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danza Da Cenerentola a Flashdance il caleidoscopio multiforme della danza

Da Cenerentola a Flashdance il caleidoscopio multiforme della danza

BUSK, coreografia di Aszure Barton. BEDROOM FOLK, coreografia di Sharon Eyal. SOLO ECHO, coreografia di Crystal Pite. Con Ballet British Columbia. Prod. Ballet British Columbia, VANCOUVER.

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Una compagnia agile e dinamica con un repertorio in grado di riflettere tutte le sfaccettature della danza contemporanea. È il Ballet British Columbia che, fondato a Vancouver nel 1986 e apprezzato nell’unica data italiana al Teatro Sociale di Trento, ha proposto il trittico firmato dalle tre coreografe Aszure Barton, Sharon Eyal e Crystal Pite. Si parte con Busk della canadese Aszure Barton, lavoro dallo spiccato taglio teatrale e dalle sfumature cangianti in cui prende vita l’universo degli artisti di strada (i buskers appunto, da cui il titolo, n.d.r.), tra inferno e paradiso. Un suggestivo poema urbano dai richiami metafisici, dove figure in felpe incappucciate vivono in tensione continua tra l’estasi dell’arte da loro stessi creata e la richiesta di monete per nutrire la pancia. I volti prendono qui la forma di vere e proprie maschere, con tanto di lingue ben in vista, esprimendo un caleidoscopio di passioni mentre momenti di raccordo collettivo saldano tra loro i corpi, facendo apparire figure tentacolari che lanciano messaggi verso il cielo. Una sublime messa dalle tonalità dark ma ricca di ironia, confezionata da Barton a regola d’arte. Con Bedroom Folk sulle potenti sonorità di Ori Lichtik, l’israeliana Sharon Eyal conferma la solidità della sua scrittura coreografica, basata su corpi pulsanti e ormai ben conosciuta. Qui un gruppo di interpreti è alle prese con la libido, tra movimenti a ritmo sincopato e attrazioni magnetiche messe in risalto da un fondale rosso fuoco, colore forse voluto per simboleggiare la passione erotica. Conclude la serata Solo Echo di Crystal Pite, autrice canadese sulla cresta dell’onda internazionale che però qui vira verso una dimensione perlopiù manierista che non brilla per inventiva e possibilità di ricerca. Una nevicata dal sapore poetico e nostalgico fa da sfondo, infatti, a un ordito coreografico ricamato su due Sonate per violoncello di Brahms, dove continue scale di movimento e inversioni vengono adoperate per simboleggiare azioni sospese tra passato e futuro, flashback e riti di passaggio con richiami alle liriche di Mark Strand. Carmelo A. Zapparrata

VERSUS - Nel nome del padre, del

figlio, della libertà, ideazione di Michela Lucenti. Luci di Giovanni Coppola. Con Attilio Caffarena, Michele Calcari, Maurizio Camilli, Ambra Chiarello, Loris De Luna, Abdelaziz ElYoussoufi, Maurizio Lucenti, Michela Lucenti, Alessandro Pallecchi Arena, Matteo Principi, Emanuela Serra, Giulia Spattini. Prod. Balletto Civile e Fondazione Luzzati Teatro della Tosse, GENOVA.

Il teatro è relazione, senza intermediari. Da una parte chi guarda, dall’altra chi recita. E quanto più libere dall’indirizzare sono le scene, tanto più uno spettacolo lascia tracce. Muta pensieri e circostanze. Azioni presenti e future. E di relazioni si parla, dei contatti tra uomo e uomo, tra l’uomo e il proprio silenzio. O la propria immagine. O il proprio corpo. Di Versus, visto a Genova per la rassegna di danza Resistere e Creare, del Teatro della Tosse, si può parlare come di uno spettacolo destinato a mutare coscienze e posizioni. Fosse anche solo per il momento irripetibile della messinscena, anche solo per uno slancio di vita provocato, altrimenti tenuto assopito. Parola e danza. Azioni fisiche e collettive. Microfoni in mano, verità e biografie brutalmente verbalizzate “in faccia” al pubblico dal palco/pulpito per identità ultime, invisibili, non considerate. Scene schiette e sacralizzate dalla costruzione coreografica, dalla mano registica. Quell’autorialità che distingue l’arte dalla pratica. La scena si apre con un passo a due, una coppia di anziani uomini in movimenti “rubati” alla Bausch: un romantico omaggio e un significante profondo al contempo. Non ha importanza svelare il significato, per ogni sguardo ce ne sarà uno. E poi una zuffa, sul palco, di storie e di corpi, di vite vissute o sperate, davanti una parete (fondale) di luce abbagliante. Un pretesto, il libro Re Lear padri, figli, eredi, di Massimo Cacciari. Il teatro scoperto, disossato, quasi nudo. La minimale scenografia disegna una pista d’atterraggio, convergente verso il fondale. E l’ispirazione: guardare e fare vedere - e solo il teatro può, senza mostrare - come l’umanità comunica per segni visivi, linguaggi, convenzioni, riti. Dal tratteggio pop, eco dello stile Duemila - in cui l’Io diventa personaggio principale, elemento persuasivo principe - l’opera rimbomba di potenza espressiva vivida, s’assapora con entusiasmo, suscita sensibilità e leggerezza. Emilio Nigro

VENEZUELA, coreografia di Ohad Naharin. Costumi di Eri Nakamura. Luci Avi Yona Bueno (Bambi). Con Batsheva Dance Company. Prod. Batsheva Dance Company, TEL AVIV - Théâtre National de Chaillot, PARIS - Hellerau-European Center for the Arts, DRESDA. Nuova fase creativa per Ohad Naharin? Classe 1952, e ora alle soglie dei sessantotto anni, il coreografo israeliano, dopo l’annuncio nel corso del 2017, ha lasciato effettivamente il timone della Batsheva Dance Company a settembre 2018, consegnandolo nelle mani della fedelissima Gili Navot. Non più direttore artistico, Naharin continua però il proprio percorso creativo in seno alla compagnia di bandiera israeliana quale suo coreografo residente, plasmando in scena sensazioni diverse rispetto a quelle conosciute in precedenza. Tutto ciò si riscontra in Venezuela, presentato in prima assoluta a Tel Aviv a maggio 2017 e visto in prima italiana quest’anno al Teatro Municipale Valli di Reggio Emilia. Ottanta minuti senza intervallo in cui assaporare la sua grande arte, giocata qui in maniera raffinata sulla visione e sensazione dello spettatore, su come connotare e denotare l’arte del movimento. Venezuela, infatti, si compone di una tessitura coreografica ripetuta due volte con l’aggiunta di “variazioni su tema” che rapiscono l’occhio dello spettatore, attento a mettere a confronto il prima e il do-

po. Se la prima parte assume dei toni quasi meditativi grazie all’accompagnamento dei canti gregoriani e all’andamento lento e cadenzato, la seconda parte invece accoglie rap e trap di ascendenza araba, velocizzando il tessuto coreografico e imponendo ai movimenti delle variazioni di energia. Sotto lo pseudonimo di Maxim Waratt è lo stesso Naharin a curare questo caleidoscopio di tracce musicali che accompagnano un sottile messaggio socio-politico che corre per tutto lo spettacolo. Coppie salsere in schermaglie tipiche dei balli latino-americani cedono, infatti, il posto a gruppi processionali con diversi teli bianchi intenti a comporre un sudario per un danzatore steso a terra. Al bianco dei teli, però, nella seconda parte si sostituisce il colore di diverse bandiere, compresa quella palestinese, lasciando così una riflessione aperta che in maniera circolare finisce per inglobare lo stesso titolo. Carmelo A. Zapparrata

CENERENTOLA, coreografia, regia, drammaturgia e luci di Jiří Bubeníček. Scene di Jiří Bubeníček e Nadina Cojocaru. Costumi di Nadina Cojocaru. Con Nuovo Balletto di Toscana. Prod. Teatro del Maggio Musicale Fiorentino - Compagnia Nuovo Balletto di Toscana, FIRENZE.

Non in scarpette di cristallo ma in sneakers dorate. La Cenerentola creata da Jiří Bubeníček per il Nuovo Balletto di Toscana si presenta così: tocco urbano, capello corto e aria scanzonata. Con a monte l’omonimo titolo di repertorio, tenuto a battesimo nel 1945 al Bolshoi di Mosca su musiche di Sergei Prokofiev e coreografie di Rostislav Zakharov, il lavoro di Bubeníček più che al balletto russo novecentesco guarda però alla fiaba ottocentesca dei fratelli Grimm, traendone ispirazione per la sua creazione. Visto da noi per la prima assoluta al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino con l’orchestra di casa diretta da Giuseppe La Malfa, impegnata a eseguire le partiture del compositore russo. Praghese, e già rinomato interprete di John Neumeier al Hamburg Ballett, Jiří Bubeníček in questa sua Cenerentola porta in scena diversi elementi simbolici (l’albero) e personaggi (come i due uccellini) tratti dai Grimm, calando però il tutto in una dimensione contemporanea. Ricchi di torsioni, i movimenti dei danzatori tendono a sciogliersi in continui groundworks dal gusto quasi hip hop, elemento questo richiamato anche dalla gestualità della matrigna mentre richiama all’ordine le sorellastre. Diversi sketch ironici vengono presentati durante la lunga scena del ballo, tra invitati incuriositi dalla presenza della sconosciuta dama a cui il principe riserva tutte le sue attenzioni, invitandola infine a danzare. Con una giubba rossa a frange, il principe si lancia poi in una corsa affannata, analizzando mille gambe e piedi messi in bella mostra tra cortine variopinte e passamanerie, per ritrovare l’amata. Apprezzata comunque la bravura dei giovani ballerini dell’ensemble diretto da Cristina Bozzolini, a nostro avviso, però, lo spettacolo, a cui gioverebbe forse un cambio di scene e costumi, risente della ricerca, non ancora ultimata, da parte di Jiří Bubeníček di una propria scrittura coreografica. Carmelo A. Zapparrata

ANOTHER ROUND FOR FIVE, regia e coreografia di Cristina Morganti. Luci di Jacopo Pantani. Musiche di Bernd Kirchhoefer. Con Maria Giovanna Delle Donne, Anna Fingerhuth, Justine Lebas, Antonio Montanile, Damiaan Veens. Prod. il Funaro, PISTOIA - Fondazione Campania dei Festival, NAPOLI e altri 5 partner internazionali. Cinque danzatori su altrettante sedie pieghevoli bianche, sistemate in cerchio al centro del palcoscenico. Una sorta di gruppo di auto-aiuto, ovvero club clandestino riservato a pochi e selezionatissimi eletti. Il nuovo spettacolo creato da Cristina Morganti insieme (e non “per”, ché l’autorialità dei singoli interpreti è evidente) a cinque danzatori diversi per provenienza geografica e fisicità, compendia e riformula motivi cari alla coreografa, attraversandoli con quell’ironia e quel gusto per lo spaesamento che le sono propri. Sipari animati da una danza ora frenetica ora più distesa scivolano in situazioni quasi da teatro dell’assurdo: si rievocano primi amori e rapporti non sempre lineari con i genitori, si legge il programma di sala ovvero si mima una cerimonia di premiazione. Si danza al ritmo della techno industrial tedesca di Florian Kupfer ma pure assecondando le note sacre di Pergolesi, salvo poi esibirsi in una rivisitazione delle posizioni classiche del balletto sulla colonna sonora di Flashdance. Inutile cercare un filo drammaturgico coerente, se non la volontà di sperimentare le potenzialmente infinite variazioni di un gesto ovvero di una situazione. E, allora, non resta che abbandonarsi alla felice flessibilità dei cinque danzatori, impegnati in continui cambi di abito e di attitudine, e all’arguta capacità compositiva della coreografa che, prendendo spunto dall’immagine iniziale, crea uno spettacolo circolare eppure mai uguale a se stesso e punteggiato tanto da momenti spregiudicatamente divertenti quanto da frangenti di concentrata ed emozionale tensione, come la corsa di Justine per liberarsi degli abiti che altri le hanno imposto o l’abbraccio carezzevole di Anna ad Antonio, avvolto in una morbida pelliccia. Laura Bevione

ABSTRACT. Un’azione concreta,

ideazione e regia di Silvia Rampelli. Con Alessandra Cristiani, Eleonora Chiocchini, Valerio Sirna. Luci di Fabio Sajiz. Prod. Habillé d'Eau, ROMA - Tir Danza, MODENA - Armunia Festival Inequilibrio, CASTIGLIONCELLO (Li) - Danae Festival, MILANO.

Il linguaggio della danza ha sempre posseduto, ancor più del teatro, un carattere effimero, e l’astrazione, intesa come espressione dell’irreale o sinonimo di “anti-narrazione”, è caratteristica anch’essa quasi imprescindibile del linguaggio coreutico, almeno nell’immaginario comune. Concettualmente legato a questo discorso che tocca il modo in cui lo spettatore percepisce ciò che avviene di fatto nel qui e ora della performance, il tema della quarta dimensione, il tempo. Perciò, forse, in Abstract. Un’azione concreta della coreografa Silvia Rampelli tre didascalie determinano la possibilità, l’illusione, di una storia dai contorni sfumati e astratti, tanto da rappresentare con la propria consistenza a-logica l’atto della creazione per antonomasia. Tre didascalie - in ordine di apparizione, «un anno dopo», «nel medesimo istante» ed «e» - trasferiscono sensazioni che modificano la percezione di ciò che accade sulla scena, scandendo in modo enigmatico nel corso della performance il tempo razionalmente non contemplabile, quello della simultaneità o dell’inversione consequenziale, di azioni che potrebbero essersi verificate in momenti diversi di una vita vissuta; in un ricordo, quindi, costruito però con una scomposizione scientifica, sotto le atmosfere tese di una luce che forgia uno spazio profondo e da cui emergono come plastici le forme dei corpi umani, o di un cane che gioca con il suo pupazzo, o ancora, il leitmotiv - per esempio - di toccarsi nevroticamente le dita di Alessandra Cristiani. L’approccio di Rampelli al movimento è analitico, si fa riproduzione concettuale dell’istante, con i performer statuari che si situano a distanza come atomi di una materia fragile proprio per la sua fedeltà a una traccia esistenzialista, che resta evidente sul piano della pura immaginazione di chi osserva e resta, quasi senza accorgersene, catturato nella trama di una scrittura fatta di gesti essenziali e lenti, per esplodere poi. Renata Savo

In apertura, Solo Echo (foto: Sharen Bradford); in questa pagina, Cenerentola.

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