Il Collirio #08

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“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso”.

In copertina: “Illusione” di Cripsta

Edition of 200 offset - stampato presso Tipografia Reali

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Editoriale

C

i sono tanti profeti sbagliati nella storia dell’umanità. Suggestivi e oracolari, hanno indirizzato il mondo attorno ad un vuoto. Almeno uno di loro, però, era immerso nella realtà più vera. Talmente immerso in questa realtà da lasciarsi guidare da un principio quasi increscioso: quello di sovvertirla. E così proletari da tutto il mondo si sono uniti sotto un manifesto e sotto una trattazione scientifica che rivelava il vero modo di essere di questo mondo, immerso in dinamiche di asservimento e mercato. È una fumosa Europa di fine Ottocento, violentata da quella seconda rivoluzione industriale che ha modificato l’immaginario collettivo. Ed è in quella Europa che si aggira uno spettro, o uno spirito [la parola è Geist, non a caso la stessa che usava Hegel per indicare, in alcune interpretazioni, lo sviluppo storico]. La mobilitazione di categoria è brillante e totale, è la tematizzazione di pensieri frustrati che hanno sempre accompagnato l’operaio. Sarebbe toccato al proletariato il compito di cambiare il mondo, di rovesciare gli errori di questa ingiusta storia, sovvertire le sovrastrutture, destabilizzare un sistema. Era un sogno bellissimo. Paradossale che un sistema così radicato nella carne divenisse poi una fumosa profezia sulla missione e il compito storico. I compagni di tutte le generazioni successive hanno continuato a credere, soprattutto da quando, in un celebre ottobre, i proletari riuscirono a rovesciare una pluricentenaria monarchia. Forse il regno della libertà, il non-stato che doveva annullare il concetto di stato, si era finalmente realizzato. Purtroppo il passaggio di consegne è stato infimo nei confronti della dottrina. Diviene una dittatura, ma non del proletariato. Diviene un problema culturale. Ed è così che sono nate generazioni di intellettuali, tutti a loro modo radicati in una idea che non poteva tramontare. In un mondo che poteva già mostrare i prodromi di quella che sarebbe stata la catastrofe moderna, erano certi della profezia del loro antico maestro, così fiero e certo che il sovvertimento ci sarebbe stato. Ed era questa forse l’illusione più grande, quella che donava la capacità di volare.

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scirocco -effetti collaterali-

La luna sul balcone e poche stelle stanche. Splende, tra le lenzuola bianche, un profumo feroce di legno, sale, miele e mare. Una schiena una savana gelsomino e marmellata, più a sud una carovana. La seduzione di Calipso su labbra d’amarena, luna nei tuoi occhi e cresce la marea, come un’amaca che dondola sotto l’ombra di un eucalipto. Fermati in un attimo, riparati dal tempo.

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Quando la palla sembra entrare ma un difensore all’ultimo la spazza. Quando la più bella del locale ti guarda, ma no, forse non guardava proprio te. Quando comincia a far caldo, togli tutti i maglioni, e poi la sera gela. Quando il professore scorre l’indice saltando il tuo nome, e sospiri, ma poi l’indice torna su. Quando la radio passa la tua canzone preferita ma entri subito in galleria. Quando apri speranzoso un regalo, poi esce tutt’altro. Quando sembra esserci un posto libero, ma invece è una Smart. Quando ti dicono “un minuto e scendo” e poi passa almeno mezz’ora. Quando gioisci per un vantaggio insperato, ignaro che dopo te ne faranno quattro. Quando tirano fuori il coniglio dal cilindro, ed è sempre lo stesso coniglio. Quando ti dicono “prima o poi l’amore arriva”.


2222 -fosfeni-

Seduto nel solito treno delle 7.00, mi apprestavo alla lettura del mio quotidiano, fido compagno di viaggio da una vita. In quell’ora riuscivo generalmente a divorare le notizie più succulente, spizzicare quelle che potevano interessarmi e ad escluderne con certezza altre, le cui pagine sarebbero state utilizzate durante la pausa pranzo come proteggi-calzoni, una volta sedutomi sull’assolato muretto fuori dal mio ufficio. Il led del mio vagone faceva gli scherzi. 05 Maggio 2222 – 07.15. Capitava spesso. Qualche anno fa ci ridevo su e commentavo la cosa col mio vicino con frasi del tipo: “Qui si viaggia nel futuro!”, da un po’ di tempo, invece, ci avevo fatto l’abitudine. “Signore, siamo al terminale!” Il terminale? Ma come? Mi ero addormentato profondamente, saltando la mia fermata, svegliato da un capotreno brizzolato dalla voce metallica. Scesi in una stazione a dir poco futuristica, leggermente sorpreso dall’architettura e dalla tecnologia d’avanguardia, in netto contrasto con le fredde e squallide costruzioni in mattoni rossi che ero abituato a vedere durante il mio solito tragitto. Peccato che ci fosse un po’ troppo caos, troppe urla, troppa gente che saltellava spostandosi con rapidità quasi a voler evitare… topi??? Sì, quei tremendi roditori, miei acerrimi nemici fin dalla tenera età, si

aggiravano nella stazione generando terrore e panico tra turisti, lavoratori e studenti. Il mio treno, stando ai tabelloni elettronici, sarebbe partito alle 8.30, erano le 8.02. Decisi di approfittare di quel tempo per prendere un caffè in un bar che sembrava protetto dall’invasione grazie a porte di vetro e a un diligente cameriere dalle movenze robotiche, la cui mansione sembrava quella di accogliere i clienti, ma che, in realtà, era lì per serrare l’ingresso ai grigi amici sopracitati. Al banco ordinai il mio espresso macchiato, un uomo accanto a me osservava lo spettacolo fuori con aria rassegnata, così attaccai bottone: “Come mai questa invasione?” lui, un po’ sorpreso, mi disse: “Ma come, non ne sa nulla? Hanno sterminato tutti i gatti per la storia del lievito di fegato di gatta! Quello che serviva per costruire le donnuncole!” Lo guardai tra il confuso e il sorpreso, lui continuò: “Ma davvero non sa di cosa parlo, ragazzo? Ma non vede cosa sta succedendo da quando quei due balordi hanno inventato questi maledetti robot umanoidi? Sarà pur vero che si vive meglio rispetto al passato, che lavorano al nostro posto e che noi siam liberi di oziare, ma la cosa ci sta sfuggendo un tantino di mano, non crede? “ “Guardi, io davvero non so di cosa stia parlando.” “Ma lei mi prende in giro? Se fa sul serio, allora, tenga questo!” e mi porse

il suo quotidiano “Non si parla d’altro sui giornali da qualche tempo e si farà un’idea anche sulla storia dei topi. Io ho un appuntamento importante, buona giornata!” e andò via a passo svelto. Quello che ne dedussi, da quella lettura, fu qualcosa di inimmaginabile: esistevano (e da tanti anni!) dei robot simili in tutto e per tutto a degli uomini, che avevano preso il posto di questi ultimi. L’uomo, privo di stimoli e dei classici impieghi che da millenni lo occupavano, sembrava essere caduto nell’apatia, proprio in un periodo nel quale tutto sembrava filare liscio. Cosa intendevo per “filare liscio”? Niente guerre, le differenze tra le razze erano scomparse, tanta pace ed armonia. Ma l’uomo di quella roba non sapeva cosa farsene,

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ed eccolo che vedeva come complicare le cose. Droghe di ogni genere, alcolismo, tabagismo. Chi voleva evitare questi vizi si lanciava nello studio matto e disperato, incorrendo facilmente in accessi cerebrali e morti improvvise. C’era poi la storia dei topi. Pare che da qualche tempo a questi “omuncoli” fossero state affiancate delle “donnuncole,” che gli uomini preferivano alle donne in carne ed ossa. Ciò metteva a rischio l’umanità, in quanto minacciava il genere umano di sterilità.


Essendo essenziale per la costruzione di questi robot femmina il lievito di fegato di gatta, si era deciso di sterminare tutti i gatti con l’immediata conseguenza dell’invasione dei topi. Ecco spiegati i roditori. Ma come spiegare tutto il resto? E soprattutto, il quotidiano datato 5 Maggio 2222? Me lo spiegai quando fui svegliato dal mio collega alla stazione giusta, il 5 Maggio 2015, ricordandomi di quel racconto fantascientifico di Nievo che la scorsa sera avevo divorato prima di addormentarmi.

“PRODUCI, CONSUMA, C R E P A ! ”

giustificazione. Immaginare future deformazioni distopiche della realtà risulta dunque difficile nel momento in cui ci si rende conto che il nostro tempo e lo spazio in cui agiamo (o meglio re-agiamo, perché meccanicamente e passivamente sottomessi agli impulsi della società) potrebbero di per sé essere la realizzazione di terribili distopie fantasticate nel passato.

Viviamo in un sistema in cui l’autocoscienza e il libero arbitrio sono soltanto un miraggio. Ciò è tanto più inquietante quando osserviamo che la maggior parte dell’umanità è ottusamente convinta di essere libera. Siamo invece tutti perfettamente inseriti all’interno di un ingranaggio sociale mosso da un unico invisibile dittatore: il denaro. E il miele che addolcisce questa amara pillola è il mito del progresso. La parabola dell’illusione è a questo punto pienamente compiuta, perché dotata di

Ma proviamo anche noi a calarci nell’immaginario di un’utopia negativa, o meglio di un’ucronia, perché ragioniamo intorno a qualcosa distante nel tempo più che nello spazio.

Cosa accadrà?

Partendo da un fatto ormai certo, l’estrema rapidità del progresso tecnologico, non è bizzarro immaginare l’avvento di rimedi contro il naturale invecchiamento del corpo e contro ogni tipo di malessere psico-fisico. Felicità! Sì, ma una felicità grigia, artificiale, come grigi ed artificiali saranno i paesaggi, scoloriti da tonnellate sempre maggiori di cemento. E la nostra vita sociale, il nostro ruolo nel mondo? Nel 1932 Aldous Huxley parlava di condizionamento: nella finzione letteraria di Brave new world, terribilmente attuale, egli immagina una società di uomini creati in laboratorio e condizionati, attraverso

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trattamenti ipnopedici, a svolgere serenamente il proprio lavoro (a cui sono predestinati sin da piccoli) per mantenere la stabilità (termine largamente diffuso oggi tra le classi dirigenti) delle gerarchie sociali; gli stessi esseri umani vengono poi condizionati a non temere la morte. Insomma, “produci, consuma, crepa!” (CCCP - Morire) Se è vero che è la lingua a cogliere per prima le trasformazioni sociali sigillandole in parole o categorie nuove, la terminologia di oggi in questo senso non sembra rassicurante. Ma siamo qui a parlarne. Ciò significa che possiamo ancora prendere coscienza della situazione e di noi stessi in quanto noi stessi, e non semplicemente in quanto cellule del corpo sociale. E poi, magari, rivolgere la nostra energia generazionale verso un tentativo di cambiamento.


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cotton fioc James Brown -

Tom Waits -

King Heroin

Romeo Is Bleeding

Gil Scott/Heron -

Paolo Conte -

The Revolution

Sono Qui Con Te

Will Not Be Televised

Sempre Più Solo

Leon Thomas -

Captain Beefheart

The Creator Has

& His Magic Band -

a Master Plan

I’m Glad

Mariposa -

James Brown -

Specchio

Theme From King Heroin

igiene auricolare 11


Illusione

Dio m’ha fatto a sua immagine e somiglianza: anche io ho le mie piccole laide suore amorose, anche io faccio il bagno nel denaro intriso di sangue.

-LA PIRAMIDE-

Per le strade ci sono onde che si nascondono alla gente, incollate alle nuvole e ai tetti marci: insieme ce ne bagniamo gli occhi alla comunione del sole con la luna; e quando ho il cervello stanco, mi lancio alla caccia selvaggia dei colori.

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Non mi si accusi che di orrori spirituali; lo giuro sui sette deserti: sono proprio come lui!


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Il senso delle illusioni L’essere sempre connessi, tramite smartphone o tablet, è segno, per dirla con Roland Barthes, di un “bisogno incessante di autenticare il reale”. Ciò che si osserva nei touchscreen, si esperisce direttamente con il tatto, grazie a gesti ormai meccanici che servono ad allargare/ ingrandire un’immagine, o a cambiare pagina toccando lo schermo nel senso di lettura. La navigazione tramite il “tocco”, paradossalmente, rende analogica la pratica digitale, dando luogo sia a un’illusione referenziale che enunciazionale, due meccanismi che proiettano il soggetto dell’esperienza in un “non io-non qui-non ora”, percettivo, cognitivo e tattile.

Si tratta della trasposizione tecnologica di ciò è sempre accaduto con la figura retorica dell’ipotiposi, ossia una strategia discorsiva che utilizza una descrizione talmente vivida da risultare quasi sensibile, con l’intento di suscitare uno stato d’animo per far vedere e sentire qualcosa nonostante l’appartenenza a due ordini di realtà differenti. La realtà è solo una fra le possibile allucinazioni che ci getta continuamente nel limbo tra l’essere e l’apparire delle cose, come la tradizione filmica insegna, a partire dall’Arrivée du Train dei fratelli Lumière, passando per The Truman Show e Matrix, fino a giungere ad Avatar. L’illusione enunciazionale descrive quelle procedure

che mirano a creare l’impressione della condivisione di uno stesso presente, mentre l’illusione referenziale, termine coniato da Barthes, produce effetti di realtà, e si estrinseca in relazione ai testi in cui è rintracciabile una relazione di somiglianza con il tangibile, un livello di iconizzazione. Quest’ultimo meccanismo illusorio trova la sua ragion d’essere nel contesto socioculturale degli attori in gioco, poiché se non si condivide una determinata enciclopedia di riferimento, le illusioni referenziali non possono generare l’effetto di realtà voluto e finiscono per creare, così, dissonanze cognitive o decodifiche aberranti. Insomma, potrebbero non funzionare e noi

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non ci affezioneremmo tanto ad Arya Stark, sino a immedesimarci nelle sue esperienze, come se stesse accadendo a noi, qui e ora. Pur se inconcepibili, alcuni testi, cioè narrazioni, oggetti, personaggi, fotografie, possono essere accettati proprio grazie a queste illusioni significanti. Quella sensazione che proviamo, attraverso la punta delle nostre dita, quasi come fosse una scossa elettrica, zoomando su determinati tipi di immagini, che ci fa sentire la morbidezza di un tessuto o la grana della tela di un’opera d’arte, è una reazione sensibile del nostro corpo, estesica e sincretica, un’illusione che genera senso, ma soprattutto valore.


un inganno fantastico

ESPERIMENTO | 1 “Io ho piú volte veduto Giove e Venere insieme, lontani dal Sole 25 o 30 gradi, ed essendo l’aria assai imbrunita, Venere pareva bene 8 ed anco 10 volte maggior di Giove, mentre però si riguardavono con l’occhio libero; ma guardati poi co ‘l telescopio, il disco di Giove si scorgeva veramente maggior quattro e piú volte di quel di Venere, ma la vivacità

dello splendor di Venere era incomparabilmente maggiore della luce languidissima di Giove. In questo ci ha gran parte l’impedimento del nostro occhio stesso”. Queste parole appartengono a Galileo Galilei e testimoniano come egli, durante le sue osservazioni astrali, fu in grado di intuire l’inganno dei sensi dovuto ad una famosa illusione ottica che poi da lui prese il nome. Più in generale, a causa di questa illusione, le immagini

chiare su sfondo scuro ci appaiono più grandi delle immagini scure su sfondo bianco, anche a parità di dimensioni. Quasi quattro secoli dopo, alcuni studi hanno messo in luce le ragioni di tale illusione. Esse vanno ricercate nella differenza che esiste nel comportamento dei segnali che vengono percepiti dal nostro occhio, e trasportano al cervello l’informazione sulla luminosità e quelli che invece trasportano l’informazione sulla

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mancanza di luce. Mentre l’attività di questi ultimi non dipende dallo sfondo, l’intensità della risposta dei segnali luminosi invece cresce maggiormente se lo sfondo è scuro, dando un’immagine dilatata dell’oggetto percepito.

-il bosone di beppe-


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ESPERIMENTO | 2

dall’altra una mano distante che accarezza un naso. Tirando le somme, il cervello modifica la percezione del naso.

Se ci bendiamo gli occhi e, mantenendoli chiusi, accarezziamo il nostro naso con la mano destra, e il naso di un’altra persona che ci è davanti con la sinistra, dopo qualche minuto potremmo percepire il nostro naso più lungo perché, senza la vista, il cervello si basa soltanto sul senso del tatto e sul senso della posizione spaziale: da una parte sente il naso accarezzato,

ESPERIMENTO | 3 Analogamente, sempre nel campo delle illusioni ottico-sensoriali, se nascondiamo una mano sotto un tavolo e ne mettiamo una di gomma sopra, di fronte a noi, dopo averle fatte toccare entrambe da un’altra

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persona, sentiremmo la mano di gomma come fosse la nostra. Ciò accade perché l’inconscio si fida della vista, e quando riceve stimoli contrastanti preferisce credere a quello che vede. In questo caso, “facciamo credere” al cervello che la mano di gomma sia nostra. Quindi sentiamo il tocco perché la nostra mente pensa che la mano sia toccata.

-termodinamico-


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“LA REALTÀ È UNA SEMPLICE ILLUSIONE, SEBBENE MOLTO PERSISTENTE”.

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È il cervello che ci illude

“Le folle non hanno mai avuto sete di verità. Dinanzi alle evidenze che a loro dispiacciono, si voltano da un’altra parte, preferendo deificare l’errore, se questo le seduce. Chi sa illuderle, può facilmente diventare loro padrone, chi tenta di disilluderle è sempre loro vittima”. Gustave Le Bon, Psicologia delle folle, 1895. L’Illusione è la distorsione di una percezione sensoriale che si verifica a seconda di come il cervello organizza e interpreta le informazioni che riceve. Convoglia tutti i sensi e si relaziona a diversi meccanismi cerebrali. Esistono infatti svariate tipologie di illusioni causate da questi meccanismi. Dalle illusioni affettive provocate da emozioni, alle illusioni causate dalla poca attenzione prestata agli stimoli esterni, fino

ad arrivare alle cosiddette illusioni dal passato che ci portano a credere a eventi fittizi in relazione a fatti accaduti nella nostra vita. E ancora, le tanto discusse illusioni ottiche, ossia immagini percepite distorte o in movimento e la pareidolia – proiezione – un fenomeno in cui entra in gioco la fantasia che, unita agli elementi presenti nella nostra psiche, ci fa immaginare figure fantastiche.

convinto per anni che Paul McCartney fosse morto negli anni Sessanta. Ciascuno di noi, almeno una volta, ha percepito la realtà in maniera distorta. Ma qual è il meccanismo che ci porta a illuderci in maniera così continuativa e, a quanto pare, normale? Pensiamo alle illusioni ottiche. Da quando il cervello capta un’immagine e la elabora passa circa un decimo di secondo. Quello che quindi noi vediamo è di fatto il passato e non il presente. Un decimo di secondo può sembrare insignificante, ma in realtà è un vero e proprio svantaggio. E su come la mente compensi questo limite sono stati fatti un’infinità di studi. Secondo lo studio newyorkese di Mark Changizi del Renssalaer Polytechnic Institute, che a oggi risulta il più

Le illusioni quindi non sono altro che una tendenza istintiva ad associare forme e strutture per lo più familiari sia a immagini disordinate, che a suoni casuali. Ecco che subentrano le illusioni uditive – anche note come pareidolia acustica – grazie alle quali sentiamo suoni, parole o addirittura frasi in rumori del tutto accidentali: Revolution 9 dei Beatles, se ascoltata al contrario, mi ha

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accreditato, il cervello “vede nel futuro”. Rendendosi infatti conto di non riuscire a processare nell’immediato gli stimoli visivi, interpreta in maniera ulteriore i segnali che riceve. Tenta quindi di prevedere cosa succederà nell’imminente futuro, interpretando la realtà circostante sulla base delle informazioni che già possiede. Il cervello immagina quindi figure distorte ancor prima di conoscere il segnale. Idealizza un immagine o recepisce un suono, prima ancora di sentirlo. Prevede in anticipo cosa succederà dopo una frazione di secondo. Il nostro cervello ci illude. E noi percepiamo un qualcosa di distorto.


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Il ritratto dei c o n i u g i A r n o l f in i -OLTRE LO SGUARDO DI MEDUSA Siamo nell’anno 1434 in un piccolo e suggestivo paese delle Fiandre, Bruges. Oggi è un giorno speciale: si celebra il matrimonio tra Giovanni Arnolfini, mercante lucchese a Bruges per affari, e Giovanna Cenami, figlia di un mercante italiano. Devo prepararmi in fretta, il testimone non può farsi attendere dagli sposi; sono entusiasta di prender parte alla loro promessa solenne, oltretutto non vedo l’ora di conoscere il grande maestro incaricato di immortalare questo momento così speciale: l’artista fiammingo Jan van Eyck. Arrivo alla casa dei promessi sposi, entro in una stanza angusta, dove un cagnolino mi accoglie gioioso, e vedo che tutto è già pronto per la cerimonia, anche il pittore è già in posizione. Mi presento all’artista e, incuriosito dalla sua pittura, gli chiedo come ha intenzione di rappresentare l’evento e se, magari, ci sarà un piccolo posticino anche per me all’interno del quadro. Ma ho l’impressione che sia un tipo schivo, di poche parole, chiuso nel suo mondo di simboli e colori ad olio…quindi lo lascio in pace, abbandonato alla sua arte, e mi concentro sulla cerimonia. Terminato il rito, saluto i coniugi Arnolfini e, in procinto di tornarmene alla mia umile dimora, mi sento

chiamare da una voce… mi giro con uno scatto: è il pittore. Mi avvicino un po’ timoroso, ma poi capisco… ha terminato il quadro e, in risposta alla mia curiosità, intende mostrarmelo. Dinanzi al lavoro ultimato rimango senza parole. In così poco tempo l’artista è riuscito ad immortalare l’evento principale l’unione tra i due sposi raffigurati al centro del quadro - donandogli la giusta solennità, senza tralasciare, tuttavia, alcun dettaglio al caso, ma dipingendo ogni singolo particolare della stanza in un modo così realistico da fare quasi paura…mi sembra di poter quasi toccare gli zoccoli lasciati abbandonati in primo piano, di riuscire addirittura ad accarezzare il cagnolino fedele ai piedi dei due sposi. L’iperrealismo della scena crea un effetto di illusione sulle superfici, dando corpo a qualcosa che è senza vita. Posso percepire la materia di ogni oggetto rappresentato, dal legno, ai tessuti, all’argenteria. Poi, mi soffermo per un attimo ad analizzare più a fondo il lavoro e noto un ulteriore originale particolare: uno specchio convesso (decorato con scene in miniatura della passione e della resurrezione), posizionato sulla parete di fondo del quadro, alle spalle dei coniugi. Guardo meglio dentro lo specchio e vi

vedo riflessi i due sposi di spalle e altre due figure, uno è l’artista, l’altro rappresenta me in persona, che assisto alla cerimonia. A questo punto capisco la genialità e l’abilità dell’artista nell’inserire questo particolare: lo specchio propone un’idea della pittura di duplicazione della realtà e di raddoppiamento dell’ambiente, crea l’illusione di includere qualsiasi osservatore nello spazio della rappresentazione, dandogli l’impressione di prendere parte in prima persona all’evento descritto. Nonostante la deformazione dell’immagine, il dettaglio dello specchio arricchisce il quadro di un insolito punto di vista e, con questo stratagemma, il comune osservatore dell’opera è catapultato nella stessa posizione del pittore, si sente soggetto attivo e non spettatore passivo; insomma, tutti sono chiamati a testimoniare questa unione. Capisco subito la novità del lavoro di Jan Van Eyck e mi rendo conto che era la prima volta che un artista offriva un punto di vista alternativo alla rappresentazione, mostrando il retroscena del dipinto. A tutto questo si aggiunge, poi, un utilizzo magistrale della luce, che irrompe dalla finestra illuminando alla stessa maniera l’infinitamente

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piccolo e l’infinitamente grande e facendo da medium per unificare l’intera rappresentazione. Osservando con più attenzione, capisco, poi, che i singoli particolari rappresentati non sono messi lì a caso, come semplice contorno della scena, bensì fungono da simboli essenziali di quel sodalizio: ecco allora che il cane sta a simboleggiare la fedeltà tra marito e moglie; gli zoccoli maschili e le ciabatte femminili rappresentano l’intimità domestica; i frutti alludono al sapore dolce-amaro della vita e l’unica candela accesa del candelabro è simbolo della caducità dell’esistenza umana. Mi congratulo con l’artista… ha fatto davvero un bel lavoro e, poi, ha soddisfatto anche la mia richiesta: ha ritagliato un angolino di quadro per me, facendomi apparire nel riflesso dello specchio. Me ne torno a casa soddisfatto di quella giornata e orgoglioso di essere parte di un quadro così originale…sono sicuro che quest’opera diventerà celebre e che se ne parlerà ancora per molto tempo… anni, o addirittura secoli.


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MONOLOGO SU LIRA Non so dirvi quante albe ho visto sorgere su questo fiume, quanti soli morire dietro quel monte. Ed io qui attendo ancora il mio tramonto che tarda. Quante volte ho cantato la mia storia ad estranei come voi… Il volto della mia disperazione vi incuriosisce; sono l’emblema del limite umano: del vostro, del mio. Quel giorno, quando la natura incantata divenne crudele strappandomi tutto il mio vivere, in fretta lasciai questo posto e corsi all’Inferno. Mi chiedete se ho avuto paura? La paura mi divorò in terra, quando ogni notte la solitudine mi inghiottiva nel buio, quando tornava a ferirmi l’eco del mio stesso lamento, quando smisi di percepire anche il calore del fuoco. Dolci le fiamme dell’Ade mi ridiedero vita, persino Caronte si sottomise al mio inconsolabile canto. Illuso, attraversai interamente il labirinto plutonico, avrei pregato il Signore dell’Averno di sottopormi a fatiche, qualsiasi cosa per riavere Euridice, anche la morte per ricongiungermi a lei. Dinanzi ai due troni del grigio regno notai che uno di essi era vuoto. Il dio delle tenebre era assente. Non potevo aspettare ancora, ma quella impazienza che dapprima mi salvò divenne poi la mia condanna. La mia tragica melodia trafisse la Signora dell’Ade, rapita nel fiore degli anni e costretta al grigiore eterno. Lei conosceva quel gelo, quel nulla, quel vuoto.

Mi permise la fuga, non senza una prova, e fu la tortura più grande. Infinito il viaggio di ritorno, lei era dietro di me, non potevo sfiorarla, guardarla, ma sentivo chiaramente il suo respiro, calore che tagliava il gelo… quel gelo che porto con me nelle ossa.

“MA NOI NON CERCHIAMO NESSUNA EURIDICE. COM’È DUNQUE CHE SCENDIAMO ALL’INFERNO ANCHE NOI?”

Il momento in cui frenesia e desiderio mi condannarono è noto a chiunque. Mi voltai, basti questo. L’illusione rimase tale. Non provare pena per la mia storia, un dramma più grande mi affligge: la fine di un’illusione ne genera altre. Così io aspetto di vivere una vita condivisa con lei nel più orrendo dei mondi… Ma il mio crepuscolo non arriva: Ade mi ha punito due volte. E voi, viandanti, non avvilitevi pensando che la fine di un’illusione distrugga la tua vita: dopo l’illusione non c’è la morte, c’è la pazzia.

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L a V e r i tà è nello specchio “L’Italia galleggia sui diserbanti e l’opinione pubblica non lo sa”. Una frase esaustiva, dice davvero tanto, ancora di più di più se a pronunciarla è uno dei massimi esperti in ambito agricolo in Italia, o almeno considerato tale. Frase seguita da un ghigno malefico, come quello dei cattivi dei film spazzatura. Tutto questo per dire che spesso non ci capiamo niente. Ci preoccupiamo solo delle cose delle quali conviene preoccuparsi, quelle irrisolvibili o quelle che non rappresentano un reale problema. Il problema, quello apparentemente estremo e comparso all’improvviso, è amplificato dalle mode, dalle chiacchiere da bar. Un’altra bella affermazione che mi è balzata all’orecchio tra un bicchiere ed un altro in compagnia: “Ormai tutti i semi sono ibridi, sono tutti OGM”. Mi rendo conto che l’agricoltura non interessa a nessuno, ma è il caso di fare chiarezza, non si possono confondere ibridi e ogm. L’ibrido è semplicemente il prodotto di un incrocio tra due piante della stessa specie, al più dello stesso genere. Tutti gli essere umani sono ibridi, salvo quelli nati da clonazione o autofecondazione, ed io onestamente non ne ho mai conosciuti! L’ogm è ben altra cosa e

l’acronimo la dice lunga: organismo geneticamente modificato. Ovvero un organismo nel quale è stata inserita una porzione di dna proveniente da un altro. L’argomento è vasto e giustamente oggetto di indagine etica ed ecologica.

“L’UOMO È LA SPECIE PIÙ FOLLE: VENERA UN DIO INVISIBILE E DISTRUGGE UNA NATURA VISIBILE. SENZA RENDERSI CONTO CHE LA NATURA CHE STA DISTRUGGENDO È QUEL DIO CHE STA VENERANDO”. Ma in Italia non è questo il problema, in Italia per fortuna/sfortuna le piante ingegnerizzate sono vietate. Allora non ci sono rischi? Troppo facile. La questione ecologia riguarda strettamente i rifiuti interrati dalle tanto blasonate ecomafie? Siamo ancora troppo in superficie, siamo ancora al bar. La verità non è al tavolino, ma in bagno. Lo specchio per precisione. La vera minaccia ecologica siamo noi, basta menzogne. A tutti piace mangiare frutta e verdura

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-the agronomist-


bella, appariscente, in ogni periodo dell’anno. Fantastici frutteti e campi di cereali e ortaggi perfetti alimentano l’occidente ad libidinem. Ma la bellezza antropizzata non è naturale. Questa agricoltura è l’industria più inquinante mai vista: diserbanti, fungicidi, insetticidi, geodisinfestanti, fitoregolatori, concimi. Tutte molecole di sintesi tra i quali vi sono derivati dei gas nervini e prodotti che permangono nel suolo per anni, e sul loro processo di degradazione spesso non si sa niente, o meglio si fa finta di non sapere. Basti sapere che i più banali concimi azotati provocano, se usati male come troppo spesso accade, inquinamenti di acque e atmosfera molto rilevanti. Un’agricoltura nella quale rientra anche la zootecnia, che inquina più di automobili e industrie di ogni genere, che produce eccedenze, sprechi. È il caso di prendere coscienza, rifiutare l’illusione estetica che non sempre rappresenta il sano, che non è naturale. Ma dobbiamo rifiutare anche l’illusione dell’ irreversibilità: Abbiamo ancora modo di convivere in maniera costruttiva con madre terra, e conoscerla per come è, e non per come crediamo che sia o debba essere, è l’unico modo.

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Le malie di Morgana Orde di barbari scesero da nord, compatte conquistarono ogni spazio fino al mare; marciarono trionfanti lungo tutto lo Stivale, mancava solo l’isola al di là dello Stretto per completare la vittoria. Dalla Calabria il re degli invasori osservava bramoso la Sicilia: ancora poco e ogni terra conosciuta sarebbe stata assoggettata alla sua potenza. L’altra sponda era lì, ricca e promettente, ma come raggiungerla senza nemmeno una barca a disposizione per il suo imponente esercito? Fu allora che una donna affascinante gli apparve dinnanzi, invitandolo a non scoraggiarsi, ma anzi a perseverare per raggiungere quell’isola incantata: “La vuoi? È giusto a due passi da te, guarda bene…”. Era estate, non soffiava nemmeno un po’ di vento, giusto una leggera nebbia accarezzava il mare piatto. Fu in quel momento che, ad un cenno della donna, la Sicilia si manifestò davvero a due passi, esattamente come aveva lasciato intendere. Il re barbaro ora poteva vedere nitidamente i contadini lavorare in campagna, gli asini trasportare carichi d’arance, gli operai scaricare merci nel porto… Sì, bastava allungare la mano e poteva quasi toccare Messina. Un entusiasmo incontenibile prese il sovrano invasore, che infatti scese rapidamente da cavallo e si tuffò in acqua, certo che con poco sforzo sarebbe giunto sulla riva dell’isola desiderata. Eppure, di bracciata in bracciata, la Sicilia non arrivava e, per quanto lui continuasse a nuotare, lei

restava sempre distante. Allora pervenne la fatica e il re dapprima annaspò, poi chiese miseramente aiuto e infine annegò portando a fondo con sé anche il destino della gloriosa conquista. Già, quel miraggio era un abbaglio, quella visione era un’allucinazione: la donna misteriosa era la fata Morgana, che per le sue illusioni, tuttora, usa come ingredienti il caldo dell’estate, la seduzione dello Stretto, il rigore della fisica e dell’ottica. Punto di coagulo e di dissolvenza, l’effetto fatamorgana emerge dall’acqua e unisce le terre, realizza una chimera che, tuttavia, è più d’una fantasticheria: l’immateriale diventa concreto, il volatile si fa tangibile, il simbolico si rende corporeo. Lo tramanda una leggenda popolare calabrese, che forse è più fondata d’un trattato. La fata Morgana è certamente metafora, ma è anche di più: è un’allucinazione reale, un delirio lucido, una frenesia serena. L’inganno della vista, infatti, produce realtà, come un sogno che non sfuma col risveglio, come uno scherzo della percezione che scolpisce il destino. L’illusione dello sguardo fa immaginare una verità fittizia che, tuttavia, allo stesso tempo la realizza concretamente: qual è il confine del falso dal vero? Cosa distingue l’apparenza dalla materialità, l’utopia dal pragmatismo? Come chiaramente constata Mary Douglas, “gli uomini non sono una massa di imbroglioni e di folli;

credono, e agiscono in base a ciò che credono”. L’allucinazione collettiva della fatamorgana dipende da elementi naturali: il paesaggio si distorce al sole e con un certo grado di umidità, come la mente di un uomo assetato porta a immaginare sorgenti d’acqua e ombra di palmeti nel deserto. Il miraggio è un’illusione ottica che comprime, allunga, avvicina, “apre le porte della percezione”. Ma quest’esigenza di “vedere oltre” può essere anche autoindotta, convinti che, come asseriva William Blake, “l’immaginazione non è uno stato mentale: è l’esistenza umana stessa”. E allora ecco, in innumerevoli gruppi umani, l’impiego di sostanze che conducono al limite, là dove ci si affaccia su dimensioni altre, là dove gli occhi si “aprono”: funghi, erbe, infusi, bacche, polveri, distillati, fumi… o, ancora, esercizi fisici che rilasciano serotonina, danze irrefrenabili, ripetizioni ipnotiche. «Ho visto la luce!», urla Jake dei Blues Brothers dopo un travolgente canto gospel, per poi lanciarsi in una serie di capriole acrobatiche con cui la sua surreale “missione per conto di Dio” comincia a produrre effetti iperreali. L’allucinazione (il legame etimologico con la luce è evidente) abbaglia e apre ad un’esperienza liminale, conduce cioè a liberarsi dai confini del mondo sensibile e dalle barriere della propria personalità: proietta verso un al di là spaziale, emotivo, corporale e, che sia indotta da un rito o una trance o un delirio, assomiglia all’essere catapultati in un

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mondo pieno di specchi, i quali moltiplicano, riflettono, distorcono, mostrano. L’esaltazione può essere travolgente e condurre a vaneggiamenti o a palpitazioni da cui non si è in grado di riprendersi. Ogni miraggio, tuttavia, che sia un sogno o un incubo, si dissolve dopo un certo tempo: la sensazione inebriante o inquietante che tutto sia possibile evapora e si arresta, rimane un’emicrania o un senso di sbandamento. Dove mi trovo? quel che vedo adesso è ancora onirico o posso fidarmi dei miei occhi? Il dileguarsi della fata Morgana lascia un senso di vuoto: «Svanito era l’incanto, e mare e cielo / Tornati il cielo e il mar di prima, e gli occhi / Pur larghi e fissi io per veder tenea: / Quando a la voce di mia fida scorta / Mi scossi e risensai: lungo il marino / Lito prendemmo allora, e tai parole / Fea la scorta fedel volar dal petto». Ippolito Pindemonte canta il sortilegio che evapora, la realtà che riprende il suo posto, ma con la sensazione che non tutto di quell’illusione sia completamente spento: resta un intimo interrogativo se il mondo sia cambiato o se sia restato uguale, se io sia ancora io o qualcun altro ancora da scoprire.


LENTI A CONTATTO Se si parla di me, forse, mi è più facile dirvi ciò che non sono piuttosto che ciò che sono. Non ho rapporti con il mondo, difficilmente riesco a provare empatia con qualcuno, le mie giornate scorrono lente, sempre inesorabilmente uguali a se stesse. Mi sento come se fossi il Narratore della mia vita, l’occhio esterno che la osserva, inerte, dall’alto, senza mai interferire sul suo infinito ritorno all’uguale. E poi un giorno Tyler fa capolino in questo mare di noia; è tutto quello che io non sono: il suo carisma e la sua personalità dominante mi costringono a non saper dire no, neanche quando mi coinvolge -

forse, chissà, un po’ per gioco all’inizio - a barattare un tetto sopra la testa con un corpo a corpo con lui. Pensavo fosse l’alcool a spingermi ad assecondare quella ridicola richiesta, ma presto mi sono accorto che non era così. La folla che gradualmente si costituiva attorno a noi per osservarci e incitarci mentre ci prendevamo reciprocamente a pugni mi inebriava, mi dava la carica per battermi con lui ancora e ancora. E’ così che abbiamo costituito il fight club, un club clandestino di lotta, il mio grido di protesta contro la società, la mia valvola di sfogo per sopportare il giogo di una vita che

non vivo, che non mi appartiene. Il dolore fisico è diventato la mia catarsi, un rito per esorcizzare l’angoscia, un mezzo che mi ha permesso di mutare la paura in accettazione, il dubbio in coscienza. Il club è la falce con cui ho squarciato, un po’ ammaccato e sanguinante, il velo di Maya per guardare finalmente dritta in faccia la realtà; forse non sarei mai riuscito a spingermi così tanto oltre se non fosse stato proprio per quella testa calda di Tyler. Non facciamo altro per tutta la vita, se non assecondare quell’irrefrenabile anelito verso la verità; e quando, finalmente, ci imbattiamo nel suo volto più sincero…

non possiamo che rimanerne atterriti. Avete presente quel tale, Tyler? Quello che vi eravate illusi – e, confesso, io con voi - fosse il mio alter ego…ma le illusioni, per definizione, finiscono con lo svanire e ci lasciano soli a fare i conti con ciò che si cela dietro di esse: quel Tyler, nudo e crudo, altro non è se non la parte di me che ho represso per tanto, troppo tempo, è l’istinto primordiale, è l’impulso senza il vaglio della ragione o la censura della morale. Tyler è il mio doppio, Tyler sono io. O forse, meglio, Tyler siamo, inconsapevolmente, un po’ tutti noi.

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ABRACADABRA CAPITOLO OTTAVO I Pedali in salita. Il vassoio traballa nel cestino della bici. La vita va avanti. Bugiardo. Il tempo ha uno strano modo di srotolarti davanti le cose. Qualche volta va meglio del previsto, qualche volta peggio. La metafora della salita. Il fiatone, regolare. Certo l’avevi immaginata un po’ diversa. La metafora della salita. Tu arranchi, regolare. Il fiatone. E lei non c’è. Non c’è perché se n’è andata. Via. Non avresti pensato che il tempo avrebbe srotolato le cose in questo modo. Invece pedali in salita. Arranchi ed hai il fiatone. E lei è andata via. È stato una sera d’estate. Hai presente quelle sere che il sole tramonta e tu ti tufferesti a mare per seguirlo, quando scompare dietro la linea dell’orizzonte? Ecco, qualcosa del genere. Sarà stata qualche settimana dopo Roma e stavamo ancora cercando di ritrovare il nostro equilibrio. Io ero seduto sulla solita panchina quando Julia è arrivata. Ricordo che pensai distintamente che adoravo il suo modo di camminare. Leggera, quasi ballando, eppure così determinata. Ancora non lo sapevo quanto. Dopo un po’ di tempo che sei single il telefono comincia a squillare più spesso. Oggi mi chiama Ettore per dirmi che stasera c’è una festa a casa di un suo amico, un sacco di gente, la musica, beviamo qualcosa, non si sa mai che possa scapparci qualcosa con qualche ragazza. Insomma non posso mancare. Guarda non sono esattamente dell’umore giusto, non che non apprezzi, sia chiaro, ma sai non sono esattamente il tipo da feste. Come se avessi accettato, davvero. Grazie, davvero. Ovviamente non ho detto così. E quindi eccomi sotto casa a fumare una sigaretta mentre aspetto Ettore, e a pensare che forse sono ancora in tempo a tornare su, spegnere il telefono, sprangare porte e finestre e passare la mia serata ad iniziare un altro libro che probabilmente non finirò mai. Prima che la mia proverbiale intraprendenza possa prendere il sopravvento, il rumore della macchina color puffo metallizzato di Ettore mi riporta alla realtà. - Bella camicia! Ettore è un buon amico, di quelli che sanno leggerti i silenzi. Anzi il nostro gioco preferito è parlarci con lo sguardo. Noi giuriamo di capirci, ma poi mica ce lo diciamo cosa intendeva uno e cosa ha capito l’altro, e quindi chi lo sa. Oggi mi carica così, dicendomi che ho una bella camicia e alzando il volume della musica. Quando Ettore mi ha parlato di una festa a casa di un suo amico, ho immaginato qualcosa tipo una ventina di persone in un appartamento, alcolici random, musica dall’iPod del padrone di casa e condomini che avrebbero chiamato la polizia prima di mezzanotte. E, insomma, mi sembrava un buon piano. Ma non mi è dispiaciuto ritrovarmi nel salone di una villa con la facciata di intonaco bianco a bere il mio terzo gin tonic, buono e forte abbastanza da farmi apparire simpatico agli occhi di Katia (o Carla?) che è ormai mezz’ora che è seduto vicino a me sul divano, e mi deve trovare divertente perché ride sempre alle cose che dico. Sarà l’alcol, sarà la musica, sarà che forse ha ragione Ettore e la mia camicia è davvero bella, ma ad un certo punto Katia (o Carla?) mi prende per mano e mi guida in giro per la casa, su per una scala, fino ad una stanza in cui entriamo, chiudendoci il resto del mondo alle spalle. Quando provai a darle un bacio per salutarla, Julia girò leggermente la faccia, così il mio bacio andò a finire sulla sua guancia. Mi rivolse un sorriso tirato. - Devo parlarti. Non sapevo che dire, quindi annuii semplicemente e andammo a sederci sulla solita panchina. - Guido, sto per partire. Mi spiegò che raggiungeva Jean Louis e il suo gruppo, che sarebbe partita nel giro di dieci giorni. Disse molte altre cose, probabilmente mi spiegò i suoi perché. Parlò quasi sempre lei, e parlò a lungo, ma io avevo già smesso di ascoltare da un pezzo. Non so se lo capì. Ma ormai avevo alzato un muro, e le sue parole non avrebbero più potuto raggiungermi.

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L’illusione è una percezione errata della realtà. L’ho letto una volta in un libro. L’illusione è la mia mano che esplora un corpo nuovo, e la mia testa che si racconta che va bene così. Ma la mia testa sa come convincere sé stessa - abracadabra - e non ci penso più. E allora bacio un’altra bocca, che sa di fumo e alcol proprio come la mia. Accarezzo capelli, stringo seni e corro lunghe curve sconosciute con la perizia del pilota esperto. Abracadabra. Sì Katia, bene così. Oh scusa volevo dire Carla, o Carmen. Oh ma insomma, cosa vuoi che importi ora, mentre siamo nel pieno dell’illusione del sesso? Eh no, di magico non c’è niente. C’è il trucco, lo sai. Ma noi non ce lo diciamo, e va bene così. Illusione è dimenticare la faccia nascosta sotto tutti quei capelli, e immaginarne un’altra. Illusione è dimenticare la distanza, quella che si misura in chilometri e quella insormontabile che non ce l’ha un’unità di misura. Illusione sei tu, che hai come maggiore interlocutore una persona con cui non parli da mesi, eppure è lì in ogni momento a dirti come la vede, e ti ritrovi a chiederti cosa ne penserebbe lei anche quando devi scegliere la marca del latte. Illusione, da un po’ di tempo, è la tua vita. E allora, se le cose stanno così, e allora fanculo la distanza, fanculo i chilometri e le unità di misura che non esistono. Questo amplesso lo dedico a te, che sei così lontana, eppure non te ne sei mai andata. Abracadabra. Quando torno giù è chiaro che la festa è ormai finita. Non c’è quasi più nessuno, le luci colorate hanno lasciato il posto a faretti incassati nel soffitto, e la musica ora è più bassa e lenta. Trovo Ettore seduto su un divano a chiacchierare con due ragazze. Mi fa l’occhiolino, e io da vero rompicoglioni gli lancio uno sguardo in cui metto tutta la mia urgenza di andare via. Mi fa un leggero cenno del capo, e questa volta sono sicuro che ha capito. Mentre saluta le due ragazze, dalle casse partono le prime note di Samba pa ti di Carlos Santana. E lì è davvero troppo. Il giorno in cui Julia doveva partire andai all’aeroporto. Non l’avevo più vista da quando mi aveva detto che sarebbe andata, avevo ignorato chiamate e messaggi. La lettera che mi aveva fatto trovare, quella no, non ho resistito e l’ho letta. È così che ho saputo del volo e tutto il resto. Sono arrivato mentre era al check-in. Mi dava le spalle, e io mi sono limitato a guardarla mentre svuotava le tasche e passava sotto il metal-detector. E poi lei si è girata e mi ha visto. Ha pianto piano mentre sorrideva, con le braccia incrociate e la testa un po’inclinata da un lato, nel modo in cui mi guardava sempre andar via, dopo che l’avevo accompagnata a casa. In quel momento, dalle casse dell’aeroporto, sono partite le prime note di Samba pa ti.

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I N O S T R I P R E S T I G I ATO R I IN ORDINE DI APPARIZIONE:

HANNO ILLUSTRATO PER NOI: 3 4 5 6-7 8-9 10 12 13 14 15 16-17 18-19 20-21 23 25 26-27 28 31 32 35

Vittorio Mollo Editoriale Cohiba [EFFETTI COLLATERALI] Scirocco Francesco Miccio Quando... Valeria Ercolano [fosfeni] 2222 Le Flâneur Produci, consuma, crepa! Dario Chiaiese [la piramide] Illusione Bianca Terracciano Il senso delle illusioni

Manuel di Pinto Anarela Severino Iritano Paola Cosenza Saudade Elisa Cartocci Gianni Bardi Teo Sandigliano Irene Sarlo Cristina Orsini Giacomo Moggioli Massimiliano Boz Matheus Cartocci Lorenzo Perin Federica Iaccio Claudia Pace Davide Gramatica Dezurni Krivac Cecilia Gnocchi Mattia Congiu

Beppe Daniele [il bosone di beppe] Esperimento 1

COPERTINA/BACK COVER: Cripsta Giulia Begal

Emilio Fiorentino [termodinamico] Esperimento 2 Esperimento 3

E S T R A T T O B Y : Natale de Gregorio Dezurni Krivac

Saria È il cervello che ci illude

I G E N E A U R I C O L A R E B Y: Zac Valentina Tassalini

Raffaella Ferraro [oltre lo sguardo di medusa] Il ritratto dei coniugi Arnolfini

IGENE VISUALE BY: Federica Salini Camilla Ippolita Donato

Anonimo Monologo su lira

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Pietrantonio Ferrara [the agronomist] La verità è nello specchio

I N S E R T I F OTO G R A F I C I: Paolo Terlizzi C A P I TO LO OT TAV O: Pincopallino

Giovanni Gugg Le malie di Morgana

PER COLLABORARE CON NOI: www.effettoplacebo.org ASS.EFFETTOPLACEBO@GMAIL.COM FACEBOOK: EFFETTO PLACEBO

© 2015 [Effetto Placebo]

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