scritto & mangiato in collaborazione con Slow Food
Supplemento al numero odierno de il manifesto
Cucina e letteratura, luoghi di incontri dall’Inghilterra alla Sicilia passando per l’Australia e un Mediterraneo che qualcuno voleva perfetto
Mordi e resta
GIUGNO 2006
scritto & mangiato
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in collaborazione con Slow Food
Direttore responsabile Sandro Medici Direttore Mariuccia Ciotta Gabriele Polo Supplemento a cura di Francesco Paternò Grafica Daria Sorrentino Illustrazione di copertina Laura Federici Pubblicità concessionaria esclusiva Poster srl tel. 06/68896911 fax 06/68308332 Stampa Sigraf srl Via Vailate, 14 Calvenzano (Bg) Chiuso in redazione il 16/6/2006
Ospitiamo questa volta i lavori di Angelo Monne che è nato, vive e lavora a Dorgali (Nu). angelo.monne@libero.it Grazie per la gentile concessione.
La stagione lo permette e allora abbiamo cucinato il menù dei lavori l’obiettivo di salvare l’ambiente, obiettivo drammatiadatto. Un supplemento forse con meno pepe del solito ma co di cui purtroppo non c’è trasversale traccia nel dibattito saporito, più leggero e digeribile perfino stando a mollo. L’idea politico romano e nazionale. Slow Food è giovane e solida e di strapazzare insieme cultura e alimentazione non è né nuova internazionale, la missione è possibile ma la battaglia è tutta da né originale, ma questa volta insieme ai nostri amici di Slow combattere. E va fatta in compagnia, la migliore possibile, per Food abbiamo pensato di proporre alla lettura e alla medita- l’ambiente e per tutte le sue implicazioni, altrimenti - come zione luoghi vagamente mitici dove riscoprire la nascita del dice per esempio Luciana Castellina tra gli invitati di Sanremo - perfino “la pizza fuori contesto non buffet o ricordare un pic nic addiritha senso”. Aspettando con questi tura natalizio. Una colazione sull’erpensieri l’appuntamento di lotta della ba come pretesto per un quadro DI FRANCESCO PATERNÒ seconda edizione di Terra Madre a d’Australia. Sfiorando quasi quella “dimensione giocosa” che è l’origine di Slow Food - parole Torino in autunno, non ci resta che tornare alle nostre storie sante di Carlo Petrini, il fondatore - e che dopo vent’anni di nelle pagine a seguire - di sorbetti siciliani da mezzo carlino, di meravigliose lentezze ha portato la gastronomia “al centro cosiddette cene delle tre s, di contorni alla club med e di molto della cultura, dell’economia e della politica”, per citare sempre altro ancora. Una, in particolare: una intervista a George l’amico Carlin. Il quale, oltre a fornirci pretesti e suggestioni Ritzer, sociologo nordamericano, indagatore della dinamica per scrivere qualcosa di sensato, ha appena tenuto a battesimo dei consumi nella società capitalistica. Dal Qualcosa-Nulla alla a Sanremo i primi vent’anni della sua creatura. Con al centro Glocalizzazione, è tutta da leggere.
Oltre Sanremo
4 Cuor di buffet di Alberto Capatti La cen delle tre esse di John Irving 6 Maestria da bere di Diego Soracco 7 Picnic a Natale di Barbara Santich 10 L’insolita minestra di Fabrizia Morandi Sorbetti forti di Carmelo Maiorca 12 Il supermercato del nulla di Geraldina Colotti 15 Ricettario noir di Geraldina Colotti
Altre cento di queste pagine. “La storia dei nostri 35 anni”, un libro di 100 pagine al prezzo di 20 euro. Disponibile solo in vendita diretta. È possibile acquistare on-line la ristampa del libro sui 35 anni consultando il sito www.ilmanifesto.it; oppure con il conto corrente postale 708016 intestato a il manifesto coop. ed. ar.l. via Tomacelli, 146 00186 Roma aggiungendo 2,00 euro per le spese di spedizione per ogni copia. Per acquisti con carta di credito e info chiamare lo 06.68719330 dal lunedì al venerdì dalle 10.30 alle 18.30.
Il nuovo manifesto. Un altro quotidiano.
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SCRITTO&MANGIATO
di Alberto Capatti* L’EX TAGLIATORE DI DIAMANTI DI ANVERSA E LA SUA FORTUNA NEL MEDITERRANEO. STORIA DI UN CLUB E DELLA SUA IDEOLOGIA, DALLA TAVOLA ALLA SPIAGGIA
a storia è stata raccontata più volte, ma non mi pare inutile ripeterla con alcune considerazioni di contorno. Il Club Méditerranée nasce nel 1950, l’anno dopo che Ferdinand Braudel ha pubblicato il suo libro La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II. Il successo di questa impresa turistica è immediato e la sua crescita coincide con gli anni in cui l’ideatore della dieta mediterranea, Ancel Keys, procede alle sue rilevazioni a Crotone e Creta, contribuendo alla fortuna dei consumi di questo mare, chiuso e povero, presso la classe medica americana. Ad avere l’idea di creare un club, è un ex-tagliatore di diamanti di Anversa, Gérard Blitz. Perché un club? Dopo la guerra, le privazioni e la diaspora familiare, nel corso del duro lavoro della ricostruzione, l’immagine di un villaggio in riva al mare, in un punto remoto e protetto del Mediterraneo, soddisfa aspirazioni profonde di libertà e di benessere. Ispirandosi al “club olimpico” di Cavallo, Blitz cerca un fornitore di tende. Gli stock bellici americani rispondono alle prime esigenze e Gilbert Trigano, di una famiglia ebraica parigina, diventa prima l’intermediario, quindi il finanziatore. Un periodico, Le Trident, prova dall’inizio che il termine club non è un’etichetta: i soci continuano a incontrarsi durante l’inverno, per preparare una nuova partenza. Ad Alcudia (1950), Baratti (1952) e Corfù (1953), i campeggi si estendono in breve tempo, confermando il successo di una formula che mette al centro della vacanza lo sport, la qualità dell’ambiente, l’affiliazione. Il primo villaggio è rudimentale «con tende ricavate dalle eccedenze dell’esercito americano, letti da campo e gabinetti formati da quattro assi e un buco». Sin dall’inizio, la nutrizione è quella programmata a Parigi per un pubblico prevalente di parigini. Le risorse locali, maiorchine, toscane o greche, sono aleatorie e il socio riceve al mattino una colazione che ha viaggiato come lui con il treno (e con la nave) nella quale egli ritrova gusti e abitudini di casa, «caffelatte o cioccolata, pane, burro e marmellata». A mezzogiorno, pesce o carne e un dessert, con un hors-d’oeuvre di carote grattugiate e lamelle di peperoni. Il cibo non è al centro degli articoli del Trident mentre la forma fisica, la natura e il “farniente” sono i valori.
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Cuor Quando il socio arriva gli viene servita la colazione, è installato nella tenda, depone il suo denaro nell’ufficio e riceve un carnet di biglietti con corso esclusivo nel club. A partire da questo momento obbedirà alle regole vigenti: niente radio, né giornali né scambi attivi con gli autoctoni. In compenso una gestione totale dei suoi bisogni, vino compreso. Bastava tuttavia sbirciare, fuori della recinzione, i pescatori greci o i contadini spagnoli, le loro donne con un fazzoletto nero sul capo, per capire che il mediterraneo del Club non aveva nell’insediamento umano locale il proprio modello. Dal 1953, Blitz e Trigano scelgono come stile di vita emblematico delle proprie comunità quello polinesiano. Questo si concretizza in un’organizzazione e in una propaganda singolare in cui «Mediterraneo è il nome di un club di polinesiani e, per estensione, di un mare sulle cui rive i nomadi del club installano, d’estate, i loro villaggi» (Le Trident, 1954). Questa svolta dettata da una vita in costume da bagno, fuori e dentro l’acqua, regolata e disinibita, rispondeva a una convinzione profonda in Gérard Blitz, che praticava da anni lo yoga. A misura che il Club diventa un grande affare, egli se ne distacca, fino a essere ordinato monaco budista zen, il 27 febbraio 1974, dal maestro Taisen Deshimaru. Il suo Oriente non era medio né estremo, ma un punto sulla carta geografica più mistico che reale. Nel 1955 l’annuncio choc di un villaggio a 12 chilometri
La cena delle 3 Blackpool, sul Mar d’Irlanda, contea di Lancashire, Inghilterra, andavamo tutti gli anni in ferie per quindici giorni tra luglio e agosto. Allora – parlo degli anni Settanta – la cittadina aveva un Luna Park enorme, uno dei più grandi d’Europa. Comprendeva giostre spettacolari come il Big Dipper (le montagne russe) e il Ghost Train (il treno degli orrori), con gli scheletri sospesi che spuntavano dal buio a spaventarci. Il complesso era chiamato Pleasure Beach, la spiaggia del piacere. Ma non era una spiaggia, e il piacere è un’altra cosa… La vera spiaggia di Blackpool era chiamata – eufemisticamente – il Golden Mile, il miglio d’oro. In realtà, era lunga una decina di miglia, ma non era d’oro. Più che di sabbia, era fatta di un misto di ghiaia e di cacche di ciuccio. Già, perché il donkey ride, la gita a cavallo dell’asino, è – o era – uno dei divertimenti preferiti degli inglesi al mare (parlo dei bambini, naturalmente). L’acqua del mare era color cappuccino ed era piena di meduse. Peccato che il sole facesse capolino di rado. Ricordo che non si usciva mai senza plastic mac, l’impermeabile di plastica. Ricordo anche di tante merende consumate nei gazebo che punteggiavano la promenade, il lungomare, mentre fuori diluviava. Mangiavamo panini e guardavamo il mare e tremavamo per il freddo.
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Due signore s’incontrano sulla promenade. «Che settimana! Ha piovuto solo due volte» «Sì, una per tre giorni, l’altra per quattro!»
Equidistanti tra di loro, a Blackpool c’erano tre grandi piers, moli: North, Central e South. Erano stati costruiti nell’Ottocento in ossequio alla moda salutista vittoriana. Erano – e sono – lunghi 2-300 metri e davano la possibilità di fare una passeggiata in mezzo al mare. Camminare faceva bene. L’aria salmastra poi… Era bracing: fortificante, tonificante. Certo, mancava il sole, ma quell’aria salubre ti metteva «un po’ di colore sulle guance». Ai miei tempi, ogni pier costituiva un centro di divertimento a sé: slot machine, teatri (d’estate si esibivano i migliori comici e cantanti del Paese), la pantomima del wrestling, i chioschi delle zingare chiromanti. Due zingare s’incontrano sul Central Pier in una bella mattinata di sole. «Bel tempo» fa una. «Si, mi ricorda l’estate del 2010» risponde l’altra. La promenade era percorsa da vecchi tram che, in autunno, erano addobbati di luci e lucine per le Illuminations, coreografiche luminarie a tema. C’erano spogliarelli, show, cabaret e il bingo (che festa la sera in cui mia madre è riuscita a vincere un tostapane e una coperta elettrica in un colpo solo!). Eppoi c’erano i freak shows. A Blackpool, ne ho visti di uomini con due teste, donne-scimmia, gnomi e via dicendo. Sovrastava tutto la torre: Blackpool Tower, copiata dalla Torre Eiffel, sebbene alta solo la metà. Si poteva arrivare in cima con un ascensore panoramico, oppure fare il giro intorno con un piccolo aereo da turismo. Ma non c’era
solo la torre. Nell’edificio che ne costituiva la base, c’erano uno zoo, un circo e un’enorme sala da ballo. Qui d’estate affluivano centinaia di migliaia di vacanzieri. Nel tardo Ottocento, grazie all’avvento di un nuovo istituto sociale, le ferie pagate, gli operai delle città vicine avevano iniziato a frequentare Blackpool per respirare un po’ di aria di mare al posto del solito fumo di ciminiera. Ai miei tempi, la gente arrivava dalle sterminate periferie delle grosse città industriali del nord dell’Inghilterra, come Manchester, Liverpool, Leeds e Sheffield, dalle mill towns, cittadine cresciute col boom dell’industria tessile all’inizio dell’Ottocento, e dall’area metropolitana di Glasgow in Scozia, allora nota per le sue gangs, bande violente abili nell’uso del rasoio e del coltello. Durante la “Glasgow Holiday Week”, a Blackpool si parlava quasi esclusivamente scozzese: pochi altri avevano il coraggio di venire. Le città inglesi del nord sono caratterizzate da file di case costruite per la manodopera delle fabbriche. Anche a Blackpool ci sono, ma portano giù alla promenade e al dio mare. In questo caso, non si tratta di case residenziali, bensì di boarding houses, piccole pensioncine. Ad agosto, su ogni finestra o quasi spiccava il cartello “No vacancies”: nessuna camera disponibile. Più che offrire ospitalità, le Blackpool landladies, le feroci signore che gestivano queste case, terrorizzavano l’ospite. Il rispetto del cliente non era tenuto in gran conto a quei tempi. Nelle boarding houses l’atmosfera somigliava più a quella di un campo di concentramento che a quella di un
posto di relax. E alle landladies il ruolo di kapò calzava a meraviglia. Alle pareti erano appesi cartelli pieni di veti e ammonimenti. «Non sono ammessi i visitatori nelle camere» «La prima colazione si serve tra le 8.30 e le 9.00. Si raccomanda la massima puntualità» «Si accettano solo coppie sposate» «La porta principale si chiude alle 22.00» Le Blackpool landladies non sapevano cucinare. I loro disastri culinari, racchiudibili nella formula “breakfast and evening meal” (prima colazione e cena), erano spesso il bersaglio delle battute dei comici. - Cameriera, cosa fa questa mosca nella mia minestra? - Stile libero, mi pare, signore … La mia famiglia frequentava il Cumberland Hotel, che si trovava su una via tranquilla a un paio di isolati dal South Pier. Era gestito dai Twentyman, una famiglia proveniente da Carlisle, la mia città. La pensione era frequentata quasi esclusivamente da gente della Cumbria, la contea di Carlisle. Vecchi contadini, pastori, gente di campagna: dura, aspra, taciturna. In sala serviva la figlia della signora Twentyman, sigaretta in bocca. Sui tavoli c’erano bottiglie di salsa rubra, tutte incrostate di residui di colore rosso e nero, come gocce di sangue coagulato. Un giorno – colpo di scena! – la signorina Twentyman annuncia la possibilità di prendere un’omelette a colazione al posto del solito uovo fritto.
r di buffet da Papeete. Una vacanza per privilegiati che dura, con il viaggio, tre mesi e mezzo. Papeete diventa il cuore del Club. Le capanne polinesiane serviranno da prototipo a tutti i villaggi, trasformati da campeggi estivi a insediamenti stanziali. Il Mediterraneo va ora inteso nella sua estensione più ampia, come un modello umano in evoluzione, geograficamente ravvisabile negli stessi antipodi. Dalla Polinesia, un investimento inizialmente fruttuoso solo per l’immagine, partono i segnali opposti di una rivitalizzazione del concetto di Mediterraneo, esteso a tutto il globo. Grazie alle distanze e al problema dei trasporti che essa pone, tutta la politica della stanzialità viene riesaminata, con i rifornimenti di clienti e di prodotti. La programmazione alimentare sin dal 1960 segue questa crescita, ed è sensibilmente quella che conosciamo oggi: alla fine degli anni Cinquanta viene creato il buffet, che diverrà uno dei simboli del Club, «marmellate, cornetti e brioches a profusione, montagne di gamberetti e di spiedini, ogni tipo di pasta e tutti i frutti della creazione, birre, vini, succhi, gelati». Come è possibile riunire tutto questo in un piccolo villaggio? Recita sempre la réclame: «Santa Giulia un atollo nel Mediterraneo. Un villaggio gastronomico. Una delle caratteristiche di questo villaggio, chiamato a costituire il vero richiamo del nostro programma, è di essere rifornito con aerei speciali da Parigi e Marsiglia. Grazie a questo apporto straordinario, la tavola è impeccabile» (Le Trident, marzo 1960).
Un anno prima di questo annuncio, a New York era uscito il libro di Ancel e Margaret Keys, Eat well and stay well, ispirato alla stessa logica di esportazione del modello mediterraneo, di riacclimatazione di esso in zone geografiche remote, fermo restando il rifornimento alimentare regolato dalle leggi sanitarie dei singoli paesi. Anche nei villaggi del Club, esso è presente, come una delle varianti dietetiche, associabili o no alle attività ludiche, sportive, erotiche. Storia, dietetica e turismo negli anni Cinquanta creano dunque un modello culturale che ha poco di autoctono (anche il Mediterraneo di Braudel si contrae ed estende a misura dei commerci, straripando dai suoi confini, penetrando nell’Europa continentale) e risponde a profonde esigenze di fuga da un Mediterraneo senza acqua e senza lavoro. L’ideologia domina queste imprese storiche, mediche e commerciali promuovendo in un primo momento i valori della salute e della natura, quindi altri sempre più mitici e consumeristici. Paradossalmente questo rilancio del Mediterraneo è il primo segnale di una lenta, inarrestabile agonia. Con gli anni Sessanta, Alcudia, Baratti, Corfù non erano più i paradisi che avevano accolto le prime tendopoli: la cementificazione di tutto il bacino era avviata, trovando un freno provvidenziale solo nella povertà, nell’instabilità politica e in fenomeni di grave recessione. * Slow Food
esse «Cos’è un’omelette?» chiede un rozzo contadino cumbro. «È fatta sempre con le uova, ma ha un aspetto diverso dall’uovo fritto.» «D’accordo, ma va bene con la salsa rubra?» «Volendo…» «Allora la prendo.» La cena – la cena delle tre “esse” – consisteva in soup, spam e salad (minestra, carne in scatola e insalata). Quasi tutte le sere! La minestra cambiava nome tutti i giorni – piselli e prosciutto, cavolo, lenticchie, fagioli – ma aveva sempre la stessa sfumatura di grigioverde e il sapore non cambiava praticamente mai. Anche quella ti metteva «un po’ di colore sulle guance», secondo mio padre. Sai che colore! Lo spam (da spiced ham, “prosciutto speziato”) era un’improbabile carne in scatola americana dal colore stranissimo: una specie di rosa innaturale, oserei dire psichedelico. Era soprannominata “miracle meat”, perché andava bene sempre e ovunque. Mio padre non riusciva più a mangiare il corned beef, altra carne in scatola. Lo disgustava perché era stato costretto a consumarlo praticamente tutti i giorni per sei anni durante l’ultimo conflitto mondiale. Io, invece, non riesco più a guardare lo spam per averne mangiato troppo in tutte quelle estati a Blackpool. Ma noi eravamo in vacanza, mica in guerra. La lattuga di contorno allo spam era di un verde pallido e malato. Cameriera, c’è un bruco nell’insalata! Mi scusi, signore. Non sapevo che Lei fosse vegetariano.
Ironia della sorte, al Cumberland Hotel ho mangiato male, molto male, ma poi, grazie a un cuoco polacco, ho anche imparato a mangiare bene. Il fatto è che, dopo un po’ di anni, in una trattativa avvolta dal mistero, i Twentyman hanno ceduto l‘attività a una famiglia che arrivava da Londra. L’idea di trovarsi nelle mani di gestori londinesi bastava già per far scappare la maggior parte della clientela abituale, che non ha pensato due volte prima di mollare il Cumberland e di alloggiarsi altrove. Ma quando si è venuto a sapere che il capofamiglia dei nuovi titolari era polacco, tra gli habitués della pensione siamo rimasti solo noi Irving. Meno male che mio padre, sportivamente, ha deciso di dare al signor Golowiscz, orginario di Cracovia, «un’opportunità per farci vedere di cos’è capace». Perché, si è saputo dopo, Golowiscz aveva lavorato come chef presso i migliori ristoranti e alberghi della capitale. Raccolti i risparmi di una vita, aveva deciso di tentare la grande avventura: aprire una boarding house a Blackpool. La cucina è cambiata da così a così, da un anno all’altro. E io ho scoperto delizie gastronomiche mai conosciute prima. Antipasto di melone e zenzero, wiener schnitzel, scaloppe di salmone fresco, insalata di patate e barbabietola, crème caramel… Intendiamoci, non è che non ci divertissimo a Blackpool. È che l’avvento dei Golowiscz ha aggiunto una nuova dimensione alle nostre ferie. Quella del mangiare per piacere, non solo per sopravvivere. * Slow Food
di John Irving* ANNI SETTANTA, QUANDO LE BLACKPOOL LANDLADIES NON SAPEVANO CUCINARE. DISASTRI CULINARI COME BERSAGLIO DELLE BATTUTE DEI COMICI
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SCRITTO&MANGIATO
di Diego Soracco* DROGHIERI-CONFETTIERI E SOCIETÀ DEI CHINOTTI, DALLA LIGURIA ALLA CINA PASSANDO ATTRAVERSO L’ARTE DEI SAVONESI
meglio nascere fortunati che ricchi», deve aver pensato Vincenzio Besio che poi, ricco, probabilmente lo è anche diventato. L’occasione – siamo nel 1877 – si era presentata con il trasferimento della ditta Silvestre-Allemand (un’industria di frutti canditi) da Apt, nel sud est della Francia, a Savona. Ragioni di convenienza: materie prime più a buon mercato e manodopera meno cara. I proprietari dimostrarono di saperci fare sia da un punto di vista produttivo – oltre ai tradizionali fornelli avevano già adottato una potente macchina a vapore unica del genere esistente a quell’epoca – sia nella commercializzazione, e l’attività ebbe un gran successo. Vicino allo stabilimento aveva bottega dal 1860 un droghiere-confettiere con spaccio di mescita: il signor Vincenzo per l’appunto. Fatto tesoro delle esperienze riferite dai tecnici della fabbrica francese che frequentavano il suo negozio, decise
È
di avviare una piccola produzione di canditi. Cautamente, un passo alla volta, com’è nel carattere dei liguri; ma ricevuto l’avvio la macchina non si è più fermata. Dalla passione per la canditura, scoperta per caso, stava nascendo una nuova dinastia imprenditoriale il cui ultimo erede darà vita all’Augusto Vincenzo Besio, l’unica ditta artigianale tuttora attiva. In quegli anni e in quelli a venire, diverse altre aziende aprirono i battenti (Besio & Isetta, Besio & Tissoni, F. Musso, E. Aonzo, Fratelli Besio…) o si adeguarono alle richieste del mercato come la Fratelli Canepa che, a creme, amari e biscotti affiancò la lavorazione dei frutti canditi. D’altronde, come si dice in Liguria, «se uno apre un negozio da merciaio, in un vicolo, e fa affari, il mattino dopo nello stesso vicolo ne trova tre». La ventina d’anni equamente divisi a cavallo tra Otto e Novecento furono il periodo di maggior fermento per il settore, che dette corso a una produzione
Maestria da bere
assai quotata in Italia e all’estero, occupando un migliaio di persone. Un treno in corsa che finirà con il deragliare in concomitanza con il primo conflitto mondiale, a seguito di pesanti fardelli fiscali, di soffocanti briglie burocratiche, come pure dell’insolito succedersi del gelo che creò profonde ferite alle colture dei chinotti: a tre, quattro gradi sotto zero gelano i frutti, a meno otto-dieci muoiono le piante, spaccandosi come fossero canne. La concomitanza di tali eventi rese i savonesi poco competitivi, facendo loro perdere i mercati esteri e favorendo al contempo la penetrazione, su quello nazionale, delle industrie straniere sostenute invece da particolari agevolazioni governative. Una messa da requiem con chiusura delle maggiori aziende e pesanti ripercussioni sul versante agricolo che, vitalissimo, aveva saputo esprimere al suo interno, all’alba del Novecento, una lungimirante mentalità associazionistica con la costituzione della Società dei chinotti. Consapevole del valore qualitativo dei chinotti savonesi, il sodalizio raccoglieva la produzione dei soci, la lavorava mettendola in salamoia (si usava l’acqua di mare, una concentrazione ideale e… meno costosa) dentro fusti, ne curava la conservazione e la vendita in tutto il mondo. Un colpo d’ala si ebbe ancora tra le due guerre; più che altro piccole realtà produttive destinate a esaurire gradualmente l’iniziale spinta propulsiva. Tra Savona e Zinola, nel Finalese, tra Loano e Pietra Ligure e ad Albisola le coltivazioni di chinotto – che avevano trovato spazi importanti grazie allo sviluppo delle lavorazioni dei frutti – oggi sono ridotte al lumicino per l’incalzare dell’edilizia e per fattori economici. Agrume della specie Citrus aurantium (varietà Myrtifolia), secondo alcuni derivato per mutazione gemmaria dall’arancio amaro (melangolo), il chinotto pare sia approdato in Liguria dalla Cina (China nell’antica grafia) verso il XV secolo, al seguito di un navigante savonese. La sua coltivazione, che ha toccato l’apice nei primi quindici anni del Novecento, ha raggiunto una produzione di 25-30 milioni di frutti, les chinos des jardin de Savone, come li chiamavano i francesi, molto appetiti in Europa ed esportati anche negli Stati Uniti e in Messico. Sono certi, infatti, l’ottima acclimatazione e gli insuperabili risultati qualitativi (esistono colture in Calabria e Sicilia, ma meno pregiate) di questo alberello dallo sviluppo limitato, con pochi rami carichi di foglie verde scuro dalle dimensioni simili a quelle del mirto, profumatissimo in fioritura, ornato da frutti a grappolo – straordinariamente serbevoli – grandi come una pallina da ping pong e dal sapore talmente amaro che rende impossibile consumarli nature. In compenso sono ottimi per la canditura, allo sciroppo, al liquore, nei boeri al cioccolato; con i suoi estratti amaricanti si fa (o si faceva, considerata l’attuale invadenza della chimica) la bibita omonima, mentre con i balloni (i frutti grossi) si possono preparare deliziose marmellate. Fiori e scorza della pianta sono usati in fitoterapia e ancora: con 1000 chili di fiori si ricava un litro di neroli (olio essenziale usato per la composizione di profumi) mentre torchiando le bucce e le foglie e distillandone il succo si ottiene un altro profumo, il petit grain. Ci hanno provato a metter su piantagioni nel Nizzardo, in Corsica, in Tunisia, in Algeria ma con risultati deludenti: molte foglie e pochi frutti di scarso valore. È nel savonese, dove si mettono in moto quegli ingranaggi esclusivi della natura legati a clima e terreno, che il chinotto non ha eguali. La maestria del ligure ha fatto il resto. * Slow Food
eno di ottant’anni dopo l’inizio della colonizzazione inglese, il pic-nic di Natale sulla spiaggia era già una radicata tradizione australiana. Quasi fosse un’abitudine invalsa, nel dicembre 1864 l’Illustrated Melbourne Post scriveva con un pizzico d’ironia che «un pranzo di Natale in Australia assume necessariamente la forma di un pasto al fresco». Sulla spiaggia, proseguiva l’articolo, si stendevano le tovaglie sulla sabbia, dagli alberi pendevano ripari provvisori e «l’acciottolio dei piatti, lo schiocco dei tappi, il suono argentino dei bicchieri e il tintinnio di coltelli e forchette si mescolano con gli scoppi di allegre risate, con il brusio delle conversazioni e con lo sciabordio delle onde sulla spiaggia». Una trentina di anni dopo, il romanziere inglese Nat Gould descriveva un Natale a Sydney: «Non vi è periodo dell’anno più animato del Natale, e si svolge un gran commercio di cestini e di tutto l’occorrente per il pic nic. E che pic nic! Alcune, organizzazioni grandiose, altre su scala più modesta. Le località sul mare sono prese d’assalto e i vari gruppi si accampano così vicini gli uni agli altri che stupisce che non si amalgamino e mettano assieme il contenuto dei loro cestini». Se quello di Natale poteva essere tradizionale, il pic nic in Australia non aveva stagione. Informale e spesso improvvisato, si confaceva allo stile di vita australiano; probabilmente ai nuovi arrivati sembrava altrettanto naturale quanto agli abitanti indigeni, il cui sostentamento basato sulla caccia e la raccolta era a suo modo un’altra forma di pic nic. Nell’Ottocento i pic nic erano una necessità, in quanto le locande fuori dalle città erano poche e distanti, e portare con sé le proprie provviste e mangiare all’aperto era l’unica alternativa a non mangiare affatto. Si facevano pic nic per riposarsi e rilassarsi, favoriti dal clima, occasione per godersi il sole e l’aria fresca. Godfrey Charles Mundy ha descritto quelli che potremmo chiamare “pic nic delle ostriche” intorno al porto di Sydney verso metà Ottocento: «un’attività particolarmente congeniale ai gusti della gente – un passatempo metà mobile e metà sedentario – un po’ d’aria di mare, un minimo di esercizio personale e una generosa dose di ricreazione gastronomica; ovvero, mangiare ostriche». Poi c’era il pic nic della comunità, giacché non era soltanto un pasto al fresco, ma anche un’occasione per ritrovarsi e socializzare. Nelle zone di campagna la gente si riuniva la domenica, talvolta dopo essere andata in chiesa, e mentre gli uomini giocavano a cricket su un campo di fortuna, le donne allestivano il pranzo al sacco che avevano portato. In queste occasioni, vicini distanti tra loro si incontravano e parlavano di lana e di tempo, i giovani e le giovani amoreggiavano e i bambini scorrazzavano liberi. Come osservò Cyril Pierre Theodore, sempre intorno a metà Ottocento: «L’usanza dei pic nic e delle feste, cui il clima delizioso si presta, comincia a creare rapporti più stretti tra i sessi... Ho notato che a Sydney i gentiluomini delle classi superiori sono più sobri di quanto siano in Inghilterra». Una versione locale, affermatasi nello stesso periodo, erano le corse con pic nic, cioè una giornata di corse di cavalli, in genere su una polverosa pista rurale utilizzata solo una o due volte l’anno, in cui la socializzazione era non meno importante dei cavalli e dei cavalieri – dilettanti, professionisti o di incerta attribuzione. La gente si portava appresso da mangiare – il morning tea, il pranzo, l’afternoon tea – e spesso la giornata si concludeva con un ballo. Quando il cavallo lasciò il posto alla bicicletta e questo mezzo di locomozione
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di Barbara Santich* L’OTTOCENTESCA TRADIZIONE AUSTRALIANA, QUEL GRAN COMMERCIO DI CESTINI E L’OCCASIONE PER RITROVARSI E SOCIALIZZARE
diventò popolare intorno alla fine del secolo, nacquero i pic nic in bicicletta, altra occasione per i sessi di incontrarsi e mescolarsi. Scriveva sul suo diario Maisie Smith, una giovane inglese appena arrivata a Melbourne nel 1899: «Il giorno seguente c’è stato il pic nic in bicicletta... ne ho affittata una per due scellini per il pomeriggio e siamo partiti verso le 2,30. Era una grande festa e abbiamo pedalato fino a un posto chiamato Sandringham, oltre Brighton, in un albergo dove il nostro ospite ci ha accolto, e c’è stato un grande tè». Ma per molta gente, soprattutto nel periodo meno prospero tra le due guerre, andare in un albergo per il tè era fuori discussione e a quell’epoca i caffè erano pochi e i ristoranti meno ancora; un pranzo occasionale con buon cibo e buon vino, magari con vista sul mare, non era neppure immaginabile. Si era già fortunati se si trovavano gabinetti pubblici nei luoghi dei pic nic. Comunque, si poteva star certi che sempre o quasi si sarebbe reperita l’acqua calda per il pentolino del tè degli adulti (per i bambini la bevanda di solito era una bibita alla frutta). Gli empori reclamizzavano l’offerta di acqua calda e – in assenza di un emporio – qualche volta un residente ospitale rispondeva a chi bussava alla porta della cucina. I bambini, se
andava bene, ricevevano un mestolo di gelato su un cono e il cane di casa, se l’avevano portato, a volte si vedeva servire una porzione da un soldo dello stesso. Se, anziché spingersi lungo la costa, si andava nell’interno alla ricerca della tranquillità del bush, con ogni probabilità si doveva far bollire da sé il pentolino del tè, soprattutto se si era programmato un chop pic-nic, un’usanza prettamente australiana, l’antesignano del barbecue e il discendente dello sticker-up descritto a inizio Ottocento da Louisa Meredith: pezzi di carne (nel suo resoconto era di canguro) infilati su uno spiedo di legno che veniva conficcato nel terreno accanto (ma sottovento) alle braci ardenti. Il chop pic-nic era una faccenda primitiva: si raccoglievano rami secchi, si accendeva un fuoco, si aspettava che le fiamme si fossero esaurite e quindi si grigliavano i chops (braciole, in genere di agnello), qualche volta usando una griglia di metallo appoggiata su pietre ma altre volte infilzandole in un grosso spiedo. Se le ceneri erano calde a sufficienza, si potevano anche arrostire delle patate. Quasi a sottolineare la “australianità” del pic nic, la parola è entrata nel vernacolo a indicare un’esperienza sgradevole, un compito arduo o un lavoro spiacevole: vuoi che scavi una fossa di tre metri? Sarà un pic nic. Ci sono espressioni colloquiali comuni come «popolare come una formica a un pic-nic» (per indicare qualcosa o qualcuno non gradito o indesiderato) o «quattro panini senza pic nic» (riferito a una persona che non è del tutto presente mentalmente); una variante di quest’ultima è «quattro braciole senza barbecue». Se anche gli australiani non hanno inventato il pic nic, di certo lo hanno fatto proprio e portato ben oltre la definizione originale: «una festa che comprende un’escursione in qualche località di campagna dove tutti partecipano a un pasto all’aperto». * Slow Food
Picnic a Natale
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LA SPERANZA DI UNA DONNA INDIANA
CAMICIE E POLO SOLIDAL COOP. PER AIUTARE CONCRETAMENTE IL SUD DEL MONDO. Non tutti nascono con la camicia. Una donna indiana, ad esempio, per unirsi in matrimonio deve avere una sufficiente disponibilità economica. Acquistando una camicia solidal fatta da lei, la aiuti a sposarsi, perché le doni 50 centesimi e, soprattutto, le assicuri un lavoro dignitoso, uno stipendio più giusto e un’assistenza sanitaria garantita. In cambio, hai una camicia di qualità, prodotta in puro cotone 100%, rifinita con cura, ad un prezzo "equo" anche per te. Quando scegli i prodotti tessili a marchio solidal Coop, contribuisci a far crescere nella società indiana un metodo di lavoro che rispetta i diritti dei lavoratori che partecipano all’intero processo produttivo, dalla semina alla raccolta, dalla tessitura alla confezione. La solidarietà è una bella dote: coltiviamola.
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PASSA DA QUESTA CAMICIA.
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SCRITTO&MANGIATO
L’insolita m ulla costa orientale dell’isola di Rügen, nel Mar Baltico, tra Saßnitz e Binz, per ordine di Adolf Hitler doveva sorgere un gigantesco stabilimento balneare dell’organizzazione nazionalsocialista per i lavoratori “Kraft durch Freude”. Progettato per 20 000 persone, divenne il più grande cantiere del Reich. Il rustico era terminato nel 1939. A conclusione non ci arrivò mai. Dopo la fine della guerra la Volksarmee, l’esercito della RDT, si insediò nell’edificio, che divenne con tutto il suo comprensorio zona militare. Su una chilometrica spiaggia bianca si affaccia un chilometrico edificio dalla struttura a pettine, servito da una linea ferroviaria. I treni, che avevano vagoni numerati, avrebbero dovuto recapitare i lavoratori del Reich ai loro alloggiamenti di vacanza. Dopo la caduta del Muro questo edificio, in parte mai finito, in parte bombardato, si presenta vuoto. Tranne che in un corto tratto. Nello spazio compreso tra due maniche di servizi, per un’altezza di tre piani, adesso si è insediato un albergo, aperto a un vario pubblico di bagnanti, curiosi, storici, studiosi e speculatori immobiliari. Sapevamo che avremmo alloggiato lì ed eravamo pronti quasi a tutto. Andavamo a Prora, così si chiama questo luogo, per un seminario sulla riconversione delle zone militari e sulle possibili prospettive di riutilizzazione di quell’imponente contenitore. Conoscevo l’isola dai quadri di Caspar David Friedrich e Prora dalle fotografie; e ci mettemmo in viaggio alla fine di luglio. Percorrevamo, sulla strada che da Berlino va a nord verso Rostock, una specie di pellegrinaggio attraverso i luoghi della vita del mio compagno di viaggio; Neustrelitz dove era nato e dove nel frattempo, cioè dalla dissoluzione dello stato della RDT, notava con disappunto la scomparsa dalla piazza principale della stele-monumento al Soldato russo; Stralsund, dove aveva servito la patria come marinaio della Volksarmee. Ma senza stare sulle navi, semplicemente accampati in un bosco, dove ogni mattina cominciava comunque al comando di «Tutti in coperta!», anche se in definitiva si trattava di uscire da una tenda. A quei tempi faceva il cuoco, mestiere che aveva anche imparato, nel bosco si occupava della cambusa, ma dalle descrizioni si deduceva che il materiale cucinabile a disposizione era poco e la fantasia in cucina corrispondente. Mi immaginavo che anche questa volta saremmo andati incontro a un luogo dove il tempo si fosse più volte fermato in epoche diverse, come se ci si trovasse di fronte a un fossile incluso in una formazione geologica a strati, una grande realizzazione degli anni Trenta, con un’atmosfera aleggiante tra il tragico e l’archeologico; una specie di posto da vacanze nordiche, dove per effetto di un’alchimia fantastica si sarebbe anche potuto rivivere il passato, rimasto incrostato alle pareti dell’edificio, alle
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di Fabrizia Morandi*
stanze con vista sulla lunghissima spiaggia bianca. Arrivammo alle sei di sera, ci fu assegnata una stanza e ci venne comunicato che avremmo dovuto subito scendere a cena se avevamo intenzione di trovare ancora qualcosa. Con un certo stupore rilevammo immediatamente che l’ultimo strato geologico della formazione di Prora, e il primo che incontravamo, questo albergo, conservava i caratteri tipici della geografia comportamentale della RDT, benché fosse stato di recente aperto. «Ci sono tanti ricordi in questa minestra» diceva il mio amico sollevando il cucchiaio da un bordo nerastro; e alla memoria venivano immediatamente richiamate le Tempo Linsen, lenticchie pronte in scatola che cuocevano a tempo
record, un pilastro della cucina dell’epoca; si sa, la velocità era un dato fondamentale. A queste seguiva un perfetto Rindergoulasch, con «contorno riempiente» (Sättigungsbeilage) di verdure conservate miste; le pietanze che ci arrivavano sul tavolo sembravano irrorate con una pompa che distribuisse su tutto la stessa salsa. Come una perla nella sua conchiglia, la cucina originale, autentica, il gusto perso o dimenticato si risvegliava sull’isola di Rügen, dalle finestre di Prora, un luogo di cui ci si domanda che cosa fare, memoria vivente di un passato liquidato. Lì ancora si poteva bere birra Radeberger Luxusqualität su Rollmops in Gewürzaufguss (pesci in composta speziata), Gewürzgurke (cetrioli conservati), Rosenkohl (cavolini di Bruxelles), Rotkohl geschnitten (cavolo rosso tagliato) o una bella Mischgemüsemischung (misto di tutte le verdure precedenti più piselli e carote). Ci guardavamo incantati: era una collezione di ricordi che ciascuno di noi conservava nella sua memoria, che qui, proprio come accade in un museo, si ritrovavano. Tutto quanto di inquietante e nazista ancora ci potesse essere era neutralizzato da questo cibo che rievocava altri ideali e alimentava differenti ideologie, che si faceva largo nel nostro stomaco proiettando sapori definitivamente perduti. Insomma, tutto il perduto era di nuovo ritrovato. Dalle finestre del fossile nazista trasformato in hotel della gastronomia interattiva, si sprigionavano i perduti effluvi del perduto stato della Deutsche Demokratische Republik.
Se i Volks Eigenes Kombinatsbetriebe si nascondessero ancora in cantina era una domanda che non osavamo porci. Ritornam-mo a Berlino il giorno seguente e al momento del congedo ricevetti in regalo un’anguilla affumicata che il mio amico aveva comprato di nascosto in un chiosco di pesci secchi. Poco tempo dopo, quando ormai le conseguenze psicofisiche dei pranzi di Prora erano quasi dimenticate, capitai al D e u t s c h e Historische Museum, a Berlino, dove con grande divertimento mi imbattei nel Kost the Ost (assaggia l’Est), un gioco di carte con cui si gioca a Quartett. Das EtikettenQuartett, bei dem sie immer gute Karten haben; si fa quartetto usando le etichette degli imballaggi dei prodotti RDT, con gli alcolici (Spirituosen) e le bevande gasate (Brause), con le carni (Fleischwaren) e i formaggi, con le marmellate Frankfurter e gli sciroppi di frutta; tutti prodotti dove l’etichetta non mente. In tempi di virtualità è accettabile conservare la memoria del cibo nel gioco delle carte, oppure andare a Prora, arca del gusto RDT per la vacanza in senso lato, e museo vivente della sua “liquidata”gastronomia. * Slow Food
eramente non si può affermare che l’arte moderna del gelatiere siciliano sia pari all’antica in ghiottoneria ed in estetica; può bensì ricordarsi che quella era mirabile». A essere convinto di ciò era, quasi un secolo fa, il folclorista palermitano Giuseppe Pitrè, autore di una monumentale Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane, in 25 volumi pubblicati dal 1870 al 1913. Nell’ultimo di questi tomi, a rafforzare la sua tesi sulla superiorità artistica dei gelatieri siciliani di un tempo, Pitrè riporta il racconto del viaggiatore scozzese Patrick Brydone che, invitato nel giugno del 1770 a un pranzo offerto dalla nobiltà al vescovo di Girgenti (Agrigento), descrive in una lettera gli «svariati sorbetti che vi figurarono in così perfette pesche, fichi, arance, nocciole». Una somiglianza con i frutti tale da trarre in inganno chi non fosse stato abituato ai gelati. Proprio come accadde a Brydone che, presa per naturale una bella e grossa pesca «tagliatala in mezzo e portatane metà alla bocca, prima ne rimase scosso, e come per allargare lo spazio gonfiò le gote». Ma il freddo era così violento che «la rigettò disperatamente sul piatto bestemmiando
come un turco ed imprecando al servitore, dal quale si credette burlato come se egli avesse profferto per il bel frutto una palla di neve dipinta». Nelle cronache dei viaggiatori stranieri che vanno alla “scoperta” della Sicilia nella seconda metà del Settecento, si accenna spesso al grande consumo di zucchero utilizzato per la preparazione di dolci e gelati presenti sulle sfarzose tavole della nobiltà. Alcune ricche famiglie blasonate avevano poi saldamente in mano il commercio della neve divenuto più remunerativo a partire dal XVIII secolo. Già da tempo si faceva largo uso del ghiaccio ricavato dalle neviere dell’isola, mescolandolo a sciroppi per la realizzazione dei rinfrescanti sorbetti. Riportando le sue impressioni dopo un viaggio a Palermo, nel 1765 il francese Roland de La Platière scrive: «Si consumano molti sorbetti. Migliori e il doppio più forti di quelli di Parigi, non costano che un mezzo carlino». E sì che a Parigi il gelato siciliano aveva avuto la sua consacrazione grazie a un personaggio leggendario: Francesco Procopio Cultelli, secondo alcuni palermitano, secondo altri nativo di Acitrezza. Nell’interessante Scienza e tecnologia del gelato artigianale, Luca Caviezel (fami-
glia di dolcieri di origine svizzera in attività a Catania dal 1914) afferma che Cultelli «aveva ottenuto risultati strepitosi avendo scoperto due nuovi elementi che erano determinanti per migliorare la composizione e la preparazione del gelato: lo zucchero, da utilizzare al posto del miele, così come avevano fatto gli Arabi, ed il sale, da mescolare al ghiaccio per farlo durare di più. Parigi gli spalancò le braccia ed egli aprì nel 1686 un ritrovo al quale diede il proprio nome, il Café Procope (…) che offriva ai parigini una grande scelta di prodotti: acque gelate, cioè la granita dei nostri giorni, gelati di frutta, fiori d’anice, fiori di cannella, frangipane, gelato al succo di limone, gelato al succo d’arancio, crema gelato, sorbetto di fragola». Quel caffè sarebbe diventato nei secoli a venire un celebre ritrovo letterario frequentato da personaggi famosi. O, più semplicemente, un «tempio del sorbetto arabo-siculo» come lo definisce ne Il piacere della gola Folco Portinari, aggiungendo: «Ogni volta che sbarco a Parigi vado a rendere omaggio a Procopio Cultelli, in rue Fossés-Saint Germain del Près, ora rue de l’Ancienne Comédie». Come sa bene chi si è cimentato con
TUTTI IN COPERTA, DICEVA IL CUOCO, ANCHE SE SI TRATTAVA SOLTANTO DI USCIRE DALLA TENDA. STORIE DELL’ISOLA DI RUEGEN, NEL MAR BALTICO
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Sorbetti forti di Carmelo Maiorca* LA SCOPERTA DELLA SICILIA NEL SETTECENTO E QUEL GRAN CONSUMO DI ZUCCHERO UTILIZZATO PER LA PREPARAZIONE DI DOLCI E GELATI PER LE TAVOLE DEI NOBILI
l’argomento, delineare una storia del gelato così come lo conosciamo oggi non è semplice dovendo fare i conti con discordanze di date, luoghi, termini e personaggi. Sembrerebbe assodato che sin da epoche remote vari popoli fossero soliti refrigerare alcune sostanze dolci, utilizzando in particolare la neve. Ad esempio i Romani, i quali chiamavano sorbitium le bevande aromatiche rinfrescate con la neve, e gli Arabi, che avrebbero semplicemente mutuato il termine latino sorbitium in shurbaij per indicare acque dolci e aromatiche rinfrescate con la neve. Cosa comunque diversa dal sorbetto inteso come prototipo del più moderno gelato, nome derivante – secondo altre interpretazioni – da etimo arabo: scherbet (dolce neve) oppure sharber (sorbire); da cui anche la voce scherbetldy con cui era chiamato il ciambellano gelatiere dei califfi. Bisogna comunque dire che è solo una suggestiva ipotesi quella di far risalire agli Arabi di Sicilia la scoperta del sistema per congelare succhi di frutta e liquidi aromatici mediante una miscela di neve e sale, al fine di abbassare il grado termico al di sotto dello zero. Quale che sia l’incerta primogenitu-
ra, la lavorazione del ghiaccio tritato con l’aggiunta di sale o salnitro in proporzioni differenti fu per diversi secoli l’unico sistema per realizzare il freddo artificiale. Sopra il ghiaccio frantumato e cosparso di sale, posto sul fondo di un mastello di legno, veniva appoggiato un cilindro di metallo della capacità di circa 5 litri, riempito non interamente di succo di limone (o altro), zucchero e acqua. Ancora ghiaccio col sale era aggiunto fino a colmare lo spazio rimasto tra il contenitore e le pareti del mastello. Chiuso da un coperchio munito di maniglione, il recipiente cilindrico era fatto ruotare manualmente fino alla gelatura del contenuto. Un’operazione lunga e complessa che lasciamo alla descrizione data da Francesco Alliata di Salaparuta nel suo scritto Nascita ed evoluzione del gelato: «Ci si fermava, si toglieva il coperchio e con l’estremità a raschino del cucchiaione in rame si staccava quello strato di miscela (da 3 a 5 millimetri) che si era andato congelando sulle pareti del cilindro; questo galleggiava nella massa ancora liquida della miscela contribuendo ancor più al suo raffreddamento. Si richiudeva quindi nuovamente, si riprendeva la rotazione e, dopo altri vari minuti, si riapriva e si
tornava a raschiare le pareti. Così si continuava per varie volte fino a che si formava la massa uniforme di saporita granita a scagliette o di pastoso sorbetto o soffice gelato». Era questa la prima macchina del gelato, l’originaria sorbettiera che «Da quelle nevi di gran sale asperse/Mille e mille diverse dolcezze entro concepe» per dirla con qualche verso della lunga ode a essa dedicata, nei primi del Settecento, dal letterato e scienziato galileiano Lorenzo Magalotti. Meritoriamente presente tra le voci dell’Encyclopédie, il gelato è arrivato ai giorni nostri attraverso un lungo percorso che è anche quello dell’avvento dell’energia elettrica, del ghiaccio artificiale e poi della costruzione degli impianti frigoriferi e dell’invenzione del freddo artificiale, con la conseguente nascita dei gelati industriali, degli ice creams e del loro enorme consumo in tutto il mondo. Certo fa un po’ tristezza che il glorioso sorbetto, caratteristico prodotto artigianale, sia stato dai più trasformato in un comune gelato all’aroma di frutta con base di latte in polvere. Ma questa, davvero, è proprio un’altra storia. * Slow Food
SCRITTO&MANGIATO
ll’ultimo Salone del libro di Torino abbiamo incontrato George Ritzer, invitato da Slow Food a presentare il volume La globalizzazione del Nulla, edito dalla casa editrice di Slow Food nella collana Terra Madre.
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Nel suo libro, “Il mondo alla McDonald’s” (Il Mulino), la multinazionale dell’hamburger è l’emblema della società seriale, di una globalizzazione che preordina, controlla e uniforma i consumi in ogni parte del mondo. Un libro molto apprezzato dai movimenti altermondialisti, che hanno ripetutamente preso di mira il colosso nordamericano. Oggi che la grande catena perde clienti proprio negli Stati uniti, c’è forse un’inversione di tendenza nel modello dei consumi? «C’è senz’altro una maggiore consapevolezza, ma non è cambiato molto. Il logo ha dovuto affrontare una crisi che forse prelude al declino – in Gran Bretagna ha chiuso 25 ristoranti e negli Stati uniti deve far fronte a un’accanita concorrenza – , ma altre catene americane come Starbucks stanno riempiendo gli spazi. Pur con scenari diversi, il modello si sviluppa anche fuori dagli Usa e viene poi esportato di nuovo da noi. È il caso del pollo Campero del Guatemala, una catena che si è sviluppata prima in America latina e che ha iniziato a spopolare anche negli Usa. La tendenza è ancora più forte del passato. C’è stato un movimento di opposizione a livello mondiale e McDonald’s è diventato uno dei simboli dell’americanizzazione del mondo. Gli attivisti, però, non hanno capito che il vero problema non è tanto la singola multinazionale, quanto il processo, i principi e il sistema che a questo si riferiscono, un modello imitato persino da aziende locali. Capitalismo, mcdonaldizzazione, americanizzazione, sono i tre motori della “globalizzazione del nulla” presa in esame nel volume. In quale filone teorico s’inscrive la sua analisi? « Come punto di partenza, definisco globalizzazione quell’insieme di rapporti e modalità che indicano l’espansione su scala mondiale di una forma di organizzazione sociale e di una coscienza comune. Il riferimento è a Marx e a Weber: all’idea marxiana che le aziende siano spinte a ottenere un profitto sempre maggiore mediante un crescente comportamento imperialistico; e al Weber che individua la tendenza alla razionalizzazione come elemento della società moderna. Per definire la necessità espansionistica ed egemonica dei grandi gruppi e delle nazioni, impiego il termine di “grobalization”, grobalizzazione, una parola composta da “growth”, crescita....... Un concetto che affianca e integra quello di “glocalizzazione” – l’articolazione tra locale e globale – coniato da Robertson. Ritengo che nel continuum del mondo globalizzato agisca l’opposizione binaria tra il Nulla - inteso in senso sociologico, e cioè un artefatto, una costruzione sociale indistinta e priva di sostanza – e il Qualcosa – strettamente legato all’u-
nicità, controllato localmente e ricco di sostanza distintiva. Può fare un esempio?
«E’ Nulla un supermercato (un nonluogo nella terminologia di Marc Augé), una catena alimentare concepita e controllata centralmente in cui il cibo è dappertutto insapore, manca di contenuto distintivo. E’ Qualcosa il prodotto coltivato localmente dal contadino. Nel Nulla agiscono, in quanto venditori o acquirenti, individui ridotti a nonpersone, deprivate del tempo e di legame sociale qualificato. Nel Qualcosa, avviene il contrario.
Chi è Ritzer
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ne – e della “grobalizzazione” in particolare – è che queste aziende vogliono imporre le proprie modalità nella realtà locale e la “glocalizzazione” di per sé non è la risposta a questo tentativo. La risposta sta più in questo binomio Qualcosa-Nulla, nella glocalizzazione del Qualcosa: un elemento progettato e gestito localmente e molto specifico, molto caratterizzato, che non interessa le grandi aziende globalizzate perchè non le aiuta nel progetto di espansione e profitto. Se la glocalizzazione è autentica, non può essere esportata senza che perda la propria specificità: la soluzione adatta a un determinato contesto cultu-
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eorge Ritzer, sociologo nordamericano, insegna all’Università del Mar yland, negli Stati uniti. Nei suoi numerosi volumi, indaga soprattutto la dinamica dei consumi nella società capitalistica, e si rivolge a un pubblico non accademico. La religione dei consumi e Il mondo alla McDonald’s sono stati pubblicati in Italia da Il Mulino. La globalizzazione del Nulla, che analizza i meccanismi della globalizzazione capitalistica attraverso l’opposizione Qualcosa-Nulla e la categoria di “grocalization”, compare invece presso l’editore Slow Food, nella collana Terra Madre.
ve, è molto vicina a quel che io definisco il Qualcosa. Baudrillard ha parlato di scambio simbolico in opposizione a una società moderna inautentica e simulata. Questo corpus di idee sullo scambio e lo scambio simbolico è quanto di più lontano dal concetto di Nulla e di più prossimo invece al Qualcosa. Il qualcosa si definisce tale perchè è progettato, governato e controllato localmente ed è ricco di contenuto caratterizzante e distintivo. E dunque, il Venezuela e molti luoghi dell’America latina come la Bolivia che hanno avviato un processo di nazionalizzazione, di riappropriazione e di controllo locale sul proprio destino – un percorso di antiglobalizzazione e anticapitalismo – sono certamente nell’ambito del Qualcosa. Si rifiuta il Nulla, lei dice, quando si percepisce la perdita. Ma se per quanto riguarda il Nord del pianeta si tratta di percepire la perdita di senso, per il Sud la perdita è in termini di beni primari: perdita di sopravvivenza concreta per mancanza di cibo, di energia. Il Qualcosa, allora, è anche il conflitto contro il Nulla? « Quando ci si trova con le spalle al
Il superm del nulla Il mercato nella forma neoliberista sta dominando il pianeta. Non crede che, pur nelle migliori intenzioni, forme di globalizzazione che cerchino di coniugare il locale al globale possano costituire solo un Nulla meno connotato? « Il socialismo, pur con i suoi molti errori, ha costituito un forte argine al dilagare del capitalismo. Alla sua scomparsa, negli anni ’90 ha preso corpo una sorta di epopea delle grandi multinazionali. Oggi, il capitalismo è libero di sfruttare il globo a suo piacimento. E le multinazionali sono disposte ad adottare qualunque modello purché le aiuti a massimizzare i profitti. Se bisogna utilizzare realtà locali, per loro va benissimo. Lo stesso McDonald’s si è adattato alle realtà locali, ha inserito nei propri menù due o tre prodotti del posto. Il problema principale della globalizzazio-
rale non funziona in un altro. E se non è adattabile, non permette a queste aziende di modulare un’economia di scala. E quindi la risposta alle grandi multinazionali è proprio questa: la glocalizzazione del Qualcosa, difficile da controllare ai fini del profitto. Fra gli elementi costitutivi del Qualcosa, potremmo aggiungere anche la gratuità, il dono come pratica comunitaria e di scambio utilizzata ancora da certe popolazioni del Latino-america? E in questo caso, non sarebbe il Qualcosa un embrione di quell’Alba – l’alternativa bolivariana al neoliberismo – che il presidente Chavez considera un passo nella costruzione del socialismo del XXI secolo? « Effettivamente l’idea di dono e di scambio esistente nelle società primiti-
muro, si può essere obbligati a lottare. La speranza di un cambiamento globale è che ci sia una crisi, economica o ambientale... Per capire il gran potere del Nulla, però, nel mio libro parlo di un altro tipo di rivolta e di motivazioni ambivalenti, riferite, soprattutto, all’”incanto” del benessere occidentale. Ci sono quelli che, non avendo la possibilità di comprarsi la borsa di Gucci e nemmeno di andare al McDonald’s, devono industriarsi con quello che hanno, cucinarsi i pasti in casa propria e con i prodotti locali. E magari non vedono l’ora di abbandonare il Qualcosa per il Nulla. Molti desiderano fortemente accedere alla vetrina e agli oggetti del Nulla, quindi c’è la possibilità che combattano proprio per il loro desiderio del Nulla, piuttosto che per necessità. Il Nulla è un perpetuo gioco di falsi bisogni indotti e risposte: più c’è
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di Geraldina Colotti MCDONALDIZZAZIONE, AMERICANIZZAZIONE, UN’ANALISI DELLE MULTINAZIONALI E DEI LORO PRINCIPI. PARLA IL SOCIOLOGO GEORGE RITZER
mercato del Nulla e più se ne vorrebbe. E non c’è tempo per pensare all’oscenità di questo sistema e di rivoltarsi. Comunque, visto che ci stiamo rivolgendo a un pubblico di orientamento marxista, si potrebbe dire qualcosa di più. Che cosa? « Bisogna tener conto che ormai la focale non è più solo sulla produzione, ma si è spostata sul consumo: il punto nodale del mondo moderno e sviluppato è che la produzione resta sì determinante, ma è concepita in modo che il Terzo mondo sia un produttore del Nulla, e il mondo sviluppato un consumatore del Nulla. Una sinistra che si ponga il problema dell’alternativa deve comprendere il potenziale antirivoluzionario del meccanismo del consumo, altrimenti si rischia di procedere come su un tapis roulant, tutto un rincorrersi senza costrutto. Va invece analizzata la sindrome del lavoro per spendere. Alcuni studiosi americani sostengono che sarebbe veramente rivoluzionario lavorare meno per spendere sempre meno. Bisogna anche capire gli andamenti mondiali. Prendiamo il caso della Cina, è un continente in tensione continua per acquisire questo Nulla. E così accade in molte altre realtà, soprattutto dell’Emisfero boreale. Diventa un ambiente difficile, questo, per una rivoluzione sociale. La situazione dei paesi
produttori è più interessante, non a caso i fermenti vengono principalmente dal Sud del mondo, ma nella vita di chi sta in Occidente, si lavora per poter consumare. E quando i soldi non ci sono, ecco le carte di credito... «Dieci anni fa ho scritto un libro che si chiama “Expressing America”, una critica alla “società delle carte di credito”. Allora non erano così diffuse e utilizzate come ora, la discussione che andava per la maggiore era se avrebbero avuto o meno successo in Europa... Uno dei compiti delle carte di credito è di aiutare chi non ha denaro a consumare comunque. Per questo hanno un ruolo fondamentale, ma ancora poco indagato, nel capitalismo, sono diventate la sua droga: perché non solo permettono di indebitarsi con enorme facilità, ma aumentano le disponibilità monetarie del sistema. Nel suo libro “La religione dei consumi” (Il Mulino) lei accenna a una specie di incanto, di magia che emana dagli oggetti e spinge a consumarli. Che ruolo ha l’informazione seriale, la costruzione di falsa coscienza nella sua analisi? «In quel libro riprendo alcuni concetti espressi da Marx nel terzo volume del Capitale a proposito di consumo e
mezzi di produzione, e cerco di arricchire quell’analisi che non mi ha pienamente soddisfatto. Dico che i mezzi del consumo sono attualmente pervasi da un artificiale e artificioso senso di incanto che ci spinge a consumare. Vogliamo ritrovare negli oggetti la magia che sembrano trasmettere e che ci fa correre verso le cattedrali del consumo: centri commerciali, casino. Las Vegas è un perfetto esempio di magia simulata, un mondo del Nulla ammantato di un qualcosa di magico per sedurre il consumatore. L’ideologia e l’informazione che la propone hanno un ruolo fortissimo perché giocano a far sembrare il Nulla un Qualcosa. Il rapporto di fascinazione riguarda anche le armi. Nel gioco di magia simulata la guerra diventa virtuale, l’altro-nemico è ridotto a demone disincarnato. E nel frattempo avvengono i massacri. Come situa questo tema nella sua analisi? «Storicamente, quando c’erano generali e monarchi, rispetto alla mia terminologia, la guerra era Qualcosa: perché c’erano nemici reali, un esercito che si confrontava a viso aperto e nel corpo a corpo le persone si ammazzavano l’una con l’altra. Invece oggi la guerra, soprattutto nelle modalità che si stanno diffondendo negli Stati uniti, in Gran Bretagna e in altri paesi che si dedicano
a queste pratiche, si sta trasferendo sempre più verso l’ambito del Nulla. Ci sono missili che vengono lanciati da navi che stanno a migliaia di chilometri e che vengono controllati da computer pilotati da aerei e via dicendo. Nei termini della mia definizione di Nulla, si tratta di una guerra che è concepita centralmente, controllata centralmente e manca di specificità: diventa quindi una specie di video game, tanto più che i morti non sono visibili. E questo rende più facile uccidere e spinge sempre più questa guerra nell’ambito del Nulla. L’uccidere è sempre più vicino al Nulla rispetto al Qualcosa. Come sono cambiati i consumi negli Stati uniti dopo l’11 settembre? «L’attacco alle Due Torri, non era solo rivolto contro l’esportazione delle politiche americane e della “democrazia” in Afghanistan e in Iraq, ma era diretto anche contro il simbolo dell’economia di consumo di stampo americano e la sua globalizzazione. La reazione iniziale, a caldo, un paio di giorni dopo l’evento, sia da parte di Bush che dell’allora sindaco di New York Rudy Giuliani è stata quella di moltiplicare gli inviti a consumare: temevano che, per paura, la popolazione comprasse di meno. E’ una prova della centralità della pratica dei consumi nell’economia dell’America, dell’Europa e del Giappone
di Geraldina Colotti CUCINA IN NERO E UN PO’ CRIMINALE, LIBRI PER TE E DEL TÈ. VIAGGIO TRA CIBI DAI COLORI ACCESI DA SCENA DI CACCIA DA QUADRO FIAMMINGO
a libreria spagnola Negra y Criminal di Montse Clavé vende libri noir per tutti i palati. Nel retro, c’è una piccola cucina, e tutti i sabati a partire dall’una si possono gustare cozze e bere vino. Un invito al delitto gastronomico, ma senza arsenico, assicura Clavé, autrice del Manuale pratico di cucina noir &criminale, edito da Guido Tommasi. Una raccolta di ricette accostate a un grappolo di celebri noir: da George Simenon a Jean-Claude Izzo, da Manuel Vazquez Montalban a Fred Vargas. Al romanzo La morte non sa leggere, della scrittrice inglese Ruth Rendell, è accompagnata una ricetta a base di tè all’inglese. Mentre fra le pagine la protagonista Eunice, che si vergogna di essere analfabeta s’involve sempre di più nelle sue menzogne, si preparano i crackers al Darjeeling, un tè proveniente dal Bengala occidentale, in India. Per saperne di più sulla fragranza del tè e su tutte le sue proprietà, si può ricorrere al volumetto Tutti i tipi di tè, di Francesco e Giamila Gesualdi, edito da Sonda e Ctm altromercato. Ci sono i tè africani, quelli del Sudamerica, della Cina. La cina è stato il primo paese a utilizzare foglie e rametti per preparare l’infuso come bevanda. La leggenda narra che nel 2737 a.C., l’imperatore Chen Nung dopo aver ordinato alla servitù di bollire l’acqua delle cucine, si sedette sotto un albero per sorvegliare i lavori. Alcune foglie caddero allora in un recipiente d’acqua calda e così fu che l’ignaro imperatore bevve “il primo tè della storia”, lo trovò buono e persino afrodisiaco. Il volume offre per ogni aroma un excursus storico e un’analisi delle condizioni di lavoro in cui si raccolgono le foglioline. A fine libro, tante buone ricette per comprendere come mai Lu T’ung, poeta e discepolo di Lu Yu, autore del Canone del tè, abbia potuto esclamare: “Non mi interessa l’immortalità, amo soltanto il gusto del tè”. Scorrendo ancora fra le pagine del ricettario noir, gli amanti del delitto, potranno invece scegliere un “riso a banda con segreto”, ispirato alla vita e al racconto “Cieco con la pistola” di Chester Himes. A 19 anni, Chester va in prigione per quasi dieci anni: il tempo di scoprire in biblioteca i libri di Dashiell Hammett e descrivere magistralmente il ghetto nero di Harlem degli anni Quaranta. Fra gli ingredienti richiesti per la ricetta noir, il riso è fondamentale. Indicazioni per scegliere quello giusto, vengono sempre dall’accoppiata editoriale Sonda e Cmt e dalla penna di Laura Rangoni, che nel volume Cucine cinesi – ci sono almeno 4 tipi di cucina cinese – lo cucina in tutte le salse. E per condire, alcuni proverbi cinesi: “le chiacchiere non cuociono il riso”, dice il saggio. E ancora: “non si viene colpiti dal fulmine mentre si mangia riso”. Ma se l’ambientazione del retrobottega letterario non vi basta e cercate qualcosa di più realistico, tanto vale dirigersi direttamente al gabbio. Lì, “15 autori pri-
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NOIR gionieri” nel carcere di Sollicciano, sollecitati da un laboratorio di scrittura, hanno scritto un libro di racconti, Se siete arrivati fin qua, a cura di Enzo Fileno Carabba e Paola Nobili (Le Lettere). Racconti ispirati al “fuori”, magari al ricordo di un pranzo luculliano dopo una scorribanda da bracconiere nelle campagne siciliane. “Un fucile non fa rumore” di Nino Navarria è una storia dagli accenti verghiani che parla di un uomo e del suo cane. Il cibo ha i colori accesi di una scena di caccia in un quadro fiammingo. E sembra di vederlo quel piatto enorme di “tagliarini” al sugo rosso di coniglio e di sentire il profumo della “salsa di pomodoro fresco”... Anche Daniela de Robert, giornalista, e da vent’anni volontaria nel carcere romano di Rebibbia, ha consegnato alle pagine “frammenti di vita prigioniera” in una raccolta di racconti dal titolo Sembrano proprio come noi, edita da Bollati Boringhieri. Nel carcere, sempre più simile a un lazzaretto o a una discarica sociale, si trova anche Tito G., minorato mentale, detenuto da “talmente tanti
anni da non ricordarne più il motivo”. Per lui, “il salto nella vita – racconta l’autrice – è stato con il pranzo di Natale, organizzato dai volontari per tutti i 300 detenuti”. Su una lunga tavolata coperta da tovaglie rosse e piatti colorati, benché di plastica come le forchette, si è svolto un pranzo vero: dall’antipasto al dolce, e persino due dita di spumante per brindare. I più fortunati, un pranzo vero con i sapori di casa possono permetterselo se i familiari, ogni settimana, portano al carcere il pacco con i viveri consentiti. Con pudore e in punta di penna, la giornalista descrive la solitudine e l’attesa di chi invece non ha nessuno che lo segua dall’esterno. Racconta i piccoli gesti del volontario che consolano il vuoto delle lunghe giornate. Nonostante gli insondabili divieti che impediscono l’entrata di alcuni alimenti o ne proibiscono l’uso all’improvviso, il cibo resta uno dei principali elementi di socializzazione in carcere. Un’occasione per stimolare l’inventiva. E allora ci s’ingegna per “fare la pasta con la ricotta senza avere la ricotta, la pizza senza il lievito di birra, il ciam-
bellone senza uova crude e senza forno”. Gli chef del gabbio cambiano, ma la tradizione si tramanda e la fantasia sempre si rinnova. Così a mo’ di lievito si usa l’idrolitina e un po’ di citrato, al posto delle uova fresche che in alcune carceri sono vietate, si prendono le uova sode (magari fornite dalla cucina). E per fare la ricotta – spiega De Robert – si scioglie il rosso in un po’ di latte tiepido, si aggiunge al latte un po’ di aceto bianco o di succo di limone oppure si mescola il latte che bolle con un ramo di fico tagliato in modo da farne uscire il lattice. Se manca la farina, “si mette a mollo la pasta cruda per una notte intera, poi si scola e la si schiaccia nello scolapasta con la macchinetta del caffè”. L’impasto cremoso sostituirà la farina.... Alla cucina di De Robert – condita da un’agile scrittura e umana compassione - , manca solo la ricetta del fachiro autolesionista, a base di lame e pezzi di vetro: il pezzo forte con cui i ristretti nutrono a volte la propria disperazione. “Ogni grande festa – recita un proverbio cinese – ha la sua ultima portata”.
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