autocritica auto critica DA IMMENSO MERCATO DI AUTO PER GLI STRANIERI LA CINA DIVENTA GRANDE PAESE ESPORTATORE. UN DEJA VU INDUSTRIALE: SOLDI IN CAMBIO DI TECNOLOGIA. I CASI HONDA-GUANGZHOU E SAIC-MGROVER. UN PUNTO SULLE TURBOLENZE FIAT VIAGGI NELLE MOTORIZZAZIONI DEI DESIDERI
OMBRE CINESI
Dicembre 2004
Supplemento al numero odierno de il manifesto
IN QUESTO NUMERO
[4] HABO NUMERO UNO LA PULITA di Marco Sotgiu
FRANCESCO PATERNÒ
LALUNGAMARCIA AMOT TOREDELSIGNORLU
[6/7] DALLA TV ALLE QUATTRO RUOTE, LA CONQUISTA di Andrea Rocco
[8/9] L’HONDA SPAZIO CLONATO CHE COSTA 300 EURO di Guido Conte
[13] LA FIAT DAI PIEDI PICCOLI di Loris Campetti
[15] GIOIE E DOLORI DEI MANAGER FIAT di Carmen Gui
[18/19] DALL’IDROGENO ALL’IBRIDO IDEE SENZA PREZZO di Guglielmo Ragozzino
[21] DIESEL DELLE MIE BRAME di Massimo Tiberi
[23] DELOCALIZZARE MALE SOCIALE di Bruno Di Caprilia
[27] CI VOGLIONO FISICI BESTIALI di Luciano Lombardi
[29] LA TOPOLINO MANGIALIBRI di Geraldina Colotti
[31] AUTOMOBILISTICUS ECCE HOMO di Alessandro Robecchi
il manifesto direttore responsabile Sandro Medici direttore Mariuccia Ciotta Gabriele Polo supplemento a cura di Francesco Paternò progetto grafico e impaginazione ab&c grafica e multimedia immagine di copertina di Maurizio Ribichini stampa Sigraf srl Via Vailate 14 Calvenzano [BG] chiuso in redazione: 3 dicembre 2004
autocritica • il manifesto • [2]
P
rima a casa, poi il mondo. I cinesi amano pensare in grande e ci sarà pure un motivo per cui dallo spazio l’unica costruzione visibile sulla terra è la Grande Muraglia, monumento alla storia e alla tragedia umana. Dopo avere aperto il mercato interno dell’auto agli stranieri piazzando tanti paletti ma facendo sognare lo stesso i costruttori occidentali e orientali alle prese con problemi casalinghi di sovrapproduzione, la Cina ha adesso deciso di diventare un paese esportatore di automobili. Gli effetti li vedremo presto, ma intanto si può dire che con costi di manodopera intorno ai 2 dollari l’ora e niente sindacati, l’impatto di questa nuova rivoluzione sul mondo del lavoro fuori dalla Cina sarà preoccupante. Ombre cinesi. ***** A quasi 60 anni, Lu Guanqiu può essere considerato un precursore della Cina a quattro ruote che sarà. Per la rivista Forbes che annualmente recensisce i ricconi della terra, il signor Lu è il quarto uomo più benestante della Cina con una fortuna stimata intorno ai 650 milioni di dollari. Il suo Wanxiang Group è il secondo gruppo privato del paese, con un fatturato nel 2003 pari a 1,8 miliardi di dollari e 31.000 dipendenti. Lu ha iniziato nel 1969 con i trattori passando qualche guaio per la sua attività privata, erano altri tempi; con il cambio di marcia del comunismo cinese è diventato un apprezzato esponente del Partito e parlamentare. Dopo i trattori, Lu si è buttato sulla produzione di componenti per auto nella zona di Zhejinang, dove è nato e dove è più sviluppato il business privato. In affari con compagnie automobilistiche cinesi partecipate da stranieri – le miste sono una ventina, un po’ più di un centinaio quelle soltanto locali - ma anche con aziende all’estero, con un export pari a 380 milioni di dollari nel 2003. Il Wanxiang Group ha partecipazioni in 25 aziende straniere, le più importanti delle quali sono nella Rockford Powertrain e nella Universal Automotive Industries, entrambe basate in Illinois, Usa. Lu vende componenti auto alla Ford e alla General Motors, nonché a giganti della componentistica come Delphi e Visteon.
DISSE SUN TZU Da “L’arte della guerra” di Sun Tzu, edizione Grandi Tascabili Economici Newton: “In guerra conta vincere: lunghe operazioni spuntano le armi e abbattono il morale (...) In campo militare si è quindi sentito parlare di azioni forse goffe ma veloci, mentre non si è mai visto che un’abile manovra duri a lungo (...) Chi non comprende appieno i rischi di un conflitto non potrà comprenderne appieno i vantaggi. Chi sa ben condurre l’esercito non farà una seconda chiamata alle armi, e non ricorrerà a un terzo approvvigionamento. E’ solo prendendo l’indispensabile in patria e sfruttando le provviste del nemico che l’esercito avrà cibo a sufficienza (...) Il meglio del meglio non è vincere cento battaglie su cento, ma bensì sottomettere il nemico senza combattere. La suprema arte militare consiste nell’insidiare le altrui strategie; a ciò seguono, nell’ordine, la rottura delle altrui alleanze e l’attacco diretto all’esercito”.
In casa, Lu ha dovuto rallentare un po’ perché, dopo l’ingresso della Cina nel World Trade Organization (Wto) nel novembre del 2001, molto barriere protezionistiche sono cadute e i prezzi locali sono più alti di circa il 40 per cento rispetto a quelli della concorrenza straniera, causa (ancora per poco) una scarsa economia di scala. Il Wanxiang Group sta sperimentando componenti per auto a trazione elettrica e ad energie alternative, puntando su un miglioramento della qualità e forse sul sogno di fare un’auto tutta propria. Lu ha comunque visto lontano, perché l’export di componentistica auto è passata da un valore di 1,8 miliardi di dollari del 2002 a 2,4 nel 2003, secondo statistiche cinesi considerate conservative dagli analisti stranieri. L’obiettivo dichiarato dal governo è di raggiungere i 70-100 miliardi di dollari entro il 2010, cioè – per dare una misura – quanto gli Stati uniti hanno importato in componenti auto nel 2003 (75 miliardi di dollari). Volumi crescenti di parti di auto e presto di auto intere: secondo il viceministro dell’economia Wei Jianguao, la Cina si attende “un largo export di auto intorno al 2006 in quanto prezzi e qualità delle componentistica e delle auto qui prodotte stanno raggiungendo livelli internazionali”. ***** Nel 2005 dalla Cina comincerà a esportare la Honda, marchio giapponese che per primo ha creato in loco una joint venture di cui detiene il 65 per cento, mentre il 25 è della Guangzhou Automobile Manufacturing e il 10 della Dongfeng Motors, entrambe controllate dallo stato. Un accordo che può essere considerato il cavallo di Troia dei costruttori stranieri in Ci-
na. Perché finora la legislazione aveva ammesso solo joint venture al 50 per cento, obbligatorie per chi volesse mettere piede nel paese e produrre esclusivamente per il mercato locale. Ora, se un gruppo straniero ha la maggioranza di una joint venture, non solo governa meglio i suoi interessi ma è autorizzato a esportare. Da qui partiranno verso l’Europa 30.000 Honda
zione cinese non si metterà di traverso, stando a quanto avvenuto a Guangzhou. C’è chi obietta che i costi della logistica giochino a sfavore di un massiccio export di auto via mare fino ai lontani mercati europei e americani e che la qualità dei prodotti sia ancora troppo bassa per competere con quella dei produttori del nord del pianeta. Chi fa queste
ancora concessionarie a Roma o a Tokyo – ma su cui stanno lavorando velocemente. La tecnologia si acquisisce tramite le joint venture o si compra (in Cina ci sono oggi soldi veri), la qualità è in via di miglioramento continuo e non solo nel settore automobilistico, la rete di vendita si può trovare bella e fatta comprandosi un marchio già sul mercato di interesse. La Saic – Shangai automotive industry corporation – si sta prendendo il controllo della MgRover, sborsando 1,4 miliardi di euro attraverso il 70 per cento di una nuova joint venture insieme alla gloriosa ma malmessa azienda inglese. L’accordo operativo dal prossimo gennaio dopo l’approvazione da parte del governo cinese proprietario della Saic se non sorgeranno ostacoli all’ultimo momento – rappresenta una novità importante: è il terzo tipo di joint venture con stranieri ammesso da Pechino (dopo il classico fifty-fifty e il 65 per cento della Honda), il primo assoluto che permette ai contraenti sia di operare sul mercato cinese sia di esportare. La base dell’intesa è brutale: tecnologia in cambio di soldi, con il valore aggiunto della rete di vendita mondiale della MgRover necessaria all’export, cioè 53 importatori più 9 filiali presenti su cinque continenti. Parafrasando i Beatles, i Fabulous Four, i “quattro di Phoenix” - come vengono chiama-
Dalla componentistica alle auto complete, il sogno e il business dei cinesi è oggi esportare. Tendenze, numeri e accordi guidati da giganti statali come Saic, da quello di conquista della MgRover a quello con la Honda Jazz, un modello medio-piccolo comparabile con la Fiat Punto, che diventeranno 50.000 nel 2007 secondo il presidente della Honda cinese Hironori Kanayama. E’ la prima operazione di export in grande stile, dopo che all’inizio del 2004 la Volkswagen cinese aveva venduto alcune Polo in Australia e la General Motors cinese aveva spedito via nave sempre da Shangai 1000 Chevrolet Ventures nelle Filippine. Altre due aziende completamente cinesi, una privata – la Geely – e una statale – la Chery – avevano esportato nel 2003, la prima 500 macchine e la seconda 1200 in Medio oriente. E’ facilmente prevedibile che il passo della Honda avrà un seguito tra i costruttori stranieri, soprattutto se la legisla-
obiezioni forse conosce poco la determinazione cinese nel raggiungimento degli obiettivi e forse ignora il destino dei marmi di Carrara. Le enormi lastre estratte in Toscana vengono da tempo inviate in Cina per essere tagliate e da qui riesportate sempre via nave in tutto il mondo. Conviene, spiegano a Carrara, perché la lavorazione dei cinesi costa poco e perché – questa la novità che presto riguarderà tanti altri settori produttivi – viene assicurata un’alta qualità. ***** La Honda garantisce ai suoi partner cinesi tecnologia, qualità e rete di vendita per l’export. Tre punti su cui le fabbriche di automobili cinesi sono ancora deboli o assenti – non hanno
ti i quattro imprenditori del consorzio inglese che nel 2000 rilevarono i due marchi Mg e Rover per la somma simbolica di 10 sterline da una Bmw disperata - passeranno in qualche modo alla storia per aver spalancato per primi la porta dell’Europa ai cinesi. Enrico Atanasio, presidente della MgRover Italia, non nasconde la sua soddisfazione pensando a chi in questi anni difficili è rimasto al suo posto, dall’azienda ai concessionari: “L’intesa in via di approvazione è molto positiva, perché garantisce lo sviluppo della gamma di prodotti e premia chi ha tenuto duro”. La Saic è un gigante che scalpita. L’anno scorso è stata la prima azienda cinese ad acquistare una quota di un gruppo straniero, comprandosi il 10,6 per cento della Gm-Daewoo, sempre con l’obiettivo di acquisire tecnologia e nella prospettiva di avere una base produttiva in Europa (con la fabbrica Gm-Daewoo in Polonia). Poi, poco prima di firmare l’intesa con i “quattro di Phoenix”, si è portata a casa il 48,9 per cento della sudcoreana SsangYong, specialista nella trazione integrale, cioè tecnologia mancante al gruppo inglese. In patria, la Saic ha due joint venture paritetiche con Volkswagen e General Motors, con le quali nel 2003 ha piazzato 597.000 auto prendendosi il 29 per cento del mercato interno, pari a 2.307.344 unità. Nel 2004 si prevede la vendita di circa 3 milioni di macchine, ma il mercato non cresce ai ritmi degli ultimi due anni dopo che il governo ha dato un giro di vite al credito. Anche per questo, la Saic ha accusato nel terzo trimestre un calo degi ultili del 23 per cento, pari a 45,3 milioni di dollari. L’ambizione dei nuovi imperatori di Shangai è di entrare in quindici anni tra i primi sei costruttori mondiali di automobili, dopo che nel luglio scorso il gruppo è stato ammesso nella classifica della rivista Fortune tra i migliori 500 per profitti. Nel 2005 la Saic vorrebbe quotarsi alla borsa di Hong Kong, sarà la settima azienda a cinese a farlo. Nel 2006 chissà, ma è sicuro che ne sentiremo parlare ancora a lungo.
autocritica • il manifesto • [3]
MARCO SOTGIU
HABONUMEROUNO LAPULITA
La Cina, il paese più inquinato e più inquinante del pianeta, improvvisamente cerca una soluzione all’auto ecologica. Per forza e non per amore: ci sono idee confuse, molte speranze, uno strano progetto
A
autocritica • il manifesto • [4]
lle prese con la più insidiosa crisi energetica della sua storia (crisi da crescita accelerata), la Cina dei tecnocrati post-denghisti deve adesso scegliere quale strada prendere ma soprattutto su quale auto salire per percorrerla. Così, con il prezzo della benzina alle stelle, il paese più inquinato e inquinante del pianeta si ritrova a cercare una soluzione nell’auto ecologica, o almeno ci prova. Infatti per il momento le idee sono più che confuse e ancora una volta le grandi multinazionali sono da una parte allettate dall’enorme mercato cinese e dall’altra messe di fronte a scelte completamente divergenti. Insomma, il segno del dollaro luccica nelle pupille dei manager della Toyota, della Volkswagen, della General Motors, della Honda ma un fastidioso strabismo affligge quegli stessi sguardi. Anzitutto la questione del diesel: per i cinesi diesel è sinonimo di autobus puzzolenti e fumosi che alla fine della giornata lasciano i poveri ciclisti e pedoni completamente anneriti; oppure di vecchi trattori che a stento arrancano rumorosamente per dolci declivi e risaie silenziose. I ricercatori della Volkswagen (l’unica casa automobilistica a produrre in Cina auto a gasolio con la sua First Automotive Works-VW), esprimono tutta la propria frustrazione nel dover spiegare che invece diesel può essere sinonimo di efficienza e di risparmio energetico. Le autorità cinesi, senza escludere futuri investimenti sulle auto a gasolio, fanno capire in una recente direttiva di preferire piuttosto i modelli ibridi diesel-elettrici e così questo mese i tedeschi hanno presentato il modello di Golf ibrida “di quarta generazione” che in Europa è andato in pensione lo scorso anno.
Ma naturalmente il problema vero è che neppure le due citate sono soluzioni convincenti perché si basano comunque sul petrolio, di cui la Cina sta diventando il maggior acquirente mondiale per riuscire a mantenere il suo tasso di crescita economica. Già lo scorso inverno nelle maggiori città industriali imperversarono blackout e tagli alla produzione dovuti proprio alla scarsità di combustibile. Questo inverno si preannuncia non meno difficile. Per non parlare di quanto stiano cambiando gli equilibri geopolitici in Asia proprio per il controllo e l’accesso alle riserve della Russia e dell’Asia centrale. A margine della gara di formula uno di Shanghai dello scorso ottobre, si è tenuta nella città cinese un’esposizione di auto “alternative”. Ben 150 modelli: dalla “Habo numero uno” alimentata a perossido di idrogeno fino agli autobus a celle solari. Un esempio dello sforzo cinese di trovare mezzi di trasporto “puliti” (più per necessità appunto, che per un’improvvisa conversione ecologista) in previsione anche di due appuntamenti internazionali che rischiano di diventare una vetrina non del boom cinese ma del suo crash energetico: le Olimpiadi di Pechino del 2008 e l’Esposizione mondiale di
Shanghai del 2010. Il prototipo della “Habo numero uno” dimostra che i cinesi ci stanno provando, ma per il momento i risultati sono terribilmente simili a un vecchio film di Buster Keaton. La Habo utilizza una tecnologia missilistica che con lo stesso principio vorrebbe lanciare in orbita un satellite e far andare un’automobile. He Limei (progettista della Habo) spiega che il perossido di idrogeno reagisce con l’argento e produce ossigeno e calore, quindi forza propulsiva e allo stesso tempo niente emissioni dannose. Purtroppo il prototipo contiene a stento il solo guidatore, il resto dello spazio è occupato dal motore e dal combustibile. Più o meno come un vecchio razzo spaziale dei fumetti. In realtà c’è poco da ridere perché la Cina non è rappresentata solo dalle metropoli iper-inquinate ma anche da una vastissima campagna dove asini e biciclette contendono ancora la strada ai camion marca Liberazione; insomma la modernizzazione prossima ventura sarà come passare da penna e calamaio ai biochip saltando tutte le tecnologie intermedie. Il che in teoria potrebbe essere addirittura un vantaggio perché se i paesi industrializzati non sanno ancora bene come liberarsi dei motori a combustibile fossile, i cinesi potrebbero prendere sin dall’inizio una strada alternativa. Ma il passaggio dalla teoria della “Habo numero uno” alla pratica della produzione su scala industriale di veicoli efficienti e a costo accettabile è per il momento più esteso del Mar della Cina. I tentativi comunque continuano. La joint venture Dongfeng Honda di Wuhan ha annunciato che all’inizio del 2006 potrebbe produrre 120mila unità di Civic ibrida. Grande risalto sulla stampa, ma per citare Mao che ironicamente chiedeva in che albergo stessero gli svizzeri, viene da chiedere con il sopracciglio alzato in quale garage le parcheggeranno. Akihiko Saito, responsabile della ricerca della Toyota, intervistato sul futuro del mercato automobilistico cinese e su quali tecnologie pensa che i cinesi adotteranno, risponde di non averne idea ma che i cinesi hanno grandi riserve di carbone. E per non fare una figura troppo barbina aggiunge che certo non useranno proprio auto a carbone ma alimentate dal gas naturale derivato dai giacimenti di carbone. In margine all’esposizione di Shanghai del mese scorso, la General Motors ha stipulato un accordo con la Shanghai Automotive Industry Corp (SAIC) per la costruzione della HydroGen3, alimentata a idrogeno e ossigeno, già in fase di test a Tokyo e Washington. Costo per unità: un milione di dollari. Reddito medio di un cinese: 960 dollari. Secondo il boss della General Motors Rick Wagoner, quello cinese sarà “un mercato competitivo”. Come si vede c’è molta “mitologia” attorno allo sviluppo dell’industria automobilistica cinese. Però da tutto questo fumo una certezza emerge e cioè che è proprio la Cina il paese che per primo dovrà cercare di uscire dal pantano energetico in cui l’intero mondo rischia di ritrovarsi a breve. Se c’è qualcosa che ai cinesi in questo momento non manca sono l’entusiasmo, la manodopera a basso costo, la voglia di mantenere quel po’ di benessere appena acquisito. Potrebbero anche riuscirci.
autocritica • il manifesto • [5]
ANDREA ROCCO
DALLA ATVALLEQUATTRO RUOTELACONQUISTA OCCHIO AL MARCHIO
Marco D’Eramo Robert Greenwald
Good night America.
11 registi da Sean Penn a Ken Loach
una lettera a sostegno della liberalizzazione degli scambi con la Cina, che diceva testualmente: “La Cina, con più di un miliardo di abitanti è il più grande mercato potenziale del mondo…Se il Congresso prenderà le giuste decisioni le nostre aziende saranno in grado di vendere e distribuire in Cina i prodotti fatti dai lavoratori americani in terra americana, senza aver bisogno di spostare la produzione in Cina…Potremo esportare prodotti senza esportare posti di lavoro”. Le cose, come si sa, sono andate un po’ diversamente e forse
Mike Davis
P
er una volta non si può darne la colpa a Bush. Il “grande balzo in avanti” nell’apertura commerciale tra Stati Uniti e Cina è tutto merito di Bill Clinton e dei suoi collaboratori e sostenitori. Ma se i televisori cinesi sono difficili da digerire, c’è da chiedersi che succederà con le automobili. Nella primavera del 2000, verso la fine del suo doppio mandato alla Casa Bianca, Clinton decide di cavalcare il consenso bi-partisan e le pressioni della comunità del business statunitense e invia ai membri del Congresso
Secondo una società di consulenza americana, la Kurt Salomon Associates, i consumatori cinesi stanno cambiando: sono molto meno attenti ai costi di quanto si immaginasse e molto più legati ai marchi di quanti si sapesse. La società ha condotto uno studio basato su 600 interviste compiute su cittadini di Pechino, Shangai, Chengdu e Shnyang. I risultati sono quelli descritti e rivelano consumatori più attenti alla qualità che al prezzo. Altri dati dicono poi che le esportazioni cinesi restano molto forti nonostante gli sforzi del governo per cercare di raffreddare l’economia. Nel giugno scorso, secondo gli ultimi dati disponibili, l’export ha raggiunto la cifra record di 50,5 miliardi di dollari, il 47 per cento in più rispetto al giugno del 2003. Nello stesso mese, anche l’import è cresciuto molto, del 51 per cento rispetto al 2003 quando si era fermato a 48,7 miliardi di dollari. Il surplus commerciale nel primo semestre del 2004 resta così pesante, con importazioni pari a 264,9 miliardi dollari contro esportazioni per 258,1 miliardi di dollari.
qualche ragione della sconfitta di Kerry in stati di tradizione (e di decadenza) industriale come l’Ohio sta anche nel fatto che gli appelli attuali dei democratici contro l’esportazione di posti di lavoro suonavano un po’ falsi ed ambigui. Ma torniamo alla Cina. Nell’ottobre del 2000, il Congresso normalizza i rapporti commerciali con la Cina (con metà dei deputati democratici contrari e con l’appoggio di tre quarti dei repubblicani) e l’ok degli Usa è il lasciapassare per il successivo ingresso della Cina nella World Trade Organization (WTO). L’apertura della Cina è stata una benedizione per le grandi corporations statunitensi come Caterpillar, Boeing e Cargill. Quest’ultima, il più grande produttore mondiale di soia ha venduto l’anno scorso 2.9 miliardi di dollari di prodotti in Cina. Ma non per tutti i produttori americani è andata così bene. Un’osservatrice privilegiata, che tocca ogni giorno con mano l’interscambio Usa-Cina, è Yvonne Smith, direttrice delle comunicazioni del Porto di Long Beach, in California, il maggiore punto di ingresso di prodotti cinesi in America: “Esportiamo cotone e importiamo vestiti – ha detto nel corso di una trasmissione radiofonica - esportiamo rottami di metallo e importiamo macchinari. Esportiamo carta da riciclare e importiamo cartoni pieni di prodotti”. Il deficit commerciale degli Usa con la Cina raggiungeva i 124 miliardi di dollari nel 2003 ed è ancora peggiorato quest’anno. Questi sono dati generali. Più interessante è seguire qualche settore particolare, dove le dinamiche possono essere affini a quelle
I quattro titoli della collana “il manifesto americano” sono in libreria con manifestolibri a 6,90 euro ciascuno. L’America vittima e l’America carnefice, patria della libertà e incarnazione di un nuovo imperialismo. Per comprendere gli Stati Uniti contemporanei e il loro peso per il futuro del pianeta, “il manifesto americano” vi offre una chiave di lettura completa. Con un vhs, due libri e un dvd, emerge il ritratto di un'America a tinte forti, nazione complessa e ricca di contrasti. Potete ripercorrere le tappe e gli eventi dall’11 settembre alla guerra irachena: un percorso su cui gli americani si sono già espressi con il voto del 2 novembre. I quattro titoli si possono acquistare sia presso manifestolibri che il manifesto, scrivendo agli indirizzi book@manifestolibri.it e manpromo@ilmanifesto.it. Una collezione da non perdere. La collana comprende il Vhs del film “11 settembre 2001”, i due volumi “Via dal vento. Viaggio nel profondo sud degli Stati Uniti” di Marco D’Eramo e “Cronache dall’Impero” di Mike Davis, e il Dvd “Uncovered. La verità sull’Iraq” di Robert Greenwald. Per info: info@manifestolibri.it. Telefono: 065881496. Distribuzione: Librerie PDE.
autocritica • il manifesto • [6]
dell’automobile. Il settore dell’elettronica di consumo era praticamente assente in Cina fino a vent’anni fa, sia come produzione che come mercato di consumo. Negli ultimi otto anni la Cina è diventata il secondo maggior fornitore degli Stati Uniti (dopo il Messico, che è in realtà un puro assemblatore di prodotti asiatici attraverso il meccanismo delle fabbriche di confine, le maquiladoras). Le esportazioni cinesi di elettronica di consumo sono passate da 7.9 miliardi di dollari nel 1995 a 28.8 miliardi nel 2003. Nei primi 8 mesi del
conquista. E sono aziende dinamiche, che investono in ricerca e sviluppo e che non si sono fermate ai tradizionali prodotti. Anzi, i dati evidenziano un tendenziale calo delle esportazioni di tv tradizionali a tubo catodico e l’emergere di produzioni di tv a schermo piatto o al plasma. Nel giro di due anni, tra il 2001 e il 2003, i televisori a colori cinesi hanno letteralmente invaso il mercato americano con vendite passate da 24 milioni a oltre 276 milioni di dollari. La Cina dipende ancora dai paesi più avanzati per alcuni
schermo grande (oltre 21 pollici), le tv con proiettore e quelle ad alta definizione. Un settore specializzato, che ha comunque ancora 15.000 dipendenti. Ma anche qui corrono il rischio di essere spazzati via dai cinesi: in questo segmento le importazioni dalla Cina sono passate da 16.000 unità nel 2000 a 1.5 milioni nel 2003, con un aumento dell’ 8004%. La risposta è stata quella di iniziare azioni anti-dumping, con sindacati e imprenditori americani per una volta sullo stesso lato della barricata. Un’inchiesta del Department of Commerce ha effettivamente rilevato pratiche di dumping (vendere in un paese a prezzi inferiori a quelli praticati sul mercato interno o sotto costo) dei produttori cinesi di televisori in Usa, con margini di dumping che raggiungono il 78%. Conseguenza: applicazione di tariffe punitive fino al 46% sui prodotti cinesi a partire dallo scorso dicembre. Sembra, e i dati di interscambio più recenti lo dimostrano, che sia comunque troppo poco e troppo tardi. Ne sono convinti anche coloro che avevano osannato l’apertura commerciale del 2000, come Alan Tonelson del U.S. Business and Industry Council, una sorta di Confindustria statunitense, che ha recentemente preso posizione per una modifica delle politiche liberoscambiste ed ha dichiarato: “Dobbiamo riconoscere che la nostra crisi commerciale e industriale è diventata così grave che non abbiamo altra scelta se non di cominciare a pensare a qualche tipo di restrizione commerciale. La Cina ha troppe capacità produttive e troppo poco consumo e questa situazione non può essere digerita dal sistema dell’interscambio mondiale tutta d’un colpo. Altrimenti l’emorragia di posti di lavoro statunitensi continuerà”.
Per gli americani, la Cina era l’immenso mercato da invadere. In meno di vent’anni è diventato il secondo fornitore di prodotti di elettronica di consumo degli Stati uniti. E adesso tocca all’export cinese di automobili 2004 la crescita è stata di un altro 50%. A livello mondiale, i prodotti cinesi coprono ormai il 43% del mercato. Ma scendiamo ancora più nel dettaglio. Nel prodotto principe dell’elettronica di consumo, i televisori a colori, all’inizio c’era stata una corsa di produttori europei, giapponesi, coreani e statunitensi a stabilire unità produttive in Cina. Per l’export e con il miraggio di conquistare l’immenso, anche se ancora dormiente, mercato interno cinese. Oggi sono le società cinesi, spesso in joint-venture con investitori e società di Taiwan e Hong Kong, a dominare il mercato. Konka Group, Sichuan Changhong, TCL Holding, Xiamen sono i nomi dei principali artefici di questa
componenti chiave della produzione di articoli elettronici, come i circuiti integrati, che vengono importati al 94% da Giappone, Usa ed Europa. Ma anche qui la pacchia per i produttori occidentali e giapponesi potrebbe essere di breve durata: il recente rapporto “Consumer Electronics Outlook: China” redatto da Global Sources Inc. rileva che il settore nazionale cinese dei circuiti stampati è in pieno sviluppo con 463 produttori, con l’introduzione di tecnologie avanzate di lavorazione dei circuiti e con una crescita prevista del 37% all’anno da oggi al 2007. Intanto i produttori Usa di televisori hanno chiuso o si sono ritirati a difendere alcune posizioni di nicchia, come quelle delle tv a
autocritica • il manifesto • [7]
I particolari sono della Buick 53 quattro porte Special Sedan
GUIDO CONTER
L’HOND DASPAZIOCLONATO C CHECOSTA300EURO
C
osa ha da temere l’industria della motocicletta dalla Cina? Alcuni pensano che non ci sia nulla da temere e, anzi, molto da guadagnare e immaginano un miliardo e mezzo di consumatori pronti a piani rateali in 48 mesi per acquistare mezzi a due ruote di ogni sorta, di fabbricazione giapponese o europea. Altri credono invece che non sarà così, che il mercato cinese non si aprirà a predoni in doppiopetto e che non ci saranno milioni di cinesi pronti a comprare specchietti che non sappiano costruirsi da soli. Altri ancora si chiedono non “se” ma “quando” l’industria cui siamo abituati verrà spazzata via da quella cinese. Ciò che sappiamo oggi è che l’industria cinese di motocicli esiste, è florida e non sempre gioca pulito. Copiano, non prendono spunto, non richiamano a modelli già esistenti. Copiano al punto tale che ogni singolo pezzo di un clone cinese può essere montato sull’originale giapponese o europeo. Spesso non il motore più per scelta cinese (si tende a tenere le cilindrate più basse) che per incapacità progettuale o industriale. Il luogo dove poter ammirare l’industria cinese del motociclo è il Salone di Chongqing, nella cui regione ci sono le sedi di alcuni colossi del motociclo locale come la Loncin o la Zongshen assieme a molti altri costruttori di non poco rilievo in un mercato che assorbe alcuni milioni di veicoli l’anno. Le industrie in Cina che producono motociclette sono130. Perché questo numero abbia un senso nella relazione con altre realtà, si sappia che in Germania c’è sostanzialmente un unico costruttore di motociclette (Bmw), uno negli Usa (Harley Davidson), uno in Austria Ktm, uno molto piccolo in Spagna (Gas Gas), uno in Francia
(Peugeot che fa solo scooter e non con grande successo fuori dai confini dell’esagono). Fa eccezione l’Italia dove la tradizione e la capacità di inventare hanno tenuto in piedi un certo numero di industrie, Piaggio in prima fila (proprietaria della spagnola Derbi e ora anche della Aprilia e della Moto Guzzi), Ducati, Cagiva, MV, Husqvarna, Beta. A voler contare
dei moltissimi casi in cui le moto vengono copiate da più di un costruttore e ovviamente a nessuno per questo verrebbe in mente di intentare una qualunque forma di azione nei confronti degli altri. Il Dink della taiwanese Kymco lo si può trovare sotto dodici marche diverse. L’assenza, poi, di una legislazione che difenda i marchi fa sì che esistano delle moto
Due ruote cinesi che fanno paura. Moto semplici, copiate e vendute a milioni attraverso la produzione di 130 gruppi. Quindici milioni di pezzi esportati in Asia, in Africa in America latina, pensando un giorno all’Europa
autocritica • il manifesto • [8]
tutte le realtà europee, anche quelle sostanzialmente artigianali, non si arriverebbe a 20 costruttori. Questi numeri non dicono nulla sulla qualità e sulla tecnologia dei prodotti cinesi, ma dicono a ben vedere che esiste una realtà importante. La filosofia dei produttori cinesi è quella, come ovvio, dei grandi numeri. L’imperativo progettuale è l’economicità, la semplicità costruttiva e per il momento la clonazione di modelli giapponesi o europei. I vecchi scooter giapponesi sono i preferiti, quello che fu l’Honda Spazio CN 250 è addirittura prodotto da tre costruttori diversi, lo si può trovare sia con il marchio Chufeng che con quello Hijoy, che con quello Loncin. Questo è solo uno
con il marchio Ktm (acronimo di Kingtown Tianma), mentre, l’originale prendeva il nome dai due fondatori Kronreif e Turkenpolz che la fondarono a Mattinghofen nel 1951. La Ktm cinese costruisce una moto da Enduro con un motore copia del 4 tempi che equipaggia le Honda XL e uno scooter identico in ogni sua parte (escluso il motore) al Gilera Runner. Per la maggior parte i motori utilizzati sono di derivazione Suzuki o Honda 4 tempi di piccola cilindrata e sono rari i motori a due cilindri. Una di queste si chiama Jinxiang, copiata in ogni sua parte dalla coreana Hyosung Comet Gt. Per il resto scooter, motorini e tra questi alcune moto che farebbero impazzire i collezionisti di motociclette anni ’80 come la
RICAMBI E MOTORI La penetrazione dei prodotti cinesi sul mercato europeo non riguarda affatto gli scooter e le moto, riguarda massicciamente i motori e i pezzi di ricambio. Con pochi euro si possono acquistare motori semplici e di buona qualità. Se ne stanno servendo soprattutto alcuni artigiani come la Polini di Bergamo, che non potendo sviluppare in casa i propulsori, si limitano a costruire il telaio ed assemblare il resto, comprandolo già fatto. Si tratta di numeri abbastanza contenuti se si pensa ai motori per le moto che diventano, però, importanti se si sommano ai motori “minori” come quelli per i tagliaerba o altre macchine utensili. Si tratta, invece, di una vera e propria invasione se si pensa ai pezzi di ricambio. Frizioni, ingranaggi del cambio, pistoni ed interi gruppi termici contraffatti, identici all’originale ad un prezzo inferiore anche di dieci volte. Il ricambio cosidetto commerciale non è un’invenzione cinese, molte officine meccaniche europee ne costruiscono da anni sia per le auto che per le moto e paradossalmente sono queste ad esserne più preoccupate che le case costruttrici che pur hanno scatenato una guerra senza quartiere per favorire le officine autorizzate. [g.con.]
mitica Honda XL125 S, ribattezzata Jl125 4 e ricostruita dalla Kinlon o la Honda Dax, in versione Shineray XY70. Le reazioni di chi ha speso tempo e denaro in ricerca anche per il design non potevano mancare. All’Intermot, il salone del motociclo di Monaco di Baviera lo scorso settembre, quelli della Beta aspettavano con ansia quelli della Loncin. I cinesi hanno copiato non un modello anni ’80, ma il loro pezzo forte, la Beta Alp e la Euro tutt’ora in produzione. La sproporzione tra i due costruttori è immane: la Beta è un’azienda storica nata nel 1954 ma con cento dipendenti a gestione poco più che familiare che progetta e costruisce meno di 20.000 moto l’anno, la Loncin è un colosso nato soltanto nel 1996 che costruisce un milione e mezzo di moto, automobili, autobus, impianti elettrici di ogni tipo, ha migliaia di dipendenti e impianti industriali che si estendono per un’area grande come Modena. Ovviamente uno sgambetto dell’elefante non poteva che preoccupare il topolino. Così alla Beta hanno depositato il disegno industriale delle proprie moto alle autorità doganali tedesche prima di Intermot: se Loncin fosse arrivata per esporre, la merce in loro possesso sarebbe stata considerata come contraffatta e quindi sequestrata. Beta non ha nessun interesse per il mercato cinese, non sarebbe in grado di soddisfare le richieste di un mercato così ampio, vuole però cautelarsi laddove esporta e vende le proprie moto. Per il momento, Loncin e gli altri non sembrano interessati al mercato europeo. I circa 15 milioni di motorini esportati finiscono in Asia, Africa e America Latina. C’è da chiedersi cosa succederà il giorno che i cinesi decideranno di vendere i loro motocicli anche da noi, tenendo conto che uno scooter cinese costa 300 euro. Le industrie europee e giapponesi che sono in grado di costruire maximoto ad altissima tecnologia si salverebbero almeno in un primo tempo, mentre sarebbe una carneficina di tutti i produttori di scooter dato che in Europa a meno di 2.000 euro non c’è nulla in vendita.
ZONGSHEN Tra le aziende cinesi che mostrano maggior intraprendenza c’è la Zongshen, una specie di Honda cinese. Fondata nel 1992 esporta le sue moto anche di grossa cilindrata dalla Francia agli Usa. La produzione, come tutte le aziende cinesi, spazia dai motori marini ai generatori di corrente alimentati a gasolio, oltre a più di due milioni di motori per moto prodotti ogni anno. L’intraprendenza ha portato la Zongshen anche in pista a sfidare le Honda, Ducati e Yamaha nel Campionato Mondiale Superbike, anche se le moto da competizione sono in realtà delle Suzuki gestite da una struttura inglese, la Barrus. Gli obiettivi sono ambiziosi, dopo una vittoria nel mondiale endurance, alla Zongshen puntano, in un futuro prossimo, dritti verso la MotoGp con una moto interamente concepita a Chongqing. Difficile dire quando le moto potranno essere competitive, quando questo accadrà la rivoluzione sarà completata, sarà il punto di non ritorno, lo spostamento definitivo del baricentro della produzione di motociclette dal Giappone alla Cina. [g.con.]
PIAGGIO, LOGO O NO? Se oggi fosse l’8 maggio del 2004 e chi legge fosse di fronte alla Piaggio a Pontedera, alzando gli occhi, alla fine di queste righe, avrebbe un turbamento. Quel giorno, infatti, sventolava sul tetto della storica fabbrica della Vespa la bandiera cinese. La carneficina è già iniziata? Difficile dirlo, per il momento Roberto Colaninno ha siglato un accordo alla pari con Zao Zongshen per costruire una fabbrica a Foshan vicino Pechino per la costruzione di trecentomila veicoli a marchio Piaggio all’anno (Wen Jiabao, il primo ministro cinese quel giorno a Pontedera ha detto che vuole che siano seicentomila, più del doppio della produzione attuale Piaggio). Jiabao ha assicurato anche che la Cina rispetterà le regole del WTO per quanto riguarda copyright, proprietà intellettuale e politica monetaria. L’accordo in vero è molto più articolato e prevede la cooperazione a livello di ricerca tra università cinesi e italiane e verrà addirittura fondata una sede distaccata della Scuola Superiore Sant’Anna (la Normale dell’Ingegneria) nella regione di Chongqing. La Piaggio insegnerà, di fatto, ai cinesi della Zongshen a costruire i motorini e grazie ai cinesi avrà
forse una possibilità di avere salva la vita un domani. Per l’immediato la collaborazione è tutta da verificare perché saper costruire motorini da 2.000 euro non significa saperlo fare per motorini da 300 e il solo saldo della differenza di costo della manodopera non basta a risparmiare la differenza per il prezzo finale. Per capire bisogna aspettare, per ora il mercato cinese è un mercato di persone che hanno bisogno di muoversi, di mezzi dalla grande razionalità, a poco prezzo e dalla manutenzione più semplice possibile. I concetti stupidi e inutili di “brand” non appartengono (ancora) alla Cina a due ruote che si muove su merce contraffatta con la sola esigenza che funzioni e costi poco. Se così sarà anche nel futuro, Colaninno avrà perso la sua scommessa, trasferendo tecnologia in cambio di niente; se, invece, il logo, il marchio produrrà l’effetto fiducia e status, allora la Piaggio avrà garantito da un miliardo e mezzo di cinesi la possibilità di vivere a lungo, in più tenendosi il suo nome. [g.con.]
autocritica • il manifesto • [9]
Volkswagen Bank finanzia la tua Golf.
www.volkswagen.it
Il GTI è tornato.
Il GTI è tornato.
Tra tante leggende, una vera. Automobili per amore
Volkswagen in Italia consiglia
. Consumo di carburante, urbano/extra urbano/combinato, litri/100km: 12,0/6,4/8,3. Emissioni di biossido di carbonio (CO2), g/km: 199. Dati riferiti alla versione 2.0 150 CV FSI Sportline.
La qualità ha nuove regole. Ford presenta Focus. Unica. Di nuovo.
Vieni a scoprirla al Motor Show di Bologna dal 4 al 12 dicembre.
autocritica • il manifesto • [12]
LORIS CAMPETTI
LAFIATDAI PIEDIPICCOLI
S
e si ha “un piede piccolo in una scarpa grande”, per citare la metafora usata dal’amministratore delegato di Fiat Auto Herbert Demel per spiegare la contraddizione che vive la Fiat tra basso volume di vendite e grandi stabilimenti - cioè alta capacità produttiva - si rischia di cadere. Per evitare il capitombolo i rimedi sono due: o si allarga il piede o si restringe la scarpa. Allargare il piede vorrebbe dire aumentare le vendite, invertire la tendenza che da anni vede i marchi automobilisti italiani battere in testa e perdere quote nei mercati importanti in cui compete(va), italiano ed europeo. L’altro
sono lastricate le vie del mercato. Sul presente i numeri parlano una lingua chiarissima e dicono cose brutte sull’andamento dei marchi Fiat. Sarà pur vero che Mirafiori sta recuperando redditività grazie all’abbandono di politiche commerciali disastrose e della sciagurata pratica dei chilometri zero, ma resta il fatto che in Italia nel 2004, Fiat non ha recuperato vendite, anzi continua a chiudere con il segno meno. In Europa (in Francia in particolare) le cose vanno anche peggio e in novembre i marchi Fiat sono scesi al 7,4% del mercato, collocandosi al 6º posto tallonati dai giapponesi. Se dal presente passiamo al futuro prossimo c’è da mettersi le mani nei capelli: il primo modello importante - la nuova Punto - uscirà solo nell’autunno prossimo, cioè tra un anno. Difficile pensare di recuperare competività quando si è in ritardo sull’uscita dei nuovi modelli. Sul futuro meno prossimo, poi, peggio che andar di notte. Dopo l’accordo con Gm, la Fiat ha ridotto il suo impegno nell’innovazione e gli investimenti nella ricerca, in particolare sull’idrogeno, adducendo la motivazione che c’era già il socio americano impegnato su questo versante. Senza un’inversione netta, l’automobile del futuro non sarà italiana e già oggi la stessa produzione di motori sta passando in mano americana, anzi della Gm Europa che si chiama Opel. Se il piede non cresce, non resta che tornare al cambiamento della scarpa. Troppi stabilimenti, troppa capacità produttiva, dunque troppi lavoratori. Questo fine d’anno è segnato dalla più massiccia ondata di cassa integrazione della secolare storia Fiat. Tutti a casa per due o tre settimane, si salvano soltanto i dipendenti
La tempesta perfetta in cui è finito il gruppo torinese, tra crisi di vendite, alta produttività, cassa integrazione, e l’accordo che sembra finire con la General Motors. Un futuro da immaginare, fatto di altre intese rimedio consiste nel ridurre il numero della scarpa. E’ quello che il Lingotto sta facendo dal 2001, magari in forme e con strategie diverse e variamente personalizzate dagli 11 o 12 tra presidenti e amministratori delegati del gruppo e dell’auto che si sono succeduti dopo l’accordo “epocale” del marzo 2000 con la General Motors. Se ci potessimo accontentare della buona volontà e della dedizione rivendicata dall’amministratore delegato del gruppo Fiat Sergio Marchionne e da Demel e dell’immagine “vincente” attribuita al presidente Luca Cordero di Montezemolo, diremmo che il nuovo management e la proprietà della Fiat sono intenzionate a percorrere la prima strada, quella della riconquista dei mercati e prima ancora della sconquassata credibilità dell’automobile italiana. Ma di buone intenzioni, com’è noto,
dell’Alfa Romeo di Pomigliano d’Arco. Demel continua a ripetere che i lavoratori dell’auto in Italia non sono in eccesso (peccato però che è più il tempo che passano a casa, pagati dalla collettività, che al lavoro). Precisa però che non ha più senso produrre lo stesso modello in più stabilimenti, ogni fabbrica dovrà avere un tipo di vettura. E aggiunge che Mirafiori è una “città” troppo estesa, la (poca) produzione dev’essere concentrata in un’unica area (un quarto dell’estensione attuale). Intanto la meccanica vola in Argentina, mentre sul versante carrozzeria la Panda è già partita per la Polonia. Anche Cassino ha un eccesso di capacità produttiva, per non parlare di Termini Imerese. Il rischio è che tra pochissimi anni in Italia resteranno soltanto gli stabilimenti di Melfi e Pomigliano. E dell’auto italiana non rimarrà che l’assemblaggio di pezzi. Pessimismo? Speriamo, ma la tendenza è proprio questa. Almeno, ragionando a bocce ferme. Ma le bocce rotolano, non si sa dirette dove ma continuano a rotolare. Proprio oggi, la Fiat e la General Motors si incontrano di nuovo per discutere di futuro. Per discutere, in particolare, della put option prevista dall’accordo del 2000, in base al quale la Fiat può avvalersi già dal prossimo gennaio della facoltà di mettere in vendita l’intero comparto automobilistico, e la Gm sarebbe tenuta ad acquistarlo. Gli americani hanno già detto che non ci pensano neppure e stanno facendo lavorare gli avvocati per dimostrare che non esistono più le condizioni iniziali, perché la struttura del Lingotto è cambiata (del resto, un acquisto americano metterebbe in scena la riproposizione della vicenda Daewoo, devastante dal punto di vista sociale per chi l’ha subita). Pare che la Fiat sia disposta ad incassare la botta in cambio di soldi, multa o ricapitalizzazione che dir si voglia. Le banche non sono tranquille, anzi fibrillano e fanno sapere di essere pronte a convertire il credito in azioni - senza entusiasmo, per quel che valgono o rischiano di valere dopo l’eventuale fuga della Gm. C’è chi sostiene che la Fiat potrebbe far buon viso a cattivo gioco, una volta “liberata” dal rapporto con gli americani e stringere rapporti con altri interlocutori, magari europei, magari francesi. Magari con Psa, Peugeot-Citroen, con cui il Lingotto ha da tempo rapporti produttivi e con cui si appresta a costruire il nuovo Fiorino, guarda caso in Turchia. C’è chi dice, invece, che le decisioni sul futuro della più grande azienda nazionale non possono essere lasciate nelle mani dei proprietari, oggi rappresentati da Montezemolo e domani magari da Jacki Elkann (mentre a curare l’immagine dell’auto è già oggi il fratello Lapo). La Fiat è un bene collettivo, l’ultima grande industria nazionale; lo stato deve intervenire ed entrare in qualche forma nella proprietà per imporre un nuovo piano di rilancio possibile solo con un investimento sulla ricerca e l’innovazione e per garantire la difesa dell’occupazione e la sopravvivenza della produzione automobilistica italiana. Il che non escluderebbe la ricerca di un altro - nuovo - partner straniero.
autocritica • il manifesto • [13]
CARMEN GUI
GIOIEEDOLORIDEI MANAGERFIAT
dimezzamento della perdita operativa per il 2004 e riconferma il ritorno al pareggio per il 2006, ma a fine luglio è già costretto a una dura autocritica: quest’anno il rosso non sarà dimezzato, ma solo ridotto. E di poco. Di pareggio si parlerà invece nel 2007. Cosa è allora veramente successo in un anno di Demel a Mirafiori? Dopo aver operato per 7 mesi con le mani sostanzialmente legate da Giuseppe Morchio, l’invasivo amministratore delegato del gruppo per cui l’ingegnere austriaco era solo la seconda scelta (dopo che la Ford aveva bloccato l’arrivo a Torino di Martin Leach), la nomina di Sergio Marchionne è una vera benedizione. Marchionne è il nuovo amministratore delegato del gruppo che sostituisce Morchio, privato di quella presidenza che pretendeva dopo la scomparsa di Umberto Agnelli e che invece va a Luca Cordero di Montezemolo. In meno di due mesi, tra inizio giugno e fine luglio, Marchionne e Demel riscrivono a quattro mani il piano di rilancio di Fiat Auto e annunciano una vera rivoluzione organizzativa, addio alle business units, volute solo 30 mesi prima da Boschetti come panacea di tutti i mali e ritorno a una struttura molto più tradizionale. Poi, con le prime nomine scattate il 1 settembre, parte la più grande epurazione manageriale che ricordino alla Fiat Auto. Rispetto ai licenziamenti senza giusta causa e senza appello (e quindi anche senza buonuscita) di molti dirigenti voluta da Marchionne&Demel, persino la feroce fase di “deghidellizzazione” di Mirafiori avvenuta
Bilancio di un anno alla guida di Herbert Demel, il primo straniero amministratore delegato dell’auto torinese. Tra voci di dimissioni e conferme più forti, Demel resta al volante dopo aver rivoluzionato la catena di comando
D
imissionario” o “dimissionato” – questo è l’unico pluralismo della stampa italiana - a fine ottobre, Herbert Demel è ancora saldamente al vertice della Fiat Auto. E a Mirafiori il 51enne ingegnere austriaco è destinato a durare sia perché non ha davvero voglia di gettare la spugna proprio adesso, sia perché a Torino possono permettersi tutto, tranne cambiare il terzo amministratore delegato in tre anni. Tanto rumore per nulla, verrebbe quindi da dire, ma in realtà tra fine ottobre e inizio novembre a Mirafiori sono successe molte cose parecchio interessanti. Prima, l’antefatto. Che rilanciare la Fiat Auto fosse tutt’altro che facile Demel lo sapeva benissimo ancor prima di insediarsi a Mirafiori il 15 novembre di un anno fa. Il manager austriaco è infatti più che navigato: quasi trent’anni di mestiere spesi nel fior fiore dell’automotive, cominciando dalla Bosch dove si occupava dell’Abs. Poi all’Audi, dove Demel aveva fatto molto bene troppo in fretta, tanto da rischiare di oscurare la stella (all’epoca ancora crescente) del suo presidente Ferdinand Piech, che così lo relegherà alla VW in Sud America. Insomma, un uomo che non impiega molto a capire che i conti della Fiat non sono certo quelli che gli avevano dato per buoni, ma che scopre molto presto anche cosa significhi il detto italiano “remare contro”. Demel riceve infatti il trattamento già riservato al suo predecessore, quel Giancarlo Boschetti che il 1 gennaio 2002 era subentrato a Roberto Testore. Il manager austriaco cade nella stessa trappola tesa a Boschetti: presta la sua faccia per presentare agli analisti finanziari e alla stampa internazionale un budget preparato dall’inossidabile apparatik di Mirafiori, budget figlio però solo dell’ottimismo della volontà e senza nemmeno un barlume di pessimismo della ragione. Così Demel in marzo promette un
a fine anni ’80 più che una purga pare solo un cordiale. Tra molti dei licenziati eccellenti, dirigenti abituati per decenni al gioco dei soldati romani - correre sino al tacere della tromba per poi sedersi comunque su una poltrona prima occupata da un collega (il numero di poltrone coincideva sempre con quello dei presenti) lo scontento cresce a vista d’occhio: Demel viene così “dimissionato” due volte in due settimane. La ricostruzione più attenta dei 15 giorni di dolori per il (non più) giovane Demel arriva ancora una volta da AutomotiveNewsEurope, l’edizione europea della bibbia americana del mondo automobilistico. Giovedì 28 ottobre, la notizia di un chiarimento di ruoli e responsabilità chiesto da Demel a Marchionne si trasforma nel rumor di dimissioni del manager austriaco, respinte sia dal suo direttore superiore, Marchionne, sia dal superpresidente Montezemolo. Il rumor si fa sempre più insistente sino a diventare, il 9 novembre, uno scoop di Finanza & Mercati: Demel si è dimesso e tornerà all’austriaca MagnaSteyr che ha lasciato un anno fa, al suo posto arriverà dalla Maserati il redivivo Martin Leach. Il Lingotto è costretto a smentire. Ma invece di riconfermare a Demel la fiducia di Montezemolo in qualità di rappresentante degli azionisti, e quella di Marchionne come responsabile operativo, un portavoce Fiat precisa solo che “si tratta di pure illazioni, completamente prive di ogni fondamento. Non esiste nessuna ipotesi di cambiamento ai vertici della Fiat Auto”. Una non-smentita che in Italia e all’estero viene letta come una conferma dell’imminenza dell’evento. Venerdì 12 novembre, nuovo colpo di scena: Demel si è dimesso un’altra volta, ma queste sono dimissioni davvero irrevocabili. Per cercare di fermarlo sarebbero intervenute direttamente sia le vedove Agnelli, Marella e Allegra, sia l’avvocato dell’Avvocato, quel Franzo Grande Stevens che, uscito dal consiglio Fiat per diventare presidente della Compagnia del San Paolo, ormai è tra i maggiori azionisti (e tra i primi creditori) del Lingotto. Sabato 13 Marchionne è quindi costretto ad aprire lo steering committe di Fiat Auto, che presiede in qualità di presidente della Fiat Auto oltre che di ad del Lingotto, spiegando ai 26 dirigenti di primo livello che riportano direttamente a Demel: “Quello che avete letto nelle ultime settimane sui giornali sono tutte fandonie (il termine esatto non è riferibile, ndr). Herbert è e rimarrà con noi. Rilanciare Fiat Auto è uno sforzo titanico e, per quanto lui lavori duramente, non è Superman. Abbiamo quindi deciso che lui si concentrerà sulla parte industriale di Fiat Auto, mentre io lo aiuterò seguendo in prima persona questa fase delicata ma strategica di ristrutturazione della rete di vendita all’estero”. Dimissionario, dimissionato o solo tanti rumors troppo interessati?
autocritica • il manifesto • [15]
La vita è piena di imprevisti.
Tanto meglio.
Sei pronto? Si parte, ti porto dove vuoi e il bello è che neppure ti accorgerai degli ostacoli sulla tua strada. Perché sono Nuova Panda 4x4 e decido da sola quando cambiare modalità di trasmissione, grazie alla mia trazione integrale intelligente. E in più ti offrro la sicurezza dell’ABS con EBD di serie, del sistema MSR, che evita il bloccaggio delle ruote in fase di decelerazione e dell’impianto frenante di tipo idraulico servoassistito con freni a disco sulle quattro ruote. Ecco perché posso dirti: “don’t stop me, baby”. www.fiatpanda.it
autocritica • il manifesto • [16]
Consumi 6,6 l/100 km (ciclo combinato). Emissioni CO2 156 g/km.
Nuova Panda 4x4. Don’t stop me, baby. autocritica • il manifesto • [17]
GUGLIELMO RAGOZZINO
DALL’IDR ROGENOALL’IBRIDO IDEESENZAPREZZO
N
1. La Toyota Prius è stata eletta auto dell’anno. L’hanno votata, tra 32 concorrenti, 58 giornalisti del ramo auto di 22 paesi europei. Dei 1.450 voti disponibili nella finale a sette, Prius è risultata prima con 406 voti contro i 267 andati alla Citroen C4, i 228 alla Ford Focus, i 180 alla Opel Astra, i 151 alla Renault Modus e i 135 alla Peugeot 407; ultima la Bmw serie uno con 87 voti. Si resta sorpresi notando che quattro novità su sette hanno nomi latini. Sono gli effetti collaterali del Gladiatore (o dell’Impero)? Oppure si vuole ornare la novità scintillante con un richiamo alla classicità che supera il tempo e lo spazio? Aggiunge Claudio Nobis dalla cui rassegna Automotori su la Repubblica di domenica 21 ottobre ricaviamo le cifre che precedono, che la settima, la Bmw serie uno, la piccola di lusso è “troppo costosa” (23.700 euro) e per questo solo all’ultimo posto. Il prezzo della Prius è ancora superiore, ma evidentemente i 25 mila euro richiesti corrispondono a un’idea e questa ripagano. E le idee, come si sa, sono senza prezzo. In questo caso l’”auto ecologica”, in realtà ibrida, ha la forza evocativa che in altre stagioni avevano altri modelli di nicchia: per esempio i modelli decappottabili, i cabriolet; o spider come anche sono stati chiamati quelli più scomodi. Essi erano volta a volta l’auto della libertà, l’auto della gioventù, l’auto perfino della natura. E’ comunque di rilievo che la giuria abbia scelto un’auto diversa dalla altre, indirizzando, per quanto possibile alla critica automobilistica, l’attenzione del pubblico su una piccola onda di modelli che sono ormai in arrivo nei cataloghi di altre case, giapponesi, europee, americane. E’ probabile che ne nasca una moda, ma è anche possibile che ci sia qualcosa di meno effimero e in contrasto con la ricerca alternativa (alternativa?) in tema di idrogeno. Questo sembra suggerire il Nobis già citato. 2. “Il solito discorso, quella dell’auto ibrida. Quando si guarda ai trasporti, si incontrano sempre i soliti problemi’. Chi sta parlando è un esperto di energia, Gb Zorzoli. “L’ibrida nella soluzione ideale è una macchina che utilizza il motore elettrico per il carico stazionario e il motore endotermico, il normale motore a
autocritica • il manifesto • [18]
benzina o a gasolio, per la domanda di picco e la ricarica delle batterie, anche attraverso il recupero durante le frenate. Ora la soluzione più efficiente, per l’ibrida, a parte i costi, perché al motore elettrico vanno aggiunti degli altri componenti – ed è chiaro che il risultato non potrà mai essere poco costoso – la soluzione più efficiente è in grado di consumare ‘soltanto’ i due terzi di combustibili comuni, siano essi benzina o gasolio, di un veicolo tradizionale ad alta efficienza, disponibile nel 2010. Poiché le prestazioni si possono presumere superiori a quelle attuali, si è di fronte a un bel risparmio. Però questa soluzione è, come accennato, molto costosa e disgraziatamente richiede una batteria di elevate capacità, caratteristica che al solito riduce le prestazioni e lo spazio utile, per l’aumento dell’ingombro. In pratica, per riuscire ad avere una macchina che per l’utente non sia molto diversa da quelle di cui si dispone adesso e che non costi eccessivamente, tutte le industrie automobilistiche, compresa la casa della Prius, si sono orientate verso soluzioni con batterie più piccole, però a scapito dell’efficienza. Il consumo specifico, invece di essere di due terzi, è solo l’86% di quello utilizzato da un veicolo ad alta efficienza. E quindi si può dire di avere a che fare con un veicolo tradizionale o quasi, visto che il risparmio si attesta sul 14%. Esaminando tutte le proposte, tutti i prototipi, più in là del 14% non si va, in termini di risparmi. Nessuna di queste auto è il veicolo elettrico dei sogni.... stando ai livelli attuali della tecnica e della cultura sociale il veicolo elettrico di massa non è praticabile... La Prius è sì una vettura-ibrido dal punto di vista della definizione tecnica, però non è un ibrido ottimale, perché un ibrido ottimale costa troppo e ripropone molti dei problemi irresolubili che propone un veicolo elettrico.
LA CRESCITA CINESE Secondo l’ultima stima del ministero delle comunicazione cinese, il numero delle auto circolante sulle strade della Cina è destinato a crescere di sette volte entro il 2020, arrivando a 140 milioni di quattro ruote. Una cifra indicativa, perché secondo lo stesso ministero, in quell’epoca si potrebbe toccare anche il picco di 250 milioni di unità, più o meno 200 macchine per 1.000 abitanti - rispetto alle 500 per mille dell’Europa occidentale e alle 900 per mille degli Stati uniti. Entro il 2010, sempre secondo lo stesso studio, dovrebbe essere completata nel paese una nuova grande rete di autostrade che risponda alla crescente richiesta di mobilità a quattro ruote. Attualmente, la Cina ha una rete autostradale lunga 30.000 chilometri, la seconda al mondo. Nel 2004, la produzione automobilistica dovrebbe raggiungere 5 milioni di unità, trasformando il paese nel terzo produttore mondiale di automobili dopo Stati uniti e Giappone.
Questo è il vero problema. Sono tutte così, non solo la Prius. La Prius è soltanto la più bella”. 3. Se in Europa la Prius vince il concorso di bellezza per l’auto dell’anno (prossimo) e non vende, negli Usa c’è una notevole domanda attuale, ma sostanzialmente inattesa. Lo fa notare, con tanto di copertina, Newsweek, che dedica il servizio principale all’auto, descritta come “verde e per tutti” (green & mean). Nell’interno, questo sottotitolo spiega bene: “Automobili: sono da dimenticare quei gracili succhiatori-di-benzina. Le case produttrici presentano i nuovi bolidi ibridi che promettono di scuotere l’industria”. Il settimanale Usa, senza girarci troppo intorno, presenta alla prima riga un cliente-tipo: nome indiano, programmatore informatico, 35 anni. Quando è in arrivo il primo figlio, l’aspirazione alla potente ed elegante Bmw, per la quale ha risparmiato, non risponde più allo scopo. Così cercando online l’auto della sua vita, il tipo di Newsweek si imbatte in un Suv (Sport utility vehicle) insomma una macchina ammazza-cattivi, con velocità di punta scatenata e abbastanza spazio per il passeggino. Si tratta della Rx 400h Lexus, anch’essa Toyota, come la Prius, e come quest’ultima, ibrida a benzina ed elettrica. Elettrica, ma diversa da “quei carrettini da golf”, bensì dotata di 270 cavalli di potenza. In effetti, spiega il futuro cliente, con meno cavalli nel motore «mi avrebbe interessato molto meno». Nel corso dell’articolo si viene a capire che l’ibrido risponde alla richiesta di alcuni stati degli Usa, a partire dalla California, di ridurre i consumi di carburante (e le emissioni) senza modificare le comodità e gli spazi per le bisogne dei neonati. La soluzione europea, l’auto a gasolio, là non piace. E’ l’ibrida da 270 cavalli – ma la Gm prevede di ibridare anche la Hummer H2, la mostruosa macchina da guer-
ra che si vede agire in Iraq – la risposta Usa ai problemi dell’ecologia. 4. La Prius e in genere le auto ibride (elettricità + carburante) compaiono ormai nel mirino dei petrolieri (escluso forse il presidente dell’Inter Massimo Moratti, che ne guida una). Costoro (Unione petrolifera, Up) all’inizio di ogni anno pubblicano un rapporto previsionale “Previsioni di domanda energetica e petrolifera italiana 2004-2015”, Roma febbraio 2004. E’ interessante notare come, quanto e quando l’ibrido è preso in considerazione. Alla tavola 13 delle “Previsioni...”, le autovetture ibride compaiono nell’anno 2010 in numero di 150 mila a benzina e 150 mila a gasolio. In quell’anno di grazia il parco auto in Italia è indicato in 31 milioni di autovetture, pari a una autovettura ogni 1,9 abitanti; un rapporto che si è stabilizzato in Italia dall’anno 2000. Nel 2010 circolerebbero in tutto in Italia 19 milioni di auto a benzina, 9,3 milioni a gasolio, 1,35 milioni a Gpl, 800 mila a metano e 50 mila auto con propulsore esclusivamente elettrico. Infine vi sarebbero 200 mila auto a celle a combustibile, la maggior parte delle quali sarebbe originato da idrogeno “derivato da un processo di reforming all’interno della vettura attraverso l’impiego di benzina”. In sostanza, non considerando le 50 mila auto effettivamente elettriche – poco più di una curiosità, una specie protetta, nel gran parco naturale dell’auto – vi sarebbe solo meno dell’1% di ibrido, cioè, stando alla spiegazione di Zorzoli, di veicoli ancora a petrolio, solo un po’ truccato. Le colonne successive della tavola 13 riguardano il 2015, l’ultimo anno per il quale l’interesse dell’industria (anzi, delle industrie: automobilistica e petroliera) non sia pura fantascienza. Sono proposti due casi: il caso base e il caso alternativo. In entrambi sono previsti 31 milioni di autovetture. Quelle a benzina sono ridotte di numero, rispetto a 5 anni prima, di 1,5 milioni e sono ormai 17,5 milioni. Le auto a gasolio crescono di poco nel caso base arrivando a 9,55 milioni e diminuiscono, sempre rispetto al 2010, nel caso alternativo, fino a 8,75. Sono pressoché stabili le auto a gpl, arrivate a 1,4 milioni in entrambi i casi, base e alternativo. Crescono invece di più le auto a metano, arrivando nel caso base a 1 milione e salendo a 2 milioni nel caso alternativo. Crescono infine le autovetture elettriche, salendo a 100 mila. Crescono di numero le ibride, arrivando a 280
trolio, e in parte un po’ di metano qualora fosse installata una sufficiente rete di distribuzione, sulla quale fortuna si direbbe che l’industria petroliera nutra forti perplessità. Che sia una previsione capace di realizzarsi da sé? 5. Negli Usa circa i due terzi del petrolio sono usati per i trasporti. In Italia siamo più indietro: quest’anno tra benzina (auto e moto) gasolio (auto e camion), cherosene (per gli aerei) e gpl si consuma il 49,02% del petrolio, una percentuale che supera la metà, arrivando al 52,06% nelle previsioni per l’anno prossimo, al 54,58 nel 2010 e al 54,51 nel 2015. Un’automobile a benzina percorre mediamente 10.500 chilometri l’anno e una a gasolio il doppio. In futuro entrambi i valori sembrano destinati a ridursi, fino ai 10.000 delle benzine e 18.400 dei gasolii per il 2010. (“Previsioni...” Tav.16). Mediamente si fa un conto di una percorrenza di 13.140 chilometri quest’anno che diventeranno 12.760 nel 2010. I chilometri per litro di carburante saliranno poi, da 14,5 a 15,9, con una riduzione dei consumi prossima al 10%. Il 10 % di riduzione è una misura del tutto insufficiente, tanto che la Commissione europea prevede di rendere obbligatoria una riduzione del 27%, tempo dieci anni a partire dal 2002, se i fabbricanti di automobili non dovessero mantenere la loro promessa di una riduzione spontanea altrettanto consistente. La riduzione volontaria è la nostra
25.000 euro per la Toyota Prius, l’auto eletta, tra foto di copertina e clienti tipo di mezzi “alternativi”. La guerra dei petrolieri alle nuove motorizzazioni e la difesa del gas, cugino del petrolio. Tutti i numeri e 300 mila nel caso base nelle varianti benzina e gasolio e a 560 e 600 mila nel caso alternativo, in cui per la spinta economica/ecologica, le auto alternative avrebbero maggior successo. Le celle a combustibile sono indicate in 800 mila oppure in 1,6 milioni nel caso base e nel caso alternativo; ed è previsto “anche (in parte) l’impiego di un processo di reforming del metano installato presso il punto vendita carburanti”. Infine, 30 o 60 mila auto con motore tradizionale alimentato a idrogeno. In sostanza l’unica alternativa vera al petrolio è suo cugino, il gas, sotto forma di metano. Celle a combustibile e auto ibride mostrano soltanto, agli occhi dei petrolieri, due varianti complicate e avventurose per usare il solito pe-
preferita, asserisce Pieter Van Geel, ministro olandese dell’ambiente e presidente di una conferenza ad hoc dell’Unione europea in Lussemburgo, ma “se necessario agiremo con misure fiscali o legali”. Nel 2002 la produzione di Co2 in Europa era di 165 grammi al chilometro. L’obiettivo è di ridurre a 120 grammi di Co2 entro il 2012, includendo nell’obiettivo anche i veicoli commerciali leggeri. La risposta delle case automobilistiche è stata estrema. Il presidente e direttore generale della Renault che è anche a capo dell’Acea, la federazione europea dei fabbricanti di auto, ha detto che l’obiettivo era “privo di senso”, esprimendo così la valutazione, condivisa dalle case, convinte che gli investimenti necessari per raggiungerlo siano “proibitivi”. Avranno anche ragione le case automobilistiche, ma si può guardare la faccenda da un altro punto di vista. 165 grammi al chilometro per 10 mila chilometri equivalgono a oltre una tonnellata e mezza di Co2 messa in atmosfera in un anno in media da ogni media autovettura. Trenta milioni di autovetture x dieci mila chilometri, per 165 grammi al chilometro sono una bella nube di anidride carbonica sopra il Bel paese. 6. Esistono prototipi che funzionano con un consumo di un litro per cento chilometri, ma gli ultimi decenni dell’industria automobilistica non vanno in quella direzione. Non piacciono all’industria auto e non piacciono all’alleata industria del petrolio quelle auto. Sono troppo sobrie come peso, potenza, velocità, ripresa, accessori vari. L’auto da un litro per cento chilometri che disporrebbe anche di un sistema di recupero degli scarichi, per immetterne in atmosfera la quantità minore possibile. In realtà non piacciono ai veri automobilisti che amano prima di tutto l’auto in sé e solo dopo si dedicano alla riflessione sul mondo: su quanto sia l’inquinamento massimo consentito e se sia preferibile andare più svelto, senza rinunciare ai gadget, oppure ridurre l’emissione di gas di serra. E mentre la Co2 non si vede neanche, un’auto da zero a cento, in sei secondi, si vede – eccome – al semaforo.
autocritica • il manifesto • [19]
MASSIMO TIBERI
DIESELDELLEMIE BRAME
L
’anima inquieta di Rudolf Diesel, morto nel 1913 in circostanze misteriose (disgrazia o suicidio?) e senza aver potuto trarre nessun profitto personale dalla sua straordinaria invenzione, avrà trovato finalmente pace. Il motore a gasolio si sta prendendo infatti una storica rivincita sul nemico di sempre, il benzina di Nikolaus Otto, sbancando le vendite, soprattutto in Europa, ma ormai puntando a grandi risultati in tutto il mondo. In Italia, poi, siamo addirittura a percentuali intorno al 60 per cento del mercato e anche chi compra un’auto di piccole dimensioni e non copre percorrenze da commesso viaggiatore vede nel diesel, magari esagerando, la panacea del risparmio. Ed è vero, inoltre, che vetture un tempo considerate puzzolenti, rumorose e in affanno, oggi contendono il campo perfino alle sportive di razza, sfoderando potenze oltre i 300 Cv, filando a 250 all’ora e con una capacità di ripresa dai bassi regimi da far invidia ad un camion. Del resto, dopo essere stato utilizzato a lungo soltanto per impieghi industriali (un primo esemplare del 1893 era alto tre metri e pesava due tonnellate) o sulle navi, il motore a gasolio ha fatto una altrettanto corposa gavetta proprio sui veicoli da trasporto, grazie alla Mercedes a partire dal 1922. Ed è stata la marca della stella a tre punte a credere fino in fondo al diesel, riuscendo finalmente a trasferirlo, nel 1936, sotto il cofano di un’automobile. Certo, non erano rose e fiori quanto a comfort e vivacità, ma robustezza e consumi già allora potevano convincere e, comunque, ormai la strada era aperta agli ingegneri per sbizzarrirsi nell’inventiva degli affinamenti e del progressivo sviluppo. Bisognerà, però, attendere gli anni Sessanta per cominciare a vedere qualcosa di interessante per una clientela più vasta, merito sempre della casa di Stoccarda ma anche della Peugeot che, con le sue 403 e 404 comincia a porsi come nuovo punto di riferimento tecni-
invenzione del tormentato Rudolf nascerà di fatto una seconda volta. Gli anni Ottanta non si possono considerare di autentico boom sul piano quantitativo, ma senza dubbio almeno su quello tecnologico: ormai si fa a gara per ottenere rendimenti sempre migliori e il gap rispetto ai modelli a benzina si riduce a ritmo forsennato. E’ in questa fase che gli italiani cominciano a dire autorevolmente la loro, segnando almeno due passaggi di fondamentale importanza. La Fiat, in realtà, non aveva mai creduto troppo al diesel automobilistico (per i camion, ovvia-
cominciano a riguadagnare il tempo perduto, la Fiat torna alla ribalta del settore negli anni Novanta con il “common-rail”, sistema studiato a partire sempre dal 1988 con la Magneti Marelli e straordinariamente efficace nell’unire a potenze elevate consumi irrisori. Inopinatamente ceduta alla Bosch nel 1994 per l’industrializzazione (è un destino evidentemente che la casa italiana getti il sasso e ritiri la mano, perdendo così incredibili possibilità commerciali), la novità si fa largo e, oggi, ha conquistato la maggior parte dei costruttori. E già siamo all’ulteriore sviluppo con le soluzioni multigetto, come quelle adottate dall’Alfa Romeo, per prestazioni che equivalgono senza mezzi termini quelle delle sportive a benzina più accreditate. Soltanto il gruppo Volkswagen resta fedele al sistema cosiddetto “iniettore-pompa”, peraltro in grado di garantire potenze molto alte e riprese prontissime. Intanto, il diesel si è diffuso a macchia d’olio e occupa ormai tutti i settori di mercato. Ci sono piccoli gioielli, come l’800 cc della Smart o il 1.300 Fiat; 1.400 e 1.500 che arrivano a 90-100 Cv, come i quattro cilindri Peugeot e Renault; due litri da brivido, come il 163 Cv della neodebuttante Bmw Serie 1; e perfino i giapponesi, a lungo refrattari al gasolio, possono adesso mettere in campo ottime unità come quelle della Toyota o un supertecnologico 2.200 interamente in alluminio come il quattro cilindri Honda. Per non parlare degli eccessi, tipo il 6 cilindri 3.000 da 272 Cv della Bmw 535 o l’iperbolico V10 cinque litri montato sulla berlinona Volkswagen Phaeton che di Cv ne ha 313, la punta massima raggiunta finora. Ma sono stupefacenti, se si pensa alle origini, i risultati sul terreno del comfort, tanto che la maggior parte delle vetture di lusso, almeno in Europa e in Italia, viaggiano a gasolio, preferito per marche blasonate come Audi, Mercedes o Bmw e perfino dalla schizzinosa Jaguar. Ormai è lecito attendersi un diesel sulle Bentley e sulle Rolls Royce, mentre non guasterebbe neppure su una Porsche Cayenne. E sembra proprio che ci stiano pensando.
Nell’attesa di avere auto veramente “pulite”, il mercato chiede e ottiene macchine che corrono a gasolio. In Italia sono ormai quasi il 60 per cento del venduto, breve viaggio dal signor Rudolph ai nostri giorni co del settore. Anzi con la 204, una compatta a trazione anteriore nata nel 1965, la marca francese arriverà a proporre addirittura un piccolo motore a gasolio di 1.200 cc, fiacco quanto si vuole ma prefigurazione di quello che si andava preparando. Dopo qualche riuscito tentativo della Opel, all’inizio degli anni Settanta, che mette in campo un due litri per la Rekord dalle prestazioni decenti, sarà la Volkswagen, qualche anno dopo, a segnare la vera svolta rivoluzionaria, con il 1.500 da 50 Cv ricavato dallo stesso monoblocco a benzina della Golf. Leggero, abbastanza vivace, con una potenza notevole rispetto alla cubatura, il quattro cilindri tedesco comincia a mettere veramente in discussione tutti i luoghi comuni sul diesel. Quando, poi, arriverà la versione turbo da 70 Cv anche le ultime barriere di diffidenza vengono abbattute e la vecchia
mente, la storia era stata completamente diversa), e non si possono considerare esperienze rilevanti la 1400 del 1953 o la Campagnola del 1955 (1.900 cc, una quarantina di Cv e a stento i 100 all’ora di velocità massima), ma nel 1988 la casa torinese sorprende tutti con il due litri della Croma da 90 Cv. Per la prima volta un motore a gasolio ad iniezione diretta viene montato su una vettura, sfatando un altro tabù che voleva questa soluzione (riservata fino ad allora solo ai mezzi da trasporto) troppo penalizzante in fatto di ruvidità, rumorosità ed emissioni rispetto a quelli con la tradizionale “precamera”. Invece, nel caso della intelligente berlina italiana, presto seguita a ruota dalla Austin Montego, si riescono a limitare gli inconvenienti guadagnando molto in prestazioni e bassi consumi. Abbandonata rapidamente, e incomprensibilmente, questa felice esperienza, mentre le rivali
autocritica • il manifesto • [21]
Kia Motors consiglia Agip
NADLER LARIMER
*Con sconto incondizionato di 800 euro. I.P.T. esclusa. Versione 1.0 12V LX Urban. Consumo combinato (litri x 100 km) 4,9. Emissioni CO2 (g/km)118. La foto è inserita a titolo di riferimento.
MARTINELLI
Kia Pìcanto. Pìcantissima.
Zero anticipo, Zero rate per un anno, Zero interessi per due anni. Servosterzo 2 Airbag ABS
EBD 4 freni a disco 5 posti
Prima rata a 12 mesi dall’acquisto, 30 rate con interessi tan max 5,88% - taeg max 6,04% + 24 rate a interessi zero (tan 0% - taeg 0%). Finanziamenti salvo approvazione Findomestic Banca S.p.A. Per tutte le condizioni contrattuali si rinvia ai “Fogli Informativi” a disposizione della clientela presso le concessionarie che aderiscono all’iniziativa. Offerte non cumulabili con altre in corso, valide su tutta la gamma Picanto disponibile in rete, per auto immatricolate entro il 31/12/04.
da 7.650,00*€
www.picanto.it
autocritica • il manifesto • [22]
Kia Motors Italia SpA. Una Società del Gruppo “Koelliker SpA.”
Non seguite la moda, guidatela.
BRUNO DI CAPRILIA
DELOCALIZZAZIONE MALESOCIALE
M
iti, leggende, capolavori. Sarà anche vero, ma pare proprio che fra una bella auto o una bella moto e un telefonino non ci sia tutta questa differenza. Molti continuano a sostenere che i veicoli sono diversi dagli altri generi di consumo, che non possono essere venduti allo stesso modo per via di sostanziali differenze. In effetti le caratteristiche dei veicoli a motore sono notevoli, mettendo nel computo anche la complessità del prodotto, la delicatezza del comparto industriale e il peso che questi acquisti hanno sul bilancio delle famiglie. Appare quindi ragionevole il tentativo di sviluppare un sistema distributivo specifico per questa categoria di prodotti, così particolari. Però, a ben vedere, lungi dall’aver inventato delle strategie innovative, quanti commercializzano auto e moto stanno sempre più adottando i metodi commerciali della grande distribuzione. La spiegazione che si dà a tutte le politiche commerciali, anche a quelle irragionevoli come i “chilometri zero” o gli sconti selvaggi, che distruggono il valore dell’usato, è che ormai il mercato è saturo ed è di sola sostituzione, quindi bisogna spingere le vendite e sostenere la quota di mercato per tutelare l’immagine della marca. Il ragionamento, apparentemente, è condivisibile, ma cela una serie di storture, che rivelano come si tratti di una strategia di basso profilo, piuttosto miope. Alla base c’è la considerazione che le persone hanno ormai troppo di tutto e, come avviene con i telefonini, per far loro cambiare modello con uno nuovo, bisogna sedurle, presentando dei vantaggi economici ed emozionali. Quindi, sotto con sconti, supervalutazioni, restyling frequenti. Proprio come per i telefonini. Ma non erano cose diverse? Per recuperare la redditività ormai perduta si lavora sulla riduzione dei costi fissi, tagliando il numero degli impianti produttivi e dei dipendenti nei paesi maturi e aprendo fabbriche in paesi dal costo del lavoro più interessante, coinvolgendo i componentisti per far loro ridurre i prezzi e invitandoli a delocalizzare la produzione. Un po’ come fanno i produttori di scarpe da tennis, insomma. E la differenza dov’è? Considerando i costi distributivi, cioè la rete dei concessionari, si prova a saltare questo passaggio, che incide sensibilmente sul prezzo finale. Si aprono negozi on-line (che si rivelano clamorosi fallimenti), si inaugurano filiali dirette della casa (che raramente raggiungono la produttività di una normale concessionaria) e si cerca un contatto diretto con il cliente. Diamine, pare proprio di parlare di blue jeans. Pure, avrebbero dovuto essere cose diverse. Queste strategie in realtà hanno già dato prova di essere inefficaci nel lungo periodo per una serie di ragioni, che il buon senso rende facilmente comprensibili. La riduzione del
ciclo vitale dei modelli, con una corsa alla novità e al restyling, impoverisce il prodotto, ne fa percepire male il valore da parte del cliente, genera ansia al momento dell’acquisto, perché ci si aspetta che, da un momento all’altro, arrivi “quello nuovo”. Quindi sale la voglia di risparmiare il più possibile, di cogliere l’occasione, il “chilometri zero”, il veicolo aziendale. Lo pago meno, se anche invecchia prima, non perdo denaro. Il ragionamento non fa una piega. La delocalizzazione è un male sociale: impoverisce il paese che perde gli impianti e i posti di lavoro e non fa ridurre il prezzo finale del bene in maniera che sia acquistabile in maggiori quantità. Tutti affermano che bisogna produrre dove si vende, ma poi pretendono di vendere sui mercati maturi ciò che producono altrove. Le case produttrici, infine, cercando di stabilire
L’auto come i blue jeans o i telefonini, fu vera strategia di marketing? Un po’ di surf tra le onde della commercializzazione, sapendo che la sfida del futuro non sono i mercati emergenti ma quelli saturi
una relazione diretta con i clienti finali, si allontanano dalle reti distributive. In più riducono i margini dei concessionari e pretendono che questi ultimi si coalizzino per ridurre i costi. Questa strategia ha una sua logica: se diverse piccole aziende attive su un certo territorio si consolidano in un’azienda più grande, si riducono i costi e aumentano le economie di scala. Inoltre, la casa riduce il numero di interlocutori e si trova a fare affari con una rete di minori dimensioni, composta da aziende più grandi. Tutto vero, però queste aziende sono per la quasi totalità imprese a conduzione familiare, con strutture verticistiche e non possiedono quasi mai un management in grado di far funzionare la concessionaria come una grande azienda. Ne risulta una inesorabile “deriva dei continenti”, un allontanamento fra casa e rete, che si trovano a parlare due lingue sempre più diverse, con ricadute negative per il cliente. Di fatto, la verità è che il mercato è davvero saturo e del tutto simile a quello di altre categorie merceologiche. Tutte le differenze possibili e immaginabili fra auto, moto e altri prodotti, non sono sufficienti ad indicare una via originale per stare sul mercato in maniera specifica. Finché il prodotto si vende da solo va tutto bene, appena entra nella sostituibilità, saltano fuori i problemi e le soluzioni sono sempre le stesse. La sfida del futuro non sono i mercati emergenti, ma quelli maturi. Il vero problema non è soddisfare la domanda cinese, ma restituire redditività al sistema europeo. Non solo, ma è molto più urgente risolvere il problema dal lato dei mercati maturi, poiché se l’Europa ci ha messo un secolo per arrivare alla saturazione, non serviranno più di quarant’anni alla maggior parte dei paesi che oggi mostrano le maggiori potenzialità di sviluppo. La competitività va cercata in altre aree, nelle infrastrutture, nei servizi, nella fruibilità. Se solo si pensa a quanto incidono le inefficienze dei sistemi di trasporto sui costi produttivi in Italia, appare chiaro che si potrebbe migliorare la situazione di molto. Oggi si pensa all’alta velocità e al ponte sullo Stretto, ma se un treno arriva mezz’ora prima e tutto intorno c’è il solito traffico, il solito caos, la solita mancanza di infrastrutture, la solita carenza di personale, a cosa sarà servito? Le case che producono auto e moto sono fra le più grandi aziende del mondo, in passato hanno fatto la voce grossa per questioni di minore importanza, potrebbero cominciare a pretendere servizi migliori piuttosto che sgravi fiscali. Guadagnerebbero in entrambi i casi, solo che con migliori servizi recupererebbero competitività anche sui mercati maturi, con giusti ricavi su un numero di vendite fisiologicamente corretto per mercati di sola sostituzione.
autocritica • il manifesto • [23]
Consumo massimo di carburante, urbano/extraurbano/combinato l/100km: 10,4/6,0/7,6; emissione massima di biossido di carbonio (CO2) g/km: 182 (dati riferiti alla versione 1.6 75 kW/102 CV)
SEAT in Italia consiglia
4,28 - 1,77 - 1,57. Le nuove misure della bellezza.
Nuova SEAT Altea. Cross the line. w w w . s e a t - i t a l i a . c o m
Info SEAT:
SEAT Credit finanzia la tua SEAT.
LUCIANO LOMBARDI
M
CIVOGLIONO DEIFISICIBESTIALI
ai come negli ultimi tempi, nel nostro paese la voglia di moto ha toccato livelli così elevati. Da record assoluto è la quantità di immatricolazioni che si otterrà alla fine di quest’anno sommando le vendite di tutte le categorie delle due ruote. Per il 2005 le stime prevedono ancora incrementi, anche se per ora c’è cautela sull’entità dei pronostici. Diverso il discorso sulle novità previste e sulle linee di tendenza del mercato che sono emerse con una discreta chiarezza negli ultimi eventi espositivi. Questa panoramica non può che cominciare dalle regine delle due ruote, le supersportive. Assenti, perché reduci da un’abbuffata dei mesi precedenti, le novità di spessore che riguardano i bolidi da mille centimetri cubi di motore e da diverse migliaia di euro di prezzo, veri archetipi del motociclista senza compromessi. Qui chi governa il mercato ha di fatto fermato la ruota dopo che questa ha macinato l’incredibile obiettivo 1:1 tra il peso e il numero di cavalli per dirla in maniera iniziatica, oppure più semplicemente ha percorso la metamorfosi che ha continuato a spostare gli pneumatici sempre più verso i cordoli e sempre meno verso i marciapiedi. Le innovazioni, per quasi tutte le case, si sono rivelate minimali, limitate ai dettagli o, salvo eccezioni, a poco più. Di conseguenza, date le classiche oscillazioni del marketing, c’è da aspettarsi che il 2005 possa ricevere un nuovo impulso e compiere un salto in avanti con una qualche introduzione tecnologica particolarmente significativa. Sempre in questo filone, c’è da segnalare la presenza sempre più solida delle case italiane, che si preannuncia peraltro rafforzata da vari eventi di una certa importanza. Uno su tutti, l’iniezione di capitali fatta dai malesi della Proton allo storico marchio MV, senza dimenticare l’aspettative su Aprilia e i suoi marchi, come pure la speranza di una vera rinascita della Bimota e il ritorno in scena della Moto Morini. Rilevante appare anche il debutto in questo terreno della Bmw, sebbene sia avvenuto nei toni morbidi che da sempre caratterizzano la casa tedesca. Anche nello strato subito a ridosso di quello delle cosiddette supersport, cioè quello delle carenate ad elevate prestazioni ma dalla cilindrata più contenuta e dalle potenze più gestibili, si attendono novità che vanno grossomodo nella stessa direzione delle loro sorelle più performanti. Tra queste trova spazio anche un’importante verifica, quella dei modi con cui la Yamaha riuscirà a convertire il successo di Valentino Rossi in MotoGP in una dimensione di mercato. L’altra metà del cielo appena visto, a cui idealmente si accede spogliando i telai dalle carenature, è forse quello più dinamico in assoluto. Agevolati dalla ricettività del mercato verso i modelli di questo segmento (co-
siddetto delle naked, le moto nude, appunto) i produttori stanno provando a sperimentare senza freni, con un’aggressività e una spinta all’innovazione che al momento non ha probabilmente pari in nessuno degli altri sottoinsiemi. Fioccano qui gli esemplari pronti per la strada che per design e contenuti tecnici fino a qualche tempo fa sarebbero stati destinati a rimanere per sempre allo stato di prototipo (si veda per esempio la Yamaha MT-01 da quasi 1700 cc di cilindrata) e i margini
Il mercato delle moto, il suo stato di salute e le sue tendenze. Furoreggiano le due ruote spoglie, le naked, l’ultima arrivata è una Yamaha addirittura 1700cc. Mentre lo scooter anabolizzato sembra fermarsi
di popolarità sono arrivati a un punto tale da spingere un produttore finora concentrato esclusivamente sulle moto da cross ed enduro a tentare anche l’avventura stradale. Stiamo parlando dell’austriaca Ktm che ha appena tolto i veli al suo nuovo “bisonte nudo” salutato entusiasticamente dalla critica e che con tutta probabilità sarà parecchio apprezzato anche dal pubblico. Restando ancora in Austria, la casa nero-arancio va segnalata anche per il suo personale contributo all’impulso dato a un fenomeno come il supermotard. Quest’ultimo, lo ricordiamo consiste nel trasformare moto offroad in mezzi capaci di offrire il massimo della maneggevolezza e del divertimento sulle strade. Se solo un anno fa, di questi stessi tempi, era tanto promettente quanto ancora relegato in una nicchia, oggi il supermotard lo si può vedere spesso declinato in varie altre forme, tra le quali Ktm ha voluto porsi in maniera particolarmente originale lanciando agli altri produttori una nuova sfida. Ha voluto così provare ad adeguare ai canoni della categoria la versione “di serie” del fuoristrada con cui partecipa ai rally più importanti del mondo. Ancora a proposito di quello che è ormai universalmente riconosciuto come il fenomeno emergente del 2004, vale la pena segnalare lo sbarco nei suoi confini del primo vero esemplare della specie firmato Honda. Dedita fino a questo momento alla commercializzazione di mezzi più estremi che rivolti al motociclista di tutti i giorni, la prima produttrice di motocicli al mondo ha infatti presentato al Vecchio Continente la sua risposta al supermotard per le masse, la FMX650. A voler a tutti i costi individuare per il 2005 un nuovo fenomeno a due ruote che abbia la stessa portata che nel corso di quest’anno ha avuto il supermotard si rischia di osare forse un po’ troppo. Tuttavia, si commetterebbe lo stesso un errore a sottovalutare un possibile “effetto Tricker”, dal nome della motocicletta dalle fattezze strambe che è anche l’esponente primo e più rappresentativo nel filone delle cosiddette fun-bike, moto molto ibride fatte per divertire e basta. Yamaha ha da poco presentato il curioso oggetto, costruito contenendo al minimo il peso complessivo e la quantità di componenti. Il risultato finale è rappresentato da un mezzo che nella versione soft può essere assimilato a una moto da trial per girare in città come se ci si inerpicasse con una moto da trial tra sentieri e pietraie, mentre nella sua forma più estrema somiglia piuttosto a una bicicletta per le evoluzioni free-style. L’ultimo, brevissimo capitolo di questa panoramica va di diritto agli scooter. Ai due estremi del settore troviamo da un lato lo stop, almeno temporaneo, all’escalation delle cilindrate che sembrava destinata a raggiungere l’infinito, e dall’altro l’arrivo dell’Honda Zoomer, una motoretta dai consumi irrisori che già prima di essere presentata ufficialmente era già un oggetto cult.
autocritica • il manifesto • [27]
IL PROTOTIPO VOLVO
I
l futuro dell’auto è un’auto che preveda il futuro, che sia compatibile con l’ambiente e offra una vivibilità a bordo come non l’abbiamo mai conosciuta. La VOLVO 3CC, presentata recentemente a Shangai al Michelin Challenge Bibendum dove ha vinto il premio di miglior prototipo, è la risposta del costruttore svedese alle domande di futuro che la società chiede. L’auto ha le sembianze di una piccola coupé lunga poco meno di quattro metri e con pneumatici Michelin Super Pilot 215/45 ZR18, normalmente montate su supercar. In realtà le somiglianze con una supercar finiscono qui: la 3CC è il concept più avanzato di macchina a zero emissioni e di originale uso della spazio interno. La VOLVO 3CC è dotata di un motore elettrico che spinge la vettura fino a 135 chilometri all’ora e raggiunge i classici 0-100 in soli dieci secondi. L’auto è stata disegnata presso il Volvo Monitoring and Concept Center, un think tank californiano: qui gli stilisti hanno ideato - oltre che linee esterne molto aerodinamiche dall’efficienza superiore del 30 per cento a quelle dell’ultima Volvo S40 - una nuova concezione dello spazio interno. L’auto si può definire una due+uno: due posti anteriori comodi più un posto singolo nella parte posteriore, per dare più posautocritica • il manifesto • [28]
sibilità di movimento a chi siede dietro e insieme creare una convivialità sconosciuta sulle auto oggi di serie. La vivibilità, che fa rima con praticità ma che in Volvo deve rimeggiare sempre anche con sicurezza, è un concetto caro alla 3CC: tre posti inusuali, luminosità a bordo grazie ai colori chiari dei materiali scelti e al lungo tetto in vetro trasparente, suddiviso in tre pannelli. Anche l’ingresso a bordo dell’auto è caratterizza-
to da un’estrema versatilità: dalla particolare apertura delle portiere alla plancia mobile che si muove in contemporanea con la sistemazione del pilota, tutto è stato
3CC
pensato dagli ingegneri del centro californiano per assicurare ai passeggeri della VOLVO 3CC una qualità della vita diversa rispetto alle auto oggi in produzione. Alta tecnologia è stata utilizzata per il prototipo della Volvo, non per caso presentato a Shangai, la città della Cina che parla più di futuro. Il motore elettrico, che ricordiamo dà zero emissioni, è stato accoppiato alla trazione anteriore. Le batterie che lo alimentano sono state sistemate sotto i sedili, costruendo un pianale con una struttura a sandwich. La struttura portante è in acciaio per assicurare il massimo della sicurezza, altre parti sono state costruite in fibra di carbonio - un materiale in genere usato su costose auto di formula 1 - per dare più leggerezza alla vettura. Il motore elettrico, che nell’uso normale si ricarica per un 20 per cento anche attraverso l’energia riconvertita dal sistema frenante, ha una autonomia dichiarata di circa 300 chilometri. È composto da batterie al litio simili a quelle usate per alcuni computer. Una volta seduti alla guida, sulla VOLVO 3CC si apprezza l’impostazione perfettamente ergonomica di tutti i comandi e ovviamente si apprezza il silenzio assoluto del propulsore. Perché il futuro deve essere davvero un’auto compatibile con l’ambiente esterno - non inquinante dunque - e con la migliore vivibilità possibile a bordo, dove le crescenti condizioni di traffico costringono per un tempo sempre più lungo gli utenti delle quattro ruote.
INFORMAZIONE COMMERCIALE
DA SHANGAI AL FUTURO PROSSIMO:
GERALDINA COLOTTI
QUELLATOPOLINO MANGIALIBRI
a lettera di licenziamento pesa “come un’incudine” nella tasca di Rivosecchi, operaio specializzato e “sobillatore”, curvo sul volante della sua Topolino. Quel piccolo gioiello gli è costato l’intera eredità del suocero, il cavalier Filippo Brambini. Ma adesso perché si ferma in mezzo alla strada? Manca la benzina. Eppure Rivosecchi ha fatto il pieno il giorno prima. Il fatto è che il figlio, nonostante sia minorenne e, quanto a vista, porti bene il soprannome di Talpa, di notte ruba la macchina dal fienile. Insieme al fratellino di 10 anni, progetta di partecipare alla fantastica corsa Brescia-Roma-Brescia, la Mille Miglia… Da qui il romanzo per ragazzi Una Topolino alle Mille Miglia, di Edoardo Erba, illustrato da Desiderio e pubblicato da Gallucci. Una storia divertente e ben costruita, che si ispira all’avventura reale di due giovanissimi, Luigi Malanca e Gianni Stori, entrati in corsa nella mitica competizione. Siamo nel 1954. La prima Ferrari debutta nel ’47, ma – canta Paolo Conte - “sulla Topolino amaranto si sta che è un incanto” già dal ’46. Anche se un litro di benzina «”vale un chilo d’insalata – dice ancora la canzone – chi ci rinuncia? L’auto: che comodità”. Dal 1927, la Mille Miglia è anche una vetrina per nuovi modelli da lanciare. Negli anni cinquanta è aperta a chiunque possa permettersi una Topolino o una Millecento. Nel libro Fondo corsa (Gallucci), che Giorgio Terruzzi ha dedicato al campione automobilistico Alberto Ascari, il conte Pierino Cereda, che lo ha conosciuto, racconta: “La Mille Miglia era una festa totale. Era un filo di seta che passava nel cervello…Prima le macchine piccole, cilindrate basse, e poi avanti, sino ai campioni con le macchine più potenti, quelle delle Case». Ferrari, Mercedes, Alfa Romeo, Lancia, Maserati”. Il conte, uno dei pochi privati a poter pagare per correre, è un antesignano delle gare automobilistiche. Comincia nel ’27. La preistoria. Allora le automobili erano “meccanismi lunari, meraviglie raccontate da chi sapeva leggere il giornale”. Nel ’54 la Mille Miglia decide che si può correre anche da soli. Prima, invece, il pilota doveva portarsi un meccanico o due, se poteva permetterselo. I meno facoltosi imbarcavano chiunque se la sentisse e possedesse qualche cognizione del
Letture trasversali da ricordare appena abbandonato il volante. Tutto a fondo corsa, dalle Mille Miglia ai miti e bagagli Ferrari raccolti in un dizionario, vero indicatore in cifre del Bel Paese mezzo (pochissimi). La Mille Miglia, allora, era un’avventura a razzo per strade tutte buchi e curve da cardiopalma. Morivano piloti e spettatori. L’ultima edizione – nel 1957, a trent’anni dall’inizio – si concluse infatti con una strage: Alfonso De Portago, a bordo di una Ferrari, si schiantò addosso a una folla di spettatori. Alberto Ascari debutta alla Mille Miglia nel ’40. A bordo di una Ferrari. Per Enzo Ferrari, pilota, organizzatore e poi “pioniere delle sponsorizzazioni”, quella era infatti la corsa, la gara più famosa dell’epoca che, nel 1948, dà il nome a una delle “rosse” più gloriose, la 166 MM, aerodinamica e superleggera. Da quel modello prende corpo l’esclusivo esemplare che si farà costruire
Gianni Agnelli, “in una raffinata versione bicolore, adattato all’uso stradale”. Lo ricorda il giornalista Vincenzo Borgomeo in un documentato volume edito da Newton Compton, Dizionario della Ferrari. Storia, piloti, gare e modelli. Un manuale di voci a più entrate (storica, sportiva, sociologica, culturale) che apre finestre sull’Italia di allora e la confronta al presente. La tabella a fine libro - “tutta la produzione di Ferrari stradali” - è anche un indicatore in cifre del Bel Paese. Nel 1947 la casa di Maranello sfornava 3 automobili da strada, l’anno dopo 5, nel 1949 21. Nel ’57 erano 130, nel 2004 si stimano a 4.600. Il periodo d’oro di queste macchine che costano una fortuna (una Gto, circa 6 milioni di euro)
si ha alla fine degli anni ottanta: il decennio dell’arricchitevi, dello yuppismo e del dispiegarsi della sconfitta operaia. In soffitta il rosso delle bandiere, in primo piano il rosso smaltato del Cavallino Rampante. Oggi, come rileva Borgomeo, la Ferrari vende direttamente in 46 mercati ed esporta quasi il 90% della sua produzione. Ha filiali dirette negli Stati uniti, Germania, Svizzera e, da quest’anno, in Francia. Una ricca fonte di dati, frutto di inchieste serie condotte con metodo marxista e senza concessioni ai gerghi del momento, è il volume collettaneo Competizione globale (Jaca Book). Un’analisi rigorosa, ma anche alfabetizzante, sulle nuove tendenze del capitale in Italia e a livello internazionale. Seppur attento alle modifiche intercorse nell’era della competizione globale, alle nuove contraddizioni e alle nuove figure del lavoro, l’approccio degli autori (Luciano Vasapollo, Mauro Casadio, James Petras e Henry Veltmeyer) è però marxista in senso “classico”. Il vecchio Lenin, dicono, non va preso a dogma – gli si farebbe un torto - ma la sostanza della sua analisi è tutt’altro che archiviabile. “Non bisogna dimenticare che l’oggetto è il miglior portatore del soprannaturale”, scriveva invece Barthes nei Miti d’oggi (Einaudi) celebrando “la nuova Citroen”, la Déesse. E si avvertono gli ultimi echi delle “giornate in automobile” di Proust. Nel “fantastico mondo delle merci” su cui gli umani non esercitano più potere di controllo, oggi l’automobile si erge da ogni schermo elettrizzante, seduttiva, inquietante – cosa a sé ma anche specchio dell’uomo ridotto a rotella di un ingranaggio: reificato. Anche le cose perdono la loro personalità, scriveva Günther Anders (L’uomo è antiquato, Bollati Boringhieri). Anche le automobili. Nonostante il loro numero aumenti fino a trasformare l’ambiente in un immenso tubo di scappamento, la loro “qualità” decresce. Da strumento di libertà, l’automobile è diventata oggetto transizionale per individui sempre più infantili, autistici in un abitacolo costruito per sfrecciare a razzo, che però resta inchiodato nel traffico. Così, dice Christopher Lasch (L’io minimo, Feltrinelli Ue), invece di fornire uno «spazio potenziale tra l’individuo e l’ambiente» (Winnicott definisce in questo modo il mondo degli oggetti transizionali), la merce automobile sommerge l’individuo. E sulla nuova “Topolino amaranto” non si sta più così d’incanto.
autocritica • il manifesto • [29]
Qualcosa non è cambiato. La grande novità della campagna abbonamenti di quest’anno è il prezzo: è quello dell’anno scorso. Il manifesto insieme ad Alias e a Le Monde Diplomatique offrono a chi si abbona nuove possibilità di scelta: sia il coupon annuale personalizzato sia l’abbonamento annuale postale possono essere arricchiti con l’abbonamento al giornale on line a soli 40 euro in più. E inoltre una quota degli abbonamenti andrà al progetto per la “Tutela dei diritti umani nelle carceri irachene” di Un Ponte per... in collaborazione con Antigone, Gruppo Abele e Ora d’Aria. Agli abbonati, infine, la manifestolibri offre uno sconto del 50% su tutti i titoli del catalogo, consultabili sul sito www.ilmanifesto.it Per ordini book@manifestolibri.it ABBONAMENTO
ANNUALE
+ WEB
POSTALE 6 NUMERI
197 €
+ 40 €
COUPON
250 €
+ 40 €
C/C POSTALE N. 708016 INTESTATO A IL MANIFESTO COOP ED. ARL VIA TOMACELLI, 146-00186-ROMA. Indicare nella causale il tipo di abbonamento ed inviare copia del bollettino di conto corrente via fax al numero 06.39762130. BANCA POPOLARE ETICA-AGENZIA DI ROMA - ABI 05018 CAB 03200 C/C 111200. Chi si abbona con il Bonifico Bancario deve assolutamente indicare nella causale: nome, cognome, intestatario dell’abbonamento, indirizzo completo, tipo di abbonamento ed inviare un fax di conferma al numero 06.39762130. PER ABBONAMENTI CON CARTA DI CREDITO: Telefonare a 06/68719690 o inviare fax a 06/68719689. Dal lunedì al venerdì dalle 10:00 alle 18:00. È anche possibile effettuare il pagamento con carta di credito on line visitando il sito www.ilmanifesto.it PER INFORMAZIONI SU ABBONAMENTI E TARIFFE: Telefonare a 06/68719690/330 e-mail:abbonamenti@ilmanifesto.it o visitare il sito www.ilmanifesto.it.
www.ilmanifesto.it autocritica • il manifesto • [30]
ALESSANDRO ROBECCHI
AUTOMOBILISTICUS ECCEHOMO
N
ove ore e sei minuti. E’ quanto passiamo in macchina in una settimana, mediamente, come cittadini italiani patentati e automuniti. Più di un’ora al giorno. In un anno, più di ventun giorni, tre settimane piene. La media europea è sette ore e mezza, dunque come italiani passiamo in macchina una trentina di ore in più ogni anno, poniamo, di un polacco, o di un danese. Certe volte mi chiedo se la nostra civiltà sarebbe migliore con un giorno e mezzo all’anno procapite dedicato ad altro. Naturalmente ci penso mentre sto in macchina. Ozioso. Quando compirò settant’anni, secondo statistica, sarò stato in auto quasi tre anni. Si prende meno per furto con scasso, credo. Questo complica un po’ le cose rispetto all’ambizione di moderare, limitare e disincentivare
pubblici. Monolocali con le ruote. Gusci di lamiera sempre più confortati dall’elettronica, dall’accessorio, dal gadget. La macchina è un mezzo, certo, ma è soprattutto un luogo che abitiamo per ore. Di più: è un luogo in cui i vincoli abituali, il controllo, la gerarchia vengono meno come d’incanto: niente capiufficio, niente colleghi saccenti, niente direttive. Al volante, ognuno è “dirigente”: fatte salve alcune regole generali – accettate soprattutto in funzione di autodifesa – l’automobile è una specie di spazio libero all’interno del quale chi guida è signore e padrone, cosa che nella vita reale gli capita di rado. E’ poco – è pochissimo – per costruire una teoria dell’homo automobilisticus. Ma ci vengono in aiuto alcuni dati di fatto. Ad esempio: le case produttrici hanno capito da tempo questa differenza tra mezzo di trasporto e guscio abitativo privato. E infatti la gran parte delle innovazioni sull’auto riguardano la permanenza nell’abitacolo più che lo spostamento effettivo da un luogo all’altro. Sanno, per esempio, che per i giovani l’auto è un surrogato dell’appartamento (sogno mitico e inavvicinabile), e dunque ecco il mercato degli stereo, la rincorsa ai nuovi formati musicali, il lettore mp3, il computer. Per la famiglia, addirittura gli schermi per i passeggeri dei sedili posteriori incastonati nei poggiatesta dei sedili davanti. Per tutti, la climatizzazione. Per le élites, certe divertenti punte di assurdità come il frigorifero, o il sedile termoregolabile, la cuccia riscaldata per il cane. Dettagli, forse, ma decisivi. Quale mezzo di trasporto pubblico ti consente al tempo stesso di muoverti, fumare, parlare al telefono, sentire musica perfettamente amplificata, regolare il riscaldamento o la frescura, sedare il bambino coi cartoni animati, insomma di agire in uno spazio privato dove tu detti le regole, i volumi e le temperature, sei a casa tua? Nessuno. Questo segna il punto decisivo a favore della macchina, spiega il perché un’abitudine tanto deleteria, inquinante, costosa per il singolo e per la società non verrà abbandonata senza combattere.
Tre anni su settanta, il tempo trascorso dentro la gabbia della propria macchina, forse di più di una condanna per furto con scasso. Digressioni a più ruote pensando a una frenata. Collettiva l’uso dell’auto nei centri urbani. Infatti, si parte dal presupposto che si stia parlando di un mezzo di locomozione, mentre invece è chiaro che si parla d’altro: qualche metro quadrato di proprietà privata portata in giro per luoghi
Ma poi c’è la pratica. Il rapporto con gli altri automuniti, con i pedoni, in generale con tutto ciò che in un giorno medio di un anno medio di una vita media si para davanti alla nostra semovente proprietà privata. Infinite tipologie, infinite varianti, sorrette spesso da luoghi comuni che hanno – come succede ai luoghi comuni – qualcosa di vero. Del Suv (Sport Utility Vehicle) si è detto e ancora si dirà. Occupare più spazio, avere ruote più grandi che non temono i cordoli dei marciapiedi, consumare e inquinare molto, sono tutti segnali di un desiderio di affermazione del sé privato sul suolo pubblico. La difesa della categoria è debole: e se vivo in campagna? E se c’è la vendemmia? Scemenze residuali: i Suv si vedono soprattutto in città, non hanno addosso un filo di fango e sono pure meno sicuri di una normale berlina. Semplicemente sono diventati status symbol, più inquinanti di un Rolex, ma meno di un jet privato. Non è una cosa nuova. C’è stato il periodo delle “piccole aggressive”: la Peugeot 205 che schizzava via come una lippa, aveva un suo tono maudit. La Golf, per anni il simbolo dell’aggressività (relativamente) a buon mercato e creatrice di mille luoghi comuni ha sgommato proprio in quei settori del marketing: nonostante le mille versioni, la Golf che ti ricordi è quella che ti ha lampeggiato sui 180 a un millimetro dal paraurti in autostrada. Che ti ha sgommato via al semaforo. Immaginario collettivo, vita vissuta. Chi appartiene alla parte di italiani che alza la media – che di anni in macchina ne passerà una decina nell’arco della vita – è abituato a fare i conti con queste categorie filosofiche ambulanti che sono le macchine. E sa riconoscerne di nuove. La Smart, ad esempio, è lo speculare contrario del Suv. Dove là c’è potenza e ostentazione, qui c’è rapidità e furbizia. Si gioca sugli spazi brevi, come dicono nel calcio. Si introduce il concetto di sgusciabilità. Chi guida sa che non sono soltanto teorie, ma che ognuno deve adattarsi. Una strada urbana a due corsie diventa a una se hai davanti un Suv monumentale. Ma può diventare a tre corsie se ti si infila in mezzo una Smart guidata come una Vespa. In pochi posti come in strada la filosofia diventa prassi con tanta immediata efficacia. Ognuno mette poi le sue specifiche attitudini: più o meno aggressivo, più o meno impaziente, più o meno veloce. Ma la scelta dell’arma – il fioretto-Smart o la 44 magnumgippone – già denota una tendenza, una predisposizione, un atteggiamento nei confronti del mondo. “Non usate la macchina come un’arma, può uccidere”, scrive il servizio info sulle autostrade. Ma dei diversi tipi di arma non si dice niente. Chissà come dev’essere guardare tutto questo dall’alto. Dovremmo chiederlo ai bambini. Se ne stanno sistemati ormai stabilmente su seggiolini sempre più spaziali nel retro delle monovolume. Le nuove “famigliari”, le prime berline che hanno giocato una nuova carta nella competizione tra le specie: alzarsi sopra gli altri, avere una visuale un po’ più alta, molti posti, decine di air-bag, barre anti-intrusione. Un po’ come mettere la porta blindata. Perché fuori c’è la giungla.
autocritica • il manifesto • [31]
Aut. Min. Rich. - scade il 15/12/2004 VSA di serie solo su versioni 2.0 Motori 1.7 VTEC e 2.0 i-VTEC da 11,9 a 13,3 km/l - emissioni CO2 da 179 a 199 g/km nel ciclo combinato
The Power of Dreams
NASCE HONDA FR-V. DA 1 A 6 IN LIBERTÀ.
SCOPRITELA NELLE CONCESSIONARIE UFFICIALI HONDA. Lasciatevi sorprendere dalla versatilità della nuova Honda FR-V. Dalla massima abitabilità e dal comfort dei suoi interni: 6 sedili modulabili e indipendenti l’uno dall’altro, quelli centrali scorrevoli, che all’occorrenza scompaiono per offrirvi un piano di carico perfettamente orizzontale. Provate l’emozione di viaggiare in 6 in tutta libertà, senza rinunciare allo spazio, al design e alla sicurezza grazie ai 6 airbag di serie ed al sistema di controllo stabilità e trazione VSA. La Nuova Honda FR-V è conforme alle normative Euro 4. Da € 19.950 (IPT esclusa). Honda per Voi 800-88.99.77 Vai su www.honda.it/fr-v/ e gioca con CUBE. Potrai partecipare all’estrazione di un viaggio fino a sei persone a bordo di una Honda FR-V.