Se si volesse però ricercare un significato, Spoiled Foot potrebbe essere interpretata come metafora della società (americana anche se non esclusivamente, anzi), in procinto di collassare ed esplodere; grande vaso di Pandora carico di tutte le nefandezze e turpitudini create dall’uomo. L’enorme bolla putrefacente, però, non arriva a toccare il terreno, rimanendo sospesa e simboleggiando così una possibilità, seppur minima, di redenzione: l’oppressione è sì forte ma vi è anche un barlume di speranza.


Mai abbandonando la tematica sociale, la seconda stanza è invece caratterizzata maggiormente dai ricordi della giovinezza. Prima di intraprendere gli studi artistici presso il California Institute of the Arts, iniziati all’età di trent’anni, Mark aveva infatti lavorato come parrucchiere presso il salone di bellezza di sua madre a Los Angeles: i materiali e le tecniche apprese durante quella esperienza vengono qui riproposti, mutandone le finalità e facendoli diventare “alti”. Al centro della stanza, imponente, vi è Medusa – There stood Medusa1 – che pietrifica chiunque intercetti il suo sguardo. In questa versione contemporanea e tridimensionale la testa della Gorgone, secondo il tòpos classico caratterizzata da serpi al posto dei capelli, viene raffigurata come enorme intrico e accumulo di estroflessioni nero-gialle: ferme, immobili (come se Perseo avesse già sguainato la spada e decapitato Medusa) ma allo stesso tempo dotate di un apparente movimento (potenziale, suggestione che nasce solo nella mente di chi la osserva).


Convogliando l’attenzione su di sé, essa ci incuriosisce, ci spinge, seppur con timore reverenziale, a girarvi attorno, a scrutarla più in profondità e a carpirne i segreti custoditi e celati all’interno della voluminosa matassa scura. Figlia di divinità marine essa è, non a caso, circondata dalle sirene Thelxiepeia, Leucosia e Raidne: tre enormi tele nere con sfumature blu e viola scuro. L’allestimento è notevole: con un forte contrasto cromatico rispetto al candore delle pareti, esse sembrano immergere il visitatore in un mondo fluttuante, lo trasportano in una nuova dimensione e lo inglobano in uno spazio altro, quello delle profondità oceaniche. È un’esperienza artistica e sensoriale totale, da vivere. Il richiamo spirituale e artistico alla poetica di uno dei più importanti maestri dell’Espressionismo Astratto (corrente la cui influenza è particolarmente forte e percepibile nelle tele dell’artista afroamericano) è quindi evidente: Mark Rothko, Rothko Chapel (1964-1967, Houston, Texas).


Seppur diversi gli spazi (più ampi in quest’ultima) e l’illuminazione (più ovattata e cupa), simili sono i colori, la collocazione delle opere alle pareti e, soprattutto, il fine e significato intrinseco: costituire un luogo di meditazione e riflessione ove, cullati da quelle enormi tele fluttuanti e cariche di un unico e solo colore, il nero, perdersi e abbandonarsi ai propri pensieri; uno spazio dove ritrovare se stessi e affidarsi a una nuova religiosità atea: l’Io. Affine è inoltre il fatto che la scelta del monocromo nero abbia, per entrambi gli artisti, una simbologia più o meno esplicita: un presagio infausto, quasi ultimo grido di aiuto per Mark Rothko (le tele prossime all’anno del suicidio, il 1970, sono infatti caratterizzate da colori cupi quali blu scuro, grigio e, infine, nero) e una connotazione razziale per Mark Bradford (il nero, simbolo delle lotte per i diritti degli afroamericani: Black Lives Matter). Viste da lontano, le sue tele sembrerebbero realizzate applicando la pittura tramite l’uso di spatole; e invece no: posti uno di fianco all’altro o sovrapposti, centinaia e centinaia di foglietti di carta, solitamente usati dai parrucchieri per la permanente ai capelli, costituiscono la superficie “pittorica” delle tre grandi opere, richiamando la forma e l’aspetto delle tessere di un mosaico o della sequenza dei fotogrammi di una pellicola cinematografica oppure, perché no, delle squame dei pesci o delle code delle sirene. Anche i colori adoperati derivano poi da quel mondo e da quell’esperienza: sono infatti le stesse tinte e inchiostri utilizzati nei saloni di bellezza per tingere i capelli. Tanti strati di carta e colla, con al loro interno delle corde, costituiscono infine la struttura tentacolare di Medusa: dipinta inizialmente di nero, ha visto poi la comparsa di sfumature gialle ottenute non tramite l’addizione di pittura, bensì secondo un processo sottrattivo durante il quale sono stati adoperati decoloranti (stessi prodotti utilizzati dai parrucchieri per schiarire i capelli).


Tentacoli che, come enormi radici, sembrano penetrare nel terreno, proseguire e invadere la stanza successiva fino ad avvolgerne quasi completamente la cupola e le pareti. La Rotonda: è questa, infatti, la stanza più “politica” del Padiglione Americano. Costruito nel 1930 dagli architetti William Adams Delano e Chester Holmes Aldrich, esso ebbe come modello di riferimento Monticello, l’abitazione di Thomas Jefferson in Virginia. Realizzato in puro stile palladiano, l’edificio può poi richiamare, per estensione, l’architettura del luogo simbolo del potere politico (e non solo) americano: la Casa Bianca. La Rotonda, di conseguenza, ricorderebbe così lo Studio Ovale del Presidente degli Stati Uniti d’America. Come metafora ed espressione del sentimento di abbandono e desolazione provato nei confronti dei suoi rappresentanti politici, forte critica alla situazione attuale, Mark decide quindi di ricoprire l’esterno del Padiglione, solitamente lindo e immacolato, con rifiuti e spazzatura: incuria esterna simbolo quindi di una incuria culturale interna.

«How can I represent the United States when I no longer feel represented by my government?» Ma non solo. Essendo forte in lui l’attenzione al sociale, decide di chiudere l’entrata principale oltre il pronao classico, costringendo così il visitatore a un ingresso dall’entrata laterale: quella che nelle abitazioni della borghesia americana era lasciata a uso degli schiavi, della servitù e delle persone di colore. E invece no: siamo tutti uomini, siamo tutti uguali! Inoltre, come se non bastasse, nella Rotonda la natura sembra prendere il sopravvento: Oracle (2017).


L’installazione, creata utilizzando le stesse tecniche e materiali impiegati per Medusa, sembra trasmettere l’idea di aver appena varcato la soglia di un edificio in rovina o di una grotta: le finestre sono state oscurate, le pareti e le porte ricoperte con strati di carta strappata e scotch e la cupola, solcata da concentrici avvolgimenti giallo-neri, pare prolungare le proprie estroflessioni fino al terreno, con un notevole effetto di cera colata. Al centro, un’apertura, l’occhio del ciclone da cui penetra la luce (divina). Proprio quando la speranza sembra ormai persa e ci sentiamo oppressi e in preda all’oscurità, si ricomincia a intravedere la luce. Un’esplosione di bianco invade infatti la penultima stanza, riscaldando lo spazio, avvolgendo e rincuorando il visitatore. Tre enormi tele datate 2016 campeggiano sulle pareti: Go Tell It on the Mountain al centro, 105194 sulla parete di destra e, a sinistra, l’opera che dà il titolo all’esposizione: Tomorrow Is Another Day. Materia prima, base della sua poetica artistica è, anche in questo caso, la carta: sovrapposta

in innumerevoli strati, incollata, strappata, squarciata, bruciata e pressata sulla tela tramite l’uso di particolari levigatrici. I colori utilizzati sono solamente tre: rosso, blu e nero; le altre sfumature gialle, tendenti al verde, rosee e azzurrine, come nella sua migliore tradizione, sono ottenute tramite l’impiego di decoloranti. Un “horror vacui” sembra poi caratterizzare l’allestimento: le tele, di notevoli dimensioni, fagocitano lo spazio bianco attorno a loro, inglobando il visitatore e trasportandolo verso mondi diversi e lontani. Le fenditure, le incisioni e le sfere di carta parlano di un macrocosmo: Tomorrow Is Another Day diventa così un’enorme carta geografica, fotografia di nuovi pianeti, galassie, orbite, crateri e scie di stelle cadenti. Con le loro forme allungate, gli strappi rossi e bianchi di 105194 richiamano invece un microcosmo: quello delle provette da laboratorio, dei globuli bianchi e dei globuli rossi disposti su un vetrino e analizzati sotto la lente di un microscopio.


Le fenditure, le incisioni e le sfere di carta parlano di un macrocosmo: Tomorrow Is Another Day diventa così un’enorme carta geografica, fotografia di nuovi pianeti, galassie, orbite, crateri e scie di stelle cadenti. Con le loro forme allungate, gli strappi rossi e bianchi di 105194 richiamano invece un microcosmo: quello delle provette da laboratorio (a cui allude inoltre il titolo stesso, una catalogazione numerica e sequenziale), dei globuli bianchi e dei globuli rossi disposti su un vetrino e analizzati sotto la lente di un microscopio. Anche in questo caso non mancano illustri riferimenti artistici che vengono però rielaborati e ricondotti verso una poetica più contemporanea, intima e personale. Mark Bradford mette quindi a frutto gli studi effettuati mostrando conoscenza, padronanza e libertà di azione fra le tecniche dei grandi maestri del Novecento. Come non riconoscere, infatti, tra quei solchi e quelle incisioni sulla carta la gestualità vibrante di un Concetto

Spaziale di Lucio Fontana o di un segno di Hans Hartung sferzante la tela, tra le bruciature una Plastica di Alberto Burri, tra gli strappi i Décollage di Mimmo Rotella o una pittura di Clyfford Still resa tridimensionale, tra le sfere di carta pressata una Compressione di César, tra i numerosi strati di materiali sovrapposti le Hautes Pâtes di Jean Dubuffet o Jean Fautrier, tra la commistione di materiali di diversa natura e provenienza un richiamo alle creazioni di Robert Rauschenberg e, perché no, in quella gestualità così passionale ma al contempo precisa e meditata, in quelle enormi dimensioni delle tele e in quel rapporto così intimo con le proprie opere un omaggio all’incredibile genio creativo di Jackson Pollock? Tutto questo è Mark Bradford: sublime sintesi di tradizione e innovazione, omaggio e novità nonché forte e sincera predilezione per le tematiche e l’impegno sociale.


Quest’ultimo lo vede poi impegnato su un duplice fronte, a testimonianza di come esso costituisca un interesse reale e non puramente di facciata. Assieme al suo compagno Allan DiCastro e a Eileen Harris Norton, Mark Bradford ha infatti fondato un’associazione in aiuto di ragazzi con alle spalle problematiche situazioni economiche e familiari: Art + Practice (A + P) con sede a Los Angeles, sua città natale. Sostenendosi quasi esclusivamente tramite i proventi derivanti dalla vendita delle opere dell’artista, essa rende loro possibile una prosecuzione

degli studi o l’avviamento a un qualche lavoro artigianale. In concomitanza con l’avvio della presente edizione della Biennale d’Arte di Venezia, Mark Bradford ha inoltre inaugurato un negozio: situato di fronte alla Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari, esso rappresenta l’inizio di un progetto (Process Collettivo) della durata di sei anni, frutto della collaborazione tra l’artista e la Cooperativa veneziana Rio Terà dei Pensieri. Qui si possono trovare magliette, borse, saponi e profumi realizzati dai detenuti del carcere maschile e femminile di Venezia; finalità del

progetto è quindi il tentativo, tramite il lavoro, di rendere meno gravoso, per quanto possibile, scontare la pena e, con una visione di più lunga durata, favorire il reinserimento della persona nella società sostenendone la transizione verso l’autosufficienza. Il percorso spirituale di conoscenza, purificazione e di scoperta di sé e dell’altro portato avanti attraverso le opere esposte si conclude poi nell’ultima stanza, sublime e potente inno alla speranza: Niagara (2005).


Dopo essere stato scelto come rappresentante degli Stati Uniti d’America, nel suo studio di Los Angeles l’artista realizzò una replica esatta (scala 1:1) del Padiglione che avrebbe ospitato le sue opere. Provandone l’allestimento, decise quindi che si sarebbe simbolicamente congedato da questo lungo viaggio e cammino interiore con un’installazione video. Un ragazzo, Melvin, pantaloncini arancioni e canottiera bianca, percorre al rallentatore una lunga, quasi infinita e stretta strada delle periferie di Los Angeles; è alto, di colore e, inquadrato di spalle, non ne vediamo il

volto; potrebbe essere chiunque: Mark stesso oppure anche ognuno di noi. C’è un ostacolo, lo supera spiccando un piccolo salto e prosegue a camminare. La gestualità libera, sciolta, tranquilla e l’andatura ancheggiante richiamano alla mente la ben più famosa camminata di Marilyn Monroe nell’omonimo film del 1953. In Niagara (2005) il significato viene però accentuato: in Melvin-Mark vi è infatti la volontà di seguire le proprie idee, fiduciosi e credendo in se stessi, superando gli ostacoli che la vita ci pone davanti e, scrollandosi dalle spalle i pregiudizi e tutto ciò che di

Alessandro Arcioni Studente della Laurea Magistrale in Storia delle Arti e Conservazione dei Beni Artistici, Università Ca’ Foscari Venezia, Italia 866117@stud.unive.it

negativo aveva oscurato il loro (e nostro) passato, andare incontro al futuro, qualunque esso sia e qualunque cosa ci riserva. Questa è l’incredibile riflessione finale e messaggio di speranza che Mark ci affida e che ora tocca a noi divulgare. E quindi uscimmo a riveder le stelle, o almeno si spera perché sì, come dicevano i latini, “Spes ultima dea”, cioè: la speranza è l’ultima a morire. E, dopotutto: domani è un altro giorno.


Intervista a


EMANUELA FIORELLI


Matilde Ferrarin - Ritmi di fili elastici o di cotone. Tessiture di segni che creano una rete relazionale, una struttura che suggerisce volumi, spazi, castelli in aria. Come si produce questa trasfigurazione da una materia esile ad una dimensione visiva piena di echi, di risonanze sensoriali? Emanuela Fiorelli - ‌attraverso il corpo. Il filo è uno strumento che mi rappresenta per le sue caratteristiche estensive ed adattabili. Questa mia affinitĂ con esso fa sĂŹ che un semplice segno tridimensionale diventi 'altro', caricandosi di tutta me stessa. Non lo produco direttamente come fa il ragno o il baco da seta ma, prima di assumere direzioni e forme, il filo, in un certo senso, passa attraverso di me impregnandosi del mio corpo e dei miei pensieri. E' certamente un mio prolungamento.



M. F. - Si intuisce nel tuo lavoro una rinnovata definizione di spazio: non più luogo da fagocitare e risolvere entro i propri perimetri materiali, ma misura concepita con intenti di trasformazione aperta a continui sconfinamenti. C'è, alla base, l'intuizione futurista dello spazio, pensato come elemento vivo, popolato di forze che debordano oltre i limiti del visibile?

E. F. - Sì, ci sono forze invisibili come la vibrazione e la tensione. La tensione è data dal materiale che è elastico e che quindi, per sua natura, si oppone all'espansione e alla dilatazione per tornare all'origine e in stato di quiete. Questa forza invisibile e irrequieta crea pensiero in movimento, pensiero creativo. Spinoza scrive che l'uomo è simultaneamente pensiero ed estensione. La vibrazione deriva dal movimento di una materia elastica che può essere un filo o una corda. Una corda vibrando può creare bellezza e armonia… la sentiamo nella musica ad esempio. L'armonia per me ha a che fare con la natura. Nell'Antica Grecia l'architettura non doveva occupare lo spazio, ma esserne parte. Questo spiega perché i templi non avessero mura ma colonne che facevano entrare la luce in modo graduale per creare sfumature e penombre. Questo faceva sì che la natura si compenetrasse nell'architettura e viceversa. Le mie opere interagiscono con il contesto, specie i box in plexiglas trasparente e le installazioni ambientali. Quest'ultime si conformano e non si impongono nello spazio mettendo in relazione superfici diverse.


M. F. - Tessitura di distanze. Linee di fuga. “Campi di tensione”, come li chiami tu. Orizzonti che si dilatano e si restringono. Il tuo obiettivo è quello di creare strutture che siano attraversate da una sorta di “energia segreta”, simile ad una scossa elettrica?

E. F. - Sì, nelle mie opere si percepisce una forte energia che è data appunto dalla continua tensione del filo, da quella forza invisibile che relaziona spazi, superfici e tempi diversi. Ho aggiunto la dimensione del Tempo perché il filo parte quasi sempre da stratificazioni di segni 'tirati' in precedenza e lasciati a de-cantare. In linea con il pensiero di Deleuze e Bergson penso anch'io che all'origine di tutto ci sia uno slancio creativo e che il tempo è il filo che ricuce i momenti dell'espansione.


M. F. - Eppure, ad un primo sguardo la tua pratica artistica sembra fondarsi sulla regola, la disciplina esecutiva, l'ordine, la geometria. Solo che anche la geometria in qualche modo dubita, ribalta le gerarchie, sfugge a se stessa. Siamo sempre di fronte a forme definite che varcano la soglia dell'indefinito, a forme che si superano nella rottura? Ad un'armonia conseguita paradossalmente attraverso il caos? E. F. - Non ho mai amato le scatole chiuse e se fosse per me tirerei fili nello spazio siderale, tra un pianeta e l'altro, tra le stelle e le galassie per tentare di scoprire finalmente il 'grande disegno' dell'Universo, o gli infiniti disegni che, come dei frame, presumo di circoscrivere e rendere visibili nelle mie opere. O forse sono regolarità che tento di strappare al caos o viceversa, dato che sempre più percepisco forze che minano la rassicurante perfezione geometrica attraendola verso l''orizzonte degli eventi' nell'oscuro 'buco nero'… il luogo delle trasformazioni. Bisogna entrarvi per capire che anch'esso fa parte del grande disegno… o no? Forse l'armonia è nella compenetrazione degli opposti e nella vastità che li racchiude. M. F. - I tuoi tracciati leggeri non rivelano mai la loro origine. Rimangono apparizioni che fanno vacillare la nostra percezione. È come se fossimo davanti non a dati concreti, ma a ipotesi, non a strutture risolte, ma a qualcosa di potenziale, congetturale, plurimo. È una strategia per coinvolgere anche lo spettatore (o, almeno, il suo sguardo) nell’opera? E. F. - Credo che nessuno abbia le risposte ai tanti enigmi e questo ci mette di fronte ai nostri limiti ma penso anche che non ci siano risposte assolute e che sia il nostro pensare e immaginare l'Universo che lo costruisce ed estende di volta in volta… Nelle mie opere tento lo sconfinamento e lo spettatore ne è attratto perché c'è in lui lo stesso tentativo… io cerco solo di renderlo visibile e percettibile.


M. F. - Ha scritto il filosofo Gaston Bachelard: “Le linee di un disegno suscitano spazi abitabili”. Alla fine, obiettivo del tuo lavoro è quello di costruire dimore, rifugi, spazi intimi (anche se astratti o concettuali)? E. F. - Sono contenta che hai citato Bachelard perché la sua “Poetica dello spazio” mi ha sempre emozionata. La perfezione di un guscio di lumaca e la levigatezza della sua superficie interna atta ad accogliere la delicata pelle del mollusco che lo abita, mi fa pensare ad una dimensione ancora più vasta… quella dello spazio intimo. E' attraverso di esso che concepisco le mie opere ed è attraverso di esso che lo spettatore le guarda inoltrandosi in esse, cambiando punto di vista, perdendosi nella perfezione geometrica, provando piacere vedendola mutare, intuendone il limite e lo sconfinamento.

Matilde Ferrarin Digital & Social Media Strategist Venezia, Italia matilde.ferrarin@gmail.com


EMILIO PUCCI y el mosaico de la villa romana de Casale


¿Tiene algo que ver la arqueología y la moda? ¿Eran los diseñadores de mediados del siglo XX, sensibles con su pasado mediterráneo? Evidentemente sí y aquí traemos un magnífico ejemplo. Un joven napolitano, con una prometedora carrera como deportista, como político, como militar, que en un momento concreto de su vida decide centrar todas sus energías en el diseño y la moda. Este joven se llamaba Emilio Pucci (1914 – 1992). Un joven que estudia Ciencias Sociales y Ciencias Políticas entre Milán y Estados Unidos, y que acaba doctorándose en la Universidad de Florencia, que pasa por el equipo olímpico para las olimpiadas del 32, que con tan sólo 24 años se une a la Fuerza Aérea Italiana, donde recibe varias condecoraciones y donde también se ve inmiscuido en alguna trama entre la política fascista italiana (incluso con familiares directos de Mussolini) y la Gestapo y el régimen de Hitler. Un joven que demuestra una sensibilidad especial hacia la moda, siendo su primer diseño la equipación deportiva para el equipo de esquí del Reed College, línea que continuará años más tarde y llegará a ser publicada en revistas de prestigio como Harper’s Bazaar (1947).



Pronto pasará a centrar su carrera en la moda, alcanzando el podio sin grandes adversidades y convirtiéndose en el diseñador predilecto de Marilyn Monroe, de hecho, en una de sus más populares fotografías (en la que la actriz sujeta su vaporosa falda) lleva un vestido diseñado por Emilio Pucci. También fue el diseñador fetiche de otras grandes celebridades como Sophia Loren o Jackie Kennedy, y algunas de sus prendas fueron adaptadas para la muñeca Barbie en 1968. A pesar de esta trayectoria hollywoodiana, entre fascistas, nazis, juegos olímpicos, estrellas de la televisión y prestigiosos campus universitarios, Emilio Pucci se nos muestra

como una persona sensible a su pasado, hacia la antigüedad griega y especialmente romana. Su primera boutique tomó sede en la pequeña isla de Capri, más tarde en Roma, ambos lugares destinos indiscutibles para viajeros románticos en su Grand Tour

Uno de sus más particulares diseños de bikinis (S/S “Sicilian Collection”, 1956) se inspiró en la línea de subligaculum romanos representados en el mosaico de “las diez chicas”, situado en el pórtico meridional del gran peristilo de la villa romana de Casale, una villa que se ubica en la localidad siciliana de Piazza Armerina. Los mosaicos conservados en el yacimiento son de un

valor incalculable y representan escenas de caza, fantasiosas carreras en el circo, episodios mitológicos como los trabajos de Hércules y escenas de bañistas. Elsa Haertter, supo captar con elegancia, respeto y una delicada sensualidad a la modelo tendida sobre el mosaico, mimetizándose con las estilizadas figuras a escala 1:1, mientras un operario aporta una pizca de voyeurismo mirando a la joven. Un diseño al más puro estilo “Made in Italy”, que ha servido de inspiración para otras líneas de moda desarrolladas por grandes marcas como los mosaicos bizantinos en Dolce & Gabbana del año 2013.


Fotografía vista en: European fashion (Bikini designed by Emilio Pucci, 1956. Emilio Pucci Archive, all rights reserves)

Ramón Melero Guirado Historiador del Arte Cazorla, Jaén, España rmeleroguirado@gmail.com



A CHAT WITH A YOUNG JAPANESE PAINTER How is the life of a young Japanese artist? And how is being a painter in Japan? Is the contemporary art world considered in a positive way in this country full of old traditions? As many people know the art in Japan is always being retro’. For example it’s easy to think about the Japanese prints of Hokusai (1760*1849). He produced these fascinating works during the Edo Period (1603*1868), but what was happening in Europe during these years? While Japan was regarding the simplicity and the flatness of these prints as avanguarde, we were looking at the start of a totally new era with artistic movements such as Romanticism, Neoclassicism but especially after few years, Europe met the

Impressionists. Surely the Japanese art was and it is always interesting for the diversity of the techniques compare to the Western art, but on the other hand Japanese art is strongly connected to the ancient traditions, as we said before. This short introduction it`s related to my experience about living in Japan. I believe being an artist in Japan is not easy, mostly because many young people tend to take the easier and stable way. This means that nowadays after the high school, many teenagers think

that the best choice is to enroll in business universities in order to get a job in some important company. I could feel through the experience of Naoki that nobody regards the art as something that worth to deeply know. It seems to me that choosing to be different and to be part of the artistic or cultural society it`s regarded as a kind of failure. This might be the reason why some famous Japanese artist choose to work in USA or Europe (Yayoi Kusama, Takashi Murakami).



Naoki Yamaji is born in 1994 in Tokyo and he grow up in Saitama Prefecture, a city near the center of Tokyo. He started to draw since he was a child and already at that time it was possible to notice his skills. Despite his passion was strong since his childhood, finally after the high school, he decided to study hard to enroll in one of the most famous business University in Tokyo, called Aoyama University. During this period Naoki was following exactly, like we said before, what every Japanese does, but in the meanwhile he painted as a

hobby. After the 3rd year in the university he finally decided seriously to become a painter. He wanted to do something meaningful for his own life stopping following the Japanese trend of just becoming businessman wearing a black suit.  In this period, after buying a biography of Leonardo Da Vinci and Antonio Lopez Garcia, he started to draw steadily every day, trying also to understand the European art by himself. In 2016 he participated in an exhibition in Tokyo for young artists and after that,

inspired by the European art and curious to see with his own eyes some of the works that until that time he could see just through the books. Naoki spent about 7 months in London studying English to become more international compare to the average people in Japan. In those months he spent most of the time especially inside Tate Britain, Tate Modern and National Gallery. Here, in the most famous art galleries, he discovered also the Modern and Contemporary Art.


Particularly he was inspired by Dali’ for the compositions and by the symbolistic colors of Odillon Redon. Starting from this, the young painter started to paint again in UK, trying to find his personal style under the influence of these great Masters. Firstly he started to paint oil canvas with symbolistic elements, inserting a compositions of flowers or plants, but again he was thinking that the footprint of his favorites painters were still too remarkable. He considers these primordial works some kind of trail to test his skills under the influence of

European Art. After these months in UK, Naoki went back to Japan feeling a really strong nostalgia and maybe because of this reason, he thought that the only thing he could do, it was just finding his way through the his works. In Japan he started to paint a new type of canvas: here it is still possible to notice some lure of Symbolist and Surrealism, but this time the composition has changed. There are leaves which for him are the main symbol of the nature and there is also a composition of unusual faces with a strange shape.

Regarding to that Naoki said that these faces are a sort of fairies that are existing just in his mind. What he`s trying to do with these paints is to represent as much as possible, the beauty. This beauty is not a universal, but it`s his personal idea of a beautiful ideal world. Another important point of these canvas is the way to use the color which give to the viewer a feeling of piece. his is because the painter choose to use light and calm colors faded within each other.


Nowadays his style has changing again thanks to the influence of Contemporary Art. Before he was quite reluctant about Contemporary Art, especially because his taste is much closer to the Modern Art. I can say that, in my opinion it`s really hard for a painter to leave his personal taste and to open his mind to new type of art. In Naoki`s case this could be an advantage that he inherited from the fact that he studied art by himself, free from the academic common though. In his new works of this period, he`s trying to gather some of his previous elements (leaves) with more contemporary compositions which including also with realistic subjects, particularly pieces of body. What is more now he`s also trying to approach to a new type of media such as acrylic colors in order to study new effects for his works. Finally the dream of Naoki is to have the possibility to present his paints in a solo exhibition in Europe which can introduce him to art world. Despite the fact he knows how difficult and competitive this world is, his intention is to persuade his goal and to fight any difficulty until, one day he can be recognized as a real painter who can be able to live just selling his works.

Roberta Prisi Storica dell’Arte Sant'Antioco, Italia rpirisi90@gmail.com



THE FACE AND THE MASK


To Jack Jano Art and Life correspond, they are part of a single flow, a continuum where it is impossible to feel or perceive any barrier, any division, both of places and times; in a daily fusion of elements, in a rhythm ticked by common objects, everyday life, living, which for Jano become sources of artistic production. 
 
 The matter, art materials are the same with which Jano builds his house, the space for his family, the walls of his office, his works.
 
 Strong materials, unrefined, of rough tactility.
 Iron, glass, sand, earth, are often joined together by the element of fire in a perception of creative act in symbiosis with the ground, with belonging to a place, not to a border, with or without which it would not be possible for the artist to create his artistic creation.
 
 The studio and the house are closely related, almost a single structure, rising on a hill in the vicinity of Klil, separated only by a small path and the chicken-coop, becoming in this way the living space of the artist and the man.


I got to know Jano for the first time in December 2016 during the preparatory visit for this exhibition. The surrounding environment and the warmth by which this writer was welcomed left him completely astonished, and the question that Jack asked me without actually knowing me was equally surprising:

“What is art for you?”

This apparently simple question which is actually extremely difficult was asked while looking directly into the eyes.
 This question, asked elsewhere and in other circumstances would have brought out an answer mediated by superstructures based on the staging of roles such as “curator” and “artist”, or a search for a series of quotes to bear in support of a thesis that would eventually result in a mere exercise of displaying one’s own cultural background, or in other words, to put on a mask.
 With Jano it was not so, in a dimension so true, so far away from the antiquated stereotype of the “world of art”, with so little “scenography” and such overwhelmingly tale of a life, the writer was absolutely deprived of any “mask” and found himself answering such a personal, visceral response, so true to be left surprised.


The following question was:

“What would you like to do?

How do you imagine the exhibition in Venice?”

Another wrong-footing question, as they would say on the football field, another forceful intervention once again mediated by roles and by the formality of roles.
 The answer was that my purpose was to bring everything I see around me, the whole hill, to Venice. 
 And, in the following days I kept on thinking that my intent was to “reveal” art, narrating a dimension of it where the rather “religious” rituality, through which the work of art is so usually approached and as a consequence becomes grotesque in its assimilation to sacredness, is “violated”, and almost mocked. I wanted the exhibition to have a strong tactility, to dig and show the matter's roughness, to carry the acrid earth smell; I wanted to tell something completely different from art grazed in white surgeon’s gloves, from the “relic” approach that most frequently and quite justly is being adapted in relation to the object-art.


I immediately found interesting Jano’s modus operandi, the fact that he superimposed and retracted his face over images retrieved from advertising pages, billboards, magazines, art books, and I saw in that approach the core of the message that the Venetian exhibition in my view should carry. 
 
 The recovery of the face, the loss of the mask through a big installation that starts from the almost infinite iteration of stamping the face on the mask, goes on to create a whole where the multiplication of this practice invade space. 
 
 This mask, as states Luigi Chiarelli, “is the complex of external attitudes that men

undertake under the stimulation of social reality that surrounds them”. 
 The mask is the social patina of the costume, of fashion, which participate in all the reactions between the individual and the collective path, between the life of the individual and that of a specific social category where the roots of the existence of that same individual finally lay. 
 While the basic idea was to answer to Antonio Gramsci’s aside who asked, “Who can snatch this mask out of the face, who can live not according to the violence of social convention but according to the dictates of his own deeper Ego, of sincerity that surly exists at the bottom of every individual’s conscience ?” When Jano


was young, he wanted to be an actor, then he told me that there was no way of following that career but I feel I can argue that a part of that world was not lost, it merged with the man and the artist, once again unveiling the mask and showing the face, in its aesthetics and beauty. 
 To Carmelo Bene the face is the “narcissist enchantment in art”, “aesthetics of face”
 The same face constitutes the “scene”, “imagine” of art. 
 And it’s the same in the faces that Jano reproduces and creates.
 Resuming the words of the great Italian actor, we think about Narcissus research that “dissolves the image in the attempt to appropriate and decipher his own identity”.

In this attempt he dismantles and dissolves the identity that from an obsessive presence becomes paradoxically an absence, a question, who is the artist? 
 The work becomes a map of multiple identities, first the masks and then faces, projection of our essence into a multifaceted, identifiable, cartographical world; a fragmented border in a constant progress, able to nibble silently but at the same time to absorb the space that surrounds it in its slow but inexorable expanding which is an obvious cross reference to the work of Alghiero Boetti who sketches, in the words of Calvino, “paths of crossed destinies”.


As Jano cuts, he as well superposes, effectuates doublings. He never presents a single form, but he multiplies that same form, in a series of different repetitions. He abandons himself to the proliferations of unique matrices: to variations on the subjects. “True me is never me, the greatest madness is not to be without an ego, but to believe myself as an Ego in a “Egocracy””. The reference to the Narcissus myth is strong and present. In his coaction to repeat Narcissus obsessively coming back again and again to look himself at the mirror, and he sees himself every time so different because the face never cease to be transformed. In the repetition, in the iteration of himself, he finds only difference, plurality of being.
 In wooden portraits Narcissus mirror

shatters and crushes the Pirandellian multiplicity of “characters”, imprinting the seriality of an echo of a single artistic personality, setting himself as a constant in an overlap of colours, codes, ages, artistic and cultural dimensions. It is not a work oriented to chronicle, so far from the reiteration and the chronicle narrative of the self which the character of the artist in “The Great Beauty” indulge in, but it is a symbolic projection of the human role within the society with evident positive intents and breaking barriers and borders, both material and social ones. Indeed, the narrative continues when the artist plays to unveil, to uncover also the space of coexistence, playing with borders even in the place where all the personalities meet and combine: the city.


In Upside-Down City the world is overturned, in its Cartesian being as in its scale of values, burdened and crushed by the weight of a mountain that cannot fully fulfil the role of a negative exception, constrained by its real and true physical essence leads the work to become an almost archaeological process, study and tale of a root and a base that disappears

Pier Paolo Scelsi Art Director - One Contemporary Art Venice, Italy pierpaoloscelsi@onecontemporaryart.it

and dissolves in floating white city in front of which we now stand, a city locked and closed between walls, oppressive for its whiteness and purity, which is able to detach itself from any foundation and obligation, in an upwards projection that becomes the solution and overcoming of any social, political and geographic limit.


NO ES PAÍS PARA CIEGOS REFLEXIONES SOBRE EL ACERCAMIENTO DEL PATRIMONIO HISTÓRICO-ARTÍSTICO JIENNENSE A PERSONAS INVIDENTES


El presente artículo tiene como base un proyecto particular que, en 2012, ya obtuvo el primer premio en el concurso sobre la innovación aplicada al territorio, denominado El Patrimonio artístico del Renacimiento y del Barroco como fórmula de conocimiento y generación de empleo, convocado por la Universidad de Jaén. Aunque en aquella ocasión el texto recogía propuestas para acercar exclusivamente el Renacimiento y Barroco de dicha provincia, más tarde se incorporaron otros espectros patrimoniales, como la Arqueología y una ampliación de etapas artísticas, lo que contribuyó a enriquecer el trabajo, solidificarlo y actualizarlo. Es por ello que pretendemos aquí exponer unas reflexiones sobre aquellas líneas, de tal manera que supongan una síntesis que posibilite seguir avanzando un proyecto cuya esencia es eminentemente turística; una especie de puesta en común para continuar construyendo la memoria de toda aquella población que, por motivos de visión, no posee las mismas facilidades de acceso a su patrimonio, perteneciente a todos y todas. Precisamente ese acceso siempre se ha constituido como un importante caballo de batalla en la consecución del disfrute patrimonial desde el conjunto de la capa social, aunque en los últimos tiempos los llamados proyectos de inclusión están adquiriendo importancia y sensibilidad, cuyo fin es el de concienciar a la totalidad de la ciudadanía sobre la necesidad de movilizar toda una estructura de actividades y metodologías que faciliten el acercamiento a ese patrimonio. Y es que son necesarios proyectos que contemplen mecanismos y estrategias basadas en la potenciación del resto de sentidos y que sean, ante todo, experienciales, cuyo fin es hacer amena, divertida, didáctica y provechosa la apropiación cultural, sintiéndola como parte de nosotros mismos sin barreras, lo que supondría la dinamización de puestos de trabajo y la continuación de la destrucción de una de las barreras hasta entonces presentes en Andalucía (y el resto de España, generalmente): el acceso al patrimonio de este perfil ciudadano.


Es de suma importancia indicar que aunque este texto esté orientado al disfrute patrimonial de Jaén, ciertamente puede aplicarse como modelo estructural a otra zona de la faz de la tierra, siempre manteniendo una armonía con el entorno en que se desarrolle. El caso de Jaén es especial, porque a pesar de ser una provincia con un muy vasto y rico patrimonio histórico-artístico, y con una difusión aceptable a partir de asociaciones culturales que luchan cada día contra la ignorancia y la desvergüenza y a diversos sectores públicos, un amplio porcentaje de población permanece aún discriminado –que no inmóvil- ante la falta de atención recibida por parte de todo organismo: el relativo a invidentes y discapacitados visuales. Una de las mejores opciones para subsanar este grave problema es la de la creación de propuestas orientadas a una participación de personas con problemas de visión y específicamente diseñadas para compensar dicha carencia sensorial. Las mismas siempre actuarán como soporte de apoyo al propio patrimonio construido (mueble e inmueble), y tendrán una amplia variedad cultural: música, poesía o degustación gastronómica, que no harán sino potenciar otros sentidos para que el patrimonio pueda sentirse y admirarse desde

distintos posicionamientos. Estas propuestas pueden igualmente considerarse como un valor añadido a las ofertas ya existentes sobre patrimonio, pero al tratarse de una idea dirigida a un público con especial consideración, esas mismas ofertas cambian diametralmente, por lo que el citado valor añadido poseería un sentido bilateral (cliente – bien cultural) al acercarle un público hasta entonces desconocido para él. L a s propuestas se aglutinarán y llevarán a cabo en los fines de semana, y generalmente consistirán en rutas adaptadas de carácter cultural que irán variando su temática. Es necesario que exista obligatoriamente una oferta básica y otra complementaria, a fin de que dichas rutas no resulten demasiado extensas y con el fin de no llegar a un agotamiento de memoria, aspecto que a corto plazo poseen las personas con ceguera al estar obligadas a recordar patrones de desplazamiento, datos especiales o lectura de imágenes que otras personas sin la carencia visual tendrían al alcance directo de su vista. De esta manera también se pretende que la propia oferta sea dinámica y se produzca su mantenimiento persiguiendo un fin que no será sino el de la fidelización del público objeto.


Existen una serie de requisitos mínimos que cada actividad comportará, entre los que se encuentran un precio simbólico con el que sufragar el seguro del participante, independientemente de si se contratan actividades individuales o paquetes de fines de semana (paquete completo, no incluyendo el pago de alojamiento). El coste de la actividad en sí queda, por ahora, fuera de nuestros intereses, pues es justo que la administración pública e instituciones privadas inviertan en un proyecto que, lejos de ser necesario, visibilizará más aún su participación. Toda actividad requerirá de un número mínimo de participantes y estará en todo momento organizada por personal especializado en patrimonio, guía turístico, animación sociocultural, entre otras formaciones afines a la finalidad que proponemos. Entre las rutas o itinerarios urbanos existen diferentes tipologías, destacando las centradas en bienes muebles e inmuebles, las únicamente en patrimonio mueble y aquella oferta complementaria que potenciará aún más la básica (y que comportará el uso del resto de sentidos):

conciertos y degustación gastronómica en actividades insertas para rutas específicas. Por supuesto, todas las actividades estarán debidamente informadas a partir de publicaciones en lengua dual (braille y texto escrito), y el personal encargado de desarrollarlas será el que facilite dichos materiales a los participantes. Las propuestas de rutas requieren de un conocimiento del espacio. Es posible percibir el tiempo a partir del lenguaje, sin embargo, el espacio es mucho más complejo de interiorizar, y necesita de instrumentos que hagan posible la retención sensorial y el conocimiento global. Por ello, en nuestra oferta contemplaremos el uso de maquetas a escala para beneficiar la comprensión espacial de las rutas planteadas, siendo estas utilizadas como ayuda fundamental a las palabras de aquellas personas dedicadas a desarrollar la actividad. Es necesario ofrecer a los participantes la mayor cantidad posible de elementos que permitan no solo el entendimiento de los significados culturales encaminados al logro de la autonomía, con el fin de que los invidentes puedan construir referentes para la ubicación del cuerpo en el


espacio abordable. Cabe aclarar que si bien en nuestra iniciativa cada grupo incluiría personal adecuado para dirigir a los participantes, el bastón se haría estrictamente necesario, pues es lo que permite de primera mano percibir dificultades próximas, porque la autonomía es un factor capital para el progreso psicoafectivo de cualquier persona y, en especial, de aquellas sin visión. La inclusión de maquetas en la propuesta ayudará a los invidentes al reconocimiento de los diferentes hitos inmuebles que darán forma al recorrido, convirtiendo el espacio a recorrer en un espacio a escala, posible de ser interiorizado y completamente reconocido. El emplazamiento de estas maquetas sería estudiado adecuadamente y el tacto entraría a formar parte

imprescindible en dicho componente. La complejidad aumenta en el caso de los bienes pictóricos recogidos en sus respectivas actividades, para lo cual se ha pensado la elaboración y producción de láminas de dibujo en relieve cuyo contenido comprenda reproducciones de láminas gráficas muy escuetas, sorteando la perspectiva y reduciendo los detalles, de muy diferentes materias. El diseño y los contenidos de las láminas continuarán estrictamente la regla de representación de dibujos, que consiste en utilizar diversas sucesiones de relieve para dar lugar a la ilusión óptica de la perspectiva y el volumen de las figuras, intentando reproducir con realismo todos los elementos de la obra para conseguir la exigencia de parecerse lo máximo posible a la misma. Este tipo de dibujos en relieve, creemos, permiten a una persona invidente percibir cómo es su medio desde una óptica táctil y advertir de una manera bastante aceptable los métodos utilizados en su visualización. Así mismo, cada uno de estos pliegues de relieve estará dotado de una textura que indicará el color y características básicas de los elementos seleccionados, aspecto que será indicado en una leyenda a pie de lámina adecuadamente escrita en lenguaje braille.


Tenemos un rico patrimonio que debemos saber explotar y ante todo dinamizar y revitalizar mediante la puesta en marcha de todos los recursos humanos posibles, materiales y, sobre todo (y aquí está más que contenida nuestra propuesta), de la imaginación. Solo conociendo realmente lo que tenemos en nuestra provincia podremos librarnos de los prejuicios que a menudo son constatados por las cifras en cuanto al turismo cultural se refiere. En Andalucía ya ha sido confirmado con creces que este tipo de turismo es rentable, como lo ha sido en la mayoría de las grandes capitales españolas. La razón por la que el patrimonio históricoartístico no es rentable en el resto de lugares sin duda responde a una política de, sino e s c a s a , m a l o rg a n i z a d a y p l a n t e a d a movilización humana. Debemos ser conscientes que todo lugar tiene su historia, una historia que necesita difusión. Además, si inmiscuirse en la defensa del patrimonio monumental es una necesidad si deseamos impedir abandonos y reemplazos y suscitar adelantos y recuperaciones, el turismo está logrando no sólo la defensa del patrimonio, sino también la revitalización a través de la generación de actividades como la que nosotros proponemos. Por otro lado, y según estadísticas de la ONCE, en la actualidad 1 de cada 1000 personas posee una severa disminución congénita de la visión. 1 de cada 2000 es totalmente invidente y 1 de

cada 4000 ha perdido gran parte de su capacidad visual por alguna enfermedad. Además, las cifras para personas invidentes del territorio nacional ascienden a unos 60000 (GRATACOS, 2006: 36), siendo en la provincia de Jaén 1084 y en su término municipal, contando las poblaciones limítrofes, de 657 personas invidentes. Políticas como las que nosotros proponemos para nuestra provincia tan sólo se han aplicado en pocos focos del panorama nacional, destacando Cataluña y Madrid, donde los resultados han sido muy satisfactorios. En Andalucía, y hasta lo que hemos podido investigar y comprobar, este tipo de propuestas son aún bastante escasas, y en Jaén, inexistentes hasta la fecha. Pretendemos aplicar en Jaén idéntica idea pero con una concepción distinta, estando seguros que la misma tendría una gran acogida tanto de la población provincial como autonómica y nacional.


La propuesta que se expone en este trabajo es una realidad necesaria a nivel mundial, como reflejo de las sociedades avanzadas en materia de solidaridad, tolerancia y respeto a la totalidad de la ciudadanía. No obstante, nos encontramos con muy pocas excepciones donde la solidaridad de acercar un patrimonio de todos a la ciudadanía invidente es un hecho. Este trabajo pretende seguir rompiendo barreras, al menos, autonómicas y provinciales, permitiendo el acceso total de dicha población al objeto histórico-artístico. Jaén posee una gran cantidad de recursos patrimoniales que pueden explotarse desde muy diversos puntos de vista, uno de los cuales es el que nosotros recogemos. Además, la absoluta inexistencia de una competencia a nivel provincial garantiza que el proyecto pueda adquirir solidez una vez se construyan todos sus pilares. Este documento es tan solo un estado de la cuestión de la situación patrimonial para invidentes en Jaén, no pretendemos por tanto que sea un trabajo cerrado, sino más bien una serie de reflexiones que supongan el enriquecimiento por parte de otras personas que deseen contribuir al proyecto. Dicho esto, sólo queda trabajar y considerar estas líneas como una objetividad de la provincia de Jaén en un futuro no muy lejano.


Daniel Ureña Licenciado en Historia del Arte Jaén, España 9388daniel@gmail.com


P R E Z I OF l oSr e nAc e Jewellery Week 2017

Mostre, conferenze, workshops e dimostrazioni dal vivo di artigiani di varie discipline sono state al centro della settimana del gioiello contemporaneo. Artisti e curatori internazionali sono arrivati a Firenze ed hanno condiviso i loro lavori e le loro conoscenze con il numeroso pubblico. Leggere per credere!


PREZIOSA è un progetto culturale ideato e coordinato da "Le Arti Orafe", dal 1985 la più prestigiosa scuola di gioielleria contemporanea in Italia. Il progetto, lanciato nel 2005, è diventato uno dei maggiori eventi europei dedicati al gioiello contemporaneo. La qualità del progetto, la presenza di artisti di fama internazionale, il prestigioso set-up, gli eleganti cataloghi e la formula originale che c o m p r e n d e l ' o rg a n i z z a z i o n e d i conferenze con artisti e curatori rendono "Preziosa" un appuntamento che gli amanti del gioiello contemporaneo non possono perdere. L’Italia è un paese con una tradizione orafa, ma non possiede nessun museo dedicato ai gioielli, e mostre temporanee sono sempre state manifestazioni rare. Attraverso l'organizzazione di eventi come PREZIOSA, la scuola vuole aiutare a colmare una lacuna di cui il paese è più o meno consapevole. Dal 2008 viene o rg a n i z z a t a a n c h e u n a m o s t r a "parallela" per giovani artisti: PREZIOSA Young è già un punto di riferimento internazionale per i nuovi artisti e orafi.

PREZIOSA 2017 – Florence Jewellery Week è stata una festa, un grande happening durante il quale le persone hanno potuto incontrarsi e dialogare in un ambiente stimolante, professionale e amichevole. Visitatori dall’Italia e dall’Europa, ma anche da America latina, India, Cina…. Un pubblico curioso, interessato e esigente ha affollato tutti i momenti di PREZIOSA 2017. La qualità delle opere in mostra, gli allestimenti molto curati, il ricco e molto vario programma di lectures, l’accoglienza offerta a ospiti e visitatori, grazie anche al contributo e alla partecipazione attiva degli studenti di LAO, hanno conferito ulteriore prestigio a un evento che dal 2005 contribuisce in modo determinate alla diffusione della cultura del gioiello. La scelta di LAO, che dopo il successo dell’edizione 2015 ha deciso di mantenere e espandere la formula “Jewellery Week”, si è rivelata un successo al di là delle migliori aspettative.


MOSTRE Per l’apertura ufficiale delle mostre nelle tre diverse sedi, abbiamo scelto una formula inedita per Firenze: una inaugurazione “itinerante”: il primo appuntamento era alle 17.00 alla Galleria Botticelli; il tour è proseguito alla Galleria del Palazzo Coveri, dove alle 18.00 ci aspettava la direttrice Beatrice Cifuentes, e alle 19.00 sono state aperte le mostre ospitate in Museo Bellini.

Galleria Botticelli Nelle eleganti sale del bellissimo negozio di antiquariato è stata allestita la mostra C o n t e m p o r a r y S w e d i s h S i l v e r. N e w approaches to an enduring tradition, curata dalla bravissima Inger Wästberg, che ha anche tenuto una interessante conferenza sul gioiello contemporaneo svedese. Gli oggetti esposti mostrano come la tradizione della lavorazione argentiera in Svezia possa trovare nuova vita nel design dei nostri giorni. Si tratta quasi sempre di rivisitazioni in chiave contemporanea e a volte anche ironica, di oggetti di uso quotidiano, in particolare teiere, insalatiere, tazze. Le opere appartengono ad un gruppo di sette giovani artisti che condividono lo stesso atelier e la stessa galleria a Stoccolma: Erik Tidäng, Petronella Eriksson, Lena Jerström, Klara Eriksson, Tobias Birgersson, Maki Okamoto, Pernilla Sylwan, quest’ultima presente a Firenze in rappresentanza del gruppo, insieme a Inger Wästberg.


Galleria di Palazzo Coveri La Galleria di Palazzo Coveri sul Lungarno Guicciardini è un magnifico spazio espositivo curato da Beatrice Cifuentes. La grande sala dipinta di bianco, molto spaziosa e luminosa è stata la cornice perfetta per la presentazione degli oggetti dei vincitori del concorso internazionale PREZIOSA Young 2017: Fang Jin Yeh, Quian Wang, Shachar Cohen e Xiaodai Huang. All’apertura delle conferenze, il 26 maggio, Giò Carbone ha comunicato a Shachar Cohen l’assegnazione del premio speciale della Fiera Inhorgenta, che consiste in uno spazio espositivo gratuito per l’edizione 2018 della fiera, mentre ha assegnato a Quian Wang il premio speciale LAO, che consiste in un soggiorno di tre mesi come artista in residenza a Firenze.

Museo Bellini Il foltissimo pubblico confluito al Museo Bellini ha avuto l’occasione di ammirare i lavori di artisti di consolidata fama che hanno allestito le loro mostre personali. Con la mostra “iNACARME! An obsession by mother of pearl” Tasso Mattar e Danni Schwaag hanno esposto le loro recenti collezioni di gioielli in madreperla. I due artisti appartengono a due generazioni diverse e sono entrambi “ossessionati”, come loro stessi affermano, da questo suggestivo materiale organico, che sono riusciti con i loro interventi creativi ad esaltare in oggetti/gioiello unici e intriganti.


Se per la mostra di Tasso e Danni la madreperla è stata l’assoluta protagonista, nei gioielli di Sibylle Umlauf l’unicità viene espressa nella ricerca costante del contrasto fra il ferro, materiale scuro e duro, e l’oro, al contrario chiaro e morbido. Utilizzando tecniche di lavorazione che ha perfezionato nel tempo, e che derivano dalla tecnica Zogan giapponese, l’artista crea gioielli di una bellezza che possono confondere, per la loro forza espressiva

Nella sala accanto erano esposti gli splendidi e delicati gioielli del giapponese Arata Fuchi. Questo artista prende ispirazione dalla natura e dal concetto giapponese di bellezza, e ha perfezionato in anni di studio una tecnica particolare chiamata “polverizzazione dell’argento”, che rende le superfici ruvide ed irregolari. A questa tecnica, Arata aggiunge dettagli minuziosi realizzati in granulazione oppure con la tecnica coreana del Kumboo. C’è una cura minuziosa del dettaglio nei lavori dell’artista, ma soprattutto un senso di purezza e di armonia davvero notevoli.

L’altra mostra personale nelle sale del Museo Bellini era quella dell’australiano Robert Baines, che vanta un curriculum straordinario di mostre e conferenze e che ha onorato tutti della sua presenza a Firenze. La mostra intitolata High Wire presenta gioielli di una fattura e di una lavorazione del tutto fuori dal comune. Gli oggetti sono costruiti in modo molto complesso e ricordano in qualche modo alcune composizioni pittoriche di Kandinsky. Forme, linee e disegni si intrecciano e si sviluppano in tutte le direzioni, si sovrappongono e si mescolano in uno schema che sembra a prima vista casuale, ma che probabilmente risponde a un ordine preciso e voluto.


Il percorso espositivo si concludeva con la mostra c ol l e t t i va Jw a h r, N ew Iranian and Persian Jewelry.

Grazie alla collaborazione con la ARIA GALLERY di Teheran, e alla curatela di Kevin Murray, abbiamo potuto conoscere il lavoro dei giovani artisti iraniani Anahita Anasseri, Ashkan Behjou, Atoosa Mokhaberi, Baharak O m i d f a r, B e a i n a Minasvand, Ghazaleh Nasseri, Mahnaz Seyed E k h t i a r y, M e h r n o o s h Ganji, Narges Asadinejad, Nikoo Nooriyan, Niloofar Naadi, Saiedeh Davoudi, Shahrzad Aliyari Maleki e Sharmagh Eskandarian.

Nello spirito di PREZIOSA, abbiamo dato spazio a artisti provenienti da un paese dove non esiste una consolidata storia sulla ricerca orafa contemporanea. A questi paesi e ai giovani artisti PREZIOSA vuole dare sempre più spazio. I visitatori che hanno visitato PREZIOSA hanno in gran parte compreso questo spirito e non hanno fatto confronti qualitativi tra i lavori di questi artisti e le opere di artisti già affermati, tutti provenienti da paesi nei quali l’oreficeria contemporanea vanta una storia almeno cinquantennale.


Conferenze Una colorata, multietnica, multiculturale folla ha riempito lo spazio allestito per le conferenze, la sala Capitolare all’interno del suggestivo e bellissimo chiostro di Santo Spirito. Inger Wastberg, curatrice della mostra alla Galleria Botticelli ha inaugurato il ciclo di conferenze del primo giorno, e ci ha parlato dei recenti sviluppi della ricerca orafa in Svezia, e di come si è evoluta negli ultimi decenni, con accenni al modernismo, e alle lotte del movimento femminista. Inger ha illustrato il lavoro di alcuni artisti del panorama svedese del gioiello contemporaneo, come ad esempio Sara Borgegård Älgå, Catarina Hällzon, Märta Mattsson, Hanna Hedman, Agnes Larsson, Tobias Alm, Carolina Gimeno, Auli Laitinen, Åsa Skogberg and Charlotte Sinding, Åsa Skogberg, Aud Charlotte Ho Sook Sinding. Martina Dempf, designer di gioielli, gallerista e antropologa sociale che tra le altre cose ha studiato a lungo il gioiello etnico africano, ha parlato del legno come materiale dall’enorme potenziale e che offre molteplici tecniche di lavorazione. Un materiale fonte di ispirazione per numerosi artisti anche diversi fra loro, ma che hanno in comune il rispetto per questo materiale naturale e per la natura stessa. Con la sua conferenza dal titolo Traditions at hand: A renaissance in global art jewellery, Kevin Murray, curatore della mostra di gioielli iraniani in Museo Bellini, ci ha fatto compiere un viaggio metaforico e culturale attraverso varie aree e culture del mondo e ci ha fatto riflettere su come molti paesi, pur rimanendo legati alle proprie tradizioni, mostrino interesse e crescita nell’ambito della ricerca orafa contemporanea. Attraverso una panoramica globale, Kevin ha mostrato come le religioni, le usanze, i simboli, i valori e la storia di ogni paese debbano essere preservati e rinnovati per far sì che vivano nel presente. La creatrice di gioielli e storica del gioiello Roberta Bernabei, italiana di origine, e inglese d’adozione, prima di trasferirsi definitivamente in Gran Bretagna era stata la prima docente di storia del gioiello contemporaneo a LAO. Roberta ci ha parlato di come l’integrazione tra tecniche orafe tradizionali e tecnologie digitali possa contribuire a migliorare la salute e l’esistenza di persone affette da disturbi gravi o da conseguenze da incidenti, con la creazione di dispositivi/gioiello in grado ad esempio di stimolare la memoria ad esempio in persone colpite dal morbo di Alzheimer.


Con la sua conferenza dal titolo Traditions at hand: A renaissance in global art jewellery, Kevin Murray, curatore della mostra di gioielli iraniani in Museo Bellini, ci ha fatto compiere un viaggio metaforico e culturale attraverso varie aree e culture del mondo e ci ha fatto riflettere su come molti paesi, pur rimanendo legati alle proprie tradizioni, mostrino interesse e crescita nell’ambito della ricerca orafa contemporanea. Attraverso una panoramica globale, Kevin ha mostrato come le religioni, le usanze, i simboli, i valori e la storia di ogni paese debbano essere preservati e rinnovati per far sì che vivano nel presente. La creatrice di gioielli e storica del gioiello Roberta Bernabei, italiana di origine, e inglese d’adozione, prima di trasferirsi definitivamente in Gran Bretagna era stata la prima docente di storia del gioiello contemporaneo a LAO. Roberta ci ha parlato di come l’integrazione tra tecniche orafe tradizionali e tecnologie digitali possa contribuire a migliorare la salute e l’esistenza di persone affette da disturbi gravi o da conseguenze da incidenti, con la creazione di dispositivi/gioiello in grado ad esempio di stimolare la memoria ad esempio in persone colpite dal morbo di Alzheimer. Con la sua conferenza dal titolo Traditions at hand: A renaissance in global art jewellery, Kevin Murray, curatore della mostra di gioielli iraniani in Museo Bellini, ci ha fatto compiere un viaggio metaforico e culturale attraverso varie aree e culture del mondo e ci ha fatto riflettere su come molti paesi, pur rimanendo legati alle proprie tradizioni, mostrino interesse e crescita nell’ambito della ricerca orafa contemporanea. Attraverso una panoramica globale, Kevin ha mostrato come le religioni, le usanze, i simboli, i valori e la storia di ogni paese debbano essere preservati e rinnovati per far sì che vivano nel presente. La creatrice di gioielli e storica del gioiello Roberta Bernabei, italiana di origine, e inglese d’adozione, prima di trasferirsi definitivamente in Gran Bretagna era stata la prima docente di storia del gioiello contemporaneo a LAO. Roberta ci ha parlato di come l’integrazione tra tecniche orafe tradizionali e tecnologie digitali possa contribuire a migliorare la salute e l’esistenza di persone affette da disturbi gravi o da conseguenze da incidenti, con la creazione di dispositivi/gioiello in grado ad esempio di stimolare la memoria ad esempio in persone colpite dal morbo di Alzheimer.


A chiusura del primo giorno di conferenze, l’orafo e professore Robert Baines ha parlato di come il gioiello sia entrato nella storia del costume e di come l’abbia influenzata. Il relatore si è chiesto se la gioielleria potesse essere una misura di un tempo e ha dato la sua risposta con un intervento in poesia, ritmato, a tempo, coinvolgente e brillante, esattamente come i suoi gioielli esposti al Museo Bellini. Il secondo giorno di conferenze è stato inaugurato dall’americano David Loepp, che lavora nell’ambito dell’archeogioielleria e dell’archeometallurgia a Roma. David ha presentato la sua ricerca su un gioiello granulato rinvenuto recentemente in una tomba in Oman, e risalente al III-II millennio A.C. Il conferenziere ha replicato l’oggetto nel suo laboratorio ed ha illustrato

al numeroso e attento pubblico il risultato del suo lavoro. Il suo è stato un intervento tecnico, ma che ha saputo trasmettere ai presenti la cura e la passione dell’artista per il suo lavoro e la sua vasta cultura. Ha seguito questa conferenza l’intervento di Maria Laura La Mantia, designer di gioielli e insegnante di Storia del Gioiello. Il suo intervento è stato una sorta di lezione sulla storia del gioiello filtrato attraverso la rappresentanza di simboli celesti che si ritrovano in diverse forme lungo i secoli e nelle diverse culture, e che hanno rappresentato fin dall’antichità, uno strumento per leggere il destino degli uomini. Un intervento molto appassionato, dettagliato ed esaustivo che ha aperto un’ulteriore argomento di

riflessione per gli appassionati di questa arte. Maria Cristina Bergesio, storica dell’arte specializzata in gioiello contemporaneo, curatrice di molte edizioni di PREZIOSA e da molti anni docente di storia del gioiello contemporanea a LAO, ha effettuato una breve e fulminante lettura, e lanciato degli spunti di riflessione per tutti molto interessanti. Maria Cristina ha provocatoriamente rappresentato il mondo del gioiello contemporaneo come un mondo paradossale, al contrario, con regole stravolte, proprio come il paese delle meraviglie di Alice. Il suo intervento è stato brillante e stimolante, ha catturato l’attenzione del numerosissimo pubblico ed ha lasciato aperte domande su cui riflettere e discutere ancora.


Shruti Agrawal, designer di gioielli indiana che realizza gioielli per una selezionata clientela, e lavora fra l’India e l’Italia insieme alla sorella. Shruti ha illustrato il significato profondo che i gioielli, e in particolare le decorazioni corporali assumono nella cultura e nella società indiana. Con il suo intervento, che esplorava i significati e le finalità soprattutto di ordine spirituale, delle decorazioni corporali, permanenti o temporanee, Shruti ci ha anche raccontato di come le persone impiegano molta attenzione nella scelta di materiali di origine organica, da piante e fiori, e di come questo rappresenti ancora un rispetto radicato per la “madre terra”. Tasso Mattar, orafo e sociologo tedesco che attualmente vive in Spagna, ha parlato delle diverse motivazioni o ispirazioni

che i materiali organici hanno fornito agli artisti. Tasso ha raccontato di come corone e simboli del potere fossero ispirati a motivi di origine naturale (corone di alloro, spighe…), per passare poi alla impostazione delle scuole e delle accademie negli anni ’70, nelle quali utilizzare motivi o materiali organici era addirittura vietato, per arrivare ai nostri giorni, nei quali finalmente ognuno è libero di usare i materiali e le tecniche che preferisce per realizzare i propri lavori. Alla fine del suo intervento Tasso Mattar ha consegnato a Giò Carbone il premio David 2017, un riconoscimento per il lavoro e l’impegno dispensato per la promozione della cultura del gioiello. Questo secondo ed ultimo giorno di conferenze è stato

chiuso dall’intervento di Petra Holscher, curatrice della Neue Sammlung del Design Museum della Pinacoteca Moderna di Monaco di Baviera, che ospita la più importante collezione al mondo dedicata al gioiello contemporaneo. È di questa magnifica collezione che ci ha parlato la relatrice, illustrando con rare immagini la storia della collezione dalla sua prima costituzione fino ai giorni nostri. Petra ha anche avuto modo di spiegare come la presentazione degli oggetti, il loro posizionamento, l’illuminazione utilizzata, siano importanti per queste collezioni.


Workshops e masterclass L’intervento didattico di Kevin Murray ha preso in esame il ruolo che i gioielli, e in particolare i gioielli di promessa (come ad esempio, ma non solo, l’anello di fidanzamento), possono avere nei rapporti sociali in diverse culture e in diverse situazioni sociali. Robert Baines ha basato il suo seminario sul concetto da cui parte egli stesso nella creazione dei gioielli: linee, spazi, forme che si legano e si intrecciano in modi infiniti per creare un’armonia nuova ed originale. Martina Dempf ha proposto un seminario pratico, durante il quale ha suggerito ai partecipanti soluzioni creative per la realizzazione di gioielli che prevedevano l’utilizzo del legno. È stata la prosecuzione visiva della conferenza tenuta da Martina nei giorni precedenti. Anche Tasso Mattar ha lavorato con un gruppo di studenti LAO e altri studenti esterni, che hanno lavorato utilizzando vari materiali organici, con interventi minimi nella struttura di questi materiali, ma provando a tirar fuori dal materiale stesso forme già definite, e creando strutture metalliche adeguate a sostenerle in modo non invasivo.

In queste settimane la scuola si sta preparando alla mostra di fine anno che esporrà i lavori degli studenti. Dalle ore 19.00 del 29 di giugno, gioielli e disegni saranno esposti all'istituto dei Bardi, in via Michelozzi 2 a Firenze. L’esposizione proseguirà all’istituto dei Bardi venerdì 30 giugno dalle 15.00 alle19.00 e sabato 1 luglio dalle 11.00 alle 18.00. Per ulteriori informazioni sulla scuola visitate il sito www.artiorafe.it Per ulteriori informazioni su PREZIOSA visitate il sito www.preziosa.org


D i m o s t ra z i o n i d e g l i

artigiani

Nel pomeriggio del 28 maggio, nel piazzale della scuola, è stata organizzata una festa alla quale hanno partecipato tutti gli artisti invitati, mescolati al numeroso pubblico che si è alternato durante tutto il pomeriggio per ammirare i molti artigiani di varie discipline che hanno dato dimostrazioni dal vivo. Innanzitutto alcuni docenti di LAO, Giuseppe Casale e Filippo Vinattieri con l’arte dell’incisione a bulino; Francesco Pinzauti e i suoi assistenti con l’incassatura; Monica Amato con il taglio delle pietre. E poi molti amici ospiti esterni: Marco Paci con il mosaico fiorentino; Luigi Barato con la formatura della lastra e la forgiatura anticlastica, Antonio Spitaletta con l’incisione di cammei, Giotto Scaramelli con l’arte antica della cestineria, il “madonnaro” Tommaso Brogini, i marmisti e i mosaicisti della ditta CFC di Firenze con il mosaico fiorentino al buio, la scagliola e la scultura del marmo).

Nora Segreto PhD Student, Université Paris-Sorbonne Firenze, Italia nora.segreto@gmail.com



Los intonarumori

y el Ruidismo Velocidad, energía, potencia, máquinas, chispeantes destellos recorriendo superficies inabarcables, imperceptibles o inapreciables. Cualidades todas de una cierta inmaterialidad que comienzan a captar la atención de los artistas de la corriente futurista. Una corriente artística fundada sobre el manifiesto escrito por Filippo Tommaso Marinetti en 1909, y que forma parte de un movimiento más amplio que acoge no sólo pintura, sino también literatura, cine, ensayística fotografía y música. Es sobre esta última manifestación en la que nos detendremos, más concretamente hablaremos de los “intonarumori”. Aunque la presencia de la música en el arte sí que ha sido una constante desde la antigüedad

y especialmente en el siglo XVI-XVIII cuando la musicalidad lírica del ut pictura poiesis se convierte en un precepto de corte obligatorio en las academias y talleres artísticos franceses e italianos, o incluso en movimientos de abstracción con las teorías de la música y el color de Kandinsky, la pintura moderna no había logrado hasta ahora una simbiosis tan homogénea entre “ruido” y arte en general (y la pintura en particular) como así lo hizo el futurismo. Velocità astratta + rumore de 1913-14, obra de Giaccomo Balla, es un evidente ejemplo de “rumori” que cortan afiladamente una composición pictórica y rompen nuestros tímpanos con un sonido chirriante.


Sin esos ruidos blanquecinos seguramente estaríamos sólo ante un paisaje con una locomotora apeada en el andén de la estación. Estos ruidos de motores, tranvías y férreos engranajes en marcha los intenta “musicalizar” el artista y compositor véneto Luigi Russolo (1885 – 1947) en su tratado L’arte dei Rumori (1913), un proyecto teóricomusical que culmina con la fabricación de una serie de instrumentos musicales, generadores de ruidos industriales y maquinísticos, capaces de controlar sus variables de entonación y altura. Los artilugios se desarrollan en el contexto fascinante de la ciudad moderna, cuando las grandes urbes del norte de Italia se sitúan dominantes en los circuitos militares de la

primera gran guerra, donde la locomotora, la velocidad y el fusil llegaron a calar en el imaginario colectivo con su estruendo. Las ocurrencias de Luigi Russolo y sus teorías para musicalizar los nuevos sonidos de la contemporaneidad consiguen captar la atención de compositores como Stravinsky, de hecho, pudo asistir a uno de sus espectáculos en la Villa Rosa de Filippo Tommaso Marinetti en 1913, aunque estas piezas no siempre gozaron del beneplácito popular, sino más bien todo lo contrario, siendo el abucheo uno de los principales sonidos de fondo en sus giras por los teatros de París, Londres e incluso en una Italia en la que el Futurismo era una corriente institucionalizada desde hacía algunos años.


Los “intonarumori” de Russolo sirvieron, más allá de ser una manifestación artística testimonio de un momento histórico muy singular, como base para el desarrollo del Ruidismo o la música ruidista, así como de tantos otros movimientos experimentales contemporáneos.

Ramón Melero Guirado Historiador del Arte Cazorla, Jaén, España rmeleroguirado@gmail.com


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Coordinated by Ramón Melero Guirado Designed and edited by Matilde Ferrarin


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