scritto e mangiato febbraio 2006

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scritto & mangiato Supplemento al numero odierno de il manifesto

in collaborazione con Slow Food

Il sapore che innesca il ricordo e l’invenzione che ricrea la tradizione a proprio uso. Viaggio tra genuini veri e buoni di cartapesta

Madeleine va in tv

FEBBRAIO 2006



scritto & mangiato

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in collaborazione con Slow Food

Direttore responsabile Sandro Medici Direttore Mariuccia Ciotta Gabriele Polo Supplemento a cura di Francesco Paternò Grafica Daria Sorrentino Illustrazione di copertina Laura Federici Pubblicità concessionaria esclusiva Poster srl tel. 06/68896911 fax 06/68308332 Stampa Sigraf srl Via Vailate, 14 Calvenzano (Bg) Chiuso in redazione il 17/2/2006

Il dado pubblicizzato della signora con i capelli freschi di Food che si sono prestati per l’ennesima volta a cucinare parrucchiere è dimenticabile, non la messa in piega. E’ che insieme a noi - proviamo a raccontare tradizione e invenil tempo passa, la tradizione diventa memoria, il rimpianto zione. Nel senso di come la cucina, la comunicazione e la si affaccia e lo spot ci scodella che più languido non può. Il pubblicità ricreano e inventano la tradizione a proprio uso. problema è che i biscottini panciuti di Proust sono lettera- In più, diciamo pure oltre la carta del giorno, ci sono dei tura - ed erano magari buoni, come troviamo ancora brevi viaggi tra libri assolutamente da assaggiare, tra enciclopedie gastronomiche da evitare, gustosa la madeleine dei nostri fra trasmissioni televisive in giorni comprata al supermercato Europa da gustare - provate a mentre il vino in cartone bevuto DI FRANCESCO PATERNÒ immaginate, per chi non ha il nell’agriturismo très chic in satellite, due “grasse signore” (è il Toscana è soltanto pubblicità. Ed è marketing, è televisione, è ciò che usa le carte della tradi- nome della loro trasmissione) che scorazzano per la Gran zione gastronomica per scompigliare passato e presente, Bretagna in sella a una motocicletta con sidecar a proporre e difendere una cucina tradizionale. E anche truculenta, con l’obiettivo di dire: ecco, il futuro è servito. Nelle pagine di questo supplemento prét à manger - non ce suggerisce senza pietà la nostra autrice. Leggete questo ne vogliano per tanta francofonia i nostri amici di Slow supplemento fino in fondo, per crederci.

Per spot

4 Miti d’oggi di Alberto Capatti 5 Toni seppia di Alessandro Monchiero 8 Astuzie d’osti di Paola Gho 9 Cogli l’attimo di Manfred Kriener 10 Storia nel piatto di Andrea Manciulli 11 Cibo d’epoca di Matthew Fort 14 Cerco senape di Mary Hyman 15 Dei lessici di Olga Perla 16 Staccate dalle ossa di Geraldina Colotti 18 Grasse signore di Maria Tarantino 19 Microspesa di Geraldina Colotti

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SCRITTO&MANGIATO

di Alberto Capatti* DAL TRADIZIONALE AL MITICO, IL LINGUAGGIO DEL MARKETING. LO SCIVOLARE VERSO LA QUALIFICAZIONE LEGGENDARIA È UN SEGNO DI CRISI DELL’ANALISI STORICA DELLE FONTI GASTRONOMICHE a tradizione, in gastronomia, è memoria. Rileggendo Alla ricerca dei cibi perduti di Luigi Veronelli (Feltrinelli, 1966), ricordi personali che si dipanano in ricette e in commenti di ricette, colpisce l’opera della falce a due lame, quella del tempo e quella dell’oblio. «Nella mia famiglia burlavamo don Rinaldo, lo zio prete, che sosteneva nessuno cuocere le uova al guscio meglio che le monache di corso Monforte» (in Milano); «per lunga tradizione, letteraria e no, la caccia con il vischio e con le reti si addice ai canonici e ai parroci di campagna. Io per me non posso dimenticare gli ortolani e i beccafichi di Don Eugenio»; «una minestra tradizionale compare ogni anno, il giorno dei morti, sulle tavole dei “buoni” milanesi: la minestra di ceci, il scisger con la tempia»… In questi passi, parrebbe che le tradizioni riferite da Veronelli appartengano a epoche remotissime e siano sopravvissute nella sua sola scrittura, ed essa sia l’unico registro in grado di trasmetterle. Ironia della sorte, questo volume, corredato oltre che di ricordi, di etichette di prodotti, secondo la moda di quegli anni e fra di esse, fiore dell’industria casearia, la introbiola cadematori, è stato dimenticato qualche anno dopo la sua stampa, anche se Veronelli è scomparso da poco. La tradizione gastronomica è una specie particolare di reminiscenza negata. A differenza del sapore della madeleine di Proust, che innesca il ricordo e orienta lo scrittore verso il passato, sono i cibi, e i biscottini panciuti chiamati madeleines, e non i ricordi, ad essere scomparsi, o meglio a sopravvivere come prodotti da forno industriali e come segni a stampa dal sapore indecifrabile, anche per una lingua colta. L’unico modo di riappropriarsi degli oggetti alimentari tradizionali è di rifarne alcuni, la minestra di ceci, per esempio, senza dimenticare la testina di maiale, limitandosi ad immaginare gli altri, gli ortolani e i beccafichi. Esiste una eccezione? Essa è remota non solo nel tempo ma nello spazio, ed è rappresentata da quei prodotti che intendiamo “salvare”. Le piccole lenticchie di Ustica, frutto del lavoro di tre contadini, piccole e tenere, per la zuppa o per la pasta, sono sopravvissute all’industria turistica, a quella particolare forma di benessere che estirpa le pianticelle, incendia i boschi e spalma il cemento. Come i prodotti di altri Presìdi Slow Food, esse sarebbero un miracolo della continuità ma senza l’evidenza, la visibilità che hanno certi edifici e certi paesaggi. Vediamo di capire, fra Presìdi ignoti e memorie enfatiche, dove si situa la ricerca dei cibi (perduti o ritrovati secondo la formula di Proust e Veronelli). Come nella riffa, terminata l’estrazione e individuato il teorico vincitore, la carta nascosta e la carta vincente non collimano se non nelle mani del mazziere, nel gioco della tradizione, tutti i segni farebbero credere, a un osservatore casuale, di poter svelare il passato e, con la forza dell’illusione, di potersi mangiare la posta, pur rimanendo sempre, alla fine, a bocca asciutta. Si tratta dunque di un gioco in cui i ricordi scritti appaiono col tempo indecifrabili, e gli oggetti alimentari mutano con il passar degli anni, paste farcite e tortelli per esempio. Si alterano prima impercettibilmente, negli involucri o nel ripieno, variando agli occhi di degustatori che non li hanno conosciuti nella loro forma anteriore, e che considerano tradizionale l’aspetto acquisito di necessità, intendendo per necessità il nuovo lavoro domestico, o l’energia termica d’uso, o l’approvvigionamento o semplicemente l’imperita perizia della cuoca. Il tempo, o meglio l’uomo li ha affatturati, senza accorgersene. A un certo punto, usciti non dalle mani ma dalla macchina, non sono gli stessi, sono liftati o si direbbe che lo siano. Solo la scrittura – ricette, racconti, aneddoti – salva le rughe e appare indenne da questo lavorìo nascosto. Nel gran parlare che si fa oggi di prodotti e di cibi tradizionali, poca attenzione si presta all’oblio che tanta parte ha nell’avvicendarsi delle pratiche culinarie, nella trasmissione delle culture domestiche, e si assegna al termine tradizione il significato di un retaggio morale certo e di un obiettivo culturale. Ma l’amnesia attende il ricordo, lo scherma o lo vela, talora per conservarlo intatto, talaltra per rimuoverlo definitivamente. Le tradizioni dunque esistono anche allo stato latente come quei corsi d’acqua deviati che continuano a scorrere nel profondo.

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Miti d’oggi

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Anche coloro che ci capita di osservare seduti in un fast food sono partecipi della stessa ricerca “dei cibi perduti”, conservando gelosamente, dietro il loro volto allegro, assorto o rassegnato, alcuni ricordi di una cucina cucinata, di una gastronomia diversa conosciuta nell’infanzia, o nella famiglia o in certe occasioni, sepolte ora, cancellate dall’odore delle salse e del fritto. La tradizione, infatti, la si può ricercare dietro le apparenze, nel presente, ricostruendo la storia degli alimenti non come un continuum di oggetti ripetuti da ieri a oggi, ma come una frantumazione di sensazioni e reminiscenze, ipoteticamente ricomponibili, riaggregate sul modello di informazioni trasmesse per via orale e scritta, e anche di ricette e di racconti. Nella grande città, la si direbbe una cultura occulta o negata, da riscoprire con fatica, decifrando le facce dei consumatori e i resti dei loro discorsi a tavola. È visibile e invisibile. Ma, come i binari morti o i sentieri non più calpestati, gli alimenti temporaneamente scomparsi o certamente perduti piacciono solo ai gastronomi letterati. Tutti gli altri preferiscono inventarsi delle storie, raccontarsi delle favole, credere ai miracoli. Oggi, l’aggettivo tradizionale, banalizzato dall’industria, dalla pubblicità e dalla distribuzione, non vale niente e sta per essere sostituito da un altro, ben più fresco, giovane, efficace: mitico. Ascoltate e scoprirete che un ottimo prosciutto è, quasi fosse stagionato alcuni millenni o provenisse da un porco troiano, un prosciutto mitico. Non che l’epiteto sia fuori di ogni logica: la mitica porchetta marchigiana vanta fonti antiche, e più di un professore la citerà in latino virgiliano o nell’italiano, ancor più dotto, delle cicalate ottocentesche. Ma questo scivolare verso la qualificazione leggendaria testimonia la crisi dell’analisi storica delle fonti gastronomiche e la passione odierna per la simbologia, tanto da farci pensare che anche tradizione valga per molti come una designazione simbolica del passato, in quello che ha di unico, di irripetibile e di eternamente vero. Ma il mito appartiene al linguaggio del marketing e della pubblicità, e la storia, lacunosa e incerta come i ricordi, ha poco a che spartire con esso, e lo considera un accidente, una variante documentaria. Per questo, per ascoltare troppo le sirene che celebrano con voce melodica, argentina, il passato, non ci accorgiamo di seppellire ogni giorno i ricordi e di dimenticare i cibi sepolti fra le pagine dei libri. * Slow Food


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Toni seppia

di Alessandro Monchiero* LA CONVERSIONE era una volta la brava massaia, che ci metteva un giorno per fare il brodo per il risotto. Poi, Star, Knorr e compagnia bella s’agghindarono di nobili ideali femministi, offrendo un riscatto “usa e getta” a plotoni di schiavizzate da mariti antidiluviani; sguinzagliando le mogli per le strade a dar retta a mille altri consigli per gli acquisti, ché per fare il brodo, ora, servivano solo più due minuti. Eccola là, in quegli sbiaditi manifesti d’epoca, l’alba della pubblicità contemporanea, un’alba futurista e progressista che prometteva innovazione, cambio delle abitudini e libertà. È paradossale che un secolo di promesse di vita migliore, più comoda, più “moderna” – semplificando, il fine ultimo del linguaggio pubblicitario – ci abbia condotto alla parossistica epoca del “rimpianto” nel quale affondano, languidi, gli spot d’oggidì: ah! La tradizione! Il progresso non tira più. L’innovazione, neppure. “Alla moda” cede il passo al fascino per il demodé. L’industria agroalimentare – e gli scherani del marketing che ne pianificano le strategie di “penetrazione” – si è d’incanto convertita ai filtri gozzaniani e ai toni seppia, i fumi sfuocanti dei potagé, i tempi lenti dei procedimenti artigianali hanno sostituito tutto l’armamentario marinettiano del quale la pubblicità si è nutrita per decenni. La novità, per quel che ci è dato d’osservare nel nostro campo d’indagine, è l’aumento esponenziale dei messaggi che invitano a gabbare il prossimo, simulando una tradizione o un savoir faire anche quando non ci sono. Una “novità” per altro comprensibile: l’industria non fa

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PERICOLOSA DELL’INDUSTRIA

che invitare i clienti a comportarsi come si comporta a sua volta, divulgando una tradizione, un genuino, un buono obbligatoriamente di cartapesta. Se la pubblicità di decenni or sono proponeva un’emancipazione dal lavoro attraverso un riscatto individuale, utilizzando un’innovazione scientifica, ora questo riscatto (dalla fatica di cucinare, dall’ansia di prestazione e di non essere adeguati dei quali si nutre il contemporaneo) transita dalla “fregatura” del palato altrui. Con quest’ultimo, il palato altrui, così imbastardito da non sapere più discernere e bersi la qualità/paccottaglia con grande soddisfazione. «Abbiamo fatto assaggiare la pasta al pesto ai genovesi», «abbiamo fatto assaggiare il ragù ai bolognesi» e chi lo direbbe che quello che avete appena trangugiato sia un sugo pronto? E brave le nuove massaie, ché se quelle di un tempo occultavano con trucchetti d’ogni sorta i loro segreti di cucina (anche il dado, per tornare all’incipit sia dell’articolo sia del Novecento, era comunque una malizia da non rivelare) quelle attuali sono furbette e anche, francesismo permettendo, un pochetto stronze: prima nel riscaldare pigramente il contenuto di un barattolo o una busta surgelata (un po’ di devozione, cura, passione, in un invito a cena, sarebbe gradito), poi nel sottoporre un quesito sulla qualità del piatto ai propri ospiti – ma quale ospite si sognerebbe mai di ammettere “fa schifo”, suvvia, un po’ di educazione – e poi nel rivelare loro quanto sono incompetenti. Fregati! È un sugo pronto.

Marameo! E dopo lo stupore, giù risate! Per certo in una casa così non ci torneremmo volentieri. Più per la figura da cretini che abbiamo fatto che non per il pesto: se lo usi abbi almeno la decenza di non ammetterlo. Tradizione, gusti di un tempo che pescano in memorie ancestrali, il bel tempo antico: non sono un vezzo soltanto italiano. Più raffinati, i francesi, usano il canovaccio senza confessione/quiz finale. Un gruppo di giovani (spensierati, ridanciani, belle acconciature) si ritrova in una casa (sempre linde, ordinate, soleggiate, che invidia!) per una cena e il padrone di casa scodella una minestra. Parte la giaculatoria dei «mi ricorda la nonna», «mi ricordo quand’ero bambino» e via discorrendo prima del packshot disvelante (il momento in cui, in una pubblicità, inquadrano il prodotto, con o senza commento, in genere verso la fine dello spot con collocazione centrale nello schermo): una busta vuota della minestra “della nonna” di cui sopra, che giace abbandonata in cucina. Allestite le scimmiottature del “bel tempo antico” – idealizzato e cristallizzato come la tradizione non può mai essere, ferma, e recante una promessa di genuinità garantita soltanto dalla forma/ambientazione – poi si può accettare ogni incongruenza: e così nell’agriturismo toscano si beve vino in cartone, la nonna aspetta il nipotino e gli riscalda un risotto in bustina, i polli che finiscono nel McChicken razzolano spensierati nell’aia di una cascina, affollata di bambini in visita. Si dirà: è pubblicità! Cosa dovrebbero far vedere: l’armadietto degli antibio-

AGROALIMENTARE, CON UN AUMENTO ESPONENZIALE DEI MESSAGGI CHE INVITANO A GABBARE, SIMULANDO UNA TRADIZIONE ANCHE QUANDO QUESTA NON C’È tici senza i quali quei polli non vivrebbero neanche un secondo? I mangimifici che tritano mucche per poi darle da mangiare ad altre mucche? I laboratori chimici senza i quali quei cibi saprebbero di rancido? Giusto, peccato che ci avessero spiegato, qualche anno fa, che quell’altro modello, quel che oggi si prende per l’appunto a modello – le piccole produzioni artigianali, il rispetto dei tempi e dei ritmi della natura – aveva fallito, e non si poteva applicare su grande scala. Peccato che ci avessero presentato per decenni una tradizione folcloristica, introdotta dalle bande di paese e sponsorizzata da personaggi improbabili, dai buffi cappelli e vestiti in costumi d’antan, come se fosse l’ultimo spazio a sua disposizione: un museo ridicolo buono per il mezzogiorno domenicale della rete ammiraglia, dopo la messa e prima di Domenica In. Peccato che se, nel ripieno dell’agnolotto metti caucciù poi non dovresti invitarmi a gabbare i miei invitati, dicendo loro che è «un’antica ricetta di nonna». Però, si sa, è il mercato, bellezza! * Slow Food



LA FORZA NATURALE DELLA CARNE

CARNE BOVINA UNA SCELTA GARANTITA LA CARNE BOVINA È SANA, NUTRIENTE, BEN DIGERIBILE, ADATTA ALL’ALIMENTAZIONE DI CHI STUDIA, PRATICA SPORT, LAVORA

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uando il nostro organismo, giunto nel mezzo della giornata di attività, ha esaurito buona parte della sua carica energetica, si pone l’esigenza di “ricaricarlo”: come una batteria, non come un sacco da riempire con quello che capita. Si tratta allora di fornirgli alimenti adatti, che diano forza senza appesantire la digestione, così da permettergli di ripartire in piena forma. La carne bovina è adattissima a questo fine. Anzitutto, è un alimento sano, naturale, del tutto immune da manipolazioni e adulterazioni, garantito da un’assoluta trasparenza di regole e controlli. Detto ciò, la carne bovina assicura una nutrizione energetica fra le migliori, assicurando all’organismo elementi essenziali per il suo mantenimento e il suo sviluppo ed è facilmente e rapidamente digeribile, con un’assimilazione quasi completa, senza scarti. La sua presenza nell’alimentazione dei giovani che studiano, degli sportivi, di chi dedica la sua giornata a qualsiasi tipo di lavoro, è quindi altamente auspicabile.

COME SCEGLIERLA E CONSERVARLA

essere fine; il colore, rosso per il bue e il manzo, rosa per il vitello; il grasso, crema chiaro per bue e manzo, bianco per il vitello; la resistenza, ferma ed elastica. Detto ciò, la scelta dipende dal piatto che si vuole preparare: ai ferri (costata o filetto di manzo, costatina o braciola di vitello), arrosto (fesone di spalla, cappello del prete, fiocco, fesa), bollito (caramella, pesce, punta di petto) e così via. Se non viene cotta subito dopo l’acquisto, la carne deve essere posta in frigorifero. La congelazione mantiene immutati sapore, consistenza e valori nutrizionali della carne; è opportuno preparare delle confezioni separate, con parti già tagliate secondo l’uso a cui la carne è destinata. La scongelazione fa effettuata trasferendo la carne in frigorifero per 12-24 ore (a seconda delle dimensioni), oppure limitando la permanenza in frigorifero, e completandola a temperatura ambiente. Anche la carne cucinata può essere congelata, separandola dai sughi di cottura.

COMBINAZIONI GASTRONOMICHE OTTIMALI: CARNE BOVINA, PRIMI PIATTI E CONTORNI

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on parliamo di diete, tema ostico e a volte persino rischioso, ma di gastronomia intelligente, che vuole essere una maniera di unire l’utile al dilettevole. Tenere conto,

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vvio, è importante avere un macellaio di fiducia, e non dovrebbe essere difficile dato che questa categoria di professionisti è largamente e adeguatamente qualificata. E, aggiungiamo, il consumatore di carne bovina di solito sa quello che vuole, e sa riconoscerlo: insomma, per quanto lo riguarda, è un esperto. Per i meno esperti, valgono alcuni criteri basilari: la grana della carne deve

Confederazione Italiana Agricoltori

Programma realizzato con il contributo della Comunità Europea e dell’Italia

insomma, dei bisogni dell’organismo e delle esigenze del palato, che vanno egualmente rispettate. Un piatto di carne bovina (con qualsiasi scelta di taglio o di tipo di cottura), soddisfa l’apporto di proteine di elevato valore nutritivo, di ferro facilmente assorbibile dall’intestino, di vitamina PP, di vitamine B, di lipidi. Per completare l’armonia nutrizionale, occorrono vitamine A e D, e calcio (latte e derivati), vitamina C (verdura e frutta), idrati di carbonio (pane, pasta, riso, patate), fibre (verdure, cereali, legumi, frutta).

LA RICONOSCIBILITÀ: L’ETICHETTATURA DELLA CARNE BOVINA

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n base al Reg. CE 1760/2000 l’etichettatura delle carni bovine è diventata obbligatoria in tutta l’Unione Europea dall’anno 2000. L’etichettatura della carne bovina ha il principale scopo di informare il consumatore sull’origine e le caratteristiche del prodotto acquistato. Oltre alle menzioni rese obbligatorie dall’Unione Europea sull’origine della carne bovina, e sul suo percorso fino alla macellazione e alla vendita al dettaglio, gli operatori professionali possono inserire facoltativamente in etichetta altre informazioni, come ad esempio la categoria animale, la razza, il tipo di allevamento o di alimentazione, ecc. Per assicurare la veridicità di tali informazioni sono previste delle procedure di autorizzazione e dei sistemi di controllo adeguati, che prevedono delle sanzioni in caso di infrazione.


SCRITTO&MANGIATO

sterie d’Italia porta come sottotitolo “Sussidiario del mangiarbere all’italiana” ed è stata voluta da Slow Food – sedici anni fa, la storia è vecchia, tante volte raccontata – per porre un argine all’invasione del fast food, salvaguardando e, se possibile, rivitalizzando la cucina di tradizione regionale e locale. In più, suo intento è di privilegiare ambienti e stili non pletorici, e di valorizzare le sane atmosfere da trattoria d’antan fatte di sostanza, approcci diretti, ambienti schietti. Per questo stabilisce un limite di prezzo (vini esclusi) oltre il quale nessun locale viene segnalato: partiti da 50 mila lire nel 1991, siamo arrivati a 35 euro qualche anno fa e lì stiamo ancora oggi. Nata quasi come una scommessa, la guida è diventata un best-seller fin dal primo anno di uscita, ha fatto scuola e tendenza, ha indotto imitazioni e scopiazzature. Conseguenza: essere inseriti in Osterie paga, il marchio Slow Food è una garanzia, la clientela aumenta e dunque io, oste, faccio di tutto per esserci. Il problema è che non mi basta proporre una cucina di qualità, devo farlo rispettando i canoni della gastronomia tradizionale di territorio e senza sforare nel conto. E proponendo un modello di locale che sia legittimo definire “osteria”. È bene cominciare dall’insegna, mi dico allora. Praticamente estinte negli anni 1980, identificate come ritrovi sordidi e dequalificati, buoni per pensionati al capolinea e marginali, le osterie rinascono come per incanto a partire dalla metà del decennio successivo. Fateci caso. Che sia nei luoghi delle notti metropolitane o nei centri storici delle città, lungo arterie di campagna o ai piedi di castelli e fortezze, osterie, trattorie, vinerie, wine bar – proprio le tipologie di locali privilegiati dal Sussidiario di Slow Food – danno il tono all’arredo urbano e non. Quanto agli ambienti, un mobile rustico, un finto trave in legno, qualche sedia spaiata, un vecchio manifesto e il gioco è fatto, l’atmosfera è creata. E veniamo alla cucina. Lasciando da parte gli improvvisatori, che pur sono tanti, ma il cui gioco si scopre alla prima bresaola irrorata di fonduta al raschera (versione contemporanea del famigerato “scaglie di grana e rucola”), è pur vero che sono molti i professionisti che sanno il fatto loro ma che nella tipologia “mangiarbere all’italiana” ci stanno stretti. Bisogna catalogare almeno due famiglie. La prima comprende quanti l’espressione “cucina di territorio” l’hanno imparata a memoria – da riviste, recensioni, televisioni, assessori comunali, pierre – ma a dire il vero non l’hanno ben capita. Gli viene comodo allora abbinarla a un’altra espressione di moda: “rivisitare”. È un passe-partout che apre ogni porta, compresa

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Astuzie d’osti

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di Paola Gho* CARE ESTINTE NEGLI ANNI OTTANTA, LE OSTERIE RINASCONO COME PER INCANTO A PARTIRE DALLA METÀ DEL DECENNIO SUCCESSIVO.

quella che consente di guadagnare l’agognata segnalazione. In sostanza vuol dire: «che sarà mai questa rigidità sulla cucina di tradizione? Le radici, va bene, ma occorre svecchiare, rinnovare, alleggerire, inventare sapori nuovi. Anche per accontentare i clienti abituali che, si sa, non possono mangiare busecca tutti i giorni e amano ogni tanto qualche novità. Allora la busecca magari la passiamo in forno e la gratiniamo con lo stilton, per nobilitarla un attimino; la bagna caoda la facciamo senza aglio (che le signore lo schifano un po’), come pure il pesto (del resto così lo ha fatto preparare il Berlusca per i suoi amici del G8 a Genova); il cacio e pepe lo proponiamo con il Castelmagno, che è tanto à la page, molto più del pecorino. Ciliegina sulla torta, mettiamo in carta la “zuppa delle sette virtù”, e scriviamo che la ricetta, antichissima, ci è stata tramandata – ma che bel verbo – da nonna Pasqualina.» La rivisitazione non ha limiti e significa, molto spesso, dare libero sfogo alle fantasie più inquiete, non sostenute da una cultura solida, dalla conoscenza della storia dei piatti, quella che li motiva e ne detta il senso. Il risultato il più delle volte sono pasticci insulsi, piatti senza capo né

coda, non-luoghi gastronomici che hanno perso la vecchia identità senza acquisirne una nuova. Poi ci sono gli ambiziosi. Che sono anche furbi. «Osterie d’Italia va bene. Ci fa lavorare. Ci porta una bella clientela. Però vuoi mettere la Michelin. Il prestigio che dà una stelletta non lo dà nessuno. E poi Vespa tutti gli anni ci monta la trasmissione, con Vissani e gli altri. In fondo, noi la tradizione continuiamo a farla. Abbiamo il “menù della tradizione” a 35 euro, che sta nei limiti di prezzo di Osterie: tre piatti con un bicchiere di vino abbinato. Certo, se scegli alla carta spendi molto di più, ma per chi preferisce stare sul classico l’opportunità c’è. Per incantare gli ispettori della rossa invece mettiamo questi piatti quadrati di vetro, vestiamo i camerieri in nero, usiamo bicchieroni di cristallo, non facciamo mancare i fiori freschi sui tavoli… e proponiamo cucina creativa, tipo Bulli, il catalano, che inventa quelle cose strane. Comunque, per chi vuole, c’è sempre il “menù della tradizione”. Così stiamo dentro anche allo Slow Food (a proposito, dobbiamo infilare nel menù qualche Presidio…).» E così la rappresentazione è completa. * Slow Food


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Cogli l’attimo

a tradizione è come la qualità – tutti ne parlano, ma nessuno sa esattamente che cosa ci sia dietro. Se nella ristorazione europea ci fosse un premio per il concetto che è stato più profondamente svuotato di significato... la tradizione avrebbe ottime chance di vincerlo. Più è scarsa l’offerta, più la tradizione viene evocata con toni roboanti e stridenti. Anche i piatti peggiori nella bettola più scadente sono serviti con l’aroma della tradizione. E a volte c’è anche del vero: se già il predecessore aveva trafficato in cucina senza un briciolo di passione e cucinato piatti immangiabili, il locale e la sua cucina si trovano effettivamente in un contesto tradizionale. La tradizione si lascia saccheggiare quasi senza limiti. E non si può difendere. Se un viticoltore non ha i soldi per acquistare costosi contenitori in acciaio inox e apparecchi moderni per la cantina, spinto dalla necessità continua a lavorare con le sue vecchie botti di legno. Questo tipo di produttore fa spesso ricorso alla tradizione e alle antiche consuetudini dei padri. Nelle giornate piovose scrive lunghe lettere circolari alla stimata clientela e inveisce con-

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tro la fredda tecnicizzazione della vinificazione moderna, che al nettare degli dei ruberebbe l’anima. Mentre il suo vino, maturato nei tini di legno, respira la tradizione di una produzione vinicola vecchia di secoli. Sotto gli occhi di tutti si dispiega così il lungo cordone ombelicale che dagli antichi Greci arriva fino alla cantina di oggi. Dieci anni più tardi lo stesso viticoltore ha finalmente messo insieme abbastanza denaro per gettare sul mucchio del compost le sue botti di legno. In una lettera piena di entusiasmo comunica ai clienti che la cantina che hanno sempre apprezzato ha fatto un salto qualitativo, introducendo misure incisive di modernizzazione. Si inneggia al controllo computerizzato della fermentazione. Si decantano le condotte di raffreddamento e i serbatoi di acciaio inossidabile, presentandole come grandi conquiste. Si ama dire allora che l’innovazione si sposa con la tradizione secolare della tenuta vinicola per raggiungere le vette più alte. Ma il punto fondamentale deve ancora venire. Perché questi processi innovativi diventano davvero interessanti quando lo stesso viticoltore, dopo altri dieci anni, annuncia al pubblico meravi-

di Manfred Kriener* PERCHÉ LA TRADIZIONE QUANDO NON È STATA GIÀ DECAPITATA - NON È UNA DITTATURA MA UN CONCENTRATO DI ESPERIENZA, ADDIRITTURA MOLTO PIÙ CHE L’ALITO DEI NOSTRI NONNI

gliato di avere acquistato alcune botti di legno e di volere fare maturare i suoi vini in parte nel legno e in parte nei serbatoi di acciaio inox. Solo con questa cesura il vinificatore ha scelto coscientemente un pezzo di tradizione, senza rinunciare alla modernizzazione. È la ricerca di una sintesi fra tradizione e modernità. Il dibattersi fra il vecchio e il nuovo, nella produzione, genera progresso.

Qui la tradizione mostra il suo volto democratico. Non pretende dalle generazioni successive un’obbedienza servile, ma lascia spazi per il cambiamento. Chi si rifà alla tradizione oggi non ha bisogno di fare trainare il carro dai cavalli o di produrre i suoi formaggi, il suo vino o i suoi distillati di frutta esattamente con gli stessi procedimenti applicati dai nonni e dai bisnonni. La tradizione non è una dittatura. È un’offerta. È un concentrato di esperienza. A oscillare fra tradizione e modernità non sono soltanto i produttori, ma anche i consumatori – come dimostra bene l’esempio del vino. Le innovazioni tecnologiche hanno prodotto vini che entusiasmano per il gusto fruttato. Ora però sono sempre più numerosi gli intenditori che si chiedono se in realtà i vini debbano racchiudere nel gusto l’intero assortimento della frutta o se non debbano sapere anche un po’ di vino. Gli estimatori attenti cercano sempre più spesso vini che abbiano un’emanazione naturale, senza quell’esplosione grossolana dell’aroma che divampa in faccia al primo sorso. Queste persone tornano ad acquistare più spesso vini da cantine che lavorano in modo più tradizionale e offrono vini meno “impressionanti”. A volte basta un unico elogio infuocato su una rivista specializzata per spingere i consumatori verso la tradizione piuttosto che verso la modernità. Nessuno di noi è indenne dalle mode e dalle tendenze. Per orientarsi, è sempre utile rifarsi alla tradizione. Ma per poterlo fare, bisogna conoscerla. Parliamo molto di tradizioni senza avere un’idea precisa dei metodi di produzione tradizionali. A volte la tradizione è persa per sempre. Nell’agricoltura moderna la “vacca turbo” produce in ogni periodo di lattazione fino a 13 000 litri di latte. Allora diventa difficile ottenere un formaggio tradizionale da vacche “di una volta”, che di latte ne danno soltanto 4000 litri. Ed è un latte completamente diverso e molto più sostanzioso. Dove possiamo trovare ancora vacche di dieci anni, che non siano già state totalmente sfruttate e trasformate in carne macinata quando di anni ne avevano cinque? Ci sono casi in cui la tradizione ormai è stata decapitata. Il dualismo fra “tradizione” e “innovazione” ha tante sfaccettature diverse. C’è una “tradizione” che fortunatamente è moderna e viva e ben lontana dall’angustia opprimente delle tradizioni polverose. La tradizione è molto più che l’alito dei nostri nonni. È una combinazione di concetti, idee, knowhow teorico e pratico, comportamenti, convinzioni e atteggiamenti che un gruppo di persone o una società assume per assicurare la continuità fra il passato e il presente. La tradizione è un’opportunità – e lascia spazio per respirare. * Slow Food


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Storia nel piatto SCRITTO&MANGIATO

n soffitto fatto di cielo stellato, la luce tremolante delle torce accese, un profumo di fiori proveniente dai petali sparsi davanti alla tavola. Questa era l’immagine che mi accolse entrando nel convito medievale ricostruito nel borgo di Suvereto in Toscana. Mi sentivo d’un tratto proiettato in una strana dimensione spazio-temporale. Non era il presente, non era il passato. Era forse l’idea del passato che si ha nel presente. O forse, meglio, quella che si vorrebbe avere. Negli ultimi anni il fenomeno delle rievocazioni storiche è molto cresciuto, soprattutto nella sfera alimentare. Molte di queste sono ben fatte, con una relativa attendibilità della ricostruzione storica, come quella citata di Suvereto o quella di Bevagna. Ma molte altre sono caratterizzate da una marcata inesattezza nella realizzazione. Può capitare di mangiare fagioli bianchi in un banchetto del 1200 o addirittura di avere forchette personali in un pranzo popolare dell’anno mille. In entrambi i casi però si assiste a uno straordinario successo di pubblico. Oggi questa tendenza a riprodurre il passato nel presente è la risposta a una domanda di svago culturale caratteristico, basato sulla tradizione e sulla divulgazione assai semplificata di un messaggio storico. Tuttavia sbaglieremmo se credessimo che questa domanda è frutto soltanto del presente: essa in vari modi esiste da un paio di secoli. È nata con la cultura romantica e con la ricerca in essa presente di un passato ideale, nel quale erano albergate le passioni e le visioni spirituali care al romanticismo. Proprio per questo molto spesso il passato che si cercava e che si cerca di riprodurre è l’epoca medievale, quella che i romantici percepivano come la culla dell’irrazionale, del limite fra spiritualità e ragione. Il Medioevo rappresentato da questa visione è un’epoca ideale, o meglio idealizzata, filtrata dalla cultura romantica, che tende ad accentuarne alcuni aspetti e a cancellarne altri. Ancora oggi, dopo due secoli di revisione storiografica di vario genere, si tende a rappresentare, nei banchetti rievocati, lo stesso Medioevo che immaginavano gli storici romantici. Quello delle corti principesche intese come luoghi dorati, chiusi, cavallereschi, gaudenti e sfarzosi. Un Medioevo letterario, suggestivo e accattivante. Una sfera extratemporale della gioia cortigiana, fatta di pantagrueliche mangiate e di amori cortesi. Una visione nella quale l’aneddoto travalica la storia e la rappresentazione supera la realtà. Anche oggi non si può dire che sia finita totalmente la vena aneddotica. Il punto cruciale è domandarsi perché questa visione, storicamente così erronea, abbia potuto vincere due secoli di nuova storiografia e riproporsi inalterata nel nuovo millennio. Perché l’uomo contemporaneo è ancora attratto dal Medioevo delle fiabe cavalleresche e delle corti opulente? Perché, nel tempo del fast-food, impiegati stressati e signore scollate hanno voglia di sedersi alle tavole del passato, per mangiare con le mani e farsi gocciolare sulle spalle la cera delle candele? Da sempre l’uomo possiede una dimensione fuori dallo spazio e dal tempo, nella quale collocare la propria domanda interiore di arte, cultura, spettacolo. Quei fenomeni che meglio degli altri rappresentano ed esprimono la lotta fra razionale e irrazionale. In questa dimensione ci si abbandona a regole diverse rispetto a quelle della quotidianità. È così davanti a un quadro, in uno spettacolo teatrale, in una danza latino-americana. È così anche nei banchetti medievali. Si fa quello che non potremmo fare tutti i giorni, fuori dalle convenzioni, si vive in una dimensione extratemporale, nella quale per una sera si può credere di vivere in un racconto di cappa e spada: una serata nello spazio della rappresentazione e non in quello della

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di Andrea Manciulli* COME OGNI PIATTO TRADIZIONALE, OGNI PRODOTTO ARTIGIANALE NASCE COME UNA INNOVAZIONE. DAL LANCASHIRE HOT POT AL PORRIDGE DI LUMACHE, VIAGGIO TRA PARADOSSI

realtà. La visione romantica del Medioevo non muore perché essa è il palcoscenico sul quale si può immaginare e recitare una storia cavalleresca ambientata in un mondo ideale. Per questo da studioso di storia dell’alimentazione non arrivo a demonizzare fino in fondo le rievocazioni dei pranzi del passato. Perché le considero un modo per vivere la dimensione extratemporale dell’arte e dello spettacolo. Ma se volessimo considerarle come una forma di ricostruzione pratica della storia, sbaglieremmo. Per fare questo è molto meglio cimentarsi nella riproduzione di ricette antiche, che esistono abbondanti nelle fonti di archivio. Si potrebbe cercare di interpretare le misure decimali, la qualità e la tipologia degli ingredienti, senza dover fare i conti con la riuscita del pranzo e della cena, che invece è un obbligo nei banchetti rievocanti, dove tutti pagano e vogliono passare una serata soddisfacente. L’elemento pubblico di queste occasioni le rende obbligatamente bisognose di riuscita e di reddito. Il piacere intimo di ricostruire una ricetta antica è invece svincolato da tali doveri e pertanto più aperto alla ricerca di maggiore prossimità con i piatti del passato. Si possono passare pomeriggi interi a cercare radici di ginger o nottate insonni per fare l’agresto. Per questo trovo di grande interesse i lavori che alcuni storici come Silvano Serventi e Françoise Sabban stanno facendo sulla ricostruzione attuale di ricette del passato. Lo fanno con grande dovizia nella ricostruzione e con attenzione alla filologia della ricetta. Per questo considero la loro attività un degno tentativo storico di far conoscere al palato il passato. Come positive sono le riedizioni di antichi ricettari, che possono essere occasioni di confronto fra i cibi delle altre epoche e quelli attuali. Tuttavia non posso non confessare che l’attrazione per la zona della rappresentazione è fortissima. Molte volte, io che mi occupo tutti i giorni dei cardinali del 1500, vorrei ricostruire perfettamente un loro banchetto, con il servizio, gli arredi, i cibi e i vini. È l’eterna volontà di rivivere l’avventura del passato. * Slow Food


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Cibo a crosta è dorato-ambrata, scaglie di patate a strati che sembrano quelle di un’enorme carpa dorata. Si spezza la crosta e uno sbuffetto di vapore fragrante sale nell’aria, portando con sé il profumo dell’agnello e della cipolla. Sotto ci sono pepite di carne dolce, ricca di sapore e tenera come la notte, fette sottili di cipolla traslucida, una spruzzata di funghi, rotelle di scarlatta carota e un’ostrica grassottella, languidamente adagiata in una bagnetta densa e chiara: ecco il Lancashire Hot Pot, un classico Lancashire Hot Pot a 24 carati, completo di tutto. E dove troviamo questo perfetto esemplare del più tradizionale dei piatti regionali inglesi? Nel cuore della contea di Red Rose, nella cucina di una casa con terrazza a Bury, in una locanda di Clitheroe o in un albergo di Manchester? Nulla di tutto ciò. Questo Lancashire Hot Pot tanto degno di nota si può trovare all’Hinds Head di Bray Berkshire ed è la ricetta di Heston Blumenthal. Che cosa? Quell’Heston Blumenthal, l’uomo della gastronomia molecolare? Lo chef che ha portato la fisica in cucina (o la cucina nel laboratorio di fisica, dipende dai punti di vista)? Il creatore delle spume affogate nell’azoto, del gelato di sardine, del porridge di lumache e delle gelatine fluide calde e fredde da bere? Sì, proprio lui. Ma, nel contesto della cucina britannica, servire un Lancashire Hot Pot tradizionale è la cosa più rivoluzionaria che si possa fare. Il signor Blumenthal si è avvalso anche dell’estremo artificio della tecnologia moderna per conseguire questo risultato: cuoce le patate sotto vuoto, con brodo e grasso di agnello, in modo che si impregnino di sapore prima di diventare croccanti con la cottura in forno. È un bell’esempio di innovazione che viene in aiuto alla tradizione. È un paradosso singolare, ma ogni piatto tradizionale, ogni tecnica culinaria consacrata dal tempo, ogni prodotto artigianale, ogni Presidio, ogni progetto dell’Arca, è nato come una innovazione. Ci fu un tempo in cui il Lancashire Hot Pot, il bollito misto, il boeuf bourguignonne e il Corned Beef Hash rappresentarono la punta di diamante della tecnologia culinaria o della novità gastronomica. Non si è mai stabilito in modo convincente in che momento un’innovazione diventa tradizione. È dovuto semplicemente al trascorrere del tempo? Dipende da quanto un prodotto o una tecnica diventano comuni? Oppure è un fatto legato a circostanze sociali o geografiche particolari? Dopo tutto, è più che possibile che la tradizione di una regione diventi l’innovazione di un’altra, come ben dimostra l’aceto balsamico. Questo squisito condimento era prodotto a Modena da diverse centinaia d’anni prima di essere scoperto dai cuochi inglesi una decina di anni orsono. Da un giorno all’altro, non c’è stato piatto senza aceto balsamico. I cuochi inglesi, non vincolati dall’appartenenza a una cultura culinaria locale, come in Emilia Romagna, hanno cominciato a usare il prodotto come ketchup, su pesce, su carne, per dare brio a salse, insalate e zuppe. Non solo, la sua popolarità ha scatenato un’ondata di innovazione del prodotto: d’improvviso il consumatore ha potuto rifornirsi di aceto balsamico di fichi, di mele, di pere. È evidente che queste innovazioni sono nate da motivi commerciali più che dalla natura intrinsecamente curiosa dello spirito umano o dal desiderio di creare un aceto migliore. Il peperoncino è un esempio perfetto del processo tramite il quale una cosa nuova diventa consacrata dal tempo e dalla consuetudine. A un certo punto del secolo XVI, i peperoncini erano un prodotto stuzzicante, in senso letterale e figurato: con le patate, i pomodori, il tabacco, il mais, i tacchini e il cioccolato, diventarono i nuovi, brillanti ingredienti della cucina di Spagna, Italia, India, Sud Est asiatico, Balcani e Ungheria. Furono adottati con incredibile rapidità come spezia d’elezione in molte regioni diverse da molte culture diverse perché erano facili da coltivare, a patto di disporre di acqua e sole a sufficienza, nonché economici, in un momento in cui altre spezie avevano prezzi proibitivi per la grande massa della popolazione. Cinque secoli dopo i peperoncini sono parte integrante delle tradizioni culinarie di quei paesi a tal punto che è quasi impossibile concepirne la cucina senza di essi. Parimenti, ciascuna cultura ha adeguato il sapore piccante dei peperoncini ai propri gusti particolari. Il cibo di una popolazione è un museo della sua cultura; è possibile leggere la storia di un popolo o di un luogo tramite il

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d’epoca

cibo che si mangia, purché lo si conosca abbastanza da capire quando e da dove arrivò un certo ingrediente e perché è usato tuttora. Mangiare un Big Mac a Delhi dice qualcosa sulla natura imperialista della cultura americana, sul fatto che la sua dinamica fondamentale è commerciale, non politica o sociale; e il fatto che mangi quella porcheria dice qualcosa sulla natura della società indiana, anche se può essere qualcosa che preferiremmo non sentire. Forse per gli indiani un Big Mac rappresenta una cosa estranea alla tradizione, una cosa diversa, nuova ed eccitante. Il cielo ci aiuti! Sebbene molti ingredienti e stili possano essere comuni a molte persone e paesi, l’interesse per le culture alimentari, per ogni cultura, nasce dalle differenze, non dalle analogie. Non andiamo in India per mangiare da McDonald’s (se non siamo pazzi), ma per mangiare shakooti o masoor dal aur bad gobi, così come non andiamo a Las Vegas per vedere una copia del Taj Mahal (se non siamo ancora più pazzi). Abbiamo bisogno di diversità e di differenza e di varietà, non semplicemente per soddisfare la nostra curiosità, ma per esprimere la nostra identità. La tradizione rappresenta quella identità. La tradizione è il nostro passato, e solamente conoscendo il passato e riconoscendo il valore della tradizione possiamo sperare di forgiare il nostro futuro. Ecco perché dobbiamo lottare per preservare le nostre tradizioni. Non possiamo permetterci di perdere prodotti e piatti, perché perderemmo la nostra storia, la nostra diversità e il senso di noi stessi. La tradizione è la guardiana della diversità. Allo stesso tempo, dobbiamo innovare. Esiste un rapporto di simbiosi tra innovazione e tradizione. Ogni tradizione un tempo è stata un’innovazione. Ecco il primo paradosso. Ce n’è un secondo: abbiamo bisogno di innovazioni da trasformare in tradizioni. * Slow Food

di Matthew Fort* COME IL FENOMENO DELLE RIEVOCAZIONI STORICHE È CRESCIUTO SOPRATTUTTO NELLA SFERA ALIMENTARE. ED ECCO IL PIACERE DI SEDERSI ALLE TAVOLE DEL PASSATO AI TEMPI DEL FAST FOOD


IN ATTESA DI RISPOSTE SICURE, DICIAMO NO AI PRODOTTI GENETICAMENTE MODIF È di questi giorni la notizia di nuovi preoccupanti risultati nei test di laboratorio sug Infatti, finché la scienza non avrà le idee chiare in materia di OGM, preferiamo averle noi tagliati fuori. Una precauzione certificata e garantita da un rigoroso controllo di filiera. P NO OGM. UN ALTRO VANTAGGIO COOP. www.e-coop.it


Gli OGM non sono un gioco da tavola.

FICATI. gli OGM, ma non è certo da ieri che Coop se ne preoccupa. i: dai prodotti a marchio Coop gli OGM sono categoricamente PerchÊ, per noi, certe combinazioni non sono un bel gioco.


SCRITTO&MANGIATO

di Mary Hyman* MOUTARDE DE MEAUX, UN PERCORSO MOLTO ROMANZATO A DUE PASSI DA PARIGI TRA ETICHETTE E STORIE, TRA COLORI E FATTI CERTI

Cerco senape

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sistono i prodotti “senza storia” e contemporaneamente prodotti che, agli occhi della maggior parte delle persone, sembrano avere una storia esauriente. Si tratta naturalmente di specialità la cui storia è scritta, nero su bianco, direttamente sull’etichetta: non c’è che da leggere! L’esperienza di lavoro con il Conseil national del arts culinaires, incaricato di catalogare il patrimonio gastronomico francese, ci insegna però che i casi di questo genere non sono sempre tra i più semplici da affrontare. Prenderò come esempio la Moutarde de Meaux (Senape di Meaux). Meaux è una piccola cittadina a circa cinquanta chilometri da Parigi, nel dipartimento della Seine-et-Marne, nella zona del Brie, celebre per i suoi formaggi; la regione è quella dell’Ile-de-France. La senape in questione ha tutta l’aria di essere un prodotto piuttosto antico: viene venduta in un bel vasetto in grès dalla forma panciuta, sigillato con la ceralacca. Sull’etichetta in carta giallina, una scritta in lettere rosse avvisa: «Esigete la senape di Meaux Pommery»; sotto è disegnato un medaglione con fregi rosso e oro, all’interno del quale un’altra scritta annuncia: «Huic condimento est imperare omnibus cibis». C’è anche un angelo munito di tromba alla cui destra si può leggere una data: A.D. 1632. Su ogni lato, un blasone nel quale spicca la lettera «M» in caratteri pseudo gotici, con coroncine in oro e leoni di prammatica. A grandi caratteri maiuscoli, netti e dorati, c’è ancora scritto: «MOUTARDE DE MEAUX - marchio depositato»; quindi, più sotto, in lettere rosse: «POMMERY, e ancora una volta: marchio depositato». Per finire, in fondo, si legge: «Aromatizzata con aceto fino». L’intero medaglione è circondato dal seguente testo, anch’esso in caratteri dall’aspetto gotico: «Nel 1760 un dignitario del Capitolo di Meaux confidò a J.B. Pommery il segreto della preparazione di una meravigliosa specialità, che fin dal 1632 godette dell’ambito privilegio di essere presente sulla tavola del re. Pommery e i suoi eredi hanno gelosamente conservato questo segreto. Preparata con prodotti di qualità che le conferiscono il suo squisito sapore e l’aroma sottile, questa senape è un valido supporto dell’arte culinaria, e darà dunque lustro alla vostra cucina.» Un’ultima riga, proprio al fondo dell’etichetta, dice ancora: «Brillat-Savarin la definisce una senape per buongustai.» Facile, non è vero? Non avremmo avuto che da citare l’etichetta, aggiungendo forse qualche breve nota sugli stabilimenti Pommery, e il profilo storico sarebbe stato pronto. Rimaneva il fatto che le nostre menti perverse ci rendevano un po’ scettici... Notammo subito che, contrariamente alla Moutarde de Dijon, la Moutarde de Meaux è un marchio depositato di proprietà di una sola azienda. Tuttavia, stando alle note dell’etichetta questa preparazione doveva già essere presente sulla tavola di Luigi XIII, nel 1632. Avremmo, dunque, dovuto essere in grado di reperire senza difficoltà le fonti che documentassero tale affermazione. Consultando la nostra banca dati rimanemmo a tutta prima stupefatti di non trovare menzione alcuna riguardo alla Moutarde de Meaux antecedente il 1834, anno in cui Briand-de-Verzé segnala la produzione di tale condimento proprio nella città di Meaux, nel suo Dictionnaire complet, géographique, statistique et commercial de la France. La circostanza appariva strana, visto che nei secoli precedenti, e in diverse località, le senapi erano già oggetto di grande interesse. A Digione e Parigi se ne trova traccia fin dal XIII secolo; a Augers fin dal XVI secolo e a St. Maixent, nel Poitou, nel XVII secolo. Nel XVIII secolo il Gazetin du Comestible, catalogo di vendita per corrispondenza, le Affiches et annonces divers e un Almanach du comestible segnalano l’esistenza di senapi di qualità un po’ in tutta la Francia. La senape di Parigi ha ancora un buon successo nell’Ile de France, ma quella di Meaux... non è neppure citata. Dopo la nostra banca dati, decidemmo quindi di controllare un altro dei “fatti” citati in etichetta: «Brillat-Savarin la definisce una senape per buongustai». Sapendo che il prodotto è segnalato a Meaux nel 1834, c’era da supporre che Brillat-Savarin lo conoscesse già nel 1826, anno della pubblicazione della sua Physiologie du Goût. Non trovammo tuttavia alcuna dichiarazione del genere nell’opera di Savarin, e ci parve davvero poco probabile che l’autore avesse potuto citare la senape in uno dei suoi scritti sul sistema giudiziario in Francia. Che si trattasse, dunque, di un piccolo inganno? Telefonammo alla ditta Pommery per sapere se esistessero degli archivi e se fosse possibile consultarli. Spiegammo che, in caso contrario, ci saremmo accontentati di una fotocopia dei documenti dai quali erano, presumibilmente, state tratte le note storiche riportate in etichetta. Chiedemmo anche se per caso tali documenti potessero essere consultati altrove. La ditta Pommery rifiutò di darci delle risposte. Non sapendo più che cosa pensare della nostra etichetta, ci concentrammo sui fatti certi: la Senape di Meaux veniva citata nel 1834; nel 1867 quella prodotta a Meaux da Pommery era riconosciuta come prodotto di qualità in occasione dell’Esposizione di Parigi; nel 1878 le veniva conferita una medaglia d’argento. All’epoca, era una preparazione a base di una varietà non setacciata detta “grigia” (contrariamente a quella di Digione, chiamata “gialla”); ma Androuet e Chabot, in un libro dedicato ai prodotti della zona del Brie, dichiarano che a poco a poco, dal 1927, dopo la cessione della fabbrica da parte della famiglia Pommery, era venuta a somigliare sempre più a tutte le altre esistenti sul mercato. Solo nel 1949, con l’acquisto della ditta da parte della famiglia Chamois, era stata di nuovo adottata la ricetta originale, riportando la Senape di Meaux alla qualità del secolo precedente. Per l’occasione erano stati adottati la confezione nel vaso di grès e la ben nota etichetta. Senza spingerci a dichiarare che le note storiche presentate in etichetta costituiscano una pura invenzione, non potremo comunque negare che siano di certo molto romanzate. La mia esperienza dimostra che cose di questo genere accadono piuttosto spesso nell’ambito dei prodotti tipici. * Slow Food

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di Olga Perla* PASTA, RISO, VINO, PRODOTTI E MARCHE NOTI E SCONOSCIUTI. UN ITINERARIO TRA VALORI GASTRONOMICI E TRADIZIONE, DA ARRICCHIRE CON UNA INDAGINE SULLA QUALITÀ DEI CONSUMI

Dei lessici Q

uando si parla di tradizione, evitiamo non solo di evocare gli aspetti meno nobili del retaggio, sporcizia, alcolismo e denutrizione, tanto importanti da contrassegnare inequivocabilmente, in Italia, braccianti, contadini, operai, sino, e oltre, l’ultima guerra mondiale, ma di prendere in esame i consumi stessi alimentari, sotto un profilo qualitativo, e le pratiche culinarie femminili o servili, non idealizzate, quindi o inette o pedisseque o indigenti o eccelse. Tradizione deve essere, per forza, competenza, equilibrio, autosufficienza, e mai il contrario. Contro questo principio, le prove sono numerose. Una società povera, e tale deve considerarsi quella italiana del dopoguerra, considerando non solo la popolazione agricola ma i pescatori e i montanari, esprimeva, da un punto di vista gastronomico, carenze culturali marcate, e più ancora una ignoranza di consumi diversi da quelli imposti dal proprio lavoro, dall’economia strettamente familiare. Nei limiti del proprio podere, del villaggio in cui risiedeva, della malga o della cascina, il consumatore aveva un lessico rudimentale con cui comunicare le proprie scelte alimentari, per molte delle quali, il vino delle proprie viti, il latte delle vacche del vicino, la risina o la meliga concesse come paga alla fine della stagione, non avevano epiteti di sorta. La tradizione è infatti una lingua impacciata, per il contadino, e una orecchia sorda, per il padrone. Leggiamo i dati forniti dalla Doxa nelle inchieste sui consumi degli italiani dopo la proclamazione della repubblica. Nel 1950, circa il 36% delle donne (in un campione di 2141) appartenenti alla classe medio-superiore, non sono in grado di indicare alcuna specie di riso; la proporzione sale al 49% nelle classi inferiori. Fra le massaie, in Piemonte sono l’11% a ignorare quale varietà

hanno acquistato; in Sicilia, tale cifra sale al 39%. Passando al vino bianco, il 55% degli intervistati (su 1661 adulti, uomini e donne) non sanno indicare alcuna denominazione, e «altri 9% danno risposte generiche: vini locali, nostrani, vino secco, vino comune…». Le classi abbienti (proprietari, padroni, benestanti) lo tirano prevalentemente dalla damigiana: solo il 2% dei dirigenti e liberi professionisti lo acquista in bottiglie tappate, mentre il 33% di loro ricorre ai fiaschi tappati. Da queste inchieste traspare un paese che conosce un numero limitatissimo di prodotti, ignora marchi, marche, réclames, etichette, nomi di aziende agricole e zone di produzione. In compenso, dalle interviste emerge che quasi tutti, sul cibo, sulle bevande, una opinione ce l’hanno, incrollabile. Che cosa significa che il consumatore abituale di una bevanda come il vino non sia in grado di spiccicare il nome del Moscato o del Frascati? Anzitutto, che l’alimento in questione resta confinato alla cerchia familiare, ha un valore d’uso, senza una precisa riconoscibilità sociale. Che lo produca o lo compri al negozio o all’osteria, poco cambia. Secondariamente, che il prodotto, per essere appetibile, non ha bisogno di una denominazione specifica, come se il costo e il sapore bastassero a qualificarlo. Aggettivi come genuino, naturale, puro, schietto, vengono a designare – negli anni 1950 – il risultato di operazioni enologiche per lo più ignote. In Italia, fenomeni come l’abbandono dell’economia montana, l’esodo rurale verso le città, hanno portato valligiani e braccianti a contatto con una offerta commerciale diversa da quella di partenza, li hanno gradualmente “istruiti” al consumo, risvegliando in loro una memoria a doppio registro, dei termini utili per nutrirsi in un nuovo mercato e dei pochi termini dialettali già usati a tavola nei luoghi d’origine. Il risultato di

tale acquisizione bidirezionale appare nella pochezza espressiva degli intervistati, e nella loro difesa di una società rurale abbandonata contro la società industriale in cui vivono. L’impatto con i nuovi prodotti è raramente gratificante, per ragioni di costo e di abitudini. Lo prova un agricoltore di Erba (Como): «Il vino sì è buono, ma i coca-cola e il resto sono tutte porcherie», aggiungendo che la sua donna lo comprava dal vinaio durante le prime settimane, ma a fine mese andava dall’oste che faceva credito. Quale vino? Buono? Come? Anche in questo caso, si trattava di un segreto suo e del mescitore. «I coca-cola» comunque non poteva permetterseli. Si potrebbe ipotizzare che a creare le tradizioni abbiano contribuito le classi più abbienti, selezionando il meglio, fornendo il proprio modello di consumo ai lavoratori (della terra, della fabbrica), enfatizzando, fra borghesi, il valore culturale dell’alimento e delle sue radici rurali. Ma se prendiamo testimonianze di viva voce, in quell’Italia degli anni ’50 che sta modificando il proprio assetto economico, ci accorgiamo che le classi abbienti hanno un patrimonio gastronomico modestissimo mentre quelle più povere si avvalgono, per far luce su bevande e cibi del proprio passato, di formule astratte, di un idealismo ingenuo. Una frase come «Il vino che si trova in commercio purtroppo non presenta le caratteristiche genuine della natura» (Gli Italiani e il vino, Doxa, 1950, intervistato di Termini Imerese), mostra chiaramente che il prodotto tradizionale ha perso ogni connotato specifico, è diventato un concetto il quale serve a denunciare che, sul mercato, sono disponibili solo intrugli innominabili dalla formula segreta. Nell’un caso come nell’altro, non abbiamo una descrizione del vino, perché manca l’idea stessa di varietà. Anche i nomi più conosciuti e citati in una altra fase dell’inchiesta – il Chianti (16% degli inter-

vistati), il Barbera o Barberato (13%), il Bardolino e Valpolicella (13%) – danno lo stesso risultato. Solo l’1% degli italiani è in grado di far seguire “Chianti” da un nome di persona o di luogo. I valori “gastronomici” sarebbero dunque astrazioni? Nella citata inchiesta sul riso, emergono due aspetti interessanti: la tradizione è fedeltà a un certo tipo di consumi, a scapito di altri. La competenza gastronomica – saper fare e saper gustare – non dipende necessariamente dalle derrate che consumiamo di preferenza. Il riso è una strana graminacea: due terzi dell’Italia la consuma poco e malvolentieri, un terzo (Piemonte, Lombardia, Veneto) ne fa un uso quotidiano. La pasta appare il valore nutritivo per antonomasia agli occhi di più della metà delle massaie italiane; il riso è considerato concorrenziale con la pasta solo se molto condito (sartù, risotto), cioè ricco da un punto di vista gastronomico. Tuttavia, proprio perché questa rivendicazione è ribadita nelle regioni centro-meridionali, si arriva al paradosso che il saper fare culinario è utile per quelle derrate che dispiacciono, che saziano poco. Se il cibo della tradizione è la pasta, base alimentare per un napoletano, la competenza di una cuoca non emerge necessariamente dal prepararla. La parola tradizione, alla luce di queste inchieste, va arricchita con una indagine sistematica sulla qualità dei consumi, tenendo conto non solo di quanto è palesemente espresso, ma dell’ignoranza e dell’inesperienza degli intervistati. Anche i pregiudizi, i disgusti, i falsi appetiti fanno parte dell’habitus alimentare degli italiani. Contribuiscono a formare il gusto e si tramandano insieme alla memoria dei cibi e delle bevande, mescolati a essa. Non tenerne conto, significa esprimere della tradizione una versione edulcorata, più simile a un galateo, a un manuale del bon ton, che a una testimonianza. * Slow Food


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SCRITTO&MANGIATO

di Geraldina Colotti CUCINARE CON I VELENI, CUCINARE SENZA. TUTTI I LIBRI IN MENU, ASSAGGIANDO QUA E LÀ, TOPINI CRUDI E TORTA DI API COMPRESI

proposito di tradizione. Una ricetta facile facile per un’indimenticabile “ultima cena”, si ricava dal volume Note di cucina di Leonardo da Vinci. di Shelagh e Jonathan Routh (Voland): “Immergi una mucca, o un manzo, in un grande bollitore con tre carote e una manciata di bacche di ginepro per tutto il tempo necessario – in genere 15 o 16 ore – affinché le carni si stacchino dalle ossa. Metti tutta la carne nella pressa per estrarne il succo. Versalo in bacinelle piatte, lascialo coagulare e quando è quasi asciutto taglia dei cubetti della grandezza di un pollice; li puoi aggiungere al minestrone per arricchirlo col gusto del manzo senza necessariamente dover uccidere un manzo fresco. Il succo avanzato nella pentola è anch’esso utile. Setaccialo e usalo per insaporire rape e broccoletti lessi”. L’unico problema è che vi mancano i broccoletti? Ripiegate, allora su un’invitante “Spalla di serpente”: “prendi una spalla di serpente, disossala e riempi l’interno con olive e frutta fresca”… Non avete neanche le olive? Prima di ficcare la testa nel forno, sfogliate ancora il Codex Romanoff, fonte originaria del libro, e forse opera del grande pittore fiorentino, autore dell’Ultima cena. O forse uno scherzo di “Candid Camera”, la popolare serie televisiva di cui Jonathan Routh fu per molti anni responsabile? Sia come sia, dopo aver superato la parata di conti e baroni e cardinali che occupano una pagina di “ringraziamenti dell’edizione inglese”, sarete nelle mani del “dottor Marino Albinesi, pubblico ministero a Roma e presidente del Circolo enogastronomico d’Italia”. Col suo consenso, potrete “cucinare con i veleni”, sapendo che: la stricnina causa terrore e irrigidimento del collo; le bacche scure e nere dei mortali solanacei provocano il delirio; il napello (“spesso confuso con le radici di barbaforte”) comporta allucinazioni auditive e vomito; e che la cicuta porta alla morte. In caso, poi, aveste “programmato un omicidio”, il Codex vi spiegherà “come deve sedersi a tavola un assassino”: a seconda del metodo scelto, l’omicida si

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metterà a destra o a sinistra della vittima per non recar disturbo “alla conversazione degli altri commensali”. L’abilità di un simile convitato – avverte il testo – sta nell’assolvere il compito con la dovuta discrezione e, una volta che gli inservienti abbiano rimosso l’ingombro, di alzarsi da tavola: perché la sua presenza potrebbe “talvolta dare problemi alla digestione delle persone che gli siedono accanto”. Sarà quindi cura di un buon padrone di casa, avere sempre un ospite di riserva da mettere nel posto vuoto. Che Leonardo – il genio che elevò la pittura sopra ogni attività umana, ma indagò in ogni campo del sapere - sia proprio l’autore dell’antico manoscritto, non c’è prova. E va a finire che, a nasconderle, sono stati quei satanassi dei comunisti che negano di aver custodito una simile opera nel museo di Leningrado. Ma intanto, gli autori raccontano che, nei 17 anni che restò alla corte di Ludovico il Moro, Leonardo divenne maestro di cerimonie. E pubblicano i bozzetti, provenienti da varie collezioni private, che mostrano alcuni suoi progetti destinati alla cucina: un gigantesco tritamanzo, un frullatore, una macchina affetta-prosciutto, originariamente concepita come grammofono rotante a manovella. E “il Leonardo” si chiama ancora l’attrezzo a due leve, che serve per schiacciare l’aglio: compito che, al tempo degli Sforza, era affidato a un martellatore che viveva sui merli del castello. A ispirare i disegni, sarebbe stata l’esperienza di Leonardo alla locanda Le tre lumache, gestita dall’artista – grand gourmet e amante dei dolci – nella Firenze del 1473. Insomma, se

l’autore dell’Ultima cena avesse avuto successo come pasticcere, oltre alle macchine belliche, forse avrebbe inventato anche quella per tirare le torte in faccia ai guerrafondai. Sembra, infatti che, più di tutto, detestasse “veder faticare gli uomini”. Nel Codex Romanoff compaiono topini crudi e torta di api, pane di canapa e budino di sambuco, ma non si accenna a ricette col riso, che pure in quegli anni cominciava a diffondersi. Lo si deduce da una corrispondenza fra Gian Galeazzo Maria Sforza e il duca d’Este, del 1475, in cui è questione di 12 sacchi di semi di riso, più vantaggiosi del frumento in termini di resa. D’altronde, la prima risaia moderna era già stata inventata da un certo Colto de’ Colti nel 1468. L’antichissimo cereale che già sfamava l’Oriente dai tempi dei tempi, e pare sia stato introdotto in Occidente da Alessandro Magno – è giunto in Italia con ritardo. Oggi, però, lo Stivale ne è il maggior produttore europeo. Per conoscere cosa c’è dietro un chicco di riso e cucinarlo in modo sano e appetitoso, si può ricorrere al libro Tutto il riso del mondo, di Paola Bizzarri e Sandra Endrizzi (edizioni

Sonda). Dalla risicoltura, dal momento della raccolta e dalla fase della commercializzazione, traggono sostentamento oltre 100 milioni di famiglie in Asia e in Africa. Ma il peggioramento delle condizioni ambientali, e soprattutto i voraci appetiti delle multinazionali agroalimentari, mettono sempre più a rischio la loro sopravvivenza. Anche il futuro delle risorse ittiche non è roseo. Lo sostiene il libro di Charles Clover Allarme pesce (Ponte alle Grazie), un saggio in forma di reportage che accusa la pesca indiscriminata, condotta con moderne tecnologie, di essere “l’attività più distruttiva della terra”. In molti mari, certe specie stanno per scomparire. La tilapia e altri pesci vegetariani, invece no. Potrebbero essere loro, quindi, “la sola vera speranza del mondo in via di sviluppo” e di tutti. Da qui, l’invito dell’autore a consumarli fin da ora, mettendo fin da subito al lavoro la fantasia dei grandi cuochi. Le tilapie sono avvertite. Da un passato di promesse a un presente allucinato, nel romanzo di un


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Staccate dalle ossa autore del Togo, Sami Tchak, e in quello della colombiana Laura Restrepo, premiata di recente dal GrinzaneCavour, . La festa delle maschere di Sami Tchak (Morellini editore) è ambientato in un imprecisato paese dell’Africa. In un’atmosfera plumbea e decadente, un agiato “seÀor Carlos” uccide una donna incontrata per caso e viene a sua volta ucciso dal figlio di lei – un giovane da cui è fortemente attratto. Prima di accettare la morte, racconta la sua storia, che l’autore intreccia ai pensieri della donna uccisa. La famiglia di Carlos è diventata ricca grazie alle arti di una sorella bellissima, che ha saputo vendersi a generali e governanti e che ha trascinato Carlos, in abiti femminili, tra feste e pranzi luculliani. In un gioco di specchi, emerge così l’identità mutilata dell’Africa, “gli appetiti, gli errori, i crimini” e le “credenze idiote dei popoli”. Anche a Sasaima, in Colombia, in piazza c’è una festa popolare.. A cena si friggono salsicce e si balla. La tradizione è di chiudere la festa all’alba con una colazione collettiva sulla piazza del mercato. Il sindaco, “che è conservato-

re”, quest’anno ha annunciato “tamales e birra gratis”. Nei ricordi di Aguilar, la moglie Agustina, che stava zitta sul sedile posteriore, allora ha voluto fermarsi a comprare le obleas, le schiacciate di pane. Adesso, invece, lei sembra aver dimenticato tutto. E’ in preda alla follia. Intrecciando i pensieri di Agustina - bellissima figlia ribelle di un latifondista colombiano – e quelli del marito Aguilar – un professore marxista che s’interroga sulla pazzia della moglie e quella del paese – Laura Restrepo costruisce la trama di Delirio, un romanzo edito da Feltrinelli. Tutto ha inizio nell’albergo di una Bogotà di intrighi e privilegi, dove Aguilar, di ritorno da un viaggio, ritrova la moglie in preda al delirio. Nel lungo viaggio per sottrarla al suo mondo allucinato, Aguilar le proverà tutte (ma non le ricette di Leonardo), e infine ritroverà lo smalto e la voglia di opporsi al baratro. E’ invece un futuro apocalittico, quello immaginato dalla scrittrice inglese Maggie Gee nel romanzo Il diluvio (edizioni Spartaco). “Mangia e bevi, perché domani morirai”, recitano alcuni poster dei predicatori dell’Unica Via.

Nel vuoto di senso di una città in guerra che cerca di apparire normale, cresce il numero dei fanatici religiosi. Il governo di “mister Bliss” ha aggredito un imprecisato “stato islamico” e cerca di distrarre i cittadini con una grande festa per l’arrivo della primavera. Dappertutto, “lampeggiano e blaterano” televisori. Nella parte ricca della città, due adolescenti che non sanno dove rivolgere un simulacro di rivolta sociale, mangiano “montagne di torte al formaggio ghiacciate” e pollo alle castagne. Nel quartiere meridionale e in quello orientale della città, invece, i bambini rientrano “nelle loro case fredde, scuotono la latta per raccogliere qualche biscotto di scarsa qualità”, accudiscono i più piccoli, aiutano le mamme nei lavori domestici, e “guardano la tv al solito volume”. Intanto, una madre nevrotica cerca di gestire i suoi gemelli, un giornalista in crisi misura lo strapotere della propaganda, un razzista che ha ucciso un omosessuale nero, esce dal carcere e si unisce ai predicatori. L’umanità corre verso la catastrofe, mentre una pioggia incessante annuncia il disastro.


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SCRITTO&MANGIATO

o sanno tutti che i giornali non si mantengono più grazie alle notizie che pubblicano. I soldi arrivano dagli sponsors e dalla pubblicità. In paesi analfabeto-creativi come l’Italia, a far scattare l’acquisto di riviste e quotidiani è il gadget: il libro, il dvd introvabile, il fascicolo enciclopedico, il fumetto elegante. La nuova “terza pagina” dei settimanali, è la lista allettante dei plurimi gadget della settimana. Tra le ultime novità sono spuntate le enciclopedie della cucina italiana. Era ora. L’editoria gastronomica italiana, nonostante la varietà e la ricchezza della nostra cucina, non regge il confronto con quella francese, che riesce ad essere accurata ed informativa ma anche iconograficamente molto sofisticata. Se poi si prende come riferimento la cucina britannica, le cose vanno anche peggio. In un paese dove fino a metà degli anni 90 si trovavano solo due varietà di formaggio, simili a barre di sapone e distinguibili solo dal colore arancio o giallo chiaro, i libri di cucina (soprattuto di cucina di altri paesi) sono sempre stati chiari, ricchi di informazioni ed esteticamente belli. Dai manuali di cucina per studenti alle monografie dedicate agli chef famosi, l’editoria ha saputo codificare e differenziarsi. Negli ultimi anni l’offerta gastronomica britannica è molto migliorata. Il numero dei formaggi è salito vertiginosamente. Si parla di latte crudo, di pasta erborinata. Gli inglesi hanno riscoperto prodotti locali e ricette antiche e tutto questo ha avuto un riflesso immediato nei libri, che finalmente si sono messi a parlare della cucina inglese, degli allevatori di pecore e degli chef che passano al setaccio l’isola alla ricerca delle varietà di pesce più fresche. Altro canale strategico, la televisione. In Gran Bretagna i programmi di cucina riflettono le ansie e le ambizioni della popolazione. Dilettarsi in ricette raffinate aiuta a sentirsi più “upper class”, utilizzare cibi poveri e ingredienti estromessi dai salutisti diventa un modo per affermare il valore della tradizione popolare. In generale, la televisione ha svolto un’autentica opera didattica: e’ riuscita a dissipare la diffidenza dell’inglese medio rispetto all’arte di cucinare. In meno di dieci anni, tre programmi televisi di cucina hanno cambiato il modo di far da mangiare e di immaginare il cibo ad una nazione intera. I nomi? Clarissa Dickson Wright and Jennifer Paterson, alias “Le due grasse signore” che scorrazzano per la Gran Bretagna in sella ad una motocicletta con sidecar. Come suggerisce il loro nome di battaglia, difendono una cucina truculenta e tradizionale, dove vengono celebrate tutte le carni (cerbiatto, coniglio, cavallo) che la pruderie inglese aveva bandito, dove spadroneggia il lardo, le insalate non vengono nemmeno prese in considerazione ed è permesso fumare mentre si cucina. Eppure la trasgressione culinaria delle due ciccione vuole essere una forma di riscoperta, ribelle, di una certa tradizione gastronomica inglese vilipesa dai dettami della cucina sana. Su un piano diametralmente opposto si muove Nigella Lawson, la fascinosa e sensuale signora che prepara dolci sfiziosi

L

Grasse signore grazie al sapiente utilizzo di frullatori e frustini elettrici. Nigella è una “dea domestica” alle prese con i tempi e gli impegni della vita moderna, costretta a trovare espedienti per accorciare le preparazioni ma mai disposta a sacrificare la natura lussuosa dei suoi piatti. Il più celebre tra gli chef televisivi è senz’altro Jamie Oliver, il protagonista della serie “The naked chef ”, ovvero un monello urbano che sdrammatizza l’atto del cucinare e, messi da parte bilance e misurini, lo trasforma in qualcosa di istintivo, accessibile a tutti. Molto diverso il panorama dei programmi di cucina nella televisione italiana, che non hanno storie da raccontare ma solo ricette più o meno insignificanti da eseguire. E le nuove enciclopedie della cucina italiana? Come per ogni opera che abbia pretese enciclopediche, quello che conta è l’approccio, ovvero la logica seguita per raccogliere l’esistente culinario. Per le enciclopedie italiote la scelta è tra il criterio geografico, in base al quale la cucina italiana sarebbe l’insieme delle cucine regionali, e quello sistematico, che organizza la cucina per somme categorie che corrispondono a grandi linee alle diverse pietanze di una pasto. In entrambi i casi, mancano la sintesi, l’analisi e lo sforzo sistematico. Rispetto ad

di Maria Tarantino IL FORMAGGIO SCONOSCIUTO AGLI INGLESI, L’EDITORIA GASTRONOMICA ITALIANA, L’ACCURATEZZA FRANCESE, LA STRATEGIA DELLA TELEVISIONE

una materia affascinante e complessa come la cucina, prevale l’elencazione casuale delle ricette più rappresentative. Senza spiegare gli ingredienti, senza raccontare i sapori e nemmeno l’origine delle preparazioni. Si tratta di megaricettari cui manca il senso della storia, dell’evoluzione dei piatti, della trasformazione degli ingredienti. Persino l’apparato fotografico è deludente. Non coglie le possibilità delle testure e dei colori e preferisce una rappresentazione didascalica delle ricette eseguite.

Là dove le enciclopedie non riescono, anzi non provano nemmeno a far conoscere la tradizione della cucina italiana, ci si può confortare con qualche guida specifica e ben documentata, come ne sta producendo da qualche anno Slowfood. Rimane però un problema di fondo, ovvero un pensiero della tradizione che stabilisca come ci si debba comportare non solo nei confronti dei prodotti e delle pietanze in via di estinzione ma anche della cucina intesa come atto del cucinare, come arte che si evolve e si trasforma. E’ meglio preservare certi prodotti ad ogni costo, magari artificialmente, affidandosi ad oasi culinarie dove sopravvivono grazie a sovvenzioni e prezzi gonfiati? O in mancanza di idee chiare sulla cucina a casa nostra, è meglio pontificare sulla cucina italiana all’estero, dove risulta più facile fare la differenza tra chi ha a disposizione gli ingredienti “originali” e chi no. E’ bizzarro parlare di cucina autenticamente italiana fuori dai confini nazionali, come se tutto quello che accade nelle penisola sia, per definizione, buono e genuino. C’è qualcosa di segretamente fobico e vagamente colonialista in questo approccio. E’ così che si preserva la tradizione, o forse questo è solo il modo in cui si perpetua una forma di folclore gastronomico?


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di Geraldina Colotti

iù che un centro sociale, il Newroz di Pisa sembra una Casa del popolo di una volta. Si vedono facce d’ogni età, si discute di ambiente e politica, di conflitti storici passati e presenti, di neoliberismo e sovranità alimentare nel sud del mondo. Sul tavolo, materiale informativo sulle “guerre dell’acqua” in Bolivia, in Palestina, su una cooperativa agricola a gestione integrale in Guatemala. L’entrata è ingombra di buste di verdura o pane, ognuna con nome e cognome. “Oggi – dice Stefania – ospitiamo i Gasp, i Gruppi d’acquisto solidali pisani”. Monica e Gino, il contadino che oggi vende i prodotti, accolgono gli acquirenti che arrivano alla spicciolata. Su un sacchetto da cui spunta un pezzetto di pane un po’ bruciacchiato, c’è scritto: se non ti piace, scusami, fatti ridare i soldi. “Vedi? – dice Monica – questo pane cuoce in un forno a legna della zona, la fornaia usa solo farine biodinamiche e conosce i gusti personali di ogni acquirente”. La relazione, il contatto, il rapporto diretto tra produttore e consumatore. E’ la filosofia di queste piccole reti d’acquisto, che propongono una forma di commercio indipendente dalle grandi multinazionali e intendono favorire la

P

STORIA DEI GASP, CENTRI NATI NEL 1994 CHE RAPPRESENTANO LA FILOSOFIA DI PICCOLE RETI D’ACQUISTO, UNA FORMA DI COMMERCIO INDIPENDENTE DALLE GRANDI

Microspesa micro produzione locale, l’artigianato, i contadini che praticano agricoltura biologica. L’idea ha preso corpo proprio a Pisa, nel Centro nuovo modello di sviluppo di Vecchiano, fondato da un allievo di Don Milani, Francesco Gesualdi. Nati nel ’94, i Gasp sono oggi una realtà in espansione in tutta la Penisola. I Gasp del Newroz, invece, esistono da qualche anno, eppure coinvolgono già 200 famiglie. Come funzionano in concreto? “Abbiamo fatto un giro nelle campagne, conosciuto i produttori attraverso il forum contadino di Pisa, verificato il loro modo di coltivare – spiega ancora Monica -. Ora acquistiamo direttamente pane, verdura, uova, carne, frutta, anche detersivi biologici. Per alcuni generi, paghiamo un prezzo fisso ogni trimestre, che anticipiamo al contadino, e lui ci porta qui i prodotti una volta a settimana”. Per il resto (il giorno della macellazione, quello delle arance che vengono dalla Sicilia o del vino), ci si telefona o si va sul sito (www.gasp.versacrum.com). Chiunque della lista abbia l’idea per un acquisto, la mette on line. Poi, chi è motorizzato va a prendere i prodotti e si dividono le spese. “E’ un modo di lavorare e di

commerciare rispettoso dell’ambiente e delle persone, il più possibile consono con i nostri principi politici. – dice Monica -. I prezzi dei prodotti vengono decisi insieme coi produttori in assemblea”. Con quale criterio? “Si stabilisce un prezzo standard per ogni prodotto – precisa Monica – paghi lo stesso una primizia e un frutto di piena stagione. E conviene, sia rispetto al mercato del biologico che a quello generale”. E com’è possibile? “Saltando la catena della distribuzione – interviene Gino - il prodotto costa meno all’origine. Lavoro molto, ma non sono in perdita. Un’azienda di tre ettari come la mia, oggi è un’azienda a rischio, ma con il Gasp posso razionalizzare la mia produzione: so quanto devo seminare, vengo pagato tre mesi prima e così posso comprare i concimi e le piantine. E’ come avere un prestito senza interessi. E poi – aggiunge il contadino – siccome il prodotto ha sapore, non si bada alla grandezza della mela o della patata, come invece si fa al supermercato. Io non butto via niente. Se le patate sono piccole, non restano invendute”. Ma un sistema del genere può funzionare su larga scala? “I Gasp – afferma Gino – funzionano meglio quanto-

p i ù sono in piccola scala: devono espandersi ma in piccolissimi nuclei. Altrimenti si rischia di perdere il contatto e il controllo. Più siamo vicini, più abbiamo una risposta al problema del cibo autentico e del prezzo giusto. E poi – continua – in una rete del genere c’è anche il gusto dell’utopia, di costruire nuove relazioni sociali. Ci frequentiamo, facciamo assemblee, scendiamo in piazza contro la guerra, gli ogm, e tutte le cose che non vanno bene”. La fiducia nel prodotto te la dà la persona, dunque, non la pubblicità. “Col Gasp – riprende Monica - è successo quasi a tutti una cosa che non ci aspettavamo: compriamo meno cose, ordiniamo solo quello che ci serve, e non andiamo quasi più al supermercato. Abbiamo meno bisogni indotti e risparmiamo tempo”. Un modo di vivere che Gino va anche a insegnare nelle scuole. “I ragazzi – dice – vengono a visitare gli orti, a vedere gli animali, si divertono a piantare e a zappettare, capiscono quanto l’acqua sia un bene comune”. E Monica racconta le discussioni a proposito delle acque minerali, la decisione di bere acqua del rubinetto per boicottare la privatizzazione delle risorse.

“Vicino a Pisa – spiega – c’è la sorgente Uliveto. Anni fa la gente di qui la considerava curativa, troppo forte per essere bevuta tutti i giorni. Ora, a forza di pompare, chissà quanto a fondo la vanno a pescare, magari v icino all’Arno, che in questo tratto fa schifo”. Interviene Stefania, del Newroz, per precisare che il comune (centrosinistra) “è artefice di tutte le privatizzazioni possibili. Ha quadruplicato le rette degli asili nido, sono aumentate le tariffe dei servizi, convive coi centri bellici di potere come la più grande base militare nordamericana del Sud Europa, che ha sede a Pisa. E poi c’è la Folgore”. Il Newroz, invece, in accordo con la parrocchia, progetta di “aprire gli Orti”, uno spazio che prima era pubblico e ora è privato, vuole coltivarli quegli orti e farne anche giardini autogestiti dalle famiglie. “Il nostro spazio – dice Stefania - è aperto alle più diverse realtà del quartiere: dai Gasp ai comitati contro i rifiuti, gli organismi geneticamente modificati, i brevetti, cerchiamo però di non vedere queste lotte nel loro aspetto singolo, ma nel rapporto capitalistico tra scienza e potere, all’interno di un modo di produzione da rifiutare in blocco”.


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L’ultima casa a sinistra.

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