scritto e mangiato dicembre 2005

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scritto & mangiato

Supplemento al numero odierno de il manifesto

in collaborazione con Slow Food

Quando i veleni finiscono nei nostri piatti. Il difficile rapporto tra informazione e consumatore. Dossier celiachia e altre allergie

Altro che polli

DICEMBRE 2005



scritto & mangiato

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in collaborazione con Slow Food

Direttore responsabile Sandro Medici Direttore Mariuccia Ciotta Gabriele Polo Supplemento a cura di Francesco Paternò Grafica Daria Sorrentino Illustrazione di copertina Laura Federici Pubblicità concessionaria esclusiva Poster srl tel. 06/68896911 fax 06/68308332 Stampa Sigraf srl Via Vailate, 14 Calvenzano (Bg) Chiuso in redazione il 12/12/2005

I lavori che illustrano questo numero del supplemento sono di Claudia Muratori illustratrice e autrice di Film d’Animazione d’autore, attualmente docente all’Accademia di Belle Arti di Urbino, che ringraziamo per la gentile concessione.

Aviaria, mucca pazza, e chissà che altro. La terza, soprattutto. Le rela- - in realtà l’intreccio c’è ed è forte - è quello dell’aumento delle allerzioni tra ciò che mangiamo e ciò che sappiamo non sono mai state gie e delle intolleranze alimentari. Fra le prime, la diffusione della così tragiche, né vanno meglio quelle tra metodi industriali e attività celiachia, l’allergia al glutine che si può tradurre liberamente in niente agricola in riferimento sempre ai nostri piatti. Come scrive nelle pagi- pasta e niente pizza. E’ una storia antica, ci si nasce ed è stata considene che seguono Carlo Petrini, il presidente di Slow Food, “se è vero rata per tanto tempo una allergia pediatrica. Ma ora la si scopre semche siamo ciò che mangiamo, in molti casi la nostra civiltà sta toccan- pre più anche in età adulta, grazie alla grande attenzione e agli studi sulla sua diffusione mentre le diagnosi sono diventate più facili. La do livelli di barbarie sconosciuti da secoli”. Il problema è che non dobbiamo aspettare gli scandali per aprire gli cura è una sola: evitare il glutine. Poi, in un futuro prossimo, potrebbe esserci una pillola che aiuta, la speriocchi. Va messo in discussione da subito mentazione partirà in gennaio. un sistema produttivo che annichilisce il Ma restando sulle allergie - dalle arachidi concetto di qualità e anzi lo stravolge, all’incredibile quorn (leggete per capire una faccenda che non si può digerire DI FRANCESCO PATERNÒ cosa è), c’è un problema che riguarda anche solo al pensiero di additivi e conservanti di cui siamo bombardati. Certamente ci sono le eccezioni, altre forme e altri prodotti che si chiama chimica: nelle produzioni si come raccontiamo in questo supplemento curato insieme ai nostri usano ormai troppi pesticidi e sostanze che aumentano i danni nei amici inseparabili di Slow Food: prendete il mare, intossicazioni da nostri corpi. Con gli organismi geneticamente modificati la situaziolisca di pesce non ne conosciamo. Ma perché lì sotto è tutto più vero e ne si è poi complicata: le proteine ogm vengono utilizzate in una vasta più pulito, o perché come per l’agricoltura avvelenata ne sappiamo gamma di prodotti alimentari. Come si comporterà il nostro organipoco e nulla? Vai a capire perché le acciughe hanno disertato que- smo nei loro confronti? st’anno le coste spagnole, i soldi per la ricerca comunque non ci sono. Nell’attesa, vi dedichiamo le ultime due buone pagine di questo numero Un altro problema cui dedichiamo la seconda parte del supplemento con una zuppa di libri da gustare. Fantastico 2006 a tutti, se possibile.

Dietro la civiltà

4 Della barbarie di Carlo Petrini 5 Senza Parola di Giovanni Ruffa 6 Vacche d’acqua di Manfred Kriener 10 Impazzivano i gatti di Cinzia Scaffidi 11 Carolina all’inferno di Alessandro Monchiero 12 Industriali tipici di Piero Sardo 13 In vino veritas di Vittorio Manganelli 17 Povero Pippo di Maria Tarantino 18 Vade retro glutine di Simona Luparia 21 No pasta no pizza di Francesco Paternò 23 Saporite muffe di Sabina Terziani 25 Ultimo virus di Maria Tarantino 26 Assagiro del mondo di Geraldina Colotti


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Della barb di Carlo Petrini* UN RICHIAMO ALL’ORDINE, UN ORDINE DOVE IL CIBO SIA RI-LOCALIZZATO E DOVE I CONSUMATORI SIANO FINALMENTE CONSAPEVOLI. APPUNTI SULLE RELAZIONI PIÙ PERICOLOSE DEI NOSTRI TEMPI

chi non si occupa quotidianamente di cultura del cibo e delle dinamiche che regolano i sistemi agro-alimentari potrà sembrare eccessivo il nostro insistere sulla sostenibilità dell’agricoltura e delle produzioni del cibo; su una qualità nutrizionale che vada al di là del semplice concetto di sicurezza; su scelte più responsabili e consapevoli all’atto dell’acquisto. Slow Food lavora per sostenere le produzioni agricole su piccola scala? Cerca di dare vita a una rete globale di comunità che non solo elaborano alimenti buoni, ma lo fanno in maniera compatibile con l’ambiente e nel rispetto della dignità umana? Difende la biodiversità, mantiene viva e fertile la varietà culturale che sopravvive nelle campagne di tutto il mondo? Opera per rivalutare e salvaguardare i saperi tradizionali e popolari? Spesso le risposte a questi stimoli che cerchiamo di seminare vanno dalla presa d’atto di essere di fronte a utopisti e sognatori all’accusa di anacronismo, di conservatorismo, di anti-modernismo. Ma quando le distorsioni del sistema diventano cronaca, quando i veleni finiscono nei nostri piatti e in quelli delle persone a cui vogliamo bene, allora ci si chiede: «Che cosa è successo?», «Perché siamo a questo punto?», «Che cosa dobbiamo fare?». E molti brancolano nel buio. Ecco: questa incapacità di reperire informazioni, di essere certi di ciò che si consuma è il primo effetto diretto del problema. Un problema che, come nei casi della mucca pazza, dei polli alla diossina o in quello recente del latte per bambini “macchiato” all’inchiostro chimico, fa paura, e a volte diventa drammatico. Un problema che, è inevitabile, va fatto risalire alla logica industriale che comanda i sistemi di produzione del cibo. Non si tratta di scagliarsi contro l’indu-

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stria, di ideologizzare la questione: piuttosto di fare un’analisi lucida, e di capire le dinamiche che conducono a certi esiti. L’applicazione di logiche e metodi industriali all’attività agricola è una contraddizione in termini: l’agricoltura ha a che fare direttamente con la natura e non si possono, per definizione, industrializzare dei processi naturali; quanto al mondo della trasformazione, poi, se supera la soglia di una scala produttiva sostenibile, rischia di dare il via a una corsa inarrestabile verso un baratro, verso un vuoto di gusto e di senso. Mi spiego: la crescente centralizzazione della produzione (esempio eclatante: 13 macelli negli Stati Uniti riforniscono di carne quasi tutto il Nord America) ha raggiunto livelli inimmaginabili. Le multinazionali come la Nestlé, i grandi distributori (si legga “Non c’è sull’etichetta”, di Felicity Lawrence, Einaudi) hanno creato un sistema strettamente controllato dal centro che si permette di imporre standard produttivi agli agricoltori (uniformando i gusti e riducendo biodiversità e savoir faire tradizionali), di tenere in scacco intere economie povere, di decidere per tutti che cosa è meglio consumare. Che c’è di male? si potrebbe obiettare. Tutto è più controllato, sicuro, le economie di scala riducono i prezzi. In parte l’obiezione ha un senso, ma se guardiamo l’altra faccia della medaglia comprendiamo che forse è meglio cambiare metodi. 30 milioni di tonnellate di latte per neonati ritirate dal mercato fanno impressione. Con una produzione meno centralizzata, quanto meno il problema sarebbe stato circoscritto. In Usa capita ciclicamente che si ritirino enormi partite di carne contaminata dall’Escherichia coli (un batterio dannosissimo per la salute umana, che si diffonde facilmente in macelli poco attenti all’igiene): con un sistema di mattatoi meno accentra-


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barie to, automatizzato e veloce (e dunque rischioso), certi problemi potrebbero essere risolti e in ogni caso gli interventi sarebbero più tempestivi ed efficaci. Mucca pazza è il risvolto della deriva industrialistica che insiste nel voler produrre sempre di più in un mondo dove – lo dice la Fao – c’è già cibo per 12 miliardi di persone, quando in tutto siamo 6 miliardi; il latte “macchiato” è il risvolto di una logica che per sostenere questi livelli di produzione e di globalizzazione deve accentrare sempre di più le sue operazioni. Il tutto con costi ambientali che stanno portando al collasso il pianeta e a scapito della qualità delle nostre vite, perché non basta che un cibo non ci avveleni, occorre che sia piacevole e gratificante, portatore di un senso rispetto alla cultura di ognuno. Slow Food dunque non può che rispondere a questi ricorrenti scandali richiamando all’ordine: un ordine dove il cibo è rilocalizzato, dove consumatori consapevoli – edotti sulle provenienze delle materie prime e sui metodi di produzione – si orientano verso il locale, verso ciò che meno inquina con lunghi e inutili viaggi; un ordine dove le comunità produttrici tradizionali siano rispettate, con i loro sistemi plasmatisi in millenni di attività agricola, e i loro metodi sapienti che ci danno cibo buono. Non voglio contrapporre diversi stili produttivi affinché si facciano la guerra: vorrei che i grandi e i piccoli si parlassero, che la scienza moderna e i saperi popolari dialogassero. In maniera feconda, anteponendo una volta tanto il benessere comune agli interessi economici. Pensateci: se è vero che siamo ciò che mangiamo, in molti casi la nostra civiltà sta toccando livelli di barbarie sconosciuti da secoli. *presidente Slow Food

Senza Parola l caso di Gianfranco Parola, allevatore di polli spinto all’abbandono dallo strozzinaggio delle grandi aziende, è esemplare e istruttivo. Nato in una famiglia contadina dell’Astigiano, i suoi conducevano la classica azienda mista piemontese – qualche campo, un po’ di vigna, pochi capi di bestiame. Lì ha preso il via, nel 1980, la sua attività di agricoltore, dopo alcuni anni alla facoltà di Agraria, lasciata prima della laurea perché a casa c’era bisogno di aiuto. Fin da giovane interessato all’allevamento, ha cominciato con i conigli. Per cinque anni ha accudito 500 capi, con impianti all’avanguardia e producendo in proprio il mangime e l’erba medica con cui li alimentava. Poi la prima di una serie di disavventure che segnano il suo percorso professionale: nel 1986 una nevicata eccezionale gli abbatte i capannoni. Così passa ai volatili, il cui allevamento è all’epoca meno costoso. Prima i tacchini. Altri cinque anni. Bisogna sapere che l’allevatore di animali in batteria è sostanzialmente un contoterzista. La ditta gli fornisce le bestie da crescere, il mangime e l’assistenza veterinaria, lui deve pensare agli impianti e alla loro gestione, e dunque a tutte le spese di elettricità, riscaldamento, medicinali. Assumendosi tutti i rischi. Perché alla fine del ciclo gli vengo-

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di Giovanni Ruffa* STORIA ISTRUTTIVA (PRIMA DELL’AVIARIA) DI UN ALLEVATORE DI POLLI SPINTO ALL’ABBANDONO no ritirati e pagati solo i capi che sono arrivati sani al livello di peso previsto: quelli morti per strada (e una parte c’è sempre, più o meno consistente) ce li rimette lui. In ogni modo, dopo cinque anni con i tacchini l’azienda per cui Gianfranco alleva va in crisi e il lavoro non rende più. Allora passa ai polli. L’esperienza non è soddisfacente. Gli animali che gli fornisce la ditta cui si è legato (un grande marchio nazionale) sono geneticamente scadenti, hanno una mortalità molto elevata (il 20% contro il normale 5%). Allora decide di passare a un’altra impresa, meno nota ma più seria. Con questa porta a termine 24 “cicli”. Che cos’è un ciclo? Si tratta dei 60 giorni nel corso dei quali l’animale diventa, da pulcino, pollo sui quattro chili di peso e viene dunque ritirato per essere macellato. A quel tempo, e stiamo

parlando di quindici anni or sono, un pollo lo pagavano 1000 lire e l’attività si poteva definire redditizia, anche se comunque delicata e rischiosa. Il fatto è che, da allora, il prezzo pagato dall’azienda all’allevatore è rimasto lo stesso: oggi per un pollo danno mezzo euro. E i polli di oggi, selezionati per far loro produrre sempre più carne sempre più in fretta, aumentando la massa muscolare ma mantenendo lo stesso cuore e gli stessi polmoni, diventano vieppiù delicati, devono vivere in ambienti provvisti di riscaldamento, aria condizionata, ventilatori perché, avendo una temperatura corporea di 42°C, a 30°C muoiono (e se provate, al termine dei fatidici 60 giorni, a sottrarli al macello e a mantenerli in vita, li vedrete continuare a ingrassare in maniera ipertrofica, fino a sette-otto chili, e poi morire col cuore scoppiato). Questo richiede un continuo adeguamento degli impianti, con i costi che si possono immaginare, anche se Parola ha imparato a fare tutto da solo, diventando elettricista e impiantista. Poi c’è sempre il rischio di malattie. «Io ho evitato grossi contagi fino al 2001, al tempo della mucca pazza – racconta. In quel periodo la richiesta di carne avicola è cresciuta talmente che le aziende avevano difficoltà a tenere dietro alla domanda. Allora ci

spingevano a moltiplicare i capi (io sono passato da 28 000 a 38 000), a chiudere un occhio sui controlli sanitari, a ridurre il tempo tra un ciclo e l’altro, che di solito è di 10-12 giorni che servono per la pulizia, la disinfestazione ecc. Siamo arrivati al punto che la mattina ritiravano i polli e la sera consegnavano i pulcini.» Con il risultato che fa la sua comparsa in Italia la peste aviaria, prima sconosciuta. Anche nei capannoni di Gianfranco, che è costretto a sopprimere 20 000 capi. Ha ancora la voglia e la forza per cominciare un’altra volta, ma si rende conto a poco a poco che la situazione non è più sostenibile. I polli Ross 508 (così si chiama la varietà che è stata selezionata per l’allevamento intensivo in batteria) sono animali che hanno bisogno di cure sempre più attente e di ambienti sempre più protetti. «E che rendono sempre allo stesso modo, conclude Parola: sessanta giorni quattro chili mezzo euro. A un certo punto ho fatto due conti e ho detto basta. Ora faccio l’elettricista.» Tutto questo succede prima della crisi dell’influenza aviaria, prima della comparsa del famigerato virus H5N1 che ha mandato a picco i consumi di pollame. Questa è la storia ordinaria di un allevatore al tempo dell’agricoltura industriale. * Slow Food


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stata una frase storica: al culmine della drammatica crisi della mucca pazza il ministro federale per l’agricoltura Renate Künast, fresca di nomina, teneva il suo primo discorso importante al Bundestag. L’esponente dei verdi richiedeva – con il linguaggio senza peli sulla lingua tipico dei berlinesi - una svolta radicale nell’alimentazione del nostro bestiame produttivo. La sua famosa frase conclusiva era una grande promessa. «Nelle nostre vacche devono entrare soltanto acqua, grano ed erba». E basta! Lo stenografo del Bundestag a questo punto annotava: «Forte applauso». In effetti, la richiesta di una legge che garantisca la purezza di quanto si mette nelle mangiatoie e un ritorno alla natura nell’alimentazione di maiali, vacche e pollame gode di grande popolarità. Ma è anche lontana anni luce dalla realtà delle stalle europee. Nei nostri animali, soprattutto suini e polli, non entrano soltanto acqua, grano ed erba, ma migliaia di «sostanze» diverse. Il mix variopinto va dai rifiuti delle industrie lattiere, dei produttori di birra e degli zuccherifici fino alle interiora dei molluschi, a prede indesiderate della pesca a strascico, piuttosto che agli avanzi di mense e caserme. La parola magica utilizzata dall’industria produttrice di mangimi è «by-products». Non si parla di rifiuti, perché l’espressione ha una connotazione negativa e non suona proprio appetitosa. Per questo ci si è accordati su un concetto più nobile della lingua inglese. Si parla volentieri anche di «mangimi non convenzionali». Comunque si intende sempre la stessa cosa: milioni di tonnellate di residui dell’industria sono riciclati come mangimi. E che cosa contenga realmente il sacco non lo sanno né il contadino, né il consumatore. E a volte nemmeno il produttore. Ci sono voluti gli scandali, piccoli e grandi, per farci aprire gli occhi. Soltanto la malattia della mucca pazza ha reso pubblico il fatto che ruminanti che si nutrono di piante sono alimentati con farine animali. Nessun consumatore, fino ad allora, aveva mai avuto abbastanza fantasia da immaginare che la vacca, vegetariana di natura, fosse nutrita con residui macinati provenienti dai mattatoi, o magari anche con i resti mortali del defunto gatto di zia Clara, trasformati in pellet. Per alcuni consumatori non è stato facile digerire la faccenda. E ci sono sempre nuove scoperte che provocano sempre nuova indignazione. La diossina identificata in pulcini malformati, scoperti nel 1999 negli incubatoi, ha rivelato che i mangimi belgi erano sistematicamente contaminati con oli lubrificanti esausti. Nei punti di raccolta dei grassi per l’industria produttrice di mangimi avevano scaricato olio dei trasformatori, altamente tossico. I mangimi inquinati erano usati per alimentare pollame, buoi e suini, interessando la catena alimentare quasi al completo. Sulla scia di questo scandalo venne alla luce anche l’aggiunta di segatura e sterco, nei mangimi. Era stata la presenza della

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diossina a dimostrarci già nel 1997 che i pellet al limone provenienti dal Brasile erano stati trasformati in Europa in mangime per suini. In Svizzera si scoprì che nel centro di smaltimento delle carcasse animali erano stati riciclati anche arti amputati in un ospedale. E un essiccatoio per scarti da forno e residui di barbabietole da zucchero della Turingia, in Germania orientale, ha funzionato con forni difettosi, contaminando con gas di scarico tossici i rifiuti destinati a diventare mangime. Nel 2003 è stato scoperto un produttore che aveva smaltito elegantemente scarti farmacologici aggiungendoli al mangime. Insomma, i nostri animali diventano bidoni dei rifiuti? E le nostre stalle si trasformano in discariche? I tanti scandali non consentono una visione chiara della normale routine nella produzione di mangimi. Il desiderio di molti consumatori di nutrire gli animali esclusivamente in modo naturale (concetto peraltro dai limiti non definiti) si scontra violentemente con le montagne

di rifiuti che si accumulano nell’industria alimentare. Più gli europei ingurgitano alimenti surgelati e piatti pronti – cibi tendenzialmente in forte ascesa –, più crescono le montagne di rifiuti delle aziende. Un tempo, quando la gente semplice allevava ancora il suo maiale, era ovvio che gli avanzi della cucina e della tavola finissero nel truogolo. Oggi l’industria si è assunta il compito di cucinare e cuocere al forno per un numero sempre crescente di persone, e sempre più frequentemente si mangia fuori casa. I maiali non sono più allevati a livello casalingo, ma da grandi allevatori in gigantesche stalle con magari 10 000 capi. È ovvio che l’industria voglia vendere a questi allevatori i suoi rifiuti, perché il costo dello smaltimento è altissimo. E anche per gli allevatori c’è tutto l’interesse ad abbassare la spesa per il mangime utilizzando alternative più economiche. Si tratta di un mercato da molti miliardi. In Germania la quota dei rifiuti, rispetto


di Manfred Kriener* PERCHÉ UNA LEGGE CHE GARANTISCA LA PUREZZA DI QUANTO SI METTE NELLE MANGIATOIE HA UNA LONTANANZA STELLARE DALLE STALLE EUROPEE. INGRASSARE CON I RIFIUTI, UNA STORIA

all’impiego complessivo di mangimi per gli animali produttivi, negli anni Novanta si aggirava intorno al 20 per cento. Per l’industria i costi dello smaltimento ammontano in media a 100 euro per tonnellata. Con oltre 20 milioni di tonnellate di prodotti secondari che si generano in Germania, risulta un potenziale di risparmio di oltre 2 miliardi di euro. Nell’allevamento dei suini, con l’utilizzo dei rifiuti i costi del mangime si riducono di circa otto euro per suino – una cifra rilevante, in un settore che ha margini ristretti e in cui conta ogni centesimo. Birrerie e grandi produttori di prodotti da forno, aziende lattiero-casearie e produttori di succhi di frutta, frantoi e industrie saccarifere producono milioni di tonnellate di rifiuti. Buttarli via sarebbe un peccato. Il siero di latte proveniente dalla produzione casearia, per esempio, da secoli è considerato un alimento pregiato per suini e vitelli. Anche gli scarti delle barbabietole da zucchero sono apprezzati da sempre come mangime di

valore. Solo gli zuccherifici tedeschi producono circa quattro milioni di tonnellate di mangime l’anno. L’alimentazione degli animali con pula di grano appartiene all’uso più antico di «by-products» ed è documentata già nella Bibbia. In tutte le culture gli animali erano nutriti con rifiuti. La coltivazione mirata di piante da foraggio va vista, in termini storici, come un’espressione di benessere e come un fenomeno di data più recente. E perché si dovrebbero bruciare o scaricare sul cumulo del compost i resti delle mense e dei ristoranti? Forse che quello che noi abbiamo trovato gustoso non è abbastanza buono per i maiali? Ci sono alcune cifre che evidenziano la dimensione del problema. Di ogni tipo di cibo avanzano in media da 50 a 180 grammi per pasto, con valori più bassi nei ristoranti e più alti nelle mense. Per produrre un chilo di olio vegetale servono 3,3 chilogrammi di colza e si creano 2,3 chili di panello oleoso come prodotto secondario. Ogni chilo di farina porta con sé al

mulino 280 grammi di scarti di frumento. Per ogni chilo di carne magra al mattatoio si accumulano 1,2 chili di ossa, cotenna, grasso e interiora. Nella società del superfluo si utilizzano sempre meno parti degli animali macellati e la montagna degli scarti diventa sempre più alta. Dove tracciare la linea di demarcazione? Quali rifiuti ci sembrano ancora naturali e accettabili come mangimi? E dove iniziano ribrezzo e rifiuto? I resti pressati di carote e pomodori dell’industria dei succhi di frutta, le briciole di biscotti, il pane raffermo o i panelli dei frantoi probabilmente non faranno inorridire alcun consumatore. Le cose cambiano se pensiamo alle interiora dei molluschi che si accumulano in grande quantità durante l’estrazione della carne dei molluschi nel Nord America. Sono considerati fonte di proteine pregiate per il maiale. Ma si alterano molto rapidamente e si associano a un senso di ribrezzo. Ha senso usarli come mangime? E come comportarsi con i prodotti scaduti, ossia i prodotti ali-

mentari troppo vecchi per essere venduti? E dove depositiamo le gigantesche quantità di piante officinali pressate nell’industria farmaceutica? Infine, soprattutto: che cosa fare dei milioni di tonnellate di rifiuti dei nostri mattatoi? Le farine di animali, ossa e sangue hanno fatto parte per molti anni delle principali fonti di proteine per l’allevamento del bestiame produttivo. Ora le hanno messe all’indice. Le immagini degli impianti di macinazione delle ossa non riusciamo a dimenticarle. Ma per che cosa ci agitiamo: per il riciclo degli scarti del macello in mangime animale oppure per il fatto che oggi di un maiale si butta via più della metà? Quanto tempo è passato da quando avete mangiato l’ultima volta ciccioli, trippe o piedini di maiale? Il fronte del rifiuto dell’alimentazione con scarti di tutti i generi non è assolutamente unitario. Molti ecologisti, che per il resto stanno dalla parte degli animali e della natura, chiedono cicli di materiali possibilmente chiusi e si dichiarano esplicitamente a favore dell’uso dei rifiuti. Invece Renate Künast, il citato ministro verde del partito ecologista tedesco, mette in guardia dal fare decadere i nostri animali a bidoni delle immondizie. Il problema è complesso e la vista delle mangiatoie non è proprio appetitosa. Un misto di rifiuti che contiene resti di pomodori, maionese, bucce di patate e una doppia porzione di fondi di salame, con sopra magari anche una partita difettosa di liquirizia, è un miscuglio che in consumatori di temperamento delicato provoca un moto di ribrezzo, ma nello stesso tempo è un pasto decisamente ricco di sostanze nutrienti. Oltre alle difficoltà di deglutizione motivate da ragioni estetiche, ci sono problemi microbici, nutrizionali e logistici. I rifiuti sono un paradiso per funghi e batteri e devono quindi essere controllati e preservati da un rapido decadimento. La loro conservabilità è molto limitata e bisogna trasformarli in fretta. Spesso hanno una gamma di sostanze nutrienti unilaterale o inadeguata. E c’è ancora un aspetto importante da discutere: l’enorme numero di capi di bestiame produttivo è diventato da tempo un concorrente alimentare dell’uomo. I maiali da ingrasso nei paesi industrializzati sono nutriti con un’alimentazione più ricca di proteine e complessivamente molto migliore di quella di milioni di persone che soffrono la fame nei paesi in via di sviluppo. Certamente, abbiamo anche l’obbligo di preservare le nostre risorse e di ridurre al minimo possibile i rifiuti. D’altra parte sappiamo perfettamente che cosa significa, per la loro integrità e la loro considerazione, assegnare agli animali il ruolo di bidone dell’immondizia. Così noi consumatori ci troviamo dinanzi a un problema che è un autentico labirinto. Alla fine lo abbiamo risolto esportando farine animali, per importarle poi nuovamente sotto forma di pollame allevato in batteria. Alla lunga non è certo una buona soluzione. * Slow Food

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LA FORZA NATURALE DELLA CARNE

CARNE BOVINA E VAI SUL SICURO CARNE BOVINA: CARATTERISTICHE E COMPOSIZIONE

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na collocazione prestigiosa nella nostra alimentazione, e non a caso: la carne bovina ha un ruolo fondamentale nella dieta di noi tutti per motivi tradizionali la cui giustezza è confermata dalle sue caratteristiche:sana e gustosa. Passando dagli effetti, altamente positivi, alle cause, la carne bovina è anzitutto una fonte privilegiata (il 20% del peso) di proteine, cioè degli elementi “costruttori” indispensabili allo sviluppo e al mantenimento dell’organismo: le proteine della carne bovina sono di elevato valore biologico, contengono, infatti, quegli otto aminoacidi detti “essenziali” che l’organismo non è in grado di elaborare e che, perciò, devono essere presenti nel cibo. Le proteine, quindi, ma non solo. La carne bovina ha un ottimo contenuto di ferro (3 mg per 100 g) e questo minerale risulta facilmente assorbibile dall’intestino, più di quello contenuto nei vegetali. Tra le vitamine, è elevata la presenza della vitamina PP e delle vitamine B, dotate di funzioni varie che vanno dalla protezione del sistema nervoso alla formazione dei globuli rossi e alla protezione del fegato. Aggiungiamo che la carne bovina è ben digeribile (in media 3-4 ore) e assimilabile quasi al cento per cento.

UN’ALIMENTAZIONE “INTEGRATA” E GUSTOSA: IL RUOLO DELLA CARNE BOVINA.

modo metterli insieme per ottenere risultati ottimali sul piano nutrizionale, dobbiamo ragionarci sopra. Ed è opportuno farlo basandoci su dati precisi. Se teniamo presente quali sono le sostanze base degli alimenti (proteine, idrati di carbonio, lipidi, vitamine, sali minerali, fibre), vediamo che un’alimentazione “integrata” si ottiene consumando nell’arco della giornata cibi diversi che, insieme, le forniscono tutte. Abbiamo visto che la carne bovina è importante per le sue proteine di elevato valore biologico, per il ferro, per alcune vitamine, e risulta soddisfacente il contenuto in lipidi (acidi saturi e polinsaturi). È quindi opportuno accompagnarne il consumo con alimenti che contengono idrati di carbonio (cereali), vitamine A e D, e calcio (prodotti lattiero-caseari, tuorlo d’uovo), vitamina C (verdure crude e cotte, frutti acidi), fibre (verdure, legumi, frutta). Questo perché un alimento che da solo sia veramente “completo” non esiste. Ma è agevole, e anche gradevole, accompagnare i cibi, tenendo conto delle loro caratteristiche. In questo senso, la carne bovina si presta a delle “integrazioni” dieteticamente valide e gratificanti dal punto di vista gastronomico.

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angiare è un’attività quotidiana e potremmo anche dire che l’essere umano sa istintivamente (nel senso che risponde a dei suggerimenti e a delle sollecitazioni dell’organismo) come e che cosa mangiare. Teoricamente. In realtà, quell’istinto lo abbiamo, da tempo, in larga misura perduto. Disponiamo di un’ampia varietà di alimenti, ma, quando si tratta di decidere in che

Confederazione Italiana Agricoltori

Programma realizzato con il contributo della Comunità Europea e dell’Italia

GLI ALLEVAMENTI E LA CATENA MACELLAZIONE DISTRIBUZIONE

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a qualità della carne bovina è legata alla razza del bovino, quindi è ottenibile attraverso un’attenta selezione delle razze, tra le quali devono essere segnalate, fra le prime in classifica, le “grandi” italiane: Chianina, Marchigiana, Romagnola, Maremmana, Piemontese, senza dimenticare le altre (Podolica, Bruna, Frisona, Rendena, Reggiana, Bianca Padana, Sarda, Modicana ecc.). Meritano egualmente una menzione speciale quelle anglosassoni (Shorton, Hereford, Aberdeen Angus, North Devon) e le francesi (Charolaise, Limousine, Blonde d’Aquitaine). Bovini che forniscono delle carni perfette per un’alimentazione sana e gustosa. Alla qualità genetica della razza, viene aggiunta la qualità del sistema di allevamento, che va ad assicurare agli animali il rispetto di adeguate condizioni di vita. La regolamentazione sanitaria dell’Unione Europea prevede la totale esclusione delle farine di origine animale nell’alimentazione del bovino, che deve comprendere latte materno, latte artificiale, pascolo, cereali, vegetali, vitamine e sali minerali. Il Reg. CE 1825/2000 stabilisce le modalità con le quali va garantito che l’informazione per il consumatore circa l’origine della carne sia corretta. Il percorso degli animali dalla loro nascita alla macellazione, fino alla vendita al dettaglio della carne, è indicato da un’etichetta riportante i dati essenziali, Paese di nascita dell’animale, di allevamento, di macellazione.


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SCRITTO&MANGIATO

Impazzivano di Cinzia Scaffidi* GLI SCANDALI ALIMENTARI NON SONO MAI ASSOCIATI AL MARE. UNA LETTERATURA DI “INCIDENTI”, COME QUELLO DI CINQUANT’ANNI FA NEL MAR DEL GIAPPONE, MA DAVVERO SAPPIAMO TUTTO?

er qualche ragione l’idea degli “scandali alimentari” non è, di per sé, associata al mare. È più facile che ci venga in mente la triade VianelloDapporto-Carotenuto (“Scandali al mare”, 1961) anziché qualche episodio di intossicazione diffusa. Non che manchino gli esempi storici, ma sono vissuti come “incidenti”. Una cinquantina di anni fa in Giappone, nella Baia di Minamoto, impazzivano i gatti. Perché? Perché i pescatori della baia li “coccolavano” dando loro le viscere dei pesci. Ma nella baia c’era una fabbrica i cui scarichi ricchi di mercurio finivano direttamente in mare, i pesci assimilavano il metallo pesante, i pescatori li pescavano, i gatti impazzivano. Fu così che ci si rese conto degli effetti devastanti del mercurio sul sistema nervoso centrale e vennero fatte delle leggi. Oggi, in presenza di un altro “incidente”, ad Augusta, attendiamo di sapere dalle indagini in corso se c’è o no un’azienda che scarica mercurio in mare, nonostante esistano leggi a proibirlo e conoscenze scientifiche a disposizione di chi voglia sapere perché si tratta di una pratica dannosa. Ma se anche fosse, sarebbe un incidente, perché, ancora, quel che è scandalo a terra non è scandalo in mare. Sarà che – comunque la mettiamo – sentiamo che quel mare non ci appartiene. La definizione giuridica che se ne dava fino a poco tempo fa, quella di “res nullius” – una cosa di nessuno – già la dice lunga. L’uomo non si sente padrone, né gradito ospite, di quella faccenda instabile. L’uomo non riesce a insediarvisi, ci può andare ma prima o poi deve tornare indietro, non ci si può stabilire. E anche i nomi che l’uomo dà al mare sono in qualche modo un tentativo di ricondurlo alla terra, a qualcosa di noto o di rassicurante o, al limite di inesistente: Mediterraneo, Indiano, Pacifico, Atlantico. Qualche tenero tentativo di possesso è stato fatto – Mare Nostrum – ma era più un augurio che un sentimento. Se dall’antropologia da bar passiamo ai conti della serva scopriamo poi che il budget destinato alla ricerca in mare è talmente insignificante (roba piena di zeri e di virgole) che è appena normale che noi di quel che succede in mare, nel bene e nel male, non ne sappiamo praticamente nulla. Le acciughe quest’anno hanno disertato la Spagna, e si sono ammassate lungo le coste italiane. Come mai? MIstero, nessuno ha la più pallida idea delle logiche – o mode – che muovono i banchi

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del pesce più comune di casa nostra. È un’inezia, certo, ma è significativa. Se non abbiamo i soldi per osservare quel che fanno le acciughe a un passo da casa nostra, come monitoreremo mai le centinaia – circa 500 per l’esattezza – sostanze chimiche di sintesi che negli ultimi 60 anni sono state create dall’uomo e che sono puntualmente tutte finite in mare a far compagnia alle acciughe? Quando non c’è modo di sapere, si finisce, impercettibilmente, per smettere di chiedere. Forse, chissà, addirittura si smette di pensare anche a quelle poche cose che si sanno. Perché qualcosa si sa. Si sa che i pesci di grande taglia assimilano le diossine (medaglia d’oro per la tossicità tra tutte le sostanze chimiche inventate dall’uomo: sono cancerogene, causano difetti congeniti negli uomini e negli animali, e ne attaccano gli apparati riproduttivi e immunitari) e non le metabolizzano: alcuni le incistano in agglomerati di grasso, altri semplicemente se le tengono in libertà nel sangue. Questo l’Osm, Organizzazione mondiale per la sanità, ce lo ha detto nel 1990, lo sappiamo da 15 anni. Una cosa è che non lo sappiano gli orsi polari, che mangiano soprattutto pesce e che si ritrovano con un apparato riproduttivo rivoluzionato al punto da presentare forme di ermafroditismo. Una cosa è che non lo sappiano i pesci medesimi, il cui ciclo riproduttivo è messo a rischio non solo dalla diffusa e deprecabile pratica della pesca dei giovanili, non solo dalle stagioni di fermo troppo limitate, non solo da alcuni sistemi di pesca che vanno a sorprendere gli animali proprio prima del momento riproduttivo, ma anche da loro, le diossine. Ma non lo sanno nemmeno le donne del popolo degli Innuit (che si nutre prevalentemente di pesce), nel cui latte (quello con cui allattano al seno i loro bambini, salvandoli dall’inchiostro dei tetrapack che “proteggono la bontà” della Nestlè), eccole di nuovo, ci sono le diossine. E certo ce lo

Carolin ome: Carolina o similia. Razza: frisona holstein. Colore: bianco e nero. Professione: produttrice di 30-35 litri di latte al giorno, oltre sei volte quello di una podolica del Gargano, il triplo di una sardo modicana, il doppio di una burlina e circa 10 litri in più di una bruna alpina. Alimentazione: pessima, anche se dichiara di aver smesso con le farine animali nel 1994 (che pure i mangimifici hanno continuato a produrre fino al 2000). Vizi indotti: non si produce tutto quel latte se non ci si aiuta con insilati, integratori vitaminici, un po’ di chimica, insomma, dunque vacca iperattiva – azzardiamo – in odor di doping. Utilità sociale: mascotte dei Cobas del latte. Ecco: di tutti i rivoluzionari di ieri e di oggi, per i quali si può provare una pregiudiziale simpatia soprassedendo su vizi, sbagli, deragliamenti, Carolina è quella che ci insospettisce di più. Innanzitutto non ci convince la protesta che le sta alle spalle, di chi producendo in eccesso ha incassato più del dovuto e più del necessario, ragionando in un’ottica ultraliberista prima, e snocciolando richieste protezionistiche poi. Inoltre ci rattrista, la nostra Carolina, perché sappiamo quale fine farà dopo cinque-sei anni di esorbitanti spremute di latte, nel momento in cui spregiativamente ma legittimamente una vacca è detta “a fine carriera”, fiacca e sfinita. Sappiamo del suo ultimo miracolo, quello di trasformarsi – un

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o i gatti dimentichiamo anche noi quando andiamo a fare la spesa, perché la tracciabilità del pesce è uno di quei sogni che si avverano solo a colpi di volontà politica e di consapevolezza del consumatore. E a proposito di spesa, pur lasciando perdere le diossine, che cosa compriamo? Ormai abbiamo scoperto che la truffa si abbina con l’ignoranza oppure con l’impossibilità di esprimersi. Farine animali agli erbivori, latte contaminato ai neonati: non protesteranno, non diranno, a chi li sta servendo, «questo fa schifo, màngiatelo tu». Ma l’ignoranza è faccenda di noi umani adulti: alzi la mano chi sa riconoscere una pregiata sogliola, che ha un determinato prezzo e un determinato gusto, da una niente affatto pregiata linguata del Senegal, che – già spellata per evitare riconoscimenti - ci sarà venduta al medesimo prezzo; o chi si accorgerebbe che la neonata di sardine che pensa di acquistare è invece un pesciastro (peraltro d’acqua dolce) giapponese nella sua forma adulta. E quanti squali ci siamo mangiati, già affettati e senza pelle, comprandoli come pesce spada o (magari con una passata di colorante all’anilina) come tonni? E quante volte è stato scongelato e ricongelato il polpo che portiamo a casa con orgoglio senza pensare all’insalata di perossidi che serviremo ai nostri amici, e senza incrociare le dita per scongiurare il pericolo che l’interruzione della catena del freddo può portare? Mare Nostrum un corno. A terra, almeno, se uno vuole fare il radicale e mangiare solo prodotti biologici certificati può. Eppure è solo degli scandali di terra che si parla. E non ci si rende conto che lo scandalo è il mare e la situazione in cui versa un sistema complesso e delicato, che conosciamo pochissimo e che continuiamo a frequentare, nella migliore delle ipotesi, con un po’ di timore, ma sempre senza rispetto. * Slow Food

na all’inferno di Alessandro Monchiero* TRA I RIVOLUZIONARI DI IERI E DI OGGI QUESTA FRISONA HOLSTEIN CI INSOSPETTISCE DI PIÙ. ECCO PERCHÉ secondo prima che il boia ponga fine alla sua stanchezza – da razza “da latte” a razza “da carne”, sebbene un po’ stracca. E anche sul “dove” ciò avverrà, sappiamo che non ci sarà scampo: che sia a Ospedaletto Lodigiano o a Castelvetro di Modena, sempre di Inalca si tratterà, azienda leader in Italia nel settore delle carni bovine e un 2004 chiuso con ricavi pari a 908,1 milioni di euro (fonte: www.cremonini.it). Da qui in avanti le si aprirà un ventaglio di grandguignolesche opzioni: sbrindellata, inscatolata e messa a mollo in brodaglie gelatinose con i marchi Montana, Bill Beef, Texana, Montex, Tuskonska e poi spedita ovunque del mondo, dall’Est Europa all’America Latina, all’Angola (duecento milioni di scatolette annue che talvolta, come ha recentemente raccontato un

ottimo servizio di Report, esplodono, lasciando tracimare vermiciattoli, larve e grasso macilento); sezionata e poi venduta da Marr, oppure servita come bistecca sotto un letto di rucola sui treni dove Chef Express ha il monopolio; abbrustolita a fianco di una montagna di patatine in un Roadhouse Grill o in una delle trentatre aree di servizio con il marchio Moto che contendono ad Autogrill la ristorazione in autostrada. Dalla Montana alla Moto, passando per Chef Express e Bill Beef, abbiamo nominato solo marchi del pantagruelico Gruppo fondato dal cavalier Cremonini. Di tutti, tuttavia, il suo destino più probabile resta quello dell’hamburger, che l’Inalca sforna nel ragguardevole numero di oltre quarantamila tonnellate annue. Qui, macinata (lingua, cuore, grasso, cartilagini, tendini, intestino compresi) e poi addizionata di altre cianfrusaglie (glutammato monosodico, polifosfati, addensanti, coloranti, amidi modificati, edulcoranti, acidificanti, sali di fusione ecc.) eccola moltiplicata in migliaia di dischetti di pseudo-carne, venduti da McDonald’s nel suo happy meal. Schlosser, nel suo fondamentale Fast Food Nation, aveva incluso nell’impasto perfino le feci dell’animale, responsabili della proliferazione nella società america-

na di virus e batteri come l’Escherichia coli, il Listeria ecc. Ma qui siamo in Italia, e ci basta il quadretto anche senza le feci. È comunque l’inferno, che con la sua vita di sregolatezze alimentari, la nostra Carolina forse si è meritata. Ce n’è da rendere ancora più torbidi i più o meno sacrosanti “piaceri della carne”, quando invece ci sono piemontesi, chianine, maremmane allevate nel rispetto del benessere animale, alimentate nei pascoli o in stalla con mais, orzo, crusca, fave e fieno prodotti in azienda, demonizzate senza colpa quando la prima vacca stracca da latte – la famosa 103 macellata negli stabilimenti Inalca – risultò positiva ai test per la Bse (partiti colpevolmente in ritardo nel 2001, attualmente sono stati riscontrati 134 casi). Insomma, se ci piace la ciccia, bisognerà imparare a discriminare, scegliere, pagarla più cara, mangiarne di meno e al tempo stesso non allarmarsi troppo quando il nuovo scandalo alimentare arriverà inevitabile. La moderna zootecnia industriale – oltre a produrre carni di pessima qualità e rischi alimentari – è infatti insostenibile per il pianeta e ci dovremo abituare a consumi qualitativamente migliori ma più morigerati. Oggi il prezzo della carne è assurdamente basso rispetto alla quantità di energie e di

risorse ambientali necessarie per produrla: il 37% della produzione mondiale di cereali è destinato all’alimentazione animale (negli Usa il 67%) e per produrre un chilogrammo di carne occorrono 4,8 chili di granaglie, quindi 13 000 chilocalorie vegetali per ottenere 2140 chilocalorie di carne. Un folle spreco energetico che esercita una spaventosa pressione sull’ambiente, moltiplicando l’uso di pesticidi, diserbanti, concimi chimici. E se la Cina o un altro paese in via di sviluppo cominciassero a consumare carne ai ritmi occidentali? Il pianeta sarebbe al collasso energetico e alimentare. Dimostra di essersene accorto perfino McDonald’s, che infatti festeggia i suoi primi 20 anni in Italia col lungimirante “prendi due e paghi uno”. Irresponsabile eticamente ma anche pericoloso per la salute: quanto due cheesburger facciano bene s’è visto nell’adipe malaticcio messo su da Spurlock in un mese di Super size me – film banale ma visivamente didattico. Slow Food, invece, festeggerà i suoi primi 20 anni in Italia il prossimo anno, con un monito opposto e meno accattivante: scegli bene, prendi uno e paga il doppio. Mangi meglio, gli allevatori onesti non sono indotti a cambiare mestiere e anche il pianeta ringrazia. * Slow Food


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SCRITTO&MANGIATO

Industriali t on si vive di caciocavallo podolico, di culatello di Zibello o di alici di menaica! Sulla tavola quotidiana, alla fine tutti ci “accontentiamo” di stracchini industriali, di bastoncini surgelati, di preaffetati sotto vuoto». L’obiezione la proclamò a piena voce un industriale del salame al termine di un convegno dove si parlava di tipicità e di prodotti da salvare: lui aveva fatto un intervento tutto sommato ragionevole, difendendo la “qualità” industriale e tutti i relatori successivi si erano premurati di dargli addosso, quasi fosse lui il responsabile della malnutrizione e dell’omologazione alimentare. Così alla fine sbottò: «Anche voi che esaltate il piccolo è bello poi mangiate quello che passa l’industria! E vi piace, anche se non lo ammettete!». La coda velenosetta forse era superflua: si può tranquillamente consumare Nutella a mestolate e saper comprendere perfettamente il valore di un cru di cacao. Ma il ragionamento che stava alla base dell’intervento, merita una risposta. È vero infatti che anche noi che difendiamo il concetto di una nuova gastronomia, che valorizzi e tuteli le piccole produzioni tradizionali, poi siamo costretti ad approvvigionarci al supermercato e a nutrirci di prodotti industriali. Siamo costretti? Ma questa con-

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traddizione non è evitabile? Per molti ovviamente vale il principio di economicità: è fuor di dubbio che i prodotti dei Presìdi Slow Food, ammesso che siano facilmente reperibili, sono più cari, a volte molto più cari di quelli che offrono le industrie. In tempi di crisi economica come quello che stiamo vivendo questo è un fattore cogente nel determinare le scelte. Ma ammettiamo che disponiamo del reddito sufficiente per nutrirci come meglio vogliamo: è pensabile che ogni giorno si vada alla ricerca delle chicche, dei tesori della nostra tradizione, la più ricca e articolata al mondo? Non lo è, proprio in relazione al fatto che certe sfiziosità rivestono, per chi è in questo ordine di idee, un carattere di stimolo culturale, oltre che sensoriale, di edonismo colto, di conoscenza, e non è affatto detto che ogni giorno siamo nella disposizione di spirito adatta per un approccio così complesso. Se ogni giorno mangiassimo cappone di Morozzo e pecorino di Farindola quei prodotti perderebbero l’aura che emanano e finirebbero per assumere una connotazione di quotidianità, di banalità che li renderebbe indistinti rispetto al resto dell’offerta alimentare. Perché restino stimolanti occorre che restino occasionali. Vi è invece un altro aspetto del problema che merita di essere approfondito: la

produzione industriale mi garantisce dal punto di vista della buona nutrizione? Qui la risposta si fa più complicata. La gran parte di questa produzione ci sottopone infatti a un bombardamento di additivi e conservanti impressionante e soprattutto ci impone materie prime di cui non riusciamo a percepire la qualità originaria. Ormai le carni viaggiano per il mondo, e così fanno i pesci, gli ortaggi, la frutta, il latte. Questi viaggi impongono interventi di conservazione e di sanificazione che in parte sono assicurati dalla catena del freddo, ma che nella maggior parte dei casi prevedono interventi chimico-fisici che sicuramente ne alterano la naturalità. L’industria garantisce la conformità sanitaria, ma certamente non può garantire la naturalità delle materie prime e dei prodotti finali. La legge dei grandi numeri impone approvvigionamenti costanti e a basso prezzo: quantità illimitata e prezzi bassi sono nemici della qualità alimentare. È chiaro che per ovv iare a questo stato di cose occorrerebbero una rilocalizzazione dei consumi, una drastica riduzione dell’offerta (che senso ha vedere nello scaffale del supermercato decine di tipi di mozzarelle, di burro, di prosciutto cotto, di pasta fresca, di latte pastorizzato quando alla fin fine sono prodotti assolutamente equivalenti, dove l’unica

di Piero Sardo* NUOVA GASTRONOMIA E VECCHIE PRODUZIONI, SFIZIOSITÀ E PRINCIPIO DI ECONOMICITÀ. MA QUANTO L’ATTUALE PRODUZIONE INDUSTRIALE GARANTISCE LA BUONA NUTRIZIONE?

discriminante è il prezzo che riesce a spuntare il buyer del settore?), una riduzione massiccia delle spese pubblicitarie. Un cambio epocale, insomma, che non mi pare si vada profilando. Come ci si difende allora da questa situazione? Scegliendo prodotti biologici, ad esempio, la cui forbice di prezzo rispetto ai convenzionali si va riducendo, o organizzando gruppi di acquisto, o recandoci direttamente dai produttori o dai contadini, o suggerendo al nostro bottegaio (finché ne sopravvive qualcuno) scelte meno convenzionali. Ma tutto questo presuppone un grado di compe-


In vino veritas

tipici tenze nei consumatori che per ora non esiste e anche tempo ed energie da dedicare all’approvvigionamento che non ci sono. Sembrerebbe una situazione senza vie d’uscita. Forse occorre partire da un presupposto leggermente differente. L’industria alimentare in Italia è tra le migliori al mondo. Non è il male assoluto. È nata e si è sviluppata nella maggioranza dei casi amplificando e razionalizzando saperi artigiani, è figlia delle tradizioni alimentari di questo paese. Non siamo totalmente colonizzati dalle multinazionali del cibo, quelle che vendono gli stessi prodotti a Singapore, New York e Città del Capo. Da noi si deve tener conto delle abitudini regionali, dei gusti fortemente legati alle tradizioni famigliari, a una competenza diffusa che ancora sa distinguere tra un conglomerato di proteine e grassi e un formaggio. Non a caso l’industria avverte l’onda di ritorno ai prodotti locali e si adegua: quante offerte negli ultimi tempi di dolci e panettoni naturali, magari con cedri di Sicilia e zucchero di canna, quante confezioni di latticini riportano “da latte italiano”, quante paste secche mettono in evidenza l’utilizzo di trafile in bronzo ed essicature lente? Insomma, si avverte una nuova attenzione a valori che avremmo detto in contraddizione con quelli industriali: materie prime di pregio, processi attenti di lavorazione,

riduzione degli additivi. È sicuramente un’operazione di immagine, che per certi versi va a occupare spazi altrui, che invade appunto il terreno del buon artigianato alimentare, ma certo non possiamo lamentarcene più di tanto. I formaggi d’alpeggio resteranno inimitabili e così i salumi stagionati in ambienti non refrigerati e le varietà autoctone di carciofi, di frutta, di fagioli ecc. saranno ancora le migliori dal punto di vista organolettico. Ma se i processi industriali si ingentiliscono, si adattano a un nuovo spirito dei tempi e si impongono ritmi e tecniche più naturali, non possiamo che esserne soddisfatti. Non sarà la rivoluzione di cui parlavamo prima, ma sarà un passo importante. Anche perché tecniche di produzione industriale più tradizionali, più naturali, richiedono prodotti dall’agricoltura più sani, più saporiti, più qualitativi, insomma. E se gli industriali sapranno fare bene il loro mestiere, saranno loro per primi a voler difendere le eccellenze, le piccole produzioni alimentari a rischio: perché si saranno resi conto che quelle sono la miglior pubblicità possibile per tutto il comparto agroindustriale, in Italia e all’estero. I Presìdi dovrebbero trovare proprio nell’industria alimentare i più fervidi e convinti sostenitori. * Slow Food

di Vittorio Manganelli* STORIE E POLEMICHE SUL VINO, TRE TIPOLOGIE DI PRODUTTORI

è qualcosa che non va nelle ultime polemiche sul vino, scatenate in particolare dal rotocalco televisivo Report, unite al clamore sollevato dal documentario Mondo Vino. Mi pare infatti che – grazie a trasmissioni televisive fuorvianti, a documentari cinematografici che non hanno centrato l’obiettivo e ad articoli fustigatori del gusto internazionale – si stia fornendo l’immagine di una produzione caratterizzata da frodi e chimica, da furberie e da soldi facili. Cito solo la frase iniziale del servizio di Report, Rai 3, andato in onda il 24 settembre 2005: «Se pensate che il vino si fa schiacciando l’uva e facendola fermentare, vi sbagliate, oggi ci sono le biotecnologie che permettono di ottenere un prodotto sicuro». La storia del vino italiano (limitandoci agli ultimi decenni) è invece un susseguirsi di tentativi di migliorare la qualità, con risultati sicuramente eccellenti, non una storia di sofisticazioni o di ogm. È vero, ci sono state anche gravissime colpe: era il 1986 quando lo “scandalo del metanolo” fece capire a tutti (compresi i furbi e i malfattori) che era ora di cambiare registro. Ma già allora esistevano migliaia di realtà produttive che lavoravano con assoluta serietà e che «facevano il vino schiacciando l’uva e facendola fermentare». Per districarci nell’argomento credo sia utile utilizzare un vecchio schema che, ovviamente non rigoroso e che mi auguro possa essere superato, individua tre tipologie di produttori, e quindi di vino. I puristi. Iniziamo da quelli che si attengono al più rigoroso rispetto dell’uva e che limitano al minimo gli interventi “correttivi” sia in vigna sia in cantina. Comprendo in questa fascia i produttori che praticano un’agricoltura biologica o biodinamica, i tradizionalisti più classici, coloro che spesso rifiutano l’uso della barrique in quanto strumento di omologazione, quelli che si richiamano al “vino vero” e che magari sperimentano ritorni alla vinificazione in anfore come si usava duemila anni fa. Vini spesso capaci di dare grandi emozioni e di esprimere al meglio il legame con il proprio territorio. In annate caratterizzate da avversità atmosferiche o da climi anomali, la rinuncia a interventi in vigna e in cantina può però creare problemi e portare quindi a risultati più o meno modesti. I modernisti. Vi è poi una seconda categoria, quella che sicuramente ha brillato maggiormente negli ultimi vent’anni a livello internazionale, fatta di produttori grandi e piccoli che hanno realizzato veri gioielli enologici grazie ad attenti lavori in vigna, a cantine dotate dei più aggiornati strumenti (dalle vasche in acciaio al controllo della temperatura di fermentazione, dai legni particolari ai concentratori), avvalendosi spesso dell’opera di enologi consulenti. Si tratta, almeno in parte, di quei “grandi vini” messi sotto accusa da Mondovino, di bottiglie che, per essere sempre più vicine al gusto internazionale, hanno a volte sbordato dai dettami dei disciplinari, facendo parlare di aggiunte di Cabernet Sauvignon o di Montepulciano d’Abruzzo o di Merlot anche dove ciò era vietato. Vini dal prezzo molto sostenuto, a volte motivato solo dalla rarità e dall’immagine, spesso di difficile collocazione territoriale, giocati sulla piacevolezza immediata. Va però detto chiaramente che gli interventi operati dagli enologi sono basati su accorgimenti assolutamente leciti (ad esempio, correzione dell’acidità, aggiunta di tannini o di mosto concentrato, uso di lieviti selezionati). Gli industriali. Vi è poi, infine, la categoria degli “industriali”, dei grandi imbottigliatori, di coloro che puntano a realizzare vini dal costo bassissimo, utilizzando le uve più economiche d’Italia e assemblandole in prodotti (per lo più classificati “da tavola”, ma anche Doc e Docg) privi di personalità ma anche di difetti evidenti. È la tipologia che, nell’attuale situazione di crisi dei redditi familiari, viene premiata grazie a prezzi che, nella grande distribuzione, stanno abbondantemente sotto i 5 euro a bottiglia. Si tratta per lo più di vini che nascono da vigneti molto produttivi in cui la chimica la fa da padrona, bassi sia nel tenore alcolico sia nei pregi gustativi, a volte frutto di assemblaggi di uve di diverse regioni. Vini, quindi, realizzati per coloro che ancora pensano che il vino sia un alimento necessario, da consumarsi tutti i giorni, senza badare troppo alle qualità intrinseche racchiuse dal tetrapak o dalla bottiglia. Ma neanche in questo caso si tratta di “ vini fatti con le polverine”. Non sono in grado di escludere che esista ancora una categoria di “amici del metanolo” e della frode, come non sono in grado di dimostrarlo. È pur vero che i prezzi all’ingrosso dei vini “da supermercato” sono talmente bassi (come si può vedere consultando Il corriere vinicolo) che oggi non si vede neanche quale sia la convenienza a inventarsi più o meno artefatte sofisticazioni. In buona sostanza, possiamo bere tranquilli, con più rispetto del territorio e dei vitigni autoctoni se ci affidiamo a piccole e grandi produzioni legate alla storia delle diverse aree viticole, con più immediatezza e superficialità (oltre che più soldi) se ci abbandoniamo al “gusto internazionale” dei vini realizzati con gli imperanti Cabernet Sauvignon e Chardonnay, oppure possiamo rimanere legati all’idea del vino come complemento obbligatorio del cibo, come facevano (allora saggiamente) i nostri bisnonni contadini, ma come possiamo tranquillamente smettere di fare noi oggi. * Slow Food

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IN ATTESA DI RISPOSTE SICURE, DICIAMO NO AI PRODOTTI GENETICAMENTE MODIF È di questi giorni la notizia di nuovi preoccupanti risultati nei test di laboratorio sug Infatti, finché la scienza non avrà le idee chiare in materia di OGM, preferiamo averle noi tagliati fuori. Una precauzione certificata e garantita da un rigoroso controllo di filiera. P NO OGM. UN ALTRO VANTAGGIO COOP. www.e-coop.it


Gli OGM non sono un gioco da tavola.

FICATI. gli OGM, ma non è certo da ieri che Coop se ne preoccupa. i: dai prodotti a marchio Coop gli OGM sono categoricamente PerchÊ, per noi, certe combinazioni non sono un bel gioco.



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Povero Pippo era una volta Super Pippo. Nel cappello teneva nascosta un’arachide. Funzionava un’po’ come gli spinaci di Braccio di Ferro, ovvero gli conferiva poteri straordinari. C’erano anche Snoopy, Charlie Brown, Piperita Patty…la striscia di fumetti conosciuta con il nome di Peanuts, cioè arachidi. Oltreoceano, le ‘spagnolette’ hanno sempre fatto sognare. Il burro di arachidi ha accompagnato generazioni di scolari americani. Ogni anno, ogni americano consuma in media 3,5kg di arachidi. In Europa solo gli inglesi si avvicinano al traguardo, con 1,77kg per persona. Da qualche anno, l’arachide è diventata uno degli alimenti in grado di provocare reazioni allergiche spesso violente. Al punto da rendere necessarie indicazioni delle presenza di noci e arachidi nelle preparazioni alimentari. Basta sfogliare il menu di ristorante americano o britannico per notare la dovizia con la quale ne viene segnalata la presenza nelle pietanze. Nei paesi anglofoni si parla di cibi ‘nutfree’, cioè di preparazioni senza noci o simili.http://www.cathaypacific.com/ intl/pretrip/smart/0,,112594,00.html) Ma cosa rende noci e arachidi pericolose? L’arachide è una pianta delle leguminose Papilionate. Contiene tre proteine (Ara h1, Ara h2, Ara h3) che sono stabili rispetto al calore e che sono in grado di provocare una reazione allergica sia in caso che le arachidi siano fresche o tostate. Questo vuol dire che chi è allergico alle arachidi è altrettanto allergico ai loro derivati, come la farina, il burro o l’olio o ad altri frutti come le noci e le nocciole, che hanno una struttura della molecola proteica analoga. L’allergia alle arachidi si manifesta nei primi anni di vita e, a differenza dell’allergia al latte e alle uova, non scompare con il tempo. La reazione allergica avviene quando l’organismo si accorge della presenza di una proteina ‘estranea’ nelle proprie cellule. Per difenderle l’organismo inizia a produrre speciali anticorpi. Quando gli anticorpi raggiungono le cellule, queste rilasciano sostanze come l’istamina, che causano prurito, nausea o difficoltà respiratorie. Le reazioni allergiche possono variare dall’urticaria allo shock anafilattico. Tutte le allergie si scatenano a breve distanza di tempo da quando è avvenuto il contatto con la sostanza scatenante. Non occorre ingerirla, basta che venga inalata o che avvenga un contatto cutaneo. Per capire le conseguenze che questo può avere basta pensare che dal

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1998 diverse compagnie aeree americane hanno cessato di offrire noccioline ai passeggeri durante il volo. Ma non tutte le compagnie aeree reagiscono allo stesso modo. Attualmente la Cathay Pacific riporta sul suo sito una nota in cui dichiara non poter garantire un ambiente ‘peanut free’ per i passeggeri allergici. Si parte dal cibo (‘non possiamo garantire l’assenza di prodotti con arachidi nelle cucine che preparano i cibi di bordo dal momento che ingredienti a base di arachidi, olii di arachidi e altri alimenti non specificati contenenti tracce di arachidi sono ampiamente usati nell’area Asia Pacifico’) per arrivare alle condizioni in cabina (‘non siamo in grado di garantire l’assenza di arachidi a bordo dal momento che non possiamo impedire ai passeggeri di portare loro prodotti con arachidi ne tantomeno possiamo impedire che non li mangino. Inoltre prodotti con arachidi possono esser lasciati in cabina, sui sedili e nelle aree comuni da un volo precedente’). La conclusione di Cathay Pacific è che siano i passeggeri a prendere i provvedimenti necessari e a prepararsi alle conseguenze di un’eventuale contaminazione, ‘indossando il braccialetto indicante l’allergia, portando l’epinefrina di pronto impiego (Epipenna) o altri anafilattici prescritti dal loro medico che possano essere utilizzati personalmente. I compagni di viaggio, tutori o famigliari, dovranno somministrare l’antidoto se sarà necessario. Se non sono presenti, il passeggero dovrà essere in grado di somministrarsi da solo la profilassi prescritta dal medico’ (http://www.cathaypacific.com/intl/pretrip/smart/0,,112594,00.html). In Canada alla fine di novembre, una ragazzina allergica alle arachidi è morta dopo aver baciato il fidanzato, che qualche ora prima aveva consumato uno snack contenente arachidi. La percentuale di bambini americani allergici alle noccioline è raddoppiata tra il 1997 e il 2002. Alle allergie vere e proprie si aggiunge tutta una serie di intolleranze ai cibi, che non sono mediate dalla produzione di istamina o altre sostanze da parte dell’organismo che si sente attaccato. Una delle possibili spiegazioni dell’intolleranza dell’organismo a certi cibi è l’assenza dell’enzima necessario ad assorbire certe sostanze. Quello che fino a pochi anni fa era un problema negli Usa e in Gran Bretagna sta diventando un problema anche altrove. Si calcola che oggi il 4% degli americani adulti e il 6% dei bambini soffrano di allergie alimentari. Dieci anni fa, erano appena l’1%. In Gran

di Maria Tarantino LE ARACHIDI CHE PROVOCANO REAZIONI ANCHE VIOLENTE. COME SI ATTREZZANO LE COMPAGNIE AEREE, MENTRE LA DIFFUSIONE DELLE ALLERGIE ALIMENTARI È IN CRESCITA. E L’ORGANISMO SI DIFENDE Bretagna, una persona su tre soffre di una o più allergie alimentari. Le allergie sono in continuo aumento, ma non si capisce esattamente perché. L’ipotesi più diffusa è quella ‘igienista’, che si riferisce al fatto che chi vive in condizioni di igiene elevata, come avviene nelle società affluenti, non stimola adeguatamente il sistema immunitario. Nel caso specifico delle arachidi, un fattore potrebbe essere il metodo di cottura. Secondo uno studio del giugno 2001 pubblicato dalla rivista ‘Journal of Allergy and Clinical Immunology’, la tostatura delle arachidi ad alta temperatura provocherebbe dei cambiamenti nella loro struttura proteica, aumentandone il fattore allergenico. Bollire o friggere le arachidi avrebbe invece un effetto contrario, motivo per cui in paesi come la Cina, dove le arachidi si consumano fritte o bollite, l’incidenza delle allergie non è rilevante.

In generale, è il nostro modo di vivere che è cambiato e l’organismo è costretto ad abituarsi. Al Dipartimento di Immunologia della Cornell University, il prof. Rod Dieter parla di esposizione a cibi trattati con pesticidi o sostanze chimiche di vario genere che fanno ormai parte della prassi di chi produce generi alimentari. Rispetto a questi nuovi veleni, l’organismo scatena le proprie difese, aumentando la gamma di epitopi, ovvero le ‘situazioni’ rispetto alle quali deve reagire. La situazione diventa ancora più complessa se si prendono in considerazione gli ogm. Le proteine geneticamente modificate vengono ormai utilizzate in una vasta gamma di prodotti alimentari. L’organismo umano non le ha mai conosciute e potrebbe sviluppare reazioni allergiche nei loro confronti. A quel punto, stabilire verso quale sequenza genetica è diretta l’intolleranza, diventerebbe una missione quasi impossibile.


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SCRITTO&MANGIATO

alle analisi sembrerebbe celiachia…». «Ah, quella cosa per cui non si possono mangiare pane, pasta, biscotti». «Non è proprio così semplice; intanto però faccia la biopsia, per averne la certezza». Inizia spesso così, per gli adulti, la convivenza con un’intolleranza che non si risolve semplicemente eliminando dalla dieta pane, pasta e biscotti. E inizia spesso quasi con sollievo, visto che sintomi e malesseri che portano alla diagnosi possono far pensare a eventualità ben peggiori. La celiachia è un’intolleranza permanente al glutine, complesso proteico contenuto in grano, orzo, segale, farro, kamut, spelta e triticale capace di scatenare nei soggetti geneticamente predisposti una reazione immunitaria abnorme che può provocare l’atrofia anche totale dei villi intestinali e dunque compromettere l’assorbimento delle sostanze nutritive. Si cura soltanto con una dieta che escluda rigorosamente il glutine. Contrariamente alle apparenze è molto diffusa, visto che ne soffrirebbe una persona su 100/150. Un condizionale che fa i conti con un iceberg di diagnosi mancate: nove celiaci su dieci non sanno di esserlo e chissà se lo scopriranno mai. Perché? Prima di tutto perché la malattia, specialmente in età adulta, si manifesta in forme cliniche molteplici, con variabili che vanno dalla magrezza eccessiva alla carenza di ferro, dai disturbi dermatologici all’osteoporosi, poi perché troppi medici la sottovalutano, per non dire che non la conoscono o ignorano quali esami prescrivere per ricercarla (dosaggi sierologici di anticorpi antigliadina, antiendomisio e anti-transglutaminasi, cui deve seguire, per la diagnosi definitiva, una biopsia dell’intestino tenue). D’altra parte, fino a una ventina d’anni fa, la celiachia era considerata materia da pediatri: si pensava che solo i bambini, normalmente a qualche mese dall’inizio dello svezzamento, la sviluppassero. Tenuti un po’ di anni a dieta potevano poi tornare all’alimentazione libera, salvo in genere ritrovarli, dopo un periodo più o meno lungo di benessere, ridotti degli stracci. Se l’equivoca e univoca associazione bimbi-celiachia sta man mano finendo in soffitta con i libri di medicina che la sostenevano, il “curriculum” di troppi celiaci è ancora costellato di errori diagnostici. Da chi si sente dire di essere troppo in carne o di statura elevata per essere intollerante, a chi per anni si imbottisce inutilmente di ferro con l’obiettivo di far risalire i valori di una sideremia inspiegabilmente bassa, fino a ben più tragici scenari di malati cui viene prospettata qualche forma tumorale. Certo, una malattia che non si può – forse – prevenire, che non presenta, se presa in tempo, effetti collaterali, una volta riconosciuta si tiene a bada con la dieta e non necessita di particolari cure e complicati controlli non fa scattare molti allarmi né può pretendere di accaparrarsi le priorità della ricerca. Per fortuna, grazie anche all’aumento delle diagnosi, le cose stanno cambiando e gli studi si moltiplicano: dal vaccino alla detossificazione del grano, alle indagini su età del divezzamento, allattamento al seno, parti per milione di glutine tollerate…

«D

Vade retro La pillola Proprio quella del vaccino sembra per ora la strada più percorribile per combattere l’intolleranza. Se ne è parlato diffusamente al congresso mondiale sulla celiachia tenutosi a Firenze nell’aprile scorso e, molto più superficialmente, sui mezzi di comunicazione, unisoni nello sbandierare l’imminenza della disponibilità della nuova pillola, annunciata già per il 2006, anno che invece segnerà solo l’inizio della sperimentazione sull’uomo, dopo quella su modelli animali di autoimmunità simili alla celiachia. Il professor Alessio Fasano è uno dei medici più attivi nello studio della malattia – oltre che l’enne-

simo “cervello” che il nostro paese si è lasciato scappare – e anche l’autore delle dichiarazioni più ottimiste sul futuro dei celiaci. È il suo gruppo che, a Baltimora, lavora sul vaccino. La Food and drug administration, dopo aver analizzato il dossier e la documentazione relativa ai test sugli animali, gli ha concesso il via libera per la sperimentazione sull’uomo, «la quale – ha spiegato Fasano – può essere indicativamente suddivisa in tre fasi». La prima è in pieno svolgimento: in Nord Dakota un gruppo di volontari non celiaci si sta sottoponendo a una somministrazione massiccia della nuova pillola, inibitrice della zonulina e dunque in grado di

impermeabilizzare le pareti dell’intestino, impedendo, di fatto, il passaggio del glutine. Una fase che serve per escludere possibili effetti collaterali. Verificato che tale farmaco non faccia aumentare la pressione, sia cancerogeno o abbia ripercussioni negative sul sistema cardiocircolatorio, si può passare alla fase seguente, molto delicata, che dovrebbe iniziare già nel gennaio 2006. Due gruppi di volontari celiaci sono già stati selezionati anche in Italia, a Bari e a Palermo: saranno messi a dieta libera per un periodo, “protetti” però dalla pillola in questione. Se anche questa fase sarà superata inizierà la sperimentazione su larga scala, che interesserà


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di Simona Luparia*

centinaia di persone. Soltanto dopo questi passaggi, e solo se non si presenteranno controindicazioni, si potrà cominciare a pensare alla produzione del farmaco.

LA DIFFUSIONE DELLA CELIACHIA, UN TEMPO SOLTANTO ALLERGIA PEDIATRICA E ADESSO SEMPRE PIÙ SCOPERTA NEGLI ADULTI. PROBLEMI, DIAGNOSI E FUTURO PROSSIMO, CON UNA SPERANZA

o glutine er i lattanti geneticamente predisposti alla celiachia si pone il problema di come affrontare lo svezzamento poiché non esistono ancora studi scientifici in grado di stabilire quale sia il momento più adatto per introdurre i primi cereali contenenti glutine. Per fare chiarezza al riguardo, e con l’obiettivo di verificare se l’epoca di introduzione del glutine influenzi il rischio futuro di sviluppare la malattia, l’Associazione Italiana Celiachia nel settembre 2004 ha avviato un’indagine che richiede la collaborazione di famiglie nelle quali sia appena arrivata la cicogna. I piccoli familiari di celiaci ar r uolati in tutta Italia – a oggi 283, con una leggera maggioranza di femmine – sono divisi in due gr uppi sulla base di un diverso regime alimentare. Mentre il primo segue un divezzamento “normale”, il secondo conduce una dieta priva di glutine fino all’età di 12 mesi. L’incidenza dell’intolleranza nei due gruppi – verificata a 15, 24 e 36 mesi con la ricerca dei geni di predisposizione alla malattia e degli anticorpi oltre che con il controllo delle immunoglobuline sieriche – aiuterà a stabilire quale sia il comportamento alimentare più sicuro ai fini di una possibile prevenzione primaria della malattia. Per seguire da vicino bimbi e famiglie che partecipano allo studio è stata allestita una rete di centri regionali coordinata dal professor Carlo Catassi (tel. 071 5962364 o 349 2235447, catassi@tin.it). S. L.

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CARI BIMBI

Spesa e menù Nel campo della produzione di alimenti sostitutivi per celiaci – business non da poco – quanto a ricerche e innovazioni si compete intanto a colpi di formule per il pane con la crosta più croccante, consistenza meno spugnosa e persino di raccolte punti o sorpresine in omaggio, mentre di fatto non esiste concorrenza sul fronte del prezzo, che sembra non preoccupare nessuno. Le aziende si trincerano dietro gli oneri di produzione “sicura” e lavorazione di ingredienti difficili, il Ministero della Salute include sempre nuovi prodotti nel Registro Nazionale Alimenti senza glutine (dunque interessati dall’assistenza sanitaria integrativa in quanto prodotti destinati a una alimentazione particolare) senza badare ai loro prezzi, i malati fanno lo slalom fra biscotti che costano fra i 15 e i 40 euro al chilo e pasta più cara della migliore artigianale trafilata in bronzo per riempire lo scatolone di spesa mensile, acquistata nella maggior parte dei casi ancora in farmacia e per fortuna coperta, visti i listini, da un tetto di spesa variabile da regione a regione ma comunque garantito dalla legge 4 luglio 2005 n. 123. La questione dell’approvvigionamento dietoterapico non riguarda solo la possibilità di allargare la gamma degli alimenti e dunque dei sapori, ma, soprattutto per i più giovani, è psicologicamente rilevante: fare scorta di cibo dove gli altri comprano medicine non aiuta certo a sentirsi “normali” e in particolare nell’adolescenza la diversità, i divieti, sono gli aspetti che rendono l’intolleranza più difficile da accettare. Significa niente pizza, niente birra, niente hamburger e patatine… Già, perché risolto il problema di pane, pasta, dolci e farine sostitutivi, si comincia a confrontarsi con il resto dell’universo commestibile: un’infinità di vivande non sospette che potrebbero invece contenere glutine (è il caso di salumi, caramelle, salse, yogurt…) o condividere le linee di produzione con cibi “contaminati”. Bastano 50 milligrammi di glutine al giorno per causare danni ai villi intestinali ed ecco perché la contaminazione è il vero spauracchio dei celiaci. Li soccorre il Prontuario degli alimenti dell’Associazione Italiana Celiachia (vedi box), elenco aggiornato annualmente di prodotti alimentari – per lo più industriali – per i quali le aziende dichiarano l’assenza di glutine e di possibile cross contamination durante tutte le fasi di realizzazione. La direttiva europea sull’etichettatura entrata di recente in vigore anche nel nostro paese, con l’obbligo di indicare le sostanze allergeniche – dunque anche i cereali contenenti glutine – in tutti i prodotti messi in commercio, non potrà sostituire il compendio dell’associazione finché non sarà comune a tutta l’Europa il significato di senza glutine (quante le parti per milione ammesse?). La normativa rischia anzi di restringere il campo dei cibi fidati in quanto le aziende sarebbero inclini a dichiarare sempre – in alcuni casi già lo fanno – la presenza degli allergeni per cautelarsi. * Slow Food


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No pasta no pizza tasera niente pizza con gli amici. E domattina nemmeno la pizza bianca alta apposta per una fetta di prosciutto - molto romana - al fornaio qui sotto. Sabato c’è la festa di una amichetta di tuo figlio di 4 anni, un tripudio annunciato di torte e paninetti. Da guardare e basta, tra la soddisfazione dei piccoli che evitano di sgomitare con i genitori per tuffarsi primi sul tavolo dei dolci. L’invito a cena a casa di amici va bene - sono amici o no? - ma da conoscenti, che fai, li avverti? Il fatto è scoprirsi celiaco a una certa età. Allergico, per sempre, al glutine, cioè alle farine e a un elenco infinito di cose molte simili. Per un asintomatico è una sorpresa totale, come un frontale in macchina. Celiachia, poi, suona strano, peggio di quel che forse è. Esami del sangue, biopsia - altra parola vagamente respingente - la diagnosi e il consiglio immediato di iscriversi all’Associazione Italiana Celiachia (www.celiachia.it). Il secondo consiglio è subito controllare che i tuoi figli non abbiano ereditato questo debito enorme. Fatto. Nulla, per ora, Bene così. Ci si cura senza medicine. Basta non mangiare una lunga serie di cose, oppure mangiarle a casa dopo averle acquistate in farmacia. Per il consumatore neoceliaco è come Highlander, si torna indietro nel tempo: senza nessuna trasparenza e informazione, il prezzo di prodotti a peso d’oro non è mai indicato, bisogna sperare

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La vera qualità

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a qualità della comunicazione del prodotto non significa necessariamente una bella pubblicità. Nelle confezioni di succhi di frutta, di sughi pronti, di riso, di cereali e di altri prodotti, i marchi Alce nero e Mielizia hanno inserito alcune essenziali informazioni in alfabeto Braille per i non vedenti: nome del prodotto, marchio e data di scadenza. Il progetto, diffuso con i due marchi della società Mediterrabio con forte vocazione al biologico nei pressi di Bologna, è partito nel settembre 2004 in Italia ed è stato allargato all’Europa, dato che il problema dell’accessibilità a certe informazioni per i non vedenti riguarda circa 400.000 cittadini nel nostro paese e circa 2 milioni e 360mila persone in tutta Europa. Nel 2005, il programma è stato applicato a sette milioni di confezioni messe in vendita nella grande distribuzione e nei negozi specializzati.

soltanto nella gentilezza del personale della farmacia. Fuori casa, la pasta (senza glutine ma conta il sugo, eh) si può mangiare nei pochi ristoranti attrezzati e certificati dall’Aic in giro per l’Italia. Più numerosi nei centri piccoli che in quelli grandi. Locali dove le pizze finiscono in due forni diversi per evitare il contatto con il glutine o dove si scola la pasta in arnesi ad hoc. Ma chi spende gran parte della giornata fuori di casa e viaggia molto, come farà? Già. Ci si adatta: carne o pesce alla griglia (mai impanature per carità) sono quasi sempre una sicurezza. L’insalata, sdegnata fino a ieri, è ora un must. In aereo vale la pena richiedere al momento della pre-

di F.P notazione il pasto speciale alla voce esclusivamente anglofona “Gluten Free”. Sarete serviti, ma non è una certezza assoluta: su un volo Alitalia per Francoforte una hostess tanto cortese quanto determinata voleva convincerci che il pasto speciale “Senza Sale” equivaleva al “Gluten Free”. All’estero, capita di non essere capiti. Un nostro accompagnatore giapponese a Tokyo, sempre deferente come tradizione, alla notizia si è perfino stropicciato gli occhi: un italiano “no pasta and no pizza!”. Il problema è che quest’italiano non amava nemmeno il sushi. Un disastro.

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uark. Quorn. Jerky. Turkey. No, non è la trascrizione del dialogo tra un ‘anatra e un asino. Sono parole inglesi e hanno tutte qualcosa in comune, tranne una. Soluzione dell’enigma: escluso “quorn”, si tratta di termini polisemici i quali indicano sia qualcosa che si mangia, sia qualcosa di non commestibile. Dunque, solo “quorn” designa esclusivamente un alimento. Riempiamoci la bocca con questa parola, per adesso solo con la parola, dato che tale prodotto dalle assonanze aliene e futuribili e dal sapore vago ma deciso a tavolino dai food engineers anglosassoni, non è ancora atterrato sulle tavole italiane. Il Quorn è stato avvistato nei supermercati svizzeri, quindi è probabile che il momento del contatto sia più vicino di quanto non si creda. Il Quorn (scusate questa tortura, purtroppo non esistono sinonimi) è un po’ come un incrocio congestionato in una zona della città dove non passate mai: mentre siete fermi in coda vi vengono in mente delle domande di natura urbanistico-logistica che altrimenti non vi fareste. Cosa vogliono veramente i vegetariani? Perché l’industria investe montagne di denaro in procedimenti così complicati, quando ci sono in natura alternative naturali e saporite? Avevamo già il seitan (ma gli intolleranti al glutine devono tenersene alla larga) e la bistecca di soia (ma gli allergici alla soia non possono mangiarla), perché aggiungere un surrogato della carne che a sua volta

causa reazioni di rigetto? Con quest’ultima domanda tocchiamo uno di quei punti critici che rendono il caso del Quorn, nel suo piccolo, emblematico delle forze in gioco nell’industria alimentare di oggi. Sull’etichettatura di questo prodotto si sta combattendo negli Stati Uniti una guerra legale che vede affrontarsi da una parte i consumatori e le organizzazioni di controllo no-profit come il CSPI (Center for science in the public interest), e l’industria con la FDA (food and drug administration) e la FTC (federal trade commission) dall’altra. Insomma, Davide (combattivo quanto vogliamo) contro Golia: che novità. Il fatto è che dal 1993 in Gran Bretagna, e dal 2002 negli Usa, da quando il prodotto è stato immesso sul mercato, una piccola percentuale di persone (un migliaio gli episodi noti) ha sviluppato casi di allergia molto seri, che vanno dal vomito alla diarrea, fino allo shock anafilattico: dunque con effetti immediati, qualche minuto dopo l’ingestione. Solo il 5% dei consumatori era dichiaratamente allergico a funghi e muffe in generale (sostanze di cui è fatto il Quorn), mentre per tutti gli altri si trattava di un’allergia specifica. Il distributore di questo surrogato è un gigante basato in Texas, Whole Food Markets (WFM), che si specializza nel comparto dei cibi organici. Tanto per farsi un’idea, The Economist prevede per WFM una crescita a due cifre nel 2006, per un volume d’affari di 5 miliardi di dollari. Qualcuno ha voglia di rinunciare a una parte di tali profitti scrivendo sull’etichetta “il prodotto può causare allergie”?

Ripercorrendo a ritroso le domande iniziali, spieghiamo infine cos’è questo benedetto Quorn. Nonostante venga descritto dai produttori come un “nutriente membro della famiglia dei funghi e dei tartufi” appartiene in realtà a una famiglia un po’ meno simpatica: quella delle muffe. Il professor Geiger della Pennsylvania State University ha detto che definire il Fusarium Venenatum un fungo è come “chiamare pollo un topo perché sono entrambi animali”. La Marlow Foods, l’azienda che ha perfezionato il metodo di produzione di questa muffa, ha sempre rifiutato di scrivere tale verità sull’etichetta, per ovvie ragioni. Infatti, se la confezione potesse parlare direbbe: “Caro consumatore, ti ricordo che i deliziosi bocconcini al gusto pollo che stai per scaldare nel microonde sono in realtà derivati da una muffa, coltivata in grandi vasche nei nostri stabilimenti, alla quale abbiamo aggiunto proteine ricavate dalla chiara d’uovo. Per dare un sapore decente alla muffa e al bianco d’uovo, abbiamo pensato di aggiungere una serie di aromi artificiali che speriamo troverai convincenti. Buon appetito”. Ma la strada che ha portato all’avvento del Quorn è lastricata di dettagli ancora più sconvolgenti. A partire dal nome. La parola Quorn non è la creazione di un ingegnere napoletano o di un patito di fantascienza: è il nome di un villaggio del Leicestershire, Quorndon appunto. Un bel giorno alla metà degli anni sessanta, tra le zolle di un appezzamento di terreno nella campagna attorno al villaggio, degli esseri umani scoprono una muffa

Muffe di Sabina Terziani IL QUORN, DALL’AMERICA E DALLA GRAN BRETAGNA FIN GIÙ ALLA SVIZZERA. STORIA DI QUESTO STRANO SURROGATO DELLA CARNE

(Fusarium Venenatum). Siamo in un’epoca di boom demografico ed economico: gli scienziati pensano a come gestire un’eventuale carenza di proteine nella dieta umana.Dal 1975 al 1985, Marlow Foods (di Marlow, una località vicino a Quorndon) mette a punto la linea di produzione della muffa da cui dipendono le sorti alimentari del mondo. Il Quorn è un ossimoro: vero frutto del terroir, fabbricato a poca distanza dai campi da cui proviene, e allo stesso tempo manufatto industriale dal sapore neutro, sorta di tabula rasa su cui i creatori di aromi possono innestare fragranze trompe l’oeil. Il Fusarium Venenatum si moltiplica dunque fermentando nelle vasche (con vista sui campi) in acqua ossigenata e zuccherata, alla quale i tecnici aggiungono vitamine e minerali. Al termine della crescita, la micoproteina, che ha una consistenza a metà tra il muco e la pasta da pizza, subisce un trattamento termico che ha lo scopo di rimuovere quell’eccesso di RNA che è alla base della tossicità e allergenicità della sostanza stessa. A questo punto il Fusarium viene essiccato e mescolato con albume e altri additivi. Non rimane che modellarlo, e il Quorn è pronto alla commercializzazione. Quando nasce, la nostra muffa precorre i tempi. Tra la metà degli anni sessanta e settanta, per l’industria alimentare i vegetariani non esistono: il Quorn non è stato creato per loro. Oggi però, oltre che ai vegetariani, il Quorn si rivolge ad un segmento di mercato che si sta rafforzando da qualche anno a questa parte: i carnivori che, sempre più spesso, per sentirsi a posto con i diktat salutisti, scelgono di rinunciare alla carne, ma non all’esperienza estetica della stessa. Mentre nei laboratori si studia la carne sintetica un tanto al metro, chi sogna proteine asettiche e sicure col Quorn è in una botte di ferro, pardon, in una vasca.

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di Maria Tarantino

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L’AVIARIA, IL SUO PERCORSO, LA SUA TRASMISSIONE, UNA VICENDA INIZIATA NEL 1997 A HONK KONG, PSICOSI E NUMERI. SOPRATTUTTO, LA GENTE NON SI FIDA

L’ultimo virus orire di influenza. Nel 2005. Si tratta piu’ o meno di questo: di un virus che proviene dalle anatre e che queste trasmettono senza ammalarsi ai polli, i quali invece muoiono, anche nel giro di poche ore. Il problema è che lo stesso virus che ammazza i polli è in grado di contagiare l’uomo. Presente nelle feci dei polli malati, il virus H5N1 si diffonde nell’aria con la polvere fecale. E’ in questo modo che le persone a contatto con i volatili la respirano e rimangono contagiate. Era già successo nel 1997 a Hong Kong, dove venne isolato per la prima volta il virus H5N1. Su 18 persone contagiate, ne morirono 6. E sta succedendo di nuovo dalla fine del 2003, quando otto paesi asiatici (Cambogia, Cina, Indonesia, Giappone, Laos, Corea del Sud, Thailandia e Vietnam) hanno assistito ad una nuova esplosione dell’epizotia. In quell’occasione l’Organizzazione mondiale della Sanità ha dichiarato l’epizotia ‘trasmissibile all’uomo’. In altri termini, il virus H5N1 è in grado di mutare, ovvero di modificarsi geneticamente combinandosi con un virus dell’influenza umana. In questo modo, l’H5N1 potrebbe trasmettersi molto più facilmente da persona a persona e soprattutto la mutazione impedirebbe all’organismo umano di riconoscerene le componenti e di sviluppare una difesa adeguata. Tra il 30 dicembre del 2003 e il 17 marzo del 2004, sono stati recensiti 12 casi umani di H5N1 in Thailandia e 23 in Vietnam. I decessi sono stati 24, cento milioni i volatili morti o abbattuti. Alla fine del 2004 la situazione si aggrava di

M

nuovo: prima vengono scoperti nuovi focolai in Vietnam, poi arrivano i decessi umani, in Vietnam e in Cambogia. Si tratta di persone che vivono a stretto contatto con i volatili: contandini o più semplicemente persone che allevano i polli i casa, al piano terreno delle abitazioni. Nelle zone rurali del Sud-est asiatico, il pollo è una presenza quotidiana. Per molte famiglie e per molte donne, rappresenta una risorsa economica importante. Lo si trasporta ai mercati a mano, vivo, per essere venduto. E scorrazza liberamente per casa e nelle strade. In Vietnam, fa parte del divertimento pubblico. Le lotte fra galli attirano la folla nei sobborghi di Hanoi ed è costume bere il sangue del gallo vincitore. Finora, ad essere state contagiate dall’H5N1 sono state circa 140 persone. Solo in Vietnam i contagi sono stati 93, in Thailandia 21, in Cambogia 4, in Indonesia 11 e in Cina 31. I morti sono 68, tutti i Asia. Ma è in Europa che imperversa la psicosi della peste aviaria. Si parla di una possibile pandemia, ovvero di un’epidemia particolarmente contagiosa, che si propaga rapidamente in tutto il mondo senza lasciare ai medici il tempo di prendere contromisure adeguate. E si fa il paragone con ‘la Spagnola’, una pandemia che si diffuse nel 1918 provocando tra i 20 e i 50 milioni di vittime. All’inizio di ottobre, scienziati dell’esercito americano hanno riesumato in Alaska i tessuti congelati di una vittima della Spagnola e sono riusciti a ricostituire il virus 2. Si tratterebbe di un virus mutato di influenza dei polli, l’H1N1. La domanda che si fanno in molti è quanti morti potrebbe provocare una

pandemia di H5N1. C’è anche chi si azzarda a sparare qualche cifra: milioni, anzi decine di milioni….Nel frattempo l’opinione pubblica ha seguito con il fiato sospeso qualsiasi avvistamento di volatile malato che possa far pensare all’arrivo dell’H5N1 in Europa. Si parla di psicosi. La verità è che la gente non si fida delle autorità. Ogni volta che si consuma uno scandalo alimentare, prima arrivano i morti e poi le spiegazioni scientifiche. E’ stato così sia per i polli alla diossina che per la mucca pazza. Questa volta l’opinione pubblica reagisce, in una maniera proporzionale alla sfiducia che nutre nei confronti delle informazioni ufficiale, e lo fa nell’unico modo a sua disposizione, ovvero non acquistando e non consumando prodotti avicoli. Non è un caso se l’Italia è il paese europeo dove, pur in mancanza di volatili infetti, si è verificato un crollo delle vendite dei prodotti avicoli vicino al 50% e ad un abbassamento dei prezzi del 27%. Ogni settimana sul mercato italiano ci sono un milione di polli in meno. In altri paesi le cose vanno diversamente. Si parla di un calo delle vendite del 15% in Ungheria, dopo la notizia che la peste aviaria aveva colpito la Romania. In Germania e in Gran Bretagna, dopo un calo del 25% a fine ottobre, le vendite sono tornate a livelli normali. Nel villaggio globale, ognuno fa come vuole. Stabili le vendite in Germania. In Francia, il mercato avicolo si scinde a seconda del costume religioso. Calano del 15% le vendite di polli tradizionali e crescono del 5% quelle di polli halal, abbattuti a mano secondo le prescrizioni coraniche.

Si tratta di reazioni ad un virus che non esiste ancora, che non è ancora mutato, che sarebbe maturo per mutare 3 . Reazioni preventive rispetto ad una malattia annunciata. E’ la realtà di un mondo interconnesso, dove si reagisce alla possibilità di un evento prima che questo si verifichi. Nel caso dell’epidemia detta ‘Spagnola’ del 1918, nessuno sapeva che in India c’erano stati tra i 7 e i 20 milioni di vittime. Il mondo affrontò il flagello a compartimenti stagni. Oggi le cose sono completamente diverse. Le notizie rimbalzano da un capo all’altro del pianeta e la gente reagisce molto più velocemente. L’idea che possano morire migliaia di persone è sufficiente a scatenare una crisi politica e morale. O comunque, tutto dipende da chi muore e dove. L’OMS ha calcolato che ogni anno muoiono 6 milioni di bambini, un bambino ogni tre secondi. La causa? Diarrea, polmonite, tutte malattie per le quali esiste una cura. Ma questa è roba vecchia ormai e non fa più notizia. O comunque, non interessa a chi non ha problemi a procurarsi cure, premesso che esistano.

1 Fonte OMS. 2 Fonte Radio Canada, http://radiocanada.ca/nouvelles/Santeeducation/nouvelles/200510/05/004grippe-espagnole.shtml 3 A settembre il New York Times pubblicava la notizia di un contagio di H5N1 tra due persone della stessa famiglia in Thailandia (http://www.nytimes.com/2004/09/28/international/asia. Successivamente l’articolo venne modificato e la versione attualmente rintracciabile negli archivi del quotidiano mette in forse la scoperta di un contagio tra persone (http://www.nytimes.com/2004/09/28/international/asia.


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SCRITTO&MANGIATO

i parte da Roma, alla ricerca di buona cucina per piccole tasche. Ma è ancora possibile trovarne dopo l’avvento dell’euro? A giudicare dall’ingiustificabile aumento dei prezzi, al mercato come a tavola, sembra difficile. Difficile mangiar bene con l’equivalente in euro di 20-30 mila lire, come si poteva fare fino a otto anni fa. Con la stessa cifra, oggi, ci scappa al massimo una pizza con birra e dolce, e senza troppo badare alla qualità dell’offerta. PappaRoma, la piccola guida di Luca Zanini e Barbara Ghinfanti, edita da Terre di Mezzo, ha invece deciso di “sfidare la categoria degli osti”, proponendo 100 ristoranti di qualità, a buon prezzo. Trattorie, osterie, enoteche e wine bar... Si va dagli 8-10 euro ai 20-30, ma sempre per un primo e un secondo, e senza il vino. Gli stomaci capienti, insomma, si facciano la pastasciutta a casa. E i bevitori si limitino a un buon bicchiere (PappaRoma consiglia anche quelli): sui vini, purtroppo, picchiano forte quasi tutti i ristoratori. > Indica invece solo il costo medio del pasto, l’Assaggenda 2006, edita da Sinnos, un’agenda culinaria che propone un “assaggiro del mondo”: in 365 giorni, 52 ristoranti e 104 ricette di cucina etnica, ma anche uno schema delle principali festività secondo le principali culture del mondo, tratte dal Calendario interculturale 2006. Ogni settimana, inoltre, compaiono due ricette, inviate dal ristorante in base al menù proposto: Ingera e Zighinì di manzo dall’Eritrea, agnello con le prugne dal Marocco, crema di ceci dal Libano... A Milano (via Roma, 103), c’è anche un ristorante maya, Terre di Muan. La cucina maya si basa principalmente sull’axiote, una pasta ottenuta dai semi rossi della pianta di annato, proveniente dal Sudamerica. Costo medio, 35 euro. > Happy hour con buffet (a 5 euro), cioccolatini e ogni genere di leccornie si trovano anche nella guida di Nina 2006. (Vipsania, email: info@vipsania.com). Il rapporto qualità-prezzo è indicato e verificato da un pool di redattori qualificati, coordinato da Daria Lucca. Nina, però, non è una guida gastronomica. Il cibo, il vino, la gelateria o il banco di formaggi, sono piccole tappe di un viaggio – “otto passeggiate di charme” -, a caccia “del meglio”. Al centro, “una Roma bella e facile”. Ma poi, bisogna andare a cercare “il particolare, la storia, l’arte”. E qui la guida offre percorsi e appuntamenti che è impossibile dimenticare e, a compendio, indirizzi e orari dei più significativi musei e delle aree archeologiche. Arte, gioielli e griffe, ma anche maglie e magliettine e accessori di gusto ma di piccolo prezzo. E una meravigliosa torta allo zabaione, da gustare giocando a indovinare, fra le pagine, i personaggi del cinema che hanno visitato le più belle strade di Roma, immortalati dal “re dei paparazzi” Rino Barillari. > Vi sentite comunque tristi, desolati e avviliti? Provate a “spararvi una traboccante porzione di cavolo”. Un vero superortaggio. Rigenera, rilassa e regola il sistema neuronale. Aiuta a smaltire le sbornie più grosse e compensa lo stress intellettuale. Gli antichi romani lo chiamavano “il medico dei poveri”, in grado – secondo Plinio - di curare anche l’afonia e la sordità. E ne facevano abbondante uso a fine pasto, consumandolo

S

di Geraldina Colotti PER CHI È IN PARTENZA E PER CHI RESTA A CASA, ECCO DEI LIBRI DA METTERE SOTTO IL BRACCIO COME UNA BAGUETTE E DA DIVORARE APPENA SEDUTI. PER MEGLIO PREPARARSI AL 2006

crudo e intinto nell’aceto. E ancora oggi, nei paesi dell’Est, dopo aver esagerato con la vodka, si ricorre alle foglie di cavolo crudo. Ne dice un gran bene anche Elisabetta Valentini, autrice del libro Cuccina stupefacente (Castelvecchi), che lo consiglia centrifugato o preparato secondo la ricetta Delizia del Centurione. Il volume di Valentini, si presenta come “introduzione alla Neurodietologia” (con tanto di tabelle nutrizionali e dati antropologici), e si rivolge ai “nuovi stati alterati di coscienza” di quella parte di mondo “che non ha problemi di fame e di sopravvivenza”. Fra le ricette stupefacenti, riso integrale e carote per gli attaccabrighe, piatti allo zenzero, miele e noci, per chi desidera che l’amato bene cada fra le sue braccia come una pera cotta. > Due cuori… e un peperone anche nel libro di Roberta Schira L’Amante goloso (Ponte alle Grazie), ideato “con lo zampino di Allan Bay”. Due cuori e… una

cipolla, anzi, perché il libro è concepito recto-verso: da una parte consiglia “come sedurre lei a tavola” e ci mette anche “intriganti consigli per il dopocena”, dall’altra il bersaglio è lui. Da una parte, la copertina ha un cuore rosso fatto di cipolle, dall’altra è disegnato da due verdi peperoncini. Ricettine piccanti per Mammoni, Coatti, Belli, Dannati, Etniche, Sportive, Materne o Competenti: gratin di patate appassionato, lecca-lecca alle noci, lonza dell’omo vero, poppata primordiale, ma anche culatello e insalata di cappone. Il massimo, però, è la… cipolla. Servita all’indiana. Ma va mangiata in due. Per l’amato bene, altrimenti, sarebbe micidiale. > Da leccarsi i baffi è invece l’odore che arriva dal passato, e anche il titolo di un’antologia di scritti di Mario Soldati su “vino, cibo, olio (e acqua)”, proposta dalla casa editrice Derive Approdi. Odori e sapori di un’Italia genuina, rac-


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Assagiro del mondo

contata dallo scrittore torinese, nato nel 1906 e morto nel ‘99. Amante della buona cucina e del buon bere, Soldati ha anticipato una tendenza letteraria che oggi dilaga nel Belpaese. I Viaggi nel gusto, nel costume e nella letteratura, compiuti dallo scrittore nel corso degli anni, portano dalle Alpi al Gennargentu, dal Vulture alla Sicilia, nelle trattorie dei viveurs di allora e in quelle degli operai. A Napoli, la trattoria dove si mangia meglio è quella dove “non c’è niente da cucinare”, i migliori spaghetti sono quelli di Eduardo, e cioè “al sugo di pesce senza pesce” e il vino buono sembra irreale. Ma esiste ancora il Gragnano, il tradizionale vino dei “veri napoletani”? Esiste “o vino e’ zi Canonico” che porta pace ma anche smania? > E se le lasagne fossero state inventate dagli inglesi? Roba da far rizzare i capelli a uno stuolo di cuoche bolognesi. Una curiosità da prendere “cum grano salis”, ma – a leggere un antico testo di cucina

comparso nel Medioevo -, sembra possibile. Sia come sia, l’autorevole manuale sfata un pregiudizio: gli inglesi sapevano distinguere un raviolo dal cappuccino. Anzi. Influenzati dalla cucina araba come gli italiani (ma non la Francia), ai tempi di Re Riccardo II d’Inghilterra (un buongustaio) erano già cuochi raffinati. Lo dimostra The forme of Cury, uno dei più significativi ricettari medievali a livello europeo, pubblicato ora a cura di Constance B. Hieatt da Guido Tommasi editore. E fra le ricette scelte e interpretate da Stefania Barzini – che dice di avere aggiunto solo un po’ di bechamel – ci sono ravioli e lasagne. Con tanto di parmigiano reggiano. Anche quello opera della Perfida Albione? > L’ultimo capitolo del libro Contro i gourmet, del compianto Manuel Vazquez Montalban (Frassinelli) è rivolto “agli uomini del futuro”. Dappertutto, dice Montalban, il pasto è un “insieme

cosmopolita in cui è rappresentata, con i suoi prodotti, ciascuna parte del mondo”. A Parigi, poi, era così già a metà del secolo XIX. Allora, prendendo in esame un menù popolare elaborato nelle locande francesi, templi della ristorazione di massa di allora, BrillatSavarin, constatava che ben pochi prodotti potevano considerarsi soltanto francesi. E’ così in tutto il mondo, tranne che negli Stati uniti, nota però lo scrittore.Certo, nei supermercati nel Nordamerica si trova di tutto, ma la tendenza è alla massificazione, “secondo lo schema della cultura imperiale”. Nel futuro, comunque, avremo altri… insetti da pelare. Secondo una ricerca del National Geographic Magazine, scarseggeranno alcuni beni primari e avremo di fronte una “cucina della necessità”. Abbonderanno solo il lievito, le alghe, la soia, i concentrati proteici e… gli insetti. La nuova frontiera culinaria? Pidocchi della Birmania o scarafaggi di New York… > Una cucina d’alta classe, a base di vermi o pidocchi, è però già stata inventata nelle trincee paradossali di Achtung Sturmtruppen, storico fumetto di Bonvi, che torna nella Bur. “E adesso cos’hai da protestaren sui meravigliosi, succulenti spaghetten che ho preparaten oggi?”, urla perciò il cuoco delle Sturmtruppen. “Protesto per il fatto che i suoi succulenti spaghetten si sono avvinghiati alla mia forchetten e non me la vogliono ridaren!”, risponde il soldaten. Al valoroso rinforzen italiano, invece, è appena stato offerto un vero pranzo pantagruelichen. Perché, allora, sta vomitando? Il fatto è che il valoroso “rinforzen” ha appena appreso dal “capitanen” che quel pranzo sarà l’ultimo: è stato destinato a una missione suicida… Le trincee di Bonvi, alludono al nazifascismo e alla Seconda guerra mondiale. Ma il grottesto manipolo di soldati “talmente sottomesso da non sembrare vero, talmente ottuso da sembrare verissimo” - come scrive Silver nella prefazione -, parla anche al presente: un presente in cui il “soldaten” getta un seme, e fa nascere un fiore… di filo spinato. >Ma se siete “buongustai rispettosi degli animali e dell’ambiente”, e cioè vegani, inutile anticipare il voltastomaco, anche gli insetti possono vivere tranquilli: Emanuela Barbero, Alessandro Cattelan

e Annalaura Sagramora, autori del poderoso volume La cucina etica (Sonda), con le alghe e con la soia sanno fare miracoli. In un tripudio di tofu, patate o zucchine, propongono oltre 700 ricette, introdotte da Marinella Correggia. Emanuela Barbero (medico chiururgo) e Luciana Baroni (nutrizionista nonviolenta), replicano poi con un altro gustoso tomo, Currarsi con la cucina etica, sempre edito da Sonda. Qui le ricette vegetariane sono abbinate a tabelle nutrizionali e a vere e proprie diete per curare alcune patologie quali ipertensione, obesità, ictus, legate spesso a cattive abitudini alimentari. Ricco, in entrambi i volumi, il repertorio di immagini a colori, che mostrano come questa cucina alternativa sia tutt’altro che monotona e triste. > Nel bel volume La fame aguzza l’ingegno (Elèuthera), anche il milanese Andrea Perin ricorda che ogni piatto è un esempio di “meticciato culturale stratificato nei secoli”. In Italia, beviamo tè che è una bevanda indiana, caffè che viene dalla penisola arabica, aggiungiamo zucchero che per la prima volta è stato raffinato in India, mangiamo pane importato dai Greci nell’Italia pre-latina, yogurth, vitto dei poveri in Turchia, oppure spinaci, originariamente importati dal Nepal… La cucina dei poveri ha viaggiato nel mondo, insaporita di nuovi sapori, ma non ha mai potuto raccontarsi. Nei secoli passati, il cibo (scarso) delle classi subordinate, prevalentemente analfabete, non era oggetto di interesse. La scarsa alimentazione delle popolazioni non abbienti provocava, semmai, qualche slancio filantropico, come quello del medico Paolo Mantegazza che – racconta Perin – verso la fine dell’800, tornato da un viaggio nel nord-ovest dell’Argentina, propose di inserire le foglie di coca – già così benefiche per le fatiche degli indios – nella dieta degli operai. Com’era allora la cucina dei poveri? Perin ha ritrovato dei vecchi ricettari di guerra, editi tra il 1916 e il ’17, e ha deciso di sperimentarli con gli amici: “Ricette della prima guerra mondiale? Ma cosa ci fai mangiare, i topi morti?” hanno esclamato gli invitati. Ed ecco che Perin si mette a immaginare uno stuzzicante seguito del volume centrato sul ruolo del topo nell’immaginario culinario…


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