Libreria Luigi di Stefano Caso

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Forsythia narrativa


Illustrazione in copertina: Luca Verduchi Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistiti è puramente casuale.

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Ianieri Edizioni narrativa



A mio padre Giuseppe, che in silenzio ha desiderato questo libro.



I “Non lasciate che l’età di un uomo rimanga in balìa dei numeri, segni troppo generici e arroganti per sentenziare prestazioni fisiche e mentali. Ci sono età incoscienti e età angoscianti, epoche rabbiose e altre euforiche, tempi di speranza e tempi di rassegnazione. Giorni estatici e altri terrificanti, di eroico coraggio e di mesta vergogna. Di indignazione e di sconforto. Attimi di impeto e orgoglio, e decenni di indifferenza e apatia. Anni di stupore e meraviglia e anni di nostalgia, solitudine e rimorso. Eternità pregne di tormento, affanno e panico. E istanti melodiosi e angelici. Tutte fasi che mai seguono un preciso ordine cronologico, ma sempre scandite dal bizzarro orologio di un demiurgo caotico e forse sadico. Può capitare, dunque, di imbattersi in un’incantevole fanciulla con lo sguardo nel precipizio e, a pochi passi, in un eroico ottantenne prossimo alle nozze. E può accadere che lo smisurato domani di un infante si fermi all’improvviso oggi, sorpassato da un rugoso gerontocomio. Chi fra questi è più giovane e chi più vecchio, chi fra loro conterà più lune e chi sta ormai sfilando per la pesatura dell’anima, al cospetto del supremo tribunale degli dèi? No, l’età non è questione di numeri, ma di idee e di parole”. A questo pensavo il giorno dei miei cinquant’anni, aprendo i battenti della libreria. L’avevo chiamata Luigi. Come Pirandello e come me. Libreria Luigi, un’inse9


gna che suonava da far schifo e un nome più consono a una trattoria o a un negozio di barbiere. Ma visto che le insegne delle trattorie erano ormai invase da spocchiosi inglesismi, quali Wine Bar o Food Store, e che i barbieri vantavano il titolo di Hair Designer, tanto valeva che una libreria si chiamasse Luigi: semplice, senza pretese, alla portata di tutti. In ogni caso Luigi era una libreria e non una rivendita di libri con prosperose commesse in divisa, sorridenti a vanvera e incapaci di distinguere un classico da un ricettario di cucina. Ed era anche la mia seconda dimora, il mio rifugio contro la straripante idiozia mondana, l’alcova in cui ogni giorno amoreggiavo con le mie brame intellettuali. Vent’anni di tresca amorosa, una relazione ormai perfetta, mai una crisi o un’infedeltà. Qui custodivo anche, tristemente inscatolata nel retrobottega, la mia biblioteca personale, centinaia di volumi ritenuti ingombranti e poco estetici da mia moglie, e dunque sfrattati dal nostro appartamento dopo l’ultimo cambio di mobilio. Un trasloco che avevo accettato senza controbattere, d’altro canto in libreria trascorrevo buona parte della mia vita e averli lì, a pochi metri, sempre sott’occhio e sempre disponibili, me li faceva sentire al riparo dalle fregole, divenute ormai imprevedibili, di Olga. Feci un passo dentro e mi venne incontro il titolo del momento, un metro e cinquanta di copie impilate come una catasta di legna, con tanto di cartonato dell’autore dal sorriso ammiccante e sbarazzino. Lo schivai con sdegno e mi avviai verso la mia postazione di comando. Il primo cliente arrivò attorno alle nove e mezzo. Nel frattempo avevo sistemato i nuovi arrivi, fatto un paio di telefonate e un breve passaggio in bagno. Avevo an10


che spruzzato essenza di lavanda, fragranza con cui ogni giorno aromatizzavo la libreria, convinto dei suoi poteri taumaturgici, della sua capacità di purificare l’animo di chi entrava, di decontaminarlo dalla stupidità, dalla villania e dalla sottocultura che asfissiava il mondo di fuori. Il primo cliente era una mia vecchia conoscenza. Si chiamava Sigismondo Gamba e, dopo aver curiosato in vari scaffali, si stava avvicinando a passettini rapidi, con la solita borsa da medico e il suo sguardo vitreo da psicopatico. In realtà non era medico. Lui diceva di essere insegnante di lettere in una scuola media. Aveva una cinquantina d’anni e un grigio riporto tricotico dalle fattezze professionali, forse di progettazione ingegneristica, vista la straordinaria staticità della struttura e l’assoluta indifferenza a qualsiasi sollecitazione esterna. Un ampio deserto attraversato al centro da una misera striscia di capelli lunghi e appiccicosi, raccattati da nuca, basette e da qualche altra pelosa oasi superstite, fors’anche dalle orecchie. Il professor Gamba si presentava in libreria ogni due venerdì e sempre a quell’ora, con l’impellente bisogno di un testo che risultava ignoto a tutte le specie viventi, di solito dal titolo incerto e di un autore proveniente da un paese sperduto o forse da un’altra galassia. Autore che in genere aveva pubblicato solo quel titolo, ormai fuori catalogo da anni e di cui avevano stampato un centinaio di copie. Ma lui, il nevrotico professore, ne aveva sentito parlare in una recente conferenza o per radio la notte precedente oppure sull’autobus da uno sconosciuto interlocutore. E guai a me, se gli dicevo che era la prima volta che lo sentivo nominare: il professore attaccava a squadrarmi con fare piccato e in11


credulo, agitandosi come un impidocchiato. Ma come, sembrava dirmi, tu che sei libraio non lo conosci? E no, che non lo conosco, stupido minchione, avrei voluto dirgli, essere librai non significa conoscere gli scribacchini del mondo intero. In realtà, il professor Minchione Gamba di solito diceva: «Potrebbe cercare meglio? Magari su internet…» gonfiando la parola internet come se appartenesse a un misterioso e diabolico idioma. Certo che posso, ma potresti anche tu, preistorico cinquantenne, ti sarebbero sufficienti un semplice PC e un altrettanto semplice collegamento a quello che ti si potrebbe rivelare come il Paese delle Mille Lusinghe. E lì troveresti il tuo prezioso tomo, da decenni conservato da un vecchio libraio ormai mummificato ma smanioso di soddisfare, anche per corrispondenza, la tua indifferibile smania letteraria. Mai, tuttavia, glielo dissi. Quel giorno il professor Gamba era sulle tracce di Papalagi. Discorsi del capo Tuiavii di Tiavea delle Isole Samoa. «Ce l’ho!» quasi gli urlai, con un gran sorriso. «Ma io avrei bisogno della versione in tedesco, Der Papalagi – Die Reden des Südseehäuptlings Tuiavii aus Tiavea». «Quella gliela posso procurare nel giro di qualche giorno». «Sì, ma io la vorrei nell’edizione del 1920 e possibilmente di prima mano...». Verso metà mattina ricevetti un discreto numero di auguri telefonici, tra cui quelli di mio figlio. Chiamava da Milano e, benché vivesse lì da pochi mesi, già sfoderava un accento da manager meneghino, lui che era al primo anno di economia e commercio e che – lo teme12


vo molto – una volta laureato avrebbe seguito le orme bancarie e truffaldine del nonno e dello zio materni. «Mi raccomando, Luca» gli dissi supplichevole «non dimenticare ciò che ti ho insegnato». Lui mi rispose con una risatina di compatimento, poi mi apostrofò per ben tre volte con la parola “vecchio”. Chiusa la telefonata, approfittai dell’assenza di clienti per riordinare gli espositori di cancelleria, agendine e segnalibri, tutto materiale dalle fogge stravaganti e modaiole. Ma un senso di oppressione, inaspettato e sleale, mi avvolse il volto come una grossa mano callosa, costringendomi all’apnea. Mi aggrappai a uno scaffale e cercai di fare il pieno d’aria. Ma respirare era diventato un gesto troppo faticoso. Avvertii la testa affondare in un abisso oceanico, le gambe creparsi, i pensieri andare in fumo. Sudavo freddo. Mi tastai il polso e temetti per il mio cuore. Inspirai con finta calma, gli occhi chiusi e la bocca spalancata. Ritrovai un filo di lucidità. Provai allora a staccarmi dallo scaffale, riaprendo gli occhi e facendo un altro respiro. Barcollai infine verso il banco, dove mi sedetti a testa bassa, in attesa di momenti migliori. Ma un improvviso tamburellio sul bancone mi obbligò ad alzare lo sguardo. Una anziana signora se ne stava di fronte a me, con un’espressione beffarda negli occhi e le dita a picchiettare nervose. «Mi scusi…» dissi roco «ma non l’ho vista entrare, credo che la mia testa fosse altrove». Lei tacque. Si sistemò meglio gli occhiali e continuò a fissarmi con fare ironico. Malgrado gli occhi d’un bel celeste acquamarina, il suo sguardo riusciva a inquietarmi. Teneva fra le mani una borsetta rossa e vestiva come un’elegante signorina d’altri tempi, con una giac13


ca dalle spalle imbottite e una gonna a tubino. Forse un tempo era stata bellissima, anche se ora mi ricordava mia zia Caterina, defunta ormai da anni. «Mi dica…» balbettai, con la testa ancora in disordine. Lei scostò dal viso una ciocca di capelli sfuggita dalla crocchia che le svettava in testa, e finalmente parlò: «Sono alla ricerca di un regalo per la figlia tredicenne di un’amica, ma non saprei cosa scegliere. Per cui mi affido a lei, signor Luigi». La voce era gracchiante, l’alito preistorico. Tornò a fissarmi e a tamburellare. Nonostante i modi da zitella inacidita, ricordava una stella decaduta del cinema. La immaginai in un grazioso appartamento del centro cittadino, con la sola compagnia di un gatto narcolettico di nome Tracy, di bauli dai contenuti oscuri e di vecchi mobili appesantiti da argenteria inutile e inviolata. «Dunque?» mi incalzò. Tirai un bel respiro, mi alzai in piedi e titubante le proposi I tre moschettieri. «Troppo francese» brontolò lei. Ci riprovai con Il vecchio e il mare. «Troppo pop». Osai un David Copperfield. «Troppo difficile». Mi buttai su Piccole donne. «Troppo femminista». «I ragazzi della via Pál?». «Troppo proletario». Stavo per arrendermi. Ma lei sembrò leggermi nel pensiero: «Sia ben chiaro che sono tutti romanzi che ho adorato in gioventù e che ancora custodisco con amore nella mia personalissima biblioteca. Ma come lei ben sa, i tempi cam14


biano e i giovani d’oggi amano generi, come dire, più contemporanei, libri che io tendo a snobbare. Tuttavia, dovendo fare un regalo di compleanno a questa benedetta figliola…» e tornò a sorridermi col solito ghigno. «Capisco» dissi con un filo di voce. Abbandonai il bancone e, ancora incerto sulle gambe, andai verso l’ingresso, dove sfilai un mattoncino dalla catasta innalzata col titolo del momento. Tornai da lei e con riguardo glielo porsi tra le mani. «A questo non potrà dire di no» dissi, ritrovando sicurezza. «È l’ultimo di Ronnie Pepper Flower, il famoso DJ nonché filosofo metropolitano. Si intitola Dalla padella alla braga e descrive le esperienze dell’autore in cucina, esperienze non solo di carattere culinario, ma anche quelle più sconce e pecorecce, in cui Ronnie si sofferma, in special modo, sulla sua recente svolta bisessuale. Propone anche una lunga e dettagliata serie di ricette per scoprire i piaceri del sesso abbinati alla buona tavola». «Sta scherzando, vero?» mi disse lei, impallidendo in volto. «Assolutamente no. A un mese dall’uscita, questo libro ha venduto ben centomila copie ed è già alla quarta ristampa. E constato ogni giorno che non solo piace ai più giovani, ma anche ai loro degni genitori, soprattutto alle mamme e a qualche arzilla nonnetta». «Che disastro» commentò la donna. «E lei lo ha letto?». «No, e non credo che lo farò». «E non c’è una giusta via di mezzo, un bel libro che stia fra il classico e questa robaccia?». «Certo, più di uno. Ora glieli mostro».

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