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Da Andrea Camilleri a Mattia Torre antidivi e divine escono di scena
Una lunga lista di addii ha raggelato la nostra estate, costringendoci a salutare molti personaggi che hanno segnato, in modo assai diverso, parte della storia dello spettacolo del Novecento e dei primi anni del nuovo secolo.
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di Giuseppe Liotta, Fabrizio Sebastian Caleffi e Arianna Lomolino
Il teatrante di Porto Empedocle
Con la scomparsa di Andrea Camilleri (1925) se ne è andato un visionario di quel palcoscenico immateriale, nutrito dei fantasmi di una fervida e, a suo modo cinica, immaginazione. «Da quando non vedo più, vedo meglio», disse Camilleri/Tiresia nell’ultima sua recita al Teatro Greco di Siracusa. E la frase sembrava subito andare oltre il suo significato letterale per ribadire la prevalenza dello sguardo interiore su quello fisico. Una condizione mentale e spirituale che, unita a un’immensa curiosità, hanno fatto dell’autore siciliano uno dei più prolifici scrittori della sua generazione. Regista radiofonico, teatrale, televisivo ha all’attivo una serie di adattamenti di suoi racconti per il teatro: Il birraio di Preston, Tropputraffi cu, poi nenti, La cattura, Cannibardo e la Sicilia, La concessione del telefono, Il casellante, ma soprattutto Festa di famiglia, un mélange di temi e figure pirandelliane messe in relazione fra di loro attraverso il “metodo Camilleri”: un intreccio spasmodico e accattivante di eventi che si affermano in scena con semplicità. La teatralità, per Camilleri viene prima del teatro. Shakespeare, Pirandello, il Teatro dei Pupi, le Maschere della Commedia dell’Arte sono i suoi irrinunciabili miti personali che, insieme ad alcune metafore ossessive, ritroviamo nei suoi scritti di teatro e nella lingua che usa: quella parlata, dialettale, inventata come un Aristofane dei nostri giorni. Senza questa vampa di teatro invisibile non ci sarebbe il successo popolare dello “scrittore” Camilleri, dove l’oralità prende il sopravvento sulla scrittura. È, infatti, alla sua originaria e confessata passione per l’artigianato teatrale che Camilleri deve la ragione principale di una vita professionale intensa, pienamente vissuta fino alla fine. Giuseppe Liotta
La divina Valentina
Mi piace ricordarla percorrere la Gita al Faro di Portofino come un suo personale Sunset Boulevard. Indimenticabile, a parer mio, apparve la Diva Valentina Cortese (1923) come ben calzata Eleonora Torlato-Favrini, sorella di Rossano Brazzi, nel più bello dei brutti film della storia del cinema, The Barefoot Contessa di Mankievicz (1954). Ovvio che ogni cinefilo sceglierà come suo topos filmico la sequenza della Cortese/Séverine che cerca la porta-armadio in La Nuit americaine di Truffaut. Due top directors l’hanno accompagnata anche sentimentalmente: Strehler e Victor de Sabata. I teatrofili sempre assoceranno la figura della Cortese all’iconico Giorgio, eponimo di regia, con cui fu in Platonov e gli altri (1958), El nost Milan (’59), nel mitico Arlecchino (’63), I Giganti della montagna (’66), Santa Giovanna dei macelli (’70), ma fu diretta anche da Squarzina e Chéreau. Tante volte alla ribalta, la Cortese sempre sarà ricordata nel Giardino dei ciliegi al Piccolo di via Rovello. Fabrizio Sebastian Caleffi
Grazie, preferisco il comico!
Televisione, molti film in ruoli secondari, qualcuno da protagonista, dieci anni di autoesilio a Santo Domingo e poi il ritorno in Italia col programma radiofonico Varietà Varietà, di Raffaele Pisu (1925) ci rimane la nostalgia, forse il rimpianto dell’attore che avrebbe potuto essere e non è stato per quegli accidenti della vita che ti portano dove non vorresti. Bolognese di nascita è nel 1948 fra i fondatori, insieme a Sandro Bolchi, Massimo Dursi ed Enzo Biagi, del teatro La Soffitta. Per due anni (1947-’49) lo troviamo in tournée con Memo Benassi, e subito dopo la scelta di dedicarsi quasi esclusivamente al teatro comico musicale, radiofonico e televisivo, con quella vena di comicità surreale e assurda di cui è stato l’interprete più intelligente e raffi nato della sua generazione. Giuseppe Liotta
L’illuminista impertinente
Una sobria, elegante, arguta impertinenza ha contraddistinto la vita professionale di Ugo Gregoretti (1930) intellettuale-contro prestato alla scena, al piccolo e grande schermo, che ha attraversato con quell’inconfondibile spirito beffardo e tagliente esibito come un marchio di fabbrica. Un’intelligenza algida da illuminista riusciva ad andare a braccetto con la ferocia e la passione delle sue provocazioni, capaci di scoprire i problemi di una società, quella degli anni Cinquanta e Sessanta, in spericolato e convulso mutamento. Straordinarie e inimitabili le sue inchieste televisive. Per il cinema ha girato film interessanti come Le belle famiglie, volutamente anacronistico al suo tempo, mentre il teatro fu il terreno in
cui meglio ha esercitato la sua vena satirica, sempre non omologata: come quando, giunto alla direzione del Teatro Stabile di Torino (1985-’89), mise in scena I figli di Iorio, la versione popolare e dissacrante della tragedia di D’Annunzio. Nessuno è stato come lui, difficilmente altri ne verranno. Giuseppe Liotta
Quei due sull’altalena
Da bravo autore, Luigi Lunari (1934) si è scritto anche il finale, il sipario, i ringraziamenti. Nel mondo del teatro entrò nel 1960, ufficio studi del Piccolo milanese collezionando riviste teatrali da tutto il mondo, e, come dramaturg, traducendo Brecht, Shakespeare, Cechov nella lingua di Strehler. Divenne noto con il fortunato copione Tre sull’altalena, ma prima ancora con Tarantella con un piede solo (regia di Camilleri, sic!, 1961), interrotto dalla polizia per oltraggio al pudore. Tanti altri ne scrisse Gigi e tradotti. Quello che gli costò il sodalizio con Strehler fu Il Maestro e gli altri, satira anti-piccolostrelherista, non anti-strehleriana, poi Gigi ha voluto vivere il quarto atto della sua esistenza appartato, ma sempre attivo sui social. Postando in prima persona (dalla famiglia, per sua espressa volontà) l’annuncio della sua serena dipartita. Per un paio di giorni ho sperato fosse una fake new. E forse lo è. Forse Gigi si è riconciliato con Giorgio e i due si dondolano sull’altalena della gloria sempiterna. Fabrizio Sebastian Caleffi
Ilaria, ovvero eleganza e talento
Ci sono attrici bravissime, che non mostrano il loro mestiere per intelligenza, discrezione, per quel quid di eleganza e signorilità che si portano dietro da quando sono nate, insieme alla loro speciale bellezza: Ilaria Occhini era una di queste. Nipote di Giovanni Papini, compagna di Raffaele La Capria, il padre critico e collezionista d’arte, Ilaria (1934) frequenta l’Accademia Nazionale “Silvio d’Amico” insieme a Gassmann, Ronconi, Volonté. Comincia a lavorare con Visconti (L’impresario delle Smirne, Uno sguardo dal ponte), poi Ronconi (Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Alcesti di Samuele), Massimo Castri (John Gabriel Borkman, Spettri), Missiroli (Il pellicano), Squarzina (Misura per misura), Patroni-Griffi (Tradimenti), una carriera teatrale lunga e intensa in cui ha affrontato personaggi “classici” e contemporanei con la medesima attenzione e sensibilità. Famosa, già a metà degli anni Cinquanta, grazie ai primissimi sceneggiati televisivi, arriva prestissimo al cinema, spesso in ruoli non-protagonisti (Terza liceo, Il mantenuto, I complessi, Un uomo a metà) ma sempre significativi, come la Nonna in Mine vaganti di Ferzan Ozpetek per il quale riceve il Premio “Alida Valli” nel 2011. Giuseppe Liotta
Il Leo Messi dei caratteristi
Carlo Delle Piane (1936), romano di Campo de’ Fiori, a dieci anni, in una partitella di piazza, intercettò una pallonata che gli cam-
biò i connotati e fu la sua fortuna. Con quella faccia un po’ così, l’attore-creatura ha interpretato, da Cuore (1948) in avanti, oltre 100 film con registi come De Sica, Monicelli, Zampa, De Filippo, Avati. A teatro recitò poco: Rugantino (1962) – e dici poco! – e Io, Anna e Napoli (2010). A Milano il Leo Messi dei caratteristi lo avevamo visto salire sul palco del Manzoni e tirare uno dei suoi ultimi “cuori di rigore” imparabili. Ora il breriano dio Eupalla gli ha mostrato il cartellino rosso. E Carletto esce con una standing ovation. Fabrizio Sebastian Caleffi
Mattia, l’umorista dissacrante
Scomparso a soli 47 anni, Mattia Torre era autore, sceneggiatore e regista. Conosciuto dal grande pubblico per l’umorismo dissacrante della serie Boris e per il libro, poi diventato serie, La linea verticale, dove aveva deciso di raccontare la sua malattia, Torre aveva esordito nell’ambiente teatrale romano negli anni Novanta. Tra i suoi monologhi, arguti racconti sulle paranoie contemporanee, Colpa di un altro affidato a Valerio Mastandrea e gli “atti comici”, pubblicati nel 2012 e aggiornati nel 2019, da cui il recente Perfetta portato in scena da Geppi Cucciari. Arianna Lomolino