Antologia Racconti brevi
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Uno scorcio della bellissima Chiesa del Gonfalone di Saltara, dove si svolge la cerimonia di premiazione del concorso letterario Ideobook
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IL CONCORSO
Dopo il buon esito delle quattro precedenti edizioni, Ideobook, il concorso letterario promosso da Ideostampa, è arrivato alla sua quinta edizione allargando la platea dei partecipanti a livello nazionale. Ideobook è un contest letterario che vuole promuovere e stimolare gli autori anche utilizzando le nuove tecnologie di stampa digitale che permettono piccole tirature. La partecipazione è gratuita e aperta a tutti, senza limiti di età e quest’anno divisa in quattro sezioni (racconti) e (racconti brevi), (poesia) e (poesia dialettale). Siamo particolarmente lieti di questa quinta edizione di Ideobook, sperando di scoprire nuovi talenti e di creare una occasione di incontro e stimolo culturale nel territorio. Ideobook è solo uno dei diversi progetti sviluppati da Ideostampa con l’intento di creare prospettive inedite sulla produzione culturale dell’intero comprensorio della Valle del Metauro. Alfio Magnesi amministratore Ideostampa
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IL PATROCINIO
È un vero piacere per la nostra Amministrazione concedere anche quest’anno il patrocinio comunale ad Ideobook, il concorso letterario promosso da Ideostampa ed arrivato quest’anno alla sua quarta edizione. Tra le diverse iniziativa che contribuscono - come piccole gocce nel mare - ad espandere il tesoro di conoscenza e cultura collettiva, Ideobook ha avuto, fin dall’inizio, una particolare attenzione per la sua del tutto unica capacità di far emergere dal tessuto territoriale potenzialità letterarie nascoste, portarle almeno per un giorno alla luce dei riflettori di una quotidianità troppo spesso assopita ed indifferente, e premiare i rispettivi autori con piccole tirature della propria “creatura”. Grazie ad Ideostampa, ad Alfio e a tutti i suoi preziosi collaboratori, per questo “dono” che fanno alla comunità metaurense, con l’augurio di sempre nuove e proficue collaborazioni. Andrea Giuliani Assessrore alla Cultura Comune di Colli al Metauro
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LA GIURIA
ELISABETTA FREDDI poetessa ELVIO GRILLI poeta dialettale GIULIA GIOVANELLI giornalista LUIGI STORTIERO poeta, artigiano PIERO TALEVI poeta del Metauro RODOLFO TONELLI ex preside, scrittore e camminatore SANZIO BALDUCCI esperto dialettologo SILVANO CLAPPIS giornalista, scrittore VITTORIA SCHIAVONI ex insegnante, amante della scrittura e della poesia
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INDICE Amalfitano Alessandro Bianco Elia Bisciotti Alessandro Bortolini Lisa Brandalise Renzo Burgio Guido Calza Corrado Ciaprini Marica Ciullo Nunzio Colombo Davide Di Sante Salvatore Di Simone Manuela Favaro Alberto Flori Angela Foti Antonio Graziano Domenico Guagliardo Gero Mammarella Marco Manente Michela Mazzucchelli Norberto Mevi Pasqua Mezzatesta Marilena Miceli Bruno Milossi Dorina Naso Floriana Paone Manuela Papa Mike Parafioriti Cristiano Pedrani Giovanni Maria Pesarini Marcello Maria Piemonte Alessia Pieroni Renata Pierpaoli Floriana Ponte Luca Regna Teresa
pag. 10 pag. 12 pag. 17 pag. 19 pag. 21 pag. 24 pag. 28 pag. 31 pag. 34 pag. 38 pag. 42 pag. 45 pag. 47 pag. 51 pag. 55 pag. 62 pag. 65 pag. 68 pag. 73 pag. 74 pag. 80 pag. 83 pag. 84 pag. 86 pag. 91 pag. 94 pag. 96 pag. 100 pag. 102 pag. 107 pag. 111 pag. 115 pag. 119 pag. 123 pag. 124 6
pag. 126 pag. 129 pag. 134 pag. 137 pag. 141 pag. 145
Rosotto Ernestina Scatoli Fausto Scuola Primaria Cattabrighe Serci Davide Sinigaglia Diana Tauro Elena
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Amalfitano Alessandro LA ROSA NERA Sono una rosa nera, nata in un rosaio “infestato” da bellissime rose bianche e rosse. Loro sono perfette, profumate, adorabili come quei gattini appena nati: mi danno il voltastomaco. Io sono unica nel mio genere. Sono alta, il mio fusto è pieno di spine e sono sola. Le altre mi evitano, nemmeno mi rivolgono la parola, inizialmente provavo ad interessarmi a loro, ad intervenire nei discorsi cercando di integrarmi. Ma loro non sopportano il mio essere differente da loro ed hanno iniziato ad ignorarmi ed io, contemporaneamente ho iniziato ad odiarle profondamente. Non fanno che spettegolare tutto il giorno su chi sia la più bella, la più profumata, la più perfetta, colei che quel giorno avrà l’onore di essere…potata. Si perché loro non sanno la verità, la ignorano mentre io che ho il privilegio di essere la più alta tra tutte in realtà so bene cosa succede tutti i giorni, al tramonto, nel rosaio. Sono strana, sono nera, le altre dicono che porto sfortuna e sono simbolo di malaugurio. Pertanto nessuno avrà mai l’ardire di cogliermi e per questo il mio fusto cresce robusto, alto e pieno di spine. Mi sono inerpicata lungo questo muro, incardinandomi tra i mattoni, cercando di diventare sempre più forte. E’ vero sono unica e la mia diversità mi salva la vita, giorno dopo giorno. Infatti quando sta per tramontare il sole arriva nel rosaio la padrona, una bimbetta dispettosa e maleducata che non ha rispetto per niente e nessuno. Capelli rosso fuoco raccolti in due lunghe trecce, saltella e canticchia filastrocche incomprensibili con la sua vocina stridula, fa il giro del cortile ed alla fine arriva da noi, ci guarda e sul viso le si stampa un ghigno malefico, io lo vedo come tale ma le altre lo interpretano come un sorriso di approvazione e gioia. Dalla mia postazione privilegiata in alto accanto al muro appoggiata su di un mattone spiovente e sbeccato riesco a sbirciare dietro le tende della finestra che dà nella sua camera e sento ogni giorno 10
le grida, i capricci, le inutili ciarle di una ragazzina perennemente scontenta ed arrabbiata con il mondo ed in conflitto con chiunque che ha una “passione” per le rose e sapete come la dimostra? Ogni giorno ne coglie una, la più bella tra loro, quella che rasenta la perfezione ed emana un profumo inebriante, costei esulta e si fa beffe delle altre gioendo per essere stata selezionata e perché da quel momento farà bella mostra di sé in un luogo nuovo dove potrà vantarsi di essere la più bella tra le belle. La poverina non sa cosa la aspetta. La bambina la porterà in camera sua e la poserà in un vaso posto sopra di un comodino, questo vaso è lontano dal sole e soprattutto è privo di acqua. Nessuno ha mai spiegato alla bambina che i fiori per vivere hanno bisogno di acqua o forse qualcuno ha provato a dirglielo ma lei non prestava attenzione come fa sempre, per qualunque cosa. Il giorno dopo, svegliatasi, si accorge che la rosa è appassita, morta piegata su se stessa, avvizzita e maleodorante. A quel punto emetterà il suo solito lamento, le sue solite grida di disappunto per quanto successo e la povera rosa, la più bella tra le belle finirà inevitabilmente nel cestino dei rifiuti posto accanto al lettino della padrona. Le rose qui sotto ignorano tutto ed io mi guardo bene dal dir loro la verità, inizialmente ero tentata di farlo ma poi ho sviluppato un certo senso di disprezzo nei loro confronti che in parte eguaglia quello che loro provano verso di me. A volte, per divertirmi, quando la bambina arriva inesorabile al tramonto e coglie una di loro mi trovo ad esclamare quanto sia fortunata costei, quanto sia sfortunata io e meschina la mia vita da rosa nera, isolata ed ignorata da tutti, padrona compresa. Sono perfida? Non so, questo giudicatelo voi ma di sicuro sono unica, sono scura e sono bellissima, unica, ineguagliabile e soprattutto viva! Mi ergo al di sopra della massa, le guardo dall’alto, loro sono tutte uguali, indistinguibili, superficiali e sono morte, morte dentro ed una dopo l’altra lo saranno anche fuori. Io sono diversa e questa mia diversità mi salva la vita. 11
Bianco Elia IL DISCORSO DEL SOLE Altro non ero che nel bel mezzo del cuore della notte. Me ne stavo steso e una forza, agganciata a qualche parte di me, pareva mi trascinasse giù verso il baratro, una dura àncora di ferro. Che diavolo di sensazione. Terrore, o forse angoscia. Per la precisione me ne stavo steso a letto, con le mani in tasca, perché nella mia miglior versione ho un pigiama con le tasche e questo lo so, è un lusso. Ma non è esattamente quello che volevo dire: ci mancherebbe che mi metto a parlare del lusso, adesso. Sono un po’ titubante, è vero: perché forse non ho abbastanza coraggio per sentire. Così, volevo dire, mi ero svegliato di soprassalto, nel bel mezzo del cuore della notte, cosa che non mi è mai capitata perché nulla è più bello di dormire, e me ne stavo lì, a letto, immobile, con le mani in tasca, mentre una forza mi trascinava giù, mio Dio. Ci sono delle ciabatte vuote, ai pedi del letto. Non serve che mi volto a guardarle - lo so. Forse non è cosa che si debba fare, ma con che coraggio le tolgo da lì? Come fanno male, delle ciabatte vuote. Le tue scarpe, anche, sono vuote, e so dove sono pure quelle senza che per forza debba alzarmi a guardarle. Tutte queste cose mi pesano come una grossa àncora di ferro che mi trascina giù negli abissi. Il fatto è che ieri sono venuto a trovarti per la prima volta: ed è questo, sì, il fatto. È passato così tanto tempo orami, e ancora non ero passato da te. Credevo non mi servisse più. Credo che lo speravo. Sai com’è, si crede di sfuggire ai dolori evitandoli. Forse non era proprio Achille che la pensava così, ma insomma, ai tempi d’oggi gli uomini sono cambiati. Evitare, evitare, evitare… Tutto, bisogna evitare, perché c’è l’obbligo di essere felici: ce la vendono ovunque questa dannata felicità. È il vero nuovo mercato. Ma lo sai bene, quante volte ne avevamo parlato. Bisogna essere positivi, sempre, o sei la causa del tuo male. E allora io non ero venuto a trovarti. Capisci? Non so se chiedere scusa a te o se chiedere scusa a me, perché io davvero non ci capisco più niente. 12
Ma torniamo al fatto, che, vedi, continuo con ‘sto giochetto dell’evitare; è che è inconscio oramai, mi è entrato dentro. Lo devo estirpare, sradicare via. Il fatto, dicevo, è che ieri sono passato da te. Te lo ricordi? Hai sentito ciò che ti ho detto? Ti ho parlato del sole. Già prima del cancello, lungo il viale di ghiaia bianca come la pancia delle rondini, si sentiva un intenso odore di acqua solforosa, di acqua solforosa e di calle. Quei fiori bianchi a grammofono con il pistillone giallo e grosso, così volgare, te li ricordi? Come diavolo faranno le api, lì, mica lo so, e né lo voglio immaginare. Le calle mi ricordano tanto mia nonna. Era l’unica persona a cui piacessero, almeno fra quelle che ho conosciuto io. Mi ricordano sempre mia nonna e i cimiteri. E infatti: due indizi e arriviamo alla prova. Perché varco il cancello del cimitero e ti vedo quasi subito. Ma sai perché? Questo è il massimo. Ieri non te l’ho detto perché mi pareva indelicato e perché avevo in mente altro per te, ma oggi te lo posso raccontare. Un’offesa così grande, a neanche ventiquattr’ore di distanza, vedi, ed è già cosa su cui farci una risata sopra. Insomma varco il cancello e vedo un cazzo di cane che stava pisciando sulla tua tomba. Puttana miseria! Era lì, beato, coglione, con la gamba alzata e l’orina che schizzava sull’erba che ti cresceva sopra. Mi aveva fatto proprio incazzare a guardarlo, e poi che succede? Succede che me la sentivo che era la tua tomba, perché tutto sommato io mica lo sapevo, prima: quelle cose che non si sa come spiegarsi ma poi è davvero così, si realizzano. Alzo gli occhi, e dal pisello del cane vado al nome sulla lapide quasi implorando fra me e me ‘no, no, no…’ , e invece: Aprile. Mia Aprile. Mi sono avvicinato a te che piangevo. Il cane che pisciava era un lontano ricordo. Mica c’è l’ho fatta ad arrivarti sopra, prima di piangere. Su, sai che sono un emotivo, che certe cose non le reggo. Faccio il duro ma evito tutto. Perché se no sarei sempre a piangere, e adesso bisogna essere felici, o sei la causa del tuo male. Va bene ma il fatto è che c’ero. Ero lì, sono venuto a trovarti, Aprile, e 13
piangevo. Senza che me ne rendessi conto piangevo a singhiozzi, tentavo di limitarmi per evitare che qualcuno, qualche vecchia, soprattutto, potesse sentirmi, ma non c’era modo. Però non c’era nessuno, via. E così ho potuto anche parlarti. Che se no mi prendevano per scemo. Stavo lì, sopra di te, come ai vecchi tempi, in fondo, come nell’unica realtà che ancora ammetto, e guardavo il sole come se avesse il tuo odore. Guardavo quel sole, lo guardavo intensamente… Aveva il tuo odore, te lo giuro. Non so come spiegartelo. Allora mi sono messo ad ascoltarlo. E con la sua voce ti ho parlato - questo te lo dovresti ricordare - un bel po’. Il sole mi raccontava di noi. Mi guardava in faccia senza paura e mi infondeva la vita che mi ero dimenticato, calore, luce, potenza, speranza. Non avevo più avuto coraggio di pensarti né di ricordarti, avevo annullato noi e l’amore. E insieme la vita. Se non mi svegliavo nel cuore di quella notte di merda, di soprassalto, non so se succedeva, o che cosa. Capisci? Con il suo raggio vivo, invece, il sole mi ha dato uno schiaffo e mi ha ricordato delle cose, e mentre me le ricordava, io te le ripetevo. Era quello per cui ero da te, se no avrei sbagliato tutto. Ti ripetevo di quando ci siamo conosciuti, delle nostre promesse, di quando andavamo a sciare e degli abbracci, i progetti, i nostri dischi, i viaggi, le lunghe camminate in montagna e le sbronze. Ti elencavo tutto man mano e ti chiedevo se ti ricordavi la tal cosa o la tal altra, e tu ti ricordavi proprio tutto. Ci siamo fatti delle belle risate come ne avevamo fatte tante. Abbiamo pianto, ma di gioia; come un tempo, in fondo. E tu eri davvero con me, ancora una volta, mentre il sole portava il tuo odore. Il tuo odore, la nostra storia, la vita tutta. Se penso a cosa darei, ora, nel bel mezzo del cuore della notte, per sentirti orinare… Pareva una cosa normale, diavolo d’un cane, come era sempre stato quando ti alzavi al buio e infilavi le tue ciabatte - proprio quelle che ora sono vuote ai piedi del letto - e andavi in bagno. Non avrei mai pesato che avrei rimpianto una pisciata. Ma cosa darei ora per sentirti orinare, lo sa solo il sole. Perché, vedi, qui, senza il sole, nel bel mezzo del cuore della cazzo 14
di notte, mi vengono in mente solo le angosce e cose diverse di noi, rispetto a quelle che mi hanno fatto parlarti ieri. Cose come le liti, le sbronze quelle brutte, i delitti, e quello che sapevamo fare noi come dei veri professionisti. Sapevamo stare male solo noi, in un certo modo. Fino ad ammazzarci. Come quella volta che ci hai lasciato le penne, te lo ricordi? Il giorno che mi hanno arrestato non potevo crederci. Ricordi che ieri ti ho raccontato pure questo? Sì, lo so, ovvio che non lo potevi sapere. Due sbirri, quelli, che mi hanno arrestato come nulla fosse. Ma si può arrestare una persona così come nulla fosse? Non lo so… Io ci provo a essere felice, ma qui mi sa che sono la causa del mio male. Mi sforzo di ricordare, al buio, quando ci scattavi le foto con il telefonino e le condividevi, contenta, dappertutto; quando scopavamo con tutto il sesso e l’amore insieme, e tutte quelle altre cose belle che erano il nostro castello, un castello che nessuno ha mai avuto: ma senza il sole come diavolo si fa? Ce l’ho fatta solo ieri dopo tanto tempo. Quanto era magico, Dio mio, quel tuo orgoglio di stare con me, quando eri orgogliosa di farti vedere con me. E gli scrosci di sperma e le rose che ti regalavo. Te li ricordi? Quanto ci amavamo, noi. Disperatamente. Quanta passione, quanto dolore… Solo il sole lo sa e me l’ha fin raccontato, e io l’ho raccontato a te. Abbiamo riso ancora una volta insieme, di noi, Primavera della mia vita. Non avevamo una vita canonica perché mica facevamo le cose di tutti, questo è vero. Ma l’amore, non era pur uguale? L’amore non è illegittimo mai. Seh... Vallo a raccontare, tu. Ora invece mi alzo di soprassalto la notte. Fa un freddo cane ed è sceso l’inverno sulla vita. Siamo tutti bravi a piangere il morto. Te lo ricordi di quando ti dicevo, Aprile, del perché era così bello dormire? Perché non esistono più buoni né cattivi, ti dicevo; perché non devi più dimostrare niente a nessuno, perché puoi ridiventare te stesso. Puoi deporre la maschera e non essere più, ossia l’unico modo per essere davvero se stessi. E allora non afferravo perché ogni tanto tu ti svegliavi di soprassalto nel bel mezzo del cuore della notte. Hai sempre avuto un rapporto strano 15
col sonno che io non ho mai capito. Provavo a prenderti la mano e mi sforzavo di capirlo attraverso quella stretta, ma non ci arrivavo. Per me dormire era la cosa più liberatoria del mondo. E ora, che mi sveglio di soprassalto nel mezzo del fottuto cuore della notte del cazzo, qualcosa di più ci capisco, nel non capirci niente. Ho impressa nella memoria l’ultima immagine che ho di te, che mi martella e non mi lascia. Eri così bella coi tuoi capelli lucenti, gli occhi come nocciole che sprizzavano energia, le tue labbra carnose e i denti perfetti, gli zigomi colorati e vivi; tutto in te era luce. Avevi il sole dentro, in quest’immagine che ho nel cervello. Stavi in parte a una fontana e l’acqua che scendeva aveva un rumore antico, e parevate far parte di un’unica cosa, tu, l’acqua che scorreva, il mondo. Qui l’acqua scorre per enne, avevi detto. E io per tutta risposta ti avevo spiegato che l’acqua non scorre per enne, ma per esse, che altrimenti sarebbe stato ‘ncorre’. Cretino, avevi fatto tu. Ed eravamo andati avanti. Che bel sole c’era dietro a questa scena. E un cielo azzurrissimo. Dove diavolo saranno finiti? È stata l’ultima volta che ti ho vista. Quello che è successo dopo ha dell’incredibile, è un romanzo, ma non ha alcun senso né alcuna importanza. Non siamo qui a scrivere un romanzo, dopotutto. Quello che conta è tutto ciò che ci sta nel mezzo. Il ricordo, la lotta per dimenticare, la paura. L’averti ritrovata. Una storia d’amore, in fondo. Quello che conta è il sole, il modo in cui ho capito le cose per poterti riavere, anche durante le notti insonni, gli ingranaggi che si sono messi in moto. Il ritrovare, dico, il coraggio di avere paura. Quello che conta è il discorso del sole.
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Bisciotti Alessandro IL PONTE Stavo vivendo un momento di pura e forte depressione. Il mio stato d’animo era a terra e non era capace nemmeno di raccogliere le briciole da sotto il tavolo. Mi sentivo a pezzi e ogni giorno doveva capitarmi qualcosa di ancora più tremendo. Così credevo io, precipitando allora in un vortice di una nera e buia e incolmabile tristezza. La mia anima se ne era andata via per sempre ma speravo che tornasse, anche se tutto ciò era difficile. Era esiliata in un luogo di morti viventi in cui ogni anima veniva torturata da aggeggi e diavoli indaffarati. E così anche le anime di mia moglie e di mia figlia. Avevano avuto un incidente stradale con l’auto e non si erano salvate. No. Erano volate via per sempre e con loro erano volati via i loro ricordi maggiori. Nella mia mente non restava altro che immagini vaghe e rare che si affacciavano nei miei sogni con una continuità pazzesca e folle. Un giorno andai a camminare nel bosco della mia nuova casa. Mi ero trasferito da casa nostra andando in un posto in campagna che, a detta del dottore, doveva farmi tornare un po’ di animo. Quel bosco non era mio ma era lì vicino. Ci andai camminando lento e abbastanza sereno, sebbene quella serenità fosse solo passeggera. Vidi un ponticello di legno e decisi di attraversarlo, poi sentii la voce di mia figlia che mi chiamava. Mi fermai con il cuore in tumulto e restai in attesa, guardando dall’altra parte del ponte. Poi le vidi. Erano sorridenti ed erano vestite di una tunica bianca e graziosa. Mia moglie e mia figlia erano dall’altra parte del ponte e mi sorridevano. Il mio animo ripiombò in me come una persona cade dal letto. Non fece nessun tonfo, no. Solo un rumore lieve e melodioso e la mia bocca tornò a sorridere, insieme con i ricordi che ripiombarono nel mio cervello dimenticato e oscuro. <<Vi raggiungo>>, dissi. Mia moglie alzò la mano, poi l’abbassò, indicando per terra. Guardai il ponte e vidi che stava scomparendo, a partire dal punto 17
in cui si attaccava all’altra sponda del piccolo fiume. E la sua voce risvegliò la mia mente. Jack, non puoi venire, qui è solo per noi, per i morti, ma stiamo bene, non ti preoccupare. Ciao, papà! Piansi mentre cominciai ad arretrare per non finire affogato. Il legno del ponte spariva lentamente ma la parte mancante mi aveva già raggiunto. Mi girai e tornai sulla terraferma, poi mi voltai. Non c’erano più. <<Se i conti tornano>>, pensai un giorno, <<il ponte dovrebbe essere qui.>> Ero tornato nel bosco e per quello che ne sapevo avevo fatto la stessa strada dell’altra volta. Feci un altro passo e mi fermai. Il ponte non c’era più e mi resi conto che era logico. Mi diedi un colpetto sulla fronte. Il ponte era sparito e non era ricomparso. Restai a guardare l’altra sponda del torrente ma stavolta avevo il sorriso. Già. Loro stavano bene e io adesso stavo tranquillo. Tirai fuori dai pantaloni un foglio e la penna che portavo sempre con me, e scrissi qualcosa. Poi appesi tutto su un bastone che conficcai con forza per terra. Lo guardai abbagliato. Qui c’è già stato un ponte. Non ne costruite un altro. Potrebbe tornare quello vecchio. Erano poche parole ma per me avevano una forza tremenda. Girai e tornai a casa.
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Bortolini Lisa COSTA BLANCA “Hola, soy Blanca”. Pronuncio queste poche parole con un filo di voce, resistendo alla tentazione di guardarmi le scarpe. Ho visitato Alicante in lungo e in largo in questi tre giorni, ma solo ora ho trovato il coraggio di bussare a questa porta. Di percorrere calle Pintor Murillo, di cercare il tuo nome sul campanello e rimanere bloccata, con il cuore che batteva all’impazzata. Un vecchietto con un cane dal muso schiacciato e dalle zampe storte è uscito dal portone, e mi ci sono fiondata dentro senza pensare. Ecco la tua porta, Santiago Fuentes. Busso, e tu appari sulla soglia a piedi nudi. Ti ho immaginato a lungo, mentre guardavo le onde alla playa del Postiguet, bevendo una birra in Plaza de España, mangiando tapas lungo la Rambla, facendo la spesa al Mercadona sotto casa tua, immergendomi nella tua città, che vedo per la prima volta. Sarei voluta venire in primavera, per vedere se davvero è già così caldo da fare il bagno in mare, ma il primo volo diretto da Venezia era a giugno. Tutto sommato economico, oggi basta un centinaio di euro per arrivare in Costa Blanca. Quella che mi ha dato il nome, la costa di Alicante. Nel bagaglio a mano c’era anche lei, la Canon. Quella che usava mia madre per immortalare i miei compleanni, che aveva acquistato con grande fatica dopo un’estate come cameriera, e che aveva portato in macchina con sé quando è arrivata dall’Italia. Perché mica c’era un volo diretto, quasi vent’anni fa. Lei fece un viaggio che durò giorni e che non smetteva mai di raccontarmi, con la vecchia Panda di nonna. La stessa fotocamera che raccolse foto di Ventimiglia, di Montecarlo, della promenade des Anglais a Nizza, di un baretto fumoso a Barcellona, di una paella formato gigante a Valencia, e dell’Erasmus ad Alicante. La stessa Canon che mi ha permesso di vederti, sorridente e sudato, dopo una nottata al Café de la Sal, con un panino kebab in una mano e una Corona nell’altra, seduto sui gradini di un palazzo pieno di murales. Avevi i capelli ricci, gli occhi neri, i denti candidi e le labbra sanguigne. Confronto involontariamente quell’immagine con la persona che 19
ho adesso di fronte. Sei ancora bello, anche se la barba è lunga e i capelli si sono ingrigiti. Gli occhi sono gli stessi, contornati però da rughe di espressione. Occhi che mi guardano dalla testa ai piedi, penetranti, indagatori, occhi che si domandano chi sia questa ragazza esile. “Mi madre era Silvia”, aggiungo timidamente. Gli occhi si socchiudono per un momento, le nocche della mano appoggiata allo stipite della porta sbiancano, la bocca si apre in una muta sorpresa. “Silvia, la italiana?” mi domandi. Annuisco, e dopo quello che a me sembra un’eternità ti scosti per farmi entrare. Mi offri un bicchiere d’acqua e mi fai segno di sedermi sulla poltrona. Ti prendi una birra dal frigo e la tracanni in piedi, studiandomi. Per rompere l’imbarazzo, mi chiedi dove ho studiato spagnolo, ma non ti dico che l’ho fatto per te, per questo momento. Non chiedi invece dov’è mia madre, però noti che non le assomiglio. Lei aveva la pelle diafana e le lentiggini, i capelli tendenti al rosso e gli occhi azzurri. Io ho i capelli ricci e gli occhi scuri. Come i tuoi. Hai capito chi sono, Santiago? Guarda le mie mani, sono come le tue. Dev’essere uno shock, vederti riflesso in un’altra persona della quale non sapevi l’esistenza. Silvia non te l’aveva detto, che era rimasta incinta. Era stata solo un’avventura a fine Erasmus, non pensava tu volessi dividere la vita con lei. Dieci anni fa un incidente se l’è portata via, e ho vissuto con mia nonna. È stata lei a raccontarmi di te, a darmi il tuo nome e indirizzo, che aveva trovato nel diario di mia madre. Ti ho cercato su Facebook, ma non ci sei. E allora ho rischiato, ho preso un aereo per venire a conoscerti. Hai gli occhi lucidi, ascoltandomi. “Mi dispiace per Silvia, davvero. Ma sono contento che tu sia qui” mi dici in spagnolo, mettendo giù la birra. E vieni a darmi un forte abbraccio, in cui mi perdo. Annuso il tuo petto, sa di bucato fresco e magdalenas. Piangiamo insieme dalla felicità, e per il tempo che abbiamo perso. La mia vita è stata una lunga salita, ma il nostro viaggio insieme è appena cominciato. 20
Brandalise Renzo IL FRATE, IL CHIERICHETTO E LA GENTE PETTEGOLA In un paesino sperduto tra le montagne, dove il sole si affacciava tre mesi all’anno, un frate, per curare le sue anime nei masi e nelle baite, assieme al suo chierichetto e al somarello “ Cionfi “, si avviava ,lentamente ,verso quei luoghi , lungo un dissestato sentiero. Avrebbero voluto salire tutti due insieme sul somarello, ma questo sarebbe crollato al suolo e non si sarebbe più rialzato, per cui decidevano di far salire prima il frate. Una donna curiosa , ficcanaso e impicciona ,come tutte quelle che abitavano nei luoghi sperduti tra le montagne , che camminava sul margine dello stesso viottolo ,ma in direzione opposta , sbottava ad alta voce. << Guarda …..guarda quel fraticello , egoista e senza cuore che se ne sta, placidamente, seduto sul mansueto asinello, e lascia il bambino con i piedi nel fango: che vergogna! Ciò che sorprende di più, è che quel signore , si fa per dire, è un frate che dovrebbe amare il prossimo più di se stesso.>> Lui , sentendosi umiliato dalle severe parole pronunciate dalla donna ,rosso dalla vergogna, scendeva dalla groppa dell’umile animale e faceva a salire il chierichetto. Proseguendo sulla strada stretta e sterrata, piena pozzanghere, buche e avvallamenti, un’altra donna, indiscreta ,come la prima, ,vedendo il ragazzino sulla schiena del somarello esclamava. << Quel ragazzaccio, insensibile e screanzato ,che potrebbe camminare con le sue gambe, se ne sta ,tranquillamente, seduto sulla schiena del somarello e fa camminare il frate con i piedi scalzi ,anche se loro sono abituati a farlo, nel fango. >> Il povero religioso, confuso, disorientato dai severi giudizi della gente, non sapeva più cosa fare. Decideva, allora, di saltare in groppa all’asinello, assieme al chierichetto anche se, sotto l’eccesivo peso , l’animale aveva iniziato a piegarsi più del solito. 21
<< Apriti cielo >> , protestava la gente che aveva visto il frate e il bambino sulla groppa del somarello, parlando fra loro ad alta voce perché venisse sentito da tutti; << ma quel fraticello non si renderà conto che, tutti due insieme stanno affaticando eccessivamente quella povera bestiola la quale ,fra poco, cadrà a terra per l’eccessivo peso: si dovrebbe vergognare quel frate incosciente.>> A lui e al chierichetto, non rimaneva altro che scendere ,entrambi, a terra e proseguire con i piedi nel fango. Ma qualche maligno, che aveva seguito il comportamento del frate e del bambino, non riusciva a trattenersi dallo sbottare. << Sono proprio strani quei due. Camminano con i piedi nel fango, quando potrebbero, tranquillamente , salire in groppa al somarello ,anche se è un po’ acciaccato, al quale non gli fa né caldo né freddo camminare nel fango con quei grossi zoccoli che ha sotto alle zampe. Stufo di essere continuamente oggetto di pesanti critiche da parte della gente che incontrava per strada e che non trovava di meglio di lamentarsi per il loro comportamento, il frate, rivolgendosi al chierichetto, sulle cui spalle appoggiava il braccio destro, sbottava: << come hai potuto vedere e sentire, qualsiasi cosa facciamo la gente trova sempre da ridire e io sono proprio stufo: tu cosa ne dici? >> Il ragazzo, che condivideva appieno le sue lamentele, rispondeva : << per me, su o giù dalla groppa del somarello non fa differenza. E’ lei che decide ,ciò che è bene e ciò che e male. Mio nonno Asdrubale>>, aggiungeva guardandolo negli occhi, <<quando era arrabbiato con la nonna che lo criticava per ogni cosa, sbottava; “” più le teste sono vuote e più le lingue sono lunghe””. << Saggio proverbio quello di tuo nonno >> osservava il frate, 22
mentre accarezzava la schiena pelosa del somarello che, con i suoi occhioni spenti , li stava osservando. << Ora sai cosa ti dico>>. soggiungeva, << ognuno al mondo deve fare quello che gli sembra giusto, senza badare a quello che dice la gente ficcanaso, curiosona e invadente la quale, in ogni cosa, trova sempre qualcosa da ridire. Anzi, a questo proposito, domenica durante la predica, esprimerò con forza questo mio pensiero a tutta la gente che seguirà la Santa Messa, fra le quali spero, ci sarà anche quella che ci ha severamente criticati.>>
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Burgio Guido 8888 Non ero mai stato protagonista in vita ma lo ero diventato con la mia morte: la mia faccia nera sui giornali Times e le Figarò dove gli occhiali erano pendenti sul mio grosso naso, Solo il New England aveva fatto cenno ad una mia possibile innocenza. Venivo inquadrato nel braccio della morte, descritto ogni mio movimento, era la curiosità del popolo ad animare quattro canali televisivi, non la pietà. Del resto chi avrebbe avuto pietà per la morte di un negro del Bronx ? Finalmente da morto ero protagonista : il mio corpo inerte disteso su una lastra di marmo bianco, coperto da un lenzuolo che lasciava scoperti i miei piedi. La mia bocca era fasciata, talmente stretta da simulare un sorriso sulle guance, sotto i miei occhi le borse avevano assunto il colore verdastro della morte. Prima di questo ultimo show da protagonista avevo condiviso la mia triste esistenza con la mia solitudine in una cella nel braccio della morte, parlo di condivisione perché quando tutti ti abbandonano la solitudine la senti come amica saggia e pietosa, addirittura ti da fastidio quando questo eterno silenzio viene spezzato dai passi dei carcerieri L’amico silenzio un giorno fu rotto dal ronzio di una mosca; non capivo da dove fosse entrata, ma divenne la compagnia delle mie confidenze, le parlavo di me e di Martina. Una volta la presi e carezzandola la invitai a gustare il dolce domenicale con la promessa che non mi avrebbe abbandonato “ sono gli ultimi trenta giorni di vita, le dissi, rimani con me “ Un giorno “speranza”, il nome che avevo dato alla mosca, non tornò e da quel momento la mia noia ebbe sfogo nel contare e ricontare i mattoni della mia cella e quelli del lungo corridoio che si parava illuminato a giorno dinanzi la mia grata. Nessuno parlava con me, i carcerieri evitavano il mio sguardo ed accompagnavano la posa del cibo, chiamandomi –sporco negroSolo la sera di venerdì spingendo la testa fra le barre avevo notato un numero scritto in rosso 8888 ed avevo chiesto a satana, il capo dei carcerieri cosa volesse dire. Tra una risata e l’altra mi spiegò che 24
ero nel braccio della morte da otto anni, mi avrebbero ucciso fra otto giorni e la sentenza sarebbe stata eseguita con otto scariche elettriche potentissime che mi avrebbero annientato in otto secondi. Non ebbi neanche la forza di piangere e sprofondai il mio viso nel cuscino. L’ora d’aria, vissuta con quattro guardie era il massimo giubilo dopo tre giorni trascorsi in isolamento, quel giorno mi lasciai scivolare per terra per catturare, fuori dal loro sguardo, un verme che deposi velocemente in tasca. Quella sera, felice per la insperata compagnia, estrassi il verme dalla tasca ma lo trovai morto, peccato, lo avevo mentalmente chiamato “desiderio” E desiderio era stata la storia con Martina: -era il dicembre del 1986 e mi trovavo nella povera casa di Martina, dopo mesi di fantasticare, “farai il bravo ? “ mi aveva chiesto, “sarò un angelo” avevo risposto. Ero li a guardare Martina col regalo fra le mani, una settimana da Pedro a scaricare tutto il giorno, avevo chiesto qualcosina in più ma questi aveva risposto che già era tanto quanto mi dava, considerando che ero un negro. Dio che angoscia, erano quarantadue anni che mi sentivo disprezzare, a scuola le bambine mi allontanavano, raramente i compagni mi rivolgevano la parola ed anche gli insegnanti apparivano infastiditi dal mio colore. Divenuto ragazzo le mie storie sentimentali erano amplessi immaginari con i personaggi dei romanzi rosa, l’unica storia di sesso Lola, una prostituta trentenne, che esercitava a due passi della chiesa della contea, forse me ne ero innamorato, ma lei esprimeva schifo per me e spesso mi gridava “negro che aspetti, il tempo passa “ A quarant’anni avevo conosciuto Martina, commessa al Mac Donald della dodicesima strada, bella moretta con occhi verdi in contrasto affascinante col cappellino rosso e giacchetta blu e fu durante il mio frugale panino che mi si avvicinò e mi chiese “perché sei tanto triste ?” “ Non immagini ? sono solo e nessuno vuole avvicinarmi “ “io ti avvicino, ti chiamerò presto al telefono” aveva concluso riscaldandomi con i suoi occhi verdi. 25
Ecco, dopo giorni a guardare il calendario, stanco, giunse la chiamata di Martina “ certo che sarò bravo “ “dai mi dicevo, dai schiuditi mio sogno” Ero dinanzi la sua porta, jeans a festa, camicetta bianca, spruzzata di Chanel ed occhiali in tasca “sei favolosamente bella “dissi non appena la sua dolce figura si parò sulla porta “dai metti gli occhiali, mi disse, mi piaci lo stesso “ Una donna mi diceva che le piacevo ! mi pareva impossibile. Guardava divertita le tavolette di cioccolato che scivolavo sul tavolo e durante la caduta di un torroncino le presi le mani. “sai cosa ti succederà quando sapranno che stai con un negro” dissi esitante “mia madre capirà, “rispose Martina con un bel sorriso Mangiammo e bevemmo il vino che suo zio Guglielmo le aveva portato da Napoli. Quello fu l’inizio della nostra intimità, la mia prima volta con una donna “per bene” Durante la notte avvertimmo rumori strani all’esterno della piccola casa, scroscio di passi e brusii di voci, fui per alzarmi quando la piccola porta fu abbattuta e cinque loschi figuri si pararono ai nostri occhi. Fummo presi a forza, un tipo che sembrava indiano mi gridò “sporco negro questa donna è per noi “ qualcuno mi sferrò un colpo alla testa. Mi risvegliai con le manette ai polsi, quattro carabinieri d’intorno e da un lenzuolo bianco steso per terra un lago di sangue, era Martina, dilaniata da ferite con gli occhi fissi all’infinito. Fui processato con rito frettoloso e sommario, testimoni affermavano che mi avevano visto entrare con Martina nella sua casa. Fui condannato ad otto anni di reclusione nel braccio della morte, pronto allo scadere della data ad offrire la mia vita per un reato non commesso, per un reato che aveva distrutto la mia anima e la mia voglia di sognare e pensare.. Nessuno credette alla mia verità tranne Lorenzo, un peruviano sorpreso a vendere droga nei bordelli di Chigago, che trovandosi dinanzi ad una rissa col morto era stato riconosciuto l’unico colpevole, due storie simili dove a pagare viene scelto il debole 26
Alle mie lacrime che non volevano più scendere Lorenzo diceva “Tobia, ogni disperazione ha un senso, Dio vuole così “ “ e Dio permette, rispondevo che si uccidano così degli innocenti ? “ “non sempre è chiaro il disegno di Cristo, sospirava Lorenzo, spesso non ci è consentito né siamo eletti a capire il disegno del nostro Signore” Erano passati otto anni, ed alla mezzanotte di quel giorno l’ottavo giorno, alle ventidue il boia avrebbe scaricato sul mio corpo otto micidiali scariche elettriche che mi avrebbero ucciso nel tempo massimo di otto secondi. Abbracciai Lorenzo che mi si inginocchiò davanti “che Iddio possa darti la forza di perdonare “ “ Lorenzo, singhiozzai, la società mi ha sempre tolto tutto ed ora la vita” Percorrevo quei lunghi corridoi illuminati a giorno, non riuscivo più a contare i mattoni, mi sembrava una scia buia, un ingresso all’inferno, però pensando a Lorenzo mi sentivo bene, avevo avuto un dono dalla vita, conosciuto un fratello, un granello di umanità bello e caldo come il sole. Giunti in una grande sala bianca fui sospinto su una sedia alta in ferro ai cui lati erano intrecciati fili elettrici. Mi furono bloccate le gambe, i polsi e la testa con guaine metalliche, mentre dinanzi ai miei occhi almeno una dozzina di persone erano pronte a guardare lo spettacolo, sarei stato protagonista, io che non avevo mai avuto peso per nessuno sarei divenuto intrattenitore. Non avevo più paura, non avevo pensieri, sentivo di dovere ridere e risi, piano ma poi sempre più forte. Mi fu bendata la bocca, nel silenzio scorsi un uomo col cappuccio bianco, si chinò su di me, mi strofinò dell’alcol sulle braccia e mi guardò negli occhi. Ci guardammo, il suo affanno si univa al mio, il suo cuore era un tamburo quanto il mio, i suoi occhi entrati nei miei erano umidi di lacrime. Con la prima scossa, sentii saltarmi il cervello e poi scoppiarmi le vene, e poi bloccarmi il respiro, ebbi la forza di implorare gli occhi verdi di Martina. All’angolo della stanza il mio boia piangeva 27
Calza Corrado COME BAMBINI SULLA LUNA Ho sempre avuto la fortuna di poter viaggiare. Fin da piccolo. Allora si chiamavano aeroplani e mi portavano al mare dalla nonna in Sicilia o negli Stati Uniti, quando papà era in “Extended Duty” (per noi più prosaicamente “trasferta lunga”). Poi, per lavoro, ho seguito da vicino lo sviluppo dell’industria aerospaziale e oggi, quasi con la stessa facilità di allora, viaggio su e giù dagli insediamenti lunari almeno tre volte l’anno. Era un mio sogno, fin da bambino, quando immaginavo di incontrare lassù i proverbiali omini verdi con le antenne e il naso a trombetta. Oggi però, ogni volta che alluno, non riesco a evitare una sensazione sgradevole. Mi prende quando supero l’area dello spazioporto riservata agli addetti ai lavori ed entro nella zona aperta al pubblico. Mi guardo attorno e ritrovo gli stessi occhi incantati, la stessa luce fredda e gli stessi colori abbaglianti, la stessa aria asettica con gli stessi odori artificiali, la stessa musica banale, la sfacciata opulenza dei negozi di lusso, la stessa pubblicità ammiccante e aggressiva che ho appena lasciato sulla Terra. Le stesse scale mobili e gli stessi ascensori panoramici. Persino la stessa interminabile fila fuori dalle “Rest Room” riservate alle donne e la stessa calca dei passeggeri concentrata ostinatamente davanti alle sole carrozze centrali dei vettori pneumatici di collegamento. Davanti all’ennesimo totem interattivo “Partecipa al sondaggio. Scarica il tuo omaggio”, il fanciullino che è ancora in me si ribella: «Ma siamo sulla Luna!» Mi dice. «Dovrebbero esserci gli omini verdi con le antenne e il naso a trombetta e non un touch-screen che ti regala un buono sconto da pochi centesimi.» Ecco, alla fine, abbiamo esportato il medesimo format terrestre – e con esso gli stessi riti e nevrosi – anche qui. Evidentemente ci piacciono 28
proprio questi cosiddetti “non luoghi” – è da quando sono piccolo che li sento chiamare così – e quindi abbiamo lasciato che colonizzassero prima ogni angolo della Terra e ora anche il suo satellite naturale. «È stato necessario – sostengono gli psicologi – per favorire l’adattamento di chi si è trasferito e aiutarlo a combattere la sindrome di Ulisse: la nostalgia di casa.» Ma io ho degli amici d’infanzia che sono venuti a vivere qui, in pianta stabile, proprio per fuggire da una casa fatta di mille “non luoghi” uno accanto all’altro. Qualcuno aveva anche altri motivi, se ricordo bene, ma lasciamo perdere. Alcuni di loro furono persino tra i primi a imbarcarsi sulle navi cargo dei Fondatori. Ingegneri e architetti spaziali insieme a tecnici specializzati, medici e urbanisti che partivano inseguendo il mito dell’altrove. Con un grande sogno nella tasca della tuta, in precario equilibrio tra il coraggio di inventare una sfida incredibile e l’incoscienza di affrontare difficoltà imprevedibili. L’entusiasmo innocente e folle dei bambini. Sono partiti per dare forma concreta a un archetipo dell’immaginario umano, chiuso nel cuore di tutti noi viaggiatori fin da quando, ancora mezzi scimmioni, cacciatori e raccoglitori nomadi, alzavamo gli occhi al cielo e fantasticavamo di poter raggiungere quel territorio lontano e carico di magia. I miei amici hanno gettato le fondamenta di questo imponente progetto guidati da una “visione” – usavano quest’espressione perché in realtà nessuno in quel momento aveva le idee troppo chiare. Li hanno seguiti altri astronauti, giunti a bordo di spedizioni successive, organizzate per completare il lavoro. Erano uomini questi che però avevano in mente un disegno molto più preciso. All’inizio, inevitabilmente, si trattò di “colonie” a stretto uso militare, seguite poco dopo, altrettanto inevitabilmente, da “insediamenti” civili come questo dove mi trovo ora, smarrito 29
come sempre. I Fondatori, lo so, sognavano tutt’altro. L’Ariosto, Verne, Welles o i più moderni Asimov e Clark e di certo nei loro progetti non c’era un’altra collezione di “non luoghi” che crescono ovunque come funghi dopo una notte di pioggia. «Ci siamo fatti un viaggio di quasi 400 mila chilometri per fare, secondo te?» – Mi hanno spesso domandato amareggiati. E allora, amici, dove siete? Ritroviamoci! Dobbiamo partire di nuovo e dobbiamo farlo assieme. Dobbiamo andare più lontano, ancora più lontano e riconquistare lo spirito, il senso vero del viaggio. Porteremo con noi quanto meno bagaglio possibile, come i pionieri di un tempo, e laggiù, oltre l’ultima stella conosciuta, dove tutto è altrove per davvero, incontreremo finalmente gli omini verdi con le antenne e il naso a trombetta, come sognavamo quando eravamo bambini.
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Ciaprini Marica SPIRITS Era una notte particolarmente fredda, evento assai singolare, nei giorni precedenti al Natale la temperatura nella città natia di Ascanio non scendeva mai sotto lo zero. Assonnato e stanco dalla lunga giornata, decise di ascoltare della musica. In quel momento risuonava una canzone molto in voga “I got guns in my head and they won’t go, Spirits in my head and they won’t go…” “Adoro Spirits”, Ascanio alzò leggermente il volume per abbandonarsi definitivamente al mondo dei sogni. La mattina successiva nella camera da letto irruppe bruscamente la mamma, spense la radio ancora accesa: “È ora di alzarsi, sono già le nove.” Velocemente balzò giù dal letto, afferrò i primi indumenti trovati sulla sedia per vestirsi alla bene e meglio. Si soffermò sul calendario appeso al muro e notò la data cerchiata in rosso, 22 dicembre. Questo voleva dire solo una cosa: erano iniziate le vacanze natalizie. Si rallegrava per le giornate di divertimento e per l’arrivo dei doni, ma era qualcos’altro ad elettrizzarlo. In occasione delle feste, sua sorella Elsa tornava dalla metropoli in cui si era trasferita per studi universitari. “Sbrigati a scendere, ti aspetta una sorpresa in cucina!” Ascanio la vide di nuovo, “finalmente”. Strabuzzò gli occhi dalla felicità, le avvolse dolcemente il collo e posò lo sguardo su un pacchetto di dolci. Erano le ciambelle mosto, prodotto tipico del loro paese e dei giorni di festa. Simboleggiavano i profumi e i sapori della tradizione, Ascanio ne andava matto. “Scimmietta, piano, così mi soffochi! Sono felice anch’io di vederti, ma guarda come sei cresciuto in pochi mesi! Tra poco sarai più alto di me. Adesso, facciamo colazione insieme?” “Ti sbagli, da settembre ad oggi è moltissimo tempo! Ti perdono perché sai prendermi per la gola!” Si dava così il via al periodo natalizio e gli appuntamenti fissi erano già stabiliti. La prima tappa consisteva nel scegliere il regalo di Ascanio e quest’anno aveva le idee più chiare del solito. In una bottega, non lontano da casa loro, lavorava un artigiano dalle mani 31
d’oro, realizzava dei piccoli giocattoli in legno. Rimase rapito dalla particolarità di una trottola sulla quale poteva incidere qualsiasi cosa desiderasse. Quel piccolo oggetto rifletteva il romanticismo e l’attenzione ai dettagli del piccolo ometto. Era diverso dai coetanei, la sua sensibilità non era così diffusa e questo lo rendeva un emarginato. Riusciva persino a cogliere il profumo dell’aria fresca di quelle giornate, assaporava ogni momento come se gustasse una cioccolata calda. Non risentiva della differenza di dodici anni con Elsa, la loro unione era invalicabile. A volte giravano senza meta, altre fecero un giro dei presepi più belli. L’importante non era il dove, ma il come. Macchina fotografica al collo, rullini di scorta e la giornata non poteva considerarsi conclusa se non dopo il passaggio in camera oscura. Il risultato non era sempre soddisfacente. A chi importava? Erano i ricordi da conservare il vero obiettivo. Forse Ascanio era solo un bambino e conosceva solo una faccia del mondo. O era la presenza della sorella. Magari non conosceva ancora le complessità della vita ma sapeva che quei giorni sarebbero stati le fondamenta della sua serenità presente e quella avvenire. Quell’anno arrivarono dagli Stati Uniti i cugini del papà, portarono allegria, leggerezza e racconti ammalianti per un giovane ragazzo curioso di un mondo così lontano dal suo. “Come on, young boy, we are waiting for you in the USA!”, lo elettrizzò quell’idea e iniziò a fantasticare. Chissà cosa avrebbe fatto nel futuro, si vedeva padrone del mondo, nel pieno delle sue energie. Nulla avrebbe arrestato le sue ambizioni di esplorare il mondo. Ascanio ubriaco di felicità, si ritirò nella propria stanza. Accese la radio e si buttò sul letto. “Il più bel Natale della mia vita!” La mattina successiva iniziò con un deja-vù, una musica familiari stava risuonando nell’aria: “… And I don’t want to see another night lost inside a lonely life while I’m here. I got guns in my head and they won’t go. Spirits in my head and they won’t go…” Di nuovo quella canzone, Spirits. Una coincidenza bizzarra, studiò con attenzione il calendario ed era di nuovo il 22 dicembre. 32
Era possibile tornare indietro nel tempo? No, non aveva più dieci anni, bensì venticinque. Viveva come freelance e faceva il fotografo come aveva sempre desiderato. I soggetti immortalati non erano più i presepi di Natale, ormai era un professionista affermato. Viaggiava gran parte dell’anno e solo nella sua vecchia cameretta si sentiva davvero a casa. Era proprio lì che si era addormentato con il gruppo The Strumbellas di sottofondo. La loro melodia rimase nell’aria per tutta la notte in un loop continuo. Nel sogno ripercorse un passato di cui sentiva la mancanza, specialmente da quando Elsa se ne era andata improvvisamente per sempre senza preavviso. Non riusciva a lasciar andare un passato a cui si aggrava per continuare a sopravvivere, non perdonava la sorella per non averlo nemmeno salutato un’ultima volta. In fondo, cosa sarebbe davvero cambiato? Nulla. Era il momento di voltare pagina, i ricordi lo avrebbero sempre riportato alle origini. I suoi trascorsi non li avrebbe potuti cambiare, ma il futuro era tutto da scrivere. Aveva il libro della sua storia tra le mani e lui era il narratore. L’universo lo stava chiamando di nuovo e non sarebbe stato necessariamente peggio del passato. “Sarà diverso”. Stava ricercando il suo spirito da ragazzino entusiasta. Qualcosa interruppe le sue riflessioni. Un bambino bussò con energia alla porta della sua camera: “zio stai ancora dormendo? Nonna ha comprato le ciambelle al mosto ed è appena rientrata. Se non scendi subito in cucina, non ne troverai neanche una!”. Ascanio rise finalmente di cuore e guardò quegli occhi scuri vivaci mentre lo fissavano con insistenza, vedeva se stesso quando aveva quell'età ma scorgeva anche il sorriso caldo di Elsa. “Sarà un gran bel Natale!” aggiunse “Preparo la macchina fotografica e scendo, scimmietta. Quest’anno faremo un album senza precedenti, sarai il mio assistente. Ma guai a te se non mi lasci nemmeno una ciambella!” 33
Ciullo Nunzio IL LUOGO DELLA MEMORIA Arrivo alla villa insolitamente puntuale. E’ un tardo pomeriggio di inizio estate, fa ancora caldo. Mi viene incontro un tipo con l’orecchino e il gel nei capelli, che si presenta come Lello. Dice che mi stava aspettando. Dice che – se voglio – possiamo darci del ‘tu’. Dice che di persona sono più simpatico che in copertina. Dice molte cose. Io avrei solo voglia di andare in albergo e farmi una bella doccia, che mi lavi di dosso i pensieri e la fatica di essere qui; ma non è ancora il momento. Mi limito a rispondere a Lello frasi di circostanza, adducendo a scusante la stanchezza del viaggiatore. E’già tutto pronto per il sound-check, perciò tiro fuori dal baule dell’auto il fodero con dentro la chitarra, tiro fuori la chitarra dal fodero e la imbraccio, avviandomi lentamente sul palco. Una brezza pare levarsi dagli alberi vicini, che allungano le loro braccia verso me, asciugando la mia fronte madida. Cominciamo a provare il livello dei volumi, il fonico mi chiede di abbozzare qualche nota per equalizzare i suoni, sembra abbastanza sicuro del fatto suo. L’impianto è buono. Ci sbrighiamo abbastanza presto, così riesco a congedarmi momentaneamente dallo staff e a ritagliare un’ora per me. Salgo in auto e, imboccando il vialetto di breccia che conduce all’uscita della villa, il profumo delle begonie invade l’abitacolo; i miei pensieri si fanno densi. Non mi capita spesso di suonare, come oggi, al di fuori del mio circuito abituale; infatti Gianni si è un po’incazzato. Gianni è il mio manager. E’ un brav’uomo, lo so che si preoccupa per il mio lavoro – oltre che per il suo – ma è un abitudinario e io a volte ho bisogno di fare di testa mia. Io so benissimo perché sono qui. Anni fa questa villa apparteneva alla mia famiglia. Mio nonno Alfredo l’aveva ereditata da suo padre Mario, il quale l’aveva fatta costruire su un terreno prima coltivato a granturco, piantandovi anche dei pini e realizzando aiuole di begonie, calendule e bocche di lupo. Si era, tuttavia, riservato un fazzoletto di terra per coltivare 34
quanto bastasse al fabbisogno proprio e di sua moglie, Elena. Per il suo innato esotismo, il bisnonno Mario si era rapidamente guadagnato la fama di eccentrico. Da bambino venivo qui coi miei genitori a trascorrervi il pranzo della domenica e, nel pomeriggio, mi attardavo a passeggiare con nonno Alfredo lungo i viottoli che separano le aiuole dai pini, immerso nella frescura della loro ombra. Mio nonno mi raccontava della guerra, di quella volta che, tornando a casa, era stato di poco mancato da una raffica di mitragliatrice di un aereo tedesco che volava a bassa quota, di suo fratello Vito partito per la Spagna e tornato quasi come se fosse un altro. Io ero ipnotizzato da quelle storie e lo ascoltavo in silenzio. Dopo un po’arrivava puntualmente mia madre dicendomi che dovevamo andare via, perché l’indomani sarei andato a scuola e dovevo fare i compiti. D’estate, invece, appena finita la scuola, mi trasferivo nella villa dei nonni, dove passavo buona parte delle vacanze. Mi piaceva nascondermi tra le piante di granturco a respirarne l’odore, anche se non erano poi tante e mia nonna Rita riusciva a scovarmi senza troppe difficoltà. Poi mi accompagnava dentro la villa e mi chiedeva di andare nel ripostiglio a prenderle una bottiglietta d’aranciata gassata, perché aveva sete. Quando gliela portavo, mi rispondeva sempre: “E’ per te”. Con nonno Alfredo spesso giocavamo a briscola, di cui lui era appassionato, su un tavolinetto da giardino messo fuori al porticato di casa. Ricordo che era bravissimo (“tutto sta” – diceva – “nel tenere a mente le carte già uscite”), infatti mi ‘stracciava’ regolarmente; però, comunque, mi concedeva la rivincita con grande sportività. Qualche rarissima volta, quando il nonno forse era un po’ più stanco o pensieroso, riuscivo addirittura a conquistare una ‘mano’. Allora, notavo che sul suo volto affiorava un’ombra di delusione; perciò gli lasciavo vincere la ‘bella’, senza troppo battagliare. In quel modo, la sua espressione tornava serafica. Finchè i miei nonni furono in vita, quell’oasi incontaminata che, per me, era la loro villa si conservò intatta, come un luogo magico. Quando mia madre la ereditò dai suoi genitori, emersero 35
dei problemi. L’appezzamento di terreno che il bisnonno Mario aveva riservato alla coltivazione del granturco, col passare degli anni si era – ormai – impoverito e l’esigua superficie destinata alla coltura rendeva difficoltosa la maggese di grano o cereali, da seminare con le moderne ma ingombranti macchine agricole. Quella terra che, un tempo, era bastata all’approvvigionamento di due generazioni, improvvisamente non era più fruttuosa. Inoltre, la villa richiedeva spese di manutenzione piuttosto cospicue, non solo per la potatura degli alberi e la cura del giardino circostante ma anche per interventi conservativi della struttura dell’edificio. Mia madre non aveva esperienza nell’amministrare una tenuta del genere, che era invecchiata insieme ai miei nonni; mio padre, tipo pragmatico, invece proponeva di vendere la villa “finchè stava ancora in piedi”. Motivi affettivi da parte di mia madre, tuttavia, si frapposero alla realizzazione di questo piano. Complici le pesanti tasse, in breve i miei si videro costretti, per far fronte ai costi della villa, a chiedere un prestito bancario. Il meccanismo di tale operazione è semplice ma subdolo: l’istituto ti eroga la somma che chiedi, limitatamente al valore della garanzia presentata per la restituzione della somma, aumentata di interessi piuttosto elevati. Ciò ti arricchisce fintamente, risolve i tuoi problemi correnti ma moltiplica quelli futuri, che magari ricadranno sulle generazioni successive. E’ facile cadere in un ingranaggio simile, quando si è alle strette e, una volta che si scopre il trucco, ci si accorge che è troppo tardi. Così fu per i miei, i quali si trovarono – a un certo punto – nell’impossibilità di onorare gli impegni assunti con la banca; quest’ultima, dunque, iscrisse ipoteca sulla villa di mia madre e, in seguito, ne acquisì la proprietà. La banca, nel frattempo, era cresciuta esponenzialmente – soprattutto dopo l’accorpamento con piccoli istituti bancari sparsi nella provincia. In poco tempo aveva conquistato non solo prestigio ma anche fiducia da parte della comunità, molto grazie ad iniziative culturali che organizzava nel periodo estivo – anche per sopperire alle carenze del disastrato Comune. La banca mirava a porsi come un’ente paraistituzionale: era in atto una vera e propria manovra politica. 36
Dopo la vendita della villa lasciai la città, disgustato da quella vicenda e colpevolizzando – forse eccessivamente – i miei genitori, per non aver saputo gestire la situazione in modo adeguato. Mi ero appena diplomato e, grazie a una piccola somma risparmiata, andai a Parigi per studiare chitarra e suonare ovunque mi capitasse, guadagnandomi così da vivere. Le note sostituirono le mie parole, suonavo il mio dolore e la mia rabbia a chi volesse ascoltarmi. Stasera sono qui per questo. Ma non suonerò la mia rabbia. Cercherò note che ricordino a chi le ascolterà la bellezza di quel luogo incantato, di cui vorrei fosse mantenuta e tramandata la memoria, oltre me.
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Colombo Davide VENTI DI GUERRA, PIOGGIA DI PACE Il giardino, nel suo complesso, è diviso in tre parti, delle quali una è abitata dalle formiche di Akan Rez, un’altra dalle formiche di Brewdeen, la terza da quelli che ad Akan Rez chiamano ragni, a Brewdeen aracnidi. Secondo la leggenda, gli aracnidi furono i primi, in tempi remoti, a colonizzare il giardino. Giunsero dalle misteriose terre oltre la siepe e si insediarono tra il fogliame del rododendro. A lungo furono i dominatori indiscussi del prato: sottomisero con la forza ogni altra popolazione che, come loro e successivamente a loro, giunse in quel giardino, instaurando un regime di violenza e terrore. Non passava giorno senza che razziassero, depredassero, tessessero, divorassero. La loro società era brutale e promiscua; non erano rari, addirittura, osceni episodi di cannibalismo, i quali avevano luogo durante selvaggi riti di accoppiamento. Era una realtà che i restanti abitanti del giardino aborrivano, ma a cui non potevano opporsi: i ragni erano troppo forti, nessuno era in grado di contrastarli. Avrebbero regnato per sempre, se solo non fossero stati spazzati via dai venti velenosi che, senza preavviso, un giorno avevano investito il rododendro e la loro tana. Ogni altra specie di insetto del giardino, a lungo assoggettata ai soprusi degli aracnidi, interpretò quell’evento come una punizione divina, un castigo ai ragni dovuto all’efferatezza delle loro azioni. Alcuni raccontano che tra le foglie e i fiori del rododendro qualche aracnide si aggiri ancora, miracolosamente sopravvissuto ai gas venefici, e tessa piccole ragnatele, quasi invisibili, nel timore altrimenti di attirare nuovamente su di sé l’ira degli dèi. Nessuno sa se tali racconti siano veri; quel che è certo è che, dopo la caduta degli aracnidi, ad assurgere al ruolo di padroni del giardino furono le formiche. Il formicaio di Akan Rez sorge tra l’aiuola dei lillà e le montagne Gessocolorato. La civiltà che lo abita è la più progredita che il giardino abbia mai conosciuto: la rete di cunicoli sotterranea è complessa e ramificata; le pattuglie di esploratori trovano ogni giorno nuovo cibo e nuove risorse; le formiche che invece 38
rimangono al formicaio contribuiscono con il proprio instancabile lavoro a renderlo più solido, grande e confortevole. Tali traguardi sono il frutto di una profonda organizzazione, basata su un frazionamento delle mansioni funzionale ed efficiente. Ogni formica ha il proprio ruolo e il proprio scopo, a cui adempie grazie ad un’istruzione severa, impartita fin dalla schiusa dell’uovo. Il motto di Akan Rez, emblematicamente, è “Per la Regina! Per il formicaio!”, interpretato da ogni abitante della colonia come un solenne giuramento. Un universo completamente opposto è invece rappresentato dalle formiche di Brewdeen. Il loro formicaio sorge incastrato tra i rosei vasi di gerani e la siepe; è un territorio ostile, carente di cibo, in cui la lotta per la sopravvivenza assume connotati cruenti e crudeli. Per questo motivo, la popolazione di Brewdeen è sempre stata numericamente esigua; tuttavia, l’animo dei suoi abitanti è stato temprato dalle difficoltà imposte dall’ambiente avverso. Le formiche di Brewdeen sono conquistatrici, guerriere, cacciatrici. Danno molta importanza a forza e valore: gli individui più temerari e tenaci sono ammirati da tutti, imitati dai giovani. Spesso i cacciatori si sfidano in prove di coraggio, la più audace delle quali consiste nel recarsi tra le radici del rododendro, dove si vocifera vivano ancora alcuni terrificanti aracnidi. Chi supera tale prova è ritenuto degno del titolo di capo-branco e riguardato con ogni onore. Non è un caso che a Brewdeen si venerino le Tre Tenaglie, antiche formiche ascese al rango di divinità, le quali, secondo il mito, in tempi vetusti abbatterono, dopo tre giorni e tre notti di combattimento ininterrotto, il malvagio Scarabeo. Stanziatesi ai poli opposti del giardino, Akan Rez e Brewdeen convissero a lungo in pace. Ciascun formicaio, infatti, estendeva l’area del proprio dominio a una considerevole distanza rispetto a quella dell’altro, cosicché le interazioni tra le due civiltà furono per molto tempo labili. Con il susseguirsi dei cicli di luna, tuttavia, la popolazione di formiche del giardino crebbe considerevolmente, tanto che a un certo punto i rispettivi territori parvero ad ambedue le colonie insostenibilmente stringenti. Da un lato, Akan Rez aveva 39
bisogno di allargare continuamente i propri confini, di acquisire nuovi spazi, in modo da ottenere nuove risorse con cui fronteggiare l’esponenziale aumento di popolazione. Dall’altro, Brewdeen, formicaio di combattenti e conquistatori, con l’espansione di Akan Rez aveva assistito ad una progressiva riduzione dei propri territori di caccia, al punto che quelli ancora disponibili non erano più sufficienti per il sostentamento dell’intera colonia. Gli storici di entrambe le fazioni sono concordi nell’affermare che l’evento all’origine della guerra debba ricercarsi molto tempo prima del suo scoppio effettivo, in particolare a quando una squadra di esploratori di Brewdeen, di ritorno da una spedizione nel Labirinto dei Trifogli, danneggiò accidentalmente il cunicolo KG32T, sezione 4A, dell’avamposto di Tar Gaz, una base costruita da Akan Rez per controllare i territori al di là delle Lande dei Ciclamini. Akan Rez accusò Brewdeen di aver ordinato deliberatamente un attacco; Brewdeen negò e accusò a sua volta Akan Rez di aver – con il cunicolo KG32T – sconfinato in territori non di sua competenza. La situazione si aggravò quando una pattuglia di ricognizione di Brewdeen, in viaggio verso la tana dei lombrichi, scomparve misteriosamente nel nulla. Subito l’opinione pubblica di Brewdeen incolpò Akan Rez dell’accaduto, con una rabbia tale da poter facilmente sfociare in violenza. Un’escalation bellica fu scongiurata solo quando si scoprì che la pattuglia di ricognizione, percorrendo un sentiero il cui tracciato correva pericolosamente vicino al rododendro, era rimasta vittima della voracità di uno degli ultimi aracnidi che ancora abitavano quel luogo. Da quel momento i motivi di risentimento tra Akan Rez e Brewdeen non fecero altro che aumentare. Incursioni, diatribe, accuse reciproche erano ormai all’ordine del giorno e alimentavano il sentimento di astio e rancore che intercorreva tra le due superpotenze del giardino. Le formiche di Akan Rez disprezzavano quelle di Brewdeen, ritenendole selvagge e incivili; di contro, le formiche di Brewdeen biasimavano quelle di Akan Rez, rimproverandole di non seguire la vera fede e non venerare le Tre Tenaglie. Il clima di tensione così generatosi pervadeva ogni istante 40
di vita quotidiana dei due formicai. Nessuna formica transitava più nelle zone di confine; per i giovani fu reso obbligatorio un periodo di addestramento militare; il cibo fu razionato e la sua ricerca intensificata, a motivo della prospettiva di future necessità. La classe politica di Akan Rez propugnava un attacco preventivo, in modo da cogliere i propri nemici alla sprovvista e assumere quindi una posizione di vantaggio nel conseguente conflitto, ritenuto comunque come inevitabile. Si optò di rimettere la decisione al volere collettivo. Una prima consultazione sull’eventualità di un attacco ebbe esito negativo, ma quando una giovane formica morì in circostanze misteriose in prossimità della siepe, le frange più estremiste del governo di Akan Rez riuscirono a fomentare gli animi degli abitanti del formicaio e una seconda consultazione autorizzò un’incursione militare in territorio nemico. La Regina di Akan Rez dichiarò quindi guerra alle formiche di Brewdeen; la Regina di Brewdeen dichiarò di rimando guerra a quelle di Akan Rez. Le ostilità ebbero così ufficialmente inizio. Dopo qualche scaramuccia iniziale, le delegazioni diplomatiche dei due formicai - onde evitare un conflitto logorante, con ingenti perdite per ambo le parti – si accordarono per risolvere la guerra con un decisivo scontro campale: il vincitore avrebbe ottenuto il dominio dell’intero giardino, lo sconfitto si sarebbe invece sottomesso. Le formiche di Brewdeen accolsero la notizia con gioia: la battaglia, per loro, sarebbe stata un’ottima occasione per dimostrare il proprio valore. Quelle di Akan Rez erano invece più titubanti. Erano più numerose, meglio organizzate, più disciplinate: si chiedevano perché rischiare le sorti di una guerra che erano comunque destinate a vincere. La decisione non venne tuttavia revocata. La battaglia iniziò alle 18:30 di un caldo pomeriggio di fine agosto. Alle 18:34 il signor Smith, incalzato dalle gracchianti insistenze della moglie, finalmente si decise ad innaffiare il prato. Alle 18:36 raggiunse il giardino. Alle 18:37 afferrò la canna, aprì il rubinetto, e annegò i sogni di gloria di due interi eserciti in una pozzanghera di fango. 41
Di Sante Salvatore LA SFIDA Il sole cocente in un azzurro da cartolina faceva presagire una gara emozionante. Ogni volta che prenotavano la pista, siccome il gestore del circuito era amico loro, faceva sì che per quei cinque giri non avessero compagnia. L’asfalto rovente era pronto ad accogliere i bolidi. Dieci minuti tutti per loro. Cinque giri. “Su chi scommetti stavolta?”. La ricciolina in tribuna si tormentava una ciocca di capelli ruminando vistosamente una gomma. “Uhm...”, sospirò l’uomo stempiato stravaccato di fianco a lei sulla gradinata. “Stavolta sulla Mazda.” “Ok!” sentenziò la donna. “Se perdi fai la stessa fine di chi perde la gara”, sorrise indicando la linea di partenza. Lui sbuffò sollevando le spalle. Era lei quella entusiasta di assistere allo spettacolo. Ogni volta ci trascinava anche lui, gli toccava, erano stati scelti come testimoni. La ricciolina gettò uno sguardo all’orologio: ancora pochi minuti. I contendenti erano appaiati sulla linea di partenza. I motori ronzavano al minimo. Un’auto, una Mazda MX-5 1.6 del 2004, rosa metallizzato, 4 cilindri per 110 cavalli e una moto, una Hornet 600 nera dello stesso anno, 4 cilindri per 90 cavalli. La Mazda diede una possente sgasata. Il motociclista ruotò la manetta e la Honda sparò il suo ruggito a diecimila giri. Si accese il semaforo rosso. Entrambi sgasarono più volte, lanciandosi sguardi di fuoco da sotto le rispettive visiere. Verde: via! La moto pattinò leggermente, il pilota riprese in mano la frizione per non farla impennare e snocciolò tre marce in rapida successione. La Mazda, nonostante la trazione posteriore, era scattata fulminea e tallonava la moto, aiutata dalla spaziatura corta del cambio. Eccoli alla prima curva. Il pilota dell’auto vide la moto scendere in piega e lo stivale pestar giù una marcia; era la sua occasione e lo sapeva: quartaterza e via con l’ago del contagiri a settemila, a lambire la zona rossa. Quel motociclista faceva più difficoltà a impostare le curve 42
ed era proprio in uscita di curva che la Mazda poteva sorpassare, forte dell’appoggio e della tenuta delle sue quattro ruote. Così fu, infatti. L’MX-5 si fiondò dalla curva a pieni giri. Terza, quarta e già si era mangiata il breve rettilineo. Poco dietro, il motociclista, appena raddrizzata la moto, diede gas a manetta, spremendo la seconda a limitatore, a quasi 130 all’ora. Breve chicane, cambio di direzione, sinistra-destra. In moto era dura: spostarsi sulla sella, buttarla in piega e risollevarla velocemente non era un gioco da ragazzi per un centauro di cinquant’anni e novanta chili e che la moto la usava per qualche gitarella fuori porta o qualche passeggiata in collina. Il pilota dell’auto sorrise pensando proprio a tutto questo, mentre, comodamente adagiato sul soffice ma ergonomico sedile, sbirciava lo specchietto retrovisore per assicurarsi che lo sfidante fosse proprio dove si aspettava che fosse. “Adesso però arriva il rettilineo” ghignò la ricciolina sugli spalti. Il rettilineo era ben più lungo del precedente (che era di 300 metri), stavolta era quasi di un chilometro. Sotto la visiera oscurata dell’AGV multicolore, sebbene all’oscuro della sfida parallela che si stava svolgendo sulle tribune, anche il motociclista ghignò, pregustando il momento. Scartò a sinistra e prese a violentare il gas, tirando il collo alla terza marcia. Quarta, quinta, sesta: tac, tac, tac, tre scalciate furibonde e testa bassa, tutto raccolto in carena. 190-200-210 all’ora! Mentre affiancava l’eccentrica Mazda rosa si permise pure di staccare la mano dal manubrio per un cenno di saluto. Il pilota della Mazda lo sapeva e lo lasciava sfogare, anche perché l’auto arrivava al massimo a 190 mentre la moto poteva spingersi fino a 220, perlomeno indicati. Il tachimetro dell’MX-5 era fisso a 180 mentre vedeva la moto affiancarsi, superare e prepararsi alla prossima staccata. “Evvai!” esultò la ricciolina scattando in piedi come un pupazzo a molla e affibbiando all’uomo un pugno sulla spalla. Lui grugnì seccato, raggelandola con uno sguardo assassino. Aspetta a cantar vittoria, pensò. 43
Così, tra pneumatici urlanti, staccate da brivido, paurose sbandate e fuori-giri furibondi, alla fine la Mazda rosa tagliò il traguardo per prima, precedendo di un soffio la Hornet. “Cavolo!” imprecò il motociclista fermandosi ai box. “Per un pelo! Non mi è entrata la marcia in uscita di curva!” “Bene, ho vinto”, esclamò il pilota scendendo dall’auto. Si tolse il casco e una massa fluente di capelli biondi le ricadde sulle spalle. “Questo mese quindi i piatti toccano a te”, sorrise beffarda indicando il marito. Per non far torto al karma, per un marito deluso e sconfitto ce n’era un altro, sulle tribune, che si faceva beffe della riccioluta consorte a cui sarebbe toccato
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Di Simone Manuela UNA PROMESSA Ed anche un altro Natale è passato. Intorno a me, come sempre, il silenzio. Non ho più il senso del tempo, non saprei dire da quanti giorni, mesi ed anni sono qui; mi sembra di vivere una dimensione diversa, senza punti fermi, dove passato e presente si fondono ed il futuro è solo un pugno nello stomaco. Ma io non demordo, non smetterò mai di cercarti, di aspettarti, di sognarti, dovessi restare in questo maledetto posto per l’eternità. Qui non è rimasto più nessuno, continuo a girare per gli edifici deserti cercando una traccia, qualunque cosa mi possa riportare a te. L’aria è pesante, intrisa di sofferenza, angoscia e disperazione, non c’è speranza di salvezza, non c’è domani ma io non posso arrendermi, e continuo a cercare. Non potrei più separarmi da questo luogo: è l’unica cosa che, in qualche modo, mi fa sentire ancora vicina a te. A volte mi sembra perfino di sentire il profumo della tua pelle, è una sensazione così reale, potrei sfiorarla fino a percepirne la consistenza serica, ma è come se, appena materializzata, mi sparissi fra le dita. Come allora. Ed il dolore torna ad essere più acuto che mai, un dolore troppo grande, insopportabile, inaccettabile. Sarei felice, finalmente in pace, anche se ti sapessi affidata a qualcun altro. Pensare che hai trascorso il Natale scaldata dall’amore di una famiglia, aspettando di scartare quei pacchi colorati sotto l’albero che sai essere per te. Come quando correvi nella nostra stanza la mattina di Natale, mi svegliavi con un bacino e saltellavi felice mentre noi ci alzavamo. Ma i tuoi occhioni dolci, scuri come i tuoi morbidi riccioli non sono il lasciapassare ideale per questa soluzione. Non ti avrebbero mai affidata ad una delle loro famiglie. Il ricordo del giorno in cui arrivammo in questa eterna prigione è incredibilmente fervido, oggi freddo come allora. Lo stridere delle ruote sui binari annunciava la fine di un viaggio che non voglio ricordare. Avevi pianto e sofferto e questo per me era intollerabile, tu non piangevi mai, eri sempre gioiosa. 45
Eravamo così felici solo pochi giorni prima, ti piaceva tanto giocare con me e papà vicino al camino, ci sorridevi con le guanciotte rosse ed io ti abbracciavo stretta: la mia bambina, il mio amore immenso. Scendendo da quel treno l’aria gelida era stata un sollievo. Ti stringevo stretta a me, sentivo il tuo respiro affannato sul collo: eri spaventata e mi stringevi forte. Fra noi l’orsacchiotto dal quale non ti eri mai separata, fino ad allora. Non riesco a scacciare via i ricordi che irrompono così prepotentemente nella mia mente. Non c’è diga capace di frenarli, di arginare il pensiero di te e le emozioni sono vive e taglienti come allora. Nella mia mente un’unica preghiera: la mia bambina, non mi separate dalla mia bambina! Fu allora che ti sussurrai la promessa nell’orecchio, piano piano perché nessuno ci sentisse: “La mamma verrà a riprenderti, non andrò mai via da qui senza la mia adorata piccina, non aver paura vita mia, non perdere mai la speranza, saremo di nuovo insieme” ed alzando lo sguardo, fra le lacrime che mi bruciavano l’anima, vidi per la prima volta il cancello che stavamo per varcare, lo stesso cancello che ora è davanti ai miei occhi e che non ho mai più varcato per uscire, non senza di te. Ancora un altro Natale. E sono sempre qui, di fronte a quella scritta, per me eternamente al contrario: “ierf thcam tiebra”.
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Favaro Alberto DOMANI CI SARÒ Marco entrò in casa. Era fredda. Come sempre. “Devo pensare a una soluzione, non si può andare avanti così” pensò tra sé rabbrividendo. Andò in cucina ad accendere la stufa. Poi uscì per scaricare l’auto. Il bagagliaio era più carico del consueto. Oltre al solito cibo per gli animali e al rifornimento della dispensa, che la settimana precedente aveva lasciato completamente vuota, aveva dovuto portare una serie di utensili. Gianni, suo cugino, lo aveva chiamato per dirgli che i recenti temporali avevano creato notevoli disagi. Gli animali stavano bene ma in tutte le case c’erano stati parecchi problemi ed era meglio se veniva preparato. Gli aveva anche detto che eventualmente lo avrebbe aiutato volentieri e che, se avesse avuto le chiavi, ci avrebbe pensato lui a controllare. Marco, come al solito, lo aveva ringraziato e gli aveva ripetuto per l’ennesima volta che, anche se sembrava assurdo, quella vecchia casa era il suo rifugio, la sua casetta sull’albero, la sua grotta segreta, insomma era l’unico posto dove poteva e voleva stare da solo senza che nessuno vi entrasse mai. Dopo aver terminato di svuotare il bagagliaio, Marco prese lo zaino con il suo computer che aveva appoggiato sul sedile del passeggero e chiuse l’auto. Il computer. Avrebbe potuto lasciarlo nella stanza che aveva affittato nella città dove lavorava ormai da quasi quattro anni ma, anche se era sabato, quella sera gli serviva. Doveva studiare. Il lavoro di insegnante di sostegno, anche se sottopagato e poco apprezzato, richiedeva una preparazione continua e una dedizione assoluta. E lui aveva sempre sognato di fare quel mestiere. L’aveva sempre visto come una missione e ci si era sempre dedicato con il massimo impegno. E, finalmente, i primi frutti di tutti i suoi sforzi si stavano vedendo con Andrea, il bambino che aveva iniziato a seguire con una breve supplenza alla fine dell’anno scolastico precedente e che, per la prima volta nel corso della sua carriera, aveva avuto la possibilità di seguire anche durante l’anno successivo. 47
Andrea era un bambino difficile. Un caso di autismo gravissimo. Quando lo aveva visto per la prima volta se ne stava da solo in ultima fila a fissare la parete. Marco aveva provato di tutto per farlo uscire da quello stato ma nulla sembrava funzionare. Giovanna, la madre di Andrea, anche lei insegnante, a giugno, prima di andare al mare dai suoi genitori, lo aveva ringraziato per tutto il suo lavoro e per i suoi sforzi dicendogli che non aveva mai visto una persona così disponibile e amorevole coi bambini e che sentiva che suo figlio stava cambiando. Aveva concluso dicendo che era sicura che i semi del lavoro di Marco sarebbero germogliati nel cuore del suo bambino. Marco aveva ripensato alle parole di Giovanna per tutta l’estate che aveva trascorso in solitudine nel suo rifugio di campagna. A settembre, dopo aver ottenuto una nuova supplenza annuale nella stessa scuola, aveva ripreso il suo lavoro con rinnovato vigore ed entusiasmo anche perché sembrava che si stesse avverando quanto previsto da Giovanna. Andrea, anche se sempre chiuso nel suo mondo, appena lo aveva visto aveva sorriso e, col passare del tempo, aveva iniziato a interagire prima con lui e poi con i suoi compagni. Questo successo aveva fatto sì che gli sforzi di Marco aumentassero andando ben oltre i suoi doveri scolastici fino a fargli chiedere a Giovanna il permesso di trascorrere da lei i pomeriggi che non aveva occupati con i suoi impegni nelle associazioni di volontariato che seguiva. Giovanna aveva accettato di buon grado. La presenza di Marco in casa era un vero piacere sia per Andrea sia per lei. Da quando suo marito, esasperato dalla presenza di un bambino così difficile, se n’era andato, aveva sempre vissuto da sola dedicandosi interamente ad Andrea. Con Marco in casa poteva parlare con qualcuno e condividere le sue preoccupazioni per il figlio. Marco, poi, era un bel ragazzo, forse un po’ timido, ma sembrava apprezzare la sua compagnia e non solo in quanto madre di un suo alunno. Una sera, dopo aver messo a letto Andrea, gli aveva chiesto se voleva restare lì a vedere un bel film romantico. Marco aveva accettato 48
e la storia romantica era proseguita anche dopo i titoli di coda. Da allora i pomeriggi di Marco a casa di Giovanna avevano cominciato a diventare serate e anche notti ma solamente dal lunedì al giovedì. Il venerdì sera Marco andava a dormire nella piccola stanza che aveva preso in affitto in modo da poter partire il sabato mattina all’alba, senza disturbare nessuno, e andare a passare i fine settimana nella vecchia casa di campagna ereditata dai suoi genitori. Giovanna non aveva mai trovato nulla da ridire su questa sua abitudine fino alla sera precedente. Domenica era il compleanno di Andrea e, per la prima volta, avevano organizzato una piccola festa con alcuni dei compagni a cui Andrea sembrava essersi più affezionato. “Marco, non credi che sarebbe meglio tu rimanessi qui? Andrea se non ti vede potrebbe rimanerci male. Non vorrei che tutti i tuoi sforzi andassero in fumo” gli aveva detto. Marco era rimasto in silenzio per alcuni secondi. I due giorni nella casa di campagna da solo gli servivano. Aveva bisogno di uno spazio tutto suo. Facevano parte della sua routine. Ne sentiva la necessità. Non poteva però deludere il suo alunno, quel bambino che sentiva ormai come un suo figlio. E non voleva deludere neppure Giovanna. Le voleva troppo bene. Alla fine, le aveva risposto che doveva andare per controllare gli animali e verificare gli eventuali danni. Se non ci fossero stati problemi le avrebbe mandato un messaggio sabato in serata e sarebbe partito domenica mattina per arrivare in tempo per la festa. Rientrato in casa, Marco lasciò la borsa del computer sulla scrivania in salotto e cominciò a controllare tutte le stanze. I temporali non avevano creato problemi. Solo qualche macchia di umidità ma nulla di preoccupante. Poi uscì a controllare gli animali. Anche loro sembravano tranquilli e in salute. Scattò alcune foto alle oche. Le avrebbe mostrate ad Andrea. Rientrò in casa. Ora poteva prepararsi. Accese il computer. Vi inserì il suo cd preferito: i Pink Floyd, the dark side of the moon. Il miglior disco della storia. Mise il volume al massimo e aprì il file che aveva 49
scritto negli ultimi giorni. Iniziò a rileggerlo. Voleva essere sicuro di dire le parole giuste, di non confondersi, di non commettere errori. “Julia, so che non ci crederai ma dobbiamo smetterla. Lo so, lo so, ti capisco ma la nostra storia non può avere un futuro. Non possiamo continuare a vederci così nei fine settimana e non voglio che la nostra storia finisca male come con Tatiana. Ti ho mai detto cosa le è successo? Sì? Allora capirai anche tu che è meglio per noi finirla qui, non vederci più e…”. Marco rilesse le ultime righe. Era pronto. Era giunto il momento di vedere Julia e di chiudere quella lunga parentesi nella sua vita. Si alzò e prese le chiavi. Le urla e lo sparo proveniente dalla cantina furono coperti dalla voce immortale di Clare Torry. Marco risalì pochi minuti dopo. Era tutto finito. Prese il cellulare e mandò un messaggio a Giovanna. “Ho sistemato tutto. Domani ci sarò”. Andò in camera, si tolse i vestiti sporchi del sangue di Julia e andò a dormire. “Mai stancarsi di sera, poi non si dorme bene. I lavori fisici vanno fatti di mattina”. Glielo diceva sempre sua mamma. Julia l’avrebbe slegata e seppellita il giorno dopo vicino alla povera Tatiana morta di fame quando lui era stato ricoverato per un paio di mesi in ospedale per quella brutta frattura alla gamba. “Julia è stata sicuramente più fortunata” pensò tra sé prima di addormentarsi.
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Flori Angela FORSE UNA CIPOLLA IL MOVENTE DEL FRATRICIDIO L'anno 2019 addì 5 del mese di novembre alle ore 11 noi sottoscritti, ufficiali del Comando dei Carabinieri di Alatri, rendiamo noto di aver proceduto all'arresto di Versi Giovambattista, detto Titta nato a… -Signor Giovambattista, dove siete nato? -Brigadiè, vi state sbaliando! Non può essere un furto il ripigliarsi la roba propria. La cipolla pàtremo l’aveva voluta da sempre dare a me. A fràtimo Pacifico gliel’aveva imprestata, ecco. Poi la bon’anima di papà more, pace all’anima sua, e isso se l’è tenuta. Io lo dovevo denunziare ma ci ho un core bono, no accome a isso che ballerebbe di contentezza a vedemmi acciaccato pe’ la via. Eccellenza: che è colpa mia se ci ho il core accosì? -Mi scusi, signor Versi, ma lei è tenuto a rispondere alle domande del brigadiere. Dica adesso dove e quando è nato. -E che non c’è scritto là sopra? V’ho dato il documento. -C’è scritto ma lei lo ripeta, per l’identificazione. Poi ci dirà la sua versione dei fatti… che fa, piange? Su, su. Nato ad Alatri il 17 luglio 1936 ed ivi residente in via Palestro n. 7, identificato a mezzo carta di identità rilasciata dal Comune di Alatri. Sorpreso con orologio da taschino in argento, dal quale appare che lo stesso sia l'autore del reato di furto previsto dall'art. 623 commesso in data 4 del corrente mese, presumibilmente alle ore 17, in danno del signor Versi Pacifico, di lui fratello. Il qui presente dichiara… -Signor Versi, descriva il fatto, con l’indicazione del luogo e ora in cui è avvenuto. -Ora ora ve l’ho detto! Il giorno appresso che si morì pàtremo, pace all’anima sua, io e fràtimo ci incontrammo pe sistemare a tutto quanto. Il funerale, i manifesti da morto, la fotografia, le cose che mi dovevo pigliare io, quelle che voleva isso. Poca roba, brigadiè, perché pàtremo non teneva assai assai, pure se era stato no falegname che tutti ci chiedevano i lavori. Classe 1909: i falegnami s’arricchivano se tenevano l’arte. Poi hanno inventato i 51
mobili già pronti e alla gente di farseli fare non gli è servito più. S’è messo in pensione e è campato co quella fino a 110 anni. Capite, brigadiè? 110 anni! -Non divaghi, signor Versi! -Come? No, no, non vago mica. Allora: morto papà, sempre pace all’anima sua, non c’è rimasto praticamente gniente, solo la casa. Abbastava appena pe isso la pensione, figuriamoci. E la sanguisuga di fràtimo se n’è profittato. -Intende l’appartamento sito in Alatri, via Redi, 7? -Gnorsì. -Ma trattasi di edilizia popolare. L’appartamento in questione non è di proprietà, né può essere oggetto di eredità. - No, cioè sì. È casa popolare, però Pacifico ci abitava co papà, perciò tiene il sacrosanto diritto di rimanerci. Tutto il tempo che vuole, dice isso. Allora, dico io, allora, se tu ti resti in casa e te la pigli, perché vuoi fottere a me? La cipolla è mia, almeno la cipolla me la vuoi lasciare? Che è una fesseria, rispetto alla casa. -Intende l’orologio da taschino? -Gnorsì, la cipolla. Che poi a me l'orologio da polso mi dà veramente fastidio, mi pare che tengo addosso una manetta, co rispetto parlando. -Si dà atto che l’indiziato indica l’orologio da taschino che gli viene mostrato. L’oggetto, in argento, di forma tonda, a cipolla, protetto da un coperchio recante monogramma RT nella superficie esterna e, nella interna, l’incisione Cosa bella e mortal passa e non dura è d’elegante fattura, corredato di catenella. -E quando è entrato in possesso della suddetta cipolla? -Mi scusasse, ma voi brigadie’ non state attento. Scrivete, scrivete, epperò non sentite, co rispetto parlando. V’ho detto che me l’aveva voluta dare pàtremo bon’anima, più di trenta anni fa. Brigadiè, com’era bello, col gilé, la catenella e la cipolla. Il gilé pe isso era indispensabile, se lo sbottonò, sfilò la catenella e mi diede ‘sta benedetta cipolla. Io, che so’ sempre quel core bono che v’ho detto, quel giorno gliela lasciai, perché mi pareva addiventato triste 52
tutto a no momento. Isso amava la cipolla, ci misurava il tempo. L’aggiustava, il tempo, co quelle dita che sgrossavano le palanche epperò sapevano anche girare le rotelle minuscole delle lancette. Che ve devo di’: penso che sentiva il ticchettio battergli in petto e se riconfortava d’esse vivo. -Quindi lei la cipolla non l’ha voluta quel giorno, però poi l’ha rubata. E infatti risulta che l’oggetto è stato trafugato in data 4 novembre, giorno in cui suo fratello ha sporto regolare denuncia di furto. -Il grandissimo cornuto! L’ha fatto tutte le volte: papà mi dava una cosa? La voleva pur isso. Papà chiedeva un servizio? Isso non c’era mai. E quando papà teneva bisogno di qualcheduno a mette a posto gli attrezzi, puli’ la segatura, scartavetra’, ‘nzomma impara’ da garzone, chi c’era? Eh, chi c’era? -Chi c’era? -Io c’ero. Me so rimboccato le maniche, a undici anni, che manco avevo finito l’avviamento. Isso no, povero Pacifico! Ch’era nato co la guerra, già sfollato, e come gniente s’ammalava. E quando ch’è cresciuto? Non poteva fare il suo? No. Doveva andare a scuola, isso. Ma lo sapete che non ha mai voluto lavora’? Manco dopo, dopo de la scola. -Arriviamo ai fatti recenti, signor Versi. La cipolla che aveva lasciata a suo padre nel di lui appartamento, come è finita nelle sue mani? -Aridaglie! Ve l’ho detto ora! Defunto papà, pace all’anima sua, la cipolla era la mia, me la potevo riprende. Del resto che c’è sopra? -Che c’è? -C’è RT che vole significare Versi Tarquinio, cioè pàtremo, e anche, evidentemente, Versi Titta, che sono io. La P di Pacifico, come dimostrano le prove, non c’entra pe gniente. Glielo spiegai, ma isso era un mulo. Allora me la sono presa, Pacifico tentava di ripigliarsela, io tiravo e tirava pur isso. La catenella quasi si spezzava. Come al gioco della fune, avete presente? Io ho vinto e isso s’è arrovesciato in terra. -Colluttazione. Infatti il referto evidenzia un urto nella zona 53
parietale destra. -Cioè? -Cioè, cioè… l’impatto della caduta ha provocato lesioni interne di una certa gravità. Suo fratello ha appena avuto il tempo di telefonare a noi per denunciare il furto. S’è adagiato sulla sedia e non s’è rialzato più. -Ma non pò esse. Lo fa apposta, allora. Apposta, lo fa! -La velocità di impatto, l’angolo di incidenza… Suvvia, non faccia così. Signor Versi, ricomincia a piangere? -Signor Versi, su. Il Versi Giovambattista, ignaro del decesso di Versi Pacifico, incapace di ricostruire quanto accaduto, così difforme, a suo dire, dalle risultanze del suo diverbio, informato delle sanzioni nelle quali incorrerebbe qualora si dimostrasse la sua responsabilità nel decesso, recavasi le mani al viso piangendo. Poiché l'arrestato, avvertito della facoltà di nominare difensore di fiducia, non vi ha provveduto, i sottoscritti danno atto di avere informato dell'avvenuto arresto l'avvocato del Foro di Frosinone designato dal PM a norma dell'art. 97 del Codice di procedura penale. Si dà atto che l’unico familiare in vita dell'arrestato, un figlio residente a Sondrio, non è stato avvertito perché così espressamente voluto da quest'ultimo. Di quanto sopra è redatto il presente verbale in duplice copia. Fatto, letto, confermato e sottoscritto in data e luogo di cui sopra alle ore 12.
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Foti Antonio TERRE D’ACQUA DOLCE Era la prima domenica di primavera e nell’aria aleggiava il tenue e soave profumo delle viole e delle margherite. Le prime timide e fragili fioriture risollevavano l’animo ed il buon umore dei fedeli che si recavano in chiesa, di buon mattino, richiamati dalle note cadenzate di un’antica campana. Il clima era ancora incerto e dava segnali confusi di nuvolosità e schiarite come gli umori altalenanti di un bimbo inquieto e capriccioso. L’aria invece era più calda, profumata e di gradevole consistenza come una bella donna che con il sorriso sulle labbra ti accarezzava dolcemente. A Coniolo, un caratteristico borgo del Basso Monferrato, viveva nel silenzio e nella pace quasi irreale della sua casa Amelia Rostan, una simpatica contadina che con il proprio accurato lavoro quotidiano aveva reso la sua terra una piccola boutique del buon gusto. Ogni giorno iniziava la sua giornata fermandosi ad osservare la pianura vercellese con sullo sfondo il fascino e la bellezza ineguagliabile delle Prealpi che lambivano l’orizzonte come una cornice esclusiva e pregiata. Amelia amava contemplare quel paesaggio rurale che aveva imparato a conoscere, fin dalla prima giovinezza, quando come mondina aveva affrontato il duro lavoro nelle risaie. Quando vedeva da lontano i campi allagati ed osservava la crescita delle piantine del riso che spuntavano, quasi timide ed impaurite dalla coltre acquosa nella quale erano immerse, la sua mente si fermava a meditare con la lentezza di una clessidra appena capovolta. Allora il treno dei ricordi si muoveva lentamente nei meandri della sua memoria e con una velocità lenta e cadenzata si fermava nei luoghi dove aveva per anni lavorato per aiutare concretamente la propria famiglia e dove aveva inseguito, con la disinvoltura di una libellula, il sogno di una vita migliore. L’onda emotiva e sincronica dei ricordi prendeva il largo come un imbarcazione pronta ad uscire dal porto per affrontare anche il pericolo dei flutti. Davanti ai suoi occhi Amelia vedeva ricomporsi, come un grande puzzle colorato, tutte le immagini della sua 55
giovinezza quando possedere un abito nuovo, un paio di scarpe alla moda, un fiocco colorato tra i capelli e qualcosa di buono da mangiare significava toccare il cielo con le mani. Il livello di sofferenza e di privazione era di tale entità che ogni opportunità di lavoro, anche quella più scomoda ed impegnativa, offriva la possibilità di dare un calcio alla povertà ed a sfidare il destino beffardo con una grande ed indescrivibile voglia di riscatto. La stagione della monda cominciava circa un mese dopo la semina nella tarda primavera quando le piantine del riso cominciavano a crescere ed uscire dal proprio alveo come giovani virgulti alla ricerca del proprio spazio e della propria identità. Il lavoro durava meno di due mesi e consisteva nel liberare le neo piantine da tutte l’erbacce e le piante infestanti per evitare che crescendo soffocassero il riso nascente come un cappio ed un nodo scorsoio. Seguivano poi le operazioni di trapianto delle piantine negli spazi liberati dagli scomodi ospiti e con l’arrivo dell’estate le prime operazioni di raccolta. Le condizioni di lavoro era particolarmente dure, impegnative ed assorbivano, come in un pozzo senza fondo, anche per un periodo relativamente breve tutte le energie psico-fisiche delle lavoratrici. Occorreva metodo, resistenza, vista aguzza e tanta tenacia per tener testa ai ritmi ed ai tempi imposti per bonificare l’intera superficie giornaliera acquitrinosa assegnata alla squadra. La posizione curva con i piedi e le mani completamente immerse nell’acqua richiedeva una particolare concentrazione ed uno spirito di sacrificio soprattutto per superare l’impatto con le zanzare, i tafani, le rane, le bisce, i topi ed altri sgradevoli ospiti che popolavano indisturbati le risaie. Si rimaneva ogni giorno dalle dieci alle dodici ore a contatto diretto con l’acqua come in presenza di una compagna di viaggio invadente ed indiscreta che sapeva tuttavia far pesare la propria importanza. Era un lavoro assolutamente artigianale, regolato da rigorose ed antiche metodiche tramandate da generazioni di madre in figlia. Un lavoro che esprimeva tutta l’esperienza di ogni lavoratrice ed evidenziava il carattere e la determinazione nel raggiungere gli 56
obiettivi della squadra. Le mani delle mondine erano il solo strumento disponibile per togliere spazio e vita alle erbe infestanti, per proteggere le piante del riso da tanti pericoli incombenti e per ottimizzare le operazioni di reimpianto. Erano mani forti, decise ed esperte nei movimenti non meno di quelle degli uomini che venivano impiegati nei lavori delle risaie in misura molto più limitata e circoscritta. Si trattava di un lavoro tutt’altro che semplice e ripetitivo perché occorreva riconoscere a colpo d’occhio le erbe infestanti dalle piantine del riso, talvolta secondo la specie molto simili tra loro. Il carattere delle mondine emergeva soprattutto nei contesti ambientali più difficili dove oltre a quello che si trovava in acqua bisognava resistere anche alla pioggia ed alle precarie condizioni del tempo. Amelia si ricordava della forza d’animo e del coraggio di alcune compagne nell’affrontare gli insetti più sgradevoli e gli animali più viscidi ed insidiosi come le bisce. Ricordava con affetto l’aiuto e la disponibilità delle compagne più anziane che vedevano in lei la proiezione di ciò che poteva capitare anche alle proprie figlie. La loro sincera ed affettuosa amicizia gli era rimasta per sempre nel cuore come una dolce carezza materna e come una perla preziosa da custodire gelosamente. La sua mente amava navigare nel mare dei ricordi come una piccola imbarcazione che solcava le onde a vele spiegate e con il vento in poppa. Di ogni stagione vissuta nelle risaie ricordava luoghi, paesaggi, circostanze e soprattutto le compagne di lavoro con le quali aveva condiviso ogni fase della giornata dall’alba al tramonto. Nella giostra emotiva dei ricordi era come se il tempo si fosse volontariamente fermato per ricondurla per mano a ritroso in quel cammino già percorso. Provava un irrazionale piacere nel ricordare anche i dettagli e tutte le circostanze contigenti quasi per fugare il timore che l’avanzare dell’età potesse inevitabilmente volgere il suo vissuto nell’oblio del tempo. Alcune sensazioni gli erano però rimaste impresse nel proprio corpo come cicatrici che lasciano per sempre il segno. Avvertiva ancora la fatica fisica, il sudore, la sete, la secchezza 57
delle labbra, la sensazione di umidità persistente, l’arsura del caldo appiccicoso, l’odore rancido delle baracche dove dormivano e l’odore pesante dell’acqua stagnante nelle rogge. Il sole d’inizio stagione che batteva sulle risaie era quasi impavido ed indifferente alla presenza ed alla fatica delle mondine. La luce calda si rifletteva sulla coltre acquosa creando una caratteristica sequenza di lucenti bagliori che, ad intermittenza, s’incontravano per confrontarsi e parlarsi tra loro. La temperatura diurna saliva progressivamente fino a creare uno strano ed atipico contrasto tra il caldo e l’umido che rendeva ancora più pesante il lavoro delle mondine. L’esposizione al calore fin dalle prime luci del mattino si combatteva con un cappello a larghe tese di paglia e con un abbigliamento il più possibile leggero ed elastico. Per sopportare meglio il peso della fatica, la scomodità della posizione curva ma anche per scandire il ritmo del lavoro si cantavano per tante ore al giorno le più note canzoni popolari e si recitavano alcune divertenti filastrocche e poesie in dialetto. Sorridere e cantare in gruppo rafforzava il morale per affrontare insieme la lotta contro gli insetti, l’afa, il caldo ed aumentava la resistenza alla fatica, alla fame ed ai dolori reumatici. Il senso di appartenenza ad una squadra aiutava tutti i membri a condividere gli sforzi ed a raggiungere più agevolmente gli obiettivi prefissati ogni giorno. Lo spirito indomito delle mondine più esperte aiutava a difendere e sostenere anche le persone più fragili, come le giovani madri e le donne più anziane, al pari di una famiglia unita che riusciva a risolvere al proprio interno anche le situazioni più difficili e delicate. Ma accanto alle sensazioni fisiche più crude ed avvilenti emergevano con serafica leggerezza dalla mente di Amelia, come tanti giacigli d’acqua fioriti, anche i ricordi più belli ed intensi vissuti nelle terre d’acqua dolce. Come in un film d’epoca tornava a rivivere le storie di amicizia che nascevano tra le ragazze che provenivano da regioni e province diverse e la sincera reciprocità nel sostenersi ed aiutarsi a vicenda. Gli ritornavano in mente, sulle parole di una poesia romantica, anche le storie d’amore nate tra le mondine e i contadini con i quali 58
si veniva per ragioni di lavoro casualmente in contatto. I ricordi più belli e gioiosi che tornavano a prendere forma a suon di musica o nei ritornelli delle canzoni più conosciute erano legati soprattutto alle feste del sabato e della domenica sera quando in cascina bastava disporre di una chitarra e di una fisarmonica per vedere e sognare il mondo con occhi diversi. Si ballava e si cantava con grande intensità e partecipazione lasciando correre come il vento i battiti del cuore nel tentativo di superare la tristezza, la malinconia, la lontananza dagli affetti più cari e la condizione di sfruttamento e povertà che talvolta emergeva, inevitabilmente, nel confronto con la vita dei padroni. Erano attimi incontenibili di gioia e di allegria che allontanavano la fatica fisica, la nostalgia di casa, le incertezze e le opacità del presente lasciando, libera e disinvolta, la mente di sognare e desiderare una vita diversa. Lo spirito positivo prevaleva sulle difficoltà ed la speranza sbocciava libera e bella come una rosa rossa carica di colore e suggestione. Ma il ricordo più intimo e personale Amelia lo riservava nel suo cuore alla cassetta, che custodiva gelosamente sotto il letto lontana da occhi indiscreti. La cassetta di legno era tutto quello che ogni lavoratrice poteva possedere : era la valigia, l’armadio, il tavolo per cenare, la cassaforte, il rifugio, le fotografie, i ricordi e soprattutto la propria casa. Ogni mondina ne possedeva una dove riponeva il proprio vestiario, i soldi della paga, i piccoli effetti della pulizia personale e soprattutto i sacchetti di riso che contrattualmente spettavano nella quantità di un chilogrammo al giorno per tutto il periodo lavorativo. Il giorno che si ritornava a casa era indubbiamente il più bello ed emozionante dell’anno e segnava, come un solco tracciato su di una pietra, una fase di svolta della propria esistenza. La gioia era straripante come un fiume in piena al pari della gratificazione provata per un obiettivo molto ambito raggiunto o per una vittoria importante ottenuta in una competizione sportiva. Come un alba luminosa d’estate fioriva la speranza nella famiglia perché arrivava una disponibilità 59
finanziaria che serviva a pagare debiti, acquistare beni e servizi oltre a costituire un sostegno economico importante. Il riso guadagnato serviva ad integrare la dieta delle famiglie più numerose anche se non era sempre di ottima qualità perché non tutte le aziende agricole erano attrezzate per il ciclo completo di pulizia e lavorazione del riso. Una parte dei proventi del lavoro delle mondine più giovani serviva ad acquistare i capi di corredo in prospettiva del matrimonio. E come un piacevole ritornello di una canzone popolare, i ricordi di quella vita vissuta così intensamente, continuavano a stimolare la memoria di Amelia, che intimamente si sentiva ancora di appartenere a quel mondo come una parte intrinseca di sé, inseparabile ed indivisibile, dalla propria esistenza. Nonostante il fluire inesorabile del tempo ed il sovrapporsi delle immagini e dei pensieri, ogni giorno volgeva il suo sguardo benevolo verso le terre d’acqua dolce lasciando libera la vista di perdersi sulla linea dell’orizzonte. Nel silenzio dei primi caldi bagliori di luce gli sembrava ancora di sentire le canzoni delle mondine ed avvertiva quasi nitidamente nelle narici il profumo delicato della rugiada e dei fiori di campo. Ai rumori dei trattori e delle macchine agricole impiegate nelle risaie preferiva cullarsi nei ricordi del passato dai quali attingeva la forza e l’ ispirazione per curare la solitudine e la malinconia che, come la nebbia e la foschia, rendevano opaca e grigia la sua esistenza quotidiana. Amelia ricordava, con un sentimento intriso di dolcezza e nostalgia, le battute e l’ironia delle sue compagne, il clima gioviale e spensierato delle feste, la voglia di vivere, di ballare, di divertirsi e di fare fronte comune alle difficoltà quotidiane. Il futuro si apriva ai loro occhi di ragazze che avevano patito le sofferenze e le ristrettezze della guerra non come un incognita da temere ma come una grande opportunità tutta da vivere. Lo spirito positivo della ricostruzione materiale e morale dell’Italia post-bellica aleggiava nell’aria con l’autorevolezza e l’eleganza di un aquila reale ed era contagioso nell’entusiasmo, nella voglia di apprendere e di crescere. Si coglieva ogni giorno il brio della novità o di un obiettivo da raggiungere con la semplice 60
bontà del pane bianco o con il fascino delle calde ed ambrate sfumature di un campo di grano. Quell’energia positiva, avida di vita e d’importanti opportunità, Amelia cercava di conservarla e proteggerla nel suo cuore come un dono divino irripetibile ed inestimabile. Una forza d’animo da trasmettere ai propri cari con l’integrità ed il benessere dato al corpo dall’acqua pura e limpida di una sorgiva di montagna. E mentre i suoi pensieri planavano verso il mondo reale con lenta e cadenzata nostalgia, un suono afono improvviso le fece attraversare un brivido caldo sulla schiena. Amelia senti aprire la porta e trattenendo per alcuni istanti il respiro vide entrare suo figlio, sua moglie con i suoi adorati nipotini. Il passato ed il presente si mescolarono magicamente nei volti sorridenti dei suoi familiari e intravide nei loro occhi tutta la bellezza ed il fascino della vita che continuava a fluire con i suoi colori, le sue peculiarità e con tutta la voglia di affrontare le nuove sfide. Fissò per un ultimo istante alle sue spalle le terre d’acqua dolce e voltandosi di scatto, mossa da un istinto irrefrenabile, abbracciò i suoi familiari e li coprì di baci con grande affettuosità. Donare il suo tempo, le sue attenzioni ed il suo vissuto alle persone care era un’altra importante opportunità che la vita gli aveva dato. Una missione che non avrebbe mai voluto disattendere nonostante tutti i propri limiti e le incertezze del futuro. Ma era proprio la consapevolezza di vivere ogni giorno per i suoi cari che la rendeva felice più di qualunque altra cosa. In un frangente che le sembrò quasi infinito le lacrime di gioia riempirono i suoi occhi, attraversarono rapidamente le gote ed il mento e d’incanto, come in una bellissima fiaba, si senti leggera, sorridente, felice ed appagata come un’anima beata dell’universo. Si guardò lentamente attorno a se e ringraziò il cielo per quanto era riuscita a realizzare e per tutto il bene che aveva ricevuto. Ora gli appariva più chiaro quanto il suo cammino, i suoi disagi ed il suo dolore avessero avuto un senso pienamente compiuto. Allora sentiva nel profondo del suo cuore che la vita gli aveva dato tanto e poteva ancora continuare a sorriderle con la compagnia, l’affetto, la gioia e la gratitudine dei propri cari. 61
Graziano Domenico IL SEGRETO Il sole, dapprima timido, poi sempre più spavaldo, faceva capolino tra i vicoli, creando, con la complicità della pioggia appena caduta copiosamente, effimeri caleidoscopi iridescenti tra i sanpietrini. I nuvoloni in avvicinamento non promettevano però niente di buono. Trovai quantomeno curioso che la situazione metereologica rispecchiasse abbastanza fedelmente il mio umore: ancora non avevo capito come mi sentissi, se ultimo retaggio dell’estate appena trascorsa o burrascoso inizio d’autunno. Il pavé, che improvvisamente, si trasformava in un vero e proprio muro mi ricordava, allo stesso modo, il metaforico Giro delle Fiandre che avevo consapevolmente iniziato a correre o che, con tutta probabilità, stavo correndo già da anni. La pendenza era tale da trasformare i caleidoscopi in piccoli ma tumultuosi rigagnoli. Evitarli, per non inzuppare le mie scarpe estive, costituiva un ottimo pretesto per non pensare ad altro. Quasi senza rendermene conto mi trovai nella mia officina di fiducia, fu, in realtà, il saluto del proprietario a scuotermi dai miei pensieri e a riportarmi bruscamente alla realtà. Lui era uno dei “guaglioni” del vecchio padrone che, dopo anni e anni di gavetta, aveva finalmente fatto carriera e rilevato l’attività. Il cambio di status non aveva coinciso però con un mutamento del suo approccio alla clientela. Di fatto si poneva sempre sullo stesso piano dei ciclisti, essendo realmente uno di loro, non si sentiva un guru dei pedali come spesso accade a chi fa lo stesso mestiere. <<Pasca’, fa‘ o’ caffè>> disse, rivolgendosi al suo collaboratore. Pasquale, di pochi anni più giovane e maestro nel centrare ruote di ogni tipo, abbandonò di malavoglia la sua postazione per dedicarsi a ciò che, forse, sapeva fare ancora meglio. Enzo, il titolare, senza distogliere lo sguardo da ciò che stava facendo, la revisione di un mozzo a quanto pareva, mi disse: <<Ti sei deciso allora?>>. Colto alla sprovvista risposi <<A far cosa?>>. Con un sorriso da vecchio corsaro qual era mi spiegò che avrei potuto scegliere io la domanda, non avrebbe fatto differenza. <<Se sei qui vuol dire che ti è finalmente venuta voglia di mettere in 62
sesto quel vecchio cancello, e se hai preso questa decisione è perché adesso hai più tempo libero, o mi sbaglio?>> esclamò con la solita sicurezza di chi intuiva lo stato delle cose, persone o biciclette che fossero, al primo sguardo. Pasquale mi porse la tazzina fumante ponendo fine sul nascere a quella conversazione potenzialmente imbarazzante. <<Pasqua’, secondo me ha sbagliato mestiere>> esclamai, sorseggiando la bevanda come fosse un brandy d’annata. <<Sentirai tante storie sul caffè>> sentenziò <<la miscela, l’acqua, ecc. La verità è una sola: il segreto sta nell’attenzione che metti nel prepararlo. Se ti concentri su quello che stai facendo ti riesce qualsiasi cosa>>. <<Tutto qua il segreto? Nessun trucco?>> lo stuzzicai. <<Beh, quello e la pulizia, la macchinetta deve essere perfettamente pulita>>. Sentendosi trascurato Enzo intervenne <<Tieni ragione Pasca’, quello è il vero segreto per tutte le cose. Lo vedi questo mozzo guaglio’? Guarda che grasso schifoso che ci sta! Il grasso serve per lubrificare, è essenziale, però, quando non è più buono va cambiato. Si deve pulire tutto per bene e mettere del grasso nuovo, grasso di qualità. Non risparmiare mai sul grasso>>. Pur avendo intuito tutto gli chiesi <<Cosa sta cercando di dirmi?>>. << Che le femmine fanno bene, aiutano a rendere questa vita ingrata più “scorrevole”, però non sempre è una scelta giusta accanirsi con la stessa storia tutta la vita. Qualche volta per tornare a funzionare bene bisogna fare pulizia e iniziare da capo, magari con un grasso nuovo. Ah, e vedi che succede se stringo troppo i coni? Tie’! Guarda!>> esclamò porgendomi la ruota, <<Vedi se gira bene! Bisogna trovare l’equilibrio: né troppo lento che poi ha gioco e funziona male, né troppo stretto che si blocca tutto. Bisogna lasciare il giusto spazio a chi ci sta vicino e trovare tempo ed energie anche per gli altri aspetti della vita che sono tutti ugualmente fondamentali. Regolare i “mozzi” è un’arte, prima o poi ci riuscirai, ci troverai quasi gusto>>. <<Non è che anche lei ha sbagliato professione?>> mi lasciai sfuggire sorridendo per la prima volta quel giorno. Pasquale, che nel frattempo mi aveva già preparato tutti i pezzi di ricambio di cui avevo bisogno, come al solito senza che fosse necessario dargli troppe indicazioni, 63
aggiunse: <<La verità è che noi ciclisti siamo fin troppo abituati a soffrire. Ci imbarchiamo in imprese che molti riterrebbero folle persino immaginare. Ci intestardiamo anche solo per terminare una gara o un giro. Ma ci sono situazioni in cui la cosa più saggia da fare è ritirarsi perché se si soffre troppo e non ci si diverte si perde completamente il senso di quello che si sta facendo. >>. Mi limitai ad annuire senza troppa convinzione. Diedi un ultimo rapido sguardo a quella selva di cerchi, raggi, gomme, forcelle ed altri componenti che si dispiegavano a perdita occhio in un’insospettabile armonia. La stessa armonia che vanamente inseguivo da tempo, neanche fosse Merckx! <<M’arraccuman’, fatte vede’ chiù spesso!>> intimarono in coro i miei ciclomeccanici filosofi. Lasciai la bottega con il barometro emotivo che iniziava a puntare sul soleggiato, a dispetto di un cielo che stava per concretizzare le sue promesse di tempesta.
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Guagliardo Gero IL MAZZO DI PISCIACANI PIÙ BELLO DI SEMPRE! Un appuntamento è quella cosa che due o più persone si mettono d’accordo e poi succede. Quasi sempre c’è chi arriva un po’ prima e chi arriva un po’ dopo. Io appartengo alla categoria di chi arriva quasi sempre un po’ prima e, lo confesso pubblicamente, provo una sottile invidia per quelli che arrivano sempre un po’ dopo e non si sentono in colpa. Non succede quasi mai che i protagonisti di un appuntamento arrivano esattamente e contemporaneamente all’orario previsto. Brutto è però quando fai di tutto per essere il più puntuale possibile all’appuntamento e, contro ogni tua volontà e intenzione, arrivi con venti giorni di anticipo. Una di quelle situazioni in cui tu ti rendi conto che manca ancora troppo tempo e vorresti fermarti ma c’è qualcosa più forte di te che ti spinge e ti fa arrivare venti giorni prima. Finché si tratta di cinque, dieci minuti prima del previsto, vai al bar, prendi un caffè, paghi il parcheggio. Ma se arrivi venti giorni prima che fai? Quanti caffè ti prendi? A Pisciacane tra l’altro neanche piace il caffè. Pisciacane sarebbe dovuto arrivare il ventuno di marzo, giorno più, giorno meno. Le mezze stagioni però, lo sappiamo tutti, non esistono più e considerate le temperature sempre più alte degli ultimi tempi, Piasciacane il ventinove di febbraio ha spaccato prima il catrame e poi il cemento del marciapiede a ridosso della pensilina dove fa capolinea il 65 a Milano, a piazza Abbiategrasso. Lo ha fatto come fa tutti gli anni, affondando per bene le sue radici nella terra e sollevando il catrame e il cemento. Tutto con la forza dei suoi petali. Succede poi che se arrivi cosi tanto in anticipo ad un appuntamento finisci sicuramente col dare nell’occhio a qualcuno e non farsi notare diventa praticamente impossibile, anche se sei un fiore alto poco più di sette centimetri e sei cresciuto ai piedi della pensilina di un capolinea dove di gente ne transita abbastanza. La 65
stragrande maggioranza passa da lì una volta sola nella propria vita, al massimo un paio di volte e poi basta, ma c’è una piccola percentuale di quella gente che usufruisce della stessa pensilina del bus ogni giorno, a volte anche due volte in un giorno per tutti i giorni dell’anno. In questi casi, quando ci trascorri così tanto tempo, la pensilina diventa un po’ come un stanza supplementare di casa tue e se un Piasciacane sbuca fuori finisci per accorgertene. Anche perché un vero Piasciacane non cammina mai completamente da solo e se arriva lui, poi ne arriva subito un secondo, e un terzo e altri ancora. Quest’anno, lungo la crepa che corre sul cemento alla base della pensilina del 65, Piasciacane e i suoi soci sono arrivati con venti giorni di anticipo. A Febbraio quella spaccatura era solita riempirsi di pioggia che solitamente si ghiacciava o di neve, mentre quest’anno ci stanno già Piasciacane e company. Una striscia di fiori verde e gialla, apparsa all’improvviso, è impossibile da non vedere. Se ne accorgono i pendolari più sbadati e i viaggiatori occasionali più attenti. Se ne accorgono i ragazzini della scuola di fronte che all’uscita ne staccano sempre un paio così da poterli ciucciare, masticare e sputare prima di arrivare a casa. Se ne accorgono i cani della zona, felici di trovare un nuovo tappetino sul quale fare la pipì. Se ne accorge soprattutto Nadir, sette anni appena compiuti eppure già maturo abbastanza da capire che farsi troppe domande nella vita non serve poi così tanto. Nadir infatti non se lo chiede come mai da diversi giorni, ogni mattina, in compagnia della sua mamma e del suo papà arrivano alla fermata del bus e stanno lì. Sino a sera. La gente invece sì che se lo chiede. Chi per curiosità e chi per cattiveria. “Non ce l’hanno una casa questi qui?!” Nadir ha imparato a non domandarselo se ha una casa e a fidarsi di sua mamma e di suo papà. Tutti e tre aspettano qualcosa che potrebbe cambiargli la vita: i giorni corrono così veloci che si trasformano in settimane, nonostante il tempo pare rallentare sempre di più in quella situazione e ciascuno dei tre ha imparato ad aspettare in modo 66
diverso. Nadir si muove in continuazione, esplora l’universo intorno al capolinea. Suo papà lo fa in piedi, al fianco della moglie dal quale non si allontana mai. Parla poco quell’uomo. Ma si tratta di quei silenzi che non serve aggiungere altro. Non sta mai seduto perché in piedi riesce sempre a tenere d’occhio Nadir e poi la tensione scivola via molto più facilmente quando stai in piedi. La donna sta seduta, tiene gli occhi serrati come chi sta pregando o esprimendo un desiderio. Cerca di risparmiare le forze per tutto quello che non sa ma che sicuramente verrà dopo. Stringe un telefono tra le mani. Più passano i giorni e più pare spremerlo quel telefono. Come a volerlo fare squillare con la forza anche se rischia di sbriciolarlo. Un appuntamento è quella cosa che due o più persone si mettono d’accordo e poi succede. Esiste anche una categoria di appuntamenti un po’ più speciale. A questa categoria appartengono gli appuntamenti involontari. Un appuntamento involontario è quello che mi ha portato davanti alla pensilina nel preciso istante in cui ha cominciato a squillare il telefono stretto tra le mani della mamma di Nadir. La donna ha risposto al telefono e, nonostante abbia usato una lingua a me sconosciuta, io l’ho capito benissimo che ha detto qualcosa tipo: “ti prego, dacci la notizia che stiamo aspettando”. Poi è rimasta in silenzio, un silenzio così forte che tutta la piazza lo ha capito subito che la notizia, purtroppo, non era quella desiderata. La mamma di Nadir aprì gli occhi. Dentro ci stavano delle lacrime grandi quanto il mare. Il papà di Nadir sentì tremare così forte le sue gambe da mancargli il fiato e, per la prima volta in vita sua, non si vergognò di aver paura neanche avanti agli occhi della moglie. L’ unica cosa che riuscì a fare fu sedersi al suo fianco. Nadir nel frattempo aveva appena raccolto pure l’ultimo Piasciacane sbucato dal cemento. Li aveva staccati tutti con dolcezza. Nadir non fa domande. Anche questa volta sa che deve fidarsi. In mano tiene il mazzo di fiori strappati dal cemento più bello che si possa realizzare. Lo ha preparato per sua mamma e per suo papà. 67
Mammarella Marco GENEALOGIA DEL GUERRIERO Secondo certe tradizioni africane, i fantasmi degli antenati affiancano il giovane uomo nel suo rito di iniziazione, e in seguito, in ogni istante della sua vita. Celebrarli è un dovere, perché è attraverso il loro sostegno che passa la forza e la capacità del futuro guerriero. Immagina: una persona, e dietro di lei una folla di uomini e donne, che cresce esponenzialmente man mano che si risale indietro nel tempo. Ogni gesto è frutto di una volontà collettiva. Ogni tratto è espressione di uno stesso volto che si ripete, con piccole variazioni, da millenni. È a tutto questo che G. pensa steso sul letto, alle tre di notte, col cellulare che gli illumina il volto e inizia a scottare tra le mani. Prova a immaginare le centinaia di persone che stanno dietro di lui, lì dove effettivamente c’è il muro. Quella folla di fantasmi, a tentare di metterla a fuoco, gli dà i brividi. Può solo concentrarsi su qualche volto e provare a sprazzi a ricostruire un ramo o l’altro della sua genealogia. All’inizio sono solo gesti: due mani nodose che impastano la calce o stendono binari in qualche landa desolata. E mani più gentili, che intrecciano giunchi, spennano tordi, ammassano paste. Poi i gesti si trasformano in volti, e la folla diventa una Torre di Babele. Ci sono i Dago con le canottiere ingiallite dal sudore e le collanine d’oro di san Cristoforo, che ripetono come un mantra “Orràit”; e ci sono i Welsh dai begli abiti confezionati e gli occhiali Rayban, di qualche foto in bianco e nero scattata a Dresda o nella Foresta Nera. C’è chi si accapiglia per mettersi in mostra al suo sguardo, per esempio quel tizio che gioca con la lama del suo coltello a serramanico, perché essere visti da lui vuol dire essere ricordati, e ciò corrisponde alla redenzione di una parte dei peccati, e a un anno in meno in purgatorio (almeno per chi tra i suoi antenati è cattolico, e ha di che farsi perdonare dal padreterno). Ma c’è anche chi cattolico non lo è affatto, cristiano nemmeno forse. Un uomo, con lunghi baffi a manubrio, bestemmia mordendo un pezzo di pesca zuppo di vino rosso, e ricorda a G. che Dio non ha fatto nulla per lui, se non fregargli il 68
desiderio. Non ha le scarpe sotto i pantaloni di fustagno, ma uno spesso strato di pelle morta. Più vicini, più riconoscibili, nelle prime file, un uomo che calcola la portata di un fiume e disegna il progetto di una turbina; una donna cinta da pile di fogli, che batte su una calcolatrice. Sono i suoi genitori, e non parlano: sorridono. A fianco a G. una ragazza, ha qualche anno più di lui. Calcola con un software al computer la propulsione di razzi da lanciare in orbita. Manovre spaziali di avvicinamento, satelliti, tute da trecentomila dollari. Ora che smette di immaginare e inizia a riflettere, la cosa che più lo impressiona delle sue visioni è che a ciascun volto associa un’azione. Ogni avo è espressione di una funzione, riconoscibile dal ferro del mestiere. Come in un olimpo famigliare, ogni divinità ha le sue caratteristiche. E tu, gli viene da chiedersi, quale il tuo ferro, quale il tuo motto, quale la tua storia? Sei davvero tu la profusione di quel sangue? Tu, la quintessenza di un seme che arriva dagli albori della vita sulla terra? La folla lo fissa; hanno tutti lo stesso sguardo severo sul volto e G. si alza con la schiena fino ad appoggiarsi al muro, schiacciato. In quegli sguardi legge un rimprovero: questo il nostro campione, dopo secoli di fatiche e sacrifici? Ora è un processo, e lui l’imputato. G. non sa quale sia il suo mestiere, lo ammette candidamente. Però una parte del suo racconto l’ha già scritta. È una storia che inizia in un paese di provincia, sulle stesse ripe dove zappavano i suoi antenati, negli Appennini, ma stavolta nella cameretta di una comoda villa famigliare. La storia del G. bambino, ossessivo, che di notte si alza per controllare più e più volte che le luci di casa siano spente. Del G. adolescente che si ingozza di malinconia, chiuso nella bara del suo fisico e nella cappella del suo mutismo selettivo. Una donna dall’abito di stoffa pesante emerge dalla folla, e puntando l’indice contro G. irride i suoi complessi, ricordandogli come lei potesse a malapena permettersi un pollo la domenica, dopo una settimana con la schiena rotta ad impilare foglie di tabacco, se tutto andava bene. Ma ci sono altri fantasmi pronti a zittirla, vogliono continuare 69
a sentire. In particolar modo uno. È il nonno di G., e in quel cimitero che il nipote ha eletto a rifugio, lui ci va tutti i giorni. Pulisce le tombe dei parenti, porta fiori freschi. Dice che lì si sente meglio che a casa. Un tempo, dalla montagna al fiume, in ogni strada c’era la casa di un amico. Ora le case dei vivi sono vuote. Per un appartamento nei condomini dei morti invece si devono attendere parecchi mesi. E lì che li ritrova tutti, dice. Non si sente più solo in quella città funerea. E in quel suo sguardo, forse, G. legge un altro rimprovero o un ammonimento: come se il vecchio, con i suoi fiori freschi in pugno, fosse un exemplum. Come a ricordargli di quello che toccherà fare a lui, una volta che il fantasma del vecchio, per ora ancora definito, sarà sfumato in una nebbia indistinta: la stessa che avvolge gli altri a fianco a lui nella folla. G. abbassa lo sguardo e ricomincia a raccontare. Parla del G. disperato, che fugge di città in città, lasciandosi andare furente al piacere della carne contro la carne e della sostanza chimica artificiale diluita nel sangue (e qui l’uomo con la pesca in bocca gli strizza soddisfatto l’occhio). Ora la stanza si riempie di cataste di libri, e la folla è costretta a stringersi. Muraglie di tomi che si ergono per proteggerlo nel suo viaggio attorno al mondo. Che siano quelli i ferri del suo mestiere? Il corrispettivo moderno dello scudo dell’antico guerriero? È una domanda, la sua, a cui la folla non trova risposta. Chi sputa per terra, con disprezzo, chi volta lo sguardo. Ma nessuno che parli. È tutto qui? Si, è tutto qui. G. si rabbuia e torna a riaccucciarsi sotto le lenzuola, coprendosi dalla vista opprimente di quella folla. È tutto qui; una consapevolezza che gli rimbomba nel cervello più e più volte. Sono 5 giorni che non esce di casa, e il pavimento della camera da 400 euro in affitto è pieno di polvere che si appiccica sotto la pianta dei piedi, e cenere. È una cosa che odia, sentire la polvere che gli insozza i piedi, e gli fa venire il disgusto per sé stesso. Per questo la lascia in quelle condizioni. Questa è l’ultima parte del racconto. È in una grande città italiana: potrebbe essere Roma, dove il padre si è rotto la testa sui libri perché un giorno lui potesse desiderare 70
la morte in quella stanza pagata con i suoi sforzi. Oppure potrebbe essere Milano, del suo antenato con la camicia rossa morto a 23 anni (la sua stessa età) e 3 figli in nome di una cosa che non si mangia, né si beve, e che sta in alto, lì fin dove lo sguardo può alzarsi. Gliela indica il fantasma, ma G. non riesce a scorgerla. Vede solo una vecchia foto, di un album di famiglia nascosto in cantina, scovato casualmente in un’estate di noia selvaggia. L’immagine di un corpo straziato dai mitra, di una camicia doppiamente rossa. No. G. scaccia la visione e con essa il fantasma dall’indice alzato. E si sforza di immaginare un altro paese, forse New York, forse Parigi, forse Mosca. Chissà. Ogni posto è uguale a un altro. Ogni terreno, scuro, chiaro, ogni vegetazione, folta, rada, fatta di cipressi o di cactus, di alloro e mirto o di eucalipto, tutto è uguale a tutto. Dovunque fugga con il pensiero, lì la folla lo segue, e la sua corsa, i suoi passi uno dietro l’altro, sono i passi della folla. E i suoi tentativi di scacciare quei fantasmi sono i gesti di quella moltitudine di avvicinarlo. G. si ferma sotto una grande statua, forse la Statua della Libertà, forse un albero enorme, e lascia che i fantasmi lo raggiungano. Si arrende. Ora, generazione dopo generazione, i suoi avi si dispongono tutt’intorno a lui. Sembrerebbero aggredirlo. Minacciosi lo stringono in una morsa. G. fatica a respirare. Ma la minaccia si scioglie presto: i fantasmi passano attraverso il suo corpo, uno dopo l’altro, e scompaiono. Ognuno con lo stesso sorriso storto, lo stesso sguardo benevolo, la stessa frase sulla bocca: un sussurro incomprensibile per G. che però gli lascia una strana sensazione di pace appiccicata addosso. Parole balsamo. Lui è il portale attraverso cui loro svaniscono nel nulla. G. riapre gli occhi. È di nuovo nel suo letto. La folla è scomparsa e lui è rimasto solo nella stanza. Non ha più sonno, anzi, sente una certa energia addosso. E quella stanza impolverata, e sozza, che rifletteva fino a qualche istante prima il suo umore nero e ruvido, ora gli sembra un’offesa a loro, i fantasmi. Si alza dal letto e comincia a pulire. La polvere e la cenere, sì, ma anche il fango, 71
la calce, le molliche, il sangue, i pezzi di carne e i pezzi di pesca, i fiori freschi e le foglie di tabacco, le toppe di lino e i trucioli di legno; le schegge di ferro. Ora il pavimento è sgombro, e G. si sente pronto per il suo rito di passaggio. Col sorriso sul volto esce dalla stanza, lasciando la porta spalancata: per le centinaia di persone, uomini e donne, di tutte le forme, che seguono il suo passo e attraversano la soglia subito dopo di lui.
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Manente Michela L’ AEROCONIGLIO Venne un giorno a Coniglionero un pensiero che poteva diventar vero... Stava gustando una carota succulenta quand’essa gli sembrò un’elica turbolenta. Si era annoiato dei verdi prati e desiderava volare sopra cieli alberati. Disse Coniglionero al figliolo Bonpensiero: “Ti va un giretto sopra i tetti di questo distretto?”. Bonpensiero non sapeva del padre inventore e non fece mistero del profondo stupore. “La scuola è finita, il giorno è sereno. Via, saliamo lassù, oltre l’arcobaleno!”. Il padre coniglio caricò sul groppone il piccolo voglioso d’aerea levitazione. Timido il coniglietto sussurrò al genitore che un po’ di volare aveva timore. Il padre scopritore, a cuor contento, prese la rincorsa spinto dal vento. D’un tratto le sue grandi orecchie pelose si misero a roteare vorticose. Sotto il ventre le zampe allargò a raggera, il muso fendeva l’aria a mo’ di fusoliera. Comodo il passeggero sopra stava, meglio che al cinema s’accomodava. Si svagarono fino a sera padre e figlio, sgranocchiando qualche bastoncino di miglio. Si gustarono così il prolungato volo, salutando dall’alto gli amici giù al suolo. Ma passando sopra la loro fattoria, videro la mamma in agonia. Allora planarono a terra in tutta fretta, tornando felici nella linda gabbietta. 73
Mazzucchelli Norberto CACCIA AL CERVO Mentre premevo il pulsante di scatto della mia Canon immaginai per un attimo di essere un cacciatore felice: avevo nel mirino la testa di un grande cervo che con le fauci spalancate bramiva emettendo un suono impressionante;l’eco del suo verso pervadeva l’intera valle. Fossi stato un cacciatore lo splendido animale sarebbe stato spacciato: i grandi palchi sarebbero finiti ad adornare la parete di uno chalet e la pregiata carne nella cucina di un ristorante tipico. In fondo, pensai con un certo orgoglio, anch’io ero un cacciatore, un cacciatore d’immagini. La soddisfazione di immortalare il cervo non era poi tanto diversa da quella di un vero cacciatore: l’unica differenza era che io non avrei guadagnato nulla mentre lui avrebbe intascato un bel po’ di denaro. Il cervo stava immobile nella piccola radura a monte di un boschetto di abeti e guardava verso di me come se si fosse messo in posa per la foto. “L’ho preso, è magnifico”dissi a Simona che, a pochi passi da me, puntava il binocolo in un’altra direzione dove la distesa d’erba era interrotta da una vasta pietraia che scendeva come un grigio torrente fino alla mulattiera. Era il mattino di una bella giornata d’inizio ottobre e, come ogni autunno, ero salito in Val Grande per fotografare i cervi che sono soliti ritrovarsi in quella lunga e assolata valle durante la stagione degli amori. Io e mia moglie Simona eravamo in compagnia di Armando e Luisa. I nostri cari amici, affascinati e incuriositi dai nostri racconti di montagna, da tempo speravano di partecipare a una “battuta di caccia” nella zona lombarda del Parco dello Stelvio. Luisa, occhi azzurri e lunghi capelli neri, sembra fatta per stare accanto ad Armando. La coppia personifica perfettamente la legge dell’attrazione degli opposti: Luisa è il polo positivo: seria impegnata con un sorriso disponibile per ogni occasione; suo marito è il polo negativo: scanzonato burlesco imprevedibile fino a sembrare 74
incomprensibile. Armando, carnagione scura e grandi occhi verdi, è vicedirettore nell’ufficio postale di Lodi, la città al centro della pianura padana in cui entrambi abitiamo. Nell’ambiente di lavoro Armando è responsabile e puntiglioso ma, lasciato l’ufficio, indossa l’abito dell’uomo stravagante ed eccentrico che lo rende a tutti simpatico e interessante. Spesso si rende protagonista di esternazioni e comportamenti bizzarri inducendomi al sorriso bonario e qualche volta a riconsiderare la mia stima nei suoi confronti; ma si tratta sempre di manifestazioni di breve durata cosi che il mio amico riguadagna presto la mia considerazione: è infatti una persona intelligente e capace e nutro per lui un affetto sincero. Armando è più giovane di me: io, all’epoca dei fatti che racconto, avevo cinquantasei anni ed egli quarantasette. E’ a quella differenza di età che feci ricondurre la trovata infantile che Armando escogitò quel giorno e che, devo dire, ravvivò l’escursione.(Ma ce n’era bisogno?) Dopo avere catturato quella prima immagine del cervo, riprendemmo il cammino verso monte fiduciosi che la vegetazione meno fitta avrebbe reso più agevoli gli avvistamenti degli animali. La mulattiera risaliva la valle con un tracciato pressoché rettilineo: rare curve ad ampio raggio erano state disegnate per vincere la modesta pendenza del terreno. Un vivace torrente, alimentato dai vasti nevai che rivestivano le scoscese montagne a nord della valle, scendeva sinuosamente ora allontanandosi e ora avvicinandosi alla mulattiera. Il fragore dell’acqua si attenuava ed aumentava a seconda della distanza senza mai spegnersi completamente. Fin dall’inizio dell’escursione mi sentivo stanco e procedevo faticosamente. Credevo che ciò dipendesse dallo scarso allenamento e dalla condizione della schiena che mi doleva anche a riposo; mi sembrava strano di non sentire il solito giovamento dal peso dello zaino che mi aiuta a stare eretto e a contenere il dolore muscolare, ma non ci badai più di tanto. Dopo circa due ore di cammino, mentre eravamo fermi ad 75
ammirare il passaggio di una grande nube che disegnava una singolare figura antropomorfa nel cielo, Armando mi disse con un sorriso ambiguo: “Antonio, perché cammini così curvo; si direbbe che qualche burlone ti abbia messo delle pietre nello zaino.” A quelle parole Luisa e Simona si voltarono improvvisamente per celare l’esplosione di una risata e io afferrai al volo la situazione: “ Accidenti !” esclamai perdendo le staffe: “ non avrai davvero messo delle pietre nello zaino, vecchio mattacchione.” Armando mi fissò serio per alcuni istanti poi mi diede una manata sullo zaino dicendo” E dai Antonio, non te la prenderai per uno scherzo innocente.” “Più che innocente mi sembra uno scherzo deficiente” replicai arrabbiato. Ebbi l’impulso di assestare un cazzotto sul muso del mio amico che si stava dimenando in preda a una crisi di riso. Simona e Luisa sedute nell’erba mi guardavano con aria interrogativa in attesa della mia reazione. Armando continuava a ridere in modo sfrenato incurante dello sguardo severo che gli rivolgevo. La mia rabbia però sbollì presto:“ Sono davvero tonto” dissi sforzandomi di sorridere. Armando era così, prendere o lasciare; simulai il gesto di sferrargli un pugno e poi gli feci una carezza sulla guancia; gli volevo troppo bene per colpirlo:” ma quando ti deciderai a crescere benedetto uomo” gli dissi unendomi alla risata collettiva. “ Lo sai Antonio che in me alberga l’eterno fanciullo.” Ammise Armando riprendendo un contegno serio che mi fece riflettere sulla sua volubilità. “ Lo so Armando, lo so bene ma ora proseguiamo, il bivacco è ancora lontano e mi è venuta fame.”dissi rimettendo lo zaino sulle spalle. “ A proposito di fame” disse allora Luisa, “dopo quello che ho visto credo che non riuscirei mai a mangiare della carne di cervo.” “ Non sai cosa ti perdi “intervenne Simona “ è una carne squisita e pregiata; a settembre ho mangiato delle ottime costolette al ginepro ed erano una vera delizia.” 76
“ Lo credo Simona replicò Luisa “ma l’idea di cibarmi con la carne di un animale così bello mi fa rabbrividire …” “ Guardate” gridò Armando improvvisamente ”guardate là sopra” ripetè indicando il versante della montagna dove stava avvenendo un spettacolo davvero raro: tre lupi inseguivano un giovane cervo che correva velocissimo verso una balza. Il cervo stava distanziando i lupi ma poi i suoi zoccoli scivolarono su una lastra di roccia rossastra. Simona lanciò un urlo disperato: in pochi istanti il piccolo ungulato precipitò nel canalone sottostante compiendo un volo di almeno quattro metri e atterrando in una zona erbosa.; solo per poche decine di centimetri evitò di sbattere contro un grande masso. Il cervo giaceva a terra immobile soltanto il suo cuore batteva a ritmo sostenuto facendo sobbalzare vistosamente il giovane corpo. “ E’ ancora vivo” disse Simona che era la più vicina al punto in cui l’ungulato era atterrato. “ Dobbiamo aiutarlo” feci io iniziando a dirigermi verso il cervo. “ Attento Antonio! mi gridò Armando “ i lupi si stanno avvicinando.” I tre predatori infatti stavano aggirando la balza per raggiungere il cervo; io mi trovavo proprio sulla loro traiettoria … Il primo dei lupi era a pochi metri da me e si fermò ringhiando minacciosamente. L’istinto mi spingeva a fuggire ma la ragione mi suggeriva di rimanere immobile nella mia posizione. Gli altri due lupi intanto avevano affiancato il compagno di branco: i tre si preparavano ad attaccarmi quando vennero disturbati dalle pietre che Armando stava lanciando loro. L’aria era percorsa dalle grida dei miei tre amici che cercavano di allontanare i lupi mi feci coraggio e iniziai a urlare: “ via, via da qui brutte bestiacce.“ Il lupo più vicino era a tre metri da me; stava ancora ringhiando quando una pietra lo colpì sul muso. L’animale spaventato fece rapidamente dietrofront seguito dagli altri due lupi. Il pericolo era scampato; mi lasciai cadere a terra, ancora turbato 77
dal pensiero del rischio che avevo appena corso. Mi guardai attorno: Simona e Luisa stavano piangendo avvinghiate in un abbraccio; Armando invece sembrava divertito:” hai visto Antonio come ho centrato sul muso quella bestiaccia? Non sono un grande?” “ Grazie Armando, sei stato in gamba” dissi mentre sentivo la tensione abbandonarmi. Mi rialzai in piedi e mi avvicinai al cervo che era fermo nella piccola radura. Dovetti faticare un poco per risalire l’erto pendio che mi separava dall’animale. Lo osservai attentamente: poteva essersi spezzato una zampa ma non ne ero sicuro. Armando intanto era al mio fianco. “Dobbiamo lasciarlo in questa posizione se lo muoviamo rischiamo di fare dei guai” dissi infine. “ Sono d’accordo “ convenne Armando. Poco dopo presi dalla tasca dello zaino il cellulare: per fortuna aveva campo. Spiegai la situazione al telefonista del 112 che mi fece un mucchio di domande, forse pensava si trattasse di uno scherzo. Dopo qualche minuto venni richiamato da un agente della guardia forestale; risposi ad altre domande e illustrai le condizioni del cervo, quindi diedi la nostra posizione. Una mezzoretta più tardi udimmo il rumore di una macchina che si avvicinava; ben presto avvistammo un Land Rover verde: erano i forestali che, trovandosi nelle vicinanze, ci avevano trovati in poco tempo. Dal fuoristrada scesero una donna robusta e un giovane alto e snello. I due forestali ci salutarono stringendoci la mano poi si avvicinarono all’animale. La donna lo esaminò attentamente e disse “ E’ ferito ma credo che se la caverà”. Io e Armando aiutammo i forestali a caricare il cervo sul Land Lover: non fu facile perché si divincolava: era agitato. La donna ci ringraziò e ci rassicurò: avrebbero portato l’animale in un’oasi faunistica dove avrebbe ricevuto le cure migliori. 78
Quando i forestali ci lasciarono il sole era già oltre la catena dei monti. Avevamo ancora due ore di strada: nell’ultimo tratto della mulattiera avremmo dovuto camminare al buio ma per fortuna avevo la torcia nello zaino. Arrivammo al parcheggio nell’oscurità. Eravamo sollevati: in fondo era andato tutto bene. Era stata un’escursione sorprendente, un’escursione irripetibile. Eravamo stanchi ma felici di avere salvato il giovane cervo. Mentre riponeva lo zaino nel bagagliaio Simona disse: “ con quello che è successo, oggi ci siamo persino dimenticati di mangiare …” “ E’ vero” disse Luisa: “ siamo a digiuno da questa mattina.” Gli occhi di Armando si illuminarono: “Forza! Apriamo gli zaini e prendiamo subito i panini, ho una fame pazzesca, una vera fame da lupi … “ quindi si abbandonò alla sua tipica risata e mi fece l’occhiolino. Gli risposi con una pacca sulla spalla. Eravamo così affamati che decidemmo di mangiare in piedi, vicino all’auto. Trenta minuti dopo accendevo il camino della mia baita. Accanto al fuoco, avevo tante emozioni da rievocare con i miei compagni. Avremmo parlato fino a tarda notte. Ne era sicuro.
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Mevi Pasqua LA NOSTRA STORIA Una storia come tante eppure fuori dagli schemi. Avrei avuto molti dubbi se non fossi dove mi trovo ora ma non è forse sul dubbio che si fonda una qualsiasi storia d’amore? O almeno è quanto di più ovvio mi venga in mente. Bisogna avere dubbi come diceva il buon vecchio Edoardo Bennato e non accettare tutto quello che viene per amore. E per parlare d’amore ci vuole fiducia che si conquista nonché acquista attraverso la conoscenza della persona in prima istanza. Un susseguirsi di incontri fino a fugare tutte o almeno la maggior parte delle nostre intenzioni atte a conoscere la sfera sentimentale, personale e di pensiero e tutti gli annessi e connessi del ragazzo in questione. Tutto accadde in una sera di gennaio del 1992 in cui fummo invitati ad una festa di pensionamento di un amico comune. Non avevo mai visto quel ragazzo che sprizzava vitalità da tutti i pori e che mi piacque molto. Mi trovavo già lì quando arrivò con un cappotto nero e pian piano si guardò intorno alla ricerca della sua prossima preda. Non appena mi vide, sentì i suoi occhi interessati su di me e capì che aveva trovato l’oggetto del suo primario interesse. Non si fece dissuadere da chi come lui aveva già intrapreso il percorso di caccia e che mi sedeva accanto sul divano, ma ebbe di certo dalla sua la fatalità che quel tipo era piuttosto incerto ed arrancava nel suo proporsi probabilmente intuendo che non fossi minimamente presa dal suo appeal peraltro piuttosto scarso ai miei occhi. Talvolta anche una certa titubanza può essere motivo di interesse, ma non quella evidentemente. Si fece largo tra quelle persone sfoderando un trucco che parve intrigante e che di lì a poco avrebbe portato i suoi frutti. Si propose con la lettura delle carte. Ed io, selvatica come ero, ci cascai come una pera dall’albero. Mi ci appassionai tanto, tra domande e risposte, mi pareva che avesse centrato molte cose e ne rimasi molto stupita. Non mi era capitato che per corteggiarmi si fossero inventati dei rompicapi come quello che necessitava di fantasia esplosiva e tanto impegno. Mi fece pensare molto questa faccenda, sicuramente gli interessavo, per come si 80
stava sviluppando quella serata. Protetta dal padrone di casa e corteggiata da quel tale un po’ impacciato, si fece largo con estrema facilità e fu ben presto chiaro a tutti gli altri che si stava per profilare, a conclusione della serata, la nascita di una nuova coppia. Lo stile che entrambi possedevamo ci accomunava, e molti aspetti erano dalla nostra ma c’era un qualcosa che non mi convinceva, o meglio ero restia a fidarmi, mi sembrava troppo carico di entusiasmo e di furbizie. Normalmente bastava conversare per capire se potesse esserci terreno comune su cui partire, ma avendo avuto un inizio per me fuori dalla norma, ero perplessa. Mi prestai al gioco e devo ammettere che fu molto capace dando versioni accattivanti sul futuro e soprattutto geniale per carpire informazioni preziose sul mio conto, fu una mossa vincente di cui tuttora gliene attribuisco il merito. Arrivarono un altro paio di ragazze quella sera e mi bastò lo sguardo che rivolse loro, non appena entrarono, per avvertire quel senso da maschio Alfa che le passò ai raggi x per poi concludere che non vi era di meglio che tornare sulla preda iniziale e da questo compresi molte cose. Sembrava proprio a caccia e questa rappresentava la nota stonata. Era troppo furbo e conclusi che non sarei caduta facilmente nella sua rete. Seguirono delle uscite in coppia durante le quali non vi fu immediatamente troppo affiatamento, la mia stravaganza ed il fatto di non sentirmi pronta per un’altra storia non aiutò poi molto. Il periodo era piuttosto grigio e quel suo modo di rapportarsi non mi convinceva affatto. Sul piano degli interessi trovammo diversi punti come la musica che fu complice meravigliosa del nostro perlustrarci. Tornata da poco dall’Inghilterra portavo un carico di esperienze e di novità musicali. Quelli erano gli anni in cui, se un artista usciva col suo pezzo in U.K. ecco qui da noi sarebbe uscito circa un anno dopo, quindi vi era un forte interesse su quella sfera; il mondo girava in modo diverso e la globalizzazione ancora non ci aveva appiattito come adesso. Da batterista Stefano si sentì solleticato da quelle novità e da molti altri aspetti ed ebbe così iniziò la nostra storia, affatto semplice da gestire, per me che sentivo ancora vivi fantasmi che non mi permettevano 81
di vivere la quotidianità con serenità. Probabilmente il fatto di essere sempre stata al centro dell’attenzione mi aveva portato a maturare una possessività un po’ troppo marcata che rendeva il rapporto poco scorrevole. Inoltre avevo una forte propensione allo scontro ritenendolo necessario per esprimere le proprie idee. Da parte sua ha sempre cercato di ragionare ed alla fine ho compreso che nonostante i difetti reciproci sarebbe valsa la pena lavorarci su perché il nostro rapporto si basava sulla qualità preferenziale, la sola degna di portarci a trovare la nostra via d’incontro, una qualità dalla quale non si può prescindere, quella che viene decantata da cantori e poeti, quella da cui nessuno può davvero ritenersi indenne; l’amore, l’amore vero… e questo lui lo aveva capito sin da subito. Ed ogni qualvolta si presentava una difficoltà tra di noi, tentava di spiegare che ne saremmo usciti meglio di prima. Un’osservazione piuttosto ottimista ma che dopo anni di approfondita conoscenza posso stimare che se ad un occhio distratto superficiale appariva, questa celava un ottimismo radicato e sincero che conteneva entusiasmi dettati dalla certezza della propria scelta d’amore in prima istanza e presumibilmente dal profluvio d’amore che riceveva soprattutto durante quelle esperienze legate alla vita della coppia che poi seguirono. La nascita dei due figli maschi completarono estendendo la relazione a due in un turbinìo di grandi emozioni insolite e rivelatrici arricchendo la loro unione a sublimare un grande amore, un amore che non era altresì sempre roseo ma che invece denotava scontri e disquisizioni di ogni genere ma che tornava sempre sul lato migliore per affondare in animi pronti all’accoglienza perché fermi nel loro intento di lealtà e di stima reciproca.
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Mezzatesta Marilena LA CASA La nostra infanzia è definitivamente finita. Cara Elena è conclusa. Ruotava tutto attorno a quell’odore di indefinito, bruciacchiato avrebbe detto una mia amica, che si sentiva in quel vicoletto umido nel retro della casa, e a quell’ingresso, dove accartocciate sulle cassapanche si succedevano vite, persone, con i loro dialoghi, storie e racconti. Casa. Fisicamente non è quello che ci si aspetterebbe al pensiero di comfort con le nostre idee corrotte di oggi, ma spiritualmente il fulcro di generazioni, accadimenti, che hanno tenuto assieme infanzie, matrimoni, famiglie e, ahimé, defunti e ogni tappa di molte persone. Ricordo quando correvi a piedi scalzi fuori dalla casa in strada verso la piazzetta giù di sotto, non ho il perfetto ricordo delle cose, non mi pareva neanche una piazzetta… ah sì piazza Purgatorio, ma forse non credo fosse il suo vero nome. Eravamo felici. Nessun pensiero negativo poteva turbare quelle giornate, nemmeno quando pioveva e tu bevevi il latte di mandorla dopo che tua madre ti aveva fatto il bagno, mentre ti asciugava i capelli. Io detestavo il latte di mandorla. Quando dovevamo fare i compiti delle vacanze eravamo ugualmente paghe: dopo avremmo avuto il nostro premio: la merenda e la libertà, oppure l’una o l’altra. E poi dentro la casa, di tuo nonno, tutti noi riuniti, genitori, cugini, fidanzati e fidanzate, poi diventati mariti e mogli. E su per quella scala di legno malferma, che portava al piano superiore. Ho dormito nel letto in cui dormivi, per svegliarmi al mattino con gli urli della pescivendola che per tutto il paese vendeva pesci detti “occhialuni”, ma che in dialetto non sapevo cosa fossero. E tutt’oggi non lo ricordo affatto e non lo chiederò, per non perdere l’istantanea di quel momento. Tutto era antico e aveva uno strano sapore di passato. Si usava, per buona creanza, al nostro arrivo, fare un giro di visite ai parenti, ma quanti; da bambina mi stancavo moltissimo, e portavamo in dono alcune bottiglie di liquori. Ora hai una bambina fantastica, Elena, e un’altra infanzia ricomincia, chissà se in quei luoghi o altrove. È tanti anni che non torno, ho conservato il ricordo, ma ora non ci sono più avi, ora manca il centro. 83
Miceli Bruno L’INGANNO DEL RE Un cavaliere di nome Arabel, si ritrovò rinchiuso nella torre del suo castello assediato e circondato dal nemico, e nel momento della resa, con tutta la sua disperazione invocò un potente stregone. <<Cosa volete?>> si udì nella penombra della torre. Poi la figura dello stregone affiorò dall’oscurità. <<Oh possente Urano, ti ho invocato per chiedere il vostro aiuto, usate la magia nera per farci vincere lo scontro>>. Urano guardò fuori dalla finestra. Il campo di battaglia era ormai un tappeto insanguinato di uomini e cavalli morti. Orrore e sofferenza. <<Cosa c’è dietro questa guerra?>> <<La corona>> rispose il cavaliere. <<La vostra richiesta non è regalata, c’è una grossa somma da pagare>>. <<Per la vostra magia non sarò avido. Ditemi cosa volete in cambio? Terre- Castelli-Oro?>> <<Niente di tutto ciò!>> rispose lo stregone, fissandolo coi suoi occhi color del ghiaccio <<Un giorno diverrete padre… il vostro primogenito sarà la mia ricompensa>>. Il cavaliere restò in silenzio. Poi guardò il terreno di guerra e accettò rabbrividito <<Se questo è il prezzo, onorerò il patto>>. Lo stregone con un incantesimo evocò sette draghi sputa fuoco che in poco tempo sterminarono il nemico. Assistendo all’eccidio, il cavaliere si voltò per ringraziarlo, ma Urano era ormai svanito. Per molto tempo nessuno lo rivide. Quel giorno Arabel divenne l’unico e indiscusso re di tutto il regno. <<Lunga vita al re!>> urlarono i suoi soldati in festa <<Evviva re Arabel! Lunga vita al re!>> Il regno di Arabel progredì armoniosamente e, dopo tre inverni, la regina diede alla luce la sua prima figlia. Quella stessa notte tra tuoni e fulmini Urano riapparve. <<Sono qui per reclamare ciò che mi è dovuto>>. <<È una bambina>> ribadì il re. <<Non ha alcuna importanza>> rispose lo stregone <<è sempre un 84
primogenito>>. Il re non volle mantenere la parola data e lo stregone gli diede un’altra opportunità: <<Se non volete darmi vostra figlia, datemi un primogenito qualunque>>. Il re, egoista, ordinò al contadino di consegnare il suo primogenito allo stregone. Il poveretto fu costretto. Ma prima di svanire, lo stregone gli lanciò un sortilegio: <<Preparatevi re senza onore, perché un giorno quando questo bambino sarà adulto, verrà a prendersi la vostra corona e diverrà re. E quello stesso giorno voi troverete la morte>>. Da subito il re fece addestrare un’armata di mille uomini per prevenire il sortilegio dello stregone. In più assoldò cavalieri e assassini, per una caccia senza tregua al figlio del contadino con il compito di ucciderlo. Non lo trovarono mai. Di lui nessuna traccia. Passarono vent’anni e lo stregone fu dimenticato. Il re, a differenza, iniziò a viverla con ossessione e trepidazione. Dopo tante notti insonne decise di ingannare lo stregone. Sua figlia era ormai grande, e il suo fidanzato era ben voluto dalla famiglia reale. In fretta e furia, con l’intento di abdicare, organizzò il loro matrimonio e nella stessa notte incoronare sua figlia come regina e il suo futuro genero come re. Finita la cerimonia lo stregone apparve dall’oscurità. <<Non potete nulla contro di me>> parlò Arabel allegro <<non sono più il re, ricordo bene le vostre parole, avete detto “un giorno quando il figlio del contadino sarà adulto, verrà a prendersi la corona e diventerà re, e quello stesso giorno io troverò la morte” dov’è il figlio del contadino?>>. Lo stregone accennò un ghigno e disse: <<E’ lì! Con la corona in testa al fianco di vostra figlia>>. Arabel terrorizzato guardò il viso sorridente del nuovo re. <<Oggi lui è diventato re!>> continuò lo stregone <<E oggi voi troverete la morte!>> Con un gesto fulmineo della mano, e una formula magica, lo stregone gli strappò via l’anima uccidendolo. Lunga vita al nuovo re. 85
Milossi Dorina IL VENTO DEI RICORDI Eccomi finalmente in pensione! seduta su una panchina al parco di fronte a casa mia. Un sogno diventato realtà! Oggi è una calda giornata d’estate, ma qui sotto un enorme pino spira una leggera brezza che mi accarezza dolcemente la pelle. Provo una sensazione bellissima! Regna un’aria di pace e si respira un profondo senso di libertà, mentre guardo l’alternarsi ritmico delle luci rosse, gialle e verdi del semaforo che dirige sapientemente lo scorrere lento delle macchine, affiancato da scie di ciclisti e pedoni più o meno distratti. Il cinguettio degli uccellini, il frinire ritmico e assordante delle cicale e l’eco delle campane della chiesa si confondono con le voci e le risate delle persone che passano: ecco sta suonando la canzone della vita! Ed io sono qui ad ascoltarla, ad assaporare queste note come non mai. Quante volte ho desiderato vivere questo momento, seduta dietro la scrivania di un’importante casa editrice, mentre contemplavo dalla finestra dell’ufficio un bel giardino che cambiava colore al mutare delle stagioni. E’ meraviglioso poter godere della libertà di gestire il tempo senza dover guardare l’orologio, e potersi soffermare ad ascoltare il vento che muove le fronde degli alberi, portando con sé l’odore dell’erba appena tagliata, mischiata al profumo intenso dei fiori. Alle spalle, poco distante, sento un vociare di donne che mi incuriosisce, la loro cantilena mi riporta alle mie origini, ogni tanto capto qualche parola slava e deduco che potrebbero essere signore russe, ucraine o moldave. Dai discorsi che fanno capisco che svolgono il mestiere di badanti e che sono in pausa lavorativa. Sono sedute in cerchio attorno ad un tavolo di legno e chiacchierano a gruppi di due o tre persone: una racconta all’amica le difficoltà trovate nel ricaricare il telefonino, un altro gruppo suggerisce ad una ragazza come comportarsi con il proprio datore 86
di lavoro che non vuole metterla pienamente in regola con i contributi. Flash back! Riaffiorano alla mia mente i racconti della mia mamma a proposito di quando abbiamo lasciato le nostre terre a Pola in Istria per andare in Italia come profughi. Io ero piccolina avevo undici mesi e mio fratello era nel pancione. Mamma mi raccontò quel momento fortunato quando a Trieste incontrò il prete del loro paesello che ci staccò dal loro gruppo, destinato al campo profughi di Latina, e ci accompagnò al binario da dove partì il treno destinato a Tortona (AL). Lì trovammo alloggio al campo profughi presso la Caserma Passalacqua. Solo più tardi i miei genitori capirono che quella destinazione era una delle migliori e mamma quel prete lo ricordò ogni giorno nelle sue preghiere. La vita nel campo era dura, tutte le famiglie di profughi erano alloggiate in stanze separate fisicamente da grandi coperte, messe a mo’ di tendaggio tra un ambiente e l’altro. C’era solo una piccola stufa per far da mangiare e riscaldarsi. I servizi igienici (ex latrine dei soldati) erano in fondo ai corridoi. Dopo una permanenza di due/tre anni nel campo profughi, abbiamo trovato casa in un appartamento di due locali, in una periferia di Cinisello Balsamo (MI) conosciuta come “Corea” dove quando pioveva si allagavano le strade, le cantine e l’intero quartiere. Ricordo che camminando per le strade, pervenivano dalle finestre un miscuglio di espressioni dialettali insieme ai diversi odori e profumi del cibo che inebriavano l’aria: “Ma, bu giù mica!” (mamma buttami giù un panino) “fioj cosa fe’ ?” (bambini cosa fate?) “Gerardo dammi una pizzicarola” (Gerardo dammi una molletta) Quanta preoccupazione e fatica in quegli anni! Quando il lavoro di 87
papà non bastava per far fronte alle spese quotidiane e noi a scuola dovevamo faticare il doppio visto che ancora dovevamo imparare bene la lingua italiana. La mia fortuna è stata quella di aver avuto una maestra molto brava che aveva un marito istriano e quindi capace di comprendere il significato delle parole dialettali che scrivevo nei vari pensierini. Il voto era spesso doppio, uno per il contenuto e l’altro per il mio italiano. Il compito a casa era quasi sempre dover riscrivere sul quaderno due o tre pagine le parole che avevo sbagliato. Inoltre, a scuola alcuni bambini più grandi, quelli della quinta classe, mi prendevano in giro canticchiando “slava, slava, slava” finchè un giorno il loro maestro li sentì e li prese letteralmente a calci. All’epoca i maestri usavano le maniere forti, cosa ad oggi considerata inconcepibile. Da quel giorno i bulletti smisero di tormentarmi ed io mi sentì in qualche modo protetta. Certo che la vita ci regala ogni giorno una molteplicità di colori, di delusioni ed emozioni. Ricordo che mamma, in quegli anni, attendeva impaziente le lettere che riceveva da suo fratello e non vedeva l’ora che arrivasse il mese di agosto per andare a casa sua in Istria. Quando arrivavamo a Borinici era come rituffarsi nel passato, un piccolo borgo di otto case, tante ristrettezze ma anche tanto spazio, tanto sole e tanta genuinità. La casa dei nonni e il sistema di vita era quello dei primi del ‘900, niente comodità solo un grosso camino sempre acceso. In adiacenza alla casa nell’ampio cortile c’era un forno a legna, un pozzo per l’acqua e la stalla con le mucche e i buoi. Sul tavolo non mancava mai una pagnotta di pane. Era buonissima, tenera e profumata. Mi ricordo che la nonna ogni tre giorni accendeva il forno e sfornava una volta il pane poi i dolci o le pizze. Tutti i prodotti della tavola erano provenienti, con tanto sudore 88
e fatica, dalla loro campagna, anche perchè non c’erano soldi per acquistare nulla di superfluo. Un’altra cosa che ricordo con piacere è che non si buttava via niente, non c’era la plastica, né detersivi né confezioni, i pochi avanzi erano per i maiali, non vi erano altri scarti, neppure tanta carta perchè non si acquistava nulla. Nella fattoria tutti avevano un ruolo, tutti facevano qualche cosa e contribuivano, per quanto loro possibile, a mandare avanti la fattoria, anche gli animali, dal gatto, che non veniva nutrito, se non da noi di nascosto dalla nonna, perchè doveva dare la caccia ai topi, al cane che stava all’esterno e doveva abbaiare se arrivavano dei forestieri. Le pecore e le capre pascolavano nell’orto e servivano a produrre la lana, i buoi per i lavori nei campi e così via per tutti. Il momento più brutto era quello dei saluti quando si ripartiva per l’Italia. A tutti prendeva un nodo alla gola; gli occhi diventavano lucidi e spesso la voce era rotta dal pianto... oltre agli affetti mi dispiaceva lasciare questo paesino dove i ritmi di vita erano quelli legati alla natura e dove gli animali e la campagna venivano prima di tutto. Più passava il tempo, più mi rendevo conto che le tradizioni e la cultura di quelle terre facevano parte indissolubilmente delle mie radici. Anche il profumo e il sapore della cucina istriana li ho sempre rivissuti a tavola con la mia famiglia nelle grandi occasioni, e tuttora quando cucino qualche piatto particolare istriano mi torna alla mente tutto il mio vissuto e il ricordo di quei momenti indimenticabili della mia infanzia. Lo squillo del cellulare di una delle badanti mi riporta alla realtà, le signore sono ancora lì che ridono e chiacchierano; chissà se anche loro un domani racconteranno la loro storia, una vita piena di fatica, sacrifici, rinunce e nostalgia delle proprie cose e dei propri cari ? Uno sguardo all’orologio e mi incammino verso casa e penso che il tempo è custode di ricordi del vissuto, a volte piacevoli, sbiaditi, 89
nostalgici e malinconici, inoltre conserva frammenti di vita passata, esperienze e storie diverse. Ripenso al gruppo di badanti, alla mia famiglia, e a tutti quelle innumerevoli persone che per vari motivi e grandi sacrifici lasciano le terre natie e si spostano in altri luoghi cercando un futuro migliore. Tutte come me alla fine hanno un comune denominatore, l’amore per le proprie radici e la nostalgia. Il ricordo delle terre lasciate spesso è dolce, il tempo e la nostalgia prevalgono e nascondono i sacrifici e le prevaricazioni del passato. Forse ora tutto ci sembra bello perchè pensiamo al tempo trascorso come una nostra inconsapevole regolatrice di pensieri ed esperienze, che archivia il tutto per poi disciplinarlo ed affinarlo con il nostro vivere quotidiano, uno splendido regalo della natura che ci fa andare avanti e dimenticare le cose più brutte. Arrivo a casa e tutto si spegne, riprendo il mio tran tran, ma il mio animo è più dolce, e mi riprometto che presto ritornerò sotto il grande pino a meditare.
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Naso Floriana IL VOLO DELL’ANGELO Sento troppa distanza tra me e il creato. Chi sono, se non una flebile fiammella in balia degli uragani del cosmo? Devo accorciare questa dolorosa lontananza a ogni costo. Devo riacquisire il controllo delle cose, del mio corpo. È il cervello che comanda, e, potentissimo, mi ordina cosa fare. Trovo la soluzione che m’innalza, che mi consacra ai pavidi occhi degl’immeritevoli. Il mio sacrificio, votato al divino, comporta silenzio interiore, austerità e penitenza. Rifuggo con orrore e disgusto, festicciole e abboffate di stomachevoli pastasciutte, pingui salumi, lardosi abbacchi e bisunti dolciumi. Non sono tollerabili più di trecento calorie al dì: altrimenti, come potrebbero trasformarsi le mie cosce, massicce come tronchi di quercia, in esili e flessuosi giunchi di fiume? Giorno dopo giorno, la caduta libera della bilancia sancisce il trionfo dei miei lombi, la medaglia che mi appunto sul cuore. Amo con ardore incontrollato il gorgoglio del mio stomaco e i graffi incessanti dei miei aridi intestini che, mossi da spasmi violenti, mi nuotano senza sosta nel ventre ormai sterile. I tratti ossuti del mio corpo bucano i vestiti. Perdo i capelli e sorrido di mascella tirata a lucido, immolandomi al giudizio dello specchio: sto per raggiungere la perfezione celeste, la stessa leggera voluttà dell’essere sublime e delicato degli angeli. Le scapole sporgono, come ali spigolose, dalla carne macilenta e vene azzurro artico guizzano feroci sui polsi consumati. Il battito stanco e debole acquista una scintilla di vigore: soltanto un altro chilo, mi dico e poi sì, che sarò irraggiungibile. A 32 chili vengo ricoverata. La mia autostima viene minata duramente da un’altra paziente. La soffro di un’invidia esasperata e accecante: lei è più grave di me, pesa 27 chili, ed è a quel traguardo che penso quando mi dimettono (dopo i futili tentativi di farmi ingurgitare forchettate di resti rivoltanti.) Come non riescono a capire che non posso infettarmi con quelle 91
porcherie? “Solo mezza” mi dice l’assistente, “assaggia mezza crostatina”. Me la spinge sotto al naso, che ritraggo già pregno d’unto. Mi obbliga a mettere in bocca quell’ammasso burroso. Non ho scampo. Allora ne scavo il bordo merlettato con l’unghia dell’indice. Lo riduco in piccole briciole, poi le spargo sul piattino. Sono piccoli vermi demoniaci che m’irridono. Impiego mezz’ora per metterne in bocca un pizzico. Poi la mia lingua s’impasta di strutto acido che sento sciogliersi nella saliva avida di sapori, ma io non ne avverto alcuno. Non sento niente. Ravviso solo quel grasso insozzarmi la gola, scivolarmi giù per l’esofago, lento come veleno. Adesso si è annidato nelle cosce, nei fianchi. Me li prendo a pugni, ne stritolo i lembi mosci nella morsa di polpastrelli violacei e punitori. Appena arrivo a casa mi precipito in bagno e mi ficco due dita in gola. Tutto ciò che voglio è vomitare quel diavolo che ha inquinato la mia purezza, che ha tentato di sedurmi col peccato; ma io sono più forte di lui. Solo io ho il controllo di me stessa, solo io so che l’anoressia non è una malattia psichica, ma la salvezza da questo mondo marcio, malato di lascivia, di abominevole lussuria. Ingoio tre pasticche di lassativo e sono felice. Tutto ciò che voglio è liberarmi di questo peso che sento gravarmi sullo stomaco come un masso. Respiro a stento, mi bagno la faccia. Ora va meglio. Mi accascio sul pavimento spaventata. Non esiste altra strada per raggiungere Dio se non dimostrargli onore, senso del dovere e rigogliosa prostrazione. Sono il Samurai dell’era moderna, determinato a raggiungere l’autoannientamento con ferreo rigore. Mica come quelle ciambelle ondulanti in età fertile, che dopo aver sbrigato numerosi parti, si acchiattano, sviluppandosi in larghezza e profondità, perdendo centimetri d’altezza; come se, dal basso del loro sopravvivere si fosse elevata la forma platonica del cubo, senza alcuna velleità sessuale né amorosa. Io sono tutt’altro. Chi più di me può dirsi vicina all’immensità celestiale? Sono la vergine diafana, scavata dal languore di 92
appartenere al paradiso denso di fulgore eterno, di santificarsi col corpo spogliato di ogni capriccio terreno. Così desiderabile nella sua granitica resistenza e candore d’intenti. Vincerò io, perché voglio il posto che mi spetta, lassù, in alto, dove nessuno potrà arrivare a tirarmi giù per trascinarmi ancora, inerme, nelle tenebre di una vita di follie isteriche per le quali non siamo altro che foglie secche, in attesa di emettere l’ultimo scomposto scricchiolio sotto la scarpa di chi ci calpesterà per l’ennesima volta. Ho scelto la strada della novizia devota, del sacramento supremo perseguito con ostinata signorilità austriaca. Mi riprendo dallo svenimento. Sono in un letto d’ospedale. Un insopportabile sondino mi entra dal naso, alcuni aghi mi bucano le vene che, come timidi ruscelli prosciugati, mi percorrono la pelle vitrea. Il dolore delle terga ossute sul materasso è insostenibile. Uno stiletto di luce attraversa la penombra pastosa della camera e mi colpisce il petto con la boria di un fioretto in battaglia. Sorrido appena; è giunto il momento tanto agognato: Dio sta richiamando a sé la sua sposa, che con tanto impegno e sforzo si è guadagnata questa sublime vittoria. Non vedo l’ora di varcare il regno immacolato del perdono e della misericordia. Mi strappo via il sondino e gli aghi che mi trafiggono la carne macera: è una saetta di mirabile supplizio. Abbozzo un tuffo nel vuoto. Accoglimi, Signore, sto venendo da te: ciò che ora si spegne, domani risorgerà più forte di prima.
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Paone Manuela UNA PROMESSA Ed anche un altro Natale è passato. Intorno a me, come sempre, il silenzio. Non ho più il senso del tempo, non saprei dire da quanti giorni, mesi ed anni sono qui; mi sembra di vivere una dimensione diversa, senza punti fermi, dove passato e presente si fondono ed il futuro è solo un pugno nello stomaco. Ma io non demordo, non smetterò mai di cercarti, di aspettarti, di sognarti, dovessi restare in questo maledetto posto per l’eternità. Qui non è rimasto più nessuno, continuo a girare per gli edifici deserti cercando una traccia, qualunque cosa mi possa riportare a te. L’aria è pesante, intrisa di sofferenza, angoscia e disperazione, non c’è speranza di salvezza, non c’è domani ma io non posso arrendermi, e continuo a cercare. Non potrei più separarmi da questo luogo: è l’unica cosa che, in qualche modo, mi fa sentire ancora vicina a te. A volte mi sembra perfino di sentire il profumo della tua pelle, è una sensazione così reale, potrei sfiorarla fino a percepirne la consistenza serica, ma è come se, appena materializzata, mi sparissi fra le dita. Come allora. Ed il dolore torna ad essere più acuto che mai, un dolore troppo grande, insopportabile, inaccettabile. Sarei felice, finalmente in pace, anche se ti sapessi affidata a qualcun altro. Pensare che hai trascorso il Natale scaldata dall’amore di una famiglia, aspettando di scartare quei pacchi colorati sotto l’albero che sai essere per te. Come quando correvi nella nostra stanza la mattina di Natale, mi svegliavi con un bacino e saltellavi felice mentre noi ci alzavamo. Ma i tuoi occhioni dolci, scuri come i tuoi morbidi riccioli non sono il lasciapassare ideale per questa soluzione. Non ti avrebbero mai affidata ad una delle loro famiglie. Il ricordo del giorno in cui arrivammo in questa eterna prigione è incredibilmente fervido, oggi freddo come allora. Lo stridere delle 94
ruote sui binari annunciava la fine di un viaggio che non voglio ricordare. Avevi pianto e sofferto e questo per me era intollerabile, tu non piangevi mai, eri sempre gioiosa. Eravamo così felici solo pochi giorni prima, ti piaceva tanto giocare con me e papà vicino al camino, ci sorridevi con le guanciotte rosse ed io ti abbracciavo stretta: la mia bambina, il mio amore immenso. Scendendo da quel treno l’aria gelida era stata un sollievo. Ti stringevo stretta a me, sentivo il tuo respiro affannato sul collo: eri spaventata e mi stringevi forte. Fra noi l’orsacchiotto dal quale non ti eri mai separata, fino ad allora. Non riesco a scacciare via i ricordi che irrompono così prepotentemente nella mia mente. Non c’è diga capace di frenarli, di arginare il pensiero di te e le emozioni sono vive e taglienti come allora. Nella mia mente un’unica preghiera: la mia bambina, non mi separate dalla mia bambina! Fu allora che ti sussurrai la promessa nell’orecchio, piano piano perché nessuno ci sentisse: “La mamma verrà a riprenderti, non andrò mai via da qui senza la mia adorata piccina, non aver paura vita mia, non perdere mai la speranza, saremo di nuovo insieme” ed alzando lo sguardo, fra le lacrime che mi bruciavano l’anima, vidi per la prima volta il cancello che stavamo per varcare, lo stesso cancello che ora è davanti ai miei occhi e che non ho mai più varcato per uscire, non senza di te. Ancora un altro Natale. E sono sempre qui, di fronte a quella scritta, per me eternamente al contrario: “ierf thcam tiebra”.
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Papa Mike HIKIKOMORI Avevo incrociato Carla Bruni alle medie, le avevo sbavato dietro come tutti i maschietti, poi l’avevo persa di vista: era un anno avanti e mi lasciò in terza quando si diplomò. Me la sono ritrovata come paziente in ambulatorio più di vent’anni dopo. Io l’ho riconosciuta subito, ma lei non ha dato segno di ricordarsi di me. Un classico. Era ancora bella, ma aveva perso lo splendore, come se una patina di polvere nascondesse l’oro di una statua. Si era spenta. Non so perché, ma siamo entrati subito in confidenza: dopo un paio di visite eravamo già oltre il normale rapporto medico-paziente. Quando doveva farsi visitare veniva in ambulatorio di solito verso l’orario di chiusura, in modo da essere l’ultima e potersi intrattenere qualche minuto senza dar fastidio a nessuno. Tra una ricetta e l’altra mi ha raccontato molto di lei, a conferma del fatto che il dottore è anche un po’ il confessore dei propri assistiti. Sono venuto così a sapere che si era sposata a ventidue anni - Invece di essere sulle copertina di Cosmopolitan!, ho pensato - con un camionista che era sempre lontano da casa. Qualche anno fa avrei interpretato questa notizia come un invito, ma da tempo ho perso fiducia nel mio fascino. E poi, sarò all’antica, ma amo mia moglie e non la tradirei mai, neanche con miss Italia, soprattutto se arriva con vent’anni di ritardo. Mi ha detto di avere un figlio di sedici anni, Paolo, un ragazzo ribelle, come molti alla sua età. Una vita piena di rimpianti. Il sottinteso era che avrebbe meritato di più, e io ero pienamente d’accordo. Ma a volte solo la bellezza non basta. Stamattina si è presentata più avvilita del solito e mi ha chiesto se potessimo parlare di un problema che l’assillava. Era l’una passata, così l’ho pilotata al bar sotto l’ambulatorio per sederci e chiacchierare con calma davanti a un aperitivo. Lei ha sorseggiato appena il suo Crodino, mentre mi raccontava di suo figlio. «È sempre stato un ragazzo difficile, ma ora non so più come prenderlo. Sono quattro giorni che non esce dalla sua camera. Ha cominciato con l’evitarmi, poi si è rinchiuso. Non mi fa entrare, si 96
rifiuta di parlarmi… Esce di notte per mangiare...» «Hikikomori». Mi ha guardato come se avessi detto una parolaccia. «Così si chiamano» ho chiarito «È un fenomeno che arriva dal Giappone: ragazzi che rifiutano qualsiasi rapporto sociale fino a isolarsi del tutto.» «E da che dipende? Come si risolve?» «Le cause sono molteplici: la mancanza di una figura paterna...» Qui ha annuito «… oppure una madre troppo possessiva...» Qui ha scrollato la testa « Anche una bassa stima di se stessi… Per come si risolve… ci vuole uno psicologo.» È rimasta a pensare, poi ha detto: «Non potresti parlarci tu?» «E che gli dico?» «Non lo so… non vuoi provarci? Per favore...» Mi guardava negli occhi, implorante, e io ho capitolato: «Sì, ci posso provare.» «Grazie. Vieni oggi pomeriggio? Potresti portare anche tua figlia… hanno la stessa età, più o meno… magari aiuta...» Le avevo parlato di Giulia? Non me lo ricordavo, ma evidentemente l’avevo fatto. Aveva ragione, Giulia aveva quattordici anni ma era più matura della sua età. Come dicono tutti i papà che adorano le figlie. Ho creduto che fosse solo una mossa per evitare qualsiasi tipo di avances, quindi ho acconsentito. Lei mi ha dato l’indirizzo di un palazzone popolare. Sono andato. Ho portato Giulia, dopo aver spiegato la situazione a lei e a Nora, mia moglie. Dopo una tazza di tè Carla mi ha mostrato la camera di suo figlio. Per terra, davanti alla porta, c’erano un paio di piatti con del cibo: «Qualche volta, se cucino qualcosa che gli piace particolarmente, glielo lascio lì. Lo prende di nascosto, non lo vedo da quattro giorni.» Nella sua voce c’era una nota di disperazione. L’ho interrogata con lo sguardo, lei mi ha fatto cenno di andare. «Tu rimani qui» ho detto a Giulia «Mangia un’altra fetta di torta, se ti va.» Ho bussato alla porta: «Paolo, sono il dottor Pesoli. Posso entrare?» Ho aspettato che rispondesse. Non lo ha fatto. Ho 97
interrogato ancora Carla, lei ha insistito. «Paolo, sto entrando. Facciamo due chiacchiere.» Silenzio. Sono entrato. Non mi andava per niente, ma l’ho fatto. Per Carla. Per Paolo. Mi è sembrato di addentrarmi nella tana di una belva. Era buio, un’unica, minuscola abat-jour era accesa su un comò, ma non rischiarava un granché. Neanche il monitor del computer contribuiva a disperdere le ombre. L’aria era pesante e puzzava, un tanfo di escrementi e vomito, di solitudine e di pazzia. Ho pensato che forse il problema era più grave del previsto, che sarebbe stato meglio lasciar perdere. Poi Paolo ha parlato. Era seduto sul letto, appena visibile, ma la sua voce era chiara. Profonda. Sembrava venire da lontano. «Dottore, alla fine è venuto.» Sapeva del mio arrivo? ho pensato mentre rispondevo: «Già. Come stai?» «Bene. E tra un po’ starò ancora meglio. C’è anche Giulia?» «Come fai a...» Non ho finito la domanda, Ma sì, ha origliato, mi sono detto. Il ragazzo ha risposto comunque: «Me l’ha annunciato lui.» Ho intravisto che indicava il computer. Ho guardato da quella parte: sullo schermo campeggiava una faccia orribile, un bafometto, credo. O una cosa del genere. Stavo per ribattere, ma lui mi ha preceduto: «Vuole un sacrificio. Oggi. Una vergine. Giulia lo è, vero?» Il tono della voce, la convinzione nella sua voce, mi ha messo una paura improvvisa, ancestrale. «Vaffanculo!» ho detto. O forse l’ho solo pensato. Ma sono uscito, sono scappato, da quella cella di manicomio. Solo per piombare in un altro incubo: Giulia era ancora seduta dove l’avevo lasciata, ma Carla la teneva ferma da dietro e le premeva un coltello alla gola. Sono rimasto impietrito non so per quanto, finché lei non ha rotto il silenzio: «Mi dispiace, Mario, credimi. Devo farlo.» «No, non devi» sono riuscito a dire. «Sì, invece. È per mio figlio, lo capisci, vero?» 98
«Non… non risolverai niente… pensaci… non è così che...» «Sì, invece!» E ha tagliato la gola di mia figlia. Da quel momento i ricordi si accavallano, sono consapevole di aver fatto delle cose ma mi sfugge la linea temporale dei fatti. So di essere riuscito ad arrivare a Carla e di averle sbattuto la testa sul tavolo con ferocia, ancora e ancora e ancora, finché non è esplosa come un cocomero marcio. Questo deve essere successo prima che raccogliessi il coltello pieno di sangue e tornassi da Paolo. Mi ricordo che ho stretto Giulia, mia figlia morta, piangendo, gridando, cercando di arginare il fiume rosso che le sgorgava dallo squarcio alla gola. Ricordo di essere rientrato nella tana dell’animale e di averlo trovato inginocchiato davanti al computer, a salmodiare di fronte a quell’orribile figura. Gli ho conficcato la lama nel fianco, non volevo ucciderlo subito, volevo farlo soffrire. Quando si è girato ho colpito allo stomaco, so che lì fa male... Alla fine l’ho ripagato con la stessa moneta usata da sua madre con Giulia. Gli ho quasi staccato la testa. Tutto questo mentre urlavo, urlavo... Sono tornato da mia figlia e l’ho stretta finché non siete arrivati voi. Vi ho chiamato io? «No, una vicina. Ha sentito gridare...» «Lei ha figli, ispettore?» «Sì, due.» «E cosa avrebbe fatto al mio posto?»
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Parafioriti Cristiano TRIANGOLO ROSA Amore mio, ormai da una settimana ti hanno strappato via. Via da me. Solo oggi ho tratto un poco di carbone e con un vecchio lapis consunto ho preso coraggio a scriverti una lettera che non leggerai mai. Con tutta la mia volontà ho cercato di donarti un po’ della mia vita per sostenere la tua anima ed il tuo corpo allo stremo delle forze. Non ci sono riuscito. Così è bastato solo un misero gesto di her Hauptsturmführer, quella sua mano cupa e svogliata ad indicarti e i tuoi occhi senza più lacrime che sprofondano nei miei. “Schwuchtel, los!” “Frocio andiamo!” Tutto è finito. Dopo che la morte arriva questo campo si copre di uno strano silenzio. Quante urla ho già sentito in questa orrenda quiete! Illuso io che pensavo che già il mondo fosse un supplizio per il nostro amore proibito; poi questi mesi qui, tra gli stenti e la fame e le torture e i lunghi silenzi interrotti solo dalle grida di chi ha ancora voce. Al tuo ultimo sguardo verso di me ho trattenuto il fiato per interminabili istanti, era l’unico modo che avevo per fermare le mie poche lacrime sulla soglia dei miei occhi, per non lasciarti andare tra le braccia della morte con questo dolore nell’animo. Benché i battiti macilenti del mio cuore dicano ch’io sia ancora aggrappato a questa vita mi sento solo un cadavere tra altri vivi cadaveri e nemmeno lo sdegno di questi aguzzini ormai mi tange; finanche il pensiero della morte non più mi è compagno. Eppure avverto che il ciarpame maggiore è nelle bieche menti al di fuori di qua. Questo campo sudicio è solo frutto acre della perversione umana. Loro, che chiamano noi malati, depravati, osceni, cercano di rendere candide le loro vesti lordandole del nostro stesso sangue. Che paradosso brutale è questo! Davanti a tanta malvagità avevo consapevolezza fisica di perderti un giorno; ma io ti verrò a cercare di nuovo e ti ritroverò, amore mio. Che sia nel vento, che sia nel silenzio, che sia nel buio o solo nella 100
pioggia, in ogni mondo possibile ed in ogni modo anche il più inconcepibile io ti verrò a cercare per farmi tenere per mano dalla tua anima pura ancora una ultima volta, per dirti ancora che se rinascessi serpe, o foglia, o farfalla, o ragno, o libellula, o rosa, o spina, o roccia, o lupo...solo te io chiamerei per sempre “amore”. E se nascessi goccia saresti tu il mio mare e se fossi raggio tu il mio sole, se fossi io stesso una malattia tu saresti guarigione e speranza, se fossi, come sono ora, solo un corpo informe e senza nome tu saresti di certo la mia anima immortale perché in questi miseri giorni terreni abbiamo trasformato la nostra carne corruttibile e fallace in qualcosa che trapassa la morte stessa. E se questo triangolo rosa che mi hanno appeso alla giubba è la mia colpa e la mia condanna sarò per te, amore mio, offerto in dolce olocausto. Ma non temere, perché quando s’appresserà anche per me l’ultima ora, che sia tra queste corrotte baracche affamate o tra le altre vie di un mondo ch’oggi m’appare cieco, allora io, senza bisaccia né sandali, vagando nell’infinito senza tempo, busserò di nuovo alla porta del tuo cuore. E né prigionia, né morbi, né fame, né vita, né morte, né gli uomini e né il Dio degli uomini ci potranno più separare. Perché tu ed io, inciampati su questa terra, siamo angeli inseparabili d’un amore tanto diverso e tanto uguale.
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Pedrani Giovanni Maria BLUETOOTH Il treno rallentò in stazione con un’inerzia che non lasciava presagire nulla di buono. Sembrava che una pallottola avesse sparato alla locomotiva e ora il convoglio stesse arrancando verso quella sosta temporanea con le ultime forze, allontanando nel tempo il miraggio di giungere al capolinea. Dopo quasi mezzora di attesa, alcuni passeggeri spazientiti iniziarono a reclamare dai finestrini. Ma c’era poco da protestare. Tutta la linea era bloccata. I più remissivi, invece, ormai avvezzi ai ritardi dei treni per la loro vita pendolare, presero a leggere o a giocare col cellulare. Così fece Paolo, che, immerso nell’apatia ferroviaria, sfogliò svogliato col proprio smartphone la rete Bluetooth, solo per curiosare sui dispositivi degli altri viaggiatori. Connecting… Network browsing… 4 devices found… Amilcare Rossi Barbara FG Rich S.p.A. Zorro Nel cercare altri smartphone vicini, Paolo aveva trovato ben quattro dispositivi con il Bluetooth attivo, la rete con la quale telefonini, PC, automobili si potevano connettere fra di loro, se collocati a pochi metri di distanza. Provò a entrare nel primo del signor Rossi. Non c’era alcuna volontà di violare la privacy delle persone. Solo la pigra indolenza di uno studente che voleva far trascorrere un tempo morto, come la sosta ingiustificata di un treno. La rete di Amilcare Rossi era protetta e il suo telefonino gli restituì “access denied”. Paolo proseguì con “Zorro”. Il nome era curioso. Ma appena il ragazzo provò a intrufolarsi, la connessione cadde. Forse il segnale era debole, forse l’utente era troppo lontano o 102
si era spostato, oppure “Zorro” aveva intercettato il tentativo di accesso e aveva spento il collegamento. Lo studente allora azzardò un allacciamento al cellulare chiamato “Barbara”. Nel suo tentativo di far passare il tempo, c’era anche un pizzico di morbosità. E quel nome femminile serviva a stuzzicare l’interesse e ad acuire la curiosità. Scoprì che la rete non era protetta. Poteva navigare liberamente sul cellulare di Barbara, guardare tutti i files, comprese le fotografie. Ma appena provò a sfogliare i documenti, comparve un messaggio dalla chat del suo dispositivo. B > Chi sei? Rimase interdetto! Era stato scoperto come un bambino colto con le mani nella marmellata. Non sapeva che cosa rispondere. Per un attimo pensò di staccare vigliaccamente il contatto, ma un rimorso, misto all’attrattiva di quel contatto, lo indusse a rispondere. P > Chiedo scusa… Mi chiamo Paolo. Ero annoiato per l’attesa della partenza del treno… Non sapevo che cosa fare… Non volevo guardare le tue cose… Non ho visto nulla… Non ho fatto neanche in tempo… Provò a giustificarsi, ma sul display comparve subito un messaggio che presupponeva il perdono dell’interlocutrice. B > Questi treni fanno davvero disperare! Il viso di Paolo si illuminò e fu indotto ad aprirsi. P > Io vado tutti i giorni all’università e una volta su due c’è un disagio. E tu? Solo in quel momento si accorse che forse stava dando del tu a una signora. Magari pure attempata. Nella sua testa si era configurata l’idea di una giovane, visto l’approccio così confidenziale di lei. B > Che cosa studi? Io sono al secondo di giurisprudenza. Tirò un sospiro di sollievo. Barbara, se era in regola con il piano, aveva solo un anno meno di lui. P > Io faccio ingegneria. Terzo anno. B > Wow! Ti piacciono le cose tecnologiche! 103
P > Abbastanza… Sì… Cioè… B > Sono sicura che sei un geniaccio. P > Mi piace studiare, ma… amo anche altre cose… B > Tipo tipo? P > Poi mi prendi in giro… B > Daiii! P > Mi piace lavorare a maglia. Confessò e chiuse gli occhi, aspettandosi una risata, se non una interruzione della connessione. Si trovò a sorridere con sé stesso, perché aveva confessato a una perfetta sconosciuta quello che non avrebbe detto al suo migliore amico! Ma forse quello era il segreto anche dei social network. Uno strumento per aprirsi all’indifferenza di tutti, per chiudersi alla solitudine della famiglia e degli amici. B > Bello! … Io lo detesto. A me, invece, piace giocare a biliardo! Anche Barbara aveva rivelato un particolare di sé simpatico e forse riservato. P > Beh… Anch’io a volte vado con amici al bar. B > Allora abbiamo qualcosa in comune ;-) P > Spero non solo questo :-( B > Riso o pasta? Azzardò un giochino. P > Riso B > Pasta. Sole o luna? P > Luna B > Sole. Mare o montagna? P > Lago B > Giura! P > Giuro su questo maledetto treno! B > E come mai? P > Mi piace la pace lacustre… I suoi silenzi… B > Sei un poeta. P > Forse sono solo un orsetto solitario. B > Anche a me piace il lago. E, ti giuro, per le stesse ragioni! 104
Il ragazzo provò un brivido di emozione. Il Bluetooth è una connessione per dispositivi che devono stare vicini. Pochi metri al massimo. A due passi da lui c’era una ragazza quasi della sua stessa età, socievole, aperta, ma contemporaneamente con il suo stesso spirito. Doveva essere un miracolo! Per un istante pensò persino che quella connessione fosse non con una persona fisica, ma verso un angelo o uno spirito superiore che era lo specchio delle sue aspirazioni e dei suoi sogni. Un essere pensato per muoversi etereo nel suo io più intimo e non farlo sentire solo. E invece Barbara era una creatura in carne e ossa. E il miracolo più grande era che era da qualche parte accanto a lui! P > C’è un posto che chiamano il lago delle fate, dove sembra che lo specchio d’acqua sia sospeso nel tempo. Spesso mi rifugio lì, fermandomi accanto ai canneti, dove i cigni hanno i loro nidi, oppure all’ombra di una pianta le cui radici cercano l’acqua fino alle sponde del bacino. Mi metto a leggere un libro, protetto dall’abbraccio dei suoi rami, con il riverbero della luce fra le sue foglie. B > Conosco quel luogo… Rispose Barbara, trovando in quelle parole non una collocazione fisica, ma un posto nel proprio cuore. Anche Paolo era sorpreso di aver usato un mezzo così stupido come una chat per aver riversato tutte le sue emozioni. Si scrissero ancora, scoprendo che le affinità non si fermavano a sensazioni. Erano parole che non raccontavano la loro storia, dove abitavano, che cosa facevano, le esperienze passate. In quello scambio di pensieri e di opinioni c’era la consapevolezza di un’analogia, come due foglie cadute dallo stesso albero, che, spinte dal vento, si ritrovano insieme, dopo tanto tempo. Finché Barbara interruppe quel fiume di amore: B > Finalmente ci muoviamo! P > Che cosa vuol dire “ci muoviamo”? 105
B > Il treno. Finalmente sta ripartendo! P > Ma che cosa dici? B > Non vedi che si muove? Paolo era sconcertato. Il treno su cui si trovava era assolutamente immobile. P > Ma scusa… Tu su che treno sei? B > Come “su che treno sei”? Sono su quello per Varese! Solo in quel momento il ragazzo si accorse, guardando dal finestrino, che accanto al proprio convoglio ce ne era un altro che si stava muovendo… Ma in direzione opposta! P > io sono su quello per Milano! Scrisse concitato. Paolo era uno studente che si stava recando dalla provincia verso il Politecnico di Milano. Barbara era una studentessa che faceva la pendolare nella direzione opposta! I loro treni erano affiancati. Probabilmente erano vicini fisicamente, ma su direttrici contrarie! B > Per Milano? Ma non capisco… Il ragazzo intuì il dramma. A breve la distanza fra i due cellulari sarebbe stata troppo grande perché i due telefonini si potessero parlare. Che stupidi! In quasi un’ora di chiacchiere si erano detti tutto di sé, tranne i propri dati personali. Pensando di essere sullo stesso treno, avevano creduto di potersi vedere al capolinea, attendendosi l’un l’altro sulla banchina di destinazione, una volta che il treno si fosse svuotato di tutto il carico di pendolari. P > Dammi subito il tuo numero di telefono! Paolo attese una risposta. Poi incalzò. P > Barbara! Se hai un indirizzo e-mail, scrivimelo subito! Dammi il tuo numero di telefono! Due treni si stavano allontanando per sempre con due anime gemelle che non si sarebbero mai più incontrate, come binari paralleli che non possono congiungersi mai. Il ragazzo guardò con ansia il display. Connection to user Barbara lost 106
Pesarini Marcello Maria NERO A OMBRE 1° episodio: Nero è spaesato. Arrivò in cima allo scivolo col fiatone, perché gli anni ormai pesavano sulle sue spalle. Ma non per questo gli riusciva naturale il comportarsi da adulto. Si resse forte aggrappandosi ai “curimani”, prese la giusta spinta e ggiu’ per la lastra di metallo che era abbastanza liscia, anzi lucida a forza di culi strusciati, tanto da fargli prendere velocità, e lui, Nero, lo fece. In fondo alla discesa, si ricordava, c’era una pozzanghera, che gli dava la soddisfazione di sporcarsi un bel po’. Dopo si aspettava un mucchio di cenere; lui ce l’aveva messo anni prima e ad ogni fuoco lo rimpinguava. Fece splasc nell’acqua, si sporcò di fango, si tuffò nella cenere ma ne uscì….bianco. “Sarà stata setacciata, e i carboni se li sono presi dei ragazzini” e soppesò i pro e i contro di vivere in una società a molte generazioni, delle quali lui riusciva a tenere il conto, ma nella quale le nuove non tenevano conto di lui. Per togliersi di dosso questa strana sensazione andò a fare un giro nel bosco, quello spianato davanti alla Casa degli Artisti. La casa di chi? Stiamo parlando di un luogo a più piani e a più stanze dove possono dormire e riposarsi scrittori, scultori, pittori, che partecipano al Festival annuale chiamato Land of Arts che si tiene a Sant'Anna del Furlo. Era una costruzione in pietra di stile ottocentesco, stazione di controllo per la produzione dell'energia elettrica o punto di raccordo di un acquedotto, le case dove aveva sempre sognato di andare a lavorare, lontano da tutto e da tutti, a registrare l'andamento del tempo. Persone rispettose del vecchio scopo a cui era stata adibita l'abitazione l'hanno rimessa a posto dopo averla acquistata dal demanio pubblico, e l'hanno destinata ad altri registratori, catalogatori dell'arte. Si tratta di sculture, pitture e anche poemi che vengono piantati o recitati nei boschi e lì restano, pioggia, neve o sole che sia, fino all'anno seguente, in occasione del quale se ne aggiungeranno altri ed altre. Di fronte all'edificio prese a darsi un po’ di arie perché lui, di fronte a quei salti di altezza, muretti a secco e a umido, proposti dai 107
sentieri, non inciampava mai. Era Nero, e nascondeva quello che faceva. Poi si mise, mani in tasca, ad osservare i Cerchi della Pace, una delle strutture nate col festival. Tutto in ordine, i sassolini e la stele al centro. I sassolini si raggruppano e ogni tanto danno energia alla stele unendosi a lei. Lei costituisce un baluardo contro la guerra, avendo raccolto sassolini, che rappresentano persone, che hanno attraversato mari e deserti, crudeltà e rinascite. Nero non era mai stato superbo, si era accontentato di delimitare le cose, gli oggetti, anche i pensieri. Più avanti vide il forno di terracotta, che sembra essere un paracarro. Bello, ma gli mancava qualcosa: si vedeva la cupola, ma mancava il forno. Perché, si richiese, come di fronte alla cenere bianca? Ma è ovvio, si disse: manca Nero. Manco io, e che mondo sarebbe senza Nero? Si rese conto del fatto che il mondo lo stava mettendo a lato. Qualche dubbio l’aveva assalito già in precedenza. Infatti i fumetti dei cartoni animati erano stati chiamati così, non neretti. Tutti, anche i suoi amici umani e quelli del bosco, erano convinti nel profondo dei loro cuori e delle loro anime, che Nero sporcasse. Ricordate quali erano le sgridate più veementi che ricevevamo dalla mamma? Avevano luogo quando eravamo sporchi d’unto, di grasso, e della gomma della bicicletta; ci veniva inculcato il concetto che Nero sporca più di tutti, è un guaio, una iattura. 2° episodio: Il mondo intero abolisce Nero? Come un’azione provoca una reazione, così Nero si cominciò a ritrarre dai bordi delle cose, dei disegni, rinunciò a descrivere le nubi, le cime delle montagne, gli stagni quando non c’era luce: si stava appassendo. Fra un po’ si sarebbe sbiancato. Dopo qualche tentativo di annacquamento non riuscito, lui bevitore di vino, alzò bandiera nera: si ritirò in letargo nel profondo, nero, di una caverna sotto al Monte Paganuccio, e tentò di dimenticarci. 3° episodio: Grazie al colore il Nero riprende vigore. Nel frattempo, durante il letargo di Nero noi, i “colorati”, impegnati nella preparazione del festival, pian piano ci dimenticammo di 108
lui. Sulle prime alla sera, in autunno, seduti attorno al fuoco arrostendo le salsicce, mentre qualcuno intonava un canto nostalgico, notammo come il cielo non era più nero, ma blu scuro scuro scuro. Il resto lo facevano le stelle, bianche e gialle. Poi, una volta tornati alla Casa degli Artisti, ci coricammo e vedemmo come la stanza da letto diventasse marrone scuro, quasi tek, ma non più nera. Il pepe sbiancava, le cuciture dei vestiti si scioglievano, i capelli di molti di noi perdevano vigore. Ma i danni maggiori, come al solito, furono nell’economia. Un petrolio si poteva mantenere così com’è, perché sembra Nero ma i raffinati avevano coniato un colore, appunto Petrolio, per non nominare Nero, così lui non c’era più. Il buio buio buio delle grotte, dei nascondigli, delle cantine? Tutto sparito. Finchè non venne freddo e il camino della casa si intoppò di fumo: non c’era più via d’uscita, perché mancava il nero, il camino si fermava lì. Tutti fuggirono fuori. Poi furono costretti a spegnere il fuoco, e avevano paura a riaccenderlo sotto alle piante, per non incendiare gli alberi. Fu Antonio, quando tornò dentro per l’ennesima volta a recuperare coperte, vino, pane non ancora bruciato, che s’arrestò impietrito davanti a una visione. La cappa del camino, bianca e rasposa, era tutta nera. Lingue nere salivano verso l’alto, dando libertà a ciò che non poteva uscire. Antonio provò una strana sensazione attorno a sé: non era solo. Strano a dirsi, visto che tutti quanti, anche i claudicanti, erano scappati fuori dicendo: “Meglio il freddo di questo fumo”. Nella loro fuga, avevano evocato Nero. Parlando di fumo, correndo al buio, lo avevano richiamato al suo compito. E lui non si era potuto trattenere ed era tornato. Ma nessuno lo sapeva riconoscere, se non Antonio. La gente dimentica; sembra più leggero vivere come se la vita andasse da oggi in poi, ma si commettono caterve di errori. Lui si era accorto subito che il legno aveva ripreso profondità, le finestre erano ben delineate, la cenere era nei portacenere, e anche il suo vecchio cappellaccio da alpino si onorava di una penna nera. Antonio stava per abbracciarlo, poi si trattenne. Pensava alle 109
reazioni degli altri, Andreina, Romolo, Gustavo, quei pochi artisti di strada. Nero esitò, poi corse verso Antonio con fiducia, lo abbracciò rendendolo tutto nero: “Corri fuori, che è buio, non si accorgeranno subito. Poi grida che il fuoco s’è spento e Nero è tornato a spegnerlo. Abbracciali tutti dalla gioia, così diventeranno neri e non avranno paura di me, anzi verranno dentro a cercarmi”. Fu proprio così. Il camino ricominciò a tirare, gli oggetti ritrovarono la loro forma precisa, le strade vennero asfaltate per condurre i visitatori e gli artisti invitati alla Land of Arts edizione 2018. Fu possibile vedere nello stesso concorso, la somma e la sottrazione dei colori, Bianco e Nero, andare finalmente d’accordo.
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Piemonte Alessia LA NOTTE DEL MIO OMICIDIO Erice, Trapani, 17 dicembre 1897, ore 1.00 Il mondo sembrava essersi ritirato nella nebbia. I profili cancellati delle case, degli alberi e delle statue, erano come demoni che si stagliavano minacciosi in quella massa nebulosa e densa. Le fiochi luci delle decorazioni natalizie, erano come tanti occhi privi di vita coperti da un lento pallore. Quella bianca coltre, che aveva avvolto il tutto in un alone liquido, aveva reso il mare come una lunga e lugubre distesa di ghiaccio dal colore piombo, unendosi con il cielo incolore. Chiunque si sarebbe inoltrato nella nebbia, avrebbe visto la luce sfocata e rossa che ardeva racchiusa dentro la mia lanterna acetilene, rendendo così il mio viso, sudato e paonazzo, come un’onda tremolante nell’oscurità. Stavo correndo come un forsennato, rischiando anche d’inciampare nelle irregolarità delle strade ripide del borgo, pieni di neve compatta e dura. Il mio fiato caldo e concitato, si cristallizzava nell’aria umida e fredda. Cercavo di trovare i familiari contorni della mia casa, ma ero perso nel labirinto. Ero solo, che vagavo nei meandri di quelle vie come uno spettro, insieme alla luce soffusa e vacillante della mia lanterna e il suo tintinnante cigolare che risuonava nella nebbia. L’isterico ticchettio delle mie calzature di cuoio e il gracchiare delle cornacchie, mi avevo reso come un paranoico: avevo il terribile presentimento di essere inseguito, ma dietro di me, da sopra la mia spalla, scorgevo solo l’immenso e profondo abisso bianco… La paura mi aveva succhiato fino al midollo… Urlavo aiuto, ma la mia voce era solo un sibilo leggero, che turbinava come neve nel silenzio sgradevole calato tutto intorno a me. Un ululato lontano di un cane randagio, simile a un lamento di un moribondo, mi rabbrividì, facendomi accelerare così il passo. Le mie gambe tremavano. Il mio cuore martellava come un tamburo nel mio petto. Decisi di sedermi su una panchina della villa comunale per riposare un po’. Spossato, affondai la testa tra le mie mani coperte da guanti di pelle, iniziando a piangere, irrorando il 111
tessuto. L’aria fredda, mi procurò un accesso di tosse che riuscì a reprimere con fatica, a causa dei miei continui singhiozzi. La mia mente era congelata come la nebbia e quella sensazione di fresco bagnato mi trafiggeva le tempie. Lo scorrere irrequieto dei miei ricordi recenti si era arrestato. Avrei voluto vivere per sempre in quella condizione di blocco, come se avessi un’inguaribile infermità mentale, ma purtroppo, non potevo scansare quella torbida pozzanghera che si era dilagata nel mio cervello come una malattia infettiva. Non ci sarebbe stata mai nessuna cura. Nulla avrebbe guarito quella ferita profonda…del mio omicidio. Dovevo assopire il mio istinto… ma il mio patrigno, non voleva smettere di umiliarmi. Mi aveva invitato a cena per appianare la nostra ultima divergenza. Ero titubante, ma alla fine, con l’ansia che mi tagliava il respiro, decisi di accettare. Il suo amichevole e gentile comportamento nei miei riguardi che ebbe per tutta la cena, non mi aveva per nulla persuaso. In totale contrasto con i nostri conflittuali retroscena, il mio patrigno, offrendomi anche un bicchiere di whisky, aveva dimostrato un vivo interesse sul mio futuro da scrittore, dagli esordi perennemente screditato, chiedendomi anche curioso come era il meccanismo della composizione dell’opera e come racimolassi le ispirazioni. Ingenuamente, mi accinsi all’esposizione del mio umile lavoro, snocciolando anche i miei gelosi segreti, ovvero essere al centro della ribalta per le mie storie dal genere giallo, e che tutti i lettori si sarebbero ingegnati a risolvere il caso prima della conclusione del romanzo. Il mio patrigno, sembrò ascoltarmi, annuendo… forse un po’ troppo fervidamente ad ogni mia singola parola, sforzandosi di sorridere, imitando una svenevole gentilezza, ma … la sua reale personalità, alla fine si esternò. Con un odioso sorriso di derisione, disse: -“Mio caro, davvero credi che questa ambizione ti porterà a traguardi clamorosi? Sei solo uno sciocco!”, bevendo un lauto sorso di whisky. Serrai i denti fino a farmi male. Il mio stomaco 112
si annodò per la rabbia. Provavo un feroce e indistinto astio per lui. Avrei dovuto controbattere, per difendere non solo la mia passione ma anche la mia dignità, ma le parole si erano incastonate in gola. Mi scrutava in attesa di una mia reazione e il mio silenzio, considerato da lui come remissività, lo incitò a scagliarmi altre derisioni. -“E con tutta onestà, i tuoi racconti sono troppo complicati, troppo lunghi, e …tediano! Non riesco a riscontare delle velleità. Quindi, rassegnati, mio caro. Non è la strada per te!”, dandomi una pacca sulla spalla con falsa compassione, concludendo poi il discorso con un sorriso amaro e cinico. Un tremito violento percorse tutta la mia schiena. Era come se qualcosa di duro s’infrangeva su una base metallica fino a spazientirmi. Sentì una rabbia incontrollabile bruciare dentro il mio stomaco… come la fiammata che attraversò il mio cervello. Ero stato bravo ad incassare e a sopportare per troppo tempo, ma …era giunto il momento della resa dei conti... Il mio sguardo cadde sul camino. Il fuoco si estendeva in flessuose fiamme che mi seducevano come una donna… Uno scintillio si stagliò alla mia destra. Era il taglia carte del mio patrigno, adagiato sulla sua scrivania in legno di mogano... In pochi secondi, avevo elaborato il mio omicidio. Potevo sentire il ritmo del mio cuore, rapido e concitato dentro il petto. Dopo che lui mi diede le spalle…afferrai l’oggetto e mi avvicinai senza far rumore… Lo cinsi per il collo con il braccio destro e con il sinistro gli conficcai, preciso e sicuro, il taglia carte nella giugulare. Lui agitò le braccia per liberarsi dalla mia morsa, urlando rauco e disarticolato come un animale ferito alla vista del suo sangue che zampillava dallo squarcio. Furioso e violento, con un calcio sulla schiena lo feci crollare con un gemito sul pavimento lucido, dopodiché… artigliai la sua testa... spingendola con forza nelle fiamme del camino, costringendo così a guardare la sua morte… Una grande vampata lo avvolse… Sentivo la sua pelle incenerirsi fino a diventare nera e sottile come carta… Ero accecato dal mio silenzioso tronfio, 113
quando vedevo quei suoi spocchiosi lineamenti del viso che si scioglievano come una crema al sole... Gli occhi, attraversati da lampi di terrore, si staccarono dalle orbite, lasciando il posto a due buchi neri infossati nel viso maciullato… Le sue urla, inghiottite avidamente dalle fiamme, erano solo un eco attutito nella sua casa… Ero talmente inebriato dalla mia rivendicazione che quasi non avvertivo il morso del fuoco, stava divorando la mia mano e che le scintille si gettavano come tante frecce sul mio viso… Quando il calore mi stava soffocando, corsi in bagno per sciacquare la mia mano. Era tutta piena di abrasioni, pustole e la pelle aveva assunto un impressionante colore bluastro con sfumature porpora. Quando l’acqua fredda scorreva tra le mie dita, ebbi la lucidità del gesto folle che avevo appena compiuto. In preda alla paura, presi la mia lanterna, il mio cappotto e scappai dalla casa del mio patrigno. Tolsi il guanto dalla mano che uccise il mio patrigno. Indugiai sulle escoriazioni violacee e nere. Provai sollievo quando il freddo accarezzò le ferite. Il mio corpo, dapprima irrigidito come se fossi pentito di aver esternato odio, era diventato molle e rilassato. Era stato l’inizio del mio arrogante intento di non farmi più sminuire da nessuno. .. Quando avrebbero trovato il suo corpo, potevano dedurre che era stato vittima un ‘incidente, o di un’aggressione, dalle impronte insanguinante sparse per la casa. Era odiato da un vespaio di gente, quindi, non potevano mai …arrivare a me. Recuperata la calma, mi alzai dalla panchina e me ne andai fischiettando, ciondolando la lanterna come se fosse un giocattolo. Avevo trovato una nuova ispirazione per il mio prossimo racconto ed ero entusiasmato al pensiero di scrivere. Non doveva rimanere una reliquia dei miei ricordi. Meritava il suo tributo e probabile che avrebbe consacrato la mia carriera di scrittore. Avevo già scelto il titolo “La notte del mio omicidio”. Immerso in queste divagazioni di gloria, la luna piena si era nascosta dietro quel muro di nebbia e ogni goccia d’umidità che mi colpiva in viso era come un dardo, esattamente come quello che accese il mio desiderio di vendetta. 114
Pieroni Renata CI VEDIAMO A ROMA Il treno correva e Cora guardava dal finestrino i paesaggi delle colline e della campagna che si susseguivano veloci. Era una splendida giornata di primavera, luminosa: colori brillanti nel giallo delle distese di colza fiorita, nelle striature rosse dei papaveri e azzurrine dei fiordalisi, nei verdi chiari dei prati e dei campi col grano in crescita, nei verdi più scuri delle macchie e dei boschi, fino ai punti più selvatici, dove la vegetazione spesso lasciava intravedere calanchi e dirupi improvvisi. Un paesaggio che cambiava continuamente, un paesaggio “scompigliato” come lo chiamava Cora, a cui piaceva moltissimo e forse lo avrebbe fotografato o dipinto, un giorno o l’altro, quando si sarebbe potuta fermare in una di quelle piccole stazioni. Oggi no: era stata ospite di lontani parenti in un paese tra i monti, un’occasione per salutarli prima di quell’importante appuntamento… a Roma! Perchè Cora si stava recando a Roma, doveva incontrare qualcuno, c’era in vista un provino e la possibilità di entrare in uno spettacolo, un’occasione da non farsi scappare. E quando aveva parlato per telefono al suo amore lontano, di questa opportunità, ecco un’altra meravigliosa notizia! Lui avrebbe fatto il possibile per essere a Roma in quel giorno, avrebbe combinato i suoi impegni di lavoro in modo da potersi incontrare almeno qualche ora. Non era facile riuscire a stare insieme, vite troppo diverse, giorni che volavano via organizzati da altri, imprevisti cambi di programma, ma ce l’aveva fatta e anche lui correva su un treno verso Roma, proveniva da un’altra direzione, guardava dal finestrino altri paesaggi, ma come lei aspettava con ansia l’incontro e sentiva il cuore battere più forte. Ormai il treno attraversava la sterminata periferia, case e case e antenne e finestre spalancate in quella mattinata di sole e grandi insegne di supermercati. A Cora sembrava bello anche questo panorama cittadino, da quanto si sentiva felice e impaziente di arrivare. 115
Il suono di un sms la fece sobbalzare: “Sono già qui, ti aspetto in cima al binario” Vai, treno, più veloce, divora quegli ultimi chilometri, entra in stazione! Scese dal treno e lo cercò con lo sguardo: eccolo, là dove aveva detto, agitava nell’aria un giornale per farsi riconoscere, che non venisse sprecato neppure un minuto nella ricerca! Ci fu il primo abbraccio e il primo bacio, poi quel guardarsi a lungo per ritrovarsi dopo tanto tempo, come un ripasso di ogni linea, di ogni colore, di ogni punto in quei tratti così amati. Prima degli appuntamenti che entrambi avevano, per qualche ora Roma era tutta per loro, una città che entrambi conoscevano poco. Decisero di passeggiare così, a caso, senza nemmeno guardare la mappa. Era mattina, abbastanza presto, in giro non c’erano ancora molti turisti, non c’era troppa confusione. Avevano tante cose da raccontarsi guardandosi finalmente negli occhi, non affidando le parole allo schermo di un computer o a una linea telefonica, passavano per strade famose e ogni tanto si fermavano ad ammirare un palazzo, una statua, una decorazione. Passavano per stradine silenziose che collegavano un rione ad un altro e ogni tanto si fermavano per un nuovo bacio al riparo da occhi curiosi. Scoprirono un bellissimo giardino, con una fontana monumentale all’ombra e attorno sedili di pietra e di muschio. Si sedettero in un angolo appartato e si fermarono a lungo, una siepe di rose li separava dai turisti che visitavano il giardino sotto un sole che si faceva sempre più forte. Cora amava ascoltare la voce di lui, calda e affettuosa, che le raccontava dei giorni passati lontano da lei, dei tempi in cui non si erano ancora incontrati, ma che ora diventavano anche suoi: le pareva di entrare in quelle storie e di aver annullato ogni distanza di tempo e di spazio. Le piaceva guardare i suoi capelli pettinati all’indietro, certe piccole rughe sulla fronte che lo facevano sembrare quasi severo, la sua pelle chiara e gli occhi scuri, il suo profilo e stampare tutto nella mente per quando lui non sarebbe 116
più stato lì con lei. E le piaceva il suo naso. Sì, aveva un bel naso, di solito gli uomini non hanno nasi belli, ma un po’ tozzi, oppure grossi, ingombranti, invece il suo... era proprio giusto. Che idee mi vengono in mente, pensava Cora e le sembrava di sognare ad essere finalmente insieme lì sotto l’arco di pietra di una fontana rinascimentale. Certi momenti passano sempre troppo veloci, era l’ora di uscire da quel luogo delizioso. Decisero di fermarsi a pranzo in una piccola trattoria, una salettina all’interno perché fuori il sole ormai scottava, un tavolo con la tovaglia a quadri nell’angolo da cui si poteva vedere all’esterno il bel palazzo di fronte e il viavai dei turisti. In onore a Roma ordinarono un’amatriciana, in onore alla loro golosità una fetta di torta al limone e alla meringa, un po’ dolce e un po’ aspra come un amore difficile, come quel loro amore. Il tempo che passava rendeva Cora più silenziosa, lui le fece notare: - Ora lasci parlare sempre me.- Lei gli rispose sorridendo: - Parlerò di più la prossima volta, tu prepara delle domande, come un’intervista alla grande attrice che diventerò, e vedrai quanto avrò da raccontarti!Dovevano andare, era rimasto appena il tempo di recarsi nel luogo in cui Cora aveva l’appuntamento. Lui l’accompagnò, era diventato silenzioso anche lui, ma le stringeva più forte la mano. I loro passi risuonavano come se scandissero i minuti che restavano al loro incontro. Arrivarono a un palazzo severo di un’antica via del centro. Era l’ora. Davanti al portone si fermarono per un ultimo abbraccio e un ultimo bacio. Lui chiese: - Che dobbiamo dire per salutarci?- Che ci rivedremo presto!- dalle labbra di Cora queste parole uscirono d’impulso. - Certo!- e le mandò un bacio allontanandosi. Entrambi sapevano quanto sarebbe stato difficile, ma in quel momento la felicità delle ore passate insieme dava loro un’illusione. Cora restò qualche attimo sul portone a guardarlo andar via, 117
finché svoltò l’angolo e non lo vide più. Lui ogni tanto le diceva che l’aveva stregato, che era un po’ strega: in quel momento come le sarebbe piaciuto esserlo davvero e vedere nella sfera di cristallo quando sarebbe stato il loro prossimo incontro! Ma no, forse era meglio così, restare nella speranza: e se la sfera le avesse svelato che non ci sarebbero stati altri incontri, altri tempi belli come questo? Cora ebbe un piccolo brivido ed entrò. Si tolse il foulard leggero che aveva portato al collo fino ad allora, a causa del venticello romano che poteva dare qualche fastidio alla sua gola di attrice. Dalla stoffa srotolata improvvisamente si levò un profumo… il SUO profumo di quando erano stati così vicini. Avere una scatolina e poterlo raccogliere, da conservare come un bellissimo ricordo! Ma i profumi sono inafferrabili ed effimeri, purtroppo.
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Pierpaoli Floriana OCCHI DELLA MENTE Allungavo il braccio, per arrivare a spegnere la suoneria della sveglia, poi scalza andavo a sollevare la tapparella, dovevo adattare l’abbigliamento al tempo di Milano imprevedibilmente caldo, freddo, piovoso o ventoso, che suggeriva cambiamenti continui di vestiario ad una sprovveduta come me, arrivata da una regione del Sud. Dalla finestra vedevo un tetto compatto di ombrelli, formatosi dalle persone che sul marciapiede pazientemente aspettavano il tram, mi sarei unita a loro per raggiungere l’Università, pronta a sostenere quell’esame che avevo preparato coscienziosamente, la responsabilità più della paura mi aveva premiata con un (26) su “Filosofia del Diritto” esame da sostenere al primo anno di Legge a cui mi ero iscritta, accettavo i complimenti e rispondevo alle domande dei compagni che in quel corridoio, dubbiosi e spaventati aspettavano d’essere chiamati. Euforica per il risultato ottenuto, come premio mi comperavo un costume, da sfoggiare sulla spiaggia della mia regione per un’estate in compagnia degli amici di sempre, da cui stavo andando prendendo la corriera delle diciotto in piazza Diaz. Mentre il mio bagaglio veniva inghiottito dalla pancia del mezzo, salivo per trovare una collocazione soddisfacente ad affrontare il lungo percorso che mi aspettava, tutti erano stati più previdenti di me se disponibile era rimasto un posto in fondo alla vettura, dove con disappunto mi dirigevo. “Scusi è libero?”chiedevo al giovane che l’occupava. “Si, prego, si accomodi pure.” Incuriosita osservavo il mio compagno di viaggio, era un ragazzo più o meno della mia età, elegante, belle mani, aspetto curato, tono di voce incisivo, la mia innata curiosità e la diffidenza mi inducevano ad analizzare la persona che avrei avuta accanto per molte ore. Sul viso, portava occhiali da sole con le lenti molto scure che non permettevano di vedere gli occhi, nell’immaginario pensavo 119
fossero neri come i suoi capelli, il ragazzo mi incuriosiva e se non l’avesse fatto sarei stata io a intrattenere una conversazione, quel viaggio lungo e monotono andava movimentato con qualche chiacchiera, considerato che il mio compagno di viaggio era di poche parole, forse timido o spaventato, avrei cominciato io ad indagare con qualche frivola domanda. Tendendogli la mano mi presentavo “Io sono Ginevra vent’anni residente provvisoriamente a Milano per frequentare la facoltà di legge, ma marchigiana d’origine, sto andando a casa per godermi l’estate.” “Ne deduco che gli esami siano andati bene” rispondeva uscendo da quel finto torpore, sentendosi in dovere di farlo allungava la mano , “ Piacere Mario 23 anni, studente al conservatorio di Milano dove frequento corsi di musica, “Che tipo di musica prediligi?” Pop-Rap-Jazz “No! con la voce che mi ritrovo studio lirica, sorridendo aggiungeva: “Dio toglie e Dio dona”. Questa sua affermazione mi aveva lasciata sconcertata, forse pensavo per questo non si toglie la sciarpa, deve protegger la gola dagli spifferi del finestrino, intanto si erano accese le luci azzurrate per dare la possibilità agli occupanti di sonnecchiare, ma una bambina si avvicinava dicendomi”Giochi un po’ con me? “ Non si può, rispondevo a bassa voce daremmo fastidio, dobbiamo dormire,” delusa la guardavo scomparire affossata nella sua poltrona. ” Ginevra dispiaciuta giustificava il suo comportamento dicendo: anch’io ho una nipotina, sento la sua mancanza, sto perdendo la parte più vera di me, questa lontananza mi toglie l’ambiente di casa, la compagnia degli amici, l’odore del luogo, il dialetto, i profumi gli spazi, il mare, debbo portare avanti quello che mi sono prefissa senza tanti piagnistei e ringraziare i miei che mi permettono di farlo, lamentarmi è da ingrata, ma è il mio cuore che parla per me, non posso farci niente sono fatta cosi, proprio una stupida. “Non lo sei affatto, quello che hai appena detto rispecchia la 120
persona che sei, sensibile e buona con i sentimenti in continuo conflitto per accontentare tutti, ma alla fine vedrai che quella più appagata sarai tu.” C’era stata una pausa di silenzio gli avevo parlato di me, ma lui non si era esposto con nessun accenno, questo compagno di viaggio cosi riservato, mi stava incuriosendo, delicatamente, ma furbescamente chiedevo ”Dove sei diretto? “Scendo a Bologna, li ci abito, ma studio in conservatorio a Milano dove alloggio periodicamente, debbo apprendere vocalizzi e tecniche per diventare cantante lirico, questo progetto è all’apice della mia vita e quella dei miei genitori a cui come te devo molto per l’aiuto che mi danno a realizzarlo, guardavo le sue mani contorcersi in movimenti nervosi come se volesse trasmettermi qualcosa in più, ma che non riusciva a dire, spero di aver soddisfatta la tua curiosità e sorridendo aggiungeva “ Ma lo sai che sei simpatica è un piacer parlare con te.” C’era un rispettoso silenzio, rotto soltanto da qualche colpo di tosse o soffuso sussurrio, poter occupare il sedile in fondo al mezzo su cui stavamo viaggiando ci permetteva di chiacchierare sottovoce senza disturbare, parlare con quel ragazzo allentava le mie ansie e le turbolenti aspettative di vita che temevo di affrontare, ma che pianificate dal suo modo di pensare sembravano facilmente superabili. Eravamo in viaggio da parecchio, tutti sentivamo la necessità di sostare per usare i servizi igienici e bere una bibita o un caffè, finalmente l’autista fermato il mezzo nel parcheggio di un Auto Gril apriva le portiere per dichiarare con voce forte e incisiva“Sosta di un Quarto d’ora, mi raccomando siate puntuali.” Avevo tesa la mano a Mario per invitarlo a scendere per sgranchirci le gambe e sorseggiare qualcosa insieme, ma si era rifiutato di farlo adducendo una futile scusa, perché non voler scendere a fare due passi, a conoscerci meglio, a bere qualcosa insieme? non lo capivo, ne avrei cercato di farlo, non avevo la presunzione di sapere chi era Mario, una conoscenza cosi superficiale non mi autorizzava a dare giudizi, mi sarei accontenta 121
di portargli una bottiglietta d’acqua, che poco dopo beveva rispondendo alle mie lucubrazioni. “Sai Ginevra, questo viaggio mi ha dato l’opportunità di incontrarti, e vorrei avere la possibilità di contattarti telefonicamente, la vita è cosi imprevedibile, non è detto che non ci si riveda. Contaci, quando esordirai io sarò in prima fila ad applaudirti, ed io diceva Mario, mi rivolgerò a te se avrò bisogno di un valente avvocato, conoscerti, mi ha aiutato a vedere il mondo con occhi diversi, a capire che la vita a tante sfaccettature, che va vissuta con grinta senza paure, c’è posto per tutti, bisogna saperlo conquistare un posto valente ed io ce la farò, grazie per avermi aiutato a crederci, ti prometto che il mio primo esordio in teatro lo dedicherò a te. “Bologna chi deve scendere annunciava l’autista”. Mario si alzava, era alto, molto elegante, distinto nel portamento, dopo aver preso dallo zainetto un tronchetto di legno, gli imprimeva tre scatti per allungarlo, impugnato quel bastone bianco per ciechi si preparava a scendere, attonita, mortificata per non aver capito, lo abbracciavo con tutta la comprensione che mi dettava il cuore, fiera che una cosi grave disabilità gli permettesse di approcciarsi al futuro con grandi aspettative di vita. Sul marciapiede un signore lo stava aspettando, Mario si era trattenuto per inviarmi con il braccio alzato un ultimo saluto, guardavo dal finestrino della corriera la sua immagine che sfuocata si allontanava per concentrarmi sui passaggi di quell’ incontro, per cercare di capire le strane parole espresse da Mario all’inizio della conoscenza che mi avevano turbata, ma che adesso, avevano un senso e una logica, (Dio Toglie --Dio dona)
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Ponte Luca NINNA NANNA (Ora sei pentita. Ma l’hai detto senza pensare, mica con cattiveria. Ricordi? Avevi detto che non l’avresti mai fatto, quando saresti stata madre. Il pensiero torna a tanto tempo fa, tu così piccola in quel lettone antico, austero, altissimo. E il comodino, il comò pesantissimi, le tende. E l’armadio della nonna. E la nonna. Il rito della buonanotte. Quella filastrocca. L’Uomo Nero, che viene a prendere i bimbi che non si addormentano. E il giardino. E Folco, il giardiniere, muto e scontroso. Quell’odore di terra e di selvatico, che sentivi già prima che arrivasse e che rimaneva ancora un po’, dopo che se ne andava. Voi bambini appostati alla veranda vecchia, a insultarlo ed a tirargli i sassi, sghignazzando) “Tu sei scemo”. “Ma... E se viene l’Uomo Nero?” Luca ebbe una smorfia da grande: “Non hai capito che l’ha detto per farci dormire?”. “Aspetta, che vuoi fare?” “Finiamo la partita, ormai la mamma dorme. Aspettiamo l’Uomo Nero. L’ha chiamato, no?” (Però non dormi, non volevi. Quasi quasi ti alzi e glielo vai a dire. Ma oramai dormiranno, quelli, altro che Uomo Nero, sei tu che non dormi. Beh, te lo sei meritato. Glielo dici domattina, che avevi scherzato. Gli compri il gelato. Ma ci pensi. A come avevi paura, a quella maledetta filastrocca che sembrava... cosa sembrava... un richiamo. E tu stasera l’hai cantata, come hai fatto? Versi e rumori, quei diavoli si tirano i cusci¬ni. Non dormono, non ti hanno dato retta. Sei contenta, non ti hanno creduta. Altri tempi. Ma tu da piccola eri cattivella. “I tuoi figli saranno orribili come te, Folco?” Ma non dormi lo stesso. Devi ndargli a dire: “Ah, così non ci credete? E fate bene, perché è solo una sciocca favola, ma adesso dormite lo stesso, d’accordo?”) Ti alzi, e ci vai, ciabatti lungo i corridoj. Se ti sentono faranno finta di dormire, farai loro il solletico e li bacerai. Apri la porta, il buio. Quell’odore forte, di selvatico, lo riconosci sùbito. L’armadio aperto, la finestra aperta. Accendi la luce. I letti vuoti. 123
Regna Teresa COME NEVE Un fiocco di neve volteggia leggiadro, nell’aria invernale, sospinto da una lieve brezza. A volte si avvicina ai suoi simili, in una danza composta e silente, altre si immerge in un vortice solitario, isolandosi dai fiocchi che scendono vicini. Raggiunge un cornicione ancora scuro, e diventa una minuscola macchia bianca, destinata ad essere ingrandita da tutti gli altri fiocchi. La danza lenta e quasi sensuale continua fin quando la brezza si trasforma in un vento impetuoso che fa turbinare i bianchi fratelli, affastellandoli in una folla indistinta che precipita sui marciapiedi già bagnati e ricopre i tetti delle case. Le poche auto parcheggiate somigliano a bianchi fantasmi senza forma. Il primo fiocco, quello che aveva attratto la mia attenzione, si è ormai dissolto da tempo insieme agli altri quando la nevicata ha fine. Non è riuscito a distinguersi dalla massa compatta dei suoi simili, e la sua fine è stata triste e prevedibile. Anche la mia sarà prevedibile, ma non triste. Tornerò per l’ultima volta a casa, a godere del tepore di un camino acceso, e sorriderò ai miei familiari e ai miei amici. Voglio salutare loro e la vita in modo dignitoso: non sopporterò facce lunghe e lacrime d’addio. Piangeranno dopo, se lo vorranno, quando avrò lasciato questo corpo malato per veleggiare come un fiocco di neve, nella dimensione in cui non c’è bisogno di un corpo. Simile, ma non uguale, mi scioglierò nella massa ma rimarrò sempre me stessa. Come neve. Un ricordo e una promessa mi faranno compagnia. Richiudo la finestra e torno a letto. Sono stanca come se avessi corso una maratona. La fine che si avvicina mi toglie ogni forza tranne quella di volontà. Ho deciso che resisterò fin quando avrò detto addio, o forse soltanto arrivederci, a tutti coloro che hanno significato qualcosa per me. Con la sensibilità che mi è stata concessa dalla malattia, capirò chi è sincero e chi recita una parte. Prima di andarmene perdonerò e sarò perdonata. Bisogna 124
ricongiungersi con i vivi per poter morire in pace. La mia effimera esistenza di fiocco di neve avrà termine quando avrò compiuto l’ultimo atto d’amore. E sarà l’amore ad accompagnarmi in un luogo e in un tempo diverso da quelli che ho vissuto. Non è una speranza, ma una certezza. Chi ha vissuto d’amore, muore con amore.
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Rossotto Ernestina C 154 Ore 10,20 entro in un ufficio postale di un paese di provincia, nella prima cintura di Torino. Il biglietto “sputato” dalla macchina preposta a conteggiare il numero dei fruitori del servizio, che determina il turno e stabilisce la coda di attesa, ha stampato il numero C 154. Sul display, in alto, dove l’utente è aggiornato sul procedere dello smistamento da parte del personale delle varie pratiche del cittadino in coda, appare il numero C 97. Questo significa che davanti a me devono espletare pagamenti, prelievi, spedizioni ed altre pratiche, ben cinquantasette persone! Ad un iniziale sconforto e sgomento si aggiunge una stima approssimativa di quanto tempo sarei rimasta ad attendere il mio turno, per poter spedire sei pacchi “Piego di libro”! Se la dea bendata mi volesse favorire, potrebbe non essere così interminabile l’attesa; magari le pratiche sono veloci, il personale efficiente, qualcuno può aver abbandonato la postazione in coda, i computer funzionano. A questi veloci pensieri, si aggiunge la considerazione che devo compilare gli appositi moduli per una raccomandata con ricevuta di ritorno; la decisione è presa: resto! Mi accorgo quasi simultaneamente che la temperatura dell’ufficio è decisamente alta, quasi insopportabile, considerato che essendo inverno, l’abbigliamento congruo per l’esterno, è eccessivo per quell’interno. E’ impossibile restare coperti con sciarpa, cappello, cappotto. Occorre provvedere a cercare di respirare; anche le persone intorno a me avvertono la stessa sensazione: c’è chi lo verbalizza, chi si toglie sciarpa e cappello, chi slaccia il giubbotto. Mi avvio, facendo uno slalom tra i presenti, con una serie di: “Scusi!”, “Permesso?”, “Posso passare?”, al contenitore dei moduli prestampati da compilare. Con stupore rassegnato, constato che è mancante proprio dei moduli che mi occorrono per le raccomandate con ricevuta di ritorno. Mi dirigo, non senza intralci, allo sportello, dove gentilmente l’impiegato mi rifornisce di abbondante materiale. 126
Finalmente posso passare alla compilazione dei dodici moduli per poter spedire i fatidici sei pacchi “Piego di libro”! Intanto tengo sotto controllo il display: C 103, ore 10,35. In quindici minuti la coda è diminuita di sei persone. Mi concentro sulla possibilità di trovare un appoggio dove poter compilare i moduli. Trovato!! Accanto a me due donne, madre e figlia, sono di parere discordante sul bollettino da compilare e discutono animatamente sul da farsi. Dopo alcuni tentativi di difendere la sua posizione, la donna più anziana delega alla figlia la responsabilità della compilazione. La biro in dotazione, che utilizza, smette di scrivere e sembra proprio che non ci sia verso che torni a svolgere la sua funzione. A volte gli oggetti pare si facciano beffa della fretta degli umani! La donna più giovane cerca nella borsa una sostituzione, senza un risultato positivo; nel frattempo quella più anziana dà segni di impazienza e nervosismo. La figlia riesce a raggiungere gli sportelli e a recuperare la biro che le consente di terminare la compilazione e di placare le ansie della madre. Poco più in là, pigiato contro il muro, un bimbo nel passeggino comincia a piangere, si agita, vuole scendere; la madre cerca di “contenere” il bambino allacciando le bretelle che lo costringono nel passeggino. C 138, ore 11,10. Un signore avanti con anni, si avvicina ed inizia a raccontare del nipotino appena nato. Ascolto e rifletto su quanto in un luogo dove le persone sono costrette a restare in attesa, sentano il bisogno di comunicare o di raccontare qualcosa di sé. Al silenzio, si preferisce la parola; presumo che per alcuni, chiacchierare allevi la noia dell’attesa, faccia scorrere il tempo più velocemente in situazioni come questa dove il tempo sembra non passare mai. Una signora di mezz’età si inserisce nel discorso e anche lei, pare abbia qualcosa da “far sapere”: sta facendo allungare i capelli per poterli donare ai centri che produco parrucche per malati di tumore. Sua madre combatte questa malattia. C 149, ore 11,30. Due ragazze romene parlano animatamente tra di loro. Sono alla ricerca di una penna per compilare un modulo 127
per la spedizione di un pacco. Si guardano intorno, le loro borse non sembrano contenere il fatidico strumento, a turno estraggono il cellulare ma della penna neanche l’ombra! Un signore indica loro la biro appoggiata sul banco degli sportelli. Il modulo può essere compilato! C 153, ore 11,47. Penso con sollievo che tra pochi istanti una voce metallica scandirà il numero C 154. Il mio numero. C 154, ore 11,58 sono davanti all’impiegato e finalmente la spedizione è in fase di lavorazione. Accaldata, sollevata e rincuorata per il “lavoro svolto”, alle ore 12,05 esco dall’ufficio postale di un paese di provincia. Un’ora e quarantacinque minuti all’interno di un ufficio postale permettono di osservare il lavoro dei dipendenti e dei fruitori del servizio. Indipendentemente dalla destrezza, dalle caratteristiche personali o inclinazioni, ho notato che gli impiegati si atteggiano in modo diverso. C’è chi spesso si alza dalla postazione, va nel retro, consulta fascicoli, cerca nei faldoni e lentamente ritorna a sedere davanti al computer. C’è chi svolge velocemente il suo lavoro, saluta cordialmente, si concentra sul da farsi, conclude la pratica e passa al numero successivo. C’è chi si dilunga in chiacchiere con la persona che davanti, si informa sullo stato di salute della parentela e con una certa lentezza espleta la pratica. Davanti e dietro allo sportello, tanti modi di affrontare il lavoro e la coda; infinite sfumature di vita! Anche un grigio e scolorito ufficio postale di provincia veicola una varietà di atteggiamenti, di informazioni, di sensazioni. Infinite sfumature di vita quotidiana!
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Scatoli Fausto SORGEVA IL SOLE illuminava l’uomo. Freddo tramonto. «Nicola, te la ricordi questa?» Armeggio un attimo col computer, poi parte la musica. Nicola, appoggiato allo stipite del caminetto, un calice di rosso in mano, alza il viso e sorride. Appena arriva la voce, la accompagna: Salve ragazzo che passi il giorno, alla finestra della tua stanza. «Non si scordano certe cose, Fausto. Però non la sentivo da almeno vent’anni. Lolli…» Chiude gli occhi. So cosa gli sta passando in testa, ogni tanto lo rivivo pure io. Mi piace farmi del male da solo. «Chissà che fine hanno fatto gli altri» dico. «Già… Manuela, Sergio, Nino… più visti né sentiti.» questa canzone scritta di niente, sceglierà te tra tutta la gente, per l’ultimo brindisi l’ultimo addio, l’ultima cara bestemmia “per dio!” «Ne abbiamo tirate di bestemmie, anche noi.» Provo a riprendere il dialogo. Credevo si lasciasse andare, invece pare totalmente preso dalla canzone. «Voi sì» dice poi, «ma non vi sono servite a molto. Io sono sempre stato un credente, ma temo che allora anche Dio ci abbia preso in giro. O forse ci ha fermati.» «No, non mi pare. Si è solo lasciato insultare, niente più. Direi che è stato totalmente passivo, per questo sono ancora convinto che non esista.» Mi guarda, attento. Gli ho risvegliato qualcosa. 129
Questa canzone scritta di rosso, sarà con te a saltare quel fosso, sarà con te insieme a te canterà, il primo giorno di libertà. «Dannazione, Fausto, ma come abbiamo fatto? Eravamo tanti, così belli, veri… ci credevamo davvero, come abbiamo fatto a perdere? Dov’è la bottiglia? Dammela.» Gliela passo. Si riempie il bicchiere, guarda le fiamme nel camino. Non so se è sincero, poco fa ringraziava il cielo di averci fermati… «Ci siamo fottuti da soli, Nicola, proprio perché eravamo puri. Ci hanno manipolati fino a renderci innocui, a volte addirittura inutili, miseri.» «No, non è vero.» «Sì, amico mio, è così. E chi ha provato a resistere è stato fatto fuori, in un modo o nell’altro. Non ce ne siamo accorti in tempo, abbiamo avuto fede. Troppa.» Il suo sguardo mi trafigge: «Tu proprio non riesci a lasciarlo in pace, Dio, vero?» La bottiglia è vuota, ne prendo un’altra. «Dio? Non so chi sia» dico mentre giro il cavatappi, «parlavo di fede negli uomini. Fiducia.» Annuso. È profumatissimo. «Assaggia questo, è un Merlot barricato.» Le barricate, le fughe, i girotondi in piazza. Gli scontri con la polizia, le sprangate. Le botte. «Ha il colore del sangue» dice dopo averlo rimirato nel calice. questa canzone scritta di rabbia, ognuno di voi per sua voglio che l’abbia, per me sarà stringervi tra le mie braccia e uno ad uno sputarvi in faccia. «Ma il sapore è diverso. Questo sa di legno, il sangue sa di ferro, Nicola. Me lo ricordo bene.» 130
Sorseggio anch’io, mentre l’ex compagno mi guarda di sottecchi. «Ahhhhh, che buono… No, il sangue è un’altra cosa, Nicola. Quando quei dannati celerini mi hanno massacrato ne ho ingoiato parecchio. E ho perso un paio di denti, pure. Chissà chi è stato quel bastardo che li ha avvisati del nostro rifugio.» È un po’ sorpreso della piega che la discussione sta prendendo. «Stavamo andando oltre» dice, «è stato meglio così.» Vuota il bicchiere in un sorso, prende la bottiglia e versa di nuovo. Trema. Lo osservo in silenzio. Distoglie lo sguardo verso la fiamma del camino, si nasconde. «Sei stato tu, vero?» Non risponde. «Nicola, guarda che ormai è tutto finito, puoi anche dirlo, liberarti di quel peso.» Alza la testa, ha gli occhi lucidi. «Non volevo, Fausto, non volevo… ma ciò che avevate in mente era troppo, per me.» «Te ne potevi andare, nessuno ti avrebbe fermato.» «Non è vero!» alza la voce. «Lo avreste fatto, lo sai bene.» «Cazzo, Nicola, mica eravamo le Brigate Rosse, volevamo solo un’Italia migliore, più a nostra misura. Non abbiamo mai fatto attentati.» «Certo… e le auto bruciate? Le vetrine sfasciate? Cos’erano quelli?» Mi sto spazientendo. «Era il nostro far vedere che c’eravamo, perché le parole non le ascoltavano. E quando lo hanno fatto è stato per corromperci. Bravi loro, coglioni noi.» La tua canzone, il tuo testamento, come una foglia goduta dal vento, e dei tuoi amori, di quel che sei stato, resterà solo quel muro imbiancato. Non sa più che dire. Lo zittivo sempre, anche allora, e non è cambiato niente. Ho solo la certezza che il traditore è lui, come pensavo. 131
«Eravamo tutti foglie dello stesso albero, Nicola, ognuna attaccata al proprio ramo. Alcune sono cadute, strappate dal vento e portate chissà dove, altre hanno provato a resistere. Io sono ancora una foglia e non voglio che mi goda il vento, come dice Lolli, voglio essere io a godermelo, finalmente. Sono stanco di stare attaccato al ramo, è tempo che voli via.» «Cosa vuoi dire?» È preoccupato, giustamente. Ha appena confessato e io gli dico che sono stanco, chissà cosa si aspetta. Vedrò di non deluderlo. «Poco fa ti ho chiesto dei nostri compagni, in realtà so bene che fine hanno fatto: Manuela è morta due anni fa, ma non era più viva da tanto tempo. Sergio è in Sudamerica, Nino è tornato in Sicilia, in un centro sociale. Daniele, Laura, Stefania, la tua Stefania, quella che amavi tanto, almeno a parole, sono volati, foglie nel vento. Tanti altri hanno fatto la stessa fine, siamo rimasti in pochi. Qui a Brescia solo io. E ora anche tu.» «Sono di passaggio, per lavoro. E la amavo davvero, Stefania.» «Anche lei. Tu non volevi che si facesse e se fossi rimasto forse ti avrebbe ascoltato.» Riempio di nuovo i bicchieri, poi riprendo: «Sei stato un vigliacco, Nicola, e lo sei ancora. Ti ho perso di vista subito, ma quando ho saputo che tenevi una conferenza sull’economia globale qui in città, ho voluto questo incontro proprio per chiarirci una volta per tutte.» «Questo è il mio lavoro» ribatte. «E chi te lo nega? Del resto cosa ci si poteva aspettare da uno come te? Speculazione…» «Devo andare, Fausto, basta così.» «Aspetta» gli porgo il calice, «facciamo l’ultimo brindisi, l’ultimo addio. Poi vai dove ti pare, anche all’inferno, se è il caso.» Mi guarda con sospetto. Rido. «No, non è avvelenato, non preoccuparti. Non sono sottile come te, preferisco i metodi diretti.» 132
Lo guardo. «Non capisci cosa intendo, vero?» Scuote la testa, ma prende il bicchiere. «Ti ho detto che sono stanco, voglio godermi il vento, quindi ho deciso di chiudere la carriera con un colpo di coda. Sono laureato in scienze politiche, ma ho dovuto inventarmi di tutto per lavorare, solo perché non mi sono piegato. Mi sono fermato con questa cooperativa di raccolta rifiuti, mi ci trovo bene, ma ora basta. Nell’ultima settimana ho minato una decina di cassonetti e li farò esplodere a mezzora di distanza l’uno dall’altro a partire dalla mezzanotte. Sono tutti nelle vicinanze di sedi di banca. Manca poco, prova a scoprirli.» Alzo il calice. «Salute, Nicola.» «Tu sei pazzo!» Depone il bicchiere, prende il cellulare e compone un numero. Di sicuro chiama la polizia. Rido forte, ora. «Bravo, chiama i pulotti, bravo. Ma vai a cagare, cretino, mi credi davvero capace di un gesto simile? Sotto di noi c’è una filiale bancaria e nel cortile interno ci sono due cassonetti, credi che mi faccia saltare? Volevo solo vedere la tua reazione.» Il suo viso si distende, si mette una mano in testa e poi lancia una risata isterica appena si sentono le sirene delle volanti che arrivano. Lo guardo negli occhi. Alzo il calice, sorseggio. L’ultima cosa che sento è il boato. E la tua canzone scritta sul muro, cancellerà ne sono sicuro e basterà appena una mano, perché il suo suono si spenga piano.
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Scuola Primaria Cattabrighe Classi 4 A e 4 B
IL GIRO DEL MONDO DI BABBO NATALE E’ la notte di Natale, tra il 24 e il 25 dicembre… Babbo Natale, al Polo Nord, si sta preparando per il suo viaggio intorno al mondo. Prende il Planisfero, osserva la Lista dei Buoni e dei Cattivi e legge… I bambini migliori del 2019 sono stati: gli italiani, i francesi, i marocchini, i bulgari, gli slovacchi, i brasiliani, i peruviani, i cingalesi e i colombiani… perché hanno fatto tantissime buone azioni insieme ai loro genitori. Babbo Natale, con la sua slitta carica di doni, scende a sud e poi si dirige verso oriente, perché il fuso orario gli permette di guadagnare tempo. Babbo Natale plana sul Perù: vede nelle piazze l’albero illuminato e sente ancora risuonare nell’aria l’eco dei canti dei bambini… Si avvicina ad una finestra e vede sul tavolo la tazza di una deliziosa cioccolata calda, preparata per lui da una bambina di nome Cattleya: Cattleya in peruviano significa “orchidea”. 1 - MUSICA PERUVIANA Babbo Natale vola verso la vicina Colombia: anche lì i bambini hanno lasciato un pasto per lui, una zuppa di patate, pollo e mandorle e una deliziosa bevanda, il sabajòn, a base di tequila, vino, whisky, latte e uova: proprio quello che ci vuole per un viaggio così lungo! 2 - MUSICA COLOMBIANA Babbo Natale ora sorvola il Brasile e le sue spiagge bianchissime piene di luci e di palme: qui i bambini festeggiano in costume da bagno, ma costruiscono l’albero con le palline, si scambiano i regali e mangiano il tacchino secondo la tradizione. 134
3 - MUSICA BRASILIANA Babbo Natale riparte verso oriente, attraversa l’oceano Atlantico e arriva in Francia: le sue renne schivano per un pelo la Torre Eiffel, mentre nell’aria si respira il profumo dolce dei macarones. Mamì ha preparato tanti regali per i suoi nipotini: lei è un valido aiuto per Babbo Natale! 4 - MUSICA FRANCESE Babbo Natale si dirige verso la Slovacchia: sorvola i mercatini natalizi tra la neve nella piazza di Bratislava e ammira estasiato i mille oggetti esposti, in legno, in vetro, in buccia di mais e i fantastici biscotti al miele ricoperti di glassa bianca, che si appendono anche all’albero. 5 – MUSICA SLOVACCA Ecco Babbo Natale puntare verso la Bulgaria: nelle case hanno lasciato per lui il piatto tradizionale della vigilia, i fagioli, poi anche il grano bollito e le noci. Babbo Natale si avvicina per aprire una noce, che gli permetterà di fare previsioni sull’anno che verrà: se sarà buona, l’anno sarà fortunato, in caso contrario ci si dovrà aspettare un brutto anno. Babbo Natale, come sarà il 2020? 6 – MUSICA BULGARA Babbo Natale, a questo punto scende in Africa, ma scopre che in Marocco non si festeggia il Natale: i bimbi non lo conoscono, ma lui non si perde d’animo. Sa che lo spirito del Natale è lo spirito della bontà e che i bambini sono buoni anche in Marocco, perciò lascia tanti doni conservati per loro nella slitta. 7 – MUSICA MAROCCHINA Babbo Natale riparte per una tappa lunghissima e arriva in Sri Lanka, una bellissima isola vicino all’India. Nelle case hanno lasciato accesa per lui una lampada ad olio e un piatto tipico della cucina cingalese, il riso cotto nel latte di cocco, aromatizzato al curry. Babbo Natale si lecca i baffi! 135
8 – MUSICA SINGALESE Ma a Babbo Natale non tornano i conti, gli sembra che manchi qualcosa: chi ha dimenticato? (Devono rispondere i genitori: l’Italia!) Manca L’Italia! Ma non sentite che buon odore di cappelletti in brodo? E quante luci! Quanti sorrisi! Quanti abbracci! Babbo Natale è felice di concludere il suo viaggio in Italia, proprio a Pesaro, proprio a Cattabrighe, nelle classi quarte della scuola, dove convivono, giocano e studiano insieme il bambino italiano e quello peruviano, il colombiano e il brasiliano, il francese, lo slovacco e il bulgaro, il marocchino e il singalese. Buon Natale al mondo! Buon Natale a tutti voi! MUSICA ITALIANA
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Serci Davide LA MANO DESTRA << Non sono pazzo dottore, posso assicurarglielo!>> << Si calmi, la prego...>> << Non sono pazzo! Lei non mi crede, non è così? I suoi occhi non mentono!>> << Le credo, ma certo. Ora però mi racconti tutto nuovamente e dal principio. Non trascuri i dettagli, sono molto importanti.>> << Gliel’ho già detto: ero in camera mia e stavo dormendo. Poi mi svegliai di soprassalto: un dolore pungente, come un pizzico, mi punse il fianco destro. Accesi la luce e non vidi assolutamente nulla che potesse giustificare quella sensazione, la pelle inoltre non sembrava arrossata. “Me lo sarò sognato” pensai rimettendomi sotto le coperte. Ma proprio mentre stavo per riprendere sonno, ecco la puntura riproporsi accompagnata da un divincolarsi sotto il mio fianco, come un piccolo animale.>> << Divincolarsi, dice?>> << Sì, ne sono certo. Fatto sta che accesi la luce cercando di capire di cosa si trattasse. Alzai il pigiama e vidi un leggero arrossamento dove prima avevo avvertito dolore.>> << Lei aveva percepito il dolore nello stesso punto di prima?>> << Sì, esattamente. Mi alzai dal letto e scoperchiai le lenzuola, ma fu una ricerca infruttuosa. Però durante questa operazione mi resi conto che la mia mano destra appariva totalmente insensibile, non rispondeva ai miei comandi.>> << La sentiva formicolare o non la percepiva proprio?>> << Per me era come un’appendice estranea. Muovevo il braccio verso le coperte ma la mano non le afferrava. In verità sulle prime non mi preoccupai troppo, dormendo mi capita spesso che un arto perda sensibilità.>> Il dottore prese appunti nel suo taccuino << Prego, continui.>> << Benché turbato dalla situazione mi rimisi a letto. “Magari è la mano addormentata che mi ha graffiato o pizzicato” pensai “ed era sempre la mano ad ingannarmi, come un animaletto schiacciato sotto di me”.>> 137
<< E quindi si rimise a dormire senza altri sospetti?>> << Non proprio, in verità. Rimasi un po’ a rimuginare, ma ero troppo stanco ed i miei dubbi si spensero di conseguenza.>> Il dottore annotò nel suo taccuino << Continui.>> << Poi mi svegliati nuovamente per una fitta alla gola, sul pomo d’Adamo. D’istinto aprii gli occhi e vidi che la mia mano destra, adagiata sul petto, mi faceva una grande pressione con il dito medio. Provai a fermarmi ma il braccio non rispose, l’attacco continuò.>> << E lei cos’ha fatto?>> << Ho quindi usato la mano sinistra per liberarmi. Ero sconvolto. Con la luce accesa rimasi un po’ a contemplarmi la destra, mi pizzicai il braccio… Ora era tutto insensibile sino al gomito.>> << Prima, quando stava spostando le coperte invece?>> << Prima non percepivo nulla dal polso in su. Fatto sta che provai a stropicciare la mano per ravvivarmi la circolazione, ma in verità nulla sortiva l’effetto desiderato. Ero inoltre atterrito da quel atto di sonnambulismo così tanto autolesionista… Ormai mi ero risolto a chiamare un medico, temevo mi stesse per venire un qualche strano malore, ero davvero preoccupato. Poi, di punto in bianco, uno dei miei test ebbe successo: mentre pensavo di aprire e chiudere la mano, questa mi obbedì. Era una sensazione strana, come una pallida imitazione del comando che la mia mente impartiva. Le dita si muovevano assecondando in maniera approssimativa i miei pensieri.>> << Aveva ripreso sensibilità? Le formicolava la mano?>> << Assolutamente no. Non percepivo nulla. Glielo giuro dottore, era come se quella conoscesse gli ordini impartiti e mi desse il contentino. Mi ingannava, la maledetta… >> << La prego di non agitarsi, resti concentrato sui ricordi.>> << Ma dottore, le sto dicendo la verità. Quell’infame sapeva quanto pretendevo e mi compiaceva! Ne sono assolutamente certo!>> << Prego, beva un bicchiere d’acqua.>> << Non voglio acqua, voglio che lei mi creda.>> << Io le credo, solo non si agiti...>> 138
<< Ma non era finita! Quando vidi che la mano ora stava reagendo bene mi quietai. Che errore, che idiota sono stato! Mi rimisi tra le coperte, ma stavolta non riuscii ad addormentarmi. Quasi immediatamente, sentii qualcosa strisciare tra le lenzuola, piccole zampette si divincolavano e mi salivano sopra. Accesi la luce all’improvviso ed eccola lì: ancora la mia mano destra, colta in flagrante sul mio petto. Ormai scoperta mi saltò sul viso, sembrava una tarantola! Mi aggredì, sentivo le dita nelle orbite per cavarmi via gli occhi. Vede le cicatrici, vede i graffi?>> << Vedo, vedo.>> << Sa cosa significa lottare contro sé stessi, dottore? Lo sa?! Tutto il braccio era contro di me e sentivo di non avere nessuna difesa, nessuna. Come allontanavo quelle dita dal viso un pugno mi colpiva lo stomaco o l’inguine, mentre come provavo ad abbassare la guardia le nocche mi spaccavano il naso. Vede? Vede cosa mi ha fatto?!>> Il dottore cercò di non fissare troppo a lungo il setto nasale gonfio e deviato del paziente << Sì. Vuole un bicchiere d’acqua?>> << No e non mi interrompa! Deve sapere! Deve sapere che ero allo stremo delle forze! Ferito, con il sangue che mi colava dalla fronte e dagli occhi, ero come una bestia in un mattatoio. Ansimavo senza forze, la mano ribelle si buttò giù da letto ed il braccio si protese con forza verso il basso, trascinandomi sul pavimento. L’arto si stava dirigendo verso la scrivania. Capii che voleva brandire il mio cellulare o la lampada per schiantarmeli sul cranio, per finirmi. Attesi il più possibile per riprendere le forze. Quando le dita si erano infine arrampicate sul mobile feci la mia mossa: afferrai le lenzuola e cercai di avvinghiarle al braccio ribelle. Fu una lotta fratricida tra quell’arto ed il suo gemello, e mi aiutai persino con le gambe, calciando e calpestando. Sentivo le unghie della destra scarnificarmi, non voleva sottomettersi. Mi agitavo per tutta la stanza mentre il braccio infame prima sembrava volermi sfuggire, nascondendosi dietro la mia schiena, poi repentinamente mi attaccava con pugni e graffi, ciò più e più volte, in una serie di assalti mordi e fuggi. Schiacciavo le mie dita mentre provavo 139
a sottometterle con le lenzuola, con i piedi schiacciavo le dita ed esse si spezzavano… Ed alla fine la vittoria fu mia. Però sentivo ancora, tra i lembi di tessuto, che il mio nemico si divincolava, assolutamente indomabile. Allora capii quanto andava fatto. Mi trascinai in cucina e…>> Il paziente non disse altro. << Signor Cerni?>> provò ad incalzarlo il dottore. Il paziente lo fissò, gli occhi stravolti. Poi proruppe in una risata triste ed isterica. << Lei mi crede, vero? Vero?!>> disse strillando. Prese con la sinistra il colletto del medico e lo tirò a sé. Due grossi infermieri, che sino ad allora erano stati in disparte in fondo alla stanza, lo bloccarono. << Non sono pazzo!>> disse l’uomo mentre si guardava il moncherino al posto del braccio destro. In un raptus di rabbia iniziò a mordersi l’arto menomato, quasi volesse staccarne un altro brandello. In breve, le urla del paziente non furono che un’eco lontana. Il dottore si sedette alla propria scrivania, la penna tra le dita, fermo a riflettere su cosa annotare per la propria diagnosi. “Schizofrenia? Spiegherebbe deliro ed allucinazione…” Un rumore flebile e strisciante attirò la sua attenzione; abbassò lo sguardo. La mano stava scrivendo da sé. “ADDIO SORELLA”
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Sinigaglia Diana SARÀ UNA LUNGA GIORNATA La cosa che più piaceva a Michele era svegliarsi prestissimo, quando l’aurora iniziava appena a lacerare il buio e il fresco della notte ancora resisteva. Gli piaceva sapere che tutti erano nel loro letto mentre lui cominciava il suo giro mattutino del podere. Usciva senza fare colazione, con la sua tazza di caffè lungo in mano e lo beveva seduto sul muretto a secco che dava verso il pendio. Poi si alzava e si concedeva un lungo sguardo alla proprietà. I filari si susseguivano seguendo le ondulazioni del terreno, equidistanti, precisi. La vigna era ordinata, ora perfettamente sfogliata con i grappoli esposti e ben maturi. Non mancava che raccoglierli. La sua vista abbracciava tutto quello che poteva desiderare. Quasi tutto. Un leggero fruscio attirò all’improvviso la sua attenzione. «E tu? Cosa ci fai qui?» La volpe si girò e fissò Michele per un attimo per poi scomparire fra i tralci senza fretta. Sul viso dell’uomo un’improvvisa ombra. «Va be’, muoviamoci dai!» disse a se stesso e si avviò verso la rimessa a passi lenti. Il trattore era già pronto, il rimorchio attaccato e rivestito internamente con un grande telo di nylon. Manovrando in retromarcia lo fece uscire e lo sistemò al centro dell’aia. «Ciao papà. Già al lavoro?» sentì non appena spense il motore. «Giada! Sei mattiniera anche tu. È ancora presto, gli altri non arriveranno prima delle otto.» «Sì, lo so, ma così ti aiuto a preparare. Portiamo fuori le casse?» «Sì. Ne mettiamo otto all’inizio di ogni fila. Quattro per lato. Ma hai fatto colazione?» «Certo. Tu piuttosto hai mangiato qualcosa? Non puoi bere solo il caffè, te lo diceva sempre anche la mamma...» la ragazza socchiuse gli occhi verdi e le ciglia opposero un’estrema barriera. Quando li riaprì rilucevano talmente tanto che scaraventarono Michele nel passato. Ventiquattro anni prima, altra vendemmia, altri occhi. 141
Michele, con l’imbuto nella mano sinistra e le forbici nella destra, contempla il rosso fuoco dei riccioli di Serena dall’altra parte del filare. Serena, serissima, l’apice della lingua che spunta leggermente tra i denti, guarda soltanto i grappoli verdeoro che sta raccogliendo. Michele osserva i viticci che permettono alla pianta di aggrapparsi ai sostegni e immagina di estendere i suoi viticci sul corpo di Serena. Lei sembra leggergli il pensiero e abbassa gli occhi. Ma poi li punta su Michele quando lui si gira e va a svuotare l’imbuto. «Ma di cosa hai paura? Mica ti mangio!» le dice ridendo Michele attraverso le foglie che li dividono. «Di cosa ho paura? Di nulla.» risponde lei senza guardarlo e raccogliendo i capelli in una coda alta. «Davvero? Sei così coraggiosa?» «No. Di qualcosa ho paura. Della volpe. È troppo furba e insidiosa.» risponde Serena. «Ma non c’è d’aver paura della volpe! E la più timida degli animali.» «Ecco, allora ho paura della timidezza.» e finalmente alza lo sguardo e lo rivolge a lui. Due acini che sembrano strappati a un grappolo d’uva acerba lo fissano per un lungo istante tra le foglie per poi ritornare a concentrarsi sul lavoro. «Con quegli occhioni non puoi aver paura della volpe e nemmeno del lupo!» La vendemmia procede, Michele risale i filari con la carriola portando tre casse per volta. Il sole comincia a scaldare e il sudore riveste i muscoli del ragazzo di una patina luccicante. Sul labbro di Serena minuscole goccioline brillano. A mezzogiorno vengono distribuiti i panini e l’acqua e si mangia in vigna. Serena si attarda e non appena Michele si siede a terra per mangiare va a sedersi anche lei, un po’ distante da lui, ma non troppo. “Non mi è mai piaciuta la caccia ma questa volpe la catturerei 142
volentieri” pensa Michele inclinando un poco le gambe perché Serena non noti troppo l’usura degli scarponi. Attilio, col fiasco in mano, percorre tutti i filari e riempie i bicchieri. «Bevete ragazzi che dobbiamo svuotare le botti per far posto al vino nuovo! Sentite che meraviglia! È fresco e dolce come il nettare del paradiso!» «Per me no, grazie... altrimenti mi viene sonno.» si schermisce Serena coprendo il bicchiere col palmo della mano. «Ma benedetta ragazza! E se ti viene sonno che problema c’è? Dormi un po’ sul prato che questo bel giovanotto ti fa la guardia!» «Certo! Ti difendo io da tutti i malandrini e dalle bestie feroci, soprattutto dalle volpi!» e la risata di Michele allieta tutti i vendemmiatori e il cuore di Serena. «Serena la sai la storia della volpe e l’uva?» chiede lui. «Sì, me la ricordo un po’ dalla scuola.» risponde lei. «Ecco, allora non pensare mai che io non sia maturo per essere mangiato da te. Sono prontissimo, anzi sono cotto, mi hai cucinato ben bene!» serena arrossisce, lo guarda e abbassa lentamente le palpebre. Il lavoro riprende, tutti cominciano a essere un po’ stanchi e rallentano il ritmo. Michele sta ben attento a non vendemmiare troppo velocemente per mantenersi sempre di fronte a Serena. Per evitare che lei resti indietro raccoglie anche qualche grappolo dalla sua parte. Non riesce a distogliere gli occhi da lei, dai suoi capelli, da un ricciolo ramato che sfugge alla coda e si appoggia al suo collo bianchissimo. Serena si sente un po’ stordita. “Sarà stato il vino”, pensa. «Cosa fai questa sera dopo la vendemmia?» le chiede lui cercando di controllare il tono della voce per non far trasparire la sua agitazione. «Mah, non so, credo che si ceni tutti insieme nel cortile. Tu cosa fai?» «Io faccio quello che fai tu. Se rimani io rimango, se vai a casa ti accompagno. E se vuoi darmi un bacio io lo accetto...» aggiunge 143
sussurrando Michele. Serena non lo guarda ma cerca la base del grappolo da tagliare e gli sfiora leggermente la mano. «Agli occhi di Serena, i chicchi più belli di tutta l’uva che abbiamo vendemmiato oggi!» brinda Attilio a capotavola alzando il calice dorato. «A tutti gli occhi di tutte le ragazze» risponde Michele «ma soprattutto a quelli di Serena!» «Mi sa che a forza di brindisi ho bevuto un po’ troppo» risponde la ragazza sentendosi la testa leggera. Scosta la sedia da tavola, «devo fare due passi» dice e si allontana verso la vigna ormai spoglia. Michele aspetta un minuto, si alza a sua volta, e comincia a seguire le sue tracce. «Sai Giada, prima l’ho vista.» «Chi hai visto, papà?» «La volpe. Era sotto, nella vigna e mi ha guardato. Poi se n’è andata. Deve aver capito che oggi ci sarà una bella confusione...» «Ti manca tanto?» «Tutti i giorni, mi manca. La penso quando bevo il caffè, e se ne bevo troppo la sento persino protestare. La rivedo nell’erba che brilla dopo la pioggia, in ogni foglia, nei grappoli maturi, nei tuoi occhi.» «Forza, papà, al lavoro. Sarà una lunga giornata.»
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Tauro Elena GLI ANIMALI C’erano una volta un maiale, un coniglio, un’ape e una coccinella. Questi animali erano molto sapientoni, così tanto che facevano sempre la gara di chi era il più intelligente . Un giorno gli animali si incontrarono nel giardino per fare la solita gara. Il coniglio, per vincere la gara, disse : “Lo sapete che l’usignolo del Giappone nonostante il nome, proviene dall’india e dalla Cina, da anni si trova anche in altri paesi!” E il maiale disse: “lo sapete che indigeno significa animale che vive nel suo ambiente naturale?” Prima che i quattro finissero di discutere arriva un signore di nome Cristiano che gli disse: “Ehi voi, basta discutere! A cosa serve farlo?” E gli animali risposero: “Beh… perché dobbiamo scoprire chi è il più intelligente!” “Ma potete essere tutti amici al posto di litigare!” rispose Cristiano. Gli animali restarono muti, ma poi diedero ragione a Cristiano. Il Giorno dopo gli animali si rincontrarono e capirono che sono proprio le differenze a renderli amici. Ognuno ha i suoi difetti e i suoi pregi, dopotutto il mondo è bello perché è vario!
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Questo volume è stato stampato nel mese di Giugno 2020 dalla tipografia Ideostampa srl Colli al Metauro (PU) Tel. 0721 891655
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