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LA NOTIZIA CARTA E RETE, L’INFORMAZIONE
CHE CORRE E IL NUOVO GIORNALISMO CHE GENERA. COME CAMBIANO LA COMUNICAZIONE E LE RELAZIONI TRA GIORNALISTI, LETTORI ED EDITORI
maggio 2005
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Supplemento al numero odierno de il manifesto
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ecca dover citare all’inizio uno come Rupert Murdoch, che dopo avere imperversato nei media mondiali come editore assai impuro ci ruba adesso un po’ di Mondiali di calcio grazie al silenzio-assenso dei vertici Rai. Secca, ma insomma ci piace quando grida ai suoi giornalisti “smettetela di pensare ad avere tutte le notizie, piuttosto pensate ad avere notizie che interessino a qualcuno”. Fa notizia. Già. La faccenda non dovrebbe essere una novità, ogni riunione di redazione sarebbe logico cominciasse così, ma la realtà della stampa mondiale è spesso diversa. E, per dirla tutta, a volte la toppa è peggio del “buco”. Un andare che non porta da nessuna parte, meno che mai ora che l’informazione via Internet ha raggiunto un certo grado di maturità. E che dun-
que il problema della “notizia che interessa a qualcuno” rischia di fare sempre più male ai bilanci delle società editoriali. Soprattutto se non affrontato. Una risposta (non conoscendo quella data a Murdoch dai suoi direttori) passa per il fenomeno in crescita del Citizen Journalism, tanti cittadini reporter che ti informano dagli angoli del mondo e possibilmente con una angolazione che non ti aspetti. Media nuovi, una comunicazione più all’altezza della situazione, un modo per scavalcare le rigide relazioni o non relazioni tra lettori, giornalisti, editori. Nelle pagine che seguono, noi che viviamo di edicola vi raccontiamo un po’ di questo mondo virtuale che virtuale non è, consapevoli che la questione del futuro del giornalismo sia da sette colonne. E che molti bravi lettori passati al web difficilmente torneranno alla solita cara sporca carta. Se poi preferite altre storie, proviamo a proporvi ancora pagine con “notizie” che magari interesseranno qualcuno. Dalle ultime battaglie sul copyright ai tempi della Rete, alle botte di mercato tra videogiochi o al digital divide in Africa, dove spesso un sms è diventato uno strumento di lavoro, se non di sopravvivenza. Noi siamo qui.
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CITIZEN REPORTER SOFTWARE
il manifesto direttori Mariuccia Ciotta Gabriele Polo
SE INTERESSA A QUALCUNO
direttore responsabile Sandro Medici supplemento a cura di Francesco Paternò progetto grafico e impaginazione ab&c grafica e multimedia immagine di copertina di Guido Scarabottolo Le immagini usate in questo numero sono tratte dal sito: http://staff.xu.edu/~polt/ typewriters/tw-collection.html stampa Sigraf srl Via Vailate 14 Calvenzano [BG] chiuso in redazione: 18 maggio 2005
Exabyte tra la carta e la rete di Franco Carlini
di Francesco Paternò
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Scrivi come leggi di Raffaele Mastrolonardo
Cosa fare con un grid tra le mani di Luciano Lombardi
POD CASTING
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1920, macchina da scrivere giocattolo Marx Dial, con il quotidiano economico di Manila (Filippine) BusinessWorld Online (http://bworld.net/)
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COPYRIGHT
DIGITAL DIVIDE
VIDEOGIOCHI
Contenuti, Italia ultima di Gabriele De Palma Processi e diritti repressi di Emanuela Di Pasqua
La vostra radio su misura di Francesca Martino
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L’Africa delle reti mobili di Carola Frediani
Le prossime scatole cinesi di Alessanda Carboni
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La memoria più grande che c’è di Franco Carlini
La via italiana al gioco di Geraldina Colotti
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YO YO MUNDI “RESISTENZA” euro 15,50 [cd+dvd] Il cd live e il dvd documentario dello spettacolo: La Banda Tom e altre Storie Partigiane. Canzoni, letture, racconti, immagini della Resistenza, testimonianze di chi ha vissuto quegli anni di "lotta e speranza". Un lavoro intenso sulla "memoria", realizzato insieme a Giuseppe Cederna, Fabrizio Pagella, Gang, Paolo Bonfanti e altri artisti, per commemorare il 60° della Liberazione.
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BRUNELLA SELO “ISO”euro 8,00 In ISO in cui si intrecciano brani originali e tradizionali della cultura greca, spagnolo-sefardita, sarda, gaelica, portoghese, napoletana. Musiche e lingue diverse, ma tutte diramazioni di uno stesso linguaggio, quello delle emozioni. Tra gli ospiti della cantante Piero De Asmundis, Daniele Sepe, Gino Evangelista, Dario Franco, Agostino Mennella, Antonello Paliotti, Capone & Bungt Bangt.
ALTRI TITOLI “Sciopero” euro 8,00, “54” euro 8,00
DOUNIA “MONKEY”euro 8,00 Gli orizzonti sonori del gruppo italo palestinese passano attraverso una personale miscela di melodie, armonie, ritmi e suoni provenienti da ogni parte del mondo. Sonorità, sprazzi di luce in un lavoro affascinante ed essenziale. Dodici brani arricchiti dai contributi musicali di Riccardo Tesi, Gianni Gebbia, l'australiano Hugo Race, gli arrangiamenti d'archi di Francesco Calì. ALTRI TITOLI “New World” euro 8,00
ENZO MOSCATO “HOTEL DE L’UNIVERS” euro 10,00 L'Hotel de l'Univers è un labirinto di parole e suoni, celebri colonne sonore e suggestioni cinematografiche evocate da Enzo Moscato, con la collaborazione di Pasquale Scialò. Swing, jazz, canzone d'autore, popolare e tanto altro ancora, generi che il cantattore interpreta con passionale professionalità in un gioco di iperboli immaginarie e ritornelli indimenticabili.
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La saga di HSL continua. Sette tra dj produttori e band della scena indipendente italiana rivisitano, remixano e ristilizzano alcune tracce dell'album HIC SUNT LEONES. Max Casacci & Casasonica, Jazz Guerrilla, Torpedo, Soul Medina, Dj Disastro, Slow Gree e Inquilini. Per i sound system delle manifestazioni e per continuare a lottare.
“LIVE”euro 8,00 Live è l’incontro dal vivo tra il jazz mediterraneo di Antonello Salis e Paolo Fresu con le sfrenata allegria tzigana della Kocani Orkestar, ensemble nomade macedone. Il divertimento, la tecnica, la tradizione sono gli elementi portanti di questo lavoro completamente registrato dal vivo durante alcune tappe italiane, souvenir di un viaggio in continuo movimento.
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EXABYTE TRA CARTA E RETE
di Franco Carlini è voluta una dozzina d’anni, ma alla fine la comunicazione in rete e quella di carta stanno infine confluendo (o configgendo?). Nelle redazioni tutti ne stanno discutendo, grazie al fatto che in aprile il potente re dei media, Rupert Murdoch, lo ha detto a chiare lettere, anche in termini autocritici: “I lettori vogliono controllare i media, invece di essere da loro controllati”, aggiungendo che internet ha cambiato il panorama dei giornali e delle news, e che gli editori devono prenderne atto. Cosa è avvenuto dunque nell’editoria in questi dodici anni di web? Ma prima ancora che cosa non è successo? Non è avvenuto che il nuovo mezzo di comunicazione soppiantasse quelli precedenti (giornali, radio, televisione); ci fu chi lo teorizzò, basandosi sulle supposte e superiori virtù dell’internet (ipertestualità, multimedialità e interattività) ma le cose non sono andate in quel modo per due motivi: perché i fruitori dei media hanno delle naturali inerzie, ma soprattutto perché ognuno, vecchio o nuovo che sia, ha i suoi pregi specifici, incardinati sia nella tecnologia che nella storia. E’ successa tuttavia un’altra cosa, e cioè che una “tecnologia abilitante” come l’internet ha messo a disposizione di tutto il mondo, in modo relativamente facile e soprattutto economico (quando non addirittura gratuito) una quantità di informazioni e conoscenze che non ha pari con nessuna epoca del passato. Secondo la più completa ricerca in proposito, condotta nel 2002 dall’università di Berkeley in California,ogni anno vengono prodotti e depositati su un supporto digitale 5 exabytes di nuova informazione ogni anno. Un exabyte vuol dire 1.000.000.000.0 00.000.000 e cioè 10 alla 18-esima potenza. Il principale effetto di questa crescita vertiginosa non è la scomparsa dei giornalisti e dei giornali, ma semmai un loro ruolo ancora più importante come intermediari di fiducia dei lettori. Nei primordi dell’umanità eravamo tutti “cacciatori-raccoglitori” (hunter gatherer) ma con la rivoluzione agricola si crea del surplus, un’abbondanza, e nasce la divisione del lavoro: c’è chi coltiva, chi gestisce i depositi, chi alleva, chi cucina. Gli intermediari dell’informazione e dei saperi non fanno altro, in ultima analisi, che leggere per conto terzi, raccogliendo, scegliendo, contestualizzando, spiegando e dunque mettendo i lettori in grado di farsi una loro idea. Questo era già vero prima dell’internet, ma con la rete il fenomeno ha preso una tale accelerazione da mutare totalmente il panorama. La quale rete ha prodotto però anche un’altra modifica strutturale, qualitativa e non solo quantitativa: dunque non solo c’è molta informazione in più, non solo aumenta il ruolo degli intermediari, non solo la disseminazione delle informazioni è largamente facilitata, ma cambia anche la modalità di produzione delle idee. In un circuito P2P (“da pari a pari”, senza passare per de-
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gli snodi centralizzati), vengono messi in contatto diretto gli hard disk di computer lontani e con essi i contenuti che i loro proprietari vi hanno depositato. E’ il modello esattamente opposto a quello delle Teche Rai (per citare un ottimo esempio di magazzino centralizzato di contenuti multimediali): una rete P2P può essere vista invece come un unico e più vasto archivio mondiale, anche se fisicamente sparpagliato. I milioni di blog possono apparire ai professionisti del giornalismo un ammasso di informazione inutile, sovente inaffidabile spazzatura, ma ci sono: alcuni di loro sono scritti da grandi firme, altri da autori sconosciuti ma competenti, tutti aggiungono sia informazione che rumore. I sistemi Wiki, dove i singoli testi possono venire corretti e modificati da una moltitudine di autori si stanno rivelando un modo efficace di accumulare non solo notizie ma saperi, grazie al fatto puramente statistico che una comunità di autori responsabili può risultare più informata e capace di validazione di un caporedattore esperto. A questo punto la discussione è aperta, anche se già ci sono fin troppi diversi nomi per queste forme di giornalismo. Tra le altre: giornalismo di base, di comunità, partecipato, civico, guidato dai lettori (grassroots, community, participatory, citizen, reader-driven journalism). Alcuni editori vedono con spavento tutto ciò e in genere i giornalisti esprimono disgusto per i molti rischi di deterioramento della serietà, completezza e obiettività dell’informazione che un giornalismo dal basso comporta. Altri editori, forse più lungimiranti, ne scorgono anche le opportunità: se sono i lettori stessi a creare i contenuti, allora i costi di produzione scendono. Se l’informazione è solo online, anche gli altri costi vanno verso il basso, eliminando carta, tipografie e furgoni. Se la pubblicità online davvero cresce (come sta crescendo) allora anche il fatturato potrebbe essere sostenibile. E’ un modello possibile? Tutti se lo chiedono. Lo scetticismo non manca ed è più che legittimo, ma qualcuno, specialmente in piccole comunità locali nord americane, lo sta sperimentando. Sono delle prove sul
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campo da seguire con attenzione che ci si chiami Murdoch, De Benedetti o Valentino Parlato. Per esempio c’è il caso di Yourhub, un giornale di comunità attivato dal giornale del Colorado Rocky Mountain News. La squadra è fatta da 12 persone, ma le notizie vengono dai lettori e con esse tutti gli eventi più minuti delle diverse contee dello stato, che avvengano a Boulder come a Columbine o a South Denver. Da sorvegliare con la dovuta attenzione è anche, tra gli altri, il Northwest Voice, attivo a Bakersfield in California, una città di 250 mila abitanti. Potrà fare sorridere che l’articolo più letto sia quella di un rodeo di paese, con la notizia che lo sceriffo e i suoi uomini hanno fatto un ottimo lavoro nel regolare il traffico e il resoconto della stupenda prestazione dei clown, ma anche così si crea e alimenta una comunità. Questi modelli minori delineano tendenze possibili: sono gratuiti come la “free press” ma la carta diventa solo uno dei supporti su cui le notizie scendono. Si potrebbe immaginare un modello rovesciato: in quello dei giornali attuali viene prima viene il quotidiano di carta e quindi, a supporto improduttivo, il sito web; nel modello inverso sarebbe la carta a divenire secondaria, trasformandosi in strumento importante e maneggevole di promozione del sito. La carta raccoglie e seleziona il meglio delle notizie web, ma è nella rete che avviene la produzione e il grosso del fatturato. Chissà.
Come internet ha cambiato i rapporti tra i giornali e la rete. Nessuno ha vinto, ma è il momento di fare e inventare un nuovo giornalismo. Le prospettive, gli esperimenti, le realtà, facendo i conti con una quantità di conoscenze che non ha pari con nessuna epoca del passato
La macchina da scrivere portatile Olivetti Valentine, disegnata da Ettore Sottsass con P. A. King nel 1969, è esposta al MOMA di New York. L’edizione per il web del quotidiano francese Libération all’indirizzo www.liberation.fr
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A sinistra, una Oliver n.9 prodotta dal 1916 al 1922 negli Usa. Tutte le Oliver sono caratterizzate dalla particolare forma a U dei martelli dei caratteri, disposti sui due lati. Si accompagna col giornale on line sudafricano The Star (www.thestar.co.za)
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Macchina da scrivere portatile Groma Kolibri Luxus (ca. 1962), Germania Est, con la home page del quotidiano spagnolo ABC (www.abc.es)
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di Raffaele Mastrolonardo i sarà anche un’italiana fra i 300 giornalisti che si incontreranno il 23 giugno prossimo a Seul per l’OhMyNews International Citizen Reporter Forum, il raduno dei giornalisti-cittadini di tutto il mondo. Verdiana Amorosi, 25 anni di Viterbo, laureata in lingue, ha scoperto il giornalismo partecipativo per caso: “Sono venuta a conoscenza di OhMyNews grazie a un testo che leggevo per la mia tesi di laurea sui quotidiani online. Ho notato che avevano attivato una versione internazionale e ho mandato un pezzo sulla notte bianca di Roma. Così è iniziata la collaborazione”. E così iniziano tutte le collaborazioni con il quotidiano online più famoso di Corea: si pensa di avere una notizia, si scrive un pezzo, lo si invia e, in caso di pubblicazione, si è anche pagati. Nato nel febbraio del 2000, il coreano OhMyNews (www.ohmynews.com) è l’esempio più celebre di quei nuovi ceppi di giornalismo digitalmente modificato che il Web ha reso possibile. Citizen journalism, public journalism, giornalismo partecipativo, sono alcune delle espressioni utilizzate per descrivere formule editoriali talvolta molto diverse tra loro ma con una caratteristica comune: la rottura dei rapporti (e delle barriere) che tradizionalmente legano (o separano) giornalisti, lettori, redattori ed editori. Nel caso di OhMyNews, parto della mente e dell’iniziativa del giornalista Oh Yeon Ho, oltre 35 mila reporter “cittadini” aiutano uno staff di 54 giornalisti a tempo pieno (su un totale di 75 dipendenti) a produrre un giornale online che racconta una Corea alternativa rispetto all’immagine offerta dai grandi media locali. L’atteggiamento antigovernativo e antiamericano ha portato alla testata non solo lettori (700 mila visitatori giornalieri) ma anche credibilità e “peso” nella sfera pubblica. Nel 2002, appena eletto, il presidente Roh Moo Hyun diede la sua prima intervista proprio al giornale online, che lo aveva sostenuto nella campagna elettorale. Nell’ultima classifica dei media più influenti del Paese, OhMyNews si collocava all’ottavo posto. Sono i citizen reporter a produrre il 70 per cento dei contenuti della testata, pagati dai 2 ai 20 dollari a seconda del pezzo (“Anche se il pagamento avviene a blocchi di 20-25 articoli”, precisa Amorosi). Il tutto, con un taglio assolutamente personale. “Incoraggiamo
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i nostri collaboratori ad essere se stessi, – spiega via e-mail Jean K. Min, responsabile dei contenuti internazionali - a non copiare lo stile dei professionisti”. Lo stesso principio è esteso alla neonata versione internazionale, che conta 300 collaboratori da tutto il mondo e che adotta la stessa linea editoriale: valori di sinistra e racconti dal basso. “Siamo un medium liberal, - continua Min - e proponiamo su scala mondiale uno sviluppo politico progressista. Il nostro obiettivo è espandere il giornalismo partecipativo dei cittadini in ogni angolo del mondo”. L’appuntamento di Seul alla fine di giugno servirà proprio a fare il punto sull’iniziativa e a valutare l’opportunità di eventuali imprese locali anche al di fuori della Corea del Sud.
Se hai una notizia e non sei un giornalista, scrivi e spedisci lo stesso. Sarai pubblicato sulla rete e spesso anche pagato. Il caso OhMyNews in Corea, la velocità americana di Wikinews. Le vie della partecipazione sono infinite
Nel modello coreano, alla massima apertura del processo di scrittura corrisponde una centralizzazione tradizionale del controllo editoriale. I lettori sono incoraggiati a scrivere, ma l’attività di filtro e selezione rimane saldamente nelle mani dei professionisti. In altre varianti della news partecipata cade anche questa barriera. Nel sito Kuro5hin.org, specializzato in tecnologia e cultura, ad esempio, le scelte redazionali spettano alla comunità dei lettori/collaboratori. Due le liste virtuali attraverso cui un articolo deve passare. Nella prima, quella di editing, il contributo è commentato dalla comunità, che offre pareri e consigli all’autore. Nella seconda, quella della votazione, il pezzo è sottoposto al gradimento degli utenti registrati. Qui i lettori decidono se l’articolo è meritevole di pubblicazione, se addirittura può raggiungere la home page oppure deve accontentarsi delle sottosezioni del sito. Dalla redazione dei professionisti a quella della comunità,
si può scendere più a fondo, fino alla stesura partecipata. Basta entrare nell’universo Wiki, parola hawaiana che significa “veloce” e che nell’informatica di inizio millennio designa applicazioni Web che favoriscono la collaborazione e la produzione collettiva di conoscenza. In Wikinews, l’ultima impresa partorita dai creatori di Wikipedia (www.wikipedia.org), l’enciclopedia elaborata dalla comunità degli internauti, tutti i tradizionali rapporti di forza e di produzione sviluppati dai media tradizionali si azzerano: le notizie sono scritte, editate e aggiornate collettivamente. “E’ una sfida – racconta al telefono Jimmy “Jimbo” Wales, l’imprenditore dell’Alabama che ha ideato Wikipeda - nel caso dell’enciclopedia, una singola “voce” può essere ripetutamente corretta nel tempo, prima che raggiunga una versione definitiva. La notizia, invece, deve raggiungere un buon livello di accuratezza praticamente da subito. Il problema può essere affrontato solo con un’adeguata organiz-
I GIORNALI IN CRISI SFOGLIANO IL WEB L’ha detto Rupert Murdoch, lo confermano i dati Usa. Mentre il tycoon australiano, di fronte agli editori di tutto il mondo, paventa la progressiva scomparsa dei giornali, la circolazione dei quotidiani a stelle e strisce nel periodo ottobre 2004-marzo 2005 cala dell’1,9 per cento, il più ampio declino degli ultimi 9 anni. Non bastassero Murdoch e il calo di aficionados, ci sono i dati sulla credibilità. Vent’anni fa, poco più di un americano su sei sosteneva di credere poco o nulla di quello che leggeva nei quotidiani. Oggi, ad essere altamente diffidente è quasi uno statunitense su due. E siccome piove sempre sul bagnato, ci si mette anche Internet. Se la Rete non sembra cannibalizzare troppo gli altri media, per i quotidiani il discorso è un po’ diverso. Nel 2004 i lettori dei giornali online si sono mostrati meno inclini che in passato a tornare alla carta. Non si tratta di lettori del tutto persi (si rimane sempre nello stesso circolo), ma come è noto, le edizioni virtuali producono meno profitti di quelle cartacee. Non stupisce dunque che i grandi quotidiani americani corrano ai ripari. Puntando sulla Rete. Alla fine del 2004 il Washington Post ha comprato Slate, storica testata online di proprietà Microsoft. The New York Times Co., il gruppo editoriale che controlla il più famoso quotidiano del mondo, ha risposto a febbraio con l’acquisizione di About.com, portale che fornisce agli utenti informazioni di esperti su temi come salute, finanza, cibo e viaggi. Prezzo 410 milioni di dollari. Il sito fornirà al gruppo un’ulteriore piattaforma per mettere in mostra i prodotti del gruppo e quelli degli investitori, dando ossigeno alla raccolta pubblicitaria. Anche il Wall Street Journal, unico esempio di grande quotidiano che guadagna con un’edizione online completamente a pagamento, si muove. Da qualche tempo il sito del giornale economico offre un articolo al giorno gratis. Obiettivo: farlo circolare liberamente sui blog di tutto il mondo. Per quanto preoccupati, nessuno dei grandi quotidiani a stelle e strisce si è spinto avanti quanto il cileno Las Ultimas Noticias (LUN), che in pochi anni è passato dalla crisi alla palma di giornale più letto del Paese. Tutto grazie all’edizione online. Sfruttando un sofisticato sistema di monitoraggio dei click, che permette di registrare le notizie più lette e di tracciare il profilo degli utenti, identificandone desideri, gusti e preferenze, la redazione sceglie ogni giorno i contenuti da inserire nell’edizione cartacea. Si stampano così solo le notizie appartenenti a generi e categorie che hanno ricevuto l’indice di gradimento maggiore. (r.m.)
zazione sociale assecondata dal software. Anche in questo caso confidiamo che la formula sia trovata dalla comunità dei collaboratori”. Nel frattempo, il numero di articoli pubblicati nell’edizione inglese di Wikinews ha raggiunto i 1.500, mentre gli utenti registrati arrivano a 2.490. Cifre più contenute per le altre edizioni nazionali: si va dai 1.000 articoli del sito tedesco al centinaio della versione italiana. Rispetto a OhMyNews, le collaborazioni per Wikinews sono gratuite (“anche se non siamo pregiudizialmente contrari a un contributo per i reporter”, precisa Eric Moeller, programmatore, giornalista freelance e responsabile del progetto Wikinews). I contenuti, a differenza che nel giornale online coreano, sono “aperti”, cioè liberamente distribuibili e riproducibili, mentre il sito non ospita pubblicità sopravvivendo solo grazie a donazioni. Per ora, la maggior parte delle notizie proposte da Wikinews si appoggiano ad altre fonti. Il lavoro collettivo della comunità consiste principalmente nell’accertamento dei fatti e nella comparazione delle affermazioni per verificarne la plausibilità. “Il risultato – secondo Moeller – è nella maggior parte dei casi migliore delle fonti a cui ci appoggiamo. La nostra forza è non avere costrizioni economiche: può accadere che qualcuno della community passi l’intera giornata a cercare informazioni su una storia a cui i media tradizionali non dedicano più di un’ora.” Il prodotto finale è una sorta di anti-GoogleNews (http: //news.google.com), il giornale telematico generato automaticamente dal motore di ricerca aggregando varie fonti di informazione, senza l’intervento umano. In Wikinews l’opera di selezione, sintesi e verifica delle
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I giornali telematici che nascono con la collaborazione dei cittadini-giornalisti sono una sorta di antitesi di prodotti come GoogleNews, generato automaticamente dal motore di ricerca aggregando varie forme di informazione, senza intervento umano
notizia è condotta interamente dagli individui in modalità collettiva secondo una politica di trasparenza assoluta, interna ed esterna.”In caso di attività giornalistica originale - prosegue Moeller - chiediamo tutta la documentazione possibile. Ma soprattutto abbiamo un meccanismo di di-
scussione aperto che consente a tutti di correggere gli errori. Tutto è pubblico: se qualcuno segnala un’imprecisione, siamo costretti a correggerla, pena un grave danno di reputazione, che è il nostro unico capitale”. Non stupisce che tra gli obiettivi di Wikinews ci sia quello, rivela Moeller, di diventare
NEWS VIRTUALI PROSPERANO
Quanti sono, chi sono e come si comportano i consumatori di informazione virtuale? Alcune ricerche americane ci offrono qualche indicazione sul (prossimo) futuro di casa nostra. Secondo lo State of the News Media 2005, che fotografa lo stato del giornalismo statunitense, un quarto degli americani ogni giorno si rivolgerebbe al Web per l’informazione. La percentuale sale se si misura un uso “giornalistico” della Rete un po’ meno frequente ma sempre significativo: poco meno di un terzo cento degli abitanti d’oltreoceano va in cerca di news virtuali almeno tre volte la settimana (erano il 23 per cento nel 2000). Un americano su cinque, poi, afferma di avere ricevuto la maggior parte delle informazioni sulle ultime elezioni da Internet. Questi dati vanno letti in prospettiva. La Rete cresce come fonte di informazione, altri media calano. Nel suo rapporto sugli scenari dei media nel 2005, il Pew Research Center for the People & the Press (PRCPP) ci rivela che la percentuale degli americani che regolarmente ricevono le informazioni dalle tv locali è scesa drammaticamente: dal 77 per cento del 1993 al 59 per cento del 2004. Non sono messi bene i quotidiani (16% in undici anni), e nemmeno la radio può essere allegra(dal 47 al 40). Al contrario, il trend per le news online è in crescita: i fedelissimi delle notizie virtuali erano il 2 per cento della popolazione nel ’96, sono schizzati il 29 per cento nel 2004. Ce n’è abbastanza per affermare che la Rete sta mangiando gli altri media? Non proprio. In parte, perché la palma del “grande cannibale” degli ultimi dieci anni va sicuramente alle tv via cavo. In parte perché le abitudini giornalistiche dei consumatori digitali sono molto variegate. Sempre secondo il PRCPP, il 71% di coloro che si informano online almeno una volta la settimana sostiene di usare altri media tanto quanto prima dell’avvento della Rete. Va notato inoltre che al contrario di quello che prevedevano molti esperti, Internet si rivela una buona “esca”. Alcuni sondaggi indicano che il 73 per cento degli internauti sostiene di essere venuto a contatto con una notizia virtuale anche se si era collegato per un altro motivo (erano il 55 per cento nel 1999). Non è detto dunque, con buona pace di molti affrettati soloni, che il futuro dell’informazione in Rete sia “specialistico” o completamente “personalizzato”. Internet, almeno per ora, sembra invece assolvere una funzione simile a quella negli anni ’60 ha svolto la tv: attirare all’informazione anche chi non ne è primariamente interessato. (r.m.)
“l’archivio gratuito di notizie più importante di tutto il Web”. Le vie della partecipazioni possono prendere anche percorsi più tradizionali, senza entrare nei meccanismi di selezione, scelta e scrittura della news come accade in ambiente Wiki. Ma consentendo la nascita di nuovi rapporti economici. Il Web, nella sua caratteristica funzione di ammazza-intermediari, permette sempre più spesso una relazione diretta tra giornalisti e lettori. Famoso è l’esempio di Joshua Micah Marshall, celebre blogger (http: //www.talkingpointsmemo.com/ ), che nel 2003 riuscì a farsi finanziare dai suoi lettori una trasferta nel New Hampshire per coprire le primarie del partito democratico. Meglio di lui ha fatto Christopher Allbritton (http://www.back-toiraq.com/), che dai suoi lettori si è fatto spedire addirittura in Iraq. Proprio questa possibilità di interagire con i lettori ha spinto Dan Gillmor, celebre giornalista tecnologico del San José Mercury, quotidiano della Silicon Valley, a teorizzare l’avvento del giornalismo-conversazione aperto ai contributi dei lettori al posto di quello tradizionale, in cui il reporter, dal pulpito, impartisce lezioni. Con grande coerenza, Gillmor ha da poco lasciato il posto lautamente pagato al giornale per imbarcarsi in una avventura di giornalismo partecipativo. E vedere se è davvero possibile stare “dalla parte del lettore”. raffaele@totem.to
Qui sopra, la Columbia Bar-Lock n.14 (1910) con la tastiera “estesa” e il giornale marocchino Al Bayane (www.albayane.ma)
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COSA FARE CON UN GRID TRA LE MANI di Luciano Lombardi na griglia non è una rete, anche se ci assomiglia parecchio: Grid, la griglia appunto, ha un’architettura concettualmente molto vicina a quella di Internet, ma è qualcosa d’altro. Non è un giochino di parole, ma soltanto un modo per dire che tra i due fenomeni c’è una certa affinità anche se uno dei due è come se partisse da dove l’altro termina. Come la rete, quella con la R maiuscola, la griglia delinea un insieme di computer in cui ogni macchina può interagire con tutte le altre grazie a un protocollo di regole informatiche e ad Internet nella sua veste di puro tubo trasmissivo. Grid è dunque un universo tecnologico fatto di tanti pianeti in ognuno dei quali l’hardware convive con il software e con tutta una serie di servizi di varia natura. Ogni pianeta può operare liberamente con gli altri in modo da poter essere il più efficiente; più efficiente lui, più efficiente l’intero sistema. O ancora, fuor di metafora e per dirla in un gergo più tecnico, si tratta di una sorta di data center virtuale che sa trarre la massima forza dall’unione dei singoli computer che lo compongono. Sciolto il nodo della definizione, per entrare nel vivo, cioè capire che cosa è possibile fare con una Grid tra le mani, abbiamo chiesto aiuto ad Andrea Negro, massimo esperto nel campo che lavora in Ibm, la regina indiscussa in un settore che vede impegnati a vario titolo anche altri colossi come Oracle, Sun Microsystems ed Hewlett-Packard. Da buon informatico qual è, il nostro interlocutore ci viene incontro con una spiegazione molto schematica, anzi modulare. “Un reticolato può essere di tre tipi”. Il primo, il più semplice, è quello computazionale, spiega chi ci sta accompagnando nell’esplorazione del fenomeno. Siamo nel campo dell’elaborazione distribuita cioè nella possibilità di prendere un calcolo e spezzettarlo in tante porzioni, ognuna delle quali è appannaggio di un computer che opera in piena autonomia. Una volta che ogni macchia avrà svolto il suo lavoro, i singoli pezzi verranno ricomposti ottenendo il risultato finale. Si fa ricorso a questa modalità di elaborazione sminuzzata e dislocata in vari punti quando il calcolo da effettuare è di grandi dimensioni e per essere svolto richiederebbe una potenza che solo i grandi e costosissimi supercomputer possono offrire. “Le applicazioni possibili dell’elaborazione distribuita sono pressoché infinite – continua Negro – in ambito scientifico,
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Grid, la griglia che delinea un insieme di computer in cui ogni macchina può interagire con tutte le altre grazie a un protocollo di regole informatiche e con internet. Una sorta di data center virtuale
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ma anche per effettuare simulazioni con finalità commerciali”. In materia, finora, si è fatto e si è detto di tutto e di più. Qualche esempio: uno dei primi oggetti Grid degni di fregiarsi di tale nome lo ha realizzato nel 2001 proprio Ibm in collaborazione con l’Università della Pennsylvania per lo screening e la diagnosi dei tumori al seno. Successivamente sono stati via via coinvolti gli studi per la lotta al vaiolo e tutta una serie di altre applicazioni per la genetica, la medicina e l’ingegneria, il settore agricolo e quello petrolifero, e perfino per sviluppare giochi online per la PlayStation. Torniamo alle definizioni per scoprire che la seconda tipologia di Grid computing (la cosiddetta DataGrid) riguarda sempre i dati, ma questa volta non ha a che fare tanto con la loro trasformazione, bensì con l’archiviazione, il come e dove mettere e spostare i dati, per dirla in maniera molto semplificata, virtualizzazione dello storage per dirla con le parole tecnicamente più corrette. Il progetto più avanzato di gestione dei dati sta prendendo forma a Ginevra, presso il Cern (Consiglio Europeo per la Ricerca Nucleare), il più grande centro mondiale di ricerca sulla fisica delle particelle. Proprio il Cern si è reso recentemente protagonista di una sperimentazione per verificare il funzionamento di Grid a cavallo tra la prima e la seconda tipologia. Dai suoi laboratori è partito un flusso di dati, diretti sia in Europa che negli Stati Uniti verso altri sette centri di ricerca, alla velocità di 600 megabyte al secondo per dieci giorni consecutivi, arrivando a trasmettere una quantità complessiva di 500 terabyte di dati, una mole enorme che – tanto per avere un’idea dell’ordine di grandezza – con un computer e una connessione Internet casalinga a larga banda avrebbe richiesto una quantità di tempo pari a diverse decine di anni. La terza tipologia sarà una sorta di tappa finale nella quale convergeranno le altre due dimensioni viste finora. Tale obiettivo si chiama “griglia di servizi” e consisterà nel poter chiamare in causa il modello Grid per gestire le esigenze più disparate del computing. La comunità scientifica e
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la aziende che la supportano con la fornitura delle infrastrutture idonee sperano di arrivare, in un futuro non troppo remoto, a poter realizzare una mega griglia su scala mondiale in cui tutti i principali centri di ricerca mondiale siano tra loro interdipendenti e in questo modo possano lavorare assieme traendo della loro unione la forza necessaria a risolvere problemi sociali che da soli rimarrebbero troppo grandi. Insomma, la spinta all’innovazione che potrà pervenire da Grid è potenzialmente notevole, paragonabile a pochi altri casi nella storia informatica. Tuttavia il percorso è tutt’altro che in discesa. Intanto, conclude il nostro virgilio di questa passeggiata tecnologica, “gli standard su cui questo scenario si regge sono ancora piuttosto grezzi e devono maturare”. Senza contare che oggi, i produttori che realizzano le tecnologie abilitanti necessarie a mettere in piedi un progetto di griglia tendono ancora a lavorare in autonomia gli uni dagli altri. Il rischio è quindi che il sogno di un unico reticolato onnicomprensivo in cui tutti i soggetti coinvolti parlano la stessa lingua venga spazzato via da una babele di griglie autonome e settoriali incapaci di comunicare tra di loro. A dimostrazione di come questa eventualità sia tutt’altro che remota è stato già predisposta un’organizzazione internazionale super partes, il Global Grid Forum, che lavora alla realizzazione di standard univoci ai quali ogni soggetto interessato a Grid dovrà conformarsi.
luciano.lombardi@totem.to
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Blickensderfer N. 7 (1910), ha i caratteri disposti su un cilindro rotante e la tastiera non-QWERTY. La maggior parte delle macchine da scrivere ha utilizzato una particolare disposizione dei tasti che fu brevettata nel 1878: i primi sei caratteri alfabetici compongono appunto la sequenza «QWERTY». Oltre cento anni anni dopo la ritroviamo sulle tastiere dei nostri computer. All’interno della Blickensderfer, lo spagnolo El Pais (www.elpais.es)
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La macchina da scrivere portatile Underwood Quiet Tab (ca. 1955). Dalla Svizzera, la versione elettronica del L’Express (www.lexpress.ch)
LA VOSTRA RADIO SU MISURA
di Francesca Martino mmaginate di dover fare un lungo viaggio in auto, da soli. Accendete l’autoradio: su una stazione trovate solo noiosi approfondimenti economici, vi spostate su un’altra e ci sono ore e ore di interventi degli ascoltatori; alla disperata ricerca di un po’ di musica vi rivolgete a una radio commerciale, e qui venite sommersi di pubblicità. Una volta finito il giro delle frequenze disponibili non resta che ricominciare. Per magari scoprire che il vostro programma preferito è appena terminato. Bene, se soffrite anche voi di questa sindrome da radioascoltatori frustrati, è il caso di meditare seriamente sul passaggio al podcasting. Con questo sistema – il cui nome è una abbreviazione tra “iPod”, il lettore Mp3 della Apple, e “Broadcasting” – potete crearvi la vostra radio su misura, scegliere i vostri programmi preferiti, e decidere quando, dove e in che ordine volete ascoltarli. Per liberarsi della dittatura del palinsesto è sufficiente avere un computer con una buona connessione Internet, scaricarsi un apposito programma gratuito, e navigare un po’ per scegliere le proprie “emittenti” preferite, magari attraverso le directory specializzate. A questo punto ogni volta che volete ascoltare gli ultimi “podcasts” disponibili online, sarà sufficiente lanciare il programma, connettere, se lo avete, il vostro lettore Mp3, e aspettare qualche minuto. Sul vostro computer o sul vostro player portatile è in onda la radio. Il podcasting è un mezzo potenzialmente rivoluzionario, che affonda le sue radici nel mondo dei blog, e comincia ora ad affacciarsi anche sui media tradizionali, segnando probabilmente l’inizio della sua trasformazione da fenomeno di elite, per “smanettoni”, a fenomeno di massa diffuso in tutto il mondo, così come è avvenuto per i weblog negli ultimi anni. Fanno discutere le due notizie giunte all’inizio di
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maggio a pochi giorni di distanza: un’emittente di San Francisco si dedica interamente a trasmettere “podcasts”, ovvero i brani Mp3 messi in rete per il podcasting e, poco dopo, la stazione satellitare Sirius Radio annuncia uno show quotidiano di quattro ore tenuto da Adam Curry, anche questo interamente basato sui lavori dei “podcaster”. Nel primo caso si tratta di 1550 KYCY, una stazione radiofonica in modulazione di frequenza, ribattezzata KYOURadio e dedicata, dal 16 maggio, a mandare in onda le trasmissioni inviate dagli ascoltatori o scovate dai produttori su Internet. Dunque questa volta l’iniziativa non parte dal basso, ma arriva direttamente da un gigante delle telecomunicazioni: l’emittente californiana è infatti parte di Infinity Radio, divisione radiofonica del Gruppo Viacom, che possiede 183 stazioni ed è uno dei circuiti più grandi degli Stati Uniti. Inizialmente su KIOURadio non ci saranno programmi prefissati, in attesa di “sintonizzarsi” in base agli interessi del pubblico, ma di sicuro ci sarà pubblicità, e questo fa intravedere il possibile schema di business che sta dietro all’idea di Viacom: avere contenuti gratis, un pubblico selezionato, e spazi in cui vendere spot pubblicitari. Se il “ritorno all’etere” del podcasting fa storcere il naso a più di un appassionato, la decisione di Adam Curry di trasmettere per la radio satellitare Sirius uno show con una selezione di podcasts presi dalla Rete sta suscitando un vero vespaio. La nascita del programma, che si chiama “The Adam Curry’s PodShow” ed è in onda dal 13 maggio, viene vissuta da molti come un tradimento da parte di un personaggio che è un vero mito nel mondo dei blog e degli audio-blog. Adam Curry infatti, ex video-jockey di Mtv appassionato di informatica, è considerato il fondatore, o uno dei fondatori – anche qui la discussione è aperta – del podcasting.
ALCUNI LINK http://www.ipodder.org da qui potete scaricare IPodder e navigare una ricca directory di fonti di Podcasting. http://qix.it/ un blog italiano sulle nuove tecnologie; un punto di riferimento per tastare lo stato dell’arte in Italia. http://www.podcastalley.com/ offre un frequentato forum, news e una sezione dedicata ai software. Ottima per farsi un’idea del podcasting la pagina “Top 50 podcasts”. http://podcastingnews.com tutte le news sul podcasting, un forum e una scelta di podcasts da navigare. http://www.podcast.net/ una classica dirctory, con motore di ricerca avanzato.
Nel 1994 ha lasciato la televisione per dedicarsi esclusivamente alla Rete, fondando una sua internet company. Nel 2003 ha creato il programma “podcatcher” più diffuso, IPodder, aggiorna quotidianamente un seguitissimo blog e produce ogni giorno il “Daily Source Code”, podcast scaricato da migliaia di persone. Se un sito di podcasting viene citato tra i suoi preferiti vede immediatamente raddoppiare gli accessi. Ora molti, a partire dai visitatori del suo blog (http://live.curry.it) gli rinfacciano questo ritorno al broadcasting, e gli ricordano che in passato aveva più volte definito l’etere “un cavallo morto”. Questi due eventi recenti sembrano segnare una sorta di corto circuito mediatico: attraverso il podcasting si voleva fuggire dalla radio – dalle sue limitazioni, dalla sua forma rigida e monodirezionale – e ora è la radio che si riappropria della rete. Il timore è che si passi in poco tempo da una promessa di rivoluzione – trasformare la radio in un media collettivo e democratico dove tutti possono trasmettere e tutti possono ricevere – a una moda, svuotata del suo significato più autentico e travolta dagli interessi commerciali degli editori. Sul fronte del copyright per ora non ci sono guerre in corso: da un lato i podcasts non sono una minaccia paragonabile al peer-to-peer, trattandosi di trasmissioni lunghe (spesso un’ora o più), e ricche di parlato, dall’altro i podcaster si muovono in modo molto prudente, e cercano di inserire nei loro file musica “podsafe”, ovvero che si può mandare in onda legalmente. Ma come funziona? “È più semplice farlo che dirlo”, come recita l’adagio popolare. E in effetti al momento i problemi più grossi di chi volesse addentrarsi in questo mondo sono solo due: trovare i siti che fanno al caso proprio e capire l’inglese, dato che i siti che fanno podcasting in italiano si contano sulle dita di una mano. Il podcasting è spesso definito un “audio-blog” perché il principio di base è simile: ogni giorno – ogni settimana, o quando si vuole – si pubblica un post con qualcosa che si ritiene interessante per visitatori del sito: in un blog normale è in genere un testo, in un audio-blog è un file Mp3. Per fare podcasting però bisogna fare un passaggio in più: oltre a mettere online una trasmissione radio in formato Mp3, bisogna renderla disponibile tramite RSS 2.0, uno strumento XML che permette ad appositi software (aggregatori) di controllare e scaricare automaticamente sul computer dell’utente gli ultimi file pubblicati. Dalla parte di chi ascolta quindi il lavoro da fare è minimo: si inseriscono nel software i link al file RSS dei siti che ci interessano, e ogni tanto ci si connette per permettere al programma podcatcher di scaricare le novità, ed eventualmente di trasferire i file sul lettore Mp3 portatile.
Un oggetto potenzialmente rivoluzionario che affonda le radici nel mondo dei blog e comincia ad affacciarsi anche sui media tradizionali. Quella emittente di San Francisco che trasmette soltanto “podcasts”
francesca.martino@totem.to
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Portatile Torpedo con tastiera cirillica, costruita in Germania nel 1931 e esportata dalla Wostwag, società sovietica con sedi a Berlino e a Ulan Bator (Mongolia). Nel carrello: home page della russa Novaya Gazeta (www.novayagazeta.ru)
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Il risultato del lavoro della Commissione interministeriale sui contenuti digitali nell’era di internet. Lo squilibrio di casa nostra, il lavoro assegnato ai privati e quello assegnato al settore pubblico
La Hammond Folding Multiplex del 1923, era dotata di un doppio set di caratteri che si poteva alternare velocemente; si poteva modificare anche la spaziatura dei caratteri. Informazione on line per gli utenti del provider brasiliano BR10 (www.br10.com.br)
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PROCESSI E DIRITTI REPRESSI
di Gabriele De Palma ’ultima novità istituzionale in tema di nuove tecnologie è il documento su I contenuti digitali nell’era di Internet, frutto del lavoro della Commissione Interministeriale istituita nel luglio scorso dai ministeri dell’Innovazione (Stanca), dei Beni culturali (Urbani) e delle Comunicazioni (Gasparri). La Commissione, presieduta dall’Ing. Vigevano, ha rilasciato un documento interessante e aggiornato dopo aver ascoltato la posizione dei vari attori interessati. Il contesto in cui si muove è quello del celebre “dilemma digitale”: la necessità di ricercare il giusto equilibrio tra diffusione dei contenuti e tutela della proprietà intellettuale nell’era della digitalizzazione. Da una parte quindi – e se ne è già parlato criticando dove era il caso – la Commissione ha cercato i modi più idonei alla protezione delle opere dell’ingegno, mentre dall’altra ha fatto il punto sullo stato dei contenuti in formato digitale. Su questo ultimo aspetto vale la pena di soffermarsi con attenzione, visto che di norma ci si concentra sulle distorsioni che la tutela della proprietà intellettuale, affidata quasi esclusivamente alle azioni di lobby dei settori industriali coinvolti, genera. Dai lavori della Commissione risulta che l’Italia è tra i primi in Europa per servizi di telecomunicazione – dietro solo al Regno Unito - e tra gli ultimi per offerta di contenuti. Lo squilibrio tra mezzi e contenuti è tollerabile solo perché il Web è sovranazionale e solo per chi capisce l’inglese. “L’obiettivo dunque è quello di popolare la rete e promuovere lo sviluppo del mercato dei contenuti digitali”, recita la conclusione dell’Executive Summary del documento della Commissione. Come? Due sono le azioni previste per i prossimi anni: “Gli operatori privati dovranno immettere in rete, in tempi brevi, una rilevante quantità di contenuti per favorire la nascita di
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di Emanuela Di Pasqua no storico processo vede in causa le associazioni industriali e alcuni singoli detentori di diritto d’autore contro StreamCast e Grokster (produttori e distributori di software peer-to-peer). Intanto Bush ha appena firmato il Family Entertainment and Copyright Act, che consente di censurare i dvd attraverso software epurativi delle scene scabrose e al tempo stesso dà un ulteriore giro di vite contro la pirateria. Il settore Entertainment è interessato da una grande rivoluzione e, aspettando o commentando le decisioni del legislatore, ci ritroviamo con un diritto morale che non interessa a nessuno e tanta voglia di repressione. Il parere della Corte Suprema sulla causa Mgm vs. Grokster arriverà a giugno, ma sono già in molti a definire storica l’imminente sentenza. L’attesa è alle stelle perché in gioco c’è la tecnologia peer to peer. Soprattutto verrà deciso se si deve considerare responsabile una società
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ambienti telematici per l’offerta legale di contenuti; da parte sua il settore pubblico dovrà immettere in rete contenuti digitali per la diffusione del sapere e della cultura in modalità di pubblico dominio” (e quindi liberamente fruibili). Se il ruolo degli operatori privati è chiaro e, nonostante la pachidermica lentezza con cui stanno reagendo, ci sono i presupposti per l’offerta legale di opere dell’ingegno protette da diritto d’autore, resta più vago per il momento il modo in cui il settore pubblico ha intenzione di diffondere la cultura nazionale in modalità di pubblico dominio. Le opere di pubblico dominio sono quelle per cui la protezione garantita dalla legge sul diritto d’autore è scaduta o che sono state prodotte con licenza particolari (quali quelle
Creative Commons). Per definizione tali opere hanno il compito di favorire lo sviluppo culturale della società. Per semplificare e dare un’idea più precisa sono di pubblico dominio tutte le opere pubblicate da autori deceduti più di settanta anni fa. Di autori e artisti italiani bravi morti prima del 1935 ce ne sono molti, il materiale certo non mancherebbe ma per metterlo in rete è necessario digitalizzare le opere, il che richiede tempo, organizzazione e denaro. A oggi in Italia il progetto migliore per quantità e qualità rimane il Progetto Manuzio, cioè la biblioteca telematica ad accesso gratuito nata nel 1993 dagli sforzi
dell’associazione culturale senza fini di lucro Liber Liber. L’iniziativa ha raggiunto già risultati incoraggianti (sul sito anche la classifica dei libri più scaricati: al primo posto i manuali per Internet, poi Don Chisciotte, Corano, Divina Commedia e Bibbia con una media di oltre 2.000 download al mese, che per i libri non sono pochi) ma certo qualche finanziamento in più sarebbe sicuramente utile. Sempre sul fronte dei testi l’iniziativa più promettente è quella rilanciata dal presidente di turno Ue Jean-Claude Juncker per la realizzazione della messa online del patrimonio bibliotecario europeo. L’Italia ha aderito insieme a Francia, vera promotrice dell’iniziativa, Germania, Spagna, Polonia e Ungheria (vedi riquadro). Aspettiamo i primi stanziamenti di fondi e di sapere come si intende organizzare il lavoro. Sul fronte della musica, eccezion fatta per le opere pubblicate in regime di Creative Commons, quasi tutto lo scibile e il fruibile è ancora protetto dalla legge e quindi quasi sicuramente destinato a una fruizione a pagamento. Per quel che riguarda
la produzione audio-video la Rai procede da tempo alla digitalizzazione del proprio immenso archivio: a oggi la maggior parte di questo patrimonio di risorse è visibile in streaming gratuito sul sito di RaiClick (http: //www.raiclicktv.it/raiclick/pc/ website/). Molto però resta ancora in pellicola, e niente è dato in download, cosa che renderebbe più agevole la fruizione e garantirebbe una migliore, perché più stabile, qualità dei video. Insomma si attendono indicazioni più precise nel prossimo futuro su come il governo intenda agevolare l’immissione in rete di opere in modalità di pubblico dominio dando per assodato, a leggere la relazione della Commissione nelle sue parti più tecniche, che l’interoperabilità tra i formati e le piattaforme e la gratuità dei contenuti siano condizioni necessarie a trasformare una buona dichiarazione di intenti in qualcosa di utile alla collettività.
*www.ilmarchiodelleidee.com
BIBLIOTECHE DIGITALI Il mito delle biblioteche digitali sta trovando sostanza – immateriale – in alcuni progetti interessanti. Gli Stati Uniti vantano quella che oggi è la biblioteca digitale gratuita più completa, frutto dell’ambizioso Progetto Gutenberg (http://www.gutenberg.org). Nell’archivio, realizzato esclusivamente da volontari sono disponibili oltre quindicimila testi. Nel dicembre scorso Google ha annunciato di aver trovato un accordo con cinque prestigiose biblioteche (delle Università del Michigan, di Harvard, di Stanford, di Oxford e con la New York Public Library). Tutti i volumi verranno digitalizzati e messi a disposizione gratuita del pubblico (http://print.google.com/googleprint/library.html). In Europa il migliore progetto di archivio digitale resta quello della BBC (la programmazione radio è già disponibile e ci sono i fondi per i prossimi tre anni di lavoro), ora arricchiti anche dai BBC creative archive in cui i contenuti verranno messi a disposizione con le licenze Creative Commons e quindi riutilizzabili in molti modi (http: //creativearchive.bbc.co.uk). Nei giorni scorsi, in risposta a Google Print Library, è stata lanciata l’iniziativa della digitalizzazione delle biblioteche europee. Finora hanno aderito Francia, Italia, Germania, Spagna, Polonia e Ungheria. L’iniziativa è però ancora nella fase progettuale, anzi per il momento è solo una bozza di direttiva comunitaria, poi diverrà direttiva, poi passerà al vaglio dei vari stati aderenti. La strada sembra insomma ancora lunga. (gdp)
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per l’uso che gli utenti scelgono di fare della sua tecnologia o meno. Ricapitolando, Mgm è un colosso del cinema. Dalla sua parte ci sono la Mpaa e la Riaa, ovvero l’industria cinematografica e quella discografica; Grokster e Streamcast Networks sono invece produttori e distributori di software peer to peer. Dalla loro parte c’è Creative Commons, l’Associazione dei consumatori, la Free Software Foundation e alcuni artisti. Fondamentale è ricordare che le sentenze della Corte Suprema negli Stati Uniti costituiscono precedente vincolante. Inevitabile pensare al lontano 1984, a Sony e al caso Betamax. Vent’anni fa i videoregistratori furono considerati leciti e l’ipotetico utilizzo disonesto della tecnologia fu imputata esclusivamente agli utenti. L’accusa (http:// www.copyright.gov/docs/mgm/) spera ovviamente che la giustizia non ricalchi il caso Sony, la difesa (http://www.copyright.gov/ docs/mgm/P2P-respondents_brief.pdf) spera in un secondo
caso Betamax. L’accusa specifica che sul banco degli imputati ci sono unicamente le due aziende, la difesa evidenzia la differenza tra illiceità dell’uso del software e non il software stesso, ammettendo di aver sobillato in passato gli utenti. Se l’America deciderà di mettere fuorilegge il peer-to-peer cambierà il mondo, quantomeno un pochino. Ma lo scenario più probabile, secondo gli esperti, è che i giudici chiedano a Grokster e a StreamCast una dichiarazione di buoni propositi come conditio sine qua non per continuare ad esistere e un impegno ad eliminare la caratteristica eversiva del software, ovvero la mancanza di un controllo centrale sulla comunicazione tra utenti (ideale questo sito: http://volokh.com/posts/ 1115226455.shtml per seguire i rumors e le ultimissime). E intanto, sempre in America, è stato firmato un provvedimento importantissimo per il settore entertainment. Il Family Act è destinato ad avere implicazioni fondamentali sul diritto d’autore. Da una parte infatti prevede pesanti restrizioni contro la pirateria nel download di Dvd, dall’altra tutela la liceità di quei software che ripuliscono i film
The Chicago (1897) è una macchina da scrivere dai molti nomi: venne chiamata in origine Munson, poi Baltimore, Conover, Draper, Galesburg, Ohio, Yale e Mizpah (una rara versione con l’alfabeto ebraico). Nella Chicago, una prima pagina elettronica del Filipino Reporter (www.filipinoreporter.com)
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delle scene scabrose.
Il Family Entertainment and Copyright Act legalizza i filtri censuranti e di fatto ignora l’importanza del diritto morale dell’autore, ovvero del diritto da parte di quest’ultimo che la propria opera venga conservata intatta nel suo significato profondo e nelle modalità attraverso le quali si esprime. Un tempo gli attori potevano vedere riconosciuto questo diritto, tanto che vantavano una potestà di monopolio sulle modalità di riproduzione e vendita delle proprie creazioni. L’integrità dell’opera ora non viene più difesa, in nome della non violenza e della purezza dei contenuti per i minori. Poco importa che un film venga ridotto, distorto o mutilato. In cambio la legge americana promette pene più severe contro la pirateria, a conferma che i veri interlocutori dell’amministrazione a stelle e strisce non sono autori, registi o sceneggiatori, bensì le major e in generale gli intermediari.
E’ sempre alto lo scontro negli Stati Uniti sui diritti di autore. Nelle aule giudiziarie si decideranno molto cose. Tra cui se si deve considerare responsabile una società per l’uso che gli utenti scelgono di fare della sua tecnologia
Il messaggio è chiaro: il cosiddetto “sanitizing” (ovvero l’igienizzazione) negli Usa è sempre più prioritario e i file-swappers sono considerati i nemici numero uno. A parte il governo, le major e gli autori a beneficiare di questo discutibile provvedimento sono alcune aziende produttrici di filtri. Fu Ray Lines tra i primi a lanciarsi nel business di ripulire i Dvd e ora le più importanti società del settore si chiamano ClearPlay, FamilyFlix, CleanFlicks e CleanFilms. Dapprima c’è stato ovviamente uno scontro tra le aziende produttrici di queste applicazioni e la lobby del cinema. Ora questa legge mette d’accordo un po’ tutti. Con buona pace del diritto morale e aspettando di sapere che ne sarà del p2p.
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CONDIVISIONE SÌ, MA CON PIÙ PUDORE Un rapporto firmato Pew Internet and American Life Project (http: //www.pewinternet.org/PPF/r/153/report_display.asp)C) fotografa le caratteristiche del fenomeno file sharing e segnala le abitudini dei navigatori a proposito di musica e Web. Il sondaggio si è basato su 1.421 utenti della Rete adulti, ed è stato condotto tra gennaio e febbraio del 2005. La realtà evidenziata con maggior decisione è la cosiddetta privatizzazione del file sharing: si copiano canzoni dall’iPod del collega di lavoro o attraverso software per l’instant messaging. In totale infatti il 48% degli utenti ha utilizzato fonti che prescindono dalle reti peer-to-peer e dai servizi di musica a pagamento per ottenere musica o file video. Altro dato è un aumento dei percorsi leciti: il 43% di chi scarica musica dalla Rete ha provato siti legali, contro una percentuale del 24% dell’anno precedente. Cresce la cultura della legalità, come conferma anche la percentuale significativa di persone che credono nella lotta alla pirateria. Circa il 38% degli americani pensa che gli sforzi del governo ridurranno il file-sharing e il 42% crede che la politica del governo avrà successo. Il 22% degli utenti ha scaricato musica online, contro il 32% del 2002. Morale: calo dei download illegali, aumento degli scambi illeciti attraverso player e blog e una piccola percentuale di utenti che si è allontanata dalla musica via Internet per timore. O semplicemente omette di dire tutta la verità nient’altro che la verità. (e.d.p.)
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L’AFRICA DELLE RETI MOBILI
Tra hi-tech e tradizione, il mercato del continente nero è in espansione. La telefonia senza fili ha permesso di saltare a piè pari l’assenza di collegamenti stradali efficienti. Risultato: +5000 per cento tra il 1998 e il 2003
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di Carola Frediani mbattersi nel logo di una compagnia telefonica lungo le strade polverose della Tanzania rurale non è un miraggio. Certo, a volte l’insegna è una contraffazione artigianale, dipinta a mano, che sottende un rivenditore abusivo di linea. Ma fa la sua bella figura insieme alle indicazioni dell’acqua o della benzina. Vecchi e nuovi generi di prima necessità. Perché l’Africa, nelle comunicazioni mobili, è terra di frontiera, quasi onirica negli accostamenti di tradizione e hi-tech. Basta sfogliare gli annunci economici di Paesi come il Sudafrica: che si vendano mucche da latte o bidoni di bitume la conclusione obbligata è il numero di un cellulare. E poi ci sono i chioschi di legno che offrono carte prepagate, in feroce competizione con i bar delle città, i negozi e perfino i parrucchieri. Micro-business che fioriscono con l’aiuto delle reti mobili e dell’arte di arrangiarsi. Non che sia un’avanzata irresistibile: per la maggioranza degli abitanti della Tanzania che vivono con meno di un dollaro al giorno comprare un voucher telefonico può costare la paga di una settimana. E infatti i rivenditori di schede auspicano un allargamento della base clienti. Eppure il mercato esiste ed è in espansione, malgrado le difficoltà tecniche per raggiungere le zone rurali. Servire aree come quelle a nord di Kigoma (Tanzania) significa trasportare tonnellate di materiale delicato attraverso strade dissestate: i viaggi sono lenti, e in alcuni punti sottoposti al coprifuoco. E le stazioni base – una volta installate – devono essere alimentate da generatori diesel che a loro volta necessitano di rifornimenti. Ai piedi di queste torrette tecnologiche sorgono le capanne dei guardiani ingaggiati per evitare furti di carburante o di materiali. Loro il cellulare non possono permetterselo. Altri però sì, se la stessa Vodacom – uno degli operatori della Tanzania – stima che vi siano 25 mila punti vendita di suoi telefoni e schede in tutto il Paese. Alcuni di questi sono semplici container chiamati Telefoni della Gente: sebbene non siano fisicamente mobili sono collegati alla rete Vodacom e permettono di chiamare a prezzi ridotti. Del resto un economico sms può fare la differenza per un pescatore o un agricoltore, consentendogli di controllare in pochi secondi a quanto si vendono le verdure o il pesce nel villaggio vicino. Il cellulare come strumento di lavoro dunque; in certe aree forse un mezzo di sopravvivenza. Lo spiega Jay Naidoo, della Development Bank of Southern Africa: “In Sudafrica la maggior parte delle telefonate mobili avviene tra le nove e le cinque dei giorni lavorativi”. Un’analisi suffragata da altri esperti di telecomunicazioni: i Paesi africani con un maggior utilizzo di cellulari hanno visto
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anche un tasso di crescita economica più alto. Il fatto è che le reti mobili hanno consentito di saltare a piè pari i costi delle linee fisse e l’assenza di collegamenti stradali efficienti. Il risultato è stata una crescita esplosiva di questa tecnologia – 5000 per cento tra il 1998 e il 2003 – con l’effetto di attirare, per una volta, l’attenzione di investitori e compagnie sul Continente Nero. Gli scorsi mesi le agenzie internazionali e gli operatori hanno gridato al miracolo mobile africano, dando luogo a una tarantella di cifre e di proiezioni sempre più ottimistiche. Un punto fermo sono le statistiche fornite dall’International Telecommunications Union, (ITU), agenzia Onu specializzata in telecomunicazioni: nel 2003 in Africa c’erano 73 milioni di utenti di linee telefoniche (22 milioni per il fisso e 51 milioni per il mobile) contro i 35,4 milioni del 2000 (divisi tra 19,7 milioni per il fisso e 15,7 milioni per il mobile). Dunque in tre anni si è assistito non solo al sorpasso del mobile sul fisso, ma anche al raddoppio abbondante degli abbonati complessivi. Lo scorso marzo però uno studio di Vodafone e del Centre for Economic Policy Research si è spinto più in là: dopo aver sottolineato che l’utilizzo dei cellulari in Africa sta crescendo più velocemente che in qualsiasi altra parte del mondo ha fissato in 82 milioni gli utenti attuali di telefonia mobile del continente. D’altra parte i sottoscrittori di linee fisse e mobili sarebbero intorno ai 100 milioni per la società di analisi BMITechKnowledge, con proiezioni che toccherebbero i 140 milioni nel solo mobile entro i prossimi cinque anni. Mentre per il già citato Jay Naidoo nel 2006 i cellulari potrebbero essere usati da un quarto di africani (che sono un miliardo). Numeri che sembrano lontani anni luce da quando, nell’autunno del 2004, il presidente del Senegal Abdoulaye Wade aveva affermato che “ci sono più linee telefoniche a Manhattan che in tutta l’Africa”. Tra la provocazione di allora e le stime magnifiche e progressive di oggi il Continente nero è indubbiamente in movimento. Lo sottolinea anche un recente report della Banca Mondiale, che ha dipinto gli anni passati come una decade d’oro
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per la chiusura del famigerato divario digitale. La disuguaglianza tecnologica tra Nord e Sud del mondo si sta colmando rapidamente - trionfa il rapporto – pur riconoscendo che certo in Africa c’è ancora un bel po’ da fare. Agli occhi dei produttori e dei carrier telefonici è comunque sicuro che “nel mondo in via di sviluppo risiede il maggior potenziale di crescita per il futuro” (ITU). L’ha capito un’azienda come Motorola, che fornirà terminali a basso costo (meno di 40 dollari) nei mercati emergenti. La parola d’ordine è connettere chi è rimasto fuori. Ma se la strada è l’abbattimento – anche più spinto – dei prezzi degli apparecchi, lo stesso deve avvenire nel caso delle tariffe e delle carte prepagate. E qui il percorso è ancora lungo. Senza dimenticare l’avvertimento proveniente dal Botswana, dove le estese infrastrutture di telecomunicazioni non hanno scalfito la diffusa povertà e la bassa aspettativa di vita. Per queste ultime di sicuro non basta un cellulare.
freddy@totem.to
DM No. 3 (ca. 1939), macchina da scrivere portatile tedesca con The Chronicle di Centralia, Washington - Usa (www.chronline.com) The New York Times (www.nytimes.com) in una Tippa Pilot del 1955
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LA MEMORIA PIÙ GRANDE CHE C’È
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di Franco Carlini utto merito della legge di Moore, quella che prevede una continua diminuzione delle dimensioni dei chip di silicio e una continua crescita della potenza. Grazie a questo fenomeno esplosivo, gli inventori di programmi per computer non hanno (quasi) più problemi, potendo allargarsi fin che vogliano nell’uso di memoria e nelle domande di prestazioni di calcolo, mentre un tempo (appena 20 anni orsono) dovevano risparmiare spazio e ottimizzare le istruzioni. Grazie a tanta abbondanza che la microelettronica gli ha consentito, il software può regalarsi dei “lussi” un tempo impensabili, come le finestre translucide, le icone graficamente eleganti, insomma un mucchio di attività accessorie e talora persino relativamente inutili rispetto al bruto risultato. In queste ottime condizioni quali sono le frontiere della ricerca software? Uno dei posti dove cercare le risposte è Laboratorio Tivoli della Ibm Italia, a Roma, e la nostra guida è il suo direttore, Giovanni Lanfranchi. Il laboratorio si chiama Tivoli, dal nome di un software che il colosso americano acquisì nel 1996 e che offre prestazioni di gestione dei sistemi, ovvero quell’insieme di attività nascoste (di retrobottega) da cui dipendono l’efficacia e l’efficienza dei grandi sistemi delle grandi aziende, come quelli delle banche, dei contatori dell’Enel o magari delle prenotazioni alberghiere. Sono questi progetti dei di frontiera, dato che ogni caso fa storia a sé e questo ci aiuta a ricordare che il software rimane un prodotto strano e molteplice. Noi utenti individuali conosciamo a malapena l’esistenza del sistema operativo (Windows o Linux che sia) e di alcuni programmi applicativi per scrivere, archiviare, far di conto, disegnare, navigare in rete. Sono prodotti standard, pensati per un pubblico di massa inevitabilmente indistinto. Al Tivoli Lab, così come nelle altre aziende di software sistemico, si occupano di tutt’altre cose, ovvero di quei grandi conglomerati di linee di codice da cui ormai dipende l’intero funzionamento del mondo e la cui robustezza deve essere pressoché totale. Della loro importanza ci si rende conto quando metà della rete elettrica americana o l’intera rete italiana si fermano per una serie di messaggi sbagliati da un computer all’altro, che generano effetti a cascata. Sono così importanti questi sistemi che quando fanno un crash anche piccolo, si blocca una banca intera, la prenotazione dei treni, l’assegnazione dei posti in aereo. Ognuno di noi ha sperimentato tali “fuori servizio” e non senza disappunto. Lanfranchi dunque si occupa di queste cose arcane, ma come? Il trucco, ci spiega gentilmente, sta nel costruire prodotti unici per un cliente con esigenze uniche, a partire da blocchi già costruiti in precedenza e già collau-
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SOFTWARE
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dati. Dunque gran parte del lavoro di tali sistemisti non consiste nella romantica scrittura di righe di software in linguaggio C, ma nel progettare incastri e interfacce tra moduli preesistenti. E’ come nel Lego, ci spiega, ma infinitamente più complicato. Perché i mattoncini del Lego sono oggetti statici, la cui unica funzionalità si esplicita nei buchi e negli spunzoni che consentono gli incastri. Gli oggetti software invece sono cose vive (dinamiche) e gli effetti di quello che succede dentro un singolo oggetto possono riverberare a migliaia di altri, con effetti non tutti prevedibili. Come risolvere questi problemi complessi? Il primo requisito, aggiunge il ricercatore, sta nell’usare standard aperti, il che può apparire una contraddizione per un’impresa privata, dato che ogni cosa che sia “open” è per definizione più facilmente imitabile dai concorrenti. Ma questa è una scelta ormai obbligata (che la Ibm del resto ha fatto da tempo, scegliendo di spingere con robusti investimenti il sistema Linux). Il vantaggio dell’apertura in realtà è superiore ai rischi, dato che ogni sistema aperto è per definizione universale e dunque può offrirsi a un mercato informatico vasto che usi tecnologie ibride. E tra gli standard aperti, fa notare Lanfranchi, il grande mondo che va sotto il nome di Web Services è forse il più promettente. Sono tutte quelle applicazioni software, fruibili via rete, ma che “al di sotto” collegano archivi lontani e magari diversi tra di loro. Insomma sono la colla che assicura la “interoperabilità” tra database che magari già esistevano prima e che il web oggi eredita (da qui il termine inglese di “legacy”) e rende fruibili in modalità nuove. La strada è quella, ma non è semplice, tant’è vero che di servizi web davvero universali e ro-
In attesa che il governo decida le sorti dell’Ipse, gli altri quattro gestori preparano i piani di partenza della terza generazione. Pronti al confronto, ma anche allo scontro
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busti non se ne vedono molti in giro. E qui l’informatica c’entra, ma solo fino a un certo punto: un fisico come Lanfranchi deve occuparsi anche di cose cui mai avrebbe pensato, come la linguistica e la semantica. Infatti per costruire dei servizi universali tra archivi diversi occorre che il dizionario sia unico, o almeno traducibile. Per questo uno dei progetti più importanti del laboratorio Tivoli è il SEWASIE. Il dio degli informatici li perdoni per l’uso demenziale degli acronimi che li affligge, ma a noi basta capire che SE sta per Semantica, W sta per Web, e A sta per Agenti. In parole ancora più semplici, questo progetto Europeo, che coinvolge anche le università di Roma, Bolzano e Modena, sta costruendo una “ontologia” per il business delle piccole e medie imprese. Ontologia è termine filosofico, che si riferisce gli enti in quanto tali, a prescindere dalle loro concrete realizzazioni. In questo caso gli enti sono fatture, ordini, offerte, tutto quello che fa commercio e scambi. Questi enti possono concretamente essere assai diversi, ma se sono definiti e nominati allo stesso modo, possono intrecciarsi senza intoppi (questa, ce ne rendiamo contro, è una descrizione brutale, ma serve almeno a fare intendere quanto quella informatica sia, ormai e inevitabilmente, ricerca multidisciplinare). Che poi sistemi del genere siano non solo in gradi di parlarsi, ma anche di controllare il proprio funzionamento ed eventualmente di correggere in anticipo i problemi che stanno, è ancora un’altra questione, anche più affascinante. Si chiama Autonomic Computing ed è l’altra ricerca di frontiera di Big Blue, da ormai quattro anni. Meriterà un racconto successivo.
Perché gli inventori di programmi per computer non hanno quasi più problemi avendo a disposizione spazi immensi per l’uso della memoria e nelle domande di prestazioni di calcolo. Viaggio tra lussi un tempo impensabili
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LE PROSSIME SCATOLE NON CINESI
La battaglia continua a infuriare tra Microsoft, Sony e Nintendo. Dal nuovissimo Xbox 360 di Bill Gates all’ultimissima Playstation, fino alla Revolution dell’altro concorrente giapponese. Appuntamento vero all’inizio del 2007
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di Alessandra Carboni el momento in cui scriviamo siamo alla vigilia degli attesissimi quattro giorni dell’E3 (Electronic Entertainment Expo 2005, a Los Angeles dal 17 al 20 maggio), durante i quali tutte le più importanti novità dell’anno nel campo dell’intrattenimento elettronico saranno finalmente svelate. Tra i grandi nomi del settore che hanno scelto l’evento per presentare al mondo le proprie creazioni comparirà anche Microsoft, con l’ultima versione della sua popolare piattaforma di gioco. Ma a sorpresa il colosso del software ha scelto MTV per mostrare in anteprima il suo nuovo prodotto: ribattezzata Xbox 360, la console di casa Gates è stata infatti la protagonista di uno speciale televisivo intitolato “The Next Generation Xbox Revealed”, andato in onda sul canale musicale nelle due giornate di giovedì 12 - per gli spettatori americani - e venerdì 13 maggio per il resto del mondo. Sono state così soddisfatte le “decine di milioni di ragazzi che possono essere interessati alla nuova generazione dell’Xbox”, ha spiegato in una recente intervista Peter Moore, il responsabile Microsoft per il marketing. Dopo mesi di supposizioni e indiscrezioni, dopo che lo stesso Bill Gates davanti a una platea di giornalisti ha preso la parola per dire che il suo nuovo prodotto ha tutte le carte in regola per superare finalmente l’eterna rivale Sony, numero uno nel settore, ecco finalmente svelati i misteri che così a lungo hanno circondato l’atteso scatolotto da gioco. Per quanto riguarda l’estetica, la prima cosa che contraddistingue il gioiellino Microsoft è il colore bianco, scelto sia per la console che per il controller. Quest’ultimo è fatto più o meno come quello dell’edizione precedente ma – e qui sta una delle novità della Xbox – senza filo. Lo scatolotto è inoltre studiato per poter essere appoggiato sia in verticale che in orizzontale e sul pannello frontale sono stati posizionati due slot per le memory
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card, un ricevitore a infrarossi per un controller aggiuntivo, il vano Dvd, il tasto di accensione e due porte Usb. In tema di prestazioni, invece, cominciamo col dire che non si tratta più solo di un apparecchio per giocare, ma di uno strumento concepito per l’intrattenimento domestico in generale, capace quindi di veicolare anche musica e film ad alta definizione. Oltre al supporto per il suono surround, nella Xbox 360 sono stati introdotti tecnologia wireless, disco rigido removibile da 20 gigabyte e ben tre processori integrati da 3,2 gigahertz ciascuno, per la gioia di tutti gli appassionati del genere che richiedono performance “da sballo”. La console sarà disponibile, secondo lo stesso Gates, in tempo per le feste di Natale, ma ancora non ci è dato di saper né quale sarà il prezzo al pubblico (si parla di circa 300 dollari, pari a 238 euro), né se i giochi della “vecchia” macchina gireranno sulla Xbox 360. Anche il gigante giapponese dell’elettronica ha deciso di anticipare l’Electronic Entertainment Expo per la presentazione della terza versione della popolarissima PlayStation. Per alimentare la competizione con le eterne rivali Microsoft e Nintendo, Sony ha a sua volta preso parte al “toto-data”, confondendo a tutti le idee circa il momento in cui la PS3 sarà effettivamente rivelata in tutto il suo splendore. Inutile dire che nemmeno sull’ultima versione della console prodotta dal colosso giapponese sono stati risparmiati rumors e anticipazioni più o meno attendibili, che anticipano la presentazione ufficiale alla stampa. Le indiscrezioni la vorrebbero dotata del processore “Cell” (made in IBM) e di chip grafico nVidia appositamente sviluppato per la nuova console, possibilità di supportare il suono surround e di riprodurre musica e foto digitali. Assolutamente innovativa rispetto al passato sarebbe la scelta della Sony di corredare la sua nuova console con software “open source” quali, tra gli altri, Open GL per l’accelerazione
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in Italia non si è mai sviluppato.
Blickensderfer No. 5 (1902), con cilindro dei caratteri e tastiera polacca non-QWERTY The New York Times on line (www.nytimes.com)
grafica 2D e Open Max per velocizzare la riproduzione dei file multimediali. L’attesa degli appassionati per il debutto sugli scaffali dei rivenditori è in ogni caso destinata a durare, nella migliore delle ipotesi, sino alla fine dell’anno se non alla prima metà del 2006. Chi invece potrebbe fare la prima comparsa proprio in occasione dell’Expo di Los Angeles è la piattaforma del terzo principale attore del mercato dei videogame. Parliamo di Nintendo e della sua annunciata Revolution. La nuova console giapponese debutterà, ma non si sa ancora se verrà mostrata solo una preview oppure un prototipo funzionante. Il direttore pubblicitario Ken Toyota ha dichiarato che “l’E3 sarà il punto di partenza per la Revolution, ma non è stato ancora deciso se far vedere la macchina in funzione oppure solo dei video che la riguardano o, ancora, svelare semplicemente il concetto”. Appare invece certo che il controller di gioco non sarà mostrato, per evitare che i concorrenti ne possano in qualche modo trarre ispirazione. A questo riguardo tutte le ipotesi sono aperte, dal controller in materiale morbido sensibile alla pressione delle mani al touch screen personalizzabile. Ancora incertezze sulla data di commercializzazione, che dovrebbe avvenire entro la metà del 2006. Microsoft, Sony, Nintendo: una sfida a tre che, secondo gli esperti, si infiammerà realmente soltanto nel 2007. Per gli analisti (finanziari) della Wedbush Morgan – autori del rapporto sull’industria dell’intrattenimento interattivo, recentemente pubblicato negli Stati Uniti – il mercato delle piattaforme di gioco di nuova generazione decollerà solo alla fine del 2006 col lancio ufficiale della PS3. Fino a quel momento, in base a una dinamica di mercato già riscontrata, le vendite di Xbox 360 segneranno il passo, dato che i potenziali acquirenti preferiranno attendere l’arrivo della PS3 e della Nintendo Revolution prima di investire il proprio denaro in una nuova piattaforma di gioco. L’inizio del 2007, quindi, sarà il vero momento “caldo” per tutte e tre le console, finalmente disponibili sugli scaffali dei rivenditori e pronte a competere direttamente sul mercato, l’una contro l’altra.
Alessandra.carboni@totem.to
LA VIA ITALIANA AL GIOCO
di Geraldina Colotti van Venturi, bolognese, insieme a Max di Fraia è ideatore della società di materiale didattico interattivo Koala games (www.koalagames.it). Ha 35 anni, ma è un veterano nel settore dei videogiochi. E’ stato il primo a programmare e a pubblicarne uno originale con un editore italiano, Simulmondo: la prima software house nostrana a produrre videogiochi. Simulatori sportivi, avventure interattive da edicola di Dylan Dog e Diabolik e tanto altro. E il progetto era di Venturi. Un geniaccio e un appassionato, insomma.
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Come ha cominciato? Da piccolo volevo fare l’inventore, poi il fumettista, poi ho conosciuto i videogiochi. Sognavo il computer che avevano prestato a mio fratello più grande quando avevo 11 anni – un commodore 64 -, e che ho potuto avere solo grazie a una borsa di studio all’esame di terza media. Spendevo tutta la micropaghetta nelle sale-giochi di allora. Ne uscivo senza sapere dov’ero. I videogiochi fanno male? Dipende. Io non ho mai fatto a botte e guido piano, eppure mi piacciono i film d’azione. Dipende quanta importanza ha questo linguaggio nella vita di tutti i giorni: se il ragazzino perde il contatto con la realtà, se fa solo quello, magari qualcosa di male gli succede. Un eccesso di simulazione porta a un surplus di identificazione. Non a caso adesso l’esercito americano si serve delle simulazioni per convincere la gente ad arruolarsi. Quando lavoravamo al videogioco su Dylan Dog, si cercava di fare alla maniera dei cartoon, ma con una bella regia in modo da aumentare il pathos. Alla prima interazione, quando la scena si trasformava in un dialogo interattivo - quindi sempre cartoon ma con la necessità dei giocatori di scegliere una fra più risposte - il pathos si dissolveva in un istante: spegnevi una parte del cervello e ne attivavi un’altra. Se nel film più bello del mondo, a un determinato momento lo spettatore avesse la possibilità di scegliere cosa fa il protagonista, si ucciderebbe il film. Ora per me, che ho visto il meccanismo dall’interno, c’è meno magia. Ma nel passato provavo solo sensazioni fantastiche. Tornavo a casa dicendo: e se quella montagna si aprisse, e se a un tratto sbucasse uno zombi? Sentivo parlare di Jeff Minter, un giovane fricchettone inglese postatomico. Capelli lunghi. Fissato con gli ovini e bovini. Indossava maglioni con disegni a forma di lama. Chiamò il suo primo, fortunatissimo videogioco, Attacco dei cammelli mutanti, e la sua società, composta da lui e la mamma, Llama soft. Quando finiva di ideare un gioco, la madre lo spediva al publisher. Vendevano molte migliaia di copie. Un bel gruzzolo, allora non esisteva ancora la pirateria industriale. Un trend che
Perché? Per l’Italia, quello dei videogiochi è un mercato difficile. A 14 anni ho inventato i miei primi giochi, che sono stati museificati in internet grazie alla passione di qualche hacker nostalgico. A 15 sono stato contattato da quello che poi è diventato l’ideatore della Simulmondo, con cui ho prodotto i primi simulatori di gioco. Una società che era editrice di se stessa. Oggi la situazione non è molto più evoluta. In quel campo mancano gli editori locali, perché oggi produrre videogiochi costa più di fare un film. Non siamo concorrenziali a causa delle piccole dimensioni del nostro mercato interno. Nel 2001 ho visitato India games, la prima software house di videogiochi indiani dove produrli costa un quinto che da noi. Nacque con un finanziamento asiatico di un milione di dollari. In India non fai che vedere corriere stracolme di studenti di ingegneria: 4 milioni all’anno. Ho visto come producono giochi promozionali per i loro marchi locali. Erano efficienti, anche se un po’ più macchinosi. Anziché applicare direttamente la grafica pixel, li ho visti disegnare i personaggi usando ancora la tecnica dei cartoon. C’era in un angolo un disegnatore cartaceo su un tavolo luminoso, tirava su e giù velocemente i fogli come i vecchi cartoonist, poi si scannerizzavano i fogli, si coloravano e vettorializzavano per trasformarli poi in personaggi flash. Dieci volte più di tempo. Comunque, io non sono mai stato avido. Certo, in Inghilterra o in America guadagni tre volte di più, ma vieni incastonato in un lavoro deciso da altri, serializzato. Per me il modo di lavorare e lo stile di vita contano. E conta l’applicazione di una certa etica nel mio lavoro. Dopo l’11 settembre, è finita la sbornia della net economy, si è sgombrato il campo da molta paccottiglia prodotta in cd-rom. Mi sono ricavato una nicchia nel settore dei supporti didattici interattivi. Preferisco un uso sociale delle nuove tecnologie. In che modo? In questa economia, per produrre qualcosa occorre spendere soldi,
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e se non ne hai sei obbligato a proteggere il tuo prodotto, ma sul piano ideale sono d’accordo con le teorie di No logo, il libro di Naomi Klein. Se penso a una multinazionale che vieta all’azienda del terzo mondo di produrre farmaci anti aids a un decimo del prezzo, mi girano le scatole a una velocità frullatoria. E che dire dei costi di un cd musicale? Anche il software costa troppo. Quando sento un’amministrazione che passa a Linux io sono contento, soldi risparmiati per i cittadini. Il nostro cd-rom sul patentino costa 25 euro più iva, gli altri materiali analoghi 300 euro più iva. Noi vendiamo a un decimo perché anche le amministrazioni povere, le piccole scuole di provincia, gli insegnanti che si comprano di tasca propria il materiale possano farlo. E poi così ti piratano di meno. Io e il mio socio, che ho conosciuto tramite internet, sappiamo far funzionare per intero una società, dall’ideazione alla contabilità. Proponiamo materiali didattici sull’ambiente, la salute, l’educazione sessuale. Dal 95 al 98 ho iniziato a specializzarmi in questo settore. Col videogioco sull’educazione stradale siamo arrivati prima di tutti. Sono un vespista della prima ora. A 16 anni se mi parlavano di regole, avevo voglia solo di trasgredirle. Ho imparato solo quando ho cominciato a cadere. Per questo nel gioco educativo, se imbocchi un controsenso perdi 10 punti, e la seconda volta la patente, e se fai un incidente ti si mostra cosa succede. Una scelta forse meno commerciale, ma istruttiva. Inoltre, sta aumentando il mercato dei supporti interculturali. Non basta, per esempio, convertire la patente degli immigrati che vengono dal Bangladesh, dove le regole stradali sono diversissime e aleatorie, bisogna insegnare loro le norme di questo paese. E poi c’è il dialogo con il cittadino. Occuparsi di amministrazione pubblica è noioso. Un simulatore d’ambiente che mostri al cittadino le conseguenze concrete di mettere in centro un mercatino equo-solidale oppure un supermercato, un parcheggio pubblico o una libreria, è un mezzo per vedere se stessi. Il Comune di Bologna ci ha fornito la topografia della città e un potente strumento di sua proprietà. A fine maggio, nel corso di una presentazione pubblica, mostreremo così un simulatore che consente di “volare” sopra Bologna, anche su casa propria. I videogiochi per noi sono ormai la base per una tecnologia più ampia, le cui parole chiave sono: convivenza civile e cittadinanza attiva.
Oltre a materiale didattico interattivo, per la prima volta una software house italiana produce un videogioco. Simulatori sportivi, avventure da edicola trasportate nel virtuale. A colloquio con il suo ideatore, il bolognese Max di Fraia
Voss DeLuxe (1957), macchina da scrivare portatile, Germania Ovest. La versione elettronica del Buenos Aires Herald (www. buenos aires herald .com)
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