Il Chimico Italiano - 2

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ANNO XXVII DICEMBRE 2017

EQUO COMPENSO

PER I PROFESSIONISTI.


Il Chimico

Italiano

PERIODICO DI INFORMAZIONE DEI CHIMICI ITALIANI

Editore Consiglio Nazionale dei Chimici Direzione, redazione e amministrazione P.zza S. Bernardo, 106 - 00187 Roma Tel. 06 47883819 - Fax 06 47885904 cnc@chimici.it - www.chimici.it Direttore responsabile Dott. Chim. Nausicaa Orlandi Direttore editoriale Dott. Chim. Giuseppe Panzera Comitato editoriale Dott. Chim. Daniela Maurizi Dott. Chim. Emiliano Miriani Dott. Chim. Renato Soma Dott. Chim. Giuseppe Panzera HERO e non impegnano il Consiglio Nazionale dei Chimici né il Comitato di Redazione (CdR). L’accettazione per la stampa dei contributi della chimica è subordinata all’approvazione del CdR. Concessionaria di Pubblicità Consiglio Nazionale dei Chimici Autorizzazione del tribunale di Roma n. 0032 del 18 gennaio 1990 NUMERO CHIUSO IN REDAZIONE IL 20 - 12 - 2017

ASSOCIATO ALL’USPI UNIONE STAMPA PERIODICA ITALIANA


SOMMARIO 4

L’EDITORIALE Le Professioni e l’Università

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Equo compenso per i professionisti

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XVIII CONGRESSO DEI CHIMICI 2018

Premi Nobel, televisori e macchine fotografiche: facciamo chiarezza!

In Ricordo del Prof. Giovanni Dario Andreetti

Il ruolo del chimico nel settore delle bonifiche dei siti contaminati in italia

Carlo Besana Direttore della Stazione Sperimentale del Caseificio di Lodi Il lato oscuro della clorofilla: “Guerre Stellari” e alleanze inaspettate tra piante e animali

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La gestione dei rifiuti speciali

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Brindiamo alla chimica

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Le principali novità legislative in campo agroalimentare degli ultimi mesi

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Pari opportunità professionali per i chimici

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Una lettura chimica della carta


L’editoriale

Le Professioni e l'Università DI GIUSEPPE PANZERA L’Università dei nostri giorni è anche Scuola che prepara alla professione nel senso più alto del termine? È questo, insieme ad altri temi, l’argomento affrontato in un importante seminario nazionale voluto dall’ANVUR dal titolo “Le Professioni nell’università” a Roma il 12 dicembre scorso. Nel corso del seminario è stato presentato un rapporto abbastanza dettagliato che introduce un primo studio sulla presenza e sul ruolo delle libere professioni in ambito accademico. Questo rapporto, disponibile sul sito internet dell’ANVUR, costituisce un primo studio sistematico sulla presenza delle libere professioni ordinistiche nell’Università (fig. 1). L’interessante seminario, tra l’altro, ha proposto due spunti di riflessione. Il primo, di stretta competenza dell’Agenzia, è una valutazione della presenza delle professioni e docenti professionisti nell’Università. Il secondo, di ordine generale, è legato allo studio e di come sia possibile migliorare la preparazione degli studenti all’esercizio delle professioni ordinistiche. Su questa seconda finalità, un ruolo importante nel dibattito e al

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tavolo di lavoro che seguirà, sarà quello dei Consigli Nazionali delle Professioni regolamentate, anche attraverso le organizzazioni di professionisti RPT o il CUP. Tra i tanti presenti, fuori programma al seminario ha partecipato anche l’On. Luigi Berlinguer che ha ribadito, dall’alto della sua esperienza di ex docente e di ex Ministro della Pubblica Istruzione, oltre che la necessità, l’importanza di agganciare ai contenuti teorici fondamentali per ogni insegnamento, gli aspetti pratici legati alle esperienze professionali. L’atteggiamento sprezzante del passato dell’Accademia rispetto al mondo delle professioni, ha sottolineato Berlinguer, è stato un errore, che deve essere sanato. Da anni il CNC è aperto a un dialogo in questa direzione che ha coinvolto, i diversi attori: SCI, Atenei, direttori di Corsi di Laurea etc. Ci sono delle aperture, ma il percorso è appena all’inizio. I dati sono inequivocabili: molti laureati in chimica non si avvicinano alla libera professione per mancanza di conoscenze specifiche. Tanti conseguono l’abilitazione ma non si iscrivono all’Albo. La riforma della professione intervenuta nel 2012 ha introdotto la formazione permanente dei


professionisti, e a mio avviso (in questo sono in buona compagnia), l’obbligatorietà non è un dato, ma una necessità. Pertanto la possibile “quarta missione” dell’Università dovrebbe orientarsi, coinvolgendo gli Ordini Professionali, verso una formazione che tenga conto dell’innovazione costante del mondo del lavoro, magari attraverso il terzo livello della formazione, cioè i dottorati. È fondamentale per lo sviluppo del Paese e degli interessi generali che la formazione obbligatoria venga “rivisitata” anche all’interno dei corsi di laurea per essere finalizzata a quell’obiettivo di certificazione delle competenze che deve caratterizzare il Professionista Chimico. Fig. 1 PROFESSIONE Commercialisti e esperti contabili

ISCRITTI

ORDINE O COLLEGIO

MACRO AREA CRESME 2010

117.916

Ordine

Area Economico-sociale

Giornalisti

99.688

Ordine

Area Economico-sociale

Assistenti Sociali

42.021

Ordine

Area Economico-sociale

Spedizionieri doganali

1.805

Ordine

Area Economico-sociale

Consulenti in proprietà industriale

1.206

Ordine

Area Economico-sociale

913

Ordine

Area Economico-sociale

242.935

Ordine

Area Giuridica

Attuari Avvocati Notai

5.026

Ordine

Area Giuridica

Infermieri

441.795

Ordine

Area Sanitaria

Medici chirurghi e odontoiatri

430.147

Ordine

Area Sanitaria

Psicologi

100.722

Ordine

Area Sanitaria

Farmacisti

97.585

Ordine

Area Sanitaria

Veterinari

29.038

Ordine

Area Sanitaria

Tecnico Sanitario di Radiologia Medica

28.126

Collegio

Area Sanitaria

Ostetriche

20.351

Collegio

Area Sanitaria

Ingegneri

240.778

Ordine

Professionisti Area Tecnica

Architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori

154.178

Ordine

Professionisti Area Tecnica

Geometri

105.427

Collegio

Professionisti Area Tecnica

Periti industriali

41.400

Collegio

Professionisti Area Tecnica

Biologi

38.364

Ordine

Professionisti Area Tecnica

Agronomi e Forestali

20.408

Ordine

Professionisti Area Tecnica

Periti agrari

14.985

Collegio

Professionisti Area Tecnica

Agrotecnici

13.468

Ordine

Professionisti Area Tecnica

Geologi

12.583

Ordine

Professionisti Area Tecnica

Chimici

8.628

Ordine

Professionisti Area Tecnica

Tecnologi Alimentari

1.830

Ordine

Professionisti Area Tecnica

Consulenti del Lavoro

26.034

Ordine

Maestri di Sci

14.000

Collegio

Guide Alpine

1.874

Collegio

TOTALE

2.353.231

(Fonte: elaborazione ANVUR su dati Confprofessioni 2017 e CRESME 2010) IL CHIMICO ITALIANO

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EQUO COMPENSO PER I PROFESSIONISTI DI NAUSICAA ORLANDI La conversione in Legge n. 172/2017 del Decreto Legge n. 148/2017 – pubblicato in Gazzetta Ufficiale del 5 dicembre 2017 – collegato alla Legge di Bilancio 2018, porta finalmente con sé l’approvazione dell’equo compenso per tutte le categorie professionali, ovvero un “compenso proporzionato alla qualità ed alla quantità del lavoro svolto, nonché al contenuto ed alle caratteristiche del lavoro”. Sicuramente è un primo traguardo importante per garantire professionalità, maggiore tutela della collettività e incentivare i giovani ad abbracciare la professione. Questo risultato è stato ottenuto da tutti i professionisti riuniti in Rete delle Professioni Tecniche (di cui il Consiglio Nazionale dei Chimici fa parte e ne è il segretario\tesoriere) e dal Comitato Unitario delle Professioni. Sono stati seguiti con attenzione i lavori parlamentari, sono state presentate istanze ed è stata organizzata una manifestazione nazionale il 30 novembre scorso al Teatro Brancaccio. Migliaia di professionisti da tutta Italia si sono infatti uniti per ribadire che “L’equo compenso è un diritto” e che il via libera alla norma è solo il punto di inizio e non di arrivo (per le interviste rilasciate, visitare il sito www.equocompenso.info). Nella prima stesura del Decreto Legge fiscale 2018, l’equo compenso da applicare ai contratti in corso era stato riservato solo agli avvocati che svolgono prestazioni per conto di banche, assicurazioni e imprese; successivamente, il 16 novembre, grazie all’approvazione di un emendamento alla legge di conversione del decreto, la misura è stata estesa anche a tutti i professionisti, a prescindere dal fatto che il professionista sia iscritto o meno ad un ordinamento professionale. Il Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, aveva commentato così la notizia dell’approvazione dell’emendamento: “Un’importante conquista che finalmente pone rimedio a una sperequazione evidente tra grandi committenti e professionisti, uno strumento da sviluppare ulteriormente ma anche un punto di partenza solido su cui attestarsi... che non contrasta con un mercato libero e trasparente ma evita squilibri e distorsioni” inoltre “il testo approvato con pareri favorevoli del Ministero della Giustizia e del Ministero

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dell’Economia e delle Finanze (Ragioneria Generale) introduce nel nostro ordinamento il principio che la Pubblica amministrazione debba riconoscere un compenso equo ai professionisti.” Sebbene l’equo compenso per i professionisti sia stato valutato negativamente dall’AGCM (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato) che l’ha definito anticoncorrenziale perché ostacolerebbe la libera concorrenza dei prezzi a causa della reintroduzione dei minimi tariffari, il Parlamento, in modo trasversale, ha proseguito i lavori approvandolo in via definitiva insieme alle norme vessatorie che danno diritto all’annullamento del contratto. Il principio dell’equo compenso riguarda tutti i professionisti ivi inclusi quelli non appartenenti a ordini e collegi professionali. Si applica ai rapporti – anche in essere – tra lavoratore autonomo\professionista e azienda pubblica o privata. Il professionista ha infatti diritto all’equo compenso solo se il committente è una banca, un’assicurazione, una grande azienda, un’azienda della pubblica amministrazione, mentre sono escluse le piccole e medie imprese (PMI). Precisiamo che per le pubbliche amministrazioni l’applicazione non può essere retroattiva, per cui l’equo compenso si applica solo per i nuovi rapporti instaurati dopo l’entrata in vigore della legge. Tutti i professionisti hanno diritto a un compenso minimo «proporzionato alla qualità e quantità del lavoro, al contenuto ed alla caratteristica del lavoro» al di sotto del quale non si può scendere. Resta sempre presente la possibilità di deroga, qualora vi sia un accordo tra le parti. A garanzia dell’equità, il legislatore ha elencato specifiche clausole vessatorie (salvo siano state oggetto di specifica trattativa e approvazione) che, se introdotte nel contratto, sono considerate nulle:   a) facoltà di modificare unilateralmente il contratto,   ovvero solo da parte del committente;   b) facoltà di rifiutare di scrivere gli elementi   essenziali del contratto;   c) facoltà di pretendere prestazioni aggiuntive a   titolo gratuito;


d) anticipazioni delle spese a carico esclusivo del  professionista;   e) imposizione di rinuncia al rimborso spese;   f) termini di pagamento superiori ai 60 giorni dalla   data di ricevimento da parte del cliente della  fattura;   g) riconoscimento, come compenso, del minore​   importo previsto dalla convenzione in caso di   liquidazione delle spese in favore del cliente;   h) in caso di nuova convenzione sostituiva di una   precedente, i minori compensi pattuiti, se inferiori,   non si applicano agli incarichi pendenti;   i) il compenso pattuito per l’assistenza e la   consulenza in materia contrattuale spetta anche in   caso di mancata sottoscrizione del contratto. Si considerano vessatorie anche qualora siano state oggetto di trattativa e approvazione le clausole elencate ai punti a) e c). In base alle clausole vessatorie, il professionista può richiedere l’annullamento del contratto entro 2 anni dalla firma, ferma restando la possibilità di

mantenere valido il rapporto di lavoro. In presenza di un compenso non equo è prevista la sostituzione con il compenso determinato dal giudice. La norma sull’equo compenso per i professionisti ha dunque trovato la sua collocazione definitiva all’interno del collegato fiscale alla legge di Bilancio per il 2018. Resta da vedere come si giocherà la partita sul terreno dei decreti ministeriali, ai quali viene demandato il compito di definire i parametri dell’equo compenso. A vigilare sulla concreta attuazione della legge ci saranno oltre al Consiglio Nazionale dei Chimici, l’intera Rete delle Professioni tecniche e il Comitato Unitario delle Professioni. Continueremo la battaglia di legalità e di rivendicazione del diritto costituzionale che prevede il lavoro per tutti e il diritto a un’esistenza dignitosa. L’equo compenso non deve essere confuso con i vecchi minimi tariffari: è il riconoscimento del valore sociale ed economico della prestazione professionale.

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XVIII CONGRESSO DEI CHIMICI 2018 13 – 14 APRILE 2018 BOLOGNA DI EMILIANO MIRIANI Care colleghe, cari colleghi, quale augurio migliore se non quello accompagnato dall’annuncio in anteprima del nostro Congresso Nazionale? Il prossimo 13-14 aprile a Bologna si terrà presso la Fondazione MAST (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia) il XVIII Congresso Nazionale dei Chimici. Il Congresso vuole essere non solo un momento d’incontro, approfondimento e discussione all’interno della nostra categoria, ma anche un evento per dare visibilità alla figura dei Chimici, in modo da divulgare chi sono, di cosa si occupano e di come sia fondamentale la nostra categoria per la crescita del Sistema Paese. La Chimica e i Chimici sono fondamentali per la crescita e lo sviluppo di un Paese: principio che nel passato, nel presente e nel futuro, non è stato, non è e non potrà mai essere negato. Per questo il filo conduttore del ns. Congresso sarà “ TRADIZIONE E INNOVAZIONE”. Ci proponiamo inoltre l’obiettivo di fare arrivare all’esterno un messaggio forte per ribadire quanto i media e la stampa, in tante situazioni, travisino responsabilità e attori. Come anticipato, all’inizio di questa consiliatura, l’attuale Consiglio Nazionale si è posto l’obiettivo prioritario di diffondere, divulgare e far conoscere il ruolo e la figura del Chimico. Molte risorse sono state pertanto rivolte alla comunicazione con lo scopo di confrontarsi all’interno della categoria ma soprattutto interloquire con il Sistema Paese a tutti i diversi livelli. Gli strumenti della comunicazione sono stati ampliati

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con una nuova newsletter, un nuovo servizio di rassegna stampa e agenzia stampa, una rivista completamente rinnovata e strumenti social…e non poteva mancare il nostro evento, il Congresso. Una prima novità di questo Congresso è chi lo organizza e lo promuove. Su questo il Consiglio ha operato una scelta ritenendo doveroso che il Congresso Nazionale sia di competenza del Consiglio Nazionale, abbia una frequenza biennale e si avvalga del contributo dell’Ordine territoriale dove insiste la sede del Congresso. Il Congresso è organizzato dal Consiglio Nazionale direttamente con la collaborazione dell’Ordine competente territorialmente per la sede del Congresso. Ringraziamo pertanto il Presidente Dott. ssa Raffaella Raffaelli ed i colleghi del Consiglio dell’Ordine Interprovinciale dei Chimici dell’EmiliaRomagna. Tavoli con tematiche specifiche, possibilità di interazione con i relatori durante le discussioni, partecipazione attiva ai lavori, queste e molte altre sorprese vi aspettano al Congresso. Il programma del Congresso è in fase di definizione e crediamo che il Natale ci porterà in regalo il programma completo. Da Chimici saprete sicuramente cogliere quest’opportunità per vivere un momento di grande novità e nel contempo costruire uno spirito di squadra e senso di appartenenza sempre più forti. Ricordatevi di segnare in agenda il 13 e 14 Aprile 2018, vi aspettiamo numerosi. Buon Natale a tutti voi e per l’anno nuovo… appuntamento a Bologna, al MAST, al XVIII CONGRESSO NAZIONALE DEI CHIMICI.


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PREMI NOBEL, TELEVISORI E MACCHINE FOTOGRAFICHE: FACCIAMO CHIAREZZA! DI GIUSEPPE ALONCI

Il premio Nobel per la Chimica 2017 è stato assegnato a Jacques Dubochet, Joachim Frank e Richard Henderson per il loro contributo allo sviluppo della microscopia elettronica. La notizia è stata rilanciata da molti organi d’informazione e portali istituzionali, spesso paragonando la differenza tra la microscopia TEM e quella crio-TEM con quella tra un televisore a tubo catodico e un full HD o con il numero di pixel in una reflex. Partiamo da un concetto base: esistono anche televisori CRT (a tubo catodico) ad alta risoluzione! Quindi il confronto al massimo va fatto tra uno schermo a bassa risoluzione e uno ad alta. Ma siamo sicuri che quando parliamo di risoluzione di un microscopio e di risoluzione di un televisore o di una macchina fotografica parliamo della stessa cosa? Parlando di strumenti ottici, la risoluzione ottica è la capacità di mostrare separatamente due punti vicini. Immaginiamo di disegnare su un foglio due puntini neri di diametro 10 µm a 2 µm di distanza. Usando un microscopio di risoluzione massimo 6 µm vedremo un unico punto sfocato. Un microscopio con una risoluzione ottica di 1 µm mostrerà invece i due punti perfettamente separati. Qual è il rapporto tra numero d’ingrandimenti e risoluzione? A occhio nudo un essere umano riesce all’incirca a separare dettagli nell’ordine del centinaio di micrometri. Nel caso dei due puntini di prima, questi saranno invisibili a occhio nudo, ma diventeranno perfettamente separabili se ingranditi di cento volte. Questo però sarà vero solamente se la risoluzione ottica del microscopio è sufficiente! Se usassimo un microscopio con risoluzione 6 µm non riusciremmo a separare i due punti indipendentemente dal numero di ingrandimenti! Cosa c’entra tutto questo con pixel e schermi ad alta definizione? I pixel sono le unità fondamentali che costituiscono le immagini digitali. Il numero di pixel è ciò che viene chiamato comunemente “risoluzione” quando si parla di macchine fotografiche e schermi. Un’immagine quadrata da un megapixel, cioè un milione di pixel (1 MPX), corrisponde a un quadrato di mille pixel per lato. Se ogni pixel fosse grande un millimetro, l’immagine avrebbe le dimensioni di un metro per un metro. Un’immagine simile sarebbe di bassissima qualità: la vedremmo tutta quanta “pixelata”! Se ogni pixel avesse invece lato di un micrometro i singoli pixel sarebbero invisibili a occhio nudo e l’immagine apparirebbe bellissima, nitida… ma piccolissima! Appena un centimetro di lato! Il miglior rapporto tra qualità e dimensioni dell’immagine corrisponde ad una “densità di pixel” di circa 300 pixel per inch (300 PPI), cioè 118 pixel/ centimetro. Oltre i 300 PPI l’occhio umano non è più in grado di distinguere i singoli pixel. Nel caso dell’immagine da 1 MPX, questo vuol dire ottenere un quadrato di lato 8,5 cm. E se la nostra macchina fotografica scatta invece a 10 MPX? Avendo 3162 pixel per lato, le dimensioni finali a 300 dpi saranno di circa 27 centimetri. Sebbene il numero di pixel sia decuplicato, il lato dell’immagine è aumentato di sole tre volte!

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Qual è quindi la relazione tra numero di pixel e risoluzione spaziale? Finora abbiamo visto come il numero di pixel influenza le dimensioni dell’immagine, ma non abbiamo detto nulla sulla qualità dei pixel! Immaginate di scattare una fotografia ad un albero, prima fuori fuoco con una macchina da 20 MPX, poi perfettamente a fuoco a 10 MPX e a 1 MPX. Quale sarà l’immagine migliore? Quella da 10 MPX! Sebbene più piccola di quella da 20 MPX permetterebbe infatti di osservare molti più dettagli nitidamente rispetto alla macchina più “potente”. Sarebbe invece molto difficile vedere gli stessi dettagli nella fotografia scattata a 1 MPX, perché sarebbe troppo piccola. Sostituite “fuori fuoco” con: qualità del sensore, qualità delle lenti, qualità del sistema di messa a fuoco, microvibrazioni, turbolenza atmosferica, foschia, rumore elettronico e otterrete tutti i fattori che limitano la risoluzione spaziale indipendentemente dalle dimensioni dell’immagine finale. Se comprate una macchina da 50 MPX e una da 10, a parità di tutti gli altri fattori tecnici, la differenza starà nel fatto che a 50 MPX potrete stampare una immagine 2,2 volte più grande mantenendo la stessa qualità. Ma se la macchina da 50 MPX ha sensore, ottiche, messa a fuoco e compensazione delle vibrazioni peggiori l’immagine finale sarà comunque meno dettagliata. Per intenderci, tra la Canon 1300d, una reflex entry level, e una Canon 1DX mark II, il top di gamma, si passa solamente da 18 a 20 MPX ma il prezzo aumenta di seimila euro! Allo stesso modo, molte delle videocamere usate in campo cinematografico registrano in full HD o in UHD, ma regalano immagini infinitamente migliori di quelle di una videocamera 4K da 300 euro. Nulla a che fare con ciò che hanno fatto i tre scienziati premiati. Con la microscopia crio-TEM non solo siamo passati da una risoluzione di circa 10 nm a qualche Angstrom, ma abbiamo potuto analizzare campioni che prima non si potevano nemmeno osservare!

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IN RICORDO DEL PROF. GIOVANNI DARIO ANDREETTI DI RITA SAIU L’anno scorso riuscivo finalmente a convincere mia madre, oggi novantatreenne, a sottoporsi a un ciclo di cure inalatorie presso lo stabilimento termale di Salsomaggiore. È stato così che, dopo molti anni, sono tornata a Parma: un’occasione piacevole per ricordarmi di quando nel 1990, giovane ricercatrice, lavoravo all’Istituto di Strutturistica Chimica dell’Università degli Studi di Parma, sotto la direzione del Prof. Giovanni Dario Andreetti. Ricordo le sue rare ma lunghe chiacchierate, quando la quiete permetteva di fare salotto nell’aula dei computer. Da lui ho imparato cose che non si trovano sui libri. Capitava che mi onorasse di una lezione accademica

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senza formalità, per parlare di ricerca scientifica, di studi, della politica che deve farsi carico del vivere sociale, dei giovani come me e del futuro del nostro Paese. A tal fine utilizzava strumenti efficaci. Come dimenticare quando arrivò con un libro dov’era rilegato un semestre di una nota rivista scientifica specializzata nell’analisi strutturale e dire: “Il 90% delle pubblicazioni che si trovano qui va preso e buttato nel cestino”. A parte la sua grande capacità di saper ascoltare il mio punto di vista, puntava a fare in modo che mi rendessi consapevole della responsabilità delle mie scelte. Il suo approccio alla ricerca scientifica era assolutamente innovativo, basti pensare che si


circondava di persone molto più avanti rispetto agli standard dei gruppi di ricerca che a quei tempi si trovavano all’università. Io stessa, infatti, nel 1990 provenivo dall’industria e fui scelta come borsista ENIRICERCHE. Sono onorata di essere stata allieva del Prof. Andreetti, un docente che ha percorso la sua carriera universitaria raggiungendo successi internazionali, ma che, al culmine della stessa, si dedicò alle acque termali con lo scopo di costruire un’organizzazione migliore per le Terme di Salsomaggiore e Tabiano. Ecco, si tratta di valorizzare le Terme come industria. Industria chimica italiana: industria chimica del benessere, dico io. Oggi le Terme stanno affrontando un periodo di crisi, nel senso che le

persone vogliono un tipo di turismo che offra tutto in un arco di tempo più corto possibile. Forse bisogna valorizzare, attraverso le acque termali, anche i benefici di una vacanza rilassata. Ciò significa per i bambini poter respirare aria salubre, avere gli spazi giusti per giocare e fare attività fisica; per le persone di mezza età staccare davvero dal lavoro e per gli anziani trovare giovamento dalle cure. A proposito… mia madre alle terme ha voluto ritornarci anche quest’anno. Grazie di tutto professore.

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IL RUOLO DEL CHIMICO NEL SETTORE DELLE BONIFICHE DEI SITI CONTAMINATI IN ITALIA DI MAURO BOCCIARELLI E IGOR VILLANI Il sistema dei Siti Contaminati in Italia è diviso in due grandi ambiti: uno è quello dei Siti di Interesse Nazionale, direttamente controllati dal Ministero dell’Ambiente, l’altro è rappresentato da tutti i restanti siti del territorio nazionale. È opportuno chiarire che quella di “sito contaminato” è una definizione per buona parte tecnica, ma innanzitutto giuridica. Ricadono in questa categoria una grande casistica di situazioni del territorio che possono andare dal semplice incidente stradale, in cui si sversano i liquidi di un singolo motore, alla grande contaminazione di origine industriale storica. In quest’ottica, avere un quadro generale della situazione dei siti contaminati nel Paese non è così semplice per vari motivi: la complessità della materia, un elevato turnover di casi, la necessità di strumenti con una flessibilità non consueta per gli ordinari strumenti di gestione territoriale. Il testo unico ambientale, DLgs 152/06, prevede che dal 2006 le Regioni compilino i sistemi

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anagrafici dei siti contaminati. Ne consegue che la situazione odierna vede due ordini di difficoltà sull’argomento: il primo è una grande differenza nello stato di avanzamento tra le diverse regioni, il secondo è una sostanziale incomunicabilità tra regioni e tra regioni e Ministero. Il risultato è che, ad oggi, non esiste un quadro generale nazionale dei siti contaminati, ma un complesso di anagrafi abbastanza frammentato e disomogeneo. Facendo un tentativo di ricostruzione basato sulle conoscenze di settore ci si può fare un’idea di quale sia l’ordine di grandezza della situazione. In una regione come l’Emilia-Romagna, che peraltro sta attualmente lavorando alla propria anagrafe regionale, ci sono almeno un migliaio di procedimenti di bonifica attivi, considerando sempre l’ampia casistica sopra descritta. Si tratta di un numero di siti che si può considerare “medio” in Italia, tra regioni territorialmente molto più piccole e regioni con una pressione territoriale molto più elevata (intendendo per pressione


sia un livello di maggiore industrializzazione che una condizione di controllo ambientale meno efficace). Trattandosi di una stima per difetto, per l’intero territorio nazionale si parla di almeno ventimila siti contaminati, intesi sempre come procedimenti di bonifica attivi, completati dai quaranta Siti di Interesse Nazionale di competenza ministeriale. Il problema sostanziale, a parte alcune regioni più avanzate sulla materia, è che questo rimane un numero approssimativo e le anagrafi non rappresentano uno strumento integrato col sistema di gestione territoriale. Ancora più rappresentativa di questa condizione è la situazione dei Piani Regionali delle Bonifiche, decisamente più indietro delle anagrafi nella compilazione e nell’applicazione. Questo è il quadro generale su cui è probabilmente opportuno concentrare gli sforzi di sviluppo. Non è possibile pianificare e progettare se non si conosce il punto di partenza, pertanto la maggior parte degli sforzi e delle risorse investite in materia è destinata a rispondere con un

basso livello di efficienza. Ciò non significa ovviamente che le bonifiche non si facciano in Italia o che non sia un settore di rilievo, anzi, le grandi e numerose bonifiche in corso d’opera – seppur in un sistema gestionale in difficoltà – sono testimonianza delle necessità e delle potenzialità di un settore sempre più importante nella gestione del territorio. Questa importanza è data principalmente dalla trasversalità delle bonifiche, una sorta di “ambito non ambito” in grado di colpire chiunque e ovunque nella società civile. Certo detta così può risultare inquietante, ma è la verità. Si pensi solo alla questione del “consumo di suolo”, chiave di volta per rilanciare la pianificazione del futuro e il depresso settore edilizio. “Consumo di suolo a bilancio zero” vuol dire semplicemente che bisogna riqualificare il territorio già compromesso e, considerando che buona parte del territorio già compromesso è rappresentata da siti contaminati, si intuisce immediatamente l’urgenza di mettere ordine in un ambito finora portato avanti in maniera disarticolata. Altro esempio recente è

quello sulla norma IPPC con il caso delle relazioni di riferimento, o ancora, quello per i grandi piani di gestione del livello di qualità degli acquiferi sotterranei che si porta dietro il problema del fondo e della contaminazione diffusa. In sostanza, i siti contaminati vanno a interessare il territorio in maniera non longitudinale a tutte le sue articolazioni, ma trasversale, determinando spesso il fattore limitante per l’esecuzione delle opere. Le gradi bonifiche e i grandi bonificatori, di cui i 40 SIN rappresentano il clou a livello nazionale, vedono chiaramente coinvolti i grandi sistemi industriali, immediatamente chiamati in causa con l’uscita delle normative sui siti contaminati. Le compagnie petrolifere, petrolchimiche e chimiche sono ad oggi i grandi bonificatori del nostro Paese, fidatari certamente di molti problemi ereditati dal passato, ma anche gli unici a disporre delle risorse per affrontare opere di bonifica di rilievo e, di conseguenza, fondamentali protagonisti per consentire lo sviluppo del settore dal punto di vista scientifico, tecnologico IL CHIMICO ITALIANO

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e giuridico. In questo ambito, il Chimico è chiamato a dare il suo contributo professionale che non è l’analisi chimicofisica, ma l’insieme di attività fondamentali per garantire una corretta gestione operativa e amministrativa di attività di bonifica, di gestione rifiuti e impianti di smaltimento\recupero e di gestione della sicurezza in tali attività (vigilanza sull’omologazione di rifiuti in ingresso agli impianti, predisposizione di regolamenti e procedure, assunzione incarichi di responsabile, individuazione di personale tecnico,…). In questi settori il Chimico può mettere le proprie competenze a disposizione della Pubblica Amministrazione, delle Istituzioni di Controllo e delle aziende private anche in ottica di sussidiarietà. La conoscenza specifica delle

tematiche connesse alla caratterizzazione dei siti inquinati è fondamentale per la progettazione di un intervento di bonifica di suolo, falda e acquiferi in linea con il continuo aggiornamento della normativa tecnica del settore. La gestione di una matrice ambientale contaminata inizia con il monitoraggio della stessa attraverso l’applicazione di sofisticati sistemi, il cui funzionamento si basa su principi chimici o chimico-fisici. Non per ultimo, il Chimico oltre all’attività di laboratorio di controllo può affiancare altri professionisti, necessariamente coinvolti nei piani di bonifica, nell’attività di studio previsionale di diffusione degli inquinanti ed eventualmente di recupero/riutilizzo dei materiali oggetto di attività di bonifica dei siti contaminati.

Ubicazione Siti Contaminati secondo l’Anagrafe della Regione Piemonte. Fonte Regione Piemonte (Sito istituzionale)

Ubicazione Siti di Interesse Nazionale. Fonte MATTM (Sito istituzionale)

Tipologie di tecnologie di bonifica utilizzate nei SIN e la loro distribuzione percentuale. Fonte: “Dalla Bonifica alla Reindustrializzazione”, Confindustria 2016

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CARLO BESANA

DIRETTORE DELLA STAZIONE SPERIMENTALE DEL CASEIFICIO DI LODI DI RENATO SOMA Fra i protagonisti che animarono la vita scientifica ottocentesca lombarda, è sembrato doveroso segnalare la figura di Carlo Besana, un chimico che si distinse per la sua intensa attività nel settore caseario e che fu promotore di una vera e propria rivoluzione industriale nella lavorazione dei latticini. Nacque a Ispra, in provincia di Varese, da Antonio e Caterina Zamberletti, il 1° gennaio 1849. Sulle notizie relative alla famiglia, possiamo contribuire alla correzione di alcune affermazioni poiché, a differenza di quanto appreso,1 il padre era capo finanziere in Ispra ed era definito possidente nell’Atto di battesimo. Laureatosi in Scienze Chimiche e Fisiche all’Università di Pavia nel 1872, insegnò chimica nel R. Istituto Tecnico di Milano e, fin dall’inizio della sua attività scientifica, si interessò ai problemi dei caseifici: già nel 1871, non ancora laureato, condusse uno studio sul caglio vitellino e sulla caseificazione, seguito da un’indagine sulle reazioni del latte. Si trattava di due lavori sperimentali che gli assicurarono attenzione e stima negli ambienti specialistici. Ma la maggior notorietà gli giunse nel 1876, con la pubblicazione del Manuale di chimica applicata al caseificio: in esso l’autore raccolse, secondo un criterio sistematico, le conoscenze scientifiche sul latte e sui suoi processi di lavorazione, ne espose le innovazioni e si propose di risolvere quesiti irrisolti relativamente ai processi chimici. L’anno successivo, espose più ampiamente gli stessi concetti in un trattato sul Caseificio, pubblicato sull’Enciclopedia agraria italiana. Nel 1880 fu chiamato a dirigere la Stazione sperimentale del caseificio di Lodi, fondata nel 1871 per studiare i problemi del latte e della sua lavorazione. Nella veste di direttore, per la quale rinunciò

1 Necrologio

alla cattedra di Chimica dell’Università di Pavia, si dedicò con molta energia al suo nuovo importante incarico, elevando a grande reputazione internazionale la Stazione. L’industria del caseificio era, a quell’epoca, una delle realtà economiche più importanti della bassa Lombardia, ma occorreva impegnarsi per risollevarla da metodi empirici, oramai arretrati. Da quel momento l’attività del Besana s’intensificò significativamente attraverso un’instancabile opera divulgativa con cui promosse l’introduzione dei dettami della scienza nell’industria del latte. Diede prova non solo delle sue qualità e dei suoi interessi scientifici ma dimostrò anche notevoli capacità pratiche: fra le sue prove sperimentali è da segnalare l’invenzione del caglio liquido a titolo costante che, oltre a migliorare la lavorazione del formaggio, determinò l’apertura a Lodi della prima fabbrica italiana di caglio liquido. Consapevole dell’importanza di conoscere le diverse realtà casearie oltre confine, il Besana viaggiò molto, prestando particolare attenzione a quelle svizzere, all’avanguardia nella produzione dei formaggi, dove apprese i processi di preparazione dell’emmenthal e del gruyère. Dalla Svizzera, inoltre, importò svariati modelli strumentali che sostituirono le macchine rudimentali ancora in uso nel nostro Paese. Smentì sperimentalmente la comune convinzione che la qualità di un prodotto dipendesse dalla sua produzione nel luogo d’origine e diede inizio, nel lodigiano e successivamente in altre regioni italiane, alla produzione di formaggi secondo quanto appreso in Svizzera. Nel 1881 fondò la Scuola di caseificio, in cui istruiva chi desiderasse imparare l’arte del casaro sulla chimica e sui protocolli per l’analisi del

Prof. Dott. Carlo Besana” Annali dell’istituto Sperimentale di caseificio “ Lodi 1930.

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latte, come pure su quelli specifici per le diverse fasi di produzione. Ai corsi teorici alternava esercitazioni pratiche, che riteneva fondamentali per l’apprendimento. Ottenne l’insegnamento delle Scienze Naturali alla R. Scuola Tecnica “Paolo Gorini” di Lodi. Il 9 marzo del 1884 si unì in matrimonio con Fausta Verdelli, da cui ebbe sei figli. Nel 1886 fu membro della Commissione sanitaria nominata dalla Giunta municipale per studiare alcuni problemi inerenti all’igiene pubblica; in quell’occasione sottopose ad analisi chimica le acque dei pozzi di Lodi, che definì cattive per gli usi alimentari. Interrogato, nel 1887, sul fenomeno dell’inverdimento del grana lodigiano, il Besana individuò la causa nella reazione tra la caseina e il rame di cui erano costituite le bacinelle per la conservazione del latte e suggerì di sostituire il materiale dei contenitori con ferro stagnato. Nel periodo in cui effettuò e rese

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noti i suoi esperimenti sul burro, fu incaricato di stabilire i procedimenti analitici, ancor oggi validi, per accertarne la genuinità e per svelarne la sofisticazione con la margarina che, introdotta dal 1874, stava raggiungendo produzioni preoccupanti. Fra le indagini che imposero la notorietà del Besana in ambito industriale, sono degni di nota i suoi esperimenti del 1896 per l’impiego, anche in Italia, dei fermenti selezionati per la fabbricazione del burro secondo il metodo danese. Nell’ultimo decennio del secolo, delle molte questioni sulla produzione del formaggio, egli prestò particolare attenzione allo studio dell’utilizzo del latte scremato e della caseina per uso industriale. Nel 1905 realizzò il progetto di disporre, nella Stazione che dirigeva, di un laboratorio batteriologico dotato di attrezzature indispensabili per discriminare i microrganismi utilizzabili nei processi di caseificazione e per identificare i fermenti specifi-


ci per ogni tipologia di formaggio. Così allestito, l’Istituto diveniva riferimento per i periti del settore anche in ambito internazionale. Il Besana scrisse manuali e trattati che ebbero larga diffusione e collaborò a molte riviste del settore, italiane e straniere; specificatamente fu direttore della rivista “L’industria del latte”. Accanto all’attività scientifica, dimostrò impegno civile partecipando alla vita amministrativa di Lodi: fu membro, nel 1910, dell’Amministrazione ospedaliera e nel 1912, in occasione delle elezioni municipali, si schierò con i rappresentanti della lista dei clerico-moderati, contrapposta a quelle dei democratici e dei socialisti. Nella vittoria, fu sostenuto da un notevole numero di preferenze che lo portarono a ottenere un incarico nella Giunta del sindaco Antonio Ghisi, come Assessore all’Istruzione, Biblioteca, Museo e Banda. Fu riconfermato nelle successive elezioni del 1914 e per altri sei anni rivestì tale carica, svolgendo pure la funzione di pro-sindaco.2 Le mansioni pubbliche, tuttavia, non lo distolsero dalla ricerca e dai doveri verso la Stazione sperimentale di Caseificio, che ebbe la soddisfazione di vedere trasformata nel 1919, per Regio Decreto, in Istituto sperimentale di Caseificio consorziale autonomo, e che diresse fino al 1920, quando raggiunse i limiti d’età. Durante il suo pensionamento non abbandonò gli studi cui si avvicinò con dedizione e che impegnarono gran parte della sua vita. Morì a Lodi il 20 dicembre 1929.

2 A.

STROPPA, op.cit., p.262.

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IL LATO OSCURO DELLA CLOROFILLA: “GUERRE STELLARI” E ALLEANZE INASPETTATE TRA PIANTE E ANIMALI DI TIZIANO VENDRAME

Per chi iniziava le elementari nei tardi anni ‘60, le parole “Clorofilla” e “Funzione Clorofilliana” evocavano qualcosa di misterioso e magico. Il mistero e la magia erano alimentati dalle metafore utilizzate dal libro di testo e dalla maestra: la foglia era una “piccola fabbrica” alimentata dal sole. La metafora della fabbrica era rafforzata dalle “filmine1” didattiche (a colori!) dell’epoca, che noi bambini accoglievamo con grande gioia: la tv era in bianco e nero e internet non esisteva nemmeno nei racconti di fantascienza. Questi video preistorici raffiguravano il cuore della foglia come un improbabile ammasso di tubi, alambicchi e serbatoi. Cose che ovviamente non avevano alcun fondamento scientifico, ma che rimanevano impresse in modo indelebile nella memoria dei piccoli alunni. Crescendo nel mondo scolastico s’impara poi a conoscere in modo sempre più approfondito, e

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con maggior cognizione di causa, il “lato buono” della Clorofilla e ciò che vi gira intorno, tra biologia, chimica, cellule, zuccheri, catene alimentari eccetera. Molto più tardi, per chi studia Chimica, si arriva alla struttura dell’Eme (Fischer e il “progressivo accoppiamento dei quadranti2”) e finalmente della Clorofilla. Desta quindi una certa sorpresa scoprire un “lato oscuro” della Clorofilla, ossia la possibilità di agire come un veleno per gli organismi che se ne cibano, in particolare gli insetti. Quando una foglia viene lacerata, l’enzima Clorofillasi, prima isolato in compartimenti separati, entra in contatto con la Clorofilla e ne “taglia” la catena del Fitolo, trasformando la Clorofilla (liposolubile) in Clorofillide (idrosolubile). La Clorofillide così generata ha proprietà tossiche verso gli insetti, sia “intrinseche” che per attivazione fotodinamica (produzione di specie reattive derivate dall’Ossigeno in presenza di


luce, in particolare Ossigeno singoletto). Questo effetto tuttavia può essere evidenziato solamente in modo artificiale, in quanto gli insetti si sono adattati sviluppando forme di difesa. Per esempio, se s’incrementa l’attività dell’enzima Clorofillasi nella foglia (es. utilizzando piante geneticamente modificate), o se si aumenta la concentrazione di Clorofillide nella dieta dell’insetto (dieta artificiale) si osserva un blocco della crescita e un deperimento.3 Una forma di adattamento degli insetti erbivori è la complessazione della Clorofillide nell’intestino con 1 “Film-strip”, 2 Chimica

proteine specifiche, appartenenti alla classe delle Policaline. Il complesso risultante viene spesso indicato come “Red Fluorescent Protein” (RFP) nel caso del baco da seta (Bombyx mori), e in questa specie ha la caratteristica di contenere due gruppi tetrapirrolici legati a ciascuna molecola di proteina.4 La cosa intrigante è che il complesso Clorofillideproteina dimostra, in presenza di luce, spiccate proprietà antivirali,5 il che spiegherebbe la maggior resistenza dei bachi da seta ad alcune malattie virali, quando alimentati con dieta ricca di Clorofilla e mantenuti in presenza di luce.6 7

antenato delle diapositive e di power-point.

organica superiore - di Henry Gilman – Ed. scientifiche Einaudi, 1956 – Vol. II, pag. 1424.

3 Reexamination

of Chlorophyllase Function Implies Its Involvement in Defense against Chewing Herbivores (Plant Physiology Vol. 167, Issue 3, Mar 2015 DOI: 10.1104/pp.114.252023). Link: http://www.plantphysiol.org/content/167/3/660.long 4A

unique red fluorescent protein of silkworm bearing two photochromic moieties (Photochem. Photobiol. Sci., 2009,8, 1364-1372 DOI:10.1039/B904102H). The profiles of red fluorescent proteins with antinucleopolyhedrovirus activity in races of the silkworm Bombyx mori (J Insect Physiol. 2011 Dec;57(12):1707-14. DOI 10.1016/j.jinsphys.2011.09.009). 5

6 Bombyx

mori Midgut Membrane Protein P252, Which Binds to Bacillus thuringiensis Cry1A, Is a Chlorophyllide-Binding Protein, and the Resulting Complex Has Antimicrobial Activity (APPLIED AND ENVIRONMENTAL MICROBIOLOGY, Mar. 2008, p. 1324–1331 Vol. 74, No. 5 DOI:10.1128/AEM.0190107). Link: http://aem.asm.org/content/74/5/1324.full 7 Antiviral

activity in the mulberry silkworm, Bombyx mori L. (J. Zhejiang Univ. - Sci. A (2006) 7(Suppl 2): 350 DOI 10.1631/jzus.2006.AS0350). IL CHIMICO ITALIANO

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Un adattamento similare in diverse specie di insetti è il rivestimento delle pareti dell’intestino con una proteina in grado di legare in modo specifico la Clorofillide, dando un complesso che ha una possibile azione di difesa contro la flora batterica intestinale.8 Si riscontra così un caso ricorrente nell’ecologia chimica, ossia non solo “l’inertizzazione” di una tossina proveniente dalla catena alimentare, ma anche la sua rielaborazione e utilizzo a vantaggio dell’organismo. Collegati all’attività fotodinamica dei metaboliti della Clorofilla vi sono numerosi studi sulle possibilità di impiego in campo terapeutico, su alcuni tipi di tumore (quindi torniamo al “lato buono” della Clorofilla!).9 Degno di nota è che molti di questi studi sono partiti dalle indagini su un particolare “principio attivo” utilizzato nella medicina tradizionale cinese, ossia i “cacherelli” dei bachi da seta.10 Tornando alle relazioni “dirette” Clorofilla/animali, meritano un accenno i casi di simbiosi, in cui i due organismi (vegetale/animale) traggono vantaggio reciproco dalla relazione. Oltre alla classica simbiosi coralli/alghe, vale la pena ricordare i casi meno scontati molluschi/alghe, e tra questi uno “spettacolare” riguarda la “lumaca di mare” (sea slug) Elysia chlorotica. La particolarità è che l’animale estrae dalle alghe che mangia i cloroplasti e li mantiene attivi e funzionali per mesi nei propri tessuti (non è proprio una bella simbiosi, per l’alga!).11 Questa “simbiosi” può consentire all’animale, in assenza di cibo (le alghe di cui si nutre), di vivere per mesi contando solo sulla fotosintesi dei cloroplasti “catturati”.12 Tuttavia un aspetto ancora più rilevante, in cui si fa evanescente la distinzione animale/pianta, è che oltre a continuare la sintesi di Clorofilla nei cloroplasti simbionti (cosa già di per sé complicata, al di fuori dell’organismo originario), alcuni geni che controllano la sintesi della Clorofilla vengono trasferiti dall’alga al DNA 8 The

Green Gut: Chlorophyll Degradation in the Gut of Spodoptera littoralis (J ChemEcol 2015 Nov;41(11):965-74 - DOI 10.1007/s10886015-0636-0). Link: https://www.researchgate. net/publication/282868436_The_Green_Gut_ Chlorophyll_Degradation_in_the_Gut_of_ Spodoptera_littoralis 9 Chlorophyll

Sensitizers in Photodynamic Therapy (capitolo di “Chlorophylls and Bacteriochlorophylls: Biochemistry, Biophysics, Functions and Applications”) - DOI 10.1007/1-4020-45166_32 – Link: https://www.researchgate.net/ publication/225835220_Chlorophyll_Sensitizers_in_ Photodynamic_Therapy

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10 Chlorophyll

derivatives (CpD) extracted from silk worm excreta are specifically cytotoxic to tumor cells in vitro (Yonsei Med J. 1990 Sep;31(3):225233- DOI 10.3349/ymj.1990.31.3.225). Link: https:// www.eymj.org/Synapse/Data/PDFData/0069YMJ/ ymj-31-225.pdf 11 Solar-Powered

Sea Slugs. Mollusc/Algal Chloroplast Symbiosis (Plant Physiology Vol. 123, Issue 1 May 2000 DOI 10.1104/pp.123.1.29). Link: http://www. plantphysiol.org/content/123/1/29 The making of a photosynthetic animal (Journal of Experimental Biology 2011 214: 303-311; - DOI 10.1242/jeb.046540). Link: http://jeb.biologists.org/ content/214/2/303.short

12

13 Chlorophyll

a synthesis by an animal using transferred algal nuclear genes. (Symbiosis. 49. 121-131 - DOI: 10.1007/s13199-0090044-8). Link: https://www.researchgate.net/ publication/226053724_Chlorophyll_a_synthesis_ by_an_animal_using_transferred_algal_nuclear_ genes 14 Intracellular

invasion of green algae in a salamander host (Proc Natl Acad Sci USA. 2011 Apr 19; 108(16): 6497–6502 - DOI 10.1073/ pnas.1018259108). Link: https://www.ncbi.nlm.nih. gov/pmc/articles/PMC3080989/ 15 The

Photosynthetic Eukaryote Nannochloris eukaryotum as an Intracellular Machine To Control and Expand Functionality of Human Cells (Nano Lett. 2014 May 14;14(5):2720-5. doi: 10.1021/ nl500655h) L’articolo è a pagamento, ma la “Supporting info” dà interessanti dettagli.


dell’animale ed espressi: cellule del mollusco producono Clorofilla!13 Salendo nella scala evolutiva, un caso ben noto nei vertebrati è la simbiosi (vera) tra le uova e gli embrioni della Salamandra maculata del Nordamerica (Ambystoma maculatum) e l’alga verde unicellulare Oophila amblystomatis.14 Notevole il fatto che l’alga simbionte viene trasmessa da una generazione all’altra di salamandre nelle uova. Meno scontato è che anche le cellule umane possano entrare in simbiosi con alghe unicellulari,

in particolare con Nannochloris eukaryotum, un’alga verde unicellulare isolata presso le coste dell’ex Jugoslavia.15 Le cellule ospiti umane sono in grado di utilizzare l’attività fotosintetica del simbionte per la propria sopravvivenza, mentre modulando l’intensità luminosa è possibile influenzare alcuni aspetti del metabolismo delle cellule ospiti. Qui l’aspetto “oscuro” non è tanto nel fatto in sé (la Natura fa sempre ciò che vuole!), quanto nella finalità dei possibili sviluppi di tali ricerche.

Figura tratta da: Reexamination of Chlorophyllase Function Implies Its Involvement in Defense against Chewing Herbivores

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LA GESTIONE DEI RIFIUTI SPECIALI DI MASSIMO COLONNA La gestione dei rifiuti speciali è un’attività difficile in quanto regolamentata da una complessa normativa comunitaria, caratterizzata, spesso, da contenuti tecnici ostici ai più e da una notevole frequenza di aggiornamenti e modifiche. A parte la difficoltà del quadro normativo, il settore è caratterizzato, secondo me, da due aspetti che lo rendono particolarmente rischioso per gli operatori del settore e per i professionisti che ci lavoro, soprattutto per la nostra categoria. Il primo è di carattere prettamente giuridico e il secondo, invece, è di natura esclusivamente tecnica. Come categoria, del primo aspetto possiamo solo prenderne atto, mentre del secondo possiamo e dobbiamo essere gli artefici di un cambiamento radicale. La problematica giuridica che affligge il settore della gestione dei rifiuti speciali, che per scarsa competenza mi limito semplicemente ad enunciare, deriva dal fatto che le norme individuano dei principi cardine a cui attenersi. Nella realtà di tutti i giorni, però, quando li si prova ad applicare, ci si scontra con interpretazioni spesso estremamente restrittive che obbligano ad operare esattamente con modalità opposte a quelle indicate dal legislatore. Può sembrare un paradosso, ma è esattamente così. I principi e le finalità della gestione dei rifiuti sono illustrati dagli articoli 178 e 179 del D. Lgs. 3 aprile 2006, n. 152. Nel valutare qualsiasi attività viene svolta nella filiera della gestione dei rifiuti è fondamentale tenere sempre in considerazione quanto previsto da questi due articoli. L’articolo 178, oltre a definire i principi fondamentali della gestione dei rifiuti, che sono quelli “di precauzione, di prevenzione, di sostenibilità, di proporzionalità, di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti”, e ad introdurre il principio “chi inquina paga”, stabilisce che tale attività deve essere “effettuata secondo criteri di efficacia, efficienza, economicità, trasparenza, fattibilità tecnica ed economica…”. Nell’articolo, quindi, sono espressamente richiamati anche i criteri di economicità e di fattibilità tecnica ed economica. Questi aspetti sono fondamentali nel processo di definizione delle attività pratiche e concrete da eseguire nella gestione dei rifiuti e nella conversione dei principi illustrati dalla normativa nella realtà operativa di tutti i giorni. Fissare obiettivi illusori,

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che ipotizzano manipolazioni e gestioni senza alcun impatto e prevedono la creazione di ricchezza e la generazione di materiali preziosi partendo da scarti e residui di lavorazioni, è un esercizio filosofico, che corre il rischio di non tramutarsi in azioni concrete. Un simile approccio rischia di generare situazioni controproducenti se non si tiene sempre in debito conto la fattibilità tecnica e l’economicità delle operazioni che si vogliono pianificare. Quest’ultimo aspetto va tenuto ancora in maggior considerazione nel contesto del sistema Italia, Paese che demanda quasi completamente all’iniziativa privata la gestione dei rifiuti speciali. Nel definire o verificare le modalità con cui si effettua la gestione dei rifiuti speciali bisogna sempre tenere in forte considerazione che gli obiettivi prefissati devono sempre essere commisurati con la fattibilità tecnica ed economica. Altrimenti non si fanno gli interessi del Paese e non si favoriscono le realtà che concretamente operano perseguendo i principi del rispetto dell’ambiente e della salute dell’uomo. L’articolo 179 fissa la gerarchia da seguire nella definizione delle azioni da intraprendere per la corretta gestione dei rifiuti nell’ottica di perseguire la migliore opzione ambientale. 1. La gestione dei rifiuti avviene nel rispetto della seguente gerarchia: a) prevenzione; b) preparazione per il riutilizzo; c) riciclaggio; d) recupero di altro tipo, per esempio il recupero di energia; e) smaltimento. Nel definire questi criteri la norma non si limita ad imporre un principio, ma indica la necessità relativa di adottare “le misure volte a incoraggiare le opzioni che garantiscono […] il miglior risultato complessivo”, ribadendo, ancora una volta, che bisogna tener in debito conto “la fattibilità tecnica e la praticabilità economica”. Le indicazioni espresse dai succitati articoli 178 e 179 del D. Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 devono essere sempre prese in considerazione quando si pianificano, si eseguono o si controllano attività relative alla gestione dei rifiuti. I suddetti principi non possono essere perseguiti se si considerano come valore assoluto gli obiettivi e le finalità da raggiungere


e non si valuta che nel riuscire a raggiungere il miglior risultato complessivo, bisogna tener conto della fattibilità tecnica e della sostenibilità economica. Nella pratica quotidiana questi principi vengono spesso dimenticati ed il più delle volte si agisce con modalità opposte a quelle indicate dal legislatore. E la cosa strana è che quasi sempre lo si fa con l’intento di “voglio stare tranquillo” o, per i più sofisticati, invocando l’indiscutibile “principio di precauzione” o le sempre valide “modalità più restrittive”. Basando la propria azione su questi atteggiamenti, ritenuti da tutti molto più sicuri dei principi enunciati dalla normativa, si classificano tutti i rifiuti come pericolosi, si distribuiscono caratteristiche di pericolo come fossero caramelle, si applicano protocolli analitici infiniti e si privilegiano operazioni di smaltimento che stanno il più in basso possibile nella gerarchia dell’ordine di priorità piuttosto che forme di recupero che stanno in alto. Insomma, applicando il senso comune, si finisce per gestire i rifiuti con modalità esattamente opposte a quelle previste dalla normativa. Chiunque provi, sulla base di informazioni certe e di dati analitici sicuri, a classificare come non pericoloso un rifiuto, contrassegnato con un codice a specchio, sa che si può trovare di fronte alla mitica richiesta: “Per favore classificalo come pericolo perché voglio stare tranquillo”. Qualunque collega che opera nel settore sa che, sempre sulla base di informazioni certe, se prova a definire un protocollo analitico che prevede solo la determinazione delle sostanze pericolose pertinenti, si può trovare, dopo qualche giorno, di fronte alla richiesta di dover integrare il rapporto di prova. Molto spesso, infatti, c’è qualche operatore che fa notare che mancano le analisi dei PCB, delle diossine e dei furani o degli altri POP’S, anche se mai e poi mai vi è la possibilità che simili sostanze siano presenti nel processo produttivo che ha generato il rifiuto. E si potrebbero fare numerosi altri esempi di atteggiamenti utilizzati ogni giorno dagli operatori del settore per adottare modalità di gestione dei rifiuti contrarie a quelle previste da una corretta applicazione dei principi cardine indicati dalla legge. Classificare pericoloso un rifiuto che non lo è va contro i principi della norma. Inviare un rifiuto a smaltimento in luogo di una possibile operazione di recupero è contro la legge. Così come lo è inviare un rifiuto ad una categoria superiore di discarica quando potrebbe essere smaltito in una di categoria inferiore. Questi atteggiamenti, particolarmente diffusi nel nostro Paese, derivano, probabilmente, da più fattori: una scarsa fiducia nelle istituzioni, la mancanza di competenze adeguate e un approccio al problema spesso troppo ideologico e molto poco pragmatico. A questo, non si può non evidenziarlo, si aggiunge molto spesso un’interpretazione errata dei principi stessi della normativa da parte degli organi di controllo, delle forze di polizia, della magistratura e dei consulenti IL CHIMICO ITALIANO

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dei giudici, che spesso sono nostri colleghi. L’atteggiamento adottato, da chi è deputato al controllo della filiera di gestione dei rifiuti, è troppo spesso caratterizzato da un intento punitivo e quasi mai volto a considerare i principi degli articoli 178 e 179 della legge quadro ambientale. Questo porta di frequente a ipotizzare associazioni a delinquere finalizzate all’illecito smaltimento dei rifiuti ogni volta che si avvia un rifiuto ad un’operazione di recupero o a ipotizzare i reati di falso e truffa ogni volta che si classifica un rifiuto utilizzando il codice non pericoloso di un codice a specchio. Su questi aspetti noi chimici abbiamo le nostre responsabilità, ma la situazione è complessa e purtroppo non siamo in grado da soli di modificare lo stato delle cose. La problematica tecnica, che tormenta il settore della gestione dei rifiuti, sulla quale, invece, abbiamo la possibilità di modificare la situazione, è quella relativa alla classificazione dei rifiuti, attività in cui la nostra professionalità deve essere determinante. Troppo spesso, però, noi chimici siamo stati i primi ad affrontare con leggerezza la complessità di tale attività. Ci siamo trincerati dietro la mancanza di informazioni da parte dei produttori cui spetta la responsabilità, abbiamo sostenuto che i criteri non erano chiari, ci siamo appellati alla frequenza delle modifiche delle normative da applicare ed alla loro complessità e ognuno si è arrangiato come meglio ha potuto. Da esperto vi assicuro che ne abbiamo fatte di tutti i colori. Mi è capitato perfino di partecipare ad un corso di formazione, organizzato dall’Ordine a cui sono iscritto, in cui un relatore quasi sbeffeggiava la normativa pur di teorizzare che la classificazione dei rifiuti è un’attività aleatoria ed ognuno può fare come vuole. Non è così, non si può e non si deve prendere a pretesto il fatto che prendendo in considerazione due composti diversi di un stesso metallo, come contaminanti di un rifiuto, la classificazione risultante è diversa. Spetta proprio a noi chimici, facendo ricorso alle nostre competenze e alle tecniche analitiche, tentare

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di individuare qual è il composto responsabile della presenza del metallo ed effettuare la conseguente corretta classificazione del rifiuto. Recentemente sono stati finalmente stabiliti con estrema certezza i criteri da adottare per effettuare la classificazione dei rifiuti. Le legge 3 agosto 2017, n. 123 ha ribadito, infatti, che: La classificazione dei rifiuti è effettuata dal produttore assegnando ad essi il competente codice CER ed applicando le disposizioni contenute nella decisione 2014/955/UE e nel regolamento (UE) n. 1357/2014 della Commissione, del 18 dicembre 2014, nonché nel regolamento (UE) 2017/997 del Consiglio, dell’8 giugno 2017. Non ci sono più dubbi, ammesso che in passato ce ne siano stati, su quali sono i criteri da adottare. Anche la tanto discussa attribuzione della caratteristica di pericolo HP14 “Ecotossico” è stata finalmente definita e dal 5 luglio 2018, data di applicazione del nuovo Regolamento Consiglio Ue 2017/997/ Ue, è chiaro come deve essere verificata. A questo punto permangono solo delle incertezze interpretative su come gestire i rifiuti a composizione non nota contaminati da metalli. Rimane l’annosa questione di dover attribuire la concentrazione sperimentalmente determinata dei metalli ai composti responsabili della loro presenza nei rifiuti. L’altra questione aperta è relativa alla classificazione delle frazioni generiche C5-C8 e C10-C40, in caso di contaminazione da idrocarburi. Ma ormai questi aspetti sono stati talmente tanto discussi, valutati ed oggetto di pareri tecnici da non poterli più considerare come dubbi. Personalmente ho cercato di contribuire per fare chiarezza in questo settore, mettendo in rete il portale www. tecnorifiuti.it, e scrivendo il libro intitolato “La classificazione dei rifiuti secondo il Regolamento Commissione Ue 1357/2014/Ue” pubblicato dalla EPC Editore. Il portale contiene un software professionale che effettua l’elaborazione dei dati prevista dal regolamento 1357/2014/Ue ed è


corredato della banca dati aggiornata delle sostanze pericolose, ossia il Regolamento Ce 1272/2008/Ce e s.m.i. Il libro illustra nel dettaglio come applicare i criteri della nuova normativa e soprattutto indica soluzioni concrete per quelle situazioni in cui la normativa lascia spazio a interpretazioni. Il portale è stato messo in rete il 1° maggio 2015, ossia un mese prima dell’applicazione del nuovo regolamento e il libro è stato pubblicato ad ottobre 2015, ossia tre mesi dopo l’entrata in vigore dello stesso. Da allora sono passati più di due anni, ma ancora mi capita di vedere frequentemente rapporti di prova che riportano la classificazione dei rifiuti senza l’applicazione corretta dei criteri previsti dalla normativa in vigore o quantomeno senza che la sua applicazione sia adeguatamente evidenziata. Capita troppo spesso di trovare lavori di colleghi che riportano errate classificazioni delle sostanze pericolose. La banca dati ufficiale da utilizzare è il Regolamento Ce 1272/2008/Ce con le sue modifiche ed integrazioni. La ricerca della classificazione delle sostanze su altre banche dati disponibili in rete è spesso causa gravi errori. Con ancora maggior frequenza capita di vedere colleghi che indicano per ciascun parametro determinato un valore limite, superato il quale, il rifiuto dovrebbe essere classificato pericoloso. Questo senza considerare che per molti criteri il valore limite, fissato dal regolamento comunitario, è relativo alla sommatoria delle concentrazioni di tutte le sostanze pericolose che presentano determinati codici di indicazione di pericolo. Soprattutto si adotta questa pratica senza considerare che per i metalli questa attribuzione di un valore limite, seppur fittizia, non è possibile se non si è indicato il composto responsabile della sua presenza. Sui rifiuti contaminati da metalli, poi, se ne vedono di tutti i colori. È diffusissima l’usanza di determinare su tutte le tipologie di rifiuti un lungo elenco di metalli, visto che le tecniche analitiche sono simultanee. Salvo,

poi, non abbinare le concentrazioni rilevate ad alcun composto e, quindi, non prenderle in considerazione nella successiva elaborazione dei dati. Alcuni colleghi hanno creato i cosiddetti “composti generici” anche per quei metalli per cui il Regolamento 1272 non contempla questa voce. Non parliamo, infine, dei comportamenti bizzarri e fantasiosi che ciascuno di noi ha messo in campo per applicare il principio di precauzione, nel caso di rifiuti a composizione non nota contaminati da metalli. Altra abitudine molto diffusa è quella di indicare in fondo ai rapporti di prova la classificazione del rifiuto, dopo aver scritto almeno una pagina piena di riferimenti normativi, senza evidenziare le risultanze dell’elaborazione dei dati richiesta dal Regolamento 1357. Oppure, soluzione ancora più sconcertante, presentando una tabella riassuntiva dei risultati ove in luogo dei valori delle sommatorie viene inserito un generico “inferiore al limite”, ossia attestando che il rifiuto non è pericoloso sulla parola: bisogna fidarsi e basta. Anche in questo caso l’elenco degli errori potrebbe continuare a lungo. Tutte queste modalità di operare, che raccontate così possono sembrare addirittura divertenti, sono in realtà estremamente pericolose proprio per noi chimici operanti in questo settore. La fonte principale dei guai giudiziari, che ci coinvolgono nell’esercizio della nostra attività è rappresentata proprio dalle contestazioni mosse sulla classificazione dei rifiuti. Ma allora perché continuiamo a lavorare con questo stato di indeterminazione, mettendo a rischio la nostra professionalità e la nostra reputazione? Anche in questo caso la situazione, deriva, probabilmente, da più fattori: la scarsa collaborazione tra produttore del rifiuto e professionista incaricato, una non adeguata attenzione degli ordini professionali alla questione e la mancanza della necessaria formazione di molti colleghi. A questi motivi, non si può non evidenziarlo, si aggiunge l’assenza quasi assoluta dei controlli di routine su quello che è l’aspetto

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principale della gestione dei rifiuti. La classificazione dei rifiuti, infatti, determina le modalità con cui devono essere svolte tutte le successive operazioni inerenti la loro gestione. La classificazione è fondamentale per individuare le modalità di imballaggio e di etichettatura, i tempi del deposito temporaneo, le modalità di trasporto e le forme di recupero o di smaltimento. Un’errata classificazione impedisce la corretta gestione dei rifiuti. Tranne i rari casi in cui interviene la magistratura i controlli sono rarissimi. Dopo qualche anno di lavoro a tempo pieno su questo settore mi spingo a dire che le cause sono da ricercare tra tutte quelle sopra elencate. Mi tocca constatare, purtroppo, che si è instaurato un meccanismo poco virtuoso da cui non è facile uscire. Parlo e mi confronto con molti colleghi, i quali spesso mi confessano che, pur sapendo di non operare con il massimo della professionalità non si preoccupano perché tanto non li controllerà mai nessuno. Come dar loro torto? Negli ultimi anni, infatti, ho avuto modo di confrontarmi con una certa frequenza anche con molte Agenzie Regionali per la Protezione dell’Ambiente (ARPA), uno degli enti deputati ad effettuare tali tipi di controllo, e la situazione riscontrata non è delle migliori e non lascia presagire grossi cambiamenti all’orizzonte. A fronte di un’ottima professionalità e competenza degli addetti, infatti, le agenzie sono afflitte da estenuanti attività di riorganizzazione, da ataviche carenze di risorse e personale e da una non chiara assegnazione dei compiti. In queste realtà la classificazione dei rifiuti viene vista più come un’attività da evitare che come compito istituzionale da svolgere. Questa è la desolante situazione che caratterizza, in base alla mia esperienza, il settore della gestione dei rifiuti. Per modificare la situazione lancio un invito accorato a tutti i colleghi ad utilizzare gli strumenti informativi ed i mezzi di calcolo messi a loro disposizione, esorto gli organi deputati a effettuare più controlli adottando il giusto atteggiamento e auspico un sempre maggiore impegno dell’Ordine dei Chimici sulle attività di formazione e di supporto agli iscritti.

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Portale:

Il libro:

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BRINDIAMO ALLA CHIMICA A CURA DELLA REDAZIONE Siamo sinceri: a tavola un buon calice di vino non si rifiuta mai. Senza dubbio è sempre bene non esagerare, perché il vino non è solo “succo di uva invecchiata”, ma è composto da molte più sostanze di quelle che immaginiamo. Per prima cosa l’uva si compone di varie sostanze chimiche come alcoli, zuccheri, acidi e aromi. Gli alcoli, composti chimici con formula R-OH, sono l’alcol etilico e l’alcol metilico: l’alcol etilico o etanolo è il composto - dopo l’acqua - più importante nel vino. Proviene dalla fermentazione alcolica degli zuccheri del mosto, causata dall’azione dei lieviti, e il suo tenore è espresso in percentuale di volume. È importante moderarsi con l’alcol perché l’etanolo è tossico per l’uomo, dato che agisce sulle cellule nervose e su quelle del fegato. L’alcol metilico si crea dall’idrolisi enzimatica dei gruppi metossilici delle pectine durante la vinificazione e pur non avendo influenza sensoriale, a causa dell’alta tossicità per legge deve rispettare i limiti fissati (nei vini la quantità è compresa fra 60 e 150 mg/l). Gli zuccheri, risultato della fotosintesi grazie a cui l’anidride carbonica viene trasformata in composti chimici, sono derivati aldeidici e chetonici di alcoli polivalenti. Possono essere classificati in monosaccaridi, ovvero zuccheri semplici, polisaccaridi, costituti da molte unità di monosaccaridi e oligosaccaridi, formati da poche unità di monosaccaridi unite tra loro. Nei vini troviamo gli zuccheri esosi, con 6 atomi di carbonio – come il d-glucosio e il fruttosio – o, in piccole quantità, gli zuccheri pentosi con 5 atomi di carbonio (ad esempio l’arabinosio e il ramnosio). In particolare, la quantità di glucosio e fruttosio può variare secondo le fasi di maturazione dell’uva: quando la pianta è matura troviamo più fruttosio, principale responsabile della dolcezza dell’uva. Tra gli acidi troviamo quelli organici dell’uva e quelli organici della fermentazione. Nel primo gruppo c’è l’acido tartico, uno dei più importanti nell’uva ma instabile dal punto di vista chimico-fisico perché può precipitare in alcune soluzioni; l’acido malico, più stabile per i suoi sali solubili nelle soluzioni idriche ma più facilmente attaccabile da lieviti e batteri; infine l’acido citrico, presente in quantità minori prima della fermentazione malolattica. Gli acidi della fermentazione sono l’acido piruvico, l’acido acetico e l’acido lattico. Altro elemento essenziale del vino, è l’aroma. Gli aromi possono dividersi in composti terpenici (biomolecole costituite da multipli dell’unità isoprenica), metossipirazzine (composti eterociclici azotati) e norisoprenoidi. Ricordiamo che sono presenti anche i flavoni, pigmenti, spesso gialli, delle bucce delle uve nere e bianche, gli antociani, composti chimici presenti nella buccia degli acini e responsabili del colore rosso delle uve e del vino, i tannini, molecole fenoliche che derivano dalla polimerizzazione di molecole monometriche. I tannini a loro volta sono idrolizzabili, condensati (presenti nelle parti

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solide dell’uva e costituiti da diverse molecole di flavolani) o complessi (si trovano nelle piante). Per concludere questa breve panoramica, è bene ricordare che per ottenere un buon vino occorre l’impiego, nei giusti limiti, di alcune sostanze tra cui: • anidride carbonica e solfiti, aggiunti perché svolgono azioni antisettiche e antiossidanti utili a mantenere il vino integro e a non far avviare una seconda fermentazione. Precisiamo che i solfiti si creano anche da soli nel vino, indotti da lieviti e batteri, e possono recare possibili reazioni pseudo allergiche. Anche se la quantità di solfiti si è dimezzata negli anni, si possono scegliere i vini biologici dove i livelli sono ancora più bassi; • chiarificanti, come le proteine delle uova e del latte, usate appunto per la chiarificazione per evitare opacità e depositi; • acidificanti, stabilizzanti, regolatori dell’acidità, attivatori della fermentazione, agenti antischiumogeni, conservanti, coadiuvanti e solventi: sono i composti più diffusi per i quali la legge fissa un livello massimo di impiego. Insomma, è importante leggere le etichette dei vini perché, come diceva Goethe, “la vita è troppo breve per bere vini mediocri”.

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LE PRINCIPALI NOVITÀ LEGISLATIVE IN CAMPO AGROALIMENTARE DEGLI ULTIMI MESI DI DANIELA MAURIZI Generalmente, per la fine di ogni anno, tutti si aspettano dalle istituzioni novità pirotecniche in campo di legislazione alimentare. Ebbene, questa volta i desideri di molti sono stati soddisfatti. In particolare, focalizziamo l’attenzione su due documenti pubblicati dalla Commissione Europea: la Comunicazione sull’applicazione del principio della quantità degli ingredienti (QUID) e la Comunicazione riguardante la fornitura di informazioni su

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sostanze che provocano allergie o intolleranze. Il terzo documento che è stato “varato” è il nuovo quadro sanzionatorio dei reati agroalimentari che ha avuto il via libera dal Consiglio dei Ministri. Se i primi due documenti sono utili strumenti che vanno ad integrare il Reg. U.E. 1169/11 su due aspetti molto discussi e delicati (sia per la salute del consumatore sia per l’efficace comunicazione di informazioni), il terzo è un passo deciso

verso un nuovo inquadramento delle sanzioni che riguardano la gestione degli alimenti. Tra l’altro tale quadro sanzionatorio era atteso da tempo e ha avuto una gestazione molto lunga, visto che già da più di un anno se ne parlava come di un qualcosa in “dirittura d’arrivo”. Nello specifico, riportiamo di seguito i passaggi salienti e più interessanti dei tre documenti.


DICHIARAZIONE DEL QUID • Viene fornita una definizione più approfondita di cosa si intenda per QUID. • Si ribadisce un concetto già espresso da una Circolare Ministeriale, secondo cui qualora si evidenzi un ingrediente di un ingrediente composto, si dovrà indicare il QUID di entrambi. • Si approfondisce quando sia necessario indicare il QUID a seguito dell’utilizzo di immagini o espedienti grafici che mettano in risalto un ingrediente. È interessante notare che, ad esempio, utilizzare un’immagine di una mucca per porre l’attenzione sugli ingredienti lattiero caseari rende obbligatorio il QUID. • Si indicano alcune eccezioni al punto di cui sopra (quando si rappresentano tutti gli ingredienti di un alimento senza farne risaltare uno in particolare e quando “l’immagine ha il solo scopo di presentare il prodotto”). • Si fa chiarezza sui casi in cui gli alimenti siano esentati dal riportare un QUID, con particolare riferimento al peso sgocciolato come indicazione sostitutiva. • Viene fornito un esempio (con dati numerici chiari e univoci) per il calcolo del quid per quegli alimenti che hanno subito una perdita di peso. • Infine si danno piccoli dettagli sul posizionamento del QUID in etichetta.

REATI AGROALIMENTARI Sono stati modificati alcuni articoli del Codice Penale, con un generale inasprimento delle pene o comunque con una maggiore restrittività nei requisiti che innescano la sanzione. Di seguito, un elenco dei nuovi reati che sono stati invece inclusi nel Codice Penale e delle nuove sanzioni: CONTAMINAZIONE O CORRUZIONE DI ACQUE O DI ALIMENTI Chi contamina le acque o gli alimenti destinati alla collettività è punito con la reclusione da 3 a 10 anni.

INDICAZIONE DEGLI ALLERGENI • Il primo punto di un certo interesse riguarda gli elenchi delle sostanze allergeniche, con particolare importanza alla definizione dell’allergene “latte” che si considera riferito alla “secrezione mammaria di tutti gli animali da allevamento” (mentre normalmente per “latte” si intende solamente quello di mucca). • Vengono presentati diversi esempi su come indicare gli allergeni in caso si utilizzino cereali di varia origine; interessante il punto in cui si indica che il glutine usato come ingrediente dovrà riportarne l’origine (da grano, da orzo, ecc.), un fatto sicuramente non considerato da molti. • Si evidenzia come altre forme di indicazione degli allergeni, diverse da quelle previste dal Regolamento, non siano consentite. È il caso della tipica indicazione, a margine dell’elenco ingredienti, “contiene: ….”, seguita dall’elenco degli allergeni contenuti.

DISASTRO SANITARIO Chi avvelena acque o sostanze alimentari, adultera sostanze alimentari, commercializza sostanze alimentari adulterate o contraffatte o nocive e causa lesioni gravi o decessi di tre o più persone è punito con la reclusione da 6 a 18 anni. AGROPIRATERIA Chi prende parte ad associazioni per delinquere e associazioni di tipo mafioso e svolge attività di vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine e vendita di prodotti industriali con segni mendaci è punito con la reclusione da 2 a 6 anni e con la multa da 15.000 a 75.000 euro. Chi contraffà le indicazioni geografiche e le denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari è punito con la reclusione da 3 a 7 anni e con la multa da 20.000 a 100.000 euro.

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Nuovi reati e sanzioni in leggi e decreti legislativi: FRODI IN COMMERCIO DI PRODOTTI ALIMENTARI Chi vende sostanze alimentari non genuine come genuine o vende prodotti industriali con segni mendaci è punito con una multa fino a 300 a quote. Chi contraffà le indicazioni geografiche e le denominazioni di origine dei prodotti alimentari è punito con la multa da 100 a 400 quote. DELITTI CONTRO LA SALUTE PUBBLICA Chi avvelena acque o sostanze alimentari è punito con la sanzione da 500 a 1000 quote e con l’interdizione dall’attività da 1 a 2 anni. Chi adultera o contraffà sostanze alimentari è punito con la multa

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da 300 a 600 quote e con l’interdizione dall’attività da 6 mesi ad 1 anno. Chi commercializza sostanze alimentari nocive è punito con la multa fino a 300 quote con l’interdizione dall’attività fino a 6 mesi.

usati in agricoltura per la protezione delle piante Concernono previsioni legislative o regolamentari in materia di sicurezza alimentari che attuano il principio di precauzione: si applica la multa da 15.000 a 75.000 euro o da 1.500 a 15.000.

UTILIZZO DI ALIMENTI IN CONTRASTO CON IL PRINCIPIO DI PRECAUZIONE L’impiego/detenzione per la vendita/distribuzione di sostanze alimentari: • private di elementi nutritivi o mescolate con sostanze di qualità inferiore • in cattivo stato di conservazione • con cariche microbiche superiori ai limiti • invase dai parassiti • con aggiunta di additivi chimici non autorizzati • contenenti residui di prodotti

ALIMENTI NON GENUINI Chi prepara, produce, importa, introduce in custodia temporanea o in deposito doganale, spedisce in transito, esporta, trasporta, somministra, detiene per commercio, commercializza o mette in circolazione alimenti privati degli elementi nutritivi o mescolati con sostanze di qualità inferiore è punito con la multa da 15.000 a 75.000 euro se il fatto è commesso nella grande distribuzione o nel commercio all’ingrosso.


PARI OPPORTUNITÀ PROFESSIONALI PER I CHIMICI DA DOVE VENIAMO E DOVE STIAMO ANDANDO CONSIGLIO NAZIONALE DEI CHIMICI FIRENZE, 30/09/2017 DI LUCIA CARRANO, CARLA DENOTTI, ANNA MARIA PAPINI ANGELA PELLACANI, DORIANA VISENTIN …“Il mio mestiere vero, quello che ho studiato a scuola e che mi ha dato da vivere fino ad oggi, è il mestiere del Chimico. Non so se lei ha un’idea chiara, ma assomiglia un poco al suo: solo che noi montiamo e smontiamo delle costruzioni molto piccole. Ci dividiamo in due rami principali, quelli che montano e quelli che smontano, e gli uni e gli altri siamo come dei ciechi con le dita sensibili”…

Con queste parole Primo Levi descrive il mestiere di noi “Chimici”, mentre il convegno, organizzato dalla CPO, promosso dal CNC e tenutosi all’Università di Firenze il 30 settembre, ha cercato di analizzare se il nostro sia un mestiere di pari opportunità e capace di offrire prospettive interessanti per i giovani. Il convegno si proponeva da una parte di fare il punto, in ottica di genere, sulle opportunità lavorative, le problematiche previdenziali e assistenziali, le prospettive e gli interventi in programma per Chimici e Chimiche nei diversi settori. Dall’altra di valutare se quello del Chimico sia un mestiere che consenta una corretta work-life balance. Per la nostra categoria è stato un momento di confronto su tematiche comuni a imprenditoria, industria e pubblica amministrazione. I relatori hanno valutato se uomini e donne abbiano pari possibilità di realizzazione in ambito lavorativo nel settore chimico, se nel corso del tempo ci siano stati cambiamenti significativi ed eventuali punti critici. Si è visto come occorra una nuova figura professionale aggiornata, competente e competitiva in grado di contrastare una concorrenza basata su parametri puramente economici. In particolare, la Consigliera per le Pari opportunità del Ministero del Lavoro, ha illustrato il quadro

di riferimento generale e le azioni intraprese per garantire l’attuazione di politiche di genere corrette. Il consigliere di Federchimica ha evidenziato come il tema delle Pari opportunità debba essere incluso in quello centrale della sostenibilità e come, l’industria chimica è tra i settori con le migliori performance nel campo. Secondo i dati presentati da Federchimica, le opportunità di lavoro per i giovani Chimici, indipendentemente dal genere, sono in aree dove è necessaria una buona conoscenza della scienza chimica: non solo laboratori di analisi e ricerca, ma anche gestione di impianti, qualità, regolamentazione, HSE; nonché vendite, marketing e acquisti. Aree di occupazione emergente sono i servizi e i settori utilizzatori dell’industria chimica. In accordo con i dati ISTAT presentati, il 49% dei laureati magistrali in chimica sono donne, chiara indicazione di parità ancora più interessante se si considera che tale percentuale nel gruppo scientifico è del 38%, mentre ad ingegneria chimica e dei materiali, pur essendo più bassa (37%), è significativamente superiore a quella media (26%). Le condizioni occupazionali a 3 anni sono buone (87%), considerando anche quelle che svolgono attività formativa retribuita, e sono migliori che nella media delle laureate donne (79%). Va sottolineato

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che, la differenza tra laureati donne e uomini, è ristretta a soli 4 punti percentuali mentre nella media è più elevata (8 punti). Anche la retribuzione delle giovani laureate in chimica è dell’11% superiore alla media e poco distante (9 punti percentuali) dalla retribuzione dei maschi, mentre nella media la distanza sale a 20 punti percentuali. Dato interessante nell’industria, le retribuzioni d’ingresso sono uguali. Il ruolo centrale della laureata in Chimica nell’industria spinge a una grande attenzione verso il tema delle Pari opportunità. Cosa che ad esempio si riflette nel Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro che lega molto le Pari opportunità ai temi della Responsabilità sociale, indicando anche nelle Linee guida per la contrattazione aziendale aspetti specifici come l’attenzione al mix occupazionale, l’individuazione di azioni positive nei percorsi di sviluppo e la conciliazione tra vita lavorativa e vita privata. Si è parlato, inoltre, del settore della Ricerca e dell’Università esaminando non solo il ruolo e le opportunità del Chimico in ambito accademico

italiano ed estero ma anche le opportunità di rientro per giovani ricercatori offerte dal Programma Rita Levi Montalcini. Un interessante intervento ha evidenziato come nuove modalità d’insegnamento negli istituti d’istruzione superiore, possibili grazie all’autonomia scolastica, se affidate ai Chimici possano contribuire al rilancio della nostra disciplina avvicinando le nuove generazioni. Infine, sono stati esaminati anche gli aspetti previdenziali e assistenziali sia dei liberi professionisti sia dei dipendenti pubblici e privati. Sono statie illustrati i pacchetti di prevenzione salute dedicati ai due generi e le nuove opportunità assicurative. La tavola rotonda pomeridiana ha visto la partecipazione non solo dei relatori e delle componenti alla CPO ma anche dei presenti. Con soddisfazione si è concluso che la strada intrapresa è indirizzata verso il riconoscimento e il conseguimento di pari opportunità professionali e che il settore chimico può svolgere un ruolo di riferimento.

Figura 1. Un momento del convegno: il moderatore della tavola rotonda Dott. Pudda, la CPO e la consigliera di parità.

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UNA LETTURA CHIMICA DELLA CARTA A CURA DELLA REDAZIONE

Oggi, con l’avvento dell’era digitale, si sente dire sempre più spesso che i libri saranno sostituiti dai tablet e dagli e-reader. Anche se i device tecnologici permettono una lettura più versatile e fruibile “i libri da leggere non potranno essere sostituiti da alcun aggeggio elettronico” come diceva Umberto Eco. Questo perché, per i veri appassionati, i libri sono fatti per essere maneggiati, sfogliati e conservano sempre un fascino e un odore inconfondibile. Ora facciamo un passo indietro e scopriamo cosa si nasconde dietro “l’incanto” della carta. Per secoli, scritti e disegni sono stati condivisi e tramandati grazie alle pergamene, maneggevoli ma fragili. L’invenzione della carta è attribuita ai Cinesi, quando nel 105 d.C. Tsai Lun un funzionario

della corte imperiale, trovò il modo di fabbricarla partendo da fibre vegetali, rivoluzionando così la trasmissione del pensiero. Oggi la carta è un materiale di origine biologica: il suo principale componente è la cellulosa, un polisaccaride di origine vegetale, costituente della parete cellulare (struttura che sostiene e protegge i tessuti vegetali, conferendogli resistenza). In quanto polisaccaride, la cellulosa è un polimero naturale che si ricava per policondensazione di molecole di D-glucosio, i cui monomeri sono uniti grazie a una reazione di condensazione: si forma così un legame 1-4-ß-glucosidico. La carta, però, non è tutta uguale. Esiste il grado di polimerizzazione che, non solo determina la resistenza

della molecola, ma indica anche il numero di monomeri di glucosio presenti, elemento che varia in base all’origine vegetale della cellulosa: ad esempio la cellulosa dell’abete è formata da 600 monomeri uniti, mentre nel lino o nella canapa le molecole di glucosio sono addirittura più di 2000. Determinata la resistenza, possiamo quindi anche definire il grado di conservazione dei documenti: una carta di qualità ha un grado di polimerizzazione medio intorno a 1000 molecole. Quando questo valore è basso, sono presenti rotture di catene di cellulosa, ovvero un deterioramento della carta. Oltre ai danni fisici - usura, lacerazioni - e biologici - causati da insetti e animali - la carta può subire danni chimici dovuti all’idrolisi

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e all’ossidazione della cellulosa. L’idrolisi, uno dei principali fattori del deterioramento, agisce sul legame ß-glucosidico, spezzando la catena di monomeri e portando a un graduale indebolimento del supporto; questo fenomeno avviene quando il pH subisce deviazioni causate da acidi/ basi forti. L’ossidazione invece avviene quando sono presenti agenti ossidanti come l’ossigeno nell’aria o metalli degli inchiostri: in questi casi la molecola di

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cellulosa subisce la perdita di uno o più elettroni. Ma non solo, l’ossigeno molecolare causa la formazione di radicali liberi e di radicali perossidici che, attaccando la molecola di cellulosa, rompono il legame glucosidico. Quando la cellulosa si ossida si formano gruppi chimici ossidati - i cromofori, molecole in grado di conferire colore ad una sostanza - che riflettono la luce in modo diverso. Basti pensare alle alterazioni cromatiche della

carta di molti manoscritti antichi: il classico “ingiallimento”, non solo rovina l’estetica delle opere, ma può cancellare anche parole e disegni. I principali responsabili di questo fenomeno sono i cromofori di un particolare gruppo chimico, detto aldeidico (un atomo di ossigeno, con doppio legame, e uno d’idrogeno). L’ossidazione può essere anche accelerata quando sono presenti metalli come il ferro e il rame: da una parte l’acido solforico promuove


l’idrolisi acida della cellulosa, dall’altra gli ioni metallici (ferro o rame) catalizzano la reazione di ossidazione (assistiamo alla comparsa di macchie rosso/bruno sulla carta). Non dimentichiamoci che, oltre all’estetica della carta, un altro fattore che subisce variazioni è l’odore dei libri. I veri appassionati sanno distinguere il profumo di un vecchio giornale dalla carta nuova che è inodore. Una cosa è indiscutibile, nuova o antica,

l’odore della carta è sempre affascinante. Proprio un chimico inglese, Andy Brunning, ha cercato di spiegare la differenza degli odori: per i libri nuovi è difficile individuare composti specifici a causa della varietà dei prodotti utilizzati e dal numero di composti presenti. Di conseguenza l’odore dei libri nuovi è attribuito alla carta, agli inchiostri e agli elementi utilizzati nel processo di rilegatura. Per quanto riguarda i libri vecchi, come visto interviene non solo la

chimica con il processo di idrolisi, che conferisce alle pagine un colore giallino e un odore simile ad erba e vaniglia, ma anche differenti agenti rilasciati negli anni da carta e colla: abbiamo così i potenziali responsabili del caratteristico odore dei vecchi libri. Alla fine di questo articolo possiamo dire di conoscere meglio la carta e la sua storia. Un po’ come se avessimo visto… la sua carta d’identità.

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