scritto & mangiato in collaborazione con Slow Food
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Supplemento al numero odierno de il manifesto
Economia e antropologia, come cucinarle pericolosamente insieme. A Torino dal 25 al 30 ottobre ci proveranno in almeno 5000. Per una nuova idea di agricoltura e di cibo giusto sui nostri piatti
OTTOBRE 2006
Una cosa è parlare di natura.
Un’altra, rispettarla.
Per questo siamo costantemente impegnati a sviluppare progetti per limitare il consumo dell’acqua, ridurre il rilascio di anidride carbonica e utilizzare materiali riciclabili per i nostri imballaggi.
Perché c’è una grande differenza tra fare e saper fare. 800-862323
Scegli un mondo genuino.
scritto & mangiato
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in collaborazione con Slow Food
Direttore responsabile Sandro Medici Direttore Mariuccia Ciotta Gabriele Polo Supplemento a cura di Francesco Paternò Grafica Daria Sorrentino Illustrazione di copertina Laura Federici Pubblicità concessionaria esclusiva Poster srl tel. 06/68896911 fax 06/68308332 Stampa Sigraf srl Via Vailate, 14 Calvenzano (Bg) Chiuso in redazione il 10/10/2006
Cosa c’entra un movimento di gastronomi con gli allevatori di renne rischi di omologazione che un mercato globalizzato comporta. A svedesi è un piccolo mistero che proveremo a spiegarvi nelle pagine Torino nomi noti e nomi sconosciuti tra gli chef mondiali, tra i seconche seguono. PerchÊ questo numero di Scritto&Mangiato, il trimestra- di Doùa HaydÊe dal Nicaragua, Chantal Dangnon Dannon dal Benin le che il manifesto cucina insieme ai nostri amici esperti di Slow Food, o Hamid Maysoon dall’Iraq accanto a personaggi famosi come Ferran si occuperà prevalentemente di un appuntamento dal gusto esclusivo. Adrià , Gualtiero Marchesi, Eckart Wintzigman e Alain Ducasse. Si chiama Terra Madre, mescola circa 1600 ingredienti - leggasi comu- Ai professori universitari, invitati a Terra Madre in quanto scienza uffinità del cibo - provenienti da 150 paesi del mondo. L’incontro si svol- ciale, si chiederà invece di aprire le porte delle università verso l’estergerà a fianco di un altro evento, il Salone del Gusto organizzato sempre no, per mettere a disposizione le proprie conoscenze e accogliere i da Slow Food a mo’ di arca, dove salvare quel che c’è da salvare nei saperi tradizionali, riconoscendo loro pari dignità . I temi principali dell’incontro saranno nostri piatti, nelle nostre campagne, 1) la creazione di una rete fra le comunelle nostre culture alimentari. Fin qui nità , i cuochi e le università , 2) l’agroil programma ufficiale. Poi bisognerà DI FRANCESCO PATERNÒ ecologia, ovvero quell’agricoltura trovare le parole per dire che ci fanno rispettosa dell’ecosistema e alla base di con i contadini giapponesi di kaki essiccato mille cuochi e diversi docenti di 200 università del mondo, in una produzione alimentare di qualità , 3) l’accesso al mercato per i che lingua dialogheranno tra di loro avendo a disposizione - ed è la piccoli produttori artigianali di tutto il mondo di fronte alla preponnotizia - una sola voce per rivendicare insieme cosine tipo terreni ferti- derante concorrenza della produzione e distribuzione agro-alimentali, mari puliti, acqua a sufficienza, un commercio equo e la libera cir- re di massa. Insomma, un appuntamento da non mancare. E se a Torino volete colazione di informazioni, saperi e prodotti. Ma se le comunità del cibo porteranno le loro esperienze - e scambiare andare, come dire, studiati, leggete le pagine a seguire piÚ doppio clic informazioni è una strada maestra per difendere il loro lavoro e la bio- su www.terramadre2006.org e su blog.terramadre2006.org. E il 25 diversità agro-alimentare - i cuochi sono stati convolti perchÊ prenda- ottobre, primo giorno, ci sarà anche il presidente della repubblica no consapevolezza della situazione dell’agricoltura nel mondo e dei Giorgio Napolitano.
Ingredienti a migliaia
5 I sovversivi di Franco Carlini 6 Il lungo viaggio di Alberto Capatti 7 Saperi lenti di Carlo Petrini 9 Veleni, bugie di Piero Bevilacqua 13 Lezioni africane di Ettore Tibaldi 14 L’ultima campagna di Wendell Berry 17 Maestro di vite di Giovanni Ruffa 19 Uova sporche Geraldina Colotti
2ITROVA LA STRADA DEL GUSTO -ETTI IN TAVOLA !LCE .ERO #ON I PRODOTTI BIOLOGICI !LCE .ERO NON PERDI MAI LA STRADA DEL GUSTO DELLA SICUREZZA E DELLA QUALITĂ? 0ERCHÂŁ PORTANO DRITTI AI NOSTRI CAMPI COLTIVATI SENZA PESTICIDI E SOSTANZE CHIMICHE
ALLE AZIENDE DEI NOSTRI SOCI AI NOSTRI STABILIMENTI
-ETTILI IN TAVOLA SONO BUONI E SONO ITALIANI
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Una cosa è parlare di trasparenza.
Un’altra, invitarvi a vederla.
Per questo ogni anno apriamo le porte delle nostre fornerie a nutrizionisti, giornalisti, associazioni di consumatori e scolaresche.
Perché c’è una grande differenza tra fare e saper fare. 800-862323
Scegli un mondo genuino.
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di Franco Carlini TERRA MADRE PONE PROBLEMI E ACCENDE CONFLITTI DI IDEE E DI INTERESSE. PRODUZIONE E CONSUMO ATTRAVERSO UNA LETTURA TOTALMENTE POLITICA
I sovversivi
roppo facile parlar bene di Slow Food, del Salone del Gusto e di Terra Madre, e del resto lo fanno in tanti perché il mondo del mangiare e del bere appare neutro, indiscutibile, gioioso, politicamente corretto. A tal punto che un ministro fascista per storia giovanile e per attuali comportamenti, cavalcò con qualche ruffianeria quelle iniziative, facendosene bello e sfrontato. E’ lo stesso Gianni Alemanno che oggi marcia per le strade di Roma con tassisti e farmacisti, a dimostrazione che molta politica non ha idee né principi che non siano quelli della conquista e gestione di un potere - probabilmente effimero. E del resto a chi non piace un cibo sano e gustoso, assaporato nel posto giusto, con le posate e i bicchieri adatti, e soprattutto prendendosi il tempo per farlo in compagnia? Non è forse la storia dell’umanità punteggiata di banchetti con cui comunità mediamente povere, celebravano comunque gli eventi della vita e del villaggio? E si divertivano e divertono assai più che al Billionaire? E non sono del resto centinaia le rubriche televisive e giornalistiche dedicate al cibo e al bere? Non è questo uno dei settori dove la pubblicità fiorisce abbondante, persino più dei gadget elettronici? E non è ormai insopportabile quel roteare di bicchieri e quelle annusata incompetenti che ognuno si sente ormai in dovere di esibire al cameriere che aspetta un po’ sornione, che gli si dica che sì, quel vino va bene e non sa di tappo? Insomma, il Salone del gusto 2006, appuntamento biennale in Torino Lingotto, e il secondo incontro di Terra Madre piacciono a tutti. Per esempio piacciono moltissimo alla presidente della provincia Mercedes Bresso e al sindaco Sergio Chiamparino che poi sarebbero gli stessi che nei mesi scorsi cercarono di sostenere, con scarsissimo successo, che la Tav era per il bene dell’Europa, dell’Italia e persino per la Val di Susa e che esibirono dichiarazioni muscolose al riguardo. Dunque c’è qualcosa che non funziona, o che non è stato capito: non è innocua, né innocente l’idea che il cibo possa e debba essere “Buono, pulito e giusto”, come dal titolo del libro di Carlo Petrini, presidente di Slow Food International. L’idea che il Mozambico sia meglio protetto e arricchito da chi ci vive e lo conosce, non vale solo per i poveri africani, ma anche per i ricchi valligiani delle nostre parti, magari correggendo gli svarioni e le villone accumulate nel passato ed evitando di raggiungere le baite in Suv, quando una Panda 4x4 lo fa benissimo. Terra Madre, incontro delle comunità del cibo di (quasi) tutto il mondo è ben descritta in un ottimo sito web, all’indirizzo www.terramadre2006.org e dunque non ci dilungheremo, se non per osservare che il marchio ha avuto un tale successo che subito qualcuno se ne è impadronito, registrando un sito chiamato www.terramadre.org, nonché un http://www.terramadre.it che commercializza prodotti siciliani, dalle melanzane al vino rosato; pazienza, segno del successo e dell’importanza del business alimentare. Il vero sito di Terra Madre, tra l’altro, ha adottato anche un ottimo blog (http://blog.terramadre2006.org), alimentato da corrispondenti e coordinatori della rete delle comunità. Può capitare certo che l’email di Linda Darema, rappresentante della Comunità dei pastori Barabaig della Tanzania arrivi molti giorni dopo, ma il motivo c’è: il posto internet più vicino è a centinaia di chilometri. L’idea di Slow Food-Terra madre pone dei problemi e accende dei sani conflitti di idee e di interessi. Qualcuno
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600 comunità del cibo provenienti da 5 continenti e 150 paesi, 5000 contadini, allevatori, pescatori e produttori artigianali, 1000 cuochi e 200 università: saranno tutti a Torino dal 25 al 30 ottobre, per scambiarsi esperienze e discutere proposte concrete per una nuova idea di agricoltura e per un cibo buono, giusto e pulito.La seconda edizione di Terra Madre – che si svolgerà presso l’Oval – è organizzata e finanziata dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, dalla Cooperazione Italiana allo SviluppoMinistero degli Affari Esteri, dalla Regione Piemonte, dal Comune di Torino e da Slow Tutti a Torino Food. Tra le comunità del cibo coinvolte, ci sono trenta tribù di nativi americani, un centinaio di comunità di pastori nomadi, più di venti rappresentanti del Giappone (dai produttori di kaki essiccato ai pescatori di hatahata del porto di Kitaura) e poi allevatori di renne (dalla Svezia), produttori di uvetta di Herat (dall’Afganistan), comunità di monaci (come quelli dell’Eremo dei Camaldoli di Nola, in Campania) o ancora, dall’India, i dabbawala, che ogni giorno consegnano circa 100 mila pasti agli impiegati di Bombay spostandosi con la bicicletta.
può essere accennato. Intanto ci ricorda che dietro quello che mettiamo in tavola c’è un’intera filiera che di solito non conosciamo e da cui dipende sia il suo costo, che la sua qualità. In questa filiera ognuno aggiunge valore, ma la gran parte degli utili non vanno né al produttore della materia prima, né alla cuoco/a eccellente che l’ha lavorata per noi, che si tratti di Mariangela Susigan della “Gardenia” di Caluso, o di Dangnon Dannon Chantal del ristorante “Maquis Chez Maman Melene” di Cotonou nel Benin. Vanno invece a intermediari, importatori, distributori. C’è dunque un problema di catena corta e di catena lunga. Quella corta, tradizionale, corrisponde al consumo fresco e nelle aree vicine alla produzione e garantisce la conoscenza e la qualità. E’ tipica dei paesi in via di sviluppo (portare i prodotti, a piedi o in bici, al mercato), ma questo significa che certi prodotti non avranno mai mercato al di là di poche centinaia di chilometri, anche quando pregiati e buonissimi. In questi casi si tratta di allungarla virtuosamente, ma con meccanismi di compensazione giu-
sti, appunto, e non iniqui. La rete solidale questo sta facendo, ma siamo appena agli inizi. E non si creda che riguardi solo i paesi poveri, anche in quelli ricchi come il nostro, è quasi impossibile a un produttore locale di qualità sia il fornire abbastanza prodotti per un mercato vasto che il distribuirli. Quando poi alcuni diventano famosi, dalla Robiola di Roccaverano al Bitto della Valtellina, fioriscono i taroccamenti e le piccole truffe. Secondo problema: la felicità, un termine e una questione assai di moda che è anche vissuto ampiamente nelle pagine del manifesto e che ritroviamo oggi anche nelle riflessioni di Carlo Petrini. Questa happiness è oggi materia scarsa, specialmente nei paesi ricchi. Lo stato della discussione e delle misure della felicità è stato descritto su Chips & Salsa il 3 agosto scorso (vedi: http://mobidig.blog.dada.net/permalink/272815.ht ml), ma il senso è presto detto: il reddito serve per saltar fuori dalla povertà estrema (ma è solo il primo passo, e si legga in proposito l’ultimo libro di Jeffrey Sachs, La fine della povertà, ora tradotto in italiano da Mondadori); quindi, al di sopra di quello, si cercherà un livello di vita decoroso e se possibile benestante, ma, da un certo punto in poi, lo “star bene” non dipende più dal reddito, ma da altri beni, più immateriali, quelli che ci fanno dire “felici della bella giornata trascorsa …”, come nei diari delle gite scolastiche. Sono beni di relazione, legati ai rapporti con gli altri, beni che non si possono acquistare con il denaro, ma solo costruire con gli altri che ci stanno. Sono favoriti da fattori ambientali, come un bosco verde anziché un green di plastica, come un vinello che sa di zolfo, anziché un wine bar di Trastevere. Ma tutto questo, a sua volta costa, ed è giusto che sia pagato il giusto: l’erba vera è più delicata di quella finta, in una vigna qualcuno è dovuto passare lavorando anche trenta volte, prima della vendemmia. In questi progetti dunque c’è un’idea sovversiva del modo di produrre e consumare, totalmente politica. In “Anna Karenina”, il possidente Konstantin Dmitrievich Lévin invidia la vita dei suoi contadini, vedendoli allegri mentre fanno il fieno e così, per un giorno, vorrà falciare anche lui, per sentirsi vivo. Non è questo lo spirito di Terra Madre, non è nostalgia del passato, ma ricerca della nuova modernità buona e giusta. G
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SCRITTO&MANGIATO
Il lungo origine di Terra Madre è complessa, come il nome che porta con le sue radici antiche, religiose e pagane, e i suoi rizomi estesi oggi a tutti i continenti. Dire che essa nasca a difesa della biodiversità piuttosto che contro l’ingegneria genetica, è incollare un’etichetta, isolarne un aspetto, mettendo in ombra quello più importante, costituito da uomini e donne, da comunità sulle quali incombe la minaccia della scomparsa. Terra Madre è un organismo vivente nel quale si associano le culture più lontane e diverse, in cui convergono progetti unici, accomunati oggi dal rischio di essere negati, estirpati. Per ciò stesso, non evoca un convegno, né un salone, né una festa, ma il confronto e l’associazione di forze umane, quotidianamente bisognose di contatti, di presenze complementari, di scambi di parole, di prodotti e di cibi. È una realtà in cui emergono quattro forze fondamentali: le comunità del cibo, i cuochi, la rete e, ultimo, Slow Food. La prima delle tre forze opera già da qualche anno: le comunità del cibo, composte da persone con attività diverse, appartenenti a ceti svariati, ma riunite da una condivisione degli stessi valori e degli stessi obbiettivi, sostanziati nel cibo creato, procurato e spartito. L’alimento è la ragion d’essere, base e legittimazione, principio e fine. Contadini, allevatori, quindi pescatori e apicoltori, sono alcuni dei soggetti irriducibili a un concetto unitario di produzione, quale invece reclama l’agroalimentare; sono i creatori delle singole basi della nutrizione, degli ingredienti
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di una terrestre cucina, nelle infinite varietà che il clima, la cultura, le religioni e gli appetiti impongono. La qualità che costoro rivendicano e offrono, reintegra, nel prodotto stesso, l’ambiente, la struttura sociale, la ritualità e il piacere. Convenuti nel 2004 a Torino, molti di essi non hanno cessato di cercare di comunicare, per ripetere, due anni dopo, il lungo viaggio. Alla partenza o all’arrivo, nel 2006, avranno la sorpresa di ritrovarsi vicini a cuoche, a cuochi e a professori. Dei primi, le società industriali avanzate hanno sempre scelto di privilegiare la testa, denominandoli, con riferimento al modello francese egemone, chefs. Essi sono i protagonisti, commedianti e registi della cucina; a Torino, per la prima volta saranno costretti a confrontarsi con tutte le figure dissimili che esercitano la loro stessa attività: contadini, nomadi, amateurs e matriarche, davanti a una pentola, a un fornello. La cucina, solo parzialmente si può definire una professione, a tal punto è esercizio di mani buone per ogni mestiere, di gente al lavoro o famiglia, e rappresenta l’espressione di un bisogno oltre che collettivo, soggettivo. È però un esercizio con competenze multiple che non riguardano solo gli utensili e le fonti di calore, ma la produzione e la conservazione delle derrate, il modo di combinarle e denominarle, variando gli oggetti alimentari all’infinito. Cuoche e cuochi sono coloro che ricevono i prodotti dalle comunità e li trasformano, codificando gli ingredienti in artefatti che rispecchiano bisogni, riti ed espressioni individuali e sociali. L’incontro nelle e con le comunità del cibo, il con-
di Alberto Capatti* TERRA MADRE SI RIPRESENTA A TORINO DOPO DUE ANNI. COSA C’È DIETRO QUESTO INCONTRO FRA COMUNITÀ CONTADINE DI TUTTO IL MONDO, COMUNITÀ REALI INSIEME A CUOCHI, ALLA RETE E A SLOW FOOD
fronto fra i diversi talenti che necessitano la produzione e la trasformazione degli alimenti, permetterà di aprire un nuovo capitolo della gastronomia contemporanea, non più riempito con vezzi e vizi, con esercizi formali e foto di copertina, ma con l’accostamento, lo scambio e la fusione di modi di pensare il cibo e di tradurlo in gusto. Rimescolare le diverse figure, produttori e cuochi, portandole a confrontarsi fra loro, vuol dire anzitutto liberare l’arte da valutazioni estrinseche, dagli stereotipi della critica gastronomica occidentale, e promuovere il futuro alimentare partendo dall’attrazione reciproca delle culture. Riunire, associare, accomunare sono tutti sinonimi del campo della socialità; scambiare, confrontare, convertire, di quello delle relazioni. La radice di questi comportamenti è unica: la comunicazione. Come applicare alle comunità del cibo, alle cuoche e ai cuochi da esse espressi, il principio della comunicazione inteso come socialità e rapporto? Interviene qui un terzo soggetto, partner dei precedenti, funzionale a essi: l’università. In epoca medievale universitas era “corporazione o associazione di arti e mestieri”, oggi è una istituzione che riunisce gli interpreti di questi mestieri, intellettuali con duplice finalità di formazione e di ricerca, in qualsiasi campo. Le università sono attualmente le singole maglie di una rete discontinua, contraddittoria, dei saperi, poli della mondializzazione (agricola, alimentare ecc.) e nello stesso tempo osservatori della diversità umana, animale, vegetale. In Terra Madre esse saranno i decodificatori, i trasmettitori e i ripetitori delle comunità stesse, la rete appunto grazie alla quale possono, al di là di singole o sporadiche connessioni, diventare interdipendenti. Prendere a carico una comunità, per un istituto universitario, diventa non una ricerca finanziata sulla comunità stessa, ma una indagine sulle possibilità di relazione di questa comunità, e nello stesso tempo l’opportunità di partecipare a una politica multiculturale nuova, fatta producendo, trasformando, promuovendo, scambiando. Influire sulla ricerca, orientarla e recepire alcuni suoi indirizzi, questo è il senso del protocollo che verrà sottoscritto fra le università e Slow Food. Il quarto elemento di questo ciclo è il più noto ma non il più scontato: Slow Food. Terra Madre ne ha già sovvertito gli equilibri, indicando un potenziale associativo imprevisto e un’espansione caratterizzata da logiche inclusive proprie non solo delle civiltà occidentali, ma di una cultura dagli effetti differenziati, puntuali, fondata da migliaia e migliaia di piccole comunità. All’appuntamento di Torino, la copresenza sarà coesistenza e si dovrà ragionare sull’adesione immanente a un progetto culturale, nato in margine alle Langhe, sviluppatosi in una dimensione internazionale a Parigi, comunicato dieci anni fa da una rivista, Slow, trasfuso in un quadro gigante che abbraccia la comunità dei produttori, dei cuochi e delle università del mondo intero.
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o viaggio Perché anche l’associazione futura possa essere sostenibile e durevole, l’associazione presente dovrà riflettere e pronunciarsi su se stessa. Individuati i soggetti in scala, e le loro funzioni, fissata la priorità delle comunità del cibo nel processo di connessione globale, ipotizzata l’esistenza di un nuovo quadro associativo, cominciano ad affacciarsi gli interrogativi. Il dibattito è un rompicapo se si prescinde dall’esistenza di comunità reali, e dal fatto che ognuno di noi appartiene a una comunità reale. È quest’ultima ad aver fondato la nostra storia e non il contrario, ed è quest’ultima a rischiare l’estinzione in un presunto processo di razionalizzazione delle pratiche agricole, della confezione del cibo, della qualità. Presenza immanente e reale,
memorabile e attuale, queste comunità, inclusive dell’Europa, attendono, dall’incontro multiplo che abbiamo annunciato, le premesse per fondare una nuova economia e una nuova gastronomia. Il risultato non potrà essere quello della fusione, a immagine di una fusion cooking in cui si scambiano prodotti sconosciuti, si imparano tecniche di cottura inedite, si confondono sapori e testure per il gusto della novità. L’obbiettivo è quello di contrastare la programmazione industriale del cibo creando l’onnivoro educato dai tecnologi e rinato dallo scambio globale, cioè allevato con gli abitanti della foresta, con le entomofaghe africane e con i cacciatori di foche. L’esotismo è morto con la civiltà coloniale e oggi gli obbiettivi dei contadini provenienti da
continenti diversi sono più simili, più concreti e più univoci di quelli espressi dai consumatori apparentemente paghi, inerti, della medesima città europea. All’orizzonte degli scambi si delinea una nuova figura di operatore del cibo, consapevole della ricchezza costituita dalla diversità e determinato, se occorre, a preservarla. Chi dovrà prendere le redini del sistema alimentare in quello che si annuncia un conflitto fra mentalità e culture incompatibili, fra dominanti e dominati? Non abbiamo dubbi, la politica dell’alimentazione deve guidarla non il “modello vincente” ma la coscienza vigile e bifronte, quella che osserva il passato e precorre i tempi, studiando sempre gli uomini e accetG tando la loro libertà. * Slow Food
Saperi lenti l rapporto costante di Slow Food con i portatori di conoscenze tradizionali (produttori agroalimentari, comunità del cibo, contadini, artigiani e cuochi che incontriamo per il mondo e che aderiscono al nostro progetto) ci mette in contatto con una realtà di saperi, cosmologie, savoir faire, comportamenti rispetto alla natura che molta parte della società in cui viviamo ha dimenticato. Questa relazione privilegiata, che ci dà la possibilità di studiare culture che vivono in armonia con i loro ecosistemi e di dialogare con esse, ci spinge da un lato a soppesarne le potenzialità in chiave contemporanea, dall’altro a partecipare attivamente a quella “etnologia di emergenza” evocata da Claude Lévi-Strauss. Non soltanto la biodiversità è in pericolo, e con essa le produzioni alimentari, è a rischio tutto il sistema naturale e culturale che circonda i luoghi e le persone da cui i nostri alimenti hanno origine. Storie, religioni, musiche, modi di costruire e di vivere sono a rischio di sopravvivenza come le comunità e le loro produzioni. Non intervenendo a questo livello etnologico rischiamo di perdere, insieme a un intero patrimonio umano, un immenso corpus culturale in cui sono custodite le chiavi per interpretare i tempi post-moderni in cui viviamo e per aggiustare la rotta di una nave – il nostro mondo – che sembra dirigersi verso il baratro. L’atto di salvaguardia assume così un significato profondo: stiamo cercando le chiavi di volta del futuro. Abbiamo compreso che i sistemi alimentari si intersecano in modo articolato con le altre sfere del vivere umano: sono uno dei pilastri della nostra vita. La nostra attenzione sarà dunque sempre più rivolta verso le conoscenze tradizionali, cercando di evitare due errori ricorrenti: il recupero caratterizzato da fissità, quasi museale, e la pretesa di una primogenitura rispetto al corpus di conoscenze popolari e tradizionali. Si tratta di salvaguardare, catalogare, registrare, sforzandosi di comprendere quanto proviene dalle consuetudini delle comunità del cibo per attivare un dialogo. Un dialogo tra regni diversi, oggi sempre più rigidamente rinchiusi in compartimenti stagni: da una parte la scienza lineare, del profitto, della velocità, del calcolo riduzionista, dall’altra quella antica, in armonia con la complessità del mondo, che non cerca risposte né spiegazioni definitive ma piuttosto di comprendere i fenomeni e di vivere in armonia con il pianeta. Un dialogo presuppone che i suoi attori siano sullo stesso piano. Quindi, se da un lato rivendichiamo pari dignità per i saperi tradizionali (che ci piace chiamare saperi lenti), dall’altro dobbiamo essere in grado di mettere in atto un confronto costruttivo con il sistema di valori e conoscenze oggi dominanti. Nessuna primogenitura, dunque, ma uguale rispetto, con l’obbiettivo di sviluppare una scienza e una tecnologia più umane, più in sintonia con il sistema naturale. La natura è articolata e difficilmente misurabile, ma la si può interpretare accogliendone la molteplicità e lasciandosi guidare dal suo modus operandi verso nuove conquiste del sapere. Come attuare questo dialogo tra regni? Credo sia una questione di attitudine verso gli altri e verso la cultura di cui sono portatori. Questo si traduce per Slow Food in un ascolto ininterrotto e a tutti i livelli tra i soggetti che gravitano intorno al movimento: dalle comunità del cibo ai produttori dei Presìdi, dalla cuoche e dai cuochi sul territorio agli studiosi delle tradizioni popolari o di ermeneutica. Slow Food si sta trasformando in una rete di soggetti molto diversi tra loro, ma accomunati dalla volontà di perseguire una ricerca della qualità che amiamo ricondurre sotto l’alveo di tre caratteristiche imprescindibili: bontà organolettica (buono), sostenibilità ambientale (pulito), giustizia sociale (giusto). Siamo accomunati dalle stesse idee e impegnati a vario titolo nel movimento, in un sistema la cui complessità è analoga a quella del mondo. Siamo una rete e sarà proprio questa rete a consentirci, se saremo lungimiranti, di attuare il dialogo, ascoltando gli altri, aiutandoci reciprocamente, studiando nuove soluzioni. G *Presidente di Slow Food International
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di Carlo Petrini* FRA SISTEMI DI VALORI E CONOSCENZE, CON L’OBIETTIVO DI SVILUPPARE SCIENZA E TECNOLOGIA PIÙ UMANE, E PIÙ IN SINTONIA CON IL SISTEMA NATURALE
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E M I L I A - R O M A G N A , F I G L I A D ’ A RT E Artusi docet: secondo l’illustre gastronomo nato a Forlimpopoli nel 1820 è la qualità degli ingredienti che genera l’eccellenza. Ancora oggi con i prodotti DOP e IGP dell’Emilia-Romagna puoi ricreare “l’Arte di mangiar bene”.
Salone del Gusto 26 - 30 Ottobre - Lingotto Fiere Torino - Padiglione 3 - Stand Q55
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ell’ultimo decennio una radicale e accelerata trasformazione culturale ha investito gli ambiti che riguardano l’agricoltura, l’ambiente, il cibo. Si tratta di una presa di coscienza nuova, in certi casi di reazione drammatica, in risposta ai mutamenti, sempre più distruttivi, talora paradossali, indotti dall’agricoltura industriale del nostro tempo. In ogni angolo del mondo, sia tra i paesi postindustriali che tra i paesi poveri, il modello di agricoltura che si è venuto affermando a partire dalla metà del XX secolo mostra ormai i segni di una insostenibilità non più occultabile. La Terra ha cominciato a ribellarsi a pratiche sempre più dissennate di sfruttamento e le popolazioni prendono acutamente coscienza che il vecchio sentiero è diventato sempre più stretto e impercorribile. Quando alcuni delicati equilibri si rompono, d’altro canto, prima o poi anche sul piano economico i conti cominciano a non tornare. Nel 1994 – tanto per cominciare a fare qualche esempio – è accaduto, per la prima volta nella storia, che per mancanza di api impollinatrici molti coltivatori di mandorle, in California, sono stati costretti a importare api per assicurarsi il raccolto. I pesticidi, infatti, uccidono gli insetti
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carcasse incenerite di animali morti per cause diverse. E, col procedere di nuove informazioni, si è venuto squadernando davanti a noi uno scenario sempre più inquietante. Gli allevamenti intensivi del bestiame, ormai concentrati in immense zoopoli, producono oggi, con le loro deiezioni, circa il 16% di emissioni globali di metano, considerato un potente gas serra. E in alcuni paesi, come l’Olanda, essi sono considerati tra le cause delle piogge acide. Ma la minaccia alla salute passa anche per altre vie: ad esempio negli Usa la quota di antibiotici usati per gli animali è di otto volte superiore a quella utilizzata dalle persone. Un consumo che secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità mette a rischio le possibilità di cura futura sia degli uomini che degli animali. Ma è nel mondo degli agricoltori, prima ancora che in quello dei consumatori urbani, che negli ultimi anni è cresciuto il disagio, in certi casi l’angoscia, per la perdita del loro antico rapporto con la terra. È un fenomeno comune tanto al nord che al sud del mondo. Negli Usa la figura del farmer – su cui si è retta anche la tradizione democratica del paese – va scomparendo. Gli agricoltori superstiti sono ormai, di fatto, dipendenti delle grandi corporations chimico-sementiere e delle catene
di distribuzione alimentare cui conferiscono il prodotto. Ma non solo sono sempre meno autonomi nella gestione del loro campo, quanto vivono con crescente disagio e senso di colpa il sentirsi responsabili dell’avvelenamento e della contaminazione che sanno di infliggere e diffondere nelle campagne e nei paesi in cui vivono. Nelle aree agricole del Terzo Mondo, accanto ai problemi antichi di mancanza di terra, credito, sbocchi equi di mercato, anche gli agricoltori più fortunati hanno visto sorgere nell’ultimo decennio nuove minacce al loro orizzonte: soprattutto la privatizzazione dell’acqua da parte di compagnie transnazionali e la diffusione di sementi brevettate – tra cui anche i semi geneticamente modificati – che tendono a impoverire la millenaria biodiversità locale e a privare le comunità agricole della loro indipendenza nella pratica della semina e dell’avvio della coltivazione annuale. Ebbene, a queste tendenze le comunità locali hanno reagito in vario modo, talora anche con forme di lotta aspre. Il bisogno di ritrovare un nuovo e insieme antico rapporto con la terra si è venuto diffondendo un po’ ovunque. Mentre, assai significativamente, all’altro capo dell’organizzazione sociale, anche il continente dei consumatori si è messo in moto. La ricerca di cibi sani, non con-
Veleni bugie pronubi da cui dipende gran parte della produzione agricola. Ma forse il primo e supremo paradosso in cui tanto gli agricoltori che i consumatori di tutto il mondo si sono dovuti imbattere – non appena un’adeguata informazione li ha raggiunti – è che il settore primario, l’ambito dove si produce il cibo per la nostra alimentazione, è diventato uno dei settori più inquinati e inquinanti dell’economia mondiale. Per avere un’idea sintetica a tale proposito basti ricordare che già nel 1990 un rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità stimava in circa 25 milioni le persone avvelenate o intossicate ogni anno per uso di pesticidi o consumo di cibo contaminato. Com’è ormai noto, nelle monoculture industriali, tanto in Occidente che nei paesi cosiddetti in via di sviluppo, non solo si fa ricorso da decenni a concimazioni chimiche che riducono l’humus e riempiono il suolo di metalli pesanti, ma si usano crescenti quantità di pesticidi per combattere insetti sempre più resistenti e diserbanti che avvelenano l’aria, la terra, l’acqua, gli animali, gli uomini. Alla fine del millennio, i cittadini europei sono stati scossi nella loro sicurezza alimentare in seguito al caso della cosiddetta “mucca pazza”. Essi hanno potuto apprendere, non senza sgomento, come venivano alimentati mucche e vitelli nella civilissima Europa. Il bestiame destinato alle nostre mense aveva perduto ogni rapporto con i pascoli, era stato forzato a diventare carnivoro e veniva ingrassato con farine derivate da
di Piero Bevilacqua* COME IL SETTORE PRIMARIO, L’AMBITO DOVE SI PRODUCE IL CIBO PER LA NOSTRA ALIMENTAZIONE, È DIVENTATO UNO DEI SETTORI PIÙ INQUINATI E INQUINANTI DELL’ECONOMIA MONDIALE
taminati, non manipolati, provenienti da territori e allevamenti salubri è venuta crescendo con tutta la forza di un grande movimento culturale. Nel 2002 le vendite di prodotti biologici nel mondo sono ancora aumentate, superando di oltre il 10% quelle dell’anno precedente, per una cifra stimata intorno ai 23 miliardi di dollari. Si vanno dunque incontrando due tendenze che dischiudono nuove speranze al nostro futuro. L’agricoltura organica, biodinamica, biologica – frutto di un nuovo approccio tecnico e scientifico degli agricoltori con la terra – va trasformando l’economia agricola in una pratica rispettosa degli equilibri naturali, delle varie forme di vita che stanno attorno a noi, della storia delle piante e dei cibi che millenni di lavoro contadino ci hanno lasciato in eredità. Essa viene scoperta e premiata da un numero crescente di cittadini. È dunque una nuova frontiera del fare e consumare cibo che ormai si è aperta a livello mondiale. In essa si ritrovano insieme, in una alleanza che mai in passato era apparsa così forte, sia la salubrità della natura che l’equità delle condizioni di vita e di lavoro degli agricoltori, tanto la salute dei cittadini che la qualità e la ricchezza di una tradizione alimentare che è anche un patrimonio culturale dell’umanità. Terra Madre ha dato voce a questo mondo in fermento e ha fornito consapevolezza mondiale a tale nuovo capitolo nella storia del rapporto tra gli uomini e la loro terra. G *Slow Food
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di Ettore Tibaldi* Africa è attraversata dall’equatore e dai tropici, è il terzo continente più esteso della terra. Le distanze massime sono, da nord a sud, circa 8000 chilometri, e da ovest a est circa 7500. La vetta del Kilimangiaro (5895 metri), in Tanzania, è il punto più alto. Quello più basso è a Gibuti, dove il lago Assal è 150 metri sotto il livello del mare. Un elemento fondamentale è il deserto del Sahara che occupa la quarta parte di quell’immenso territorio. Il bacino di fiumi sterminati come il Nilo, il Congo, lo Zambesi e l’Orange si affianca sovente a quello di laghi poderosi che si trovano lungo la Rift Valley… andiamo avanti? Questa è la geografia che tanti studiosi, anche in Italia, hanno criticato, mettendo in luce che si tratta di rappresentazioni da professori, ma anche da generali; così, passando da un utente all’altro, si arriva ai più brutali colonizzatori che si sono annidati, quasi vermi spaventosi, nel ventre di tenebra del Continente Nero. Le aquile imperiali, fin dai tempi della Roma antica, forniscono un’immagine trionfante alle dinamiche dello sfruttamento di una nazione sull’altra. Avrebbero dovuto essere sostituite da cimici e pidocchi, sanguisughe e vermi filamentosi, dato che i colonizzatori non sono paragonabili a un predatore ma, più correttamente, a un parassita. Un’araldica fondata sul verme solitario e sull’immagine di un anchilostoma duodenale, ospitata su una bandiera, non avrebbe avuto successo e neppure un analogo potere di suggestione e dissimulazione, ma sarebbe stata istruttiva. È la storia che confonde la geografia. E, contemporaneamente, la geografia non può che resistere, ed essere umana. Deve dunque raccontare non solo i profi-
L’
molti luoghi dell’Occidente, quelli che noi viviamo con agio e naturalezza, sono in verità gravemente degradati e devastati da un progresso non sempre reale. Il mio amico burkinabé Ibrahim Ouedraogo sostiene che il fatto di fare incontrare direttamente le comunità contadine (e quelle dei pastori e quelle dei pescatori) è il successo più rilevante che si possa immaginare. Ha ragione, credo, anche perché la sua opinione si fonda su una ricca esperienza di lavoro tra le associazioni contadine africane. Per effetto di un luogo comune occidentale, di segno opposto a quello costruito per l’Africa, confidiamo di vivere in un mondo globalizzato che costituisce oppure imita un occidente garantito e progredito. Ma anche le nostre campagne – malgrado le premesse di un’economia avanzata – sono, dal dopoguerra, rese in gran parte sterili da diserbanti e antiparassitari, e le acque delle falde e di superficie sono inutilizzabili per animali e uomini perché inquinate. Quando ho accompagnato una delegazione di contadini africani attraverso le zone risicole di Vercelli e di Novara, fino alla Cascina Caremma, nel Parco del Ticino, essi hanno avuto ben chiaro che le coltivazioni ideali, quelle che assicurano cibo sano, nel rispetto delle salute dei lavoratori e senza danni per l’ambiente, sono difficili anche da noi. Nel corso della visita ho cercato di mostrare gli aspetti più problematici della lavorazione dei suoli, della gestione dell’acqua, della distribuzione di diserbanti. Senza affermare, però, che noi siamo riusciti a vincere le difficoltà e che loro devono imparare da noi. Loro possono, se vogliono, imparare anche dai nostri errori e noi glieli dobbiamo raccontare. Se si loda l’agricoltura concepita come industria pesante, si costruiscono dan-
CONTADINI AFRICANI ATTRAVERSO LE ZONE RISICOLE DI VERCELLI E DI NOVARA, FINO ALLA CASCINA CAREMMA, NEL PARCO DEL TICINO. COME IMPARARE DAGLI ERRORI, E FARSI AIUTARE DA LORO
Lezioni
africane
li del paesaggio e quelli delle persone, fotografate dagli antropologi, ma anche le storie delle persone, delle loro relazioni fra loro, con l’ambiente, il territorio e il paesaggio. Deve essere intelligente, come quella definita da Ted Botha, scrittore e giornalista sudafricano, autore di Mongo, avventure nell’immondizia (Isbn edizioni, Milano 2006), che racconta esperienze concrete nel riciclaggio dei rifiuti vissute non nelle ormai celebri discariche di Nairobi, ma nel Centro del Centro del mondo, a New York. Alla fine i rifiuti “diventano” quella città. Le dinamiche del rifiuto e del degrado me le ricorda spesso Giorgio Botta, geografo (umano) in Milano: l’estremizzazione ormai sistematica degli elementi che compongono l’immagine dell’Africa dà corpo, nella mentalità degli occidentali, a un’immagine socio-culturale lontana e retrograda. Proprio questa idea di Africa dovrebbe essere riconsiderata:
nosi luoghi comuni a proposito del nostro continente e del loro, e così l’Africa rimane lontana. Esiste invece un’Africa la cui cultura, così ampia e radicata, impegna gli studiosi che analizzano e diffondono gli aspetti di un sapere costituito dalle tradizioni, dalla letteratura, dalla musica e da tanto altro, compresa un’agroecologia del tutto popolare che, per quanto riguarda i saperi locali sui suoli, e sulle “cose” minerali, vegetali e animali che si trovano nell’ambiente rurale, è molto raffinata e legata ai bisogni concreti. Come sarebbe utile se anche da noi si imparassero a conoscere nozioni dotate di un elevato valore d’uso per la gestione di realtà complesse come il suolo, un lago, il mare. Da noi, un tempo, i vecchi contadini possedevano questi saperi che oggi rimangono, seppure in forma impoverita, nella memoria di cacciatori e pescatori. Nel comparto agricolo, purtroppo,
non è più così. Gli agricoltori hanno dimenticato quasi tutto, per merito degli spacciatori di concimi chimici e pesticidi. Perché distinguere un terreno dall’altro e comprenderne le condizioni, dato che i concimi chimici vanno somministrati per nutrire la pianta e non per migliorare il suolo? Perché riconoscere gli insetti utili da quelli dannosi, dato che gli insetticidi in generale minacciano ed eliminano tutti gli insetti in modo indiscriminato? Perché distinguere le erbe infestanti, dato che un solo diserbante può eliminarle tutte e con esse il senso della loro presenza, il perché delle loro associazioni e addirittura il fatto che in molte “malerbe” si è individuato il ruolo, positivo, di organismi commensali? In questo senso i contadini africani ci possono essere utili e possiamo immaginare un rovesciamento della prospettiva. Ogni incontro produce cambiamenti. Abbiamo bisogno del loro aiuto. G
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Ettore Tibaldi, a lungo docente di zoologia all’Università di Milano, ha osservato le relazioni tra il mondo degli uomini e quello degli animali in numerose missioni in Italia e all’estero. Ha pubblicato da Feltrinelli Uomini e bestie Il mondo salvato dagli animali, mentre è in uscita da Slow Food Editore Cibo d’Africa Percorsi alimentari dal Sahara a Soweto, un saggio che, nel racconto di un viaggio attraverso il Continente Nero, si applica a sfatare radicati luoghi comuni – le guerre, le carestie, la siccità, il sottosviluppo, la fame come uniche chiavi di lettura di un universo umano e sociale – per mettere in luce una realtà fatta di riserve di cibo da sempre utilizzate in modo sostenibile dalle comunità locali, di saperi e competenze peculiari messi a frutto con intelligenza lungimirante.
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SCRITTO&MANGIATO
ivo in una zona di campagna che un tempo un buon agricoltore poteva osservare con un certo piacere. Quando me ne resi conto, negli anni 1’40, almeno la terra migliore era in generale ben coltivata. Le fattorie erano prevalentemente piccole e assai diversificate; c’erano bovini, pecore e maiali e si producevano granoturco, tabacco e granaglie; quasi tutti avevano qualche mucca da latte per il proprio consumo e per vendere latte o panna. In tutte le fattorie o quasi c’era un orto, non mancava il pollame e si ingrassava qualche maiale da carne. Disponevamo inoltre di un articolato «sistema di supporto» per l’agricoltura: ogni comunità aveva il proprio maniscalco, botteghe che riparavano i finimenti e i macchinari, magazzini che procuravano attrezzi agricoli e rifornimenti. Oggi la campagna non è coltivata bene e attraversarla è diventata un’esperienza deprimente. Ci sono ancora alcuni bravi agricoltori, le cui fattorie spiccano nel panorama come gioielli. Ma sono pochi e distanti tra loro e diminuiscono anno dopo anno. Gli edifici e altre migliorie della vecchia agricoltura sono ovunque in sfacelo o sono svaniti nel nulla. La produzione della campagna è sempre più specializzata. I piccoli caseifici sono scomparsi e così la maggior parte delle greggi di pecore nonché gran parte delle imprese della vecchia economia familiare. C’è meno bestiame e più produzione cerealicola destinata al mercato. Quando arriva quest’ultima, scompaiono le recinzioni e il bestiame, aumenta l’erosione e i campi si coprono di erbacce. Come i terreni, anche le comunità agricole deperiscono e si erodono. Gli agricoltori che ancora coltivano la terra non lo fanno più con la stessa capacità di quarant’anni orsono e il loro numero è decisamente inferiore a quello di allora; i vecchi che sono morti non sono stati sostituiti perché i giovani, raggiunta l’età adulta, lasciano la terra o la comunità stessa. Al deperimento della campagna e della gente si accompagna inevitabilmente quello del sistema di supporto. Nessuna piccola cittadina rurale è prospera come quarant’anni fa. I proprietari delle piccole imprese rinunciano o muoiono senza essere sostituiti. Osservando la campagna oggi, non si può che arrivare alla conclusione che non c’è più gente sufficiente per lavorare bene la terra e prendersene cura come si deve. Un’altra e più triste conclusione è che non ci sono più persone a sufficienza tanto esperte da osservare la campagna e rendersi conto che non è curata come andrebbe fatto – anche se il suo volto è segnato dovunque dalle ferite della nostra attività di autodistruzione. Il fatto è che abbiamo quasi distrutto l’agricoltura americana e con essa la campagna. Com’è potuto succedere? È successo a causa dell’applicazione all’agricoltura di un criterio troppo semplicistico. Per molti anni, come nazione, abbiamo chiesto alla terra solo di produrre e la stessa cosa abbiamo fatto con gli agricoltori. Abbiamo creduto che questo singolo criterio economico non soltanto garantisse un buon rendimento, ma preservasse altresì la verità ultima e la giustezza dei nostri fini. Abbiamo sposato
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L’ultima incondizionatamente la linea degli economisti, secondo cui competizione e innovazione risolverebbero tutti i problemi, permettendoci di compiere un balzo tecnologico oltre la realtà biologica e la condizione umana. In effetti, la competizione e l’innovazione hanno risolto, per il momento, il problema della produzione. Ma si è trattato di una soluzione bizzarra, sconsiderata e troppo costosa. Abbiamo vinto, subendo una perdita inestimabile, una competizione contro la nostra stessa terra e la nostra stessa gente. Al momento, il trofeo che possiamo mostrare per questa «vittoria» è un’eccedenza di cibo, che però è stata ottenuta con la rovina delle sue fonti ed è stata usata, dai cantori dell’economia attuale, per mascherare i danni che ha comportato. L’eccedenza si trasforma per i consumatori nella prova eclatante che non hanno nulla di cui preoccuparsi, che non ci sono problemi, che gli attuali assunti economici sono corretti. Invece questi assunti in agricoltura stanno fallendo, e chi ha gli occhi per vedere ne coglie i segni dovunque, nelle città come nelle campagne. L’assurda domanda di produzione non è stata in grado di riconoscere l’importanza delle fonti della produzione in natura e nella cultura umana. L’agricoltura, naturalmente, deve essere produttiva; è un’esigenza tanto urgente quanto ovvia. Ma, per quanto sia urgente, non è la prima esigenza; ve ne sono altre due non meno importanti e non meno urgenti. La prima è che, se l’agricoltura vuole continuare a essere produttiva, deve preservare la terra, la sua fertilità e salute ecologica; la terra, cioè, deve essere usata bene. La seconda e conseguente esigenza è che
di Wendell Berry* COME È STATA DEPRESSA LA PRODUZIONE AGRICOLA NEGLI STATI UNITI. PERCHÉ LA LINEA DEGLI ECONOMISTI - COMPETIZIONE E INNOVAZIONE - NON HA RISOLTO NESSUN PROBLEMA MA ANZI LI HA AGGRAVATI
per usare bene la terra chi la lavora deve conoscerla bene, essere fortemente motivato a utilizzarla bene e sapere come farlo. Nulla di quanto è avvenuto nella rivoluzione agricola degli ultimi cinquant’anni ha confutato o invalidato queste esigenze, anche se tutto ciò che è stato fatto le ha ignorate o sfidate. Considerato che i terreni agricoli e coloro che li lavorano dovrebbero al contempo produrre e prosperare, è evidente che il criterio singolo della produttività ha fallito. Dobbiamo pertanto imparare a sostituire quel criterio con un altro, di più ampio respiro: il criterio della natura. Il criterio della natura non è altrettanto semplice o facile di quello della produttività. Il termine «natura» non è un concetto altrettanto definito o stabile dei pesi e delle misure della produttività. Ma sappiamo che cosa intendiamo quando diciamo che i primi coloni di qualunque località dell’America valutavano il potenziale agricolo del posto «in base alla sua natura», vale a dire in base alla profondità e qualità del suolo, al tipo e qualità della vegetazione autoctona e così via. Sappiamo altresì che cosa intendiamo quando diciamo che troppo spesso, nel coltivarli, abbiamo finito per ignorare la natura dei nostri luoghi. Tornando al criterio della «natura del luogo», riconosciamo i limiti inevitabili delle nostre intenzioni. L’agricoltura non può aver luogo se non nella natura; perciò, se non è fiorente la seconda non può esserlo la prima. Ma sappiamo anche che la natura comprende noi stessi. Non è un luogo cui arriviamo partendo da qualche sicuro punto di osservazione all’esterno. Siamo immersi in essa e ne facciamo parte mentre la usiamo. Se la natura non
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fiorisce, non fioriamo neanche noi. Quindi la giusta misura dell’agricoltura è la salute del mondo e la nostra, ed è inevitabilmente un’unica misura. Ma la sua unicità è ben diversa dalla singolarità del criterio della produttività al quale ci siamo attenuti: è molto più complessa. Una delle sue finalità, una delle inevitabili misure naturali, è la produttività; ma essa si preoccupa anche della salute di tutte le creature che appartengono a un determinato luogo, da quelle che popolano il suolo e l’acqua, agli esseri umani, alle altre creature che vivono sulla superficie della terra, fino agli uccelli dell’aria. L’uso della natura come misura presuppone una riconciliazione tra noi e il nostro mondo, tra economia ed ecologia, tra il domestico e il selvatico. Ovvero, presuppone un riconoscimento consapevole e attento dell’interdipendenza tra noi e la natura che
in effetti è sempre esistita e che, se vogliamo continuare a vivere, dovrà sempre esistere. Ormai da molto tempo ci consideriamo dei viaggiatori diretti verso un paradiso industriale, un nuovo Eden concepito e costruito esclusivamente dall’ingegno dell’uomo; abbiamo ritenuto di essere liberi di usare e di abusare della natura in qualunque modo contribuisse a completare l’impresa. Ora ci troviamo di fronte alla prova schiacciante che non siamo abbastanza abili da prendere d’assalto l’Eden e che la natura non tollera né giustifica i nostri abusi. Se, nonostante le prove contrarie, ci riesce difficile rinunciare alla vecchia ambizione, ci accorgiamo anche più chiaramente, giorno dopo giorno, come quell’ambizione ci abbia resi schiavi. Vediamo che ogni cosa – il mondo intero – è deprezzata dall’idea che tutto il creato procede
o dovrebbe procedere verso un fine concepito da qualche essere umano. Liberarsi di quel fine e di quell’ambizione sarebbe cosa meravigliosa e preziosa. Dopo essercene liberati, potremmo dedicarci di nuovo al lavoro e alla vita con una serietà e un piacere che ci sono negati se ci limitiamo a soggiacere a un destino già determinato dalla grande politica, dalla teoria economica, dalla tecnologia. Tale libertà è implicita nell’adozione della natura come misura della vita economica. Adottando come misura la natura, abbiamo bisogno di una pratica radicata localmente. La singola fattoria, cioè, non deve essere trattata come qualunque fattoria; inoltre, la conoscenza particolare di luoghi particolari va al di là della competenza di un potere o di un’autorità centralizzati. Coltivare la terra avendo come misura la natura di
quel luogo particolare, significa che gli agricoltori devono badare a fattorie che conoscono e che amano, fattorie abbastanza piccole da poterle conoscere e amare, usando strumenti e metodi che conoscono e amano, in compagnia di vicini che conoscono e amano. G
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Saggista, poeta, docente universitario ma soprattutto agricoltore, Wendell Berry è nato nel Kentucky, dove è tornato a vivere dopo una vita lontano casa, per gestire la fattoria di famiglia. Negli Stati Uniti è uno dei capofila del nuovo ruralismo, sulla scorta di un pensiero che fa della centralità dell’agricoltura e del ruolo delle comunità locali i perni intorno a cui ricostruire un rapporto equilibrato tra l’uomo e l’ambiente.
a campagna
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l capitale reale delle nazioni, permanente e indipendente da qualunque cosa salvo un mercato per i prodotti dell’agricoltura, è la terra. Per utilizzare e anche per tutelare questa importante ricchezza è essenziale conservarne la fertilità». Questo è il principio su cui si basano la pratica agronomica e la riflessione teorica di Sir Albert Howard, una convinzione maturata nel corso di quarant’anni di lavoro al servizio di Sua Maestà britannica in India. Figura esemplare di funzionario attento alla gente e alla cultura locale, era arrivato nelle terre dell’impero nel 1905 «per insegnare agli indiani come migliorare l’agricoltura», come ricorda in un suo scritto, salvo accorgersi ben presto che «non vi erano malattie nei campi, né mancanza di fertilità nel
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Maestro di vite
suolo» e decidere di conseguenza «di fare dei contadini e delle malattie i miei insegnanti». Al termine della carriera (era stato Agricultural Adviser nell’India centrale del paese e nel Rajputana e poi Direttore dell’Institute of Plant Industr y a Indore), nel 1940, Howard consegnava alle stampe il suo “Testamento agricolo”. Proprio a Indore aveva elaborato il suo metodo di coltivazione, un sistema innovativo finalizzato al controllo e all’incremento della fertilità del suolo attraverso l’uso dell’humus, secondo una condotta che fa tesoro dei saperi e delle pratiche tradizionali. L’illustrazione del “Processo Indore” e la sua applicazione a diverse colture – caffè, tè, canna da zucchero, cotone, sisal, mais, riso, verdure, vite, prati – costituisce il nucleo centrale del libro che Slow Food Editore ha pubblicato nel 2005 per la prima volta in traduzione italiana con il titolo I diritti della terra Alle radici dell’agricoltura naturale. Passando in rassegna l’approccio dell’uomo nei confronti dell’attività agricola dopo la rivoluzione industriale, Howard ne evidenzia contraddizioni ed errori in un testo che, a più di sessant’anni dalla pubblicazione, mostra un’attualità sorprendente. Intatta è la lucidità delle analisi così come convincono le soluzioni proposte e non sorprende che, anche grazie a questo libro, Howard sia stato incoronato, in patria e non solo, come il padre nobile dell’agricoltura biologica. Attivo dalla fine del XIX alla prima metà del XX secolo, Howard ha fatto in tempo a vedere irrompere in campi, orti e giardini la logica scientista e industriale applicata all’agricoltura (con la dittatura della chimica, l’ossessione produttivistica, la logica monoculturale); a presagirne (già intravedendoli) gli esiti nefasti per la salute del suolo, dell’ambiente naturale e degli esseri che li popolano. Tutto principia dalla constatazione che «con la rivoluzione industriale, i processi produttivi sono stati accelerati» ma «non è stato fatto nulla di concreto per ovviare alla perdita di fertilità che questo enorme incremento della produzione agricola e animale ha comportato, con conseguenze disastrose. L’agricoltura ha perduto il suo equilibrio, la terra si ribella». Eppure, per arri-
di Giovanni Ruffa* UVA, CAFFÈ, MAIS, COTONE, LA STORIA E IL TESTAMENTO DI SIR ALBERT HOWARD, PER QUARANT’ANNI AGRONOMO DI SUA MAESTÀ BRITANNICA IN INDIA
vare a una corretta gestione del suolo basterebbe osservare la natura e imitarne i processi: la coesistenza di tante specie vegetali e animali nei diversi ecosistemi, la logica economica rigorosa, lo scambio costante fra i diversi elementi naturali (suolo, sottosuolo, flora, fauna…), la capacità di elaborare autodifese rispetto a malattie ed eventi climatici negativi. È ciò che hanno fatto le civiltà del passato le quali, piuttosto che a piegare la natura, hanno badato a fruirne senza offenderla o consumarla: è un atteggiamento di cui osserviamo l’efficacia nei campi a terrazze dell’antico Perù, geniali opere di architettura rurale, o nelle tradizionali tecniche di controllo dell’erosione in Giappone; che leggiamo nella tutela della piccola proprietà terriera che fece grande Roma (mentre il capitalismo agrario ne timbrò la decadenza), o nella millenaria vitalità delle piccole fattorie cinesi. Con la nascita della chimica agraria
nel 1834, invece, e con la sua prima sistemazione a opera di Liebig nel 1840, gli scienziati (e con loro presto le istituzioni) abbandonano i campi e si rinchiudono nei laboratori («eremiti dei laboratori» li definisce Howard), incapaci di capire l’importanza per ogni ricercatore di una conoscenza diretta della pratica agricola e il significato dell’esperienza di coloro che nel passato coltivarono la terra. La scienza agraria diventa, appunto, una branca della chimica, si instaura il dominio dei concimi artificiali («la mentalità NPK»), insieme all’attenzione esclusiva per i risultati quantitativi. «La fattoria ha finito per essere considerata alla stregua di una fabbrica. L’agricoltura è considerata un’impresa commerciale: si è data troppa importanza al profitto. Ma l’obiettivo dell’agricoltura è affatto diverso da quello di una fabbrica: essa deve fornire cibo in modo che la razza umana possa vivere e prosperare».
Quello di Howard, invece, è un atteggiamento umanistico, perché «la coltivazione di piante e l’allevamento di animali appartengono alla biologia, una sfera in cui tutto è vivo e che è agli antipodi della chimica e della fisica. Molte delle cose che contano per la terra, come la fertilità, la lavorazione e la conduzione del terreno, la qualità del prodotto, la vivacità e la salute degli animali, la gestione del bestiame in generale, i rapporti di lavoro tra padrone e lavoratore, l’esprit de corps della fattoria nel suo insieme, non sono pesabili o misurabili. Eppure la loro presenza è tutto e la loro assenza significa fallimento». Questa la base di una filosofia che nasce e cresce nei campi, il fondamento di una lezione puntuale e rigorosa, tanto più preziosa oggi, a sessanta e più anni dalla sua formulazione, in questi nostri tempi di agri-business, di natura manipolata, di equilibri ambientali scombinati.G * Slow Food
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siste ancora l’Italia del mangiar sano e genuino? E’ quanto si propone di scoprire il libro inchiesta del giornalista Paolo C. Conti, La leggenda del buon cibo italiano, edito da Fazi. Il tono è annunciato dalle parole di una certa signora Marta, lago di Como, 1986: “Ormai di galline ne ho poche – confessa la signora - ma dalla città continuano a venire quassù in cerca di uova di giornata. Così adesso vado al supermercato, ne compro qualche dozzina, poi le sporco un po’ nell’aia e gliele vendo come ruspanti. Che altro potrei fare? Io ci guadagno qualcosa e loro sono più contenti”. Un libro dalla parte del consumatore, che spara a zero su alcuni “miti alimentari contemporanei”, fra cui quello del buon cibo italiano. Cuciniamo bene, dice l’autore, ma l’85% degli alimenti è trattato a livello industriale: additivi, aromi artificiali, organismi geneticamente modificati… Di fronte allo scaffale del supermercato, mancano gli strumenti per scegliere a colpo sicuro. Non siamo informati. Lo stato “sta riducendo i controlli sulla qualità di ciò che mangiamo, delegando questo lavoro a società private”. L’unica bussola per orientarsi è la musichetta insinuante della pubblicità. Invece, bisogna sapere che se un bambino mangia una scato-
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(Giovanna Berchera). Si comincia con un prontuario di curiosità, stranezze e “gastro-bufale” apparse sui giornali a proposito di diete e obesità. Insomma, grasso in tutte le salse, prima di immergersi in un prontuario interattivo per sfidare la bilancia, coniugando le caratteristiche degli alimenti con quelle del proprio corpo e del territorio: “Un inno alla grandiosa ricchezza della nostra agricoltura che poi diventa cucina o artigianalità. E’ l’Italia”, concludono gli autori. E’ l’Italia... l’Italia in cui impazzano
patatine e crostatine sul pavimento, sui divani, sui nonni, cresce come una nevicata sull’Adamello”. E dopo la torta? Altre feste di bambini verranno, “una per ogni compagnuccio di asilo”… Bambine terribili, spaghetti e caramelle gommose a forma di orsetto, anche nel romanzo per ragazzi di Christamaria Fiedler, Spaghetti thriller, edito da Sonda. Un’avventura comicocatastrofica che ha per protagoniste due dodicenni alle prese con una casavacanze e una strana festa a cui non
equilibrio sulla spalla. E passava per le strade, come lo spettro della miseria, anche la venditrice di “carne usata”: avanzi di carne venduta “a comodo” come tutti gli altri generi itineranti. Sbagliare un grido, steccare la cadenza, era un affare mancato. E così i timidi e gli stonati, spesso associavano il grido al suono di una trombetta. “Mistuchein”! era invece la specie di sussurro che risuonava in numerosi paesi dell’Emilia Romagna fino a qualche decennio fa: il richiamo delle venditrici di mistucchi-
Uova sporche di Geraldina Colotti VAI A MANGIAR SANO E GENUINO, ROBA DA LIBRI E DA LEGGERE. UN BREVE MENU EDITORIALE PER NON SBAGLIARSI E PER SFIDARE LA BILANCIA
letta di tonno alla settimana corre seri rischi (per via dello stato dei mari); non parliamo poi se va matto per il prosciutto cotto (pieno di additivi) o se adora l’uovo sbattuto della signora Marta: quel bel tuorlo giallo comprato al supermercato è dovuto al colorante con cui vengono nutrite le galline… L’alternativa? Per Conti può venire dai neoverdi americani, dai “politici illuminati del Nord Europa”, dalla ricerca dei contadini indiani, e in Italia dal Manifesto sul futuro del cibo di Carlo Petrini, che valorizza una “produzione locale per uso locale” e senza intermediari, scelte alimentari più attente e meno legate alla tecnologia. Tra storia, medicina e educazione alimentare, anche il volume Maramangio di Primo Vercilli, edito da I Quaderni di Papillon (www.clubpapillon.it). Una sfida ai chili di troppo e al disordine alimentare intentata da tre autori “di peso”: un medico (Vercilli), un giornalista (Paolo Massobrio) e un’appassionata di gastronomia
il calcio e il cibo, l’uno e l’altro adulterati, ma che importa. Città in nero, un volume tutto in noir, edito da Guanda, affida alla penna di nove giallisti il compito di raccontarla. La storia di Massimo Carlotto viene dagli anni ’70 e si svolge in una Padova di camionisti che s’ingozzano di birra e panini. Marcello Fois racconta la Sardegna desolata di un ragazzo che vuole andare soldato a Nassyria. E Enzo Fileno Carabba dipinge due “principesse prigioniere”: due signore riccamente vestite, in lotta con avidi rosticcieri, costrette a innaffiare cibi pessimi con ottimi Chateau d’Yquem. Ma le principesse hanno anche un secondo vizietto che le distrae dalla passione per il cibo, e che l’incauto rosticciere non avrebbe mai dovuto scoprire… E’ invece l’Italia delle paternità davvero consapevoli quella dipinta da Stefano Disegni nell’esilarante volume Non sai che t’’aspetta, uomo! (Piemme): un tripudio di pappe e biscottini e poi feste di compleanno, in cui “lo strato di
viene nessuno. Un romanzo ambientato in Germania dopo la caduta del Muro, che cerca di insegnare e divertire. Le parole da approfondire, sono infatti evidenziate in grassetto, e rimandano al sito www.ragazzecomete.sonda.it Dal cibo di casa, al cibo di strada, recentemente celebrato a Cesena nel IV festival internazionale, ideato da Gianpiero Giordani. Per l’occasione, si è parlato del libro di Carlo G. Valli, Gli antichi sapori dei mangiari di strada (Cierre edizioni, www.cierrenet.it). Il volume racconta un’Italia in cui – per dirla con Camporesi – la città “era sonora ma non rumorosa”, le voci stridule o cantilenanti dei portatori di cibo itineranti si facevano spazio senza fatica nel vocìo della strada. Ognuno aveva scelto un’aria, una cadenza, uno strillo che permetteva di riconoscere il pescivendolo, il formaggiaio, oppure l’arriffatore, che organizzava “riffe dei polli” fra i vicoli di Napoli. A Roma figurava anche il carnacciaro, che portava carne per i gatti, legata a un’asta tenuta in
ne, schiacciatine di acqua e farina di castagne cotte su calderone e legna. Quando il cibo si vendeva per le strade e la domenica c’era festa, i poveri scendevano in piazza come se andassero in salotto, mentre gli odori “mettevano languore ancora prima di imboccare la via”. Voci e parole “al tempo della cultura della fame”. Viene da quel tempo anche nonno Amilcare, un vecchio anarchico, uno dei protagonisti del romanzo di Michele Marziani, La trota ai tempi di Z orro, (Derive Approdi). E l’orologio che regala al nipote tredicenne, in una mattina che odora di caffè e latte buono, è come un passaggio di consegne. L’autore, appassionato di gastronomia e di pesca, proprio intorno alla pesca costruisce così un delicato romanzo di formazione. Protagonista è un ragazzo che si affaccia alla rivolta – quella del ’77 - , e intanto assiste alla deriva del padre. E mentre l’amo affonda sul filo del torrente, le domande guizzano nel furore della piazza. G
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