Anche la morte ascolta il jazz di Valeria Biuso

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Forsythia narrativa


Intermediazione e rappresentanza Agenzia Letteraria Psocoidea Editing Illustrazione in copertina: Luca Verduchi Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistiti è puramente casuale. ©

2017 Ianieri Edizioni Via L. Da Vinci, 16 - 65124 Pescara Tel. 085.2192404 www.ianieriedizioni.it - info@ianieriedizioni.it

Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore. ISBN: 978-88-94890-16-7


Valeria Biuso

Anche la morte ascolta il jazz

Ianieri Edizioni narrativa



Farfugli. Cerchi ancora dei trucchi e delle scuse per restare là con loro, gli amici, ma la morte è lì anche lei, fetente, al tuo fianco, tutto il tempo adesso e meno misteriosa d’un mazzo di carte. Viaggio al termine della notte Louis-Ferdinand Céline



I Una nota vibrante, che sfumò con leggero ritardo oltre la terza battuta. Una seconda più acuta, partorita dallo stesso respiro. Il ritmo sincopato, le armonie imprevedibili… Quella sera al Minton’s la tromba di Gillespie era l’indiscussa protagonista. Guardavo quelle dita piccole e rapide che pressavano i pistoni, la luce riflessa sulla campana opaca. E poi le guance gonfie dell’esecutore, che teneva le palpebre serrate per permettere a noi spettatori di sognare a occhi aperti. Solo ogni tanto, e senza alcun preavviso, Dizzy evadeva dal rapimento estatico a cui sembrava vincolato e posava lo sguardo su qualcuno a caso, quasi volesse invitarlo a far parte dei suoi accordi e della sua gioiosa tristezza. La sala fremeva, alcuni ragazzi erano scattati in piedi, come molle, incapaci di trattenere una carica simile. Applaudivano, urlavano, agitavano le braccia e tendevano le mani, come ad afferrare le invisibili note che svolazzavano sulle nostre teste. Ai composti non sarebbero giunte le frequenze migliori, quei suoni destrutturati, sottili e pervasivi che scuotevano l’anima, meglio di un bicchiere di laudano e assenzio. Lì in mezzo, Gillespie pareva l’unico immune al suo stesso sortilegio. Era dentro la musica e al tempo stesso fuori da sé, parte integrante di quei giri armonici, un’emanazione della sua tromba. Ciondolava lentamente e gemeva attraverso lo strumento. Impossibile credere che fosse un uomo fatto di carne e nervi come lo ero io. Suonava da ore, la fronte era bagnata, gli occhiali incollati al naso. Era stremato, ma al pubblico non importava. E neanche a lui. La fatica non avrebbe potuto fermarlo, il suo fiato aveva la potenza di un uragano. 9


Ero al mio quarto giro di whiskey, imbambolato sulla sedia come un moccioso di campagna che vede la città per la prima volta. Avevo già partecipato a qualcuna delle sue jam, eppure quella sera c’era qualcosa di speciale nell’aria. Una frase fatta, lo so bene… Intravidi Cole in lontananza che si faceva spazio tra la gente con una sigaretta ammaccata tra le dita. Sgomitava e annaspava, bofonchiando ad alta voce. La mia pace divina era appena stata interrotta. Avrei dovuto far finta di niente, alzarmi con la nonchalance del miope e allontanarmi, per evitare le sue chiacchiere. Le ginocchia, però, si erano arrese al terzo bicchiere e non mi andava di rinunciare al posto che mi ero guadagnato di fronte al contrabbasso di Ray Brown. «Willy, hai da accendere? Dimmi di sì, ti prego!» m’implorò Cole con gli occhi stralunati. Ansimava, come un vecchio cane, e gli tremavano le mani, come un vecchio e basta. Gli porsi l’accendino e lui trasse un respiro di sollievo. «Incredibile!» strillò guardandosi attorno. «Sei la prima persona che si degna di darmi un cazzo di accendino. Non avranno mica paura che glielo rubi! Gentaglia! Questi qui sono tutti paranoici e appena vedono un bianco si mettono a fare gli stronzi!» Feci spallucce e scossi appena il capo, con indignata lentezza, cercando di assecondare i suoi vaneggiamenti. «È tostato!» esclamò d’improvviso. «Cosa?» «Andiamo, amico!» mi diede una pacca sulla nuca. «Non conosci lo slogan delle migliori sigarette in circolazione?» Iniziò a scuotermi davanti alla faccia un pacchetto di Lucky Strike come fosse uno shaker zeppo di Martini. Doveva aver bevuto più di me. «No» risposi esitante. «Quello mi manca». 10


«Ah-ah!» mi afferrò al polso e mi tirò il braccio per analizzare la cicca che stringevo tra indice e medio. «Perché ti ostini a fumare questa robaccia francese?» «Eh?» «Che razza di americano sei?» sbuffò con disappunto. «Uno con un discreto senso patriottico» commentai seccamente, svincolandomi dalla presa. «Sarà… Secondo me manchi di buongusto, amico mio. E non pensi abbastanza alla ripresa dell’economia… Dobbiamo contribuire tutti, anche con acquisti mirati». «Hai ragione». «Mi prendi in giro? Non capisco mai quando scherzi o fai sul serio» si lamentò arricciando il naso. «A proposito, come vanno le cose tra te e Dahlia? Novità?» Feci finta di non aver afferrato, indicando due volte il palco e battendomi l’indice usato per la precedente segnalazione sull’orecchio. «Dahlia! Come va? Novità?» mi chiese ancora, piegandosi su di me, con tutti i muscoli facciali tesi ad abbozzare un sorriso da fauno. «Bene». Scattò con un balzo all’indietro come fosse stato punto da una vespa. «Bene? Tutto qui? Non hai nient’altro da raccontarmi, Mammolo?» «No». «Su, Willy, dai!» mi mollò un’altra delle sue manate incoraggianti. «Mi hanno detto che avete fatto pace. Dammi qualche dettaglio!» «Non ti do un bel niente… Ascolta la musica». «E che cazzo, è un’impresa tirarti fuori due parole!» continuò a sbuffare. Non c’era molto da dire su me e Dahlia o, almeno, nulla che Cole non conoscesse già. Forse bastava chiamare in causa la vecchia scusa dell’istinto masochista comune a 11


tanti individui della mia generazione, oppure ammettere che dovevamo soprattutto alle sue belle gambe se, tra alti e bassi, la nostra relazione fosse ancora viva. Prima di diventare la mia ragazza, era stata un’intima amica – o con meno diplomazia, una compagna di letto – di mio fratello Phil. Erano andati avanti per un po’ di mesi con un tira e molla continuo, bottiglia dopo bottiglia, scenata dopo scenata. Frequentavo il college quando le parlai per la prima volta. All’epoca Phil organizzava delle serate al sapore di benzedrina, etere e whiskey in quel buco d’appartamento in cui viveva. Un delirio fatto e finito, dove tutti si impegnavano a stravolgere o dimenticare la loro identità e quella degli altri invitati. Fu durante uno di quei febbricitanti party, consacrati alla perdizione e alla tracotante demenza, che iniziai a guardarla in maniera diversa, vale a dire con più coscienza e interesse: era bella, con la sua vita sottile, i capelli rossi come una poesia di refusi, i seni piccoli ma graziosi e quegli occhi, i suoi occhi felini! Non mi ero mai reso conto fino ad allora di quanto potesse essere sensuale. Era sobria e soavemente annoiata, mi aveva detto che non le interessavano le droghe, che non voleva fuggire dalla vita… Eppure erano cazzate, che in quel preciso frangente stimai oltre il dovuto valore drammatico del caso, e lei aveva capito che me n’ero accorto. Poi, era arrivata la decisione di mio fratello di mettere la testa a posto. Niente più festini, sesso occasionale o stupefacenti: stava per sposarsi, la futura moglie era già incinta, e voleva chiudere con il passato. Anche lui mentiva come aveva fatto Dahlia, ma con minore slancio retorico. Lei era venuta a sapere del matrimonio per via indiretta, grazie a un tale, amico di Phil, che si era vantato di essere stato scelto come testimone. Si era arrabbiata e non poco. Sbronza, dopo aver riempito mio fratello di schiaffi, aveva passato la serata a 12


fare la gallina con tutti, compreso me. L’unico allocco a cedere alle sue tentazioni e alle sue cosce. Era avvenuto tutto meccanicamente, come suppongo accadano le cose che devono accadere. La domenica successiva ci incontrammo da soli in un caffè arredato à la francese e sentii che non potevo più fare a meno di lei. Mi ero convinto di essermene innamorato. Perché ero sprofondato in quei pensieri così avvilenti? Colpa di Cole e delle sue ciance. O forse erano le frasi blues del pianoforte, su cui Dizzy stava improvvisando note d’amore e gelosia, a rendermi così nostalgico. «Ok, Mammolo. Non hai voglia di parlare» sospirò Coke. «Ci sarai più tardi?» «Dove?» chiesi. «Dahlia ha invitato tutti da lei. Ha casa libera e ha deciso di leggere un paio di poesie insieme ai suoi amici zen» tacque. «Non te l’ha detto?» «Certo, certo» annuii. «Ci sarò». «D’accordo, allora» chiosò con una punta di reticenza. «Vieni adesso o aspetti che finisca la jam?» «Aspetto un altro poco qui. Magari riesco a sentire qualche nota come si deve». «Oh, bello! Non fare lo stronzo… Puoi ascoltare la musica perfettamente anche se parliamo» gridò. «Ma che t’inventi?» «È così, cazzo. Ti sei mai chiesto perché è dal tempo dei Greci che si usano le trombe in guerra? Perché è una merda di strumento nato apposta per spiccare nel casino. Me lo ha spiegato un fisico o qualcosa del genere… La tromba produce dei segnali speciali che possono essere riconosciuti e ascoltati anche sopra un assordante rumore di fondo. Sono frequenze che non puoi ignorare, caro mio». «Ho capito» lo assicurai. «Vabbè. Ci si becca dopo». 13


Mi tirò l’ennesima pacca sulla spalla e iniziò il suo solito volteggio tra i tavoli alla ricerca di altre ciance. Cole Bigelow, detto Coke, era una sorta di cavaliere errante, fedele al signore dello sproloquio. L’amico di tutti, mai a corto di argomenti, pettegolezzi e battute. Non ero nemmeno certo che chiamarlo amico fosse un’espressione adeguata. Di sicuro, non esisteva festa senza di lui e senza il suo imbastire conversazioni prive di un effettivo scopo, ma questa sua inclinazione alla chiacchiera in libertà chiariva anche le ragioni del nostro casuale rapporto. Era un ometto basso sui trent’anni, panciuto e con troppa brillantina tra i capelli. Gli occhietti, dietro gli spessi occhiali dalla montatura nera, avevano il colore della melma: verde-marrone. Indossava sempre una camicia su tonalità accese, con dei colletti assurdi. Dubitavo ce ne fosse stata una bianca nel suo armadio. Lavorava per qualche azienda, tuttavia ignoravo quale fosse di preciso il suo compito. Probabilmente qualcosa a che fare con le chiacchiere… Conosceva questo e quello, e quasi tutti al Minton’s Playhouse conoscevano lui. Aveva un’opinione su ogni questione, un commento su tutti, ma di base non capiva un cazzo. Spesso mi chiedevo in quanti fossero realmente interessati a ciò che aveva da dire. Riuscii a godermi altri due brani. Un pezzo dal ritmo vagamente caraibico, con due lunghi assoli di Dizzy, e un’arietta da vaudeville, corrotta da suoni aspri e vorticosi fraseggi bop. Poi ripensai alle parole di Cole e una nitida sensazione di disagio mi guastò l’umore. Che diavolo stava combinando Dahlia? Con chi era? Non attesi la fine della jam session. Mi lanciai fuori dal locale e mi misi a correre come uno scemo, sconvolto da un’ansia soffocante quanto l’aria polverosa della città. Fui costretto a fermarmi all’incrocio tra la Centodiciottesima strada ovest e la Saint Nicholas Avenue: sentii un dolore 14


al petto e il fiato venire meno tutto in una volta. Doveva essere uno di quegli attacchi di angoscia che ogni tanto mi sorprendevano pugnalandomi al torace. Uno scocciatore mi si piazzò di fronte bloccandomi il passaggio. Un tizio enorme, col vestito scuro... Uno e novanta d’altezza, sulla cinquantina di età, all’incirca. E di bell’aspetto. Rimasi imbambolato a guardargli gli occhi: aveva iridi tanto pallide che era quasi impossibile distinguerle dalla sclera. Anche il suo vestito mi suggeriva istintivo disagio. Portava uno di quegli abiti azzimati di manifattura italiana di cui non osai immaginare il prezzo. «Caro William, come stai? Tutto bene? Avrai senz’altro memoria di me, voglio sperare!» esordì con un sorriso contenuto, tendendomi la mano foderata da un guanto in pelle nera. Esitai, incerto se svelare o meno la debolezza della mia funzione mnemonica. Magari era un picchiatore venuto a riscuotere un vecchio debito. «Mi dispiace, ma non ricordo». L’uomo accennò un sospiro lievemente amareggiato, ma non smise di sorridere. «Eppure, dovresti. Mi chiamo Noah Tats, ci siamo incontrati al funerale di tuo padre. Una mattinata fredda, rammento, e assai ventosa: allo zio Donald volò via quell’orrendo cappello di feltro con cui s’illude ancora di celare la stempiatura. Si mise a correre tra le lapidi per cercare di recuperarlo! Tua zia era così imbarazzata...» Quelle informazioni tanto precise bastarono a convincermi che non si trattasse di uno sconosciuto o di un pericolo. Eccolo là: l’ennesimo volto che sfila anonimo durante un giorno di lutto. «Devi scusarmi. Mi dispiace davvero» ripetei. «Quel giorno avevo la testa altrove». «Capisco. So bene quanto tu ne abbia sofferto, nono15


stante i vostri dissapori. Fa parte del copione imposto dagli istinti. Capita spesso che sorgano incomprensioni di questo tipo tra padre e figlio. Il vostro, dopotutto, era un legame autentico…» Autentico fino a un certo punto. L’aggettivo più adatto a descrivere il rapporto che mi legava al mio vecchio era un altro: ambiguo. La nostra era stata una relazione di rispetto e disprezzo, di disillusioni e speranze, una menzogna intessuta di verità: un odi et amo senza sublimazione poetica catulliana. «Come fai a saperlo?» domandai perplesso. «Siamo parenti?» Lui iniziò a ridere. In maniera assai divertita, a momenti beffarda. «Parenti, sì! In qualche modo, per qualche via, tra le radici genealogiche di una grande famiglia, il nostro legame di parentela esiste». «Nel senso?» provai a investigare. Poi mi venne di nuovo in mente Dahlia, con la festa, le poesie e tutto il resto. Dovevo sbarazzarmi al più presto dell’insolito interlocutore. Dicono che New York sia la città dell’indifferenza e del distacco. Tutte stronzate: dovunque ti giri è pieno di perdigiorno, scocciatori o scoppiati che non vedono l’ora di importunarti con malvagia invadenza nei momenti più impensati. «Comunque, è un vero piacere averti rivisto, Noah» balbettai. «Ora purtroppo devo scappare. Non ho proprio tempo…» Sogghignò un’altra volta. Lo divertivo parecchio o forse era vittima di una paresi facciale. Ma la sua risata era differente dal fastidioso ansimare di Cole. Il riso di Noah assomigliava più a una curva stereotipata e simbolica scolpita sul volto di una statua, a un attributo granitico. Provai a immaginare come dovesse apparire la sua faccia senza quel sorriso, e non ci riuscii. Sembrava che ce 16


l’avesse da sempre stampato sotto il naso, come una nota che riecheggia in eterno. «Ti capisco. Nessuno ha tempo, caro William. Sei ancora un aspirante scrittore?» mi chiese. «Sì, più o meno. Ci provo, ma al momento ho dovuto accantonare la scrittura creativa per dedicarmi al lavoro: scrivo recensioni sul Partisan Review, un periodico culturale». Un leggero disappunto trapelò dal suo sguardo. «Ah, il giornale filo-bolscevico? E hai smesso di scrivere per quello?» «No, non siamo filo-bolscevichi» replicai imbarazzato. Mi stupiva conoscesse la mia rivista e, ancora di più, che fosse informato sulla linea politica dell’editore… «Male, William, male. Non dovevi. Non bisogna trascurare la propria penna, è spesso lesta ad abbandonare la fantasia di una mano creatrice!» «Beh, io scrivo a macchina». «Peggio! Le macchine da scrivere hanno un’anima, sai? Percepiscono il cambiamento. Non puoi mica abbandonare il tuo ardore letterario in un angolo, mentre ti dedichi ad attività mercenarie e prosaiche. Basta pochissimo e quelle bestiacce in ottone ti si rivoltano contro, stanne sicuro! Dovresti riprendere, prima che sia troppo tardi». «Cosa?» «A scrivere il tuo romanzo. Ne parlavi con i tuoi cugini durante il funerale. Sembrava una buona idea». «Cercherò di tenere presente il tuo consiglio, non vorrei mai che la mia Underwood si animasse di spiriti rivoluzionari» risposi titubante, confuso dal suo aspetto così formale. «Toglimi una curiosità. Come fai a resistere con quei guanti? Fa un caldo assurdo stanotte…» «Sono isolanti termici e strumenti del mestiere a cui non posso rinunciare. Ci sono microbi dappertutto, caro William, bisogna difendersi in qualche modo. Abbiamo 17


paura dei nemici più grandi e rumorosi, quando dovremmo preoccuparci solo di quelli piccoli e silenziosi». Mi ci voleva una scusa buona per allontanarmi. Giocai la carta del lavoro. «Sono d’accordo. Adesso però devo proprio andare, ho un articolo da consegnare entro domattina e sono ancora in alto mare». Non era un’ottima scusa, anche perché si trattava della verità, e da che mondo è mondo non vi è niente di meno credibile e giustificante della realtà. «Non preoccuparti, ti lascio andare» disse lui, dopo aver annuito silenziosamente. «È stato proprio un piacere. Spero che ci rivedremo presto: negli ultimi tempi passo di frequente per queste zone». «Certo. Ti terrò aggiornato sul romanzo». Salutai Noah, rimuginando su quanto fosse strano. Uno di quei tipi per cui non suona forzato tirare in ballo il concetto di stravaganza, anche se non hanno ancora offerto alcuna manifestazione pratica di capriccio o stramberia. Di certo non era uno svitato qualunque, come quelli che congestionavano le strade della città e i posti che bazzicavo. Era una sorta di miraggio statico, con il suo ghigno freddo e sereno e quegli occhi glaciali. Forse l’indomani, senza tutto quell’alcol in circolo, se fossi riuscito a ricordarmene, avrei potuto interpretarlo con maggiore giustizia e trasformarlo in un personaggio del mio romanzo. M’incamminai verso la casa di Dahlia, mentre Noah svoltava l’angolo con la Centodiciottesima e spariva nel nulla. Era una di quelle notti livide e bellissime, in cui la luce artificiale tenta senza alcuna convinzione di correggere il buio divino e ogni strada sembra assumere un colore particolare, un odore e un sapore diverso. L’aria si carica di una quiete passeggera, interrotta a tratti dal rumo18


re ingolfato di qualche auto, dalle urla di un gruppo di ragazzi in fondo alla via o dagli sproloqui di un avvinazzato. Un tempo, notti del genere mi rendevano sentimentale. Iniziavo a muovermi più adagio e a guardarmi intorno con occhi carichi di speranza, per riconciliarmi con tutti quei dettagli che avevo dato per scontati o avevo ignorato. Ma erano mesi che non riuscivo più a provare una simile emozione. Dovevo dare un titolo a quella sensazione, per ricordarmene. La chiamai piacevole ombrosìa e l’archiviai tra le suggestioni che non volevo perdere. Provai a concentrarmi sulle impressioni più dirette, per capire se ero ancora in grado di creare, ovvero far apparire, un senso da ciò che vedevo e vivevo. Sentivo che quei riferimenti avrebbero potuto tenermi a galla. Finii per fissarmi su un segmento di strada, sotto un lampione mezzo fulminato. Un punto come un altro, che in quel momento mi pareva il contesto più intimo e vicino che avessi mai scrutato. Potevo confondermi con quell’asfalto, sentirmi parte dei gradini, dell’immondizia che trasbordava dal cassonetto e dei mattoni stessi dei palazzi. Era come se tutti gli elementi presenti o assenti potessero convergere nel mio intelletto attivo. I miei pensieri si nutrivano dei loro silenzi e questi li fomentavano. Sapevo e sentivo di essere una componente essenziale della metropoli come essa lo era per me. Comprendevo e giustificavo ogni accidente che mi compariva davanti, intuendo un senso nuovo, ancora misterioso, immanente e totalizzante. Quella era la mia dimensione. Necessitavo del dodecafonico baccano imposto dagli operai, dei fumi di scappamento, delle vetrine opulente e colorate, della vernice scrostata dalle panchine, della gelida ipnosi del capitale e dei polveroni alzati dai borghesi dirigenti d’azienda… Che li disprezzassi o meno, era tutt’altra storia. Di giorno, 19


protetto dal limite prospettico dell’ideologia nella quale mi ero andato a ficcare, avrei anche potuto detestarli, ma ora no. Avevano ragione d’essere, come i palazzi trattenuti da gabbie metalliche, gli slogan pubblicitari, infidi e bugiardi, o le dimore miserabili dei quartieri bassi, malamente nascoste da una sottilissima e cadente facciata di rispettabilità. Io esistevo soltanto in mezzo a quello scenario. Tra quegli uomini in carriera che esibiscono il biglietto da visita anche al medico, gli stormi di marmocchi urlanti all’uscita da scuola, le madri, maldicenti e frivole, che pettegolano sul vicinato... New York era il mio spazio d’elezione, un continuo e nervoso scorrere di manifestazioni essenziali in cui vivere e barcollare. Una doppia apparenza, pregna di contenuto, a cui ero cosciente di appartenere, come un frammento di materia in un cosmo di menzogne, automatismi e atteggiamenti superficiali da cui dipendere in quanto accidente e ribellione. Voltai l’angolo e mi accorsi di essere arrivato nel posto sbagliato. Il panismo cripto-urbano in cui ero piombato mi aveva condotto senza che me ne rendessi conto a pochi passi da casa mia. Ormai era fatta, non aveva senso tornare indietro, così percorsi gli isolati che mi separavano dal mio umilissimo condominio, tenendo lo sguardo alto per contare le luci accese ai piani superiori del Cecil Hotel e degli altri palazzoni inchiodati in quella frazione di Centoventesima strada ovest. Mi ero dimenticato di Dahlia e delle sue poesie. Sapevo già che l’avrebbe tirata per le lunghe… Faceva tanto la permalosa, ma alla fine mi perdonava sempre. Ormai, per quanto mi riguardava, la serata era finita. Me ne sarei stato a casa, a fare quello che avevo anticipato a Noah. In fondo, ci stavo bene da solo. Specie nel mio appartamento. Quell’umido monolocale con il triste cucinotto imbrunito dal fumo, il letto e il minuscolo ba20


gno senza finestra mi era più che sufficiente. Non avevo particolari esigenze da soddisfare: tutto ciò di cui avevo bisogno si limitava a una libreria abbastanza resistente e a uno scrittoio. Detto questo, ero cosciente di quanto facesse schifo un posto simile. Di meglio non potevo certo permettermi: per la caparra del tugurio avevo dovuto vendere la vecchia auto di mio padre. Perché avevo detto a Noah di essere uno scrittore? Perché mai continuavo a definirmi a quel modo? Per pigrizia e abitudine, più che altro. Da quando alle elementari avevo vinto uno stupido premio di poesia, avevo cominciato a credere di potermi arrogare quel titolo – sì, ero stato un ragazzino vanitoso, pieno di sé. L’impulso creativo fu per qualche anno limitato dallo studio e dalla volontà di confronto. Volevo rendermi conto di cosa significasse davvero scrivere e di come avessero fatto gli altri, quelli che venivano indicati come scrittori di successo, a raggiungere il proprio obiettivo. Da lì la mia fissazione per la lettura. Avevo divorato libri di qualsiasi genere, dai classici greci e latini fino ai contemporanei. Romanzi, poesie, trattati fondamentali del pensiero occidentale, scritti scientifici marginali, testi specialistici di diritto e medicina, compendi storici, libelli politici, pubblicazioni pornografiche, guide pratiche e turistiche… Di fatto, avevo trasformato in compulsiva mania ciò che la tradizione umanistica descrive come un piacere o un’edificante esigenza culturale. Poi, a causa dell’ambizione o dell’insoddisfazione, mi ero messo in testa che fosse arrivato il mio turno, il momento per scrivere qualcosa di mio. Un’idea ce l’avevo: raccontare New York e le sue differenti anime attraverso la cronistoria del fallimento esistenziale di un veterano appena tornato dalla Francia. Non so dire cosa fosse andato storto, dato che, dopo tre anni di lavoro più o meno continuo, il mio romanzo si mostrava ancora incompiuto. E più passavano i giorni, più si assottigliavano 21


le speranze di cavarne qualcosa. L’impiego in rivista mi rubava tempo, ma soprattutto mi avviliva. Non potevo più preoccuparmi della mia opera. Dovevo concentrarmi sull’ipotetica futura fama degli scrittori che recensivo per il Partisan Review e difendermi dall’alienazione in cui quell’occupazione poteva gettarmi. Distanti dall’esile cerchia di validi autori con i quali mi era concesso confrontarmi con relativa soddisfazione in contesto privato, c’erano tutti quelli che dovevo affrontare per mestiere, il mio incubo: infinite e inesauribili schiere di ciarloni privi di qualsiasi talento, rispettabilissimi balordi, sublimatori di fallimenti, impotenza e mediocrità senza fine. Tutti convinti di essere dei nuovi Mark Twain… La cosa più insopportabile stava nel fatto che costoro riuscissero persino a riscuotere un discreto apprezzamento da parte del pubblico e a trovare corrispondenza editoriale. Ultimamente mi capitavano soprattutto professori universitari, amici del Partito o membri stimati della consorteria cittadina alle prese con un’eccitante nuova carriera nell’universo del romanzo rosa… Dio solo sa quante donne andassero matte per quei sottilissimi e necessari sentimentalismi! Ora, per esempio, mi toccava inventare meriti e traguardi narrativi a proposito di un terribile romanzetto, accanito e insoddisfacente, scritto da un avvocato polacco di Belmont Avenue, storico frequentatore del John Reed Club di Brownsville, del quale, ovviamente, era vietato parlar male. Il vecchio era stato furbo: aveva associato il suo squallido raccontino romantico a un falsissimo sottotesto critico e sociologico… Una specie di j’accuse nei confronti del dominante modello liberale, infilato ad arte tra un addio e un’effusione, così da conquistare in un sol colpo il cuore del pubblico generalista e degli intellettuali progressisti. E pazienza se le vicende da lui narrate rasentassero i peggiori cliché e che 22


le situazioni inventate ripetessero, come in un cappio di infinita mediocrità, la solita vecchia solfa d’appendice… Era un libro che dovevo trattare bene, anche se costruito da periodi così sciatti da farmi sospettare che persino un mocciosetto, ancora tra i banchi di scuola e con scarse nozioni di grammatica o sintassi, avrebbe potuto esserne l’autore. Che devo dire? Il mio lavoro, che poco aveva a che fare con l’onestà intellettuale, mi costringeva a elogiare qualsiasi misero pattume cartaceo che ottenesse un abbozzo di stima da parte del direttorio. Limpidissima prostituzione letteraria: ecco quel che era. Ero diventato un magnaccia, pentito e impantanato in quel giro per chissà quale aberrante contratto o debito di gioco. Uno di quelli che si vanta di tenere alle sue ragazze e che è ipocrita a tal punto da affidarle volentieri a brutali pervertiti di ogni genere. La storia era questa. Nella vana prospettiva di potermi dedicare ai fogli ormai stantii del mio romanzo, dovevo accontentarmi dei miei miseri trenta dollari mensili, che, uniti a quelli inviatimi da mia madre, erano da suddividere tra affitto, viveri e piaceri. Mi misi seduto, accesi una Gauloise e iniziai a ticchettare sull’Underwood lettere, parole e frasi che si trasformavano in lodi e giudizi tutt’altro che veritieri. Avevo caldo e mi sentivo un fallito. All’inizio, quando era cominciata questa follia delle recensioni per il PR, credetti di poter trasformare l’umiliazione del parere imposto in un interessante gioco creativo, in un esercizio di pura immaginazione o d’acrobazia retorica. Una cosa da veri scrittori, insomma. Mi sbagliavo. «Mi tocca» mormorai tra e me e me, sbottando. «Eccola qua! Questa qui dev’essere la mia forma ultima di espiazione». Mi sentivo colpevole a usare la mia povera bestia ottonata per scopi tanto grezzi. 23


«Ma mi tocca» ripetei. «Mi tocca proprio sottolineare il raffinato conato etico, la lucida critica sociale e… e cosa? E la speciale ispirazione letteraria che rendono imperdibili queste… paginette di frasi inutili e dialoghi assurdi…» Terminai l’articolo, e con ancora i vestiti indosso e il puzzo di fumo misto a whiskey sulle labbra, mi gettai sul letto sfatto che sembrava il corpo molle di un grosso animale esotico in decomposizione. Avevo dimenticato l’ultima volta in cui avevo sbattuto o piegato le lenzuola. Dopotutto, che diamine m’importava?

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