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drammaturgia Lucia Calamaro, una drammaturga post-drammatica? — di Roberto Canziani

Lucia Calamaro: «Post-drammatica? Sì, sto cercando di smettere»

È una drammaturga, è un genio, è post-drammatica. Lucia Calamaro sfugge a tutte le definizioni. La scrittura? È una parte del suo fare teatro, un modo per plasmare i personaggi di cui si circonda, come di una famiglia.

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di Roberto Canziani

L’origine del mondo

«Il problema è che Lucia Calamaro è un genio». Così scriveva Christian Raimo, con evidente sprezzo del pericolo, nel suo intervento dell’ottobre 2014 sul Il Post.it. Erano stati forti i consensi per L’origine del mondo, spettacolo del 2012, che vedeva in scena Federica Santoro (una figlia), Daria Deflorian (una madre), la Calamaro stessa (una nonna, poi Daniela Piperno) e che si era assicurato tre Premi Ubu. Due anni dopo, nel 2014, Diario del tempo aveva debuttato a Roma, al Teatro India. «Dodici repliche – annotava Raimo in quei giorni – con una media di spettatori bassa (certe sere anche soltanto trenta) che hanno collezionato poche critiche, peraltro medie, cattive e molto cattive». «Il problema è che Lucia Calamaro è un genio». È chiaro che il pericolo non lo ha corso Raimo, ma la Calamaro. Sentirsi dare del genio, è un po’ come sentirsi dare dell’imbecille. Scombussola l’immagine che abbiamo di noi, e ci fa compiere gesti inconsulti. Einstein, per esempio, tirava fuori la lingua. Come abbia reagito Lucia Calamaro – dichiarata genio sei anni e quattro spettacoli fa – non era ancora dato sapere. Adesso, dopo il Premio Hystrio 2019 alla Drammaturgia, basta chiederglielo. E lei risponde: «La prima cosa che uno fa è arrossire e dire “oddio oddio oddio: spero che non l’abbia letto nessuno“. La seconda è riaversi, dire grazie, augurarsi che la prossima cosa che fai non sia una boiata. Perché la boiata è sempre a portata di mano. Comunque, nella definizione di genio non mi ci installo affatto, nemmeno ci credo. Penso però che sia meglio che dicano così, piuttosto che dicano che sono scarsa». E pronuncia «scarsa» con quel tipico accento di Roma, che della esse fa una zeta. Porta in sé tre città, Lucia Calamaro, tre dimensioni. Roma, dove è nata. Montevideo in Uruguay, dove si è trasferita adolescente a seguito del padre diplomatico, e dove ha fatto esperienza del posto che il teatro occupa nel vivere sudamericano. Parigi, dove ha perfezionato la sua formazione, con nomi niente male, come Jacques Lecoq, mimo, Jean Duvignaud, sociologo, Jean-Marie Pradier, etnoscenologo, qualsiasi cosa ciò voglia dire. Poi nuovamente Roma, dove ha imboccato in sordina la strada della visibilità par-

tendo da piccoli teatri e centri sociali: Tumore. Uno spettacolo desolato (2004), quindi Magik: autobiografia della vergogna (2008), fino a L’origine del mondo. Che prima era un celebre quadro di Courbet e adesso è un importante capitolo della nostra drammaturgia recente.

Lasciamo stare il genio Calamaro. E parliamo invece di Calamaro drammaturga, autrice di teatro. Come si sente a indossare questa parola?

È una parola a cui sono abbastanza indifferente. Perché non sono solo quella cosa lì. Sono regista, a volte faccio le scene, spesso cerco i costumi, dirigo sempre gli attori. Dalla pre-produzione al prodotto finale. Capocomico. Capocomica più precisamente. Mi sembra un parola più giusta. È vero che, da fuori, mi definiscono drammaturga. Forse è la cosa che spicca di più. Ma è solo un parte. E la parte al posto del tutto non mi basta. Con fierezza potrei dire che sono la migliore attrice per i miei testi. Ma non mi basta. Capocomica allora: altrimenti, mi sarei annoiata. Il problema sta nel come uno vede se stesso, e come lo vedono gli altri.

Molto pirandelliano. Ma qualcuno deve pur scriverli, i testi.

Mettiamola così. Da un lato ci sono le cose che ho bisogno di dire: pensieri, monologhi. Sto dentro casa e mi metto a scrivere: perché ho capito qualcosa, o forse penso di aver capito qualcosa, o reagisco a qualcosa, o lotto, o soffro. Tutte cose un po’ doloranti. Questa è una prima parte. La seconda sono gli attori con cui lavoro, che magari sono più leggeri, o più drammatici, o più esteriori, oppure più tecnici, a volte anche più antipatici. In generale prediligo gli attori simpatici. Faccio fatica con quelli spigolosi. Mi piace che il clima in sala prove sia divertente, giocoso. Ecco: insieme riusciamo a trovare una chiave “comica”. Una parola strana, almeno per me, che da sola sono triste, ma con gli altri mi diverto. Quello che viene fuori, quindi, è qualcosa di bipolare. È la mia natura.

Hanno scritto che i dialoghi di Calamaro costringono gli attori a recitare “alla quotidiana”.

Ho fissa in testa, stampata a fuoco, una frase che Roberto Herlitzka aveva ricevuto dal suo maestro Orazio Costa: «Beato l’attore che io vedo pensare». La sensazione che vorrei dare è che l’attore stia proprio pensando, nel momento in cui dice le cose. Così come stiamo parlando, noi, adesso: io ti sento pensare, tu mi senti pensare. Non abbiamo un copione scritto. Non è il quotidiano, è l’immediatezza. guardarli, gli attori. A volte capita che dico «fermi», poi scrivo qualcosa, perché ho capito qualcosa. Gliela scrivo proprio lì. E poi dico: «Provate». Le scene, non è che ci ho pensato prima, che me le porto da casa, alcune sì, ma altre no. Altre sono epifanie da lavoro. E come sono i personaggi, non lo so proprio. Si capiscono capendo. Si capiscono facendo. Appaiono verso la fine. Non appaiono nemmeno alla prima (la prima di uno spettacolo è un luogo violento). Appaiono magari alla decima replica, dopo che hanno incontrato un certo numero di volte il pubblico.

Un po’ spiritistico, no?

Mi sento una persona estremamente privilegiata. I personaggi sono creature a cui voglio estremamente bene. Il mio analista dice che mi sono organizzata bene. Non ho una grande famiglia d’appartenenza, e per diverse vicende personali sono abbastanza orfana. Così mi sono organizzata un’ascendenza e una discendenza nella scrittura. I miei famigliari ideali, li ho messi tutti lì, nelle mie storie. Tanta roba.

Storie che si sfilacciano, trame che si stramano.

Che poi sono quelle che mi interessano di più, anche nella vita. Le mie trame non sono avvincenti. Non funzionano secondo lo schema che gli americani pensano sia necessario per scrivere una storia. Io voglio invece raccontare storie che mi piacerebbe stare a sentire. Ciò che metto sul palco è un’esplorazione di stati d’animo, più che una narrazione. E questi stati d’animo appartengono a qualcuno: una storia emotiva, vicende e avvicendamenti interiori. I fatti per me contano abbastanza poco, conta ciò che succede dentro.

Come la nostalgia, che sta nel titolo della penultima cosa scritta, Nostalgia di Dio?

Nostalgia. L’ho presa e l’ho fatta mia questa parola, forse in maniera nemmeno tanto originale. È un tema antichissimo, risale fino ai greci, il tema del Nostos, da cui la parola nostalgia. Ma la mia non è la nostalgia eroica della grande letteratura, è un ritorno a casa piccolo, intimo. Vorrei poter tornare a casa, la mia casa, la casa dell’infanzia. Ma quella casa e quelle persone non ci sono più. Per questo scrivo, per questo faccio teatro.

Ultima domanda: sente di appartenere al mondo teatrale post-drammatico?

C’è stato un momento in cui ho fortemente voluto appartenere a qualcosa, ma parliamo di dieci, quindici anni fa, al tempo di Tumore. Non lo so se oggi sono post-drammatica o non lo sono. Va bene lo stesso. Non ci penso. Diciamo che lo sono meno di prima. Che sto cercando di smettere. ★

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