ideobook 1° concorso letterario 2016 - Antologia Racconti e Poesie

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Stampato da www.ideostampa.com Maggio 2016


CONCORSO LETTERARIO IDEOBOOK

Racconti e Poesie

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PRESENTAZIONE

Ideostampa, in piena sintonia con la società contemporanea è pronta a rispondere alle nuove necessità di un mercato, in cui trasformazioni sempre più accelerate stimolano un impegno continuo per aggiornare le proposte e innalzare la qualità dei servizi. L’acquisizione di innovative tecnologie di stampa digitale, in grado di produrre libri anche a basse tirature e con costi molto competitivi ha dato a Ideostampa lo stimolo per avviare una nuova avventura culturale, cioè di bandire un concorso letterario denominato IDEOBOOK. Con questa iniziativa Ideostampa ha voluto dare un segnale forte in un momento di tendenze consumistiche, a volte esasperate, che tendono ad emarginare le arti, quali la scrittura, la pittura, la fotografia dando la possibilità a chi voglia di raggiungere ampliare la platea di potenziali lettori. Ideostampa, nei suoi trentacinque anni di attività, si è sempre impegnata nel mettere in risalto la bellezza, la creatività e la qualità delle produzioni manifatturiere siano esse artigianali, industriali o agricole, con un occhio di riguardo per la genialità e l’inventiva di tante attività che operano per dare alle nostre terre uno sviluppo equilibrato e sostenibile. Con il progetto IDEOBOOK cerchiamo un nuovo modo di promuovere questi valori attraverso le arti letterarie.

Qui a seguire alcune opere che non raggiungendo il minimo di battute previsto sono state raccolte in un unica pubblicazione. 3


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INDICE

pag. 7

Adriana Renelli SETTECERVELLI

pag. 15

Anuska Mainardi NERONE

pag. 29

Lucia Cicerchia OGNI GIORNO…

pag. 35

Luigi Stortiero SIMBIOSI

pag. 37

Rodolfo Tonelli IL BIANCHELLO NELLA STORIA

pag. 41

Tullio Martini IL PASTORELLO

pag. 49

Piero Talevi L STELLE - A SILVIA

pag. 51

Vittoria Schiavoni CAMMINO DELL’ ANIMA

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ADRIANA RENELLI

Settecervelli Non c’era dubbio: la sorte aveva attribuito a quella creatura una particolarità non da poco – sette cervelli - e per contenerli un involucro altrettanto considerevole. Si diceva sapesse fare di tutto. Aveva preso la manualità da suo padre che era un buon falegname e le doti più prettamente intellettuali da sua madre. Lei andava orgogliosa di questo figlio, ma certamente il cruccio per la sua poca avvenenza la faceva soffrire parecchio. Settecervelli era di statura piuttosto inferiore alla norma perciò talvolta, specialmente quando andava di fretta, la sua andatura risultava un po’ sbilanciata dall’eccessivo peso della sua scatola cranica. Ma poiché il nostro amico esercitava la sua capacità intellettiva in lunghe meditazioni e conseguenti riflessioni, aveva risolto il problema andando di un passo lento e tranquillo che oltre a un accettabile equilibrio, ultimamente gli conferiva un’aria contemplativa e trasognata. Tanto che in paese si diffuse la voce che Settecervelli era innamorato. Era però noto a tutti, anche in ambito scolastico, che con le donne, avesse poca fortuna. Certo le sue compagne di scuola erano sempre carine con lui, conoscendo la sua generosità nel passare loro i compiti in classe di latino e greco, magari lo coccolavano anche, riempiendolo di bomboloni alla crema di cui era goloso, ma di altro non se ne 7


parlava nemmeno. E proprio sui bomboloni, ogni giorno dovevano ripiegare le sue aspettative sessuali. La loro forma liscia, il colore dorato e quel contenuto fluido aromatizzato alla vaniglia lo riportavano sempre col pensiero alle sue compagne di studi, praticamente la sua unica e più assidua frequentazione. Non quelle alla moda, alte e slanciate dalla linea perfetta, conquistata spesso coi duri sacrifici di una dieta mortificante. A lui piacevano quelle tonde e morbide dalle curve larghe e profonde, vere matasse di pasta per dolci dove perdersi in impensabili languidezze, tipo le donne di Botero, di sicuro anche quelle dovevano avere una crema dentro, che andava aldilà di ogni possibile goduria. Era timido Settecervelli, e le guardava spesso di sottecchi ma con una tale intensità di concentrazione da sembrare un filosofo assorto in qualche corposa meditazione, o un innamorato perso. Ma non era innamorato di nessuna in particolare, Settecervelli. Non cercava nell’altro sesso quelle che comunemente si chiamano affinità elettive, gusti, pensieri, progetti da condividere. Niente da spartire con tutto questo. Perché l’attrazione scattasse, il cervello, cioè le sue numerose dotazioni cerebrali, dovevano mandare un input alle sue papille gustative. Tanto che queste si accendessero, si attizzassero oltre misura, inducendo in lui una specie di sublime acquolina, al limite della scialorrea, ma senza gli effetti negativi di questa, anzi, ne era la caratteristica una salivazione da delirio così incontenibile da tramutarsi in una specie di from, from, gnam, gnam, un grugnito di bramosia come un felino che geme, ronfa, sbava davanti a una preda da pregustare che lo fa impazzire. Ma doveva contenersi Settecervelli, ridurre al silenzio ogni sintomo, affinché le destinatarie non se ne accorgessero, e questo diventava sempre più difficile. Ultimamente sua madre l’aveva visto preoccupato e smagrito 8


nonostante i cartoni di bomboloni che le ragazze grate per i suoi generosi contributi, continuavano a portare. Settecervelli passava notti intere a riflettere su come fare a gestire quel disturbo e spesso la mattina, con gli occhi profondamente cerchiati per l’insonnia patita, non riusciva a stare in piedi. Così si recò senza dire niente a nessuno dal medico, che gli prescrisse un tranquillante che lo avrebbe fatto dormire sonni profondi. La dose consigliata era di una compressa dopo cena, ma chissà perché questo rimedio non sortì nessun effetto. Settecervelli, fiducioso si preparava a dormire con le migliori intenzioni. Si girava e rigirava nel letto, ripassava tutta la lezione a memoria, inventava esercizi supplementari di latino e greco, ma il sonno non arrivava. Dopo la quarta sera, stufo e spazientito per questo calvario, buttò giù d’un fiato cinque o forse sei compresse, a caso. Chi, poco dopo fosse entrato nella sua camera per fargli una improvvisata, l’avrebbe sentito russare come un somaro, ammesso che i somari russino. Sua madre che la mattina non l’aveva sentito far alcun rumore, né visto scendere per la colazione, corse in camera e allarmata per il flacone del tranquillante sul pavimento, di cui ignorava l’esistenza, si sentì venire un infarto. Dopo averlo chiamato e scosso energicamente senza risultato, fu tentata di correre dai vicini per chiedere aiuto o affinché avvertissero suo marito già uscito per il lavoro. Ma poi, dopo essersi battuta la testa contro il muro, decise che bisognava soprattutto, agire con calma. Spalancò la finestra, inzuppò un asciugamano con l’acqua fredda e lo strusciò sulla faccia del figlio senza tante delicatezze. Dopo qualche istante in cui stava già per gridare aiuto, Settecervelli si girò da un lato, fece un lungo sbadiglio a cui ne seguirono altri, e con la lingua impastata, biascicò: che ora è ? 9


Sua madre tutta ringalluzzita tenendosi stretta una mano sul cuore, ringraziò Dio e gli disse di stare tranquillo. Era tardi, molto tardi. Quel giorno avrebbe saltato la scuola. Settecervelli si riprese presto e da quella volta trovò che la dose giusta per lui, erano tre compresse. Ma intanto sua madre non lo perdeva d’occhio un minuto. Era convinta che suo figlio avesse tentato il suicidio. Anche a lei erano giunte le voci, per altro false, di un suo innamoramento forse non ricambiato, ma lei non sapeva proprio come fare. Non era colpa sua se quel figlio non era venuto bene. Bello, non era bello. Intanto nella sua testa gironzolava quell’idea del suicidio e non avendo altri di cui fidarsi, andò dal prete. Prima che lui dopo aver fatto il segno della croce, la invitasse a confessare i suoi peccati, lei lo prevenne – Don Giulio, il Signore mi perdonerà, se questa volta non vengo per i miei peccati. Ho un gran magone don Giulio, vengo in confessionale, perché ho da dirle un gran segreto. Non vorrei che anche lei indotto in tentazione, lo andasse a dire in giro. Sviscerò con circospezione l’argomento, e alla fine uscì tranquillizzata. Don Giulio era sicuro che fosse stato uno sbaglio. Anche lui una volta che era amareggiato perché quasi nessuno andava più a messa, per poterci dormir su la notte, aveva preso quel farmaco: già, uguale uguale, perché il dottore, dava lo stesso a tutti. Ma per dormire in santa pace, gliene era bastata una compressa. L’importante era non drammatizzare. Nel giro di poco tempo tutto ritornò nella norma, anzi Settecervelli s’era dato una calmata e quella voglia di materia umana ri10


chiamata dai bomboloni che erano tornati ad abbondare, sembrò affievolirsi. Merito sicuro anche del tranquillante. Ma si sa che ai farmaci un po’ alla volta si fa l’abitudine. Intanto la scuola era finita. Era stato l’anno della maturità, e grazie al contributo di Settecervelli e alla distrazione degli insegnanti che preferivano parlare dei fatti loro anziché vigilare, tutta la quinta C aveva superato discretamente quell’osso duro, quello scalino accidentato che segna un’importante tappa nella vita di molti. Nella sua classe nessuno era stato bocciato. Settecervelli avrebbe passato le vacanze nella sua città di mare, steso sulla sabbia come sempre, a prendere il sole in compagnia soprattutto dei libri. Con la fine della scuola era finito anche il rifornimento di bomboloni alla crema. Settecervelli cominciava a sentire forte il peso di questa crisi da astinenza. Non mancavano intorno a lui, sulla spiaggia, stese sui lettini, in acqua a galleggiare, o a spasso sulla battigia, deliziose e succulente cicciotte sulle quali senza darlo a vedere, buttava lo sguardo. Un giorno che era praticamente fuori di testa, nel senso che non pensava a niente, vide che sua madre in compagnia di una florida ragazzotta bionda dall’impasto brunito e abbondante, lo invitava a raggiungerla. La ragazza, stesso liceo, stesso anno, diversa sezione, era stata rimandata in due materie; era per lui l’occasione buona per iniziare a dare lezioni private. Sette cervelli disse subito di sì. La sua ricca materia cerebrale, ormai assuefatta all’azione del sedativo era tornata allo stato originale. Gli era arrivato un input che più chiaro non ce n’è, e cominciò con slancio le sue lezioni. La ragazza veniva dalla campagna, dai modi si vedeva che ave11


va ricevuto un’educazione vecchio stile. Era spiccia e decisa, andava a lezione per imparare, ma con la cresta alta. Un giorno particolarmente caldo, arrivò con un vestito parecchio scollato, che metteva in mostra tutti i suoi particolari e strategici accumuli: monti, colline, avvallamenti; un paesaggio variegato da incantare, anche chi non avesse una particolare predisposizione per la geografia. Nel corso della lezione s’era poi persa e impantanata in alcuni esercizi di consecutio temporum, ma Settecervelli ce l’aveva messa tutta per guidarla lungo quell’antica via dimenticata; s’era mostrato paziente e accomodante come non mai. Poi, fu un attimo. Un segno, ad altri impercettibile. Qualcosa lo catturò, un brillìo improvviso, lo sfarfallio allucinatorio di un’immagine, gli ricordò la forma liscia e pastosa di un bombolone. La sua consistenza morbida e palpabile. Anzi, nell’aria dolciastra e sudaticcia dell’estate, gli arrivò un sentore forte di vaniglia che lo stordì. Un suono incontrollato uscì dalla sua bocca, una specie di from, from, netto, rotondo, onomatopeico, impossibile richiamarlo indietro, come di chi affonda le papille ingorde in una delizia molle e celestiale. E la mano, la mano fu galeotta, venne in suo aiuto con uno scatto preciso e predatorio sulla spalla tonda e morbida a cui seguì una bocca avida che osò l’inosabile. Settecervelli s’era buttato senza ritegno su quella bella polpa carnosa e calda, tentando di azzannarla col maggior garbo possibile. Tentando, perché uno schiaffone di una potenza inaudita, s’abbatté sulla sua faccia, spostandogli due denti. D’incanto il from from della concupiscenza golosa si zittì, l’acquolina della solitaria gozzoviglia s’inaridì. Sette cervelli con la bocca asciutta,vergognoso e dolorante non sapeva dove nascondersi. 12


Poi la vita, si sa, offre spesso le sue scappatoie, e in seguito, con l’inizio dell’Università dovette trasferirsi altrove. Ma quello schiaffone, nonostante l’emozione e la soddisfazione delle sue numerose lauree, continuò a lungo, negli anni, a bruciare più d’ un ferro da stiro regolato al massimo, sul braccio nudo di una colf sbadata.

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ANUSKA MAINARDI

Nerone L’aria era piena di grilli, baluginava lungo i greppi e sulla strada riarsa. - Dai, Nero’, il fiume è qui sotto. Senti l’acqua? Il torello era stanco. Seguiva a passo lento il ragazzino che lo tirava, lo spingeva, l’abbracciava e lo baciava sulla pelle ispida, profumata di grasso. Imboccarono lo stradello. Il fiume era un serpente lucido e pigro fra sassi bianchissimi, spolpati come ossa da camposanto; il limo putrido, steso al sole, puzzava di marcio. Antonio accompagnò l’animale fino al rigagnolo, attento a non farlo scivolare; Nerone sorbiva l’acqua con lente linguate mentre lui, disteso a pancia sotto, tuffava la faccia nel liquido fresco e trasparente. Sotto la cappa brutale del caldo, a fior d’acqua brulicavano pesciolini grigi che si muovevano in sincrono, ordinati e compatti. Il ragazzo si alzò, si asciugò con la camicia, afferrò la cavezza e riportò la bestia sulla strada. Giunti a un fazzoletto di prato recintato, spinse il cancelletto e si tirò dietro il toro. - Vai, bello. Mangia tranquillo. Zio Peppe è in Paradiso e i figli in America. Puoi mangiare quanto ti pare. L’animale caracollò lungo la siepe e immerse il muso nell’erba. Antonio sedette con le spalle appoggiate a un olmo, si tolse il tascapane e lo aprì religiosamente. Prese la pagnottina di pane, la spezzò, rimise nella cartapaglia la parte più grande, pescò un 15


uovo sodo rintanato sul fondo e lo batté contro un sasso. La pallina turgida aveva l’odore invitante di un pranzo da re. Nerone, poco lontano, brucava tranquillo. Il caldo e la camminata gli chiusero gli occhi, si appisolò a gambe larghe, con il tascapane rovesciato sull’erba. … Il sogno cominciava sempre nella casa dove c’era la lampadina con il piatto bianco, a onde. C’era il padre, un uomo alto che aveva denti grandi, rideva e inseguiva sua madre intorno al tavolo, le scioglieva il sinale. Anche lei rideva forte, aveva la crocchia disfatta e le guance rosse. Era bella e sudata. ... C’era un uomo con i bottoni di ferro e il cappello verde. Lo guardava fitto e lo voleva baciare. Era cattivo. Lui scappava dietro nonna Nenè. Lei gli diceva: - E’ papà, vai da lui. No! ... C’era una donna tutta bianca che piangeva sempre. Nenè l’imboccava, le faceva la treccia, la baciava in fronte; gli diceva: - E’ mamma, va’ da lei. No! ... C’era un prete tutto nero, con la gonna. Lo teneva stretto per mano e lo tirava. L’aveva regalato alle monache nere con la testa fasciata. Una gli diceva: - Mi dai un bacino? - No! ... Poi c’erano Domenico e Giuditta che l’avevano portato a casa loro. Ci stava bene, però pensava al prete nero con la gonna e pian16


geva. Domenico gli chiese: -Perché piangi? -Per il prete nero che mi porta via. Allora lui lo prese in braccio e andò di sopra. Lo mise a sedere sul letto, tirò giù dall’armadio il fucile e gli disse: - Anto’, vedi questo? Se il prete nero viene, io gli sparo nel culo. E anche in testa. Tu sei mio figlio e guai a chi ti tocca. Lui sentì che era vero. Si leccò le lacrime, rise e non ebbe più paura. ... Anche il ragazzino addormentato sorrise, poi si girò su un fianco e il sogno si girò con lui. Adesso c’era la Berta. La notte che le nacque un vitellino lo chiamarono Nerone perché era tutto nero. Dopo qualche giorno i suoi si accorsero che era un vagabondo, non voleva ciucciare. Domenico decise di venderlo al macellaio, ma lui aveva ormai otto anni e aveva capito la situazione: si attaccò al collo della bestia e non c’era verso di staccarlo. Il padre gli promise un cagnolino tutto suo, ma lui faceva - no con la testa e piangeva. Si arresero. Giuditta gli insegnò a mettere in bocca a Nerone una zinna della Berta e a pompare. Il figlio imparò subito e stava le mezze giornate seduto sotto la mucca con il vitello in braccio. Il vitello un po’ inghiottiva, un po’ sputava, ma cresceva. Leccava il padroncino nella faccia, lui lo baciava e diventavano fratelli. Non era mai stato così felice. E anche i suoi genitori adottivi. Il sole aveva camminato e gli passeggiava in faccia. 17


Antonio aprì gli occhi, si stiracchiò con un versaccio ché tanto non lo sentiva nessuno, fece un bel rutto della buona digestione e una scorreggia puzzolente, poi infilò un braccio sotto la testa e cercò Nerone con lo sguardo. Il torello era diventato bellissimo. Domenico gli aveva spiegato che era un vitellone di razza piemontese. Aveva macchie nere intorno agli occhi e una mantellina nera sulle spalle come quella di nonna Nené; il corpo era grigio e i muscoli si muovevano sotto la pelle come quelli di Domenico quando faticava nella stalla; le zampe erano nere fino al garretto, sembravano stivali, e lui glieli spazzolava per farli venire lucidi, ma la cosa più bella di Nerone era la coda: in fondo c’era attaccato un ciuffo grandissimo di peli neri. Lui lo pettinava con il pettine vecchio che gli aveva regalato Giuditta e gli faceva i boccoli come quelli di una donna. Antonio sorrise, masticò uno stelo di lupino selvatico, poi si accigliò. Anche se era diventato grande e grosso, il toro gli dava pensiero perché continuava a mangiare di malavoglia. Domenico lo rimproverava: -Tu lo vizi, lui è una bestia, sei tu che devi comandare! - ma il padre era grande, non capiva. Come quando gli diceva: - Stai attento, le bestie sono traditore. Quello che hai è un bestione di tre quintali che se vuole ti si mangia intero, invece tu lo tratti come un gatto. Devi tenerlo sempre alla cavezza, gli devi camminare davanti e lui ti vien dietro, tu devi portati un bastone corto e quando sei con lui non mettere roba che sventola: è un toro e i tori danno di matto. Lui stava zitto e faceva sì con la testa perché Domenico gli voleva un gran bene, ma doveva essere obbedito e aveva ragione anche quando aveva un po’ torto. 18


Appena finito di rigovernare la stalla e custodito gli altri animali, passava in cucina a prendere il tascapane che Giuditta gli faceva trovare pronto, poi si portava Nerone nell’unico fazzoletto di terra dove l’erba cresceva abbondante e pranzavano insieme. Domenico non era contento, diceva che era un pericolo inutile, che era anche contro la legge perché il figlio aveva solo undici anni e per portarsi in giro un torello ce ne volevano diciotto. Poi diceva che non valeva la pena, tanto, chilo più, chilo meno, quello era un vitellone e aveva già la sua pianeta scritta: la sua pianeta era il mazzarino di Michele, il macellaio che stava in piazza, a Verrua Savoia. Invece sbagliava perché Nerone non aveva quella pianeta. Lui aveva pensato una bella idea. Con un colpo di reni si alzò in piedi. - Aò, compà! Hai mangiato? Lo prese per la cavezza e senza tanti complimenti se lo tirò dietro. Domenico e Giuditta, gente buona e onesta, erano molto affezionati ad Antonio: d’inverno lo mandavano a scuola giù in paese e d’estate, dopo i lavori di stalla, lo lasciavano libero di viversi le sue giornate. Lui le condivideva con Nerone, ma aveva questo tarlo nel cervello che lo rodeva notte e giorno. Gli aveva evitato il macello due o tre volte con la scusa che era ancora magro, che era meglio aspettare, e intanto cercava il modo di salvarlo dal mazzarino. Ma le scappatoie non c’erano: ormai pochi contadini usavano le bestie per lavorare la terra e un torello non è una vacca, non dà latte. Solo carne. Domenico sosteneva che tutti debbono guadagnarsi il pane, anche Nerone. Il ragazzino, a furia di pensare, aveva trovato una soluzione e 19


una sera provò a parlarne con Domenico. Avevano appena cenato e stavano fuori, sulla panchina di legno fra il coro delle cicale. Giuditta rigovernava in cucina. La prese alla larga. - Papà, avete visto quanto latte ha fatto la Berta? Non mi bastava il secchio. - Sì, si comporta bene. Il mezzo sigaro puzzolente impestava l’aria. - Anche i conigli vanno bene. Domani mamma Giuditta ne pulisce cinque per Michele giù al macello. Li porto io con la bici. - Bravo. - E voi l’avete ritrovato il... - Anto’, mi sai dire di preciso cosa vuoi? - Pensavo a Nerone... - Ecco, lo sapevo. E allora? - Cresce bene, è un vitellone bellissimo. - Si, sei bravo a stargli dietro. Avevi ragione, è ingrassato. Ma di preciso, cosa vuoi? - Voglio tenere... Vorrei tenere Nerone. - Vuoi tenere Nerone? Ma che significa? Non è un cane o un gatto. - Come si può tenere senza farlo ammazzare? - Impossibile. Tutti noi abbiamo un destino, Anto’. Il suo è Michele. - No! Non voglio. - Anto’, prima ti rassegni e meglio è. Vuoi andare un po’ da mia sorella a Torino? Fra due mesi ci vai a studiare, intanto prendi confidenza con i tuoi cugini. - No. Quando torno voi l’avete già fatto ammazzare. - Senti, fai come ti pare. Adesso vai a letto ché è tardi. - ... si potrebbe fare una Monta... La gente, invece di portare le bestie da coprire giù in paese, le porta qui e le dà a Nerone. Lui lavora e noi ci guadagniamo. Domenico trattenne il fiato per lo stupore, poi scoppiò a ridere a 20


bocca aperta, di gusto. Giuditta si fece sulla porta. - E allora? Cosa c’è da ridere? - Mettiti seduta, Giudi’, senti cosa ha pensato tuo figlio per non vendere Nerone. - Non c’è proprio niente da ridere, si può fare benissimo. La donna scosse il ragazzo per la spalla. - Dai, non farti pregare! Dillo anche a me... Ma Antonio stava a testa bassa, ferito dalle risate di Domenico. - Ha pensato di fare una Monta qui da noi. La donna non rispose subito. Antonio la guardava di sottecchi, sapeva bene chi era il vero capofamiglia. Aspettò. - Una Monta... Beh, si potrebbe fare nella capanna. Non serve niente, basta uno stallo, un tavolo e un registro. Quanto si guadagna, Dome’? - Ma sei scema? Vai dietro a tuo figlio? - Su, dai, è solo per parlare! Cosa c’è di male? Lui si rabbonì. - Beh, quando abbiamo fatto coprire la Berta ho speso duemila lire con il patto di riportarla fino quando era gravida. - Non mi sembra poco. Non bisogna fare niente: il padrone porta la bestia, il padrone se la riprende. Si intromise Antonio. - Certo! A noi basta Nerone! Lui è di razza famosa e... - ... e un figlio di puttana, salvognuno. Una bestiaccia viziata che non mangia se non è roba fresca e deve far due passi per digerire come la principessa Taitù. No, no e no, non va bene. Non posso far passare il tempo e dopo non è più nemmeno da carne... - Ma... Nello scuro, una mano gli artigliò il ginocchio. Zittì. - Va bene, va bene, Domenico. Si fa per parlare, per dire due parole in famiglia. Sai tu quello che bisogna fare. Anto’, cammina subito a letto ché domattina la stalla non aspetta. - Buona notte. 21


- Buona, buona. E non pensare a Nero. Dormi. - Mmmm... - Il Signore ti benedica. - Amen. Ma il seme era gettato. Antonio spazzolava tutti i giorni il suo amico e lo faceva attraversare l’aia lentamente, come fanno alle mostre taurine. Il pelo nerissimo, mandava bagliori blu, il nappo della coda, serico e lucente, sembrava veramente i capelli di una donna. Giuditta rideva sotto i baffi: capiva benissimo le manovre del figlio. Nerone era il primo animale a essere accudito e l’ultimo a essere salutato prima della chiusura della stalla. Era l’ottobre del ‘53, l’anno del distacco. Antonio andò a vivere a Torino, a casa della zia Peppa, sorella di Domenico. La maestra aveva detto che il ragazzo aveva cervello, doveva studiare e diventare qualcuno. Così i genitori rinunciarono all’Avviamento a Verrua e lo mandarono alle Medie insieme al cugino Gaspare. A parte la mancanza di Nerone e quella della famiglia, lui si trovava benissimo sia a scuola che nella grande città. Era di buon carattere: dava una mano in casa e con i compiti di Giulia, la cugina più piccola. Aveva un calendarietto e cancellava ogni sera il giorno appena trascorso per accorciare il tempo. Quando tornava a Verrua trascorreva le vacanze alla Monta. A chi gli chiedeva come si fosse deciso, Domenico diceva che era tutta colpa di quella zanzara di Giuditta che gli soffiava nelle orecchie per accontentare il figlio. In realtà il vero motivo era che avevano chiuso l’attività giù in paese. Pasquale, il padrone, si era scoperto un malaccio, così aveva 22


chiuso baracca e burattini ed era andato in città dalla figlia. Prima però aveva venduto a Domenico tutto quello che serviva e gli aveva insegnato cosa c’era da fare. L’”elemento” più importante naturalmente era il toro e Nerone li aveva lasciati a bocca aperta. Era nato per quel lavoro. I clienti rimanevano abbagliati dalla sua bellezza e dalla razza pura, capace di garantire il miglioramento delle caratteristiche genetiche delle bestie. Gli affari prosperavano. Antonio aveva riportato per lui, dalla città, una cavezza di morbido cuoio nero decorata con borchie d’argento. La corona per il nuovo re. La sera della telefonata era in seconda ginnasio. Stava ripassando la perifrastica passiva per il compito del giorno dopo, quando Gaspare bussò alla porta della camera. - Anto’ vieni, è per te. In un attimo era alla cornetta. - Papà? - Anto’, stai calmo. Abbiamo Nerone che... - Sta male? È morto? - No, non è morto, ma è grave. - Vengo a casa. - Vieni domani sera che è sabato. - Ma... Silenzio. - Va bene. Mamma sta bene? - Sì, sì. Riattaccò. Si avvicinò lo zio. - Anto’, le bestie sono come i cristiani. Si ammalano, si curano e guariscono... Stai tranquillo. - Zi’, se fosse stata una cosa da poco papà non avrebbe chiamato. Lasciarmi andare a casa poi... - Inutile fasciarsi la testa prima di romperla. Va’ a finire il ripas23


so di latino. La valigetta te la prepara zia domattina. Rovinarti la media non serve a nessuno. - Va bene. Vado. Intanto vi lascio la buona notte. La corriera arrancava sui tornanti mentre attraversava paesaggi da cartolina; la sera imbruniva le creste dei monti quando finalmente si fermarono in piazza. Il padre fumava il mezzo sigaro appoggiato alla topolino amaranto. - Papà... - Adesso andiamo a casa. Poi ti spiego. - No! Il padre si girò di scatto. - Scusate, volevo chiedere se per piacere mi spiegate... - Va bene. Intanto sali. C’è poco da dire, purtroppo. Nerone ha preso l’afta epizootica. - È grave? - Sì. Non può mangiare. - Ecco qua. Lo scemo prima non... - Piano con le parole. - Scusate. È buffo che da piccolo doveva morire perché non mangiava e adesso, da grande, rischia di lasciarci la pelle perché non può mangiare... Ma perché non mangia? Adesso lo convinco io, come facevo... - No, Anto’. Non può mangiare perché l’afta gonfia la bocca, la lingua, tutto il tratto digerente. È una pena, preparati. Giuditta era ritta davanti alla porta di casa, le mani infilate nel grembiule arrotolato. Abbracciò stretto quel figlio cittadino, alto e forte. - Mamma... - La cena è pronta. - Prima vado da lui. - Va bene. La Monta era uno stanzone lungo, diviso al centro da un corrido24


io che terminava con una porta scorrevole. Ai lati lunghe inferriate robuste delimitavano i box dei due tori. Quello di Nerone era a destra, lo spazio a sinistra era vuoto. Antonio si avvicinò alle sbarre. - Nero’... La bestia alzò la grande testa. Non era bardato, aveva soltanto l’anello al naso per permettergli il ruminio della bocca semichiusa. Baciava l’aria con grandi schiocchi. - Ma che sta facendo? - Niente, è la malattia. La bava biancastra, appiccicosa, inzuppava la paglia pulita sotto gli zoccoli. Entrarono il veterinario e Giovanni, l’operaio di stalla. - Buonasera, dottore. - disse il padre e scambiò un cenno con l’uomo che l’accompagnava. - Buonasera a voi, sor Domenico. Ciao, Antonio - si avvicinò al ragazzo - adesso visito Nerone e ti mostro quello che c’è da vedere. Se vuoi, chiedi pure. - Grazie. Il medico tolse il giaccone e chiese ad Antonio di infilare una tuta pulita, gli stivaloni e di disinfettare mani e braccia insieme a lui. Poi indossò un camice bianco ed entrarono nel recinto. - C’è pericolo che mi attacchi la malattia? - No, non stiamo riguardati per noi, non si attacca all’uomo, ma meno germi abbiamo addosso e meglio è. Intanto l’operaio, attraverso un uncino di ferro, aveva legato il toro all’anello di sicurezza. - Lascia la corda lunga, Giova’. - Va bene. Il ragazzo si avvicinò all’amico e lo accarezzò nel collo, lo solleticò in mezzo alla fronte spaziosa, incurante del muco e della saliva insanguinata che bagnavano gli stivaloni. - Nero’... Nerone, dai bello... Dai, sono qui, sono con te. Dai che 25


la sfanghiamo anche questa volta. Il veterinario si avvicinò, aprì la bocca dell’animale e, con la mano coperta da un panno bianco, gli afferrò la lingua. Alla luce forte delle lampadine, entrambi videro che era coperta di vesciche, tumefatta, con lunghi tagli sanguinolenti; una abnorme stomatite ricopriva tutto il cavo orale e gli impediva di masticare; l’alito era pestilenziale e infuocato per la febbre altissima. Il medico scosse la testa. Antonio, con la fronte appoggiata alle sbarre, piangeva in silenzio. Gli uomini parlavano fra loro sottovoce, il toro si lasciava fare, stava a tutte le mosse. Quando uscirono dal box, il medico si tolse il grembiule, lo mise in una busta e la chiuse accuratamente poi chiese ad Antonio di lasciare la tuta sul banchetto perché andava lavata in acqua bollita. Si insaponarono accuratamente e si disinfettarono. Giovanni rimase con il toro per accudirlo, gli altri uscirono nella notte stellata. - Sta a cena con noi, dottore? - No, grazie, sor Domenico, come avessi accettato. Sono sempre in giro, almeno la sera debbo dedicarla alla famiglia. - Giusto. - Ma domattina torno. Batté più volte sulla spalla di Antonio. - Senti, ti conosco da quando tenevi Nerone sotto la Berta e so che per te è molto più di un toro, ma hai visto tu stesso quanto soffre… - Sta morendo di fame, vero? - No. O almeno non solo. L’afta è un’infezione batterica che aggredisce i bovini e raramente lascia scampo. - Quanto tempo... - Mah, non si può dire. Entro la settimana. Nerone morì la domenica notte, quando Antonio era ormai a Torino. 26


Domenico e Giovanni lo trasportarono nella buca che da giorni era pronta per lui sotto l’olmo del piccolo prato di zio Peppe, acquistato proprio per il riposo sereno di un “guerriero che non aveva mai fame�.

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LUCIA CICERCHIA

Ogni giorno… Ogni giorno, lo stesso percorso mi proponeva gli stessi scenari, gli stessi visi, ognuno con la sua storia e con i suoi problemi. Non suscitavano nessuna forma di curiosità, era tutto così “normale”, non c’era niente che potesse farmi scaturire qualche domanda, anche la più banale. La strada scorreva lenta e immutabile, ogni chilometro segnato dalle stesse curve e dagli stessi incroci. Facendo sempre il solito orario, potevo prevedere anche la posizione del sole e delle nuvole. La scena si ripeteva, inesorabile, e non lasciava mai uno spiraglio aperto per poter introdurre un dettaglio, un dubbio o una curiosità. Io guardavo dal finestrino attenta ad ogni dettaglio, che ormai conoscevo a memoria, ma niente poteva suscitare un’emozione imprevista, tantomeno un brivido inatteso. L’unica cosa che mi distraeva dalla noia era la vista di una casa, non particolarmente bella, ma pulita, curata in ogni minimo dettaglio e dove mai niente poteva infastidire l’occhio o far pensare soltanto ad una dimenticanza o alla trascuratezza. Ero impaziente, ogni giorno, di passare davanti alla “Casa linda” (l’avevo chiamata così) per verificare che, come sempre, ogni cosa era al suo posto. Non vedevo mai anima viva, le finestre erano aperte ma le porte mai, e nemmeno il cancello. Sicuramente era abitata perché l’ordine regnava sovrano: mai una cartaccia, un fiore appassito, una macchia nell’intonaco. Ma non c’erano mai auto, bici o semplicemente una palla dimenticata da 29


un bimbo, inconsapevole di deturpare una scena così perfetta e immobile. Ogni giorno constatavo quanto amore dovesse esserci per curare tanto attentamente ogni centimetro quadrato e non potevo evitare il paragone con la mia casa, che avrebbe avuto bisogno di una tenda nuova, di rinfrescare la vernice delle persiane oppure di potare un po’ meglio le ortensie, sotto la finestra della camera da letto. Sembrava una scena creata appositamente per quelli che viaggiando, non avrebbero potuto fare a meno di pensare a chi ci abitasse e a quale famiglia era dedicato tanto spazio, e così fantasticare sulle storie che avvenivano tra quelle mura: signore ben vestite e premurose con gli ospiti, bambini educati che non facevano mai capricci, uomini colti e garbati, che conoscevano l’esatta misura delle cose e non si lasciavano mai andare a battibecchi o inutili facezie. E bello era anche il constatare che ogni colore era stato dettato da un animo sensibile e delicato, tanto da scegliere tinte chiare e raffinate, che si accostassero bene le une alle altre e tali da creare un’armonia della visuale che non avrebbe mai creato fastidio o soltanto disappunto agli occhi di qualsiasi osservatore. Tutto era giocato con i toni del grigio perla e dell’azzurro polvere. Nella mia mente salivano e scendevano quelle scale persone dotate di una calma estrema, di una serenità meritata, sempre sorridenti e capaci di relegare i malumori e i problemi al di fuori delle mura domestiche. Sono sempre rimasta fuori, a guardare chi sarebbe potuto entrare od uscire; non ero mai giunta all’interno e non avevo mai preso in considerazione l’arredamento che avrei trovato, sicura comunque di vedere una pace raramente incontrata e un arredo giusto, comodo ed elegante al tempo stesso. Lo scenario era piuttosto insolito, originale direi. Quale casa non prevedeva degli imprevisti, dei danni o, semplicemente dei cambiamenti, delle novità. L’immobilità assoluta di ogni dettaglio rendevano quella scena fotografata e non frequentata da 30


anima viva, che avrebbe potuto infrangere quell’assoluto scenario di staticità. Era come vedere la pagina di una rivista, dove tutto è calcolato e studiato, pronto per essere in posa e dare la migliore immagine di sé. Era tutto predisposto e inscenato perché io, ogni giorno, potessi dar vita ad una storia, a mio piacimento, completamente libera da qualsiasi obbligo o interferenza indesiderata. Praticamente mi ero dotata dello scenario ideale per ambientare le storie che mi venivano in mente, tutto era congeniale e ruotava attorno al mondo perfetto che esisteva soltanto nella mia fantasia, nella fantastica realtà che doveva esserci, da qualche parte. Un mondo dove non venivano messe in discussione l’onestà, la lealtà, la sincerità perché erano valori indiscutibili, che prescindevano dal carattere o dalla personalità dei vari personaggi; un mondo dove non esistevano corruzione, ricatto o falsità semplicemente perché non esistevano e non potevano apparire se nessuno le conosceva o le capiva. Mi mancava quella scena quando non percorrevo quella strada, mi mancavano le storie a lieto fine che vi dovevano accadere, avevo nostalgia di quell’atmosfera rilassata e intrisa di beatitudine. E passando di nuovo cercavo di scorgere ogni più piccola informazione che avrebbe arricchito il mio quadro. Non accadeva mai niente, passavo e ripassavo, ma tutto era sempre uguale, come in una fotografia. E, in una fotografia, ci possono essere dei margini che la incorniciano o che creano un’atmosfera distante; invece lì no, non esistevano elementi che potessero far pensare a qualcosa di artificioso o di manipolabile. Il mondo reale, dove viviamo, non ha cornici o margini. E’ come è, non disturbato da niente o da tutto. Ma forse, tutta questa perfezione, poteva soltanto farmi ammirare quanto di diverso trovavo da me: voci, urla, risate e l’allegria di gente che viveva nella realtà, fatta di sbagli e di compromessi, di gioie e di dolori che le lacrime non riuscivano ad alleggerire. La malinconia di una casa deserta era scongiurata perché 31


abitualmente c’erano fiori da recidere, cornicioni da riparare, pipistrelli che l’avevano scambiata per un ghetto e qualcuno che faceva chiasso per un’inezia o per una superstizione. I vicini sapevano di poter trovare un sostegno o semplicemente una spalla, ed era questo che circondava la casa: il buon odore delle cose cucinate e la musica che usciva dalle finestre, un ombrello appoggiato dall’ultima pioggia e l’innaffiatoio pronto all’uso. Anche le formiche, i ragni e le talpe ormai conoscevano i ritmi della casa e si erano adeguati per gestire le loro incursioni. Forse era un desiderio inespresso ma anche una situazione scongiurata quello che rendeva la “Casa Linda” così irraggiungibile da essere confinata nella mia mente. Si trattava dello scenario ideale dove ambientavo la mia realtà, ma senza rendermi conto che è proprio nell’infrangersi della perfezione che nascono le emozioni più inaspettate, i momenti che fanno nascere le reazioni più forti, più violente; quelle che determinano il terreno nel quale muoversi, la realtà che più si addice al nostro essere e alla nostra voglia di vivere. Non avrei mai voluto cambiare, anche se la “Casa Linda” esercitava su di me un fascino incredibile, come di un mondo fantastico dove regnava soltanto il meglio. Ma qual è il meglio? Ed è lì che vogliamo vivere: senza lacrime ma senza sorrisi? Forse il meglio non può essere previsto perché non si potrebbe avere il dubbio, che rende ogni cosa inaspettata e indecifrabile, fonte di tormenti e ansie ma capace di generare soddisfazioni e gioie. Ne abbiamo bisogno perché ogni giorno sia diverso dai precedenti e ci lasci cullare quella visione onirica che, come la “Casa Linda”, potrebbe influenzare i nostri sogni, le nostre aspettative e rendere il tutto più eccitante. A volte, un viaggio cambia la vita non importa la destinazione: quello che conta è nella nostra mente, conta il desiderio di trovare quello che stiamo cercando e, viaggiando, possiamo trovarlo. Il viaggio ci dà la possibilità di cercare e, quindi, la possibilità di trovare. Chi si reputa soddisfatto senza aver intrapreso questa 32


strada non conosce quale avrebbe potuto essere il suo traguardo ma nemmeno quale sarebbe stato il suo percorso e le sue tappe. Sarebbe un arrendersi senza sapere a cosa e questo ci darebbe un rancore indefinito che non sapremmo di avere, nÊ tantomeno perchÊ. E la vita è già abbastanza imperscrutabile senza aggiungere altre condizioni recondite e inspiegabili.

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LUIGI STORTIERO

Simbiosi Nell’orto incolto, dell’anima mia, tra un rovo e il falasco è nata una piccola rosa di bosco. Minuta, spaurita, là dalla via due raggi di sole, i suoi occhi, l’hanno tradita. Lenta la mano, scostando l’incolto, lieve carezza, uno per uno i suoi petali bruni. E sì scaldata da un tepido sole par che rimandi codeste parole: “Anch’io vorrei amarti, come amo l’aria, come amo il sole, come amo il vento che le parole porta; come la foglia d’autunno caduta, morta attende la sorte millenaria. 35


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RODOLFO TONELLI

Il bianchello nella storia di una illustre coppia … scoppiata CARLO MAGNO Noi sappiamo tutti quanti che la storia, ahimè!, va avanti sulla pelle dei più buoni, presi spesso per minchioni. Fu così che in Ottocento c’eran botte ogni momento: ogni atto screanzato con il sangue era lavato; un vicino ti tradiva?, nella notte quel moriva; a un accenno di pastetta consumata era vendetta; controversie di contrada si sbrogliavan con la spada; un sovrano permaloso pronto aveva un contenzioso. Ma ogni tanto le tensioni si sciogliean coi matrimoni, però il rischio l’era tale che il dovere coniugale non contava un accidente; sposa o sposo, all’occorrente, senza tanti complimenti si sfogava a tradimenti. Un sovrano assai glorioso, ignorante, eppur famoso, volle farsi incoronare

con un rito regolare. Invocò benedizione dall’amico suo, Leone, ma per arrivare a Roma volle fare in nostra zona un giretto coi suoi Conti per avere con gli sconti ( se la spada è sguainata la ragione è assicurata ) una scorta di vin buono onde offrir, da galantuomo, le bevande in occasione della sua incoronazione. Proprio il giorno di Natale il banchetto, da rituale, per l’imperator novello fu innaffiato col Bianchello. Nei dì del Calendimaggio, ben s’andava oltre l’assaggio d’ogni vino veritiero delle terre dell’impero, sì che il vino, all’occasione, era dato a profusione. L’ormai degno imperatore ne beveva a tutte l’ore. Coi suoi fidi paladini valutava tutti i vini, 37


fosse inverno, fosse estate, delle terre conquistate. Si perdoni il ritornello, ma il più buono era il Bianchello. Alla fine della storia, che dei fatti fa memoria, a ogni pranzo, ad ogni cena ripetevasi la scena in cui il grande imperatore tacitava lo stridore dei suoi fidi paladini frastornati causa i vini, trangugiati a garganella come l’acqua alla cannella. Era lì che il re dei Franchi ribadiva a tutti quanti il suo grado superiore quale fausto imperatore, vittorioso sulla terra

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in qualsiasi sua guerra, di cui il principal bottino era sempre del buon vino. Sulla tavola imbandita, essenziale perla vita, mettea i piedi suoi, regali, per brindare con gli eguali alla prossima vittoria per l’amore e per la gloria della Francia e dell’impero di cui era molto fiero. Lui sovrano, lui potente, lui magnanimo e clemente innalzava, sul più bello, una coppa di… Bianchello, e gridava ai quattro venti le parole ricorrenti: “Ad onor del Medioevo io son Carlo Magno… e bevo!”.


LA DOLCE ERMENGARDA Carlo Magno imperatore, che pugnava per l’onore del Romano Sacro Impero, non faceva alcun mistero di godere assai la vita a una tavola imbandita. Preso, poi, da troppe voglie, volle ripudiar la moglie con la scusa che Ermengarda sospettava esser bugiarda *. Per avere la licenza da sue grazie e farne senza ha promesso nel libello scorta a vita di Bianchello. Forse che la soluzione era un tiro un po’ birbone, dato che, come si sa, sta nel vino verità **, e, nel darle la disdetta, consumava una vendetta?! Lei concesse a malincuore il divorzio al suo signore e accettò in contropartita il Bianchello per la vita. Poi, rinchiusa in monastero, col favor del vin … sincero s’apprestò ad opere pie

senza dire più bugie. Con quel vino generoso il fervore religioso e di lei e delle suore diede segni del gran cuore, sostenuto dal sorriso in odor di paradiso. Ben sicure dal mattino che ogni giorno c’era vino ad accompagnare i pasti, pur frugali e senza fasti, quelle donne, a loro onore, gareggiavano in ardore nell’aiuto alle persone in penosa condizione. Ermengarda fu felice più di quanto storia dice, dato che quelle sorelle le fungevano da ancelle e in accordo tutte insieme sollevavan dalle pene tanta gente sfortunata che dal Cielo era mandata. Spiegazione del mistero di cotanto amore vero, indovina indovinello?, 39


va cercata nel Bianchello, ché sostanza materiale come quella non c’è uguale a cercarla in tutto il mondo quanto è grande e quanto è tondo. Perdonatemi, vi prego, se lo dico, e lo ripeto, che quel frutto della vite ha virtù quasi infinite; si conceda, a onor del vero, che tra i vini è il più sincero, tanto fu che l’Ermengarda mai e mai fu poi… buguiarda! Con il tempo e vino a iosa, lei divenne… spiritosa, senza nostalgia del trono, tantomeno del suo uomo,

accrescendo in lei bontà il ritorno a castità. Né si può negare adesso che nel conventual consesso circolasse dal mattino certo spirito di vi no. * Chiedo venia alla regina, se costretto dalla rima ho forzato un poco il vero; ma un bicchier di vin sincero fa volar la fantasia dei poeti, e anche la mia. Perciò dico in onestà culturale, e in verità: un racconto vien più bello con l’aiuto del Bianchello, sorseggiato poco prima d’inventar giochi di rima. ** In vino veritas.

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TULLIO MARTINI

Il pastorello

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PIERO TALEVI

Le stelle

noi siamo fatti della stessa materia degli astri oh Ninfa della Notte le tue lacrime moltiplicano le stelle che sorridono e piangono si muovono e ballano parlano e ascoltano sono ora verde smeraldo ora blu elettrico ora giallo oro ora indaco ora violetto di notte si spengono poi si accendono vivide sull’ Alpe della Luna sul colle dell’Infinito sul Monte Petrano e sulla piana di Castelluccio di Norcia al castello di Novilara quando i lampioni sono spenti sopra il mare di Marotta al planetario del BalÏ sulla vigna di Maria sopra Carpineni sul Metauro a Villanova le stelle sono musica poesia e arte lasciamoci contaminare 49


A Silvia

mens sana in corpore sano Le sue mani calde e morbide scivolano sulla mia pelle stanca, sopra il lettino. La musica diffusa dolce e misteriosa sembra venire da lontano. Sul comò il bastoncino brucia l’essenza di cedro del Tibet, il suo profumo dolce invade tutta la stanza. Non vedo gli occhi tristi di Silvia, ma sento la sua voce fioca, lei mi ricorda l’antica Paestum, dove al mattino i limoni profumano l’aria e la brezza del mare arriva fino sotto i balconi fioriti. Quando poi i pensieri crudeli si chetano, vorrei dormire… …ed anche morire.

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VITTORIA SCHIAVONI

Cammino dell’anima

Se sono connessa con il cuore, sono nel posto giusto Sono nel fondo di un baratro profondo. Piccola. Tra alte pareti rocciose mi appoggio e sbriciolo sabbia. Lassù è il cielo azzurro tra alberi abbarbicati sull’orlo del burrone. Senza paura calpesto la terra secca, non un sentiero piano ma un letto di fiume stretto, sabbioso. Guardo. Prendo coscienza. Cammino. Un cammino scabroso. Ma cammino. Non più solo sabbia ma ciuffi d’erba. Mi viene incontro un bosco. Alberi grandi formano un tetto di rami, una tenda calda: entro nella sicurezza. E’ buio, ma cammino, il sentiero si e’ fatto più largo, ma erto. Mi inerpico nell’erba e salgo. Vado su. Sempre più in alto. Ritrovo il sole ed io sola. Gli alberi si aprono, si allargano in una radura immensa tutta luce. Si intrecciano mani in un girotondo di luce. Danza leggiadra che aspira al volo. Musica di rintocchi metallici lunghi che si perdono nell’aria. Una danza senza tempo senza fine. 51


Io con tutti. Amata, luminosa. Mi libro nell’aria e torno in terra. Vado su e scendo. Vibro inebriata di luci e suoni. Non più alberi, né sabbia, né acqua, né erba solo luce e suoni. Suoni la cui eco si perde nel cielo e ritorna a me. La mia anima si apre alla nuova vita, incanto di una vita semplice.

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Stampato da www.ideostampa.com Maggio 2016


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