E vissero tutti feriti e contenti di Ettore Zanca

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Forsythia narrativa


Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistiti è puramente casuale. Illustrazione in copertina di Luca Verduchi © 2017 Ianieri Edizioni Via L. Da Vinci, 16 - 65124 Pescara - Tel. 085.2192404 www.ianieriedizioni.it - info@ianieriedizioni.it Pubblicato in accordo con Valentina Cucinella Agenzia Letteraria www.valentinacucinella.wordpress.com www.facebook.com/agenzialetterariavalentinacucinella Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore. ISBN: 978-88-94890-14-3


Ettore Zanca

E vissero tutti feriti e contenti Prefazione di

Enrico Ruggeri

Ianieri Edizioni narrativa



A Riccardo, Linda ed Enrico, per tutto quello che mi danno. A mio padre per tutto quello che mi ha dato.



Prefazione

Ettore Zanca è una persona che ha vissuto, pagando come tutte le persone sensibili, un tributo emotivo, combattendo la sua battaglia personale. Il suo spirito di osservazione è stato sempre superiore alle difficoltà: guardarsi attorno è sempre stata la sua principale occupazione. Siamo simili, ecco perché siamo diventati amici. Scrivere è sempre stata la sua terapia e il suo modo di comunicare. E in questi racconti emerge prepotentemente la sua voglia di capire, di raccontare, di fraternizzare con chi sta faticosamente cercando il suo angolo di felicità. La “pietas” è per lui una cifra stilistica che ci porta dritti a conoscere i suoi personaggi, a leggere le loro anime, a decifrare i loro dolori e le loro dolcezze. Zanca riesce a costruire uno spettacolo sulle piccole impalpabili sensazioni che troppo spesso ci sfuggono: ci dimostra che ogni persona ha una storia da raccontare, sempre diversa, perché l’anima è incredibilmente complicata e saperne decifrare le dinamiche non è da tutti. Questi racconti ci dimostrano quanto sia piacevole e necessario soffermarci su chi ci passa vicino, con le sue piccole e grandi battaglie e la sua inconsapevole poesia. Terminata la lettura, forse, per qualche minuto, ci scopriremo migliori. Enrico Ruggeri 9



Prologo Biglietti

Benvenuto, signore. Vedo che ha portato anche il suo bimbo. Prego, si accomodi. I nostri acrobati sono pronti. Come dice? Animali? Sì, ci sono, ma non come pensa lei. Questo non è un circo come gli altri. Qui troverà equilibristi di vita, funamboli del fine mese, domatori di necessità e seduttori di virtù. Troverà chi si è fatto sparare dal cannone della guerra sperando in un mondo migliore travisato da barcone infido. Ballerine di grazia corrotta dalle rughe di troppi uomini bugiardi. Le funi sono tese, tutti senza rete. Qui dentro si sfida la morte. Ma non quella che pensa lei, signor mio. La morte di una vita monotona e troppo omologata. Qui dentro chi racconta ha le righe del proprio romanzo formato dalle sue cicatrici. E le parole escono vergate con un filo di inchiostro rosso del sangue che scorre con la passione. Vedo il suo bimbo incuriosito, signore. Le stacco due biglietti. Dimenticavo: non si perda i pagliacci. La vita non gli sorride e la combattono rendendola dolce a chi non merita i loro dolori. Come? Quanto deve pagare? No, signore, lei non deve pagarmi adesso. Ne parliamo dopo. Adesso pensi a godersi lo spettacolo. Ecco il primo protagonista. Si comincia.

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Tra due fiumi

Incastrato tra due fiumi. Bonacina Sebastiano, di fianco il Po, davanti le macchine che lo vedono solo perché devono pagare il biglietto del casello. Il fiume liquido contro quello umano. I fiumi che odia. Maledice il sangue del nonno, siciliano trapiantato al nord. Un trapianto con molti rigetti e una terra che non ha mai digerito. Le maledice, le parole del nonno. «L’unica forma d’acqua che mi calma si muove più di tutte, il mare». Maledette parole, chiodi verbali di croci dialettiche. Sebastiano era già grande quando suo nonno se ne andò per sempre, e gli parve di cogliere nell’espressione del viso non il comune “sembra che dorma”. No. Lui ci leggeva sollievo, allegria di essersi tolto dalle scatole la brina mattutina. Il freddo sottozero. Le ossa che si sghiacciavano ogni volta che metteva piede in Sicilia. Il sollievo, lo avrebbe capito dopo che era scritto nel testamento. Il sangue è noto si possa donare, il nonno fece peggio. Glielo lasciò in testamento. C’era scritto proprio così. A mio nipote Sebastiano, lascio il mio sangue, che venga messo a ribollire nel suo e gli ricordi che un fiume va solo in una direzione, ma il mare va dappertutto, come la felicità e l’inquietudine. Inquietudine, parola che pesa, troppo simile a incudine.

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Lui ne ha tanta di incudine. Specie a guardare chi va via verso il serpente autostradale: suv, utilitarie, macchine non finite di pagare, giovani prossimi all’impastamento sul guardrail, camionisti stanchi che rischiano di andargli appresso. Una volta ha provato a fermarne uno, di camionista. «Sei stanco, perché non accosti e ti riposi?» «E tu perché non ti fai i cazzi tuoi?» Aveva smesso di cercare di fermare l’annullamento dell’individuo varcata quella sbarra. Sebastiano aveva scelto non scegliendo. Militante in un posto da cui se ne sarebbe andato, latitante di tutti i suoi desideri, ricercato speciale dai sorrisi che non mostrava mai. E poi quella parola che lo aveva fatto restare in quel posto di merda. Amore. La parola trasfigurante, l’allucinogeno sciolto nei baci e nella pelle della persona amata. Il crack che rende qualsiasi posto bello. Lui c’era cascato. Vent’anni prima, quando ancora non era nulla, non uomo, non più ragazzo. Lui cercava lavoro, lei trovò l’uomo della sua vita. E quando le femmine s’intignano, diceva il nonno, il tuo no conta meno di una cagata di mosca. Lui voleva andar via dalla micro realtà industriale di quella pianura assassina di visuali e distributrice di nebbia. Lei ci stava divinamente. Si incontrarono un giorno di luglio, che non c’era caldo, che il sole intiepidiva lo scazzo perenne di Sebastiano. Che lei era bellissima con un vestito a fiori che le disegnava le misure da donna che non sa quanto può far male, lui era al bar a leggere annunci di lavoro, lei tornava a casa. Le andava davvero quel bicchiere d’acqua? Erano giorni che la notava avvicinarsi e ignorarlo. Nel vocabolario

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di Sebastiano significava proprio “si avvicina e mi ignora”, nell’idioma di Silvia era “mi piaci, pezzo di cretino”. Bicchiere d’acqua con cubetti di ghiaccio, sguardo assassino di chi ha deciso che sei l’uomo della sua vita, e quando le donne s’intignano, sì, vabbè, nonno lo so, ti sei rincoglionito, piantala di ripetermi le stesse cose anche da morto. Acqua e ghiaccio, ghiaccio rotto da lei. Conversazione banale, chi lo ha detto che ci si innamora come nei film, acqua finita, ghiaccio rotto, acqua di fiume, passeggiata a riva, fiume, acqua, niente frasi da film, il film però lo si vede, al cinema all’aperto che non esiste più trent’anni dopo, bacio, bacia bene lui, impacciata lei, primo uomo vero, unico della sua vita, vita che nasce, due anni dopo, lei incinta, sposiamoci, lavoro, posto libero come casellante. Fine dell’esistenza, inizio della vita di tutti i giorni. Acqua, fiume d’auto. Ai lati. Sebastiano è di botto padre, marito e casellante. Bon, chiuso tutto, basta sogni di acqua salata, si resta qui. Che poi forse Sebastiano si abitua. Forse, se nel frattempo di fronte a lui non costruissero un ospedale. Un centro oncologico all’avanguardia in tutta Europa. Sebastiano aggiunge un altro tassello. L’amore per quella donna lo blocca, l’amore per quel figlio, che cresce senza dare pensieri e studia e lavora, non lo fa essere cattivo. Non lo fa incancrenire sul rimuginare tra quello che vorrebbe lui e quello che non c’è. Quello che si portano via tutti quelli che attraversano la sua sbarra anno dopo anno. Per andar via. Che lui guarda in lontananza prendere il biglietto. Ma negli ultimi anni, da quando c’è quell’ospedale, Sebastiano ha rimischiato le carte dell’insoddisfazione. Perché adesso non guarda più solo chi va via. Ma anche chi arriva. Per andare in quell’ospedale e farsi curare. E lui sente qualcosa nel vedere questa processione, paga-

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no per un lasciapassare, una sbarra che si apre, andando verso qualcosa che rischia di chiudersi per sempre. Sebastiano prova qualcosa alla bocca dello stomaco. «Sono i peperoni, sicuramente», sentenzia. Ma poi il giorno dopo aveva mangiato leggero, non erano i peperoni. Lo capisce settimane dopo. La sua scarsa memoria fotografica, le sue fughe mentali sempre più pressanti quella volta si fermano. E se lo ricorda bene. Perché nel frattempo quel cantante che detesta canta una canzone che detesta dalla vecchia radio che detesta. Quei due coniugi. Passano e pagano, lei dolce guarda lui. Che ricambia come se da un momento all’altro gli stessero strappando un arto a mani nude e senza anestesia. Vanno verso l’ospedale, entrano. Qualche settimana dopo quella canzone che detesta del cantante eccetera, loro escono. Lui si fionda fuori dalla cabina. Ferma la macchina a mani nude. Terrorizzando marito e moglie che si fermano per evitare il peggio. «Come sta?» «Ma chi?» «Come chi? Lei!» «Lei… io?», dice il marito. «Lei… sì». «Perché me lo chiede?» «Ho visto che siete entrati in quell’ospedale, io so cosa vanno a fare le persone in quell’ospedale». «E perché si preoccupa per noi?» Non sa rispondere Sebastiano. “Saranno i peperoni”, gli viene da dire. «Non lo so», li guarda, vorrebbe dire molto di più. E marito e moglie lo capiscono che vuole dire molto di più. «È mia moglie che sta male, non io».

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