scritto & mangiato
Supplemento al numero odierno de il manifesto
in collaborazione con Slow Food
PELLE DI POLLO QUALI SONO LE ORIGINI DEL PRODOTTO CHE INTENDIAMO CUCINARE? LA DIFFIDENZA PER LA QUALITÀ APPARENTE E L’ATTENZIONE PER LA PROVENIENZA REALE. STORIE, PASSIONI E GUSTO PER CHI VUOLE ESSERE UN VERO ECOGASTRONOMO
OTTOBRE 2004
1UESTA RAGAZZA STA MANGIANDO IL MIELE DI -ARCELLO
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PRODOTTO SUL ,AGO -AGGIORE E PROVINCIA DI "IELLA TRA MAGGIO E GIUGNO
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in collaborazione con Slow Food
Direttore responsabile Sandro Medici Direttore Mariuccia Ciotta Gabriele Polo Supplemento a cura di Francesco Paternò Grafica Daria Sorrentino Illustrazione di copertina Laura Federici Le immagini che illustrano questo supplemento sono scattate da Miguel Garcia e sono pubblicate sul libro Sensacional de diseno messicano edito da Trilce Editiones, Mexico Pubblicità concessionaria esclusiva Poster srl tel. 06/68896911 fax 06/68308332 Stampa Sigraf srl Via Vailate, 14 Calvenzano (Bg) Chiuso in redazione il 8/10/2004
Uno sguardo incenerente alla Bogart sotto un Panama ci mira questa rappresentativi di un modo diverso di intendere la produzione di cibo, mattina dalle pagine di Time. Carlo Petrini, per gli amici Carlin, di attento alla qualità e rispettoso delle risorse dell’ambiente e delle persone. professione presidente di Slow Food, cui abbiamo appena chiesto un Un appuntamento incredibile, in collaborazione con il ministero delle articolo per questo supplemento nel corso di una piacevole cena romana, politiche agricole e forestali, la regione Piemonte e la città di Torino, la è diventato sul prestigioso settimanale americano un eroe. Un eroe Coldiretti, la Fondazione CRT e New Holland. europeo del 2004, di quelli veri come ce ne potevano essere ai tempi degli Se voltate pagina di questo supplemento, Petrini ci dà un altro assaggio di che dei in Grecia, che sfida con la sua proposta di vita slow l’ultimo e cosa fa Slow Food nella sua lenta vita quotidiana. L’ecogastronomo è per pericoloso mito dei nostri tempi, la vita fast. Una sfida difficile, affidata al esempio una sana invenzione del nostro eore. Che significa? L’eco vuol dire che il gastronomo, il gourmet, deve movimento internazionale che lui ha creato preoccuparsi dell’origine dei prodotti che poi quindici anni fa a Parigi e che combatte cucinerà. Che deve integrarsi in un progetto di ogni giorno. Anzi, che lotta insieme a noi nuova agricoltura possibile. Troverete molte attraverso questo supplemento trimestrale FRANCESCO PATERNÒ storie di questi strani personaggi alle prese per scritto classicamente a quattro mani. Se siete a Torino tra il prossimo 21 e 23 ottobre, potrete assaggiare questi esempio con la provenienza di un pollo, le loro scelte, il loro impegno. corpi a corpi al Salone del Gusto, appuntamento biennale come non avete Ci sono poi consigli su come fare la spesa anche per chi non fa il ristroratore mai visto per produttori, allevatori, norcini, vignaioli birrai e tutto il di professione, quella necessità di avere uno stretto rapporto con il variegato popolo legato alla produzione del cibo. Un esercito di pace che territorio. O una visita in una clinica che cura le obesità, altra malattia dei lavora per salvaguardare tradizioni e particolari, perché un’altra vita nostri tempi, tra centochilisti depressi e speranze di vita migliore. Oppure una immersione nel mondo degli Ogm, o ancora un picnic sulle sterminate alimentare è possibile. Ma non si diventa eroi per caso. Sempre a Torino con inizio il 20 ottobre, steppe russe, dove il marchio che conta è ovviamente quello del Cremlino. Petrini e i suoi hanno chiamato a raccolta 5000 rappresentanti di 1200 Non mancano infine i soliti libri da mangiare, di cui sottolineamo una Comunità del cibo di 131 paesi del mondo. L’evento si chiama Terra Madre missione: salvate quel coniglio in conflitto di interesse, vi aspetta in e riunirà per la prima volta gli operatori del settore agrolimentare penultima pagina. Buona lettura.
I nostri eroi
4 Il piatto che ride di Carlo Petrini 6 A parole tue di Gianni Ruffa 8 La qualità occulta di Alberto Capatti • Il cibo lontano di Carole Counihan 10 Il soffio vitale di Michel Smith 11 I semi della discordia di John Irivng 12 C’erano una volta di Maria Tarantino • Ci vuole trasparenza di Maria Tarantino 16 Mettili in banca di Franco Carlini 17 gli ultracorpi di Geraldina Colotti 18 Putin da bere di Astrit Dakli 19 La mia credenza di Loris Campetti 20 Il diario cucinato di Gianfranco Capitta 21 Il cappotto rosso di Gianfranco Capitta 23 Libri da mangiare di Geraldina Colotti
ripete cons. provolone in vs. mani
SCRITTO&MANGIATO
di Carlo Petrini* LA LUNGA MARCIA DELL’ECOGASTRONOMO VERSO LA NUOVA FRONTIERA DEL GUSTO, PER UNA PRATICA MATURA E CONSAPEVOLE ggiungendo diversi posti a tavola, gli autori (tra cui Carlo Petrini, presidente di Slow Food) di “Del gusto e della fame, teorie dell’alimentazione”, pp 246, 18 euro, editore manifestolibri, discutono e fanno discutere sul modo di nutrirsi ma anche sul valore delle scelte politiche che esso presuppone. L’idea è di assumere l’alimentazione come chiave di accesso per comprendere problemi filosofici, medici, antropologici e politici. E viceversa, la complessità dell’alimentazione umana può rivelarsi pienamente solo alla luce delle implicazioni antropologiche e politiche, filosofiche e mediche. “Del gusto e della fame” esce per Montag, la collana di dibattito filosofico della manifestolibri.
MANIFESTOLIBRI
Il piatto che ride
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he cosa c’è fra la fondazione di un “Movimento per il diritto al piacere” – Parigi, dicembre 1989 – e Terra Madre, Incontro mondiale tra le comunità del cibo – Torino, ottobre 2004? Dopo quindici anni e un passaggio di millennio, che ne è dei princìpi e delle dichiarazioni d’intenti enunciati dal Manifesto dello Slow Food sottoscritto all’Opéra Comique dai rappresentanti di quindici paesi del mondo? “Questo nostro secolo, nato e cresciuto sotto il segno della civiltà industriale, ha prima inventato la macchina e poi ne ha fatto il proprio modello di vita. La velocità è diventata la nostra catena, tutti siamo in preda allo stesso virus: la Fast Life, che sconvolge le nostre abitudini, ci assale fin nelle nostre case, ci rinchiude a nutrirci nei Fast Food”. Ci sono Fast Food Nation, il libro di Eric Schosser, e Supersize me, il film di Morgan Spurlock, ovvero la messa in discussione nella sua stessa culla di un modello nutrizionale – omologato e veloce – che si voleva universalmente applicabile e di cui oggi invece si svelano, impietosamente, i guasti che ne derivano per l’ambiente, i modelli produttivi, le persone, il gusto. Al punto che, proprio negli Usa, acquista consensi la delicious revolution di Alice Waters, cuoca, maître à penser del biologico, promotrice instancabile del buon gusto, e si moltiplicano farmers markets e school gardens, insieme alla voglia da parte di molti di cibi sani e saporiti, da cogliere freschi nei campi e negli orti invece che surgelati nei supermercati. E da condividere piacevolmente nei convivi, piuttosto che da consumare solitari davanti alla tv. “Iniziamo proprio a tavola con lo Slow Food, contro l’appiattimento del Fast
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Food riscopriamo la ricchezza e gli aromi delle cucine locali”. Ci sono la fusion cooking e la rinascita dell’osteria. Perché morta una moda (la nouvelle cuisine che noi deprecavamo quando era importata in modo acritico e banalizzata, pur riconoscendone il ruolo di rinnovamento di pratiche culinarie obsolete) se ne fa un’altra, ma intanto il grande patrimonio delle cucine regionali d’Italia ha ritrovato senso e si rinnova e lo fa senza paura di misurasi con l’altro, perché le identità si modellano attraverso il confronto, non innalzando barriere ma mostrandosi disponibili al nuovo. Osterie d’Italia, il Sussidiario del mangiarbere all’italiana inventato da Slow Food (la prima edizione è datata 1991) è un bestseller consolidato, ha contribuito a creare generazioni di osti giovani e motivati e schiere di consumatori consapevoli. Ha rivalutato un patrimonio gastronomico ricco e variegato, insieme al gusto per locali semplici, generosi, sensibili alla cultura dell’accoglienza. “Se la Fast Life in nome della produttività ha modificato la nostra vita e minaccia l’ambiente e il paesaggio, lo Slow Food è oggi la risposta d’avanguardia”. Ci sono la pecora Dolly e i Presìdi Slow Food. Ovvero due modelli contrapposti. Due risposte antitetiche per uscire dall’impasse cui la logica industriale ha condotto l’agricoltura. Da una parte l’esito estremo di logiche dettate solo dalla ricerca del profitto, dall’altra la proposta di una nuova agricoltura – locale, tradizionale, sostenibile – che sfrutta saggezze antiche per costruire il futuro. Rivitalizzando piccole produzioni che sono una riserva infinita di sapori ma anche il motore possibile di nuovi-antichi mestieri e di economie pulite. “È qui, nello sviluppo del gusto e non nel
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suo immiserimento, la vera cultura, di qui può iniziare il progresso, con lo scambio internazionale di storie, conoscenze, progetti”. C’è la prima Università di Scienze Gastronomiche al mondo, con sede a Pollenzo e Colorno, una risposta a quanti si ostinano a vedere nel cibo e nel vino, e nel piacere che danno, una semplice dimensione giocosa. Il nuovo ateneo pone i fondamenti di una scienza inedita e si propone come fucina di gastronomi colti e aperti verso l’altro, che andranno per il mondo messaggeri del gusto, del suo ruolo di conoscenza e piacere. “Lo Slow Food è un’idea che ha bisogno di molti sostenitori qualificati, per fare diventare questo moto (lento) un movimento internazionale, di cui la chiocciolina è il simbolo”. Ci sono, nel mondo, 81.400 soci e 850 convivium Slow Food. La chiocciola cammina negli Stati Uniti e in Germania, in Giappone e in Russia, in Marocco e a Singapore. In 131 paesi ha portato un messaggio fatto di lentezza, godimento, tolleranza. Con la consapevolezza che, finita per tutti, nel terzo millennio, l’innocenza, neppure al gastronomo è ormai concesso di starsene placido a coltivare il suo edonismo. Quanto arriva nel suo piatto è il frutto di modi di produzione e di meccanismi di scambio che occorre conoscere e studiare, sapendo che nulla ci è dovuto né dato per sempre ma è il risultato di equilibri ambientali e sociali che non possiamo pensare di compromettere senza perdere tutto. Nuova frontiera del gusto, l’ecogastronomia è una pratica matura e consapevole, che non cessa di rivendicare quel diritto al piacere che sta alle radici del gesto nutritivo. ● *presidente di Slow Food
A R R I V A N O I P R O D O T T I F I O R F I O R E C O O P : L A P A S TA .
PASTA FIOR FIORE: IL PRIMO, AMORE.
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LINEA FIOR FIORE COOP. OGNI OCCASIONE È PIÙ BUONA. Tredici minuti e la pasta sarà cotta. Il sugo invece, lo è già da tempo. Cotto di lei, da quando ha saputo che è pasta Fior Fiore. Prodotta con le migliori miscele di semola, e trafilata in bronzo. Già, perché la nuova linea Fior Fiore Coop racchiude solo i migliori prodotti del panorama alimentare. I più preziosi oli extravergini italiani. Il pesto alla genovese, preparato come vuole la tradizione. Sublimi tartufi di cioccolato con nocciole del Piemonte. E tante prelibatezze, per veri intenditori. Perché dietro ad ogni prodotto Fior Fiore, c’è una storia d’amore per la vera qualità.
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SCRITTO&MANGIATO
di Giovanni Ruffa* IL GLOSSARIO MINIMO CHE HA TRASFORMATO I NEO-FORCHETTONI DEL 1986 NEGLI ECOGASTRONOMI DI OGGI
llo slow food dell’intelletto”, titolava il manifesto del 18 settembre scorso un articolo dedicato al Festival della filosofia di Modena. La frase, che riprendeva una dichiarazione di Remo Bodei, è doppiamente significativa. Intanto perché conferma come l’espressione slow food (registrata per la prima volta in un Dizionario delle nuove parole italiana nel 1990, Sugarco) sia ormai invalsa nell’uso – tant’è vero che la ritroviamo nel lemmario dei principali vocabolari della lingua italiana – ma soprattutto perché usata nel contesto di un discorso relativo a un evento che niente ha a che vedere con la gastronomia. “Il festival – afferma Bodei – è uno slow food culturale, è per una cultura da degustare lentamente”. L’equazione slow food/cultura, proposta peraltro da un intellettuale particolarmente attento all’aria del tempo come Bodei, dimostra che la dignità “culturale” non solo del fenomeno alimentare (di cui gli storici del sociale e del materiale si sono da tempo incaricati di svelare le tante e diverse valenze) ma dello stesso piacere enogastronomico sia ormai un dato acquisito, cosa affatto scontata ancora pochi anni fa. Del resto, se Slow Food (inteso questa volta come movimento internazionale) ha dato vita alla prima Università di Scienze Gastronomiche significa che i tempi sono maturi per restituire al gusto un ruolo di strumento di analisi e conoscenza. D’altra parte, se la forza di un pensiero di manifesta anche nella capacità di creare un linguaggio, è facile constatare come molti dei termini che hanno caratterizzato la storia e l’evoluzione del movimento della chiocciola segnino oggi il lessico di quanti si occupano di cibo e di vino (ma anche di turismo, di promozione, di agricoltura…). Ecco una sintetica antologia della “parole di Slow Food”, un glossario minimo che dà conto del percorso che ha portato i neo-forchettoni dell’86 (come ironicamente si autodefinirono i fondatori di Arcigola) a diventare gli ecogastronomi di oggi. Partiamo dal concetto di biodiversità, ovvero l’insieme di ambienti naturali e specie viventi, animali e vegetali, che popolano il nostro pianeta. Essa si sta progressivamente riducendo: in un secolo si sono estinte 300 000 varietà vegetali e il processo continua. Ogni anno spariscono 17 milioni di ettari di foreste. Dall’inizio del Novecento abbiamo perso il 75% della diversità genetica fra i prodotti agricoli e oggi meno di trenta piante nutrono il 95% della popolazione mondiale. La situazione
A parole tue
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degli animali domestici non è meno drammatica: in Europa si è estinta la metà delle razze esistenti all’inizio del secolo e un terzo delle restanti 770 rischia di scomparire nei prossimi vent’anni. La parte di biodiversità che Slow Food sta tentando di tutelare è quella che arriva sulla tavola. Perdere una razza significa rinunciare per sempre a un patrimonio genetico unico e irripetibile, frutto di millenni di selezioni da parte dell’uomo e dell’ambiente naturale, ma anche ai sapori di un territorio, perché una razza vuol dire carne, latte, salumi e formaggi. L’abbandono delle razze autoctone (suine, bovine, ovine…) significa sempre un mutamento organolettico: il legame con il territorio è più debole, il prodotto più banale. Ma ci sono casi ancora più gravi: a volte una materia prima diversa rende inefficace la tecnica di lavorazione tradizionale e, quindi, con le razze, si perdono anche i prodotti. Negli ultimi dieci anni sono scomparse almeno cento varietà di formaggi, quelle tradizionali potrebbero essere spazzate via dalla concorrenza
industriale, con i suoi prodotti banali, riproducibili ovunque. Da qui la necessità della salvaguardia, frutto di una nuova sensibilità ambientale, di un nuovo modo di intendere l’agricoltura, i consumi. E occorre sottolineare la differenza tra una salvaguardia puramente conservativa – pensiamo alle banche del germoplasma, ai campi museo di varietà ortofrutticole, agli allevamenti sperimentali di razze in via di sparizione – e quella tentata da Slow Food. La nostra è una forma di tutela che mira alla rivitalizzazione delle filiere, al mantenimento delle identità locali legate a un prodotto, a una razza, a una specie vegetale, non in forma di aiuto conservativo, ma per un nuovo modello di economia. Contro il diluvio dell’omologazione produttiva, che va di pari passo con l’inaridimento delle capacità sensoriali dell’uomo, con la perdita di memoria visiva, olfattiva, gustativa. Certo è che i legislatori – talvolta per ignoranza in materia alimentare, in altri casi per assecondare interessi privati – a forza di provvedimenti iperigienisti e di divieti, hanno fatto la loro
parte nel favorire il commercio dei prodotti industriali (omologati) a scapito di quelli artigianali. La sterilizzazione della produzione si riflette nell’appiattimento del paesaggio, delle conoscenze, dei linguaggi, delle differenze territoriali, delle varietà agricole e infine del gusto, dal cui sviluppo tutto dipende. Il gusto è conoscenza dei sapori, estesa ai riti della tavola, estrapolata a tutto il patrimonio di una civiltà, artistica e intellettuale. Slow Food ha inventato un Salone del Gusto, il cui destino è di moltiplicare l’offerta alimentare, arricchendola di cibi, produzioni, confezioni, ricette. Tutte di qualità, naturalmente, anche se il termine è oggi utilizzato in una serie ampia di accezioni: la sicurezza igienicosanitaria, la naturalità, la valenza organolettica, l’aderenza a un disciplinare di produzione, la rarità, la tradizionalità e la tipicità di un prodotto. Eppure non è chiaro quale sia il giusto approccio metodologico per scoprire se un prodotto sia o no di qualità. Anzi, non si sa bene neppure se esista tale metodo. Se la qualità si percepisce con i sensi, l’approccio sensoriale è condizionato da elementi di soggettività, di relatività temporale, di influenze esterne che rendono assai difficile la codificazione di un metodo di identificazione certo. Quello che invece è certo, per Slow Food, è che un prodotto è davvero di qualità se è capace di coniugare e racchiudere in sé tre dimensioni: l’eccellenza organolettica, modi di produzione ecologicamente compatibili, condizioni di lavoro esenti da nocività e sfruttamento. È questo il concetto che sta alla base dell’idea di ecogastronomia, neologismo che sintetizza la filosofia sviluppata nel corso degli anni da Slow Food, che ha maturato la convinzione che un gastronomo che consuma e gode dei prodotti della terra non può essere insensibile a tematiche ambientali, a problematiche economiche su scala globale, ai profondi mutamenti che sta subendo il mondo rurale in tutto il pianeta. Per questi motivi Slow Food ha progettato e attuato iniziative in grado di difendere la biodiversità, insieme ai saperi di artigiani e piccoli contadini, promuovendo le produzioni locali, in contrapposizione all’appiattimento indotto dall’industria del cibo e dalle abitudini alimentari diffuse dal fast food. I Presìdi in Italia e all’estero, il Premio Slow Food, Terra Madre sono le iniziative che incarnano questo concetto, ma la filosofia ecogastronomica è messa in pratica in ogni appuntamento – Salone del Gusto, Cheese, Slowfish – e nei convivi organizzati in ogni dove. ● * Slow Food
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FIOR FIORE. A BUON INTENDITORE, DUE PAROLE.
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LINEA FIOR FIORE COOP. OGNI OCCASIONE È PIÙ BUONA. Quella che vedete nella foto, non è una bottiglia di vino. Ma non è neanche una bottiglia d’olio. È molto di più: è uno dei più preziosi extravergini tipici italiani. Un extravergine della nuova linea Fior Fiore Coop. La selezione che racchiude solo i migliori prodotti del panorama alimentare. Eccellenti varietà di pasta di semola. Il pesto alla genovese, preparato come vuole la tradizione. Sublimi tartufi di cioccolato con nocciole del Piemonte. E tante altre prelibatezze, per veri intenditori. E voi, li chiamereste semplicemente prodotti?
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La quallità occulta
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un signore non più giovane, dalla pancia tonda fasciata da un gilè, che visita il mercato con un paniere sotto il braccio sinistro. Si ferma davanti a un banco con una bilancia, coperto di andouilles e salami: dall’alto pendono lepri e beccacce. Prende con la mano destra un pollo spennato. Lo soppesa, guarda le zampe, osserva il codrione. Siamo a Parigi nel 1828, e questo ritratto figura nell’antiporta di un’antologia ghiotta dal titolo “Le gastronome français”. Il vero gastronomo provvede egli stesso agli acquisti, li seleziona con cura, con il naso, la mano e l’occhio, se ne riserva il meglio. Con quali criteri? Tutti empirici. Una pollastra di sette, otto mesi, ha il “didietro arrossato e ben discosto”, allora va bene. Da questi caratteri, il compratore può intuire se viene da La Flèche o Le Mans, dagli allevamenti più rinomati di Francia, oppure dalla periferia parigina. Niente marchio dunque ma una qualità occulta, che esige fiuto. Anche in Italia succede lo stesso. Al mercato, ognuno ha i propri segreti che sono quelli di tutti: la pupilla e la branchia del pesce, l’odorino della beccaccia, la zampa della lepre. Di conseguenza, nei libri di cucina, la qualità non è prescritta se non con epiteti banali perché il suo accertamento sta nella fiducia nel venditore, nella propria esperienza, nel colpo d’occhio. Viene in mente una ricetta di Pellegrino Artusi, il “pollo in porchetta”: “riempite un pollo qualunque con fettine di prosciutto grasso e magro…”. “Qualunque” non significa né dozzinale né a basso prezzo, ma
È
di Alberto Capatti* FIUTO, INTUITO, PREZZO, SLALOM AL MERCATO. COME SI COMPRAVA E COME SI COMPRA, TRA SEGRETI E BUGIE
giovane e non particolarmente grasso, come tantissimi altri prescritti ne La scienza in cucina. Prima dell’allevamento razionale, in batteria, i volatili non avevano marchio e provenivano dal contado o dall’area periferica urbana. Il prosciutto non figurava nelle ricette con il nome del consorzio, con l’area geografica di provenienza. La qualità era anonima e riconoscibile in base a segni particolari, era una questione, per chi vendeva o comprava, di mestiere, d’istinto. Secondo criterio di scelta era il prezzo, sempre trattabile. Per derrate come il pesce, prima della refrigerazione, scendeva nel corso della giornata, fino alla svendita, passato mezzogiorno. Per la frutta, a mano a mano che la stagione avanza, a seconda del suo uso, si doveva aspettare o comprare. Volendo far preparare una marmellata di lamponi, Artusi, nella sua corrispondenza al cuoco Francesco Ruffilli, consiglia di attendere gli ultimi giorni, quando il costo dei frutti crolla, senza che il risultato ne risenta. In un mercato fiorentino in cui prezzo e contrattazione regolavano tutti gli acquisti importanti, e solo la minestra di fagioli era venduta agli stessi, pochi centesimi, la fluttuazione era regola e presiedeva alla qualità. A queste variabili, se ne aggiungeva una terza, la freschezza. Comprare un volatile vivo, invece che il suo cadavere, permetteva di sfruttarlo compiutamente, cuocendone per esempio il sangue, i visceri, le zampe, la cresta, in tempestive o differite preparazioni. “Pare, e se è vero potete accertarvene alla prova, che il
pollo cotto appena ucciso sia più tenero che quando è sopraggiunta la rigidità cadaverica”, precisa Artusi nella ricetta del “pollo alla Rudinì”. La formula dubitativa apre un ennesimo capitolo su acquisti e cucina non regolati dalla refrigerazione, e fondati su un rapido passaggio da vita a morte e a cibo, con una conseguente programmazione delle cotture. Più che l’incertezza, in queste fasi, regnava un’esperienza fondata sull’intuito, su parametri empirici e su inestirpabili credenze. Il mito del rapido passaggio da vita a morte contribuisce a valorizzare, oltre all’aragosta, alcuni animali da cortile. Quando il gastronomo ha cominciato a esigere criteri oggettivi, garantiti dalla legge, secondo i quali scegliere un volatile? Con gli allevamenti industriali e la loro funesta moltiplicazione. “In questi ultimi tempi”, scrive Luigi Carnacina nel 1961, “il mercato è stato invaso da polli di allevamento che potrebbero essere eccellenti se gli allevatori mirassero più alla qualità che alla quantità”. Due specie dunque: i nostrani da un lato, meno grassi, con le zampe dalla pelle meno brillante, e tutti gli altri. I requisiti formali della qualità si stanno spostando: il peso, il grasso, la tenerezza cessano di essere indicatori positivi. La giovinezza era il primo criterio d’eccellenza richiesto nell’800, sette o otto mesi per una pollastra di 700 grammi, vuota; ma in batteria, essa non raggiunge mai tale veneranda età, è molto più pesante e costa molto meno. La conseguenza è la nascita di epiteti nuovi, resi anch’essi fragili da ogni nuova epidemia o dagli ultimi label; per il pollo: genuino, nostrano, ruspante e, in Francia, fermier, allevato nella fattoria e venduto cadavere. I famosi segreti, le intuizioni cui si accennava, non servono più. Vi è un sentimento nuovo invece, la diffidenza per tutti i segni
della qualità apparente, attenuata dalla conoscenza della filiera produttiva o di una o più certificazioni. Una pollastra della Bresse (Francia), nel 1993, viene identificata da almeno tre indicatori: un anello sulla zampa sinistra, con il nome e l’indirizzo del produttore, un sigillo tricolore alla base del collo con nome e cognome di colui che ha preparato e spedito il volatile, l’etichetta della denominazione di origine controllata del comitato interprofessionale della Bresse. Senza uno di questi tre, non c’è garanzia ma frode; con tutti al completo, v’è la certezza di uno standard, rispetto al quale fiuto e intuito sono inutili. Ma quanti giorni ha passato all’obitorio il volatile, nessuno lo sa. Dove comprare un pollo, è diventato un problema complesso. Né al mercato all’aperto né in un supermercato dove è ormai introvabile se non nelle sue componenti o porzioni. Da un commerciante di carni o da un negozio di gastronomia, se ne reperirà la versione labellizzata, francese, disponibile in molti paesi europei. Per tutti gli altri, volatili cresciuti individualmente, a contatto con la terra, con il pastone e il pietrisco, il mercato è ancora più nero che in passato, richiede amicizie, indirizzi, email, e di portarsene a casa uno vivo, non se ne parla. C’è infine la frequentazione del Salone del Gusto di Torino, nel quale il gastronomo ritrova un’offerta che va ben oltre i suoi stessi desideri, lo appaga e l’inquieta, ponendogli nuovi problemi di competenza, moltiplicati dalla varietà dei prodotti. È là probabilmente dove va indirizzato il gastronome français del 1828 e dove si rischia di incontrarlo, senza cilindro, senza panciotto e senza palandrana, disorientato per l’eterogeneità geografica dell’offerta, sperduto nel caos commestibile. ● * Slow Food
di Carole Counihan* STATI UNITI, LE 1300 MIGLIA
Il cibo lontano egli Stati Uniti il cibo percorre in media 1300 miglia per arrivare dalla fattoria alla tavola ed è in gran parte frutto dell’agribusiness globale, il che comporta, tra le altre conseguenze, una diminuzione del numero delle piccole fattorie, la distruzione delle comunità agricole locali, un aumento dei prodotti chimici negli alimenti, cibi di qualità inferiore e malattie legate all’alimentazione. Negli ultimi decenni, però, negli Usa sono sorti diversi movimenti per promuovere una produzione alimentare locale e sostenibile. Due di questi sono i farmers’ markets e la Community Supported Agriculture (CSA). I farmers’ markets prevedono la vendita diretta dal produttore al consumatore, in sedi stagionali o permanenti, all’aperto o al coperto, disseminate in tutta la nazio-
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ne. Alcuni hanno luogo in una strada chiusa con poche bancarelle, come quello di Alamosa in Colorado, aperto qualche ora il sabato mattina dai primi di luglio a fine ottobre. La gente del posto ci può acquistare albicocche, ciliegie, pesche, meloni e peperoncini del vicino e molto più caldo New Mexico settentrionale; ma anche patate coltivate lì intorno, miele, fiori, pane, tortillas e salsas. Questi mercati stanno diventando sempre più popolari negli Stati Uniti: secondo il Department of Agriculture, il loro numero è passato dai 1755 del 1994 ai 3137 del 2002. I farmers’ markets aiutano i piccoli agricoltori creando uno sbocco locale per i loro prodotti, riducendo i costi di trasporto, aggirando gli intermediari e diminuendo le perdite dovute al deperimento della merce. I consumatori hanno
la possibilità di entrare direttamente in contatto con gli agricoltori e di mangiare cibi freschi e buoni, in particolare le varietà locali che costituiscono un antidoto ai cibi industriali dei supermercati. Poiché spesso si svolgono nelle città, i farmers’ markets offrono prodotti della terra a prezzo ragionevole a residenti urbani che in molti casi dispongono di un reddito limitato e hanno poche possibilità di spostarsi. Sono un bene per le comunità in quanto mettono a contatto cittadini che hanno occupazioni, redditi ed estrazione etnica diversi. Secondo lo USDA, il mio Stato, la Pennsylvania, conta 162 farmers’ markets, diversi dei quali in zone agricole. In effetti, la città in cui abito, Lancaster, un centro di 50 000 abitanti, è al centro di una delle aree agricole più ricche degli Stati Uniti e ospita numerosi agricoltori tede-
schi, amish e mennoniti della Pennsylvania. Nel cuore della città si trova il leggendario Central Market, fiorente mercato pubblico fin dal 1730. Sebbene negli ultimi trent’anni le bancarelle degli agricoltori siano diminuite, il Central Market resta un luogo dove si trovano molteplici prodotti della zona – noci americane, patatine, dente di leone in primavera, piccole pere Seckel a fine estate e la cornucopia di frutta e verdura fresca che cresce per sei mesi all’anno sui fertili terreni intorno alla città. Come molti farmers’ markets, il Central Market di Lancaster, oltre ai prodotti freschi, offre carni locali fresche e conservate, latticini, uova, marmellate, cibi artigianali, fiori, sidro, miele e il celebre rafano Long’s. Molte bancarelle vendono merci importate da tutto il mondo, come i supermercati, cosicché i consumatori trovano tutto
DI UN PRODOTTO PER ARRIVARE DALLA FATTORIA ALLA TAVOLA ciò che potrebbero comprare in un supermercato accanto al meglio della produzione locale. Oltre a servire una fedele clientela del posto, il Central Market è una valida attrazione turistica che richiama visitatori da tutto il mondo. Se a Lancaster ci riteniamo fortunati ad avere un unico farmers’ market, la maggiore città della Pennsylvania, Philadelphia, può vantarne diversi sparsi in tutta la città, risultato di uno sforzo concertato degli attivisti locali a partire dal 1996. Ci sono quattordici farmers’ markets stagionali all’aperto, mentre il famoso mercato di Reading Terminal è attivo tutto l’anno. Gli agricoltori delle vicine contee di Berks e Lancaster vanno a Philadelphia per rifornire settimanalmente i mercati rionali e i ristoranti. Rimettere in contatto gli abitanti della città con gli agricoltori della zona è un
passo cruciale per garantire cibi buoni e sani e creare un’agricoltura locale sostenibile. Un altro modo per conseguire l’obiettivo è la Community Supported Agriculture: un’intesa in base a cui i consumatori pagano l’agricoltore in anticipo e in cambio ricevono ogni settimana una quota della produzione della fattoria. La prima CSA, che si è ispirata al movimento giapponese teikei (gruppi di casalinghe che si recavano insieme da un contadino), è nata negli Stati Uniti nel 1985; oggi nel paese ce ne sono oltre 1000. Quelle che distribuiscono quote a Philadelphia sono sei, mentre nella Pennsylvania sud-orientale sono una ventina e coinvolgono diverse migliaia di famiglie. Di solito i consumatori ricevono una sporta di cibi ogni settimana: da otto a quindici frutti, verdure ed erbe diverse, e a
volte anche fiori, miele e altro. Una delle CSA più vicine alla mia casa di Lancaster è la Scarecrow Hill Farm di Ephrata, una fattoria di 22 acri a una ventina di miglia. Scarecrow Hill offre 150 quote a 600 dollari ciascuna, da versare in tre rate uguali a gennaio, marzo e maggio. Per sei mesi, da fine maggio a metà novembre, gli “azionisti” ricevono ogni settimana una sporta di prodotti con una quarantina di frutti, verdure, erbe e fiori. Come molte altre CSA, ma non tutte, Scarecrow Hill Farm offre solo prodotti biologici certificati. Coopera con gli agricoltori per offrire carne di manzi allevati senza antibiotici né ormoni, tacchini, polli, uova e latticini. Gli associati sono incoraggiati a lavorare alla fattoria e a visitarla per seguire programmi didattici e manifestazioni speciali. Obiettivo della Scarecrow Hill CSA è creare una comunità e un
legame con la terra. Nelle CSA, agricoltori e consumatori sono sollecitati a provare strade nuove – i primi a rendere più appetibili i loro prodotti, i secondi a provare tutto ciò che arriva loro ogni settimana. Un agricoltore di una CSA dello Iowa mi ha detto che «parte della roba che coltivo ora non l’avevo mai coltivata né mangiata prima. Oltre a educare i miei clienti, sto educando me stesso». Le CSA presentano molti vantaggi: aiutano i piccoli agricoltori, le economie locali e i sistemi alimentari regionali; incoraggiano la diversità agricola e culinaria; offrono prodotti di qualità alla comunità; propongono ricette per provare nuovi prodotti. Infondono nuova linfa al rapporto tra produttori e consumatori, tra noi tutti e la terra dalla quale dipendiamo. ● * Slow Food
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SCRITTO&MANGIATO
di John Irving* LA STRANA GUERRA DELLA MONSANTO, GIGANTE DELLA BIOCHIMICA, CONTRO UN AGRICOLTORE DELLA PROVINCIA CANADESE
gni giorno che il Signore manda in terra, nel paese di Descartes, in barba agli enologi, fondamentalmente scettici in quanto “scientifici”, la biodinamica fa proseliti. Dal ricco industriale, al modesto vigneron, fino al viticoltore esperto che, dopo quarant’anni di spargimenti di prodotti chimici, ne ha abbastanza di vedere la sua terra priva di qualsiasi soffio vitale. In questo clima di entusiasmo si profilano due diverse filosofie: da un lato ci sono i biodinamici puri e duri, quasi integralisti, i crociati, quelli che seguono alla lettera gli scritti del maestro, l’austriaco Rudolph Steiner. Sono i pionieri, quelli degli anni 1980, oggi diventati icone conosciute nel mondo intero: ZindHumbrecht, Kreydenweiss o Deiss in Alsazia, Lalou Bize-Leroy, Aubert de Vilaine o Anne-Claude Leflaive in Borgogna, Nicolas Joly o Mark Angéli in Anjou, Selosse o Fleur y nella Champagne. Personaggi che si vengono a visitare da lontano, consultati alla stregua di oracoli. Poi ci sono i novizi. La maggior parte dei giovani biodinamici sono degli avventurosi un tantinello utopici, che si buttano a testa bassa in un mondo, o meglio in un modo di vita, con il quale si sentono in sintonia e che appare come salvifico in una società in cui l’agricoltura sembra alla deriva. Seguono il loro percorso di innovazione senza necessariamente tenere conto di questa o quella dottrina, fatta eccezione per l’omeopatia che applicano su se stessi e sui figli, senza peraltro rinnegare la medicina cosiddetta “tradizionale”. La loro terra la vedono come un essere vivente, parte integrante dell’universo. E la vite, come qualsiasi altra pianta, partecipa di questo universo. Il modo in cui questi vignaioli vedono la biodinamica è assimilabile a una filosofia di vita che offre una grande libertà, un ampio campo di azione per le idee personali, e che implica una grande disponibilità al rischio. Questa reazione diventa comprensibile quando si debba vivere in un mondo sempre più uniforme, nel quale si viene educati a minimizzare i rischi per assicurare una produzione di vino come prodotto del marketing. “Ne avevo abbastanza di fare dei vini per sedurre i critici”, spiega un vignaiolo di fresca conversione. Vino merce, vino costruito contro vino vero, vino autentico. Per la maggior parte dei biodinamici tutto ha origine in un credo fondamentale: a che cosa serve estasiarsi riguardo al terreno, anche se è il migliore del mondo, se la vite non vi penetra in profondità? Perché vantarsi della forza di un terroir, se il terreno ha perduto qualsiasi forma di vita organica? Ora, in Francia, il terroir ha un carattere in qualche misura sacro, al punto che tutti si sollazzano a riempirsene la bocca. Qualsiasi metodo naturale per ridare vita al terreno, l’aratura ovviamente, e se possibile operata con criterio (quindi, preferibilmente, utilizzando il cavallo) è degno di essere preso in considerazione. L’apporto di concimi organici “dinamizzati”, vale a dire trattati secondo precise prescrizioni e somministrati in determinati periodi dell’anno, deve essere eseguito con parsimonia, così come le cure a base di decotti di piante ispirati alla omeopatia. A prima vista tutto pare facile, per convertirsi alla biodinamica. Eppure, ci vuole coraggio. Accettare di fare tabula rasa anche di quello che si è imparato dai genitori richiede un totale senso di dedizione. Accettare di riconsiderare il proprio vigneto da cima a fondo, di convertire il proprio terreno all’impiego di una medicina dolce, per meglio aderire a una particolare concezione della pianta considerandola nel suo ambiente circostante e planetario, esige una grande pazienza. Gli inizi sono sempre difficili e rischiosi. Ci vogliono almeno cinque anni di sforzi per riuscire a convertire una vigna. Quando si opera all’interno di una denominazione di successo da una o due generazioni
O
di Michel Smith* VITICOLTORI E BIODINAMICA, UNA FILOSOFIA E UNA PRATICA CHE RICHIEDONO CORAGGIO PER CONVERTIRSI
(Champagne, Vougeot, Saint-Émilion eccetera) decidere di rischiare non è facile. Molte vigne all’inizio soffrono, il loro aspetto, quanto meno nei primi tempi, non è sempre brillante. Nei casi peggiori il rischio è di perdere tutto o quasi. Ma la biodinamica si organizza. Ci sono consulenti pronti a intervenire in qualsiasi momento. E poi, tra biodinamici si è creata una formidabile rete di mutuo aiuto. Una cosa è comunque chiara: se questo metodo ha una virtù, è quello di obbligare a riflettere sul modo di considerare le viti. Molti hanno optato per questa metodica senza secondi fini di tipo commerciale. Si è riscoperto il gusto per l’impegno, per il lavoro della terra, per l’osservazione della pianta. “Sento una carica quasi spirituale, in questo tentativo di comunione con la natura. Il vino potrà rivelare delle dimensioni umane”, dichiara Philippe Blanck del Syndicat des Vignerons Indépendants d’Alsace. “Non dimentichiamo che il vignaiolo non è soltanto un poeta. È anche e soprattutto un contadino, un uomo che palpita per la sua terra, per la sua campagna. E anche se la biodinamica non rappresenta tutta l’agricoltura, è molto difficile fare della vera viticoltura senza biodinamica”, aggiunge JeanMichel Deiss de Bergheim, uno dei più brillanti della nutrita schiera dei biodinamici dell’Alsazia. Risultato: è ormai un fatto riconosciuto che sempre più viticoltori, dal Nord al Sud, pratichino senza dichiararlo. Ne parlano soltanto se li si interroga sui metodi colturali, ma non intendono dichiararlo ai quattro venti perché si rifiutano di farsi impastoiare dai dogmi, dalle conventicole e dalle etichette. “Il vino deve parlare di per se stesso. Non è il vignaiolo che deve parlare al suo posto”, riassume Olivier Julien, discreto e schivo autore di uno dei più gran-
di vini del Languedoc, il Mas Julien. Quanto alla ricerca del sapore del vero vino, siamo tutti d’accordo, viticoltori o semplici bevitori. I vini meravigliosi di Éloi Dürrbach (Trévallon) o dei fratelli Perrin (Beaucastel) nel sud della valle del Rodano; i vini degli châteaux La Tour Figeac o Pavie-Macquin a Saint-Émilion; quelli di Michel Chapoutier nella denominazione Hermitage, per citarne solo alcuni, sono lì a testimoniarlo. Il numero crescente di ottime aziende coltivate con il metodo biologico o biodinamico dimostra che la ricerca dell’autenticità, la passione che si può nutrire per il vino “al naturale”, il vino “nudo”, spogliato dei suoi artifici, è ormai parte integrante del panorama vinicolo francese. E la stessa passione dilaga in Spagna, in Italia, in Slovenia, in Svizzera. Non si può non constatare che la maggior parte dei grandi vini del momento è concepita nel più rigoroso rispetto per la natura. Fa davvero piacere notare, inoltre, che i prodotti per i trattamenti chimici sono sempre più esclusi, come i concimi di sintesi. Lo stesso dicasi per i lieviti industriali, scartati a favore della classica coltura di lieviti naturali (pied de cuve). Tra i buoni vignaioli è ormai di prammatica ricorrere alla “confusione sessuale”, metodo naturale di lotta agli insetti. E ci sono dei puristi che si proibiscono anche l’utilizzo di zolfo. Se pur lo zolfo in biodinamica sia tollerato, come d’altronde il rame, naturalmente in dosi omeopatiche. “Meno il vino subisce trattamenti, meglio è per lui” scriveva – negli anni 1970 – l’eminente enologo Émile Peynaud. Trent’anni dopo, si potrebbe aggiungere: “Meno la terra subisce trattamenti, meglio staranno le uve. E più belle sono le uve, migliore sarà il vino!”. ● * Slow Food
“L’
I semi della discordia
Il soffio vittale
incubo è iniziato il 6 agosto 1998, una data che non dimenticherò mai. Mi è arrivato un avviso di querela da parte della Monsanto. Non avevo mai avuto a che fare con loro. Non capivo”. Chi parla è Percy Schmeiser, 73 anni, piccolo agricoltore della provincia canadese di Saskatchewan. Com’è che si trova a combattere contro un gigante multinazionale della biochimica in una lotta che, inevitabilmente, ricorda quella tra Davide è Golia? Dal 1947, quando subentra al padre nella conduzione della fattoria di famiglia, Schmeiser coltiva soprattutto colza. Con un passato da politico alle spalle (“Ho sempre cercato di migliorare la vita dei piccoli agricoltori”), è noto nelle praterie del Canada centrale per il suo lavoro di seed saving, la selezione di sementi per coloro che le richiedono e, naturalmente, per sé. “I furgoni della Monsanto adibiti al trasporto di colza geneticamente modificata, la cosiddetta colza Roundup, passavano davanti alle mie terre. Perdevano semi che, soffiati dal vento, hanno finito per contaminare i miei. Nei miei campi cresceva una pianta generata da un incrocio tra i miei semi e da quelli gm della Monsanto”. Prove chimiche eseguite presso l’Università di Manitoba rivelano che due campi non sono affatto contaminati, altri lo sono fino all’8%: nel canale di scolo, però, la contaminazione ha raggiunto il 60%. È difficile immaginare che Percy abbia responsabilità legali, ma talvolta, come diceva un personaggio di Dickens, “The law is a ass” (La legge è un asino). “La Monsanto — spiega Schmeiser — mi accusava di violare un brevetto per sementi gm, concesso nel 1985, che prevedeva, tra le altre cose, anche la diffusione illimitata nell’ambiente. Diceva che io avevo acquisito i suoi semi senza licenza e che li stavo piantando e coltivando”. Il processo davanti alla Corte Federale si conclude nel 2001 con la condanna di Schmeiser. Motivando la sentenza, il giudice dichiara che “non importa come le sementi gm arrivino nei campi di un agricoltore, non importa se distrugge le sue coltivazioni… queste diventano, di fatto, proprietà della Monsanto”. “Il giudice mi ha anche diffidato dall’usare le mie sementi e piante — prosegue Schmeiser. Tutto il mio lavoro di ricerca e sviluppo era andato in fumo. Di fatto, da un giorno all’altro, noi agricoltori avevamo perso i nostri diritti. Il brevetto della Monsanto era evidentemente ritenuto più importante di questi diritti”. Nel 2002, Schmeiser si rivolge alla Corte d’Appello, ma la sentenza gli è di nuovo contraria. “Un periodo deprimente quello. Nel novembre 2002, poco convinto, ho richiesto di andare in appello alla Corte Suprema. Nel maggio 2003, la Corte ha accettato di riesaminare il caso. Dopo cinque anni di delusioni, finalmente, una bella notizia. Era già
una piccola vittoria”. Al centro del dibattito una domanda: è legittimo che gli organismi viventi — le sementi e le piante, i geni e gli organi umani — siano protetti da brevetti societari? Chi è proprietario della vita? I nove giudici della Corte Suprema emettono la sentenza il 21 maggio 2004. Decidono, cinque contro quattro, a favore della Monsanto. La motivazione della maggioranza è di tipo tecnico-giuridico: “L’unica nostra preoccupazione è di applicare i princìpi stabiliti dal diritto brevettale, che concede al titolare di un brevetto il diritto esclusivo, il priv ilegio e la libertà di fare, costruire e usare un’invenzione e di venderla ad altri che desiderino farne uso”. “Secondo loro, stavo sfruttando la proprietà di un altro; cioè, stavo coltivando la colza della Monsanto”, dice Schmeiser. I quattro giudici di minoranza, invece, argomentano che, nella fattispecie, poiché ha lo scopo di proteggere il monopolio di un inventore sulla propria invenzione, il diritto brevettuale è irrilevante, che la coltivazione accidentale di un’invenzione Monsanto non priva affatto la società del monopolio sulla propria invenzione. La multinazionale, cioè, è in grado di continuare a vendere le sementi gm. Tutt’e nove i giudici, infine, concordano che la Monsanto deve sostenere i costi dell’udienza in quanto Schmeiser non ha tratto alcun utile dalla contaminazione. Schmeiser perde per un pelo, ma questa volta ha qualche motivo di soddisfazione. “D’ora in poi la Monsanto farà fatica a querelare altri agricoltori per la violazione del suo brevetto. Dovrà dimostrare che hanno tratto profitto dalla presenza di colza Roundup nei propri campi. Forse questa decisione ha ‘tolto i denti’ al loro brevetto. La sentenza della Corte Suprema mi ha lasciato perplesso, ma sono contento di non dover pagare a Monsanto neanche un centesimo. Non ho mai voluto la tecnologia Monsanto nei miei campi, non l’ho mai sfruttata. Perché dovrei pagarla? Eppoi nessuno dovrebbe avere il diritto di diffondere nell’ambiente qualcosa che distrugge la proprietà degli altri”. I dubbi di Schmeiser sembrano trovare suffragio in una seconda sentenza dell’11 giugno, in cui la Corte Suprema decreta che una società deve rispondere di ogni danno che, per negligenza o per volontà, reca all’ambiente. Insomma, la proprietà di un brevetto comporta anche responsabilità verso terzi: così stando le cose, diventa difficile che si ripetano casi come quello del povero Percy Schmeiser in futuro. Ma perché tanto accanimento nei suoi confronti? “La mia conclusione è che i giganti della biochimica cerchino di avere il controllo totale delle sementi del mondo. Chiunque abbia il controllo delle sementi avrà pure il controllo delle scorte alimentari, e in molti Paesi del Terzo Mondo ciò significa avere il controllo dell’intera nazione. Mi vengono i brividi!”. ● * Slow Food
Assessorato Agricoltura SeSIRCA
L
LA CAMPANIA, TERRA DI OLI DOP
a Campania si colloca per quantità di olio prodotto al quarto posto tra le regioni italiane, con oltre 400.000 quintali l’anno, provenienti da 73.000 Ha di oliveto e 9 milioni di piante di olivo: ma al di là del freddo dato statistico, per avere un chiaro segno della spiccata vocazione di questa terra per la coltura dell’olivo, è sufficiente percorrere le aree olivetate delle cinque province. In alcune zone la vetustà degli esemplari di ulivo, veri patriarchi vegetali a volte millenari, ci racconta imperturbabile le storie dei Fenici e dei Greci, poi dei Romani, che dalla unica terra scelta come Felix di tutta quella che era stata la Magna Grecia, ricavavano l’oro liquido. Un prodotto che, per le accertate qualità salutistiche, rappresenta, oggi, il fulcro della Dieta mediterranea, che fu scoperta proprio qui, in Campania, tra gli olivi del Cilento, dal celebre nutrizionista Keys. Questa antica sapienza, la vocazionalità ambientale, unitamente alla capacità professionale degli addetti al settore, trova oggi la sua massima espressione negli oli extravergini a Denominazione di Origine Protetta della Campania. Oggi sono tre gli oli che hanno già ottenuto il riconoscimento dalla Comunità Europea: Cilento, Colline Salernitane e Penisola Sorrentina; ma ve ne sono altri 5 in attesa della ufficializzazione: Colline beneventane e Sannio Caudino Telesino, in provincia di Benevento, Colli dell’Ufita e Terre del Clanis, in Irpinia, Terre aurunche, in provincia di Caserta. La Campania, pertanto, oltre ai vini, ai formaggi (tra cui primeggia la mozzarella), ai limoni, al pomodoro San Marzano, ecc., ha nell’olio di oliva un ulteriore elemento di forza che si integra perfettamente nella prestigiosa tradizione alimentare e gastronomica, che ha reso la regione nota in tutto il mondo.
OLIO DOP DELLA CAMPANIA: ECCO LE AZIENDE CHE LO PRODUCONO (ELENCO AZIENDE CON LOTTI CERTIFICATI NELLA CAMPAGNA 2003-2004)
COLLINE SALERNITANE VAL CALORE s.c.r.l. IL NIDO DI ALFANI LA COMUNITÀ s.c.r.l. MASTROPIETRO LA TORRETTA s.c.r.l. SO le C s.a.s. di Contaldo Giuseppina & C. AZ. AGR. LA PETROLLA di Zecca Giuseppe AZ. AGR. PETROSINO SABATO BIOITALIA DISTRIBUZIONE s.r.l. DE LUNA GENNARO DI GIACOMO LORENZO AGRIOIL s.p.a. ORO DEL SELE AZ. AGR. FALCONE SETTIMIA NAIMOLI ANTONIO AZ. AGR. OLIVICOLA MAGLIO ANGELO RAFFAELE
via Donato Riccio 30 via Montevetrano 2 Loc. Varano via S. Sebastiano via Serroni Alto 24 c.da Cannito, 14 Lungotevere dei mellini, 44 Località Casarsa Località Isca del Mulino via Torre Fraz. Serradarce via Marzo c.da Cerreto via Nazionale 143 loc. Serradarce C.da Bosco Loc. Varano via Romandola, 8
Castel S. Lorenzo San Cipriano Picentino Campagna Controne Battipaglia Capaccio Roma Eboli Buccino Campagna Serre Roscigno Campagna Valva Campagna Campagna
SA SA SA SA SA SA RM SA SA SA SA SA SA SA SA SA
0828 944035 089 882343 0828 49740 0828 772066 0828 672615 0828 880171 06 3219608 0828 651006 0828 957434 0828 240091 0828 974747 0828 963086 0828 49705 0828 796800 0828 49041 0828 46071
SORRENTOLIO s.r.l. ALMAMATER BIO AZ. AGR. RUSSO SOLAGRI LA VILLANELLA p.s.coop. "LE TORE" AGRICOLA LUBRENSE s.a.s.
Via Nastro D'Argento 9 via T. Astarita, 32 via Piazza Montechiaro , 18 via S. Martino 8 via Partenope, 41 via Pontone, 43
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081 081 081 081 081
8072300 8088954 8028404 8772901 8075651
TORRE CANGIANI di Aldo Nunziata ERREZETAUNO s.r.l. TENUTA MONTECORBO p.s.c. a r.l. GALANO SALVATORE FRANTOIO FERRARO DI CARMELA INDOVINO s.a.s. Cooperativa Agricola "LE COLLINE DI SORRENTO" OLEARIA MASSESE s.n.c.
via via via via via
Sant'Agnello Meta di Sorrento Vico Equense Sant'Agnello Massa Lubrense Massa Lubrense, fraz. Sant'Agata sui due golfi Massa Lubrense Napoli Massa Lubrense Sorrento Vico Equense
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081 081 081 081 081 081
8080637 5339849 7646876 544548 8072591 8028039
via Casarlano, 10/B Rotonda Schiazzano
Sorrento Massa Lubrense
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081 8773793 081 8089242
loc. Ortale via G. Marconi, 55 via Bellavista fraz. Acciaroli C.da Archi
San Mauro Cilento Cava dei Tirreni Pollica Laureana Cilento
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0974 903239 089 467065 0974 904009 0974 832573
PENISOLA SORRENTINA
Vigliano, 1/A Chiatamone, 53/c Montecorbo, 90 Palomba, 3 G.B. della Porta, 21
CILENTO NUOVO CILENTO SEVERINI PIETRO PALLADINO ALFONSO SERRA MARINA s.r.l.
Cosa significa DOP? Significa Denominazione di Origine Protetta. È un marchio istituito dalla Comunità Europea che garantisce, mediante rigorosi controlli, la provenienza, la genuinità, la tipicità, l’elevata qualità fisico-chimica ed organolettica dell’olio. Esso, infatti, è attribuito dalla Comunità solo agli oli di pregio prodotti in zone fortemente vocate alla coltivazione dell’olivo, da cui prendono il nome e traggono le loro caratteristiche di pregio. Quindi il marchio DOP garantisce al consumatore una scelta immediata e sicura. La produzione degli oli DOP è normata dai Disciplinari di Produzione, che sono dei veri e propri regolamenti cui tutti gli utilizzatori della DOP devono attenersi. A garanzia del consumatore l’intera filiera produttiva è sottoposta al controllo di un organismo terzo, cioè indipendente dal mondo della produzione, autorizzato dal Ministero.
Anche nel 2005 si terrà a Sorrento il Premio Sirena d’oro di Sorrento, l’unico concorso nazionale riservato ai soli oli DOP. Il Premio, riconosciuto dal Ministero ed organizzato dalla Regione Campania e dal Comune di Sorrento, è divenuto uno dei più importanti concorsi del settore. Infatti vede la partecipazione di centinaia di aziende in rappresentanza dei 30 oli DOP italiani. Ma il Premio rappresenta solo un momento, anche se il più prestigioso, di una serie di eventi (corsi e giornate di assaggio, laboratori del giusto, convegni, tavole rotonde, i ristoranti dell’olio, ecc.) che accompagneranno gli interessati alla scoperta dell’olio extravergine di oliva DOP e delle ricchezze alimentari delle aree a vocazione olivicola della Campania.
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SCRITTO&MANGIATO
Se vogliamo fare una fotografia del processo che porta all’approvazione e all’autorizzazione di un Ogm, quali problemi vediamo? La valutazione scientifica degli Ogm è assolutamente superficiale, non-trasparente e anti-democratica. Ad esempio, nel caso in cui diversi stati membri dell’Unione europea dovessero essere contrari alla commercializzazione di un certo Ogm, la Commissione sarebbe comunque giuridicamente in grado di approvarlo. E’ quasi impossibile rifiutare l’autorizzazione di un Ogm. Per farlo occorre una maggioranza qualificata contraria all’Ogm all’interno del Consiglio dei ministri europeo, circostanza che non si verifica praticamente mai. La mancanza di trasparenza si verifica a livello di gestione dei dossier per l’autorizzazione degli Ogm. E’ impossibile avere accesso ai dossier o sapere quali sono le obiezioni sollevate dagli stati membri. La maggior parte dei documenti che costituiscono questi dossier, ovvero i documenti necessari per una valutazione scientifica dell’Ogm, vengono considerati come dati commerciali riservati (business confidential information). Questo è il caso dello studio sui ratti relativo al mais 663. Lo studio mostrava variazioni sensibili nei ratti nutriti con mais Ogm rispetto a quelli
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di Maria Tarantino INTERVISTA A ERIC GALL, DIRETTORE DELLA SEZIONE PER L’INGEGNERIA GENETICA, GREENPEACE, BRUXELLES.
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“Ci vuole e traspare enza”
per gli Ogm. La commissione che le gestiva era stata soprannominata “Commissione degli amici del biotech”. I membri della Commissione erano quasi esclusivamente biologi molecolari. E’ significativo che non vi fossero esperti di tossicologia ed ecologia applicata alla popolazione.
nutriti convenzionalmente. Nessuno è in grado di consultare questo studio perché il governo tedesco l’ha classificato come “confidenziale”. Uno studio sull’alimentazione dei ratti non può essere trattato come “confidenziale”, dal momento che non contiene alcun dato che potrebbe nuocere ai diritti sulla proprietà intellettuale e ai brevetti dell’azienda produttrice. Sappiamo quali studi sono richiesti per l’autorizzazione degli Ogm? Ad esempio studi scientifici che garantiscano l’assenza di effetti nocivi per la saluta dell’uomo? Assolutamente no. Oggi le aziende effettuano uno studio sull’alimentazione a base di Ogm dei ratti per un periodo di 80 giorni. Non è un obbligo ma è semplicemente qualcosa che reclamano le autorità nazionali in mancanza di altri studi sulla tossicità degli Ogm. Una volta che la domanda di commercializzazione è stata presa in considera-
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zione, il pubblico ha 30 giorni di tempo per fare le proprie osservazioni critiche. A parte il fatto che 30 giorni sono pochi per effettuare osservazioni critiche relative ad un Ogm, il problema maggiore è che il pubblico non ha accesso al dossier e può prendere visione solo di un riassunto. Inoltre finora tutte le osservazioni critiche presentate da Greenpeace alla Commissione europea e all’Efsa (l’autorità europea per la sicurezza alimentare) non hanno avuto risposta. Non sappiamo nemmeno se sono state prese in considerazione. L’Efsa sta elaborando le linee guida per la valutazione dei rischi legati agli Ogm, nei nuovi regolamenti le formule relative alla salvaguardia della salute sono più severe. Il problema è che, anche se le leggi sono migliorate, in pratica tutto viene lasciato alla discrezione dei comitati scientifici nazionali e dell’Efsa. I comitati non funzionano sempre al meglio. In Francia fino al 1997 era facile ottenere autorizzazioni
Come si può valutare l’autorizzazione di un Ogm solo sulla base di un dossier cartaceo di 5 mila pagine. Non sarebbe opportuno rifare i test per verificarli? Nessuno rifà i test, si prendono per buoni i dati forniti dalle imprese. Non si fanno controlli indipendenti, anche perché questi studi hanno costi molto elevati. Chiaramente è un problema che non ci siano studi indipendenti sugli
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effetti sanitari degli Ogm. Ci sono studi solo sul breve periodo, in cui si cercano casi di tossicità acuta. Il problema è che ci mancano sia gli strumenti metodologici appropriati che le conoscenze scientifiche necessarie per svolgere studi a lungo termine sugli effetti di un’alimentazione costituita da Ogm. I primi ad ammetterlo sono gli esperti scientifici. La “Royal Society” canadese auspica ad esempio studi sugli effetti degli Ogm sui bambini. Anche nei casi in cui vengono riscontrate differenze significative tra i ratti nutriti con Ogm e quelli con dieta Ogm-free, la spiegazione che ne viene data dalle autorità competenti è che tutto ciò non ha “significato biologico”. Il concetto di “significato biologico” non ha alcun rigore scientifico.
C’erano una a volta erano una volta una mucca, un pollo e un maiale. Mangiavano mangimi provenienti da agricoltura biologica e venivano sottoposti a trattamenti antibiotici limitati. Il latte, le uova e la carne di quegli animali veniva etichettata e venduta come “biologica”. Tutto ciò in base al principio che le sostanze che entrano a contatto con l’animale – il mangime, i medicinali, le condizioni ambientali – determinano la qualità e le caratteristiche dell’animale stesso. L’animale assimila quello che mangia, ovvero i processi metabolici dell’animale integrano le proprietà di un cibo specifico. Un giorno sono arrivate le mucche, i polli e i maiali allevati con mangimi Ogm. Sul loro latte, sulle loro uova e sulla loro carne non c’era nessuna etichetta. Perché? Pare che non servisse, dal momento che gli Ogm erano stati mangiati, digeriti e quindi nei prodotti derivati non ce n’era più traccia. Eppure se per i mangimi biologici vale il trasferimento di qualità “benefiche”, perché nel caso del mangime Ogm la digestione diventa improvvisamente un processo “neutralizzante”, ovvero un passaggio che annulla qualsiasi eventuale o presunto effetto negativo del mangime? Insomma, c’è un’asimmetria che merita di essere spiegata. Tanto più che nel caso degli Ogm si sa davvero pochissimo sull’interazione tra segmenti di Dna modificato e processi metabolici. Nonostante i regolamenti europei entrati in vigore lo scorso 18 aprile prevedano l’etichettatura obbligatoria di tutti i prodotti alimentari contenenti più dello 0,9% di Ogm, latte, uova e carne godono di un’esenzione speciale. Persino quei prodotti dove gli Ogm ci sono ma non si vedono (olii vegetali) perché l’esposizione al fonti di calore ne ha eliminato le tracce cui fanno riferimento i test di laboratorio, dovranno essere etichettati. L’etichetta Ogm arriverà anche sui sacchi di mangime Ogm, ma non sulla confezione di carne o sul cartone di latte, che potranno arrivare anonimamente sugli scaffali dei supermercati. La cosa non da è poco se si pensa che l’80% degli Ogm che arrivano in Europa sono destinati all’alimentazione animale e non
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di Mi. Ta. LA MUCCA, IL POLLO, IL MAIALE E I MANGIMI DELL’AGRICOLTURA BIOLOGICA. POI VENNERO GLI OGM, NON LE ETICHETTE
a quella umana. Soia, mais, colza e barbabietole Ogm non sono stati pensati per preparare biscotti e merendine. Vanno più semplicemente a finire nelle mangiatoie. In Italia, arrivano ogni anni circa 4 milioni di tonnellate di soia transgenica destinata alla preparazione di mangimi animali. Un business importante, che rischia di rimanere sommerso grazie alla strana asimmetria dei regolamenti europei e nonostante l’opinione pubblica, che invece vorrebbe poter esercitare il diritto di libera scelta rispetto ai prodotti che costituiscono la propria alimentazione. Da qualche mese però nei supermercati italiani si sono registrate importanti novità. I prodotti animali Ogm-free hanno iniziato a rincorrersi e moltiplicarsi. All’inizio c’erano solo i polli interi e le uova, poi sono arrivati i tacchini e le faraone. Adesso si può scegliere tra petti e cosce e c’è persino il wurstel, elisir dello scarto industriale, garantito non-transgenico. I due attori più importanti del mercato avicolo italiano, Amadori e Aia, hanno convertito diverse linee produttive, garantendo l’assenza di Ogm dai mangimi degli animali. Nel caso di Amadori, è nato addirittura un decalogo, in base al quale si escludono antibiotici, promotori della crescita e farine animali. Negli ultimi due anni si è verificata una vera e propria rivoluzione del settore avicolo in direzione Ogm-free. Diverse aziende si sono convinte o hanno finito per convincersi che era possibile, addirittura conveniente, eliminare gli Ogm dal processo produttivo. La carne e le uova Ogm-free si vendono meglio e la soia non transgenica non è difficile da trovare. Il Brasile ne produce così tanta da poter soddisfare da solo i bisogni dell’intero mercato europeo. Questa “riconversione” del settore avicolo italiano non si è prodotta per caso. Non sono stati i comitati scientifici e nemmeno le autorità per la sicurezza alimentare a creare le premesse perché si verificasse. Per quanto paradossale possa sembrare, a farsi carico di un’esigenza reale dei consumatori e a verificarne la fattibilità economica per le aziende è stata un’organizzazione di quelle definite “militanti”. Già nel 2002, Greenpeace ha iniziato a contattare tutti i produttori, chiedendo loro di confermare l’e-
ventuale presenza di Ogm nel ciclo produttivo. Le informazioni servivano per la guida “Come difendersi dagli Ogm”, uno strumento grazie al quale i consumatori erano in grado di sapere quali aziende alimentari e quali alimenti erano Ogm-free. In quell’occasione alcuni produttori avevano risposto a Greenpeace garantendo l’assenza di Ogm dal ciclo produttivo, in altri casi non erano state fornite informazioni e quindi i prodotti erano stati inseriti nelle liste “a rischio”. Se la quasi totalità degli Ogm finisce nei mangimi animali, è la soia a farla da padrone, in quanto fonte proteica vegetale importante. Il settore dove la soia incide maggiormente nella composizione dei mangimi è quello avicolo, con percentuali che variano dal 20 al 40%. E’ su questo fronte che Greenpeace decide di mettere in pratica l’idea di una riconversione Ogmfree della filiera produttiva. Per farlo si valuta il costo della soia Ogm-free, la disponibilità sul mercato, l’incidenza sul prezzo del prodotto finale. Per rendere il tutto più concreto, Greenpeace cerca un dialogo con Aia, la ditta italiana leader sia nel mercato avicolo che in quello mangimistico. All’inizio le cose non sono andate molto bene. Nell’autunno del 2002, gli attivisti di Greenpeace si incatenavano ai cancelli dello stabilimento di Zevio, in provincia di Verona, bloccando l’accesso agli operai. Due mesi dopo, era la volta del quartier generale Aia, letteralmente travolto da una trentina di quintali di soia non-Ogm, che Greenpeace aveva acquistato presso il Consorzio agrario di Verona e che forniva gratuitamente ai vertici Aia, per smentire l’idea che fosse difficile procurarsi
materie prime non-Ogm. Nel frattempo proseguivano le campagne di sensibilizzazione dei consumatori nei supermercati di tutt’Italia. I prodotti Aia venivano contrassegnati da etichette adesive sulle quali stava scritto “se c’è Aia c’è soia Ogm”. Alla fine Aia ha accettato il dialogo, convertendo diverse linee produttive (uova, polli, tacchini e faraone) e un impianto per la produzione dei mangimi. Secondo le stime di Greenpeace, allevare volatili con soia non-Ogm certificata con tracciabilità completa costa solo il 4,4% in più e questo aumento del costo di produzione si traduce in maniera solo lieve sul prezzo finale degli alimenti, risultando quasi impercettibile. Eppure ci sono voluti mesi di azioni e campagne per far accettare un cambiamento produttivo che risulta conveniente per le aziende in quanto ad un’esigenza dei consumatori. Nonostante i risultati positivi ottenuti nel settore avicolo, la strada da percorrere è ancora lunga. All’appello mancano tutti gli altri settori animali, dove il mercato è più frammentato e la composizione dei mangimi più eterogenea. ●
Che tipo di concetto nuovo occorre per verificare la sicurezza degli Ogm? La modificazione genetica non è un processo preciso: accade che la sequenza genetica descritta nel dossier che accompagna un Ogm sia diversa dalla sequenza genetica dell’Ogm. E’ il caso del mais Bt176. Ci sono pezzi di sequenze genetiche di cui non siamo in grado di prevedere gli effetti, come la colza gt73. Quindi l’unica cosa che i comitati scientifici possono fare è augurarsi che gli Ogm non abbiano effetti negativi. E’ accaduto che si trovassero pezzi di sequenze genetiche attive che non avrebbero dovuto esserci. Eppure nessuno ha insistito affinché venissero svolt i studi più approfonditi. ●
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SCRITTO&MANGIATO
di Franco Carlini L’ALTRA FACCIA DEI GENI, NATURA E CULTURA CHE VIAGGIANO INSIEME. L’APPUNTAMENTO DI TORINO CON TERRA MADRE
iselli, orzo, lenticchie, fave: dai frigoriferi di Aleppo in Siria i semi di queste e altre piante sono stati prelevati a fine del 2002, ripiantati nella terra rossa per farne molte copie e ora costituiscono la base vera e duratura degli aiuti alimentari alla popolazione dell’Afghanistan. Per ridurre i problemi di fame e sottoalimentazione in quel paese, infatti, non ci si può basare solo sulle scatolette e il latte in polvere, ma occorre ricostruire, quasi da zero, le possibilità di autosostentamento, tanto più in un territorio che è sempre stato famoso per la ricchezza e la varietà dei suoi raccolti. Ma non si possono nemmeno inviare semi qualsiasi, magari adatti per altre terre e altri climi; servono piante adatte, e le più adatte sono quelle che storicamente sono cresciute in quel paese, selezionate nel tempo dalla natura e dagli agricoltori. Quel patrimonio di semi che è stato estratto dai frigoriferi dell’Icarda (International Center for Agricultural Research in the Dry Areas) deriva in larga maggioranza da una collezione messa insieme negli anni ‘70 da Geoff Hawtin, un ricercatore anglo-canadese che a Roma dirigeva l’Ipgr (International Plant Genetic Resources Institute): “Stavamo allora raccogliendo semi per un programma di incroci nell’Africa nord occidentale e per farlo c’era bisogno di una grande variabilità genetica; l’Afghanistan era una specie di tesoro da questo punto di vista e mai avremmo immaginato che in futuro quei semi avrebbero avuto anche questa funzione”. Così raccontava Hawtin alla rivista Science, lui stesso stupito della sua fortuna: poco tempo dopo sarebbero arrivati i sovietici e con essi l’inizio di decenni di guerre e distruzioni, durate finora. Nei secoli dunque gli agricoltori afgani hanno trovato i migliori equilibri tra la stupenda varietà del territorio (che è tutto fuorché arido, come molti credono erroneamente, fidandosi delle sole immagini televisive) e le varietà vegetali, le quali vennero selezionate sia in rapporto alla loro resa, sia per le doti nutritive e gustative. I contadini “sapevano che su quel tale versante di una collina andava piantata una particolare varietà, ma che sull’altro lato non sarebbe venuta su altrettanto bene”, spiega Hawtin, “e avevano diversi tipi di piante per particolari preparazioni culinarie”. I semi raccolti in quegli anni andarono a formare una banca conservata nell’Afghanistan stesso, ma finirono distrutti nel 1992. Per fortuna e lungimiranza, tuttavia, queste banche vengono sempre duplicate e una delle fonti cui attingere è appunto l’Istituto internazionale Icarda di Aleppo. Il ritorno dei vecchi semi alla terra di origine si è accompagnato peraltro a un progetto più esteso: verranno sperimentate sul campo altre varietà, che hanno dato buona prova di sé in paesi con analoghe condizioni geologiche e climatiche. E con i semi si sono attivati dei gruppi di esperti per realizzare insieme ai coltivatori locali delle coltivazioni sperimentali, controllando rese e qualità dei raccolti e confrontando i vecchi semi con i nuovi: riparte insomma, con il sostegno delle ricerche più avanzate, il millenario processo di sperimentazione agricola, interrotto da guerre e siccità. Questa storia breve deve far pensare. Intanto ci ricorda quanto la biodiversità, creata in milioni di anni dall’interazione tra le specie e il loro ambiente (a sua volta in continua evoluzione) sia una ricchezza preziosa per l’umanità, e non solo per aspetti culturali o romantici, ma ai fini del cibo e del cibo buono e adatto. Per questo le banche dei semi disseminate per il mondo sono risorse preziose per il futuro della nostra specie e tanto più lo diventeranno con l’accelerarsi dei cambiamenti climatici: in quei “magazzini” e frigo di sono dunque molte delle risposte non solo ai problemi di alimentazione del passato ma anche del futuro. E si tratta di risposte ben collaudate, di solito assai più robuste e affidabili di quelle che possono scaturire dalla manipolazione del patrimonio genetico delle piante. In Italia in particolare esiste ( o forse bisognerebbe dire esisteva?) una di questa istituzioni, l’Istituto del Germoplasma di Bari, Con uno staff di oltre 40 dipendenti, principalmente ricercatori e tecnici, costituisce l’unica banca genetica italiana, la seconda in Europa e la nona al mondo, su oltre 1300 banche genetiche esistenti (dati FAO); l’IG, tra l’altro, è una delle quattro banche genetiche del mondo, insieme a San Pietroburgo-USSR, Beltsville-USA e KyotoGiappone, che conserva ex situ una collezione mondiale di frumenti coltivati e selvatici (oltre 20.000 campioni). Da tempo tuttavia è a rischio, e anche di questo occorre ringraziare la ministra Moratti e i riformatori del Cnr. Come segnala allarmato il senatore Fiorello Cortiana: “Si rischia di perdere il materiale genetico conservato nell’unica banca italiana a causa della cattiva manutenzione degli impianti”.
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Mettili in banca
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Nell’attesa che il Cnr si svegli, anche sollecitato da un ordine del giorno già approvato dal Senato, va notato anche un altro aspetto importante delle banche dei semi: come dimostra la storia della ripopolazione di piante in Afghanistan, conservare per le generazioni future i semi (il patrimonio genetico) è solo il primo passo, necessario ma non sufficiente, dato che per poterli reimpiegare occorre che insieme ad essi sia tramandata anche la sapienza contadina. I quali contadini oggi, secondo le multinazionali dei semi dovrebbero essere considerati dei semplici utenti e clienti dei semi acquistati, ma che invece non sono mai stati solo degli utilizzatori quanto piuttosto degli attivi manipolatori, selezionatori e adattatori. I 4-5 mila di loro che a fine ottobre confluiscono da tutto il mondo per il grande incontro internazionale chiamato “Terra Madre”, organizzato da Slow Food, sono l’esempio vivente di questa sapienza orale incarnata nelle pratiche quotidiane e tramandata da una generazione all’altra. Sono, per così dire, l’altra faccia dei geni: natura e cultura devono viaggiare assieme e reciprocamente si alimentano, è il caso di dirlo. ●
Gli ultracorpi tmosfera ovattata e distesa, una bilancia pachidermica, nessun odore di disinfettante. E’ il primo impatto con l’Inrca, Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico, sulla via Cassia a Roma. Un ospedale pubblico, unico in Italia, che si occupa di obesità. Al secondo piano, sede dell’Unità Operativa Complessa di Endocrinologia e Malattie del Ricambio, donne e uomini di stazza rimarchevole fluttuano verso il carrello del cibo come se avessero avvistato l’Eldorado. Sembra l’interno di un quadro di Botero. Destreggiandosi fra pazienti e infermiere, ricette e telefonini, il professor Felice Strollo (Felix per gli amici) sfodera un sorriso a prova di centochilista depresso. “Per aiutare un obeso - dice - molto dipende dall’approccio”.
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di Geraldina Colotti VIAGGIO IN UNA CLINICA DI ROMA CHE CURA L’OBESITÀ. LA CRESCITA ESPONENZIALE DI UNA MALATTIA Romano, 54 anni portati con stile e ironia, Strollo è il direttore del reparto e lavora all’Istituto dal ’76. Il suo, professore, è un osservatorio privilegiato sulla malattia più diffusa al mondo, l’obesità, che oggi colpisce anche i paesi poveri. Può darci qualche numero?
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Quasi un’epidemia. Le statistiche dicono che una cospicua percentuale degli oltre 300 milioni di obesi censiti nel 2000 (a fronte dei 200 milioni registrati nel ’95), proviene dal Terzo Mondo. In Italia, secondo l’Istat, gli obesi sono ormai 4 milioni (il 9% della popolazione). Un maggiorenne su tre (33,9%) risulta in sovrappeso, uno su 10 ricorre alle diete per tornare in linea.
fra i grassi circolanti – con aumento dei trigliceridi – e cresce così il rischio cardiovascolare. Nel 2001, la maggior parte degli ottantamila decessi verificatasi in Italia per malattie cardiovascolari erano dovuti all’obesità. Ma con un’adeguata educazione terapeutica e alimentare, con determinate medicine che sensibilizzano il corpo all’insulina, e con l’attività fisica, i pazienti ottengono ottimi risultati.
Che tipo di popolazione si rivolge all’Inrca? Attirati dal passaparola, qui vengono pazienti di ogni età e noi visitiamo tutti, ma il nostro intervento è principalmente rivolto agli ultrasessantacinquenni. Abbiamo appena avviato, a tale proposito, uno studio pionieristico ambulatoriale, una ricerca olistica sui processi d’invecchiamento maschile in ambito endocrinologico: la menopausa dell’uomo, insomma.
Si calcola che l’obesità sia aumentata in Europa tra il 10 e il 40% nell’ultimo decennio, del 25% in Italia e del 50% negli Stati uniti nel corso degli ultimi 5 anni. Le risulta? Dagli anni settanta a oggi ho visto la percentuale di obesi crescere in modo esponenziale. Aumenta di più l’obesità non primitivamente endocrina, legata a condizioni alimentari o genetiche. Gli uomini sono più in sovrappeso delle donne (42% circa contro il 26%), ma per l’obesità c’è meno differenza. Il dato più preoccupante riguarda l’infanzia, che resta grassa anche in età adulta: a fine anni sessanta era obeso il 6% dei bambini, oggi si arriva al 25% circa. Constato ora una disposizione al grasso tipicamente addominale in entrambi i sessi, fenomeno prima non si riscontrava così di frequente. Oggi i bambini mangiano in continuazione e stanno troppo tempo seduti. Invece, i disturbi patologici del comportamento alimentare come anoressia e bulimia – che preferiamo demandare alla collaborazione con gli psichiatri – rimangono all’incirca stabili. Tendono, però, a interessare anche fasce d’età post adolescenziali e un numero crescente di maschi: la crisi dei ruoli tradizionali, probabilmente.
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Può anticipare qualche dato?
«E’ prematuro. Per ora, attraverso un questionario, registriamo i sintomi decisamente più sfumati nell’uomo rispetto alla menopausa femminile – per costituire un database. Proponiamo 17 quesiti che riguardano il corpo, la sessualità, il comportamento, la prontezza mentale, che rivolgeremo anche ai cinquantenni. Poi monitoriamo nel tempo l’andamento generale degli ormoni. Intanto, facciamo circolare l’idea che esiste un luogo in cui anche un uomo può essere ascoltato in questa fase particolare, senza dover reggere il ruolo del macho ultrasettantenne, peraltro inesistente. In che misura il comportamento alimentare può influire sul processo d’invecchiamento ormonale? Se una persona è veramente obesa – per esempio un maschio con un indice di massa corporea superiore a 35 – il rischio che la funzione gonadica ne risenta è forte. C’è da tener pressente, comunque, che in età avanzata, in genere, interviene una fase catabolica, si tende ad assorbire meno e a bruciare di più. Ma l’obesità dell’anziano è ancora poco conosciuta. Sono circa 5 milioni gli ultrasessantenni obesi o in sovrappeso, ma spesso l’accumulo di grasso è solo un problema di cattiva nutrizione. Oggi, l’11,5% degli italiani, segue una dieta. E il ricorso a un regime alimentare dimagrante sale con gli anni: quasi il 7% fra i 18 e i 24 anni, circa il 18% tra gli anziani.
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Trent’anni di ricerca sui comportamenti alimentari. Che risultati ha ottenuto? Positivi, direi, soprattutto in merito al problema della resistenza all’insulina. E’ ormai acclarato che, spesso, man mano che aumenta il grasso corporeo, aumenti la resistenza del corpo all’azione di un ormone - l’insulina -, regolatore della glicemia. Ora, se il corpo resiste, a parità d’insulina, il livello della glicemia può elevarsi fino a provocare il diabete, dunque l’organismo si difende e aumenta la produzione di insulina per quanto può. In questo modo, la glicemia resta nei parametri, ma si paga uno scotto: il tessuto adiposo imbarca più grassi (perché questo è il compito dell’insulina), la pressione si alza, possono alterarsi i rapporti
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I giornali dispensano consigli per dimagrire in fretta, nei supermercati abbondano i cibi light, che assottigliano più che altro il portafogli. Qual è il regime alimentare più pratico e efficace? Quello che non fa miracoli e non fa arricchire i dietologi. I giornali, oggi, calcolano la quantità di calorie meglio di noi specialisti. Ma, dopo le dietelampo, l’organismo riprende il doppio dei chili. Funziona così anche con le anfetamine, che attenuano il senso di fame ma non sono risolutive né, tanto meno, educative. Noi, invece, prima di tutto facciamo un patto di non belligeranza con il paziente, basato sul rapporto fra qualità e quantità, bilanciando gli alimenti ad elevato potere nutritivo con quelli che soddisfano il palato. In media: colazione leggera (mai saltarla), senza zucchero per chi è in sovrappeso. A metà mattina e a metà pomeriggio, sempre un frutto (perché contiene fibre e vitamine); pane e pasta vanno equilibrati fra pranzo e cena, carne, pesce, formaggi leggeri devono essere alternati, e ci vuole sempre la verdura. Fondamentale, l’attività fisica, che va praticata ogni giorno e senza strafare. Pedalare dieci minuti sulla cyclette a ritmo forsennato, se si scampa all’infarto, ser ve magari a diventare come Bartali, ma non fa perdere davvero peso. Ci vuole costanza e moderazione, invece pedalando lentamente per 20-30 minuti al giorno. Un po’ noioso, forse, ma efficace. ●
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i fa presto a dire cuoco. Cuoco è lo chef del ristomigliori del territorio nel quale vi stato recando. Ci sono libri e rante di lusso nelle Langhe ma anche il “trattore” guide di qualità, per tutti i gusti e per tutti i redditi che possono dell’osteria di Trastevere. C’è il cuoco di bordo nella accompagnarvi, anzi guidarvi nel viaggio. Non si spende di più e nave da crociera e l’avvelenatore alla mensa della non si “perde tempo” se a ogni libera uscita ci si occupa di riforgrande azienda metalmeccanica. Poi c’è il cuoco o nirsi di prodotti di qualità, se preferite chiamateli biologici: olio, la cuoca di casa, non necessariamente casalingo/a, semplicemente vino, pasta, riso, marmellate, milele, verdura, frutta, carne, salsicchi prepara la cena per sé, per la famiglia e talvolta per gli amici. Il ce (pesce, se il rientro a casa sarà rapido e/o se siete forniti di frigo problema che si pone nella grande come nella piccola ristorazioportatile), peperoncino, origano, zafferano, cipolle, bottarga, ne di prestigio è lo stesso che si pone tra le mura domestiche: la legumi... A chi scrive, ormai da anni non capita di tornare a casa qualità dei prodotti da trasformare in piatti succulenti. da un viaggio di lavoro o di piacere a mani vuote. L’approvvigionamento, insomma, è la prima tappa del lungo In questo modo, andando alla fonte e cioè al produttore, diventaviaggio che termina a tavola, anzi, con le gambe sotto il tavolo, no accessibili al cuoco casalingo senza impegnativi conti in banca come si dice a Roma. prodotti di qualità che viaggiano sul mercato e nei supermercati a Una volta, quando i nostri vecchi non conoscevano il termine prezzi decisamente più elevati, dunque insostenibili. Certo, biso“biologico” parlavano di cibi genuini, intendendo con questo tergna dedicare tempo e attenzione al rifornimento della credenza mine prodotti di base di origine certa da usare in cucina. Meglio, alimentare ma di questo abbiamo già parlato prima. si diceva “nostrali”, o “nostrani”, cioè provenienti dalle “nostre Direte: non tutti viaggiano in automobile, non tutti si possono terre”, conosciuti perché conosciuto il territorio, e il produttori permettere di dedicare molto tempo a occuparsi della credenza. (come la mucca del Parmigiano Reggiano a cui è impedito di Qualche viaggio ogni tanto si può anche fare ma la routine del mangiare l’erba del vicino: “Non sappiamo cosa mangia...”, recita lavoro e della vita metropolitana impone regole e vincoli. Ecco la pubblicità). allora qualche suggerimento. Se in un viaggio avete trovato un In un’era di globalizzazione come quella in cui viviamo, cuciniaottimo produttore di vino o di lenticchie, informatevi sulla possimo e mangiamo, il rapporto con il territorio nell’approvvigionabilità di effettuare ordinazioni da casa per ricevere quei prodotti a mento alimentare resta importante. Ciò non vuol dire che la domicilio. Se poi non avete tempo o voglia di viaggiare in autocicoria o il cotechino, le salsicce o i buoi debbano essere esclusivamobile o non avete la patente, navigate in casa. Navigate in intermente dei paesi tuoi. A volte nel campo del vicino l’erba è più net. Scoprirete prodotti di qualità, biologici, nostrali o chiamateli verde e più saporita di quella di casa tua, la carne di manzo è come vi pare, accessibili con ordinazioni on line. Navigando può migliore in Maremma o nel Chiantigiano che non in Emilia o in capitare di imbattervi in siti curiosi e appetitosi attraverso cui Veneto, la pecora abruzzese lascia al palo quella trentina e via acquistare ogni ben di dio o magari prenotarvi un fine settimana comprando e mangiando. E siccome a differenza dei tempi dei in un agriturismo dove imparare nuove, antiche ricette. nostri vecchi ci si muove in continuazione, si passa il tempo a Un esempio? Sotto la voce www.adottaunapecora.it troverete la sconfinare nei prati altrui, nulla ci impedisce di prendere il possibilità di prenotare escursioni nella natura abruzzese o di meglio là dove il meglio viene prodotto. Ci soffermeremo su quecomprare pecorino classico, tenero, spalmabile in barattolo, alle sto aspetto, lasciando ad altri il compito di raccontare come erbe aromatiche e anche salamelle di tratturo, miele, confetture e affronta il problema chi non ha “tempo da perdere” nella propria sciroppati, ricottine al fumo di ginepro. E, naturalmente, un alimentazione ma vuole evitare di avvelenarsi o imbottirsi di pro“agnello peso medio di 10 kg intero alla romana: ÷/Kg 8,70 o dotti ogm: ovvio, si reca nel supermercato più vicino e si ferma al ÷/Kg 10,30 porzionato sottovuoto”. Troppi 10 chili? Mettetevi banco dei “prodotti biologici”, veri o falsi che siano, così sentend’accordo con un amico, ma un amico/a che sia poi capace di dosi a posto con la coscienza, meno con il portafogli, e risparcucinarlo come si deve, l’agnello. Non vi piace l’agnello e preferite miando più tempo possibile, da bruciare poi in stress e lavoro. la carne di manzo argentina? Non c’è problema, un’altra carne è Dunque, occupiamoci di chi non ritiene possibile: fatevi amico qualcuno che abbia perso il tempo speso per migliorare la qua- di Loris Campetti addentellati con l’ambasciata di un paese lità della propria vita, una cui componente latino-americano e avrete risolto il probleessenziale è il cibo. Dicevamo, passiamo il ma. Anche in questo caso dovrete organiztempo a viaggiare. Spesso in automobile. L’APPROVVIGIANAMENTO zare acquisti di gruppo, ma che problema Prima regola: mai andare in vacanza, a un c’è? Dovrete imparare a distinguere e cuciconvegno, a un’assemblea, a trovare un DI CIBI “NOSTRALI” nare le diverse parti della mucca, perché no? amico senza aver messo nel cofano della Non so voi, ma per quanto ci riguarda occuvettura un paio di damigianette da cinque O “NOSTRANI” O DEL parci da cuochi non professionali di migliolitri, indispensabili per acquistare vino o rare le nostre prestazioni in cucina utilizzanolio di qualità. In sostanza, prima di affron- CRUCIALE RAPPORTO do prodotti di qualità è un piacere, un tare un viaggio dovrete dedicare un po’ di gioco, prima che un impegno o una fatica. E tempo a studiare quali sono i prodotti CON IL TERRITORIO un po’ di gioco, nella vita, non guasta. ●
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ra poco più di un mese, ai primi di dicembre, un certo numero di società che producono beni di consumo nel settore alimentare potranno incominciare a sfoggiare sulle loro etichette l’orgogliosa scritta “Fornitore ufficiale del Cremlino” – il che, in un paese intriso di nazionalismo e di reverenziale ammirazione per il potere come la Russia, potrebbe essere un passaporto non da poco per sfondare sul mercato. L’iniziativa, opera di una neonata “Gilda dei fornitori del Cremlino” con il patrocinio del Dipartimento per le proprietà del Cremlino stesso, vorrebbe ricollegarsi all’antica istituzione dell’epoca zarista, quando un certo numero di aziende avevano lo status di “Fornitore della Corte di Sua Maestà imperiale”: adesso che di nuovo al Cremlino c’è qualcosa di paragonabile a Sua Maestà imperiale (sia per potere che per prestigio) l’idea sembra poter funzionare. Tanto più che il privilegio di mettere l’ambito titolo in etichetta non sarà gratuito ma verrà conferito dietro pagamento di “una tariffa ragionevole”, per usare le vaghe parole di uno dei dirigenti della Gilda: chiaro che alla fine anche l’amministrazione presidenziale avrà il suo tornaconto. Ma quali saranno i prodotti che potranno vantare ufficialmente anche Vladimir Putin tra i propri consumatori abituali? Venticinque marchi hanno già presentato la domanda (accompagnata dal relativo “ragionevole” assegno): guardacaso, con l’unica eccezione della DaimlerChrysler, si tratta di sole aziende produttrici di bevande; e tra queste, con l’unica eccezione della PepsiCo, ci sono solo aziende produttrici di bevande alcoliche (nonostante il fatto che Putin sia notoriamente astemio). La vodka domina il campo, come si poteva ben pensare, con tutti i maggiori produttori nazionali a sgomitare per ottenere l’agognato marchio da mettere in etichetta; accanto, si trovano per ora grossi calibri dell’alcol internazionale come Hennessy (cognac e dintorni) e soprattutto Pernod Ricard (con le celebri omonime bevande all’anice, ma anche con moltissimi whiskies come Chivas, Glenlivet, Campbell, Jameson, di Astrit Dakli con il rhum Havana Club, il gin Seagram’s, per finire con l’amaro Ramazzotti. La competizione I NEOFORNITORI UFFICIALI fra le vodke si annuncia particolarmente furibonda. La bevanDEL CREMLINO, IL RITORNO da nazionale russa non può permettersi di non avere l’avallo IN CAMPO ALIMENTARE ufficiale del Cremlino, se questo viene elargito a qualcuno: già da DEL “MANGIA RUSSO” tempo le due case parentinemiche che si contendono il marchio più antico (la russa Smirnov e l’americana Smirnoff) hanno inserito nelle loro etichette la dicitura “Già fornitore della Corte di Sua Maestà imperiale”; chiaro che i maggiori colossi del settore come Kristall o Standart – i cui prodotti sono in maggioranza commercializzati a loro volta con etichette e presentazioni “imperiali”, aquile stemmi e bandiere – saranno i primi a diventare fornitori ufficiali del nuovo imperatore (Kristall ha appena messo in vendita una vodka premium con il nome di “Putinka”, se questo può dare un’idea), e le marche minori o locali seguiran-
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no per forza. La vicenda del marchio “Fornitore ufficiale del Cremlino” non è comunque frutto di un’iniziativa casuale. Essa si inserisce invece in due distinte tendenze del mondo commerciale russo: la più nuova è quella alla valorizzazione del prodotto nazionale, soprattutto in campo alimentare, dopo un decennio di assoluta esterofilia; la seconda, presente da tempo ma oggi in crescita esponenziale, è quella all’utilizzo di termini e simbologie evocatori di nostalgie – nostalgia sovietica ma anche nostalgia imperial-zarista, a volte combinate in inediti cocktail. Entrambe le tendenze sono esplicitamente alimentate dal Cremlino, per evidenti motivi politici; e se l’uso della nostalgia ha influenza soltanto sul clima commerciale generale, o sulla psicologia del consumatore, l’uso del “compra russo” ha effetti anche sul fatturato delle aziende. Anche perché trova un forte riscontro nei consumatori: un recente sondaggio dell’autorevole centro di indagini sociologiche moscovita Vtsiom ha mostrato che il 54% dei russi ritiene “non sicuro” dal punto di vista igienico-sanitario il consumo di alimenti importati dall’Unione europea, percentuale che sale addirittura al 67% per le importazioni dagli Stati uniti; per contro, il 62% ritiene che gli alimenti più sicuri siano quelli che contengono esclusivamente ingredienti prodotti in Russia. Non meraviglia che si stia rapidamente invertendo la tendenza, esplosa con la fine dell’Urss e l’arrivo del libero mercato, a privilegiare l’immagine “estera” dei prodotti, compresi quelli fatti in Russia. Il primo e più celebre caso fu quello dei biscotti Jubilejne, tolti dal mercato perché “troppo russi”, troppo diversi dai loro equivalenti occidentali (e poco graditi al palato dei manager stranieri arrivati alla testa dell’azienda che li produceva, acquistata da una multinazionale); dopo qualche mese, visto il crollo di vendite dei prodotti alternativi messi sul mercato dalla ditta, i gloriosi Jubileyjne furono ripristinati e oggi conoscono nuovi record di vendita. Seguì poi il caso del cioccolato: la Nestlé, dopo aver comprato una delle maggiori fabbriche di dolciumi russe e aver tentato di farvi produrre il proprio cioccolato al posto di quello “indigeno”, ammise l’errore, licenziò alcuni manager e rimise in produzione il glorioso cioccolato “Rossiya”, identico a prima per ricetta e confezione. Le vendite di Nestlé in Russia da allora (1999) sono aumentate in freccia, fino a sfiorare l’anno scorso il 25% del mercato complessivo. E sul fronte dei produttori russi, la musica è identica: la Wimm-Bill-Dann (che nonostante il nome esotico è un’azienda 100% russa) sta gradualmente russificando tutti i nomi dei propri prodotti (lattiero-caseari, derivati di frutta e tanti altri), che inizialmente, nei primi anni ’90, erano di suono inglese. E di pari passo aumenta la propria popolarità . Regolare quindi, date le premesse, che anche i punti bassi del rapporto politico tra Mosca e Washington siano di norma accompagnati da improvvisi blocchi “sanitari” dei prodotti alimentari che la Russia importa più massicciamente dagli Usa, come le ali o le cosce di pollo congelate: sono blocchi (il più lungo, nel 2002, durò oltre un anno, provocando un danno piuttosto grave agli esportatori americani, che mandano in Russia annualmente oltre un milione di tonnellate di prodotti avicoli e derivati) sempre motivati con infrazioni alle regole sanitarie russe e di solito accettati di buon grado dai consumatori, in nome di un patriottismo più facile da sfogare nei supermercati che tra i monti del Caucaso. ●
La mia credenza
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Putin da bere
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SCRITTO&MANGIATO
ndare a scoprire l’importanza della scrittura più privata che esista, quella effettuata su un diario, spesso segreto, corrisponde in qualche modo per la letteratura al cercare le origini del cibo che si mangia e di quello che si desidera. Per paradosso, varrebbero gli stessi slogan che valgono per il cibo di qualità, secondo stereotipi di una tradizione neanche troppo remota. La scritta “cucina casalinga” (o “casareccia” a seconda della zona) sull’insegna di antiche osterie o di spartane gargozze, ha sempre esercitato un fascino rassicurante su un pubblico numeroso e popolare (e sarebbe divertente indagare se le “trattorie dei camionisti”, artificiali ormai come il boom motoristico nazionale cui si rifacevano, possano essere invece paragonate alle collane rosa in edicola). La letteratura diaristica, e tutta quella vastissima produzione scrittoria che vi fa capo, ha insomma diritto a pieno titolo a un marchio “bio”, meglio della ruchetta smozzicata che certe signore si contendono nei centri naturistici. Ha l’impellenza doc di fatti ed emozioni che l’autore del diario ha dovuto scrivere quasi a forza, seppure in quella forma intima e privata. Quell’importanza dei diari l’ha capita tanti anni fa Saverio Tutino, che di “diari dal vivo” ne aveva visti vivere tanti con i propri occhi, frequentando come inviato dell’Unità prima e poi di Repubblica diversi eroi del secolo appena passato. E la sua costanza e il suo lavoro hanno fatto entrare di diritto questa nuova branca nell’industria editoriale italiana. Non solo per i best seller che via via questo scouting ha partorito, ma per le radici che lo scrittore ha saputo innervare nella cittadina che oggi è quasi più conosciuta per questa attività (dall’archivio nato e sviluppatosi nel frattempo, al premio annuale) che per la propria storia e la propria economia. Pieve Santo Stefano (Arezzo) è l’ultimo comune toscano alle falde dell’appennino romagnolo, sotto la montagna e il passo di Verghereto, e le sorgenti del Tevere sul Fumaiolo, che la retorica mussoliniana caricò di scritte e ambizioni infauste. Ma l’antico borgo oggi è completamente trasformato: fa impressione, arrivando dai centri vicini che hanno l’aspetto e il fascino medievale di Anghiari, Sansepolcro o Caprese Michelangelo, vedere il centro tutto moderno e “ricostruito”, quasi fosse stato distrutto da un terremoto. Tanto più che pochi metri più in là, la diga di Montedoglio quando il livello del bacino del Tevere scema, mostra le vestigia e i manufatti che sono stati allagati in cambio dell’irrigazione ai campi. La tragedia vera della Pieve è stata l’occupazione nazista, alla fine della guerra di Liberazione. La città era stata completamente minata al momento dell’abbandono della “linea gotica”, e quando partigiani e sfollati vi tornarono, trovarono solo macerie. Una bella e straziante mostra fotografica ha testimoniato il mese scorso, in occasione del Premio dedicato appunto ai diari, quel momento tragico e incredibile. Poi c’è stata la “modernità” rappresentata, dopo la ricostruzione, dal fatto che il paese era la patria di Amintore Fanfani, così che quello di Pieve Santo Stefano è stato il primo tratto ad essere ultimato della supertrada E45 Orte-Ravenna, quando ancora si chiamava E7.
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di Gianfranco Capitta LA LETTERATURA DIARISTICA CHE MERITEREBBE UN PREMIO E UN MARCHIO “BIO”. SEMPRE CON MOLTO GUSTO
di Gi. Cap. MEMORIE DI UN ASCOLTATORE DI DIARIO. TRA AUTORI SCONOSCIUTI E ATTORI DI TEATRO
Il diario cucinato Oggi però tutti quelli che arrivano da fuori associano il nome della Pieve ai diari, quelli che Tutino ha fatto diventare un genere letterario, e da cui Nanni Moretti ha prodotto una intera serie di piccoli film. L’archivio, trasformato e organizzato oggi come onlus in Fondazione Archivio Diaristico Nazionale, ne ha raccolto fino ad ora 4487. Tutino ne è il direttore culturale, ma uno staff vi lavora tutto l’anno, e nel 2004 si è festeggiato già il ventennale. Diverse case editrici hanno avviato collane di diari, da Giunti a Baldini & Castoldi, da Einaudi a Mursia, e ora Terre di mezzo. Fitta è diventata la rete di relazioni internazionali con centri che svolgono una attività similare, francesi spagnoli tedeschi e perfino finlandesi. Nei giorni del premio, a settembre, una serie di “cantieri” ha raccolto a confrontarsi sui diari non solo lettori e autori, ma esponenti di tutte quelle discipline che dalla diaristica sono chiamati in campo, dagli storici agli antropologi,
dagli operatori sociali (è inimmaginabile cosa significa tenere un diario in carcere, per fare un esempio) agli artisti di diverse discipline. Ed era quella atmosfera, fatta di un coinvolgimento generoso ma anche di una attenzione “scientifica” a fatti piccoli piccoli, a dare il profumo tutto particolare del premio. Le piccole storie di ognuno, anche quando all’apparenza non si intrecciano con i grandi avvenimenti della storia collettiva, hanno una forza e una solidità che non è più corrente dentro la nostra programmatica perdita di memoria. Nella maggior parte dei casi poi, i dati autobiografici sono legati esplicitamente alle cronache, e ancora più forte lì scatta vivida la testimonianza dal vivo. Magari inconsapevole, perché i fatti narrati o annotati sul diario non hanno ancora assunto la loro valenza storica. Ma il rispetto della esperienza di ognuno qui è una legge inderogabile. Quella appunto che dà quel gusto che si diceva, essendo l’aria di questo premio
(trattandosi di inediti) libera da case editrici, supporter e uffici stampa. L’incontro con gli autori dei diari, o con i loro parenti che li hanno proposti, avviene pubblicamente, nella piazza di Pieve Santo Stefano. E quel profumo si mescola inevitabilmente con quello del tortello e delle verdure gratinate, e del vino che in quei giorni celebra la sua vendemmia. Tutti gli appuntamenti con la letteratura diaristica sono abbinati alla Pieve con quelli con la tradizione culinaria dell’alta valle del Tevere. Magari sulle tovaglie distese sui prati, mentre un coro e una fisarmonica fanno da sottofondo e accompagnamento al vagare della memoria. Perché come quei cibi succulenti della tradizione contadina, anche la memoria è un organismo che è difficile modificare, se la si sta a sentire con onestà. Basta ascoltarla, come sgorga dalla scrittura di chi ne tracciava il percorso, nel privato del proprio diario, tanto tempo fa. ●
li organizzatori degli altri premi letterari dovrebbero venire qui a imparare come si crea e si conduce un premio: massima sobrietà nella forma e massimo del piacere quanto al cibo e al bere, protagonisti unici e assoluti gli autori dei diari, coccolati e festeggiati gi à per il solo fatto di aver voluto mettere in comune quel loro pezzetto di intimità. Di solito i “diaristi” giungono con le famiglie, e sono i primi a meravigliarsi di tante attenzioni. Spesso a presentare quei diari non sono gli autori che magari non ci sono più, ma i familiari che avendo ritrovato quelle scritture in qualche angolo di casa, ridanno vita ai loro cari facendone conoscere la scrittura. A vincere il premio quest’anno è stata una signora di Baucina, nella provincia di Palermo. Si chiama Antonina Azoti, e
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subito dopo la guerra, quando aveva solo quattro anni, le fu ucciso dalla mafia il padre, sindacalista. Quell’evento ha segnato la sua infanzia, come racconta nel suo diario. La obbligò a censurare il cappotto rosso appena ricevuto per essere immersa come tutta la famiglia e la casa nel nero del lutto. C’è voluto molto tempo per lei per uscire dal mistero di quella morte, e forse anche dalla ìvergognaî che per quella morte oscura un ambiente omertoso le faceva pesare. Il diario le è servito anche a questo, a ridare spessore e grandezza al padre ucciso, e a ristabilire i contorni della tragedia sociale e civile che con la cultura mafiosa grava sull’isola come maledizione ineluttabile. I diari di Pieve Santo Stefano sono così: insegnano la memoria e la storia parlando di cose piccole e private. Altrettanto sconosciuti sono i loro autori, almeno
Cappotto rosso finché non si presentano alla Pieve. Quest’anno però due nomi noti tra i concorrenti c’erano: Piero Umiliani (il suo diario è stato portato dalla figlia Elisabetta) musicista indimenticabile di cento canzoni e di mille film, e un volto notissimo che pure ha rinunciato polemicamente al mondo dello spettacolo cui appartiene, Liù Bosisio. Attrice dal volto e dall’espressività inconfondibile, ha segnato tanta televisione (dei ragazzi e degli adulti) e tanto teatro importante, come tutta la prima stagione di Ronconi, oltre al teatro politico di cui portabandiera. A lei, che racconta in tre momenti la propria vita come un romanzo, dall’adolescenza nella periferia milanese al successo e all’impegno, non si può fare a meno di chiedere come coesiste in un attore che ogni sera si esibisce in pubblico il fatto di scrivere
un diario tutto per sé. “Non è tanto importante perché l’ho scritto, ma il motivo per cui lo rendo pubblico: non amo più il teatro, e non voglio più farlo, e questo è il mio ultimo monologo. Nel momento in cui lo do agli altri, diventa linguaggio teatrale, anche se non c’è un palcoscenico. Chi lo leggerà nell’archivio dei diari, sarà in ogni caso un ascoltatore. Il diario reso pubblico chiude un periodo, come si chiude una parentesi. Nel diario si riesce a condurre una introspezione, ti aiuta a dire cose che altrimenti non esprimeresti in pubblico, per educazione o per pudore. Recitando sembra di scrivere sull’acqua, nel diario sono pienamente e solo Liù”. E’ lucida e decisa nel dirlo, ma speriamo che un giorno si ricreda e ce lo reciti dal vivo: sarebbe uno spettacolo indimenticabile. ●
Aldo Biasi Com
Dall’anno scorso i nostri prezzi non si sono mossi di un centesimo. E non li lasceremo liberi fino alla fine del 2004.
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di Geraldina Colotti UN CONIGLIO IN PIENO CONFLITTO DI INTERESSE E MUCCHE CHE FUGGONO, ALLA FINE MEGLIO UNA CENA IN MENO
n gioco per libere associazioni, digressioni o rovesciamenti tra le pagine di libri “da mangiare”, piluccati tra le novità editoriali. A far da spunto, il volume Incontri con la Sfinge, di Stefano Bartezzaghi (Einaudi), che contiene gustosi palindromi e anagrammi anche di risonanza alimentare. “Dieta integrale”, diventa per esempio “Tragedia latina”. E verrebbe da pensare a Rutilo, lo spiantato, che andava comunque in cerca di piatti sopraffini, di cui Giovenale racconta nelle Satire (Bur, trad. di Luca Canali). Nella Satira XI, il poeta suggerisce all’amico Persico che le cene grandiose bisogna lasciarle a chi ha i soldi, ma che la qualità egli potrà trovarla anche sulla più modesta tavola del poeta: capretto, asparagi, uova e frutta della migliore, l’alimentazione degli antichi che molti nutrizionisti considerano ancora ideale e bilanciata. Oggi, invece, tra additivi e biogenetica, per orientarsi, servirebbe il Manuale del piccolo chimico. Mangio, dunque sono, ribadisce il volume Del gusto e della fame, a cura di Brunella Antomarini e Massimiliano Biscuso (Manifestolibri). Una raccolta di saggi a carattere interdisciplinare, che porta a riflettere sull’identità sociale di chi, nel mondo globalizzato, si nutre per gusto o per bisogno, o seguendo i consigli pubblicitari. Ma poi, si può ancora mangiare bene spendendo poco? Nel secondo volume di Cuochi si diventa (Feltrinelli), Allan Bay, entra per così dire “coi piedi nel piatto” di questo “grande dibattito del mondo della cucina”. E dice che no, non si può: almeno non al ristorante, dove la buona qualità implica anche più costi all’origine, compresi quelli di una maggior disponibilità di personale. Meglio, dunque, andare a cena fuori una volta di meno, che prendersi fregature. Chi non può andarci per niente, può sempre divorare libri o giocare con le parole, porgendo… distinti salumi. Per vedere bene le cose del mondo, bisogna guardarle alla rovescia, ha scritto Baltasar Gracián. Una tecnica che il gruppo Elio e le storie Tese ha impiegato in musica. Ora Elio si cimenta con la scrittura, e pubblica da Bompiani un libretto surreale, Fiabe centimetropolitane. Storie di crostacei, pennuti, struzzi o mucche dai gusti particolari. Fra le più riuscite, quella del “Coniglio che aveva un problema di conflitto di interessi” poiché era amministratore delegato di una società che produceva e commercializzava carne di coniglio. Una società all’avanguardia nell’allevamento dell’animale, a cui forniva tutto ciò “che un coniglio può desiderare nella vita: cibo, acque, conigliette, servizi sanitari in regola con le norme comunitarie”. Solo che, prima o poi arrivava il momento della macellazione, a cui l’amministratore delegato riusciva sempre a sottrarsi. Un giorno che, per errore, venne messo nel gruppo da macellare, ebbe un momento di panico, ma disse all’addetto: “Guarda che ti licenzio” e quello, per paura di per-
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Libri da mangiare dere il posto, non lo macellò. E quando alcuni avvocati sollevarono la questione del conflitto di interessi, vi fu un’impennata nella richiesta di carne di coniglio e quelli finirono arrosto. Stessa sorte toccò ai sindacalisti che, dietro quell’impennata, sentirono puzza di bruciato… Chi voglia conoscere il seguito senza attendere la … prossima impennata, può consultare queste Fiabe centimetropolitane che, dice l’autore, “intendono iniziare il fanciullo alle difficoltà della vita moderna”. Capre che urlano e mucche che fuggono sentendo parlare di “bistecchina”, anche nella nuova collana umoristica dei Rimbambini. Ideata da Claudio Comini e Orazio Minneci e disegnata da Stefania Colnaghi, è proposta dalla De Agostini ai lettori dai 12 anni in giù e con una Pelikan Scrivi-cancella-riscrivi in regalo. Una delle cinque avventure, vede i Rimba protagonisti di una Superfesta di compleanno. Pasticcini, salami, una torta con… candelotti e una squadra di ciccioni che, “dopo aver ingurgitato cibo come tanti camion dell’immondizia” decide di giocare a rugby sul prato di casa. Il disastro incombe e farà “spanciare dalle risate” i piccoli lettori.
Storie di cibo e fughe anche nella raccolta di racconti Terra mobile del siriano Yousef Wakkas, edita da Cosmo Iannone nella collana Kumacreola. Kuma, scrive Armando Gnisci, nella lingua bambara dell’Africa occidentale, vuol dire “parola”: parola che, per effetto dell’immigrazione, in Europa può diventare creola e assumere il significato di incontro. Ma l’incontro dell’immigrato africano, protagonista del racconto “Riso e banane”, col poliziotto che vuole espellerlo non sarà dei più semplici, proprio a causa di quella ricetta particolare… L’autore, detenuto semilibero nelle carceri milanesi per traffico internazionale di stupefacenti, racconta così anche col cibo il tempo del recluso, sospeso tra sogno e realtà, e ironizza sui paradossi di chi viene in Italia da immigrato. Come dire: risate a denti stretti (denti ristretti?). Un anagramma, citato da Bartezzaghi, mischia le lettere di sogno con quelle di realtà e trova la parola ergastolano... Tempo sospeso tra cibo e carcere, sogno e realtà anche nei diari di Albertine Sarrazin, francese di origine algerina, che concluse la sua breve vita di ribelle e scrittrice nel 1937, non ancora trentenne. La
via traversa è il suo terzo e ultimo romanzo, ora edito da La Tartaruga. Nei precedenti (La Cavale e L’Astragalo – Ancora del Mediterraneo -) Albertine racconta la sua infanzia di bambina abbandonata, la prostituzione, il carcere e l’evasione realizzata attraverso il fortunoso incontro col marito rapinatore, con cui dividerà l’esistenza. La via traversa, è il racconto del “fuori”, dei ricordi annaffiati con vini forti e cibi di lusso rubati al supermercato, delle cene immaginate insieme al marito, ancora detenuto. E per finire, La vivandiera di Montélimar, di Gianni-Emilio Simonetti (Derive Approdi). Un libro fra cibo e rivolta, arte e storia che parla della Comune di Parigi e di donne incendiarie. C’è anche la ricetta originale del “cervello dei canuts”: insegna a rendere appetibili i resti di formaggio, come facevano allora le mogli degli operi tessili scioperanti. Il nome della ricetta venne dato dai padroni per ironizzare sull’assenza di cervello dei canut, gli operai lionesi, incapaci di comprendere che, scioperando, ci avrebbero rimesso. Ma, intanto, qualcuno di quei canuts aveva già cominciato a dar fuoco alle barricate… ●
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