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lirica Trovatore, Onegin e Parsifal, dal mito all’utopia umanizzata
Trovatore, Onegin e Parsifal dal mito all’utopia umanizzata
IL TROVATORE, di Giuseppe Verdi. Regia di Alvis Hermanis, con la collaborazione di Gudrun Hartmann. Scene di Alvis Hermanis e Uta Grüber-Ballehr. Costumi di Eva Dessecker. Luci di Gleb Filshtinsky. Orchestra e Coro del Teatro alla Scala di Milano, direttore musicale Nicola Luisotti, maestro del coro Bruno Casoni. Con Francesco Meli, Liudmyla Monastyrska, Violeta Urmana, Massimo Cavalletti, Riccardo Fassi, Hun Kim. Prod. Salzburger Festspiele, SALISBURGO - Teatro alla Scala, MILANO.
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Una notte al museo. Turisti per caso si aggirano in una pinacoteca, seguendo le descrizioni delle guide, rapiti dallo scorrere di pareti mobili su cui campeggiano capolavori custoditi a Brera, agli Uffizi, al Kunsthistorisches Museum di Vienna. La visione delle opere provoca le reazioni della sindrome di Stendhal, catastrofi sentimentali che precipitano i visitatori del museo - e con loro gli spettatori odierni - tra le pieghe di un dramma corrusco. Regista iconoclasta ma non troppo, Hermanis ri-visita un cult come Il trovatore di Verdi ambientandolo tra le sale di una pinacoteca dalle pareti rosso pompeiano, dello stesso colore del fuoco, che costituisce l’ossessione di Azucena e lo sfondo della tragedia. La trasposizione dalla Spagna tardo-rinascimentale alla contemporaneità di una galleria immaginaria viene costruita sapientemente, per almeno un paio di ragioni. La prima è l’importanza del racconto nella drammaturgia dell’opera: sono almeno tre quelli che introducono e chiariscono il senso, talora oscuro, degli antefatti, in cui la dimensione del ricordo e il peso del passato giocano un ruolo determinante. La seconda, capitale, riguarda la selezione delle tele, che illustrano e spesso illuminano figure e temi del dramma: Manrico assomiglia al Suonatore di liuto di Busi Cariani o al Ritratto di Agnolo Doni di Raffaello, mentre Leonora ha i tratti dell’Eleonora di Toledo di Bronzino; ma sono soprattutto le maternità di Primaticcio, di Botticelli e di Solari a fare da contrappunto a quella - invero controversa - della gitana, mentre il rapporto tra Gesù e il piccolo Giovanni contrappunta quello tra Manrico e il Conte di Luna. Come nel Viaggio a Reims di Michieletto (2015), la visita al museo non è mero percorso illustrativo, bensì racconto per immagini di icone di quel tempo, rappresentate al nostro: in un gioco di specchi vertiginoso e accattivante, che però diventa ridondante quando si aggiungono i video di Ineta Sipunova, in cui altre immagini si sovrappongono alla ricchissima galleria scenografica. Come lo spettacolo, anche l’esposizione temporanea alla fine chiude i battenti: il sipario cala mentre vengono rimossi gli ultimi quadri, quasi a voler suggerire il carattere effimero dell’arte ma, al tempo stesso, l’insondabile profondità delle sue risonanze emotive. Giuseppe Montemagno EVGENIJ ONEGIN, di Pëtr Il’ič Čajkovskij. Regia di Robert Carsen. Scene e costumi di Michael Levin. Luci di Jean Kalman. Coreografia di Serge Bennathan. Orchestra, coro e corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Roma, direzione musicale di James Conlon, maestro del coro Roberto Gabbiani. Con Markus Werba, Maria Bayankina, Saimir Pirgu, Yulia Matochkina, John Relyea, Andrea Giovannini, Irina Dragoti, Anna Viktorova, Andrii Ganchuk, Arturo Espinosa. Prod. Canadian Opera Company, TORONTO - Metropolitan Opera, NEW YORK. Come le foglie. Vibrante enciclopedia della vita russa, Evgenij Onegin racconta di anime sbattute dal vento, travolte da un inguaribile mal de vivre, capaci solo di consegnare alla dimensione letteraria della corrispondenza l’impossibile ricerca della felicità, che si stempera nella noia dell’abitudine. Vicino al romanzo in versi di Puškin più che alle scene liriche di Čajkovskij, Carsen, in questa messinscena ospitata al Teatro dell’Opera di Roma, precipita l’azione in una camera vuota, concessa allo sguardo dello spettatore attraverso il filtro di un sipario di tulle, che sfuma i contorni del ricordo. Padrone dello spazio scenico con inarrivabile dominio di magistrali trapassi di luce, il regista canadese rilegge la vicenda dal punto di vista di Onegin, la cui sconfitta è anticipata nel preludio iniziale: inchiodato su una poltrona, strappa la lettera che Tat’jana gli ha appena restituito, sdegnata per un interessamento tardivo e inopportuno. Poi è di scena la Russia: con una foresta di betulle immersa in un dorato meriggio autunnale, tra vorticose danze contadine e austere benedizioni religiose, il calore del samovar e il profumo di pan di zenzero. Sul piancito un tappeto di foglie, che incessantemente cadono dagli alberi, poi invadono la mansarda di Tat’jana nel-
la notte in cui schiude il suo cuore a Onegin, infine delimitano un cerchio, autentico ring di un incontro tra i due destinato all’incomprensione. La sontuosità dei ricercati costumi, la cura viscontiana dei dettagli e l’impetuosa eleganza del gioco scenico s’impongono su un palcoscenico che progressivamente si svuota, diventa mero spazio mentale, sfondo su cui si staglia la rovinosa solitudine di nere silhouettes: dal blu indaco della scena del duello al grigio plumbeo del gattopardesco ricevimento pietroburghese, fino al candore lattiginoso del tormentato finale. Soggiogante è la transizione tra gli ultimi due atti, in cui Carsen sacrifica il decorativismo della polonaise per mettere in scena la vestizione di Onegin, che ha appena ucciso il suo miglior amico e si appresta a fare il suo ingresso nell’alta società: il personaggio s’irrigidisce, si spoglia del cinismo giovanile e assume i tratti di una gelida maturità, di un inverno segnato dall’incomunicabilità dei sentimenti, dall’inaridimento delle emozioni. Giuseppe Montemagno
PARSIFAL, di Richard Wagner. Regia di Graham Vick. Scene di Timothy O’Brien. Costumi di Mauro Tinti. Azioni mimiche di Ron Howell. Luci di Giuseppe Di Iorio. Orchestra e Coro del Teatro Massimo di Palermo, direttore musicale Omer Meir Wellber, maestro del coro Ciro Visco. Con Julian Hubbard, Catherine Hunold, Tómas Tómasson, John Relyea, Thomas Ghazeli, Alexei Tanovitski, Adrian Dwyer, Dmitry Grigoriev. Prod. Teatro Massimo, PALERMO - Teatro Comunale, BOLOGNA. In principio fu Palermo. È a contatto con la rigogliosa mediterraneità dell’isola, culla dell’ispirazione wagneriana, che Wagner suggella Parsifal, testamento spirituale composto a pochi metri dal sito dove, pochi anni più tardi, sarebbe stato edificato il Teatro Massimo. Proprio la grande sala del Basile, oggi, diventa per Graham Vick il tempio dove celebrare il «festival sacro in forma scenica»: per questo il velario è aperto, prima che cominci la musica, e mostra il palcoscenico in tutta la sua nuda, imponente grandiosità, chiuso da un arco scenico che, non a caso, ricorda le svettanti architetture della sala del Graal. La tela cala quando la sapiente bacchetta di Wellber attacca il preludio, dispiegando un dramma che ha smarrito toni eroici e preferisce evocare l’umanità dolente di chi ha perduto il senso della vita. Pochi tocchi (il chador nero di Kundry, le divise militari dei cavalieri) suggeriscono un Medio Oriente in guerra, dove lo scontro tra religioni pare voglia riannodare le fila con un dibattito inaugurato dal Lessing di Nathan il saggio, e che adesso s’interroga sul senso di appartenenza a una causa, quella del Santo Graal, difesa con le armi a prezzo di sofferenza, distruzione, morte. Al centro del palcoscenico, un albero dai rami rinsecchiti diventa simbolo di una parabola ecologica di stampo beckettiano, dove la sterile attesa di salvezza s’infrange contro simboli di debole impatto (un cigno ferito, l’icona di Maria Maddalena); ma poi ritrova respiro in immagini magniloquenti: con Amfortas mutato in un Ecce Homo dal costato ferito, carico di un manto scarlatto che si snoda lungo tutta la scena come una ferita purulenta; o con la celebrazione della Comunione, che non è solo condivisione del sangue cavato da una piaga ancora infetta, ma spaventoso giuramento di sangue tra le truppe, a immagine di ben altre malattie contagiose. Parsifal è l’uomo qualunque che decide di farsi carico della sofferenza universale, che arresta il processo di decomposizione di un tessuto sociale minacciato dal tempo, che proclama una religione inclusiva, improntata al dialogo con le più giovani generazioni. E allora è bello pensare che quel cavaliere, che Wagner voleva vestito con l’armatura e che Vick restituisce con una semplice tuta, possa essere ciascuno di noi: in un teatro che mette in scena il presente per immaginare un’utopia di speranza per il futuro. Giuseppe Montemagno
In apertura, una scena de Il trovatore, di Giuseppe Verdi, regia di Alvis Hermanis (foto: Marco Brescia & Rudy Amisano); nel box, un’immagine da La Bibbia riveduta e scorretta, degli Oblivion.
MUSICAL
Quando Dio mise piede in scena. La Bibbia irriverente degli Oblivion
LA BIBBIA RIVEDUTA E SCORRETTA, di Davide Calabrese, Lorenzo Scuda, Fabio Vagnarelli. Regia di Giorgio Gallione. Scene e costumi di Guido Fiorato. Luci di Aldo Mantovani. Musiche di Lorenzo Scuda. Coreografie di Francesca Folloni. Con Graziana Borciani, Davide Calabrese, Francesca Folloni, Lorenzo Scuda, Fabio Vagnarelli (gli Oblivion). Prod. Agidi srl, MILANO. Il grande passo era atteso dai molti fan e finalmente gli Oblivion li hanno accontentati. Il primo musical interamente concepito, scritto, musicato e interpretato da loro è finalmente arrivato in scena. Con la massima modestia si sono aureolati della sacra missione di portare sul palco nientedimeno che Dio in persona e il libro più letto del mondo. Scherzando non troppo coi fanti e i (non)santi han preso spunto dalla vera storia di Gutenberg che, nel 1455, inventa la stampa e cambia la storia del mondo e son finiti a destreggiarsi tra i paradossi di streghe sul rogo e di editori arrivisti. Non si sa se ammirarli di più per le loro doti di autori o di interpreti, di certo ci si convince che il quintetto è il gruppo italiano più autenticamente vicino ai Monty Phyton (da sempre un loro punto di riferimento con uno sguardo da fratelli minori) per il vetriolo con cui trattano la materia, e nello stesso tempo per il garbo e l’eleganza con cui attuano lo sfregio. Anarchici impertinenti ma sempre rispettosi, con un sempre più consolidato “Oblivion touch”. Del resto possono contare su una professionalità unica sulla scena musicale italiana, maturata tra studi serissimi delle partiture alte (Gershwin o Bernstein) e basse (Cocciante o i Queen) e insieme dei più differenti meccanismi della comicità (l’improvvisazione come la slapstick comedy). La drammaturgia con cui hanno costruito lo spettacolo prevede una successione di quadri storici e biblici, montati in un incastro surreale, tra i quali si inseriscono i più diversi numeri musicali che, con garbata ironia, si divertono a citare di frequente autori del musical classico piuttosto che i più recenti Beauty and the Beast o Les Miserables fino al rap di Hamilton, hit del momento. È in tali occasioni che i cinque ragazzacci sfoggiano il meglio dei loro virtuosismi canori, tutto un godibilissimo continuo di intrecci e armonizzazioni. Del resto cosa aspettarsi d’altro da chi è cresciuto a pane e musical? Che sappiano anche danzare? Sì, sono eccellenti anche in questo, credibili e apprezzabili nelle deliziose coreografie di Francesca Folloni, concepite espressamente sulle loro capacità coreutiche. Quando un giorno si scriverà una storia del musical originale made in Italy il loro spettacolo avrà un posto centrale. Sandro Avanzo