scritto & mangiato in collaborazione con Slow Food
Acquapazza
Supplemento al numero odierno de il manifesto
Il pesce oltre il barile. Storie di mari e di crostacei che parlano e di infinitĂ ittiche. Appuntamento a Genova
MARZO 2007
scritto & mangiato
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in collaborazione con Slow Food
Ringraziamo per la gentile concessione delle immagini Alberto Novelli, che realizza reportage di viaggio per le maggiori testate specializzate. Ha lavorato in Africa per Amref, documentando le attività dei flying doctors in Sudan, Uganda. La maggior parte delle immagini che illustrano questo supplemento fanno parte di un reportage sulla pesca realizzato ad Essaouira, Marocco. Direttore responsabile Sandro Medici Direttore Mariuccia Ciotta Gabriele Polo Supplemento a cura di Francesco Paternò Grafica Daria Sorrentino Illustrazione di copertina Laura Federici Pubblicità concessionaria esclusiva Poster srl tel. 06/68896911 fax 06/68308332 Stampa Sigraf srl Via Vailate, 14 Calvenzano (Bg)
4 Mistero mare di Silvio Greco e Cinzia Scaffidi 5 L’isola felice di Valter Bordo 8 Pirarucu di Lia Poggio 9 Una rete lenta di Silvia Monasterolo 12 Vita da pescheria di Roberto La Pira 13 I padri di Andrea Amato 14 Gioco di sponda di Mariagiulia Mariani Anguille a rischio di Piero Sardo 16 Terra d’acqua di Giuseppina Ciuffreda 17 Biofuel Italia 18 Dice L’astice di Loris Campetti 19 Grassoni di Geraldina Colotti
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uesta volta ci diamo all’ittica. Scommettendo che il prossimo Slow Fish, l’appuntamento di maggio a Genova, sia un’altra occasione di vera sensibilizzazione e di confronto sui temi del mare e della pesca. Occasione che i nostri amici di Slow Food - contributori a piene mani di questo supplemento - sanno come cucinare, invitando tutti noi oltre che ottanta comunità e Presidi provenienti da trenta paesi dei cinque continenti. A discutere con cuochi come con docenti universitari, una replica perfetta di Terra Madre sull’acqua. E acqua e terra stanno per pesca e agricoltura, come per esempio la storia dei pescatori baltici di Kaliningrad che qui troverete o l’autosufficienza di Pamalakaya, un’associazione di piccoli imprenditori nelle Filippine che coinvolge più di 80.000 pescatori o anche - cambiando molto registro - l’impatto sull’agricoltura che avrà la diffusione e la produzione di biocarburanti. Un’analisi approfondita su un tema legato anche all’acqua e soprattutto alle possibili cure FRANCESCO PATERNÒ dei mali climatici, di cui in Italia si parla ancora troppo poco e superficialmente, al contrario di quanto avviene all’estero. Insomma, ce ne è per tutte le reti, compresa un’intervista a un astice sardo - leggere per credere. In realtà, non c’è da fare nessuna ironia: lo stato dei mari negli ultimi quarant’anni è molto cambiato, e naturalmente in peggio, e di questo soffrono i suoi variegati abitanti.Prendete il merluzzo, un pesce semplice e diffuso: veniamo informati che dal 1850 a oggi le sue quantità sono calate nei mari del 96 per cento. E’ vero che entrando in una pescheria delle nostre città non ci si accorge di nulla, ma la commercializzazione di tantissime specie altro non è che il frutto - anzi, il pescato - della globalizzazione. Per dire che al mercato ittico di Milano, considerato uno dei principali del nostro paese, il 70 o l’80 per cento delle partite di pesce proposte provengono dall’estero, o sono di allevamento. Il mondo ittico cambia, come cambiano le tecniche di conservazione che aiutano gli scambi commerciali, con risultati che almeno in parte dovremmo leggere sulle etichette del prodotto. E occhio al pesce di allevamento, le frodi sono sempre in agguato - come viene spiegato nelle pagine seguenti - finché non si arriverà a un metodo di analisi preciso, già in uso negli Stati uniti. In chiusura, un dolceamaro libresco, di soffritto di libri, di letture all’agro. Non vi resta che immergervi.
Acqua e terra
Chiuso in redazione il 20/3/2007
Per ordini diretti: book@manifestolibri.it
È ancora impresso. La ristampa dell’Album cult di Tano D’Amico e Piergiorgio Maoloni “é il ’77”. 106 foto di un anno che ha cambiato la nostra storia. Dal 16 marzo in edicola con il manifesto e in libreria con manifestolibri a 8,90 euro.
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a verità è che se ne sa troppo poco. Il mare è ancora prevalentemente un mistero. L’idea di avere, così vicino e così interconnesso con la nostra vita, un regno a sé di cui nessuno riesce a capire tutti i meccanismi e le migliaia di interazioni tra organismi e tra organismi e condizioni ambientali, ha certamente un suo fascino. Ma se si vuole il fascino del mistero allora bisogna evitare il contatto. Uno non può invadere, inquinare, prelevare, far ammalare e poi raccontarsi la storia del regno imperscrutabile. In linea di principio sarebbe anche giusto, che il mare si tenesse il suo mistero: ma ormai ci siamo spinti troppo oltre, lo abbiamo danneggiato con le nostre azioni miopi, al punto che non può più guarire da solo. Tocca a noi riparare i danni, anche perché la nostra miopia è stata tale da non farci vedere che la nostra sopravvivenza dipende da lui così come la sua da noi. Quindi rassegniamoci: bisogna studiarlo, il mare. Cercare di capirne il più possibile e poi comportarsi di conseguenza. Per studiare, ci vogliono soldi. Questo è un ritornello che abbiamo ripetuto fino alla nausea. Ma abbiamo intenzione di continuare. La ricerca in mare non ha finanziamenti adeguati, e il nostro paese è il fanalino di coda di una situazione generalmente desolante. La ricerca è il primo passo, affinché la politica possa fare le norme. Certo, poi le cose bisogna volerle. E bisogna che i tempi siano adeguati. Ancora oggi succede troppo sovente che le norme che conseguono a determinate scoperte o ricerche scientifiche arrivino con anni di ritardo. Se ti dico che una certa specie è in via di estinzione e tu riduci le quote pescabili di quella specie quattro anni dopo che te l’ho detto forse arrivi tardi, e la mia ricerca sarà stata inutile quanto la tua norma. La ricerca è il primo passo affinché i cittadini-consumatori possano assumersi la loro parte di responsabilità, possano acquistare in modo consapevole, possano – e quasi sempre lo vogliono! – fare la loro parte per provare a recuperare una situazione che sentono confusamente di aver in qualche modo contribuito a creare, ma non hanno le informazioni per compiere scelte diverse, si muovono a caso raccogliendo brandelli di informazioni dover riescono a procurarseli. È anche per questa fame di informazioni che il pubblico ha a proposito del mare e dei consumi ittici, che quando si parla di mare si registra sempre il tutto esaurito. È successo nel 2005 con le conferenze della seconda edizione di Slow Fish a Genova; sicuramente succederà di nuovo quest’anno, con la terza edizione (Genova 4-7 maggio). I consumatori vogliono capire che cosa sta succedendo, quali sono i danni e i rischi per la natura e per la loro salute, quali sono i comportamenti virtuosi da adottare. Vogliono sapere, in questo panorama di consumi impantanati su poche decine di specie su cui si accanisce la pressione di pesca, quali alternative ci sono. Tutti ci siamo trovati, almeno una volta, a una cena in cui qualcuno aveva cucinato un piatto insolito, con un pesce comprato per pochi spiccioli perché nessuno lo conosce e lo consuma. Buonissimo. Lì si è insinuato il dubbio di saperne troppo poco, non solo per contribuire al recupero di una situazione ecologica compromessa, ma anche, semplicemente, per godere appieno di un comparto della gastronomia che può riservare splendide sorprese se solo si prova a uscire dal piccolo recinto del pesce-bistecca, o del pescebastoncino. È stato sulla scorta di queste riflessioni che abbiamo deciso di provare a scrivere tutto quello che ci sembrava importante dire a proposito del mare. Gli autori: un biologo marino con lo “squeto” ovvero, in una traduzione approssimativa dal dialetto calabrese, l’impossibilità di concentrarsi su
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Mistero mare di Silvio Greco* e Cinzia Scaffidi** Un regno a sé da studiare, capire e comportarsi di conseguenza. L’esperienza di Slow Fish, ci vediamo a Genova
* Direttore scientifico dell’ICRAM (Istituto Centrale per la Ricerca Applicata al Mare) e presidente del Comitato Scientifico di Slow Fish ** Direttore del Centro Studi di Slow Food
qualcosa di teorico senza il supporto di un’attività fisica da svolgere in contemporanea (camminare, cucinare, imbiancare pareti o lavare bicchieri non importa, l’importante è non restare seduto davanti a un computer) e con trent’anni di esperienza in mare, tra campagne nell’antartico, marcature di balene e pesce spada nel Mediterraneo, missioni sulle varie emergenze ecologiche, dalle alghe liguri al petrolio libanese; una “veterana” di Slow Food con una laurea in filosofia, un superego al titanio che può tenerla inchiodata a una scrivania per settimane, e la convinzione che si possa anzi si debba, tradurre in un linguaggio comprensibile ai più anche i concetti più ostici e legare filosofia, scienza, ecologia, poesia, narrativa, chimica, economia… È questa la “strana coppia” che si è messa all’opera per dare alle stampe “Guarda che mare
che ci consentono di consumare una quantità eccessiva di proteine animali che ci rendono più vulnerabili ad alcune malattie. Allevamento e agricoltura che richiedono spropositate quantità di acqua, che impoveriscono laghi e fiumi, che portano meno ricambio al mare, e via, si ricomincia. E poi gli ”uomini di tutti i giorni”, quelli che usano troppe automobili e separano poca immondizia. Che scaldano troppo le loro abitazioni e spengono poche lampadine. Quelli che poco per volta, nel loro piccolo, hanno modificato nientemeno che la temperatura del mondo. E quindi dell’acqua del mare. Dove ci sono i pesci, che prima di essere pesci sono uova, o larve, e per loro un grado in più sul termometro può fare la differenza tra vivere e morire. Gli uomini e le donne che vanno al mercato del pesce e vogliono che tutto si svolga esatta-
Riflessioni su una delle ultime risorse viventi e rinnovabili del pianeta” (in uscita da Slow Food Editore ai primi di maggio). Infatti serve l’incontro di mondi diversi per parlare di mare. Perché bisogna parlare di uomini e delle loro attività produttive, prime fra tutte l’agricoltura e l’industria. Parlare dei problemi del mare significa parlare di quello che succede sulla terraferma, perché il mare non ha mai prodotto da sé i suoi guai. A dire il vero l’unica specie al mondo che sembra avere questo geniale privilegio (attuare comportamenti che possano danneggiarla) sembra proprio l’Homo sapiens sapiens, ma proprio per questo, visto che gli uomini abitano la terraferma, i problemi del mare sono sempre arrivati da terra. Le industrie con i loro scarichi in mare, ma anche con le loro emissioni aeree, che inquinano la pioggia che poi ricade anche in mare, e comunque sul suolo: da qui passa ai fiumi, e dai fiumi al mare. L’agricoltura con tutta la chimica che l’accompagna e l’allevamento con tutti i suoi farmaci e con le deiezioni animali che produce; la palla tra allevamento e agricoltura rimbalza un paio di volte perché tanta della nostra agricoltura serve per mantenere gli allevamenti intensivi, quelli
mente come quando vanno al mercato a comprare la carne. Dimenticando che pescare significa attingere a una risorsa naturale. I pesci non si producono, si prelevano. I prodotti ittici allevati sono una percentuale minima, all’interno della quale solo un’ulteriore minima percentuale può considerarsi ecologicamente sostenibile. Tutti gli altri vengono pescati. Questo vuol dire che non è come andare a comprare un petto di pollo. Bisogna andare a vedere quel che c’è e comprare in base a quel che si può prelevare dal mare senza alterarne troppo gli equilibri. Il bello è che se impariamo a farlo possiamo avere esperienze nuove e piacevolissime, risparmiando, per di più. Così, invece di cambiare il clima, che d’altronde andava bene com’era, possiamo provare a cambiare il mercato alleggerendo la pressione di pesca sulle specie a rischio. Invece di cambiare il clima, possiamo provare a cambiare le politiche, recuperando le situazioni compromesse e non compromettendo quelle che al momento sembrano in buona salute. E magari, di miglioramento in miglioramento, arriveranno anche un po’ di soldi in più alla ricerca, quella che ci permetterà di essere ancora più bravi, come cittadini e come consumatori.
I Laboratori dell’acqua
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Il Comitato scientifico di Slow Fish, con il coordinamento del Centro studi di Slow Food e il supporto della Fondazione Slow Food per la Biodiversità, ha messo a punto un calendario di Laboratori dell’Acqua, incontri aperti al pubblico sulle principali tematiche relative ai sistemi acquatici, alle attività di pesca, alle specie ittiche e alle politiche connesse a questi temi. Gli incontri hanno l’obiettivo di affrontare, con l’ausilio dei ricercatori, dei cuochi e degli operatori del settore, argomenti la cui comprensione può facilitare l’assunzione di un nuovo atteggiamento, più responsabile e attento, nei confronti di una risorsa naturale come gli ecosistemi acquatici. Questo il calendario degli appuntamenti: Venerdì 4 maggio – ore 15,00, 18,00 Sabato 5 maggio – ore 12,00, 15,00, 18,00 Domenica 6 maggio – ore 12,00, 15,00, 18,00 Lunedì 7 maggio, ultimo giorno della manifestazione, si terrà, dalle 11 alle 13,30 circa, il convegno dal titolo “Il Mediterraneo: le nuove normative, gli stock condivisi e gli scenari futuri”. Per il programma dettagliato e aggiornato dei singoli incontri: www.slowfish.it
L’isola felice di Valter Bordo*
Un viaggio nell’universo ittico, tra parole, pescatori e pescato. Conoscenza e piacere
n uomo pio raccontò ai suoi discepoli: “Togliere la vita è un’azione malvagia, salvare la vita è un’azione nobile. Ogni giorno giuro di salvare cento vite. Getto la rete nel lago e la ritiro con dentro un centinaio di pesci. Metto i pesci sulla riva, dove si contorcono e si dibattono goffamente. ‘Non abbiate paura’, dico loro. ‘Vi ho salvato impedendo che affogaste’. Poco dopo i pesci si calmano e restano immobili. Eppure, è triste dirlo, arrivo sempre troppo tardi. I pesci muoiono. E siccome ogni spreco è un male, porto i pesci morti sul mercato e li vendo ricavandone un certo guadagno. Con il denaro compro altre reti, così potrò salvare un maggior numero di pesci”. Queste righe, attribuite a un anonimo e utilizzate da Amy Tan nel suo libro Perché i pesci non affoghino, spiegano ciò che una pesca poco attenta alla sopravvivenza dei pesci e poco lungimirante da un punto di vista ambientale ha spesso perseguito. Ma la tavola dei valori di Slow Fish, in programma a Genova dal 4 al 7 maggio prossimi, non potrà rifarsi semplicemente a questa storia, e nemmeno soltanto al suo aggiornamento. La visione da dare a chi ancora chiede valori in cui credere è necessariamente pluralista, vista l’ampiezza del tema trattato, anche perché plurali sono le realtà sociali che il mare coinvolge. La manifestazione genovese, forte del suo alfabeto inedito, vuole essere, tra le altre cose, una colorata e fertile isola su cui si intrecceranno le prime maglie per costruire la rete di comunità del cibo che gravitano intorno al sistema pesca. Un iniziale momento di riflessione culturale, una importante occasione in cui tutti i protagonisti, di qualunque estrazione o formazione cul-
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turale essi siano, dialogheranno con pari dignità. Slow Fish 2007 prosegue quindi, ampliandolo con nuovi temi e approfondimenti, il percorso iniziato nelle edizioni passate, proponendosi di trasmettere passione, emozione, sentimenti. Sempre maggiore vuole essere il coinvolgimento delle istituzioni, delle scuole, dei mass media e del pubblico che a Genova troveranno molteplici argomenti su cui discutere, oltre a gustosissime opportunità culinarie. Slow Fish sarà un viaggio nell’universo ittico, nelle caleidoscopiche realtà di uomini, mestieri e culture “leggibili” attraverso i Laboratori dell’acqua, interessanti momenti di discussione e di riflessione; di aree animate da rappresentanze di pescatori provenienti da tutto il mondo, dove l’esatta percezione di come un cibo possa essere “buono, pulito e giusto” sarà alla portata di tutti attraverso i percorsi costruiti con i Presìdi del mare, nati per salvaguardare le piccole comunità di pescatori tradizionali che, in tutto il mondo, si tramandano tecniche antiche. Si tratta di sistemi di pesca che, dato l’utilizzo di piccole barche e di reti selettive, non possono certo garantire i quantitativi catturati dai grandi pescherecci e necessari all’industria conserviera, ma rispettano gli ecostistemi costieri e la stagionalità del pescato. Mediterraneo, mari del Nord, pesca lagunare e di acqua dolce a Slow Fish troveranno il palcoscenico dove raccontarsi al meglio. Ma la conoscenza e il piacere si mescoleranno anche nei percorsi educativi per ragazzi e adulti; nelle zone dimostrative come il Teatro del gusto o nei collaudati Laboratori del gusto; nelle postazioni dove diverse realtà territoriali – nazionali ed estere – potranno presentarsi e raccontare i loro progetti o in altre dove saranno protagoniste le
cucine legate ai territori di provenienza; in ambienti dove sarà possibile acquistare i più diversi conservati ittici fino ad arrivare ai suoni e ai profumi propri del mercato del pesce fresco. Accattivante vuole essere anche lo spazio dedicato all’ambiente, realizzato in collaborazione con il Wwf: qui saranno protagoniste le aree marine protette, zone tutelate dove accanto all’uomo e alle sue attività convivono straordinari elementi ecologici ed equilibri ambientali altrove perduti. In un momento così difficile per l’ambiente non si poteva non focalizzare l’attenzione anche su ciò che è stato fatto, su ciò che si sta facendo e su ciò che bisogna conservare e rispettare. Perseguendo queste finalità, Slow Fish 2007 amplierà con nuovi temi e approfondimenti il percorso iniziato nelle edizioni passate, portando all’attenzione del grande pubblico le più attuali questioni legate alle risorse condivise, alla gestione integrata della fascia costiera e alle buone pratiche di politica internazionale di pesca e di comportamento, anche da parte di chi il pesce semplicemente lo acquista per cucinarlo in famiglia. Nella stessa area uno spazio sarà dedicato al tema della salute delle acque interne. Questo sarà anche il luogo dove l’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo presenterà il progetto “Viaggio lungo il Po per una nuova didattica della memoria e dell’identità fluviale”. Infine, il convegno previsto nel giorno di chiusura sarà incentrato su “Il Mediterraneo: le nuove normative, gli stock condivisi e gli scenari futuri”, argomenti che ci auguriamo possano creare i presupposti per un prossimo meeting internazionale socio-politico di riflessioni sul Mediterraneo, cui Genova deve aspirare come sede. *Slow Food
The ExtraDark Side of Breakfast.
Al mattino, risveglia i tuoi sensi con un gusto intenso e deciso, il gusto delle nuove Gocciole ExtraDark. Irresistibili biscotti al cacao con gocce di vero cioccolato extrafondente: un piacere mai provato.
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onosciuta come il luogo che accoglie la più grande biodiversità del mondo, la foresta Amazzonica è formata principalmente da foreste di terra ferma (tierrafirme) che si trovano al di fuori dell’influenza diretta dei fiumi e non subiscono inondazioni, da foreste di várzea (di erba) allagate dai fiumi di acqua fangosa nella stagione delle piene e con suoli relativamente ricchi, e da foreste di igapós, inondate in modo quasi permanente da fiumi di acqua nera. Questo particolare ecosistema è legato all’abbondanza delle piogge che, in determinati periodi dell’anno, provocano straripamenti sommergendo vaste aree. Il fenomeno ha un’importanza così rilevante ed è così regolare da essere registrato nel linguaggio locale con i tre termini citati. Migliaia di specie di pesci endemici, che svolgono un ruolo importante per la riproduzione delle piante che costeggiano i fiumi, sono legate alla rete fluviale amazzonica, formata da innumerevoli fiumi di grandi dimensioni, che raccolgono acque fangose provenienti da aree con intensa erosione e ricche di minerali disciolti, neutre o leggermente alcaline, acque nere (con una forte acidità legata alla lisciviazione delle componenti acide del terreno e al tannino prodotto dalla vegetazione decomposta) e acque chiare, quelle dei fiumi del sud, trasparenti e particolarmente limpide. Il pirarucu, nome scientifico Arapaima gigas, presenta alcune peculiarità biologiche ed ecologiche che lo rendono particolarmente adatto alla pesca da parte delle popolazioni locali. Per le sue dimensioni eccezionali – può raggiungere i 3 metri di lunghezza e i 250 chili di peso – è definito il “gigante dell’Amazzonia”, ma ritmi di pesca particolarmente aggressivi ne stanno minacciando la sopravvivenza e riducendone le dimensioni medie, anche se alcuni esemplari superano ancora i 2 metri di lunghezza e i 125 chili. L’apparato respiratorio è un’altra particolarità della specie: una vescicola natatoria le permette di catturare ossigeno anche in superficie, funzionando quindi come un polmone. Grazie a tale caratteristica il pirarucu può sopravvivere nelle acque povere di ossigeno del bacino amazzonico ma, allo stesso tempo, è una facile preda per i pescatori. Il periodo di cura dei piccoli, dopo la deposizione delle uova, aumenta la vulnerabilità dei riproduttori. Il maschio, infatti, assiste gli avannotti durante le prime settimane di vita, spingendosi in superficie accanto ai piccoli
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Pirarucu di Lia Poggio* Amazzonia, terra eletta della biodiversità, storia di un pesce gigante che aiuta la gente
per facilitare loro l’esercizio della respirazione aerea. Nelle ultime due decadi il rapido processo di urbanizzazione ha modificato il territorio della regione, mettendo a rischio l’ecosistema naturale e causando un forte incremento nella domanda ittica. La pesca intensiva è diventata la maggiore attività economica, raggiungendo dimensioni tali da destabilizzare l’equilibrio dell’ecosistema dei laghi e la tradizionale economia di sussistenza dei riberinhos, non coinvolti in questa dimensione commerciale. Inoltre ha causato una rapida diminuzione degli stock naturali, al punto da rendere necessaria una regolamentazione. Così, dal 1991, è stata proibita la cattura nel periodo della riproduzione, da dicembre a marzo, mentre nel 1993 è stata definita la misura minima per la commercializzazione degli esemplari (1,50 metri), in modo da salvaguardare i giovani che non si sono ancora riprodotti (la specie ha una maturazione sessuale tardiva). Per garantire la conservazione degli stock e la biodiversità è stato pure istituito un sistema di gestione sostenibile delle aree inondate del bacino amazzonico che prevede la suddivisione dei laghi in tre differenti aree, a ognuna della quali è destinato un particolare utilizzo delle risorse (zone di allevamento, di pesca a basso impatto e di pesca intensiva).
Nel comune di Silves, situato su un’isola nel lago Canaçari, a circa 300 chilometri da Manaus, grazie all’impegno delle comunità locali è nata l’Associazione di Silves per la Preservazione Ambientale e Culturale (Aspac), un’organizzazione non governativa che ha creato una delle prime aree protette per la gestione sostenibile del lago e delle sue risorse. Si tratta di un progetto comunitario di preservazione ambientale e culturale, sviluppatosi nelle comunità di pescatori con l’appoggio di alcuni enti pubblici, volto alla tutela dell’ecosistema regionale. L’associazione, che si autofinanzia attraverso l’ecoturismo, sta portando avanti con successo alcuni progetti per la salvaguardia delle specie ittiche autoctone, supportata dall’aiuto e dalla consulenza di alcuni tecnici e ricercatori. Predatore le cui origini risalgono al periodo giurassico, il pirarucu è la tradizionale e principale fonte di proteine della popolazione locale, i cosiddetti riberinhos, meticci che vivono lungo le sponde dei fiumi e consumano la carne del pesce – praticamente priva di lische – fresca o essiccata e salata, proprio come il merluzzo. La lingua ossificata è invece utilizzata per grattugiare i durissimi bastoni di guaranà, mentre con la pelle si fabbricano oggetti di artigianato. * Slow Food
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ono passati poco meno di due anni dall’edizione di Slow Fish del 2005, quando le comunità della pesca di tutto il mondo sono state protagoniste per la prima volta – dopo la prima edizione di Terra Madre nel 2004 – di un evento che rappresenta un momento di confronto e sensibilizzazione sulle tematiche legate al mare e alla pesca. Due anni fa hanno partecipato a Slow Fish 46 comunità della pesca da 20 paesi del mondo: nel frattempo la seconda edizione di Terra Madre, svoltasi a Torino dal 26 al 30 ottobre 2006, ha rinsaldato i legami tra i produttori e ne ha creati di nuovi, con i 1000 cuochi e gli oltre 250 rappresentati del mondo delle università, compiendo un passo fondamentale nella costruzione del network mondiale che permetterà di creare canali di comunicazione fra tutti i protagonisti di Terra Madre. Slow Fish è una piccola Terra Madre, dedicata alle comunità che basano la loro sussistenza sulla pesca e sulle attività a essa connesse. L’edizione 2007 vedrà la partecipazione di 80 tra comunità e Presìdi provenienti da 30 paesi del mondo: i pescatori, i trasformatori e i cuochi invitati avranno la possibilità di stringere ulteriormente le maglie della rete che già li lega, di far conoscere al pubblico i loro prodotti e i loro saperi attraverso il mercato e soprattutto il bazar, i cui protagonisti presenteranno al pubblico i loro prodotti e la loro cultura, la pesca e l’allevamento di qualità, dei mari, delle acque interne e delle lagune costiere. Ma non solo: i
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Laboratori dell’acqua rappresenteranno l’occasione per le comunità di interagire tra di loro, scambiandosi idee su tematiche comuni, con l’obiettivo di divulgare una diversa cultura delle acque, di educare il pubblico, di stimolare i ragazzi ad assumere un atteggiamento responsabile e consapevole di fronte a tali risorse. Le comunità di Slow Fish rappresentano tutti i continenti, e alcune di loro provengono dalle aree più remote del pianeta. Ciò che le accomuna è il tipo di approccio alla pesca sostenibile e al rispetto delle risorse. Tra quelle invitate all’edizione del 2007, ci sono anche i pescatori olandesi delle isole Frisone, divise tra Germania, Paesi Bassi e Danimarca, un arcipelago che incornicia l’estuario più vasto d’Europa, dove sfociano i fiumi Ems, Weser ed Elba. La zona è una riserva naturale protetta, in cui la presenza di giacimenti di petrolio e di gas in passato ha messo a rischio gli ecosistemi. La parte occidentale – weddeland in olandese – forma una barriera naturale per la costa settentrionale. In queste isole una piccola comunità di pescatori da alcuni anni sta creando una rete di scambio grazie a mercati locali per la vendita di specie di pesce certificate. La pesca è praticata nelle acque limitrofe e su piccola scala. Branzini e cefali – freschi o affumicati in modo tradizionale – sono venduti sui mercati locali; solo una minima parte, tramite alcuni distributori, varca i
I KANAK DELLA NUOVA CALEDONIA In tema di rapporto privilegiato con l’ecosistema e di gestione oculata delle risorse naturali è importante segnalare la presenza a Slow Fish di una piccola delegazione di pescatori Kanak, aborigeni della Nuova Caledonia. I Kanak costituiscono circa il 40-45% dei 300 000 abitanti del piccolo arcipelago del pacifico francofono e pescano in maniera tradizionale (spesso in immersione), in un mare ancora ricco di specie endemiche e circondato dalla più grande barriera corallina al mondo. Il destino di questi aborigeni melanesiani è da sempre legato a doppio filo con il sistema marino e, a tutt’oggi, i Kanak godono di deroghe sulla pesca di animali altrimenti vietati, come le tartarughe, e basano la loro attività su regolamentazioni tradizionali volte alla protezione dell’ambiente, rispettando i “tabù” stabiliti dai capi tribù. Punto di riferimento per i Kanak della Nuova Caledonia è il Centre Culturel Tjibaou, sito nella capitale Nuoméa e progettato da Renzo Piano, dedito al recupero e alla conservazione dei loro saperi.
Una rete lenta di Silvia Monasterolo* Quando s’incontrano ottanta comunità e presidi provenienti da trenta paesi del mondo
confini regionali. L’Est sarà invece rappresentato dai pescatori di Kaliningrad, una regione pianeggiante sul mar Baltico che, grazie a uno status giuridico particolare, ha avuto uno sviluppo economico fondato prevalentemente su pesca e agricoltura. La comunità è formata da aziende private che si occupano dell’allevamento, della lavorazione dei pesci e della pesca stessa. Pescano lucioperca, aringa del Baltico, papalino, merluzzo, brama, successivamente salati o affumicati. Per preparare l’aringa baltica i filetti di pesce sono messi in salamoia per tre-cinque giorni, poi si tagliano in pezzi piccoli e si mettono in contenitori con olio e spezie. Il pesce, fresco e lavorato, è commercializzato nella rete distributiva della regione. Nel continente americano, da millenni i nativi Wampanoag pescano molluschi e crostacei nelle acque che lambiscono le coste di Martha’s Vineyard, lungo la costa orientale degli Stati Uniti. Una comunità di piccoli acquacoltori invitata a Slow Fish continua la tradizione, usando metodi di pesca e di allevamento naturali e sostenibili nelle baie e nei bacini artificiali. Ne fanno parte circa 300 pescatori e raccoglitori di molluschi e 25 soci del convivium di Slow Food Martha’s Vineyard, che insieme lavorano per fornire prodotti di alta qualità – ostriche, capesante, vongole e altri bivalvi d’allevamento – freschi e locali, ai consumatori della regione.
Tenendo lontane dal Massachusetts le industrie della pesca, aiutano a sostenere l’economia locale, a incrementare la popolazione ittica dell’area e a preservare la tradizione culinaria del New England. Spostandoci più a sud, dallo stato brasiliano del Sergipe, a circa 350 chilometri a nord di Salvador, conosceremo i pescatori di una comunità composta da 1000 persone che vive quasi esclusivamente di pesca artigianale e raccolta di aratu (piccolo granchio), sururu e siri (molluschi e crostacei), caranguejo (granchio). Recentemente è iniziato su piccola scala l’allevamento del sururu, mollusco commestibile dei laghi brasiliani, ottimo in cucina, che si pone come alternativa economica al commercio di granchi e crostacei. Si cerca, inoltre, di valorizzare il catado de aratu, prodotto tradizionalmente lavorato dalle donne, a causa di un declino nella produzione di caranguejo. Pamalakaya, un’associazione di piccoli imprenditori dediti alle attività di pesca, pescicoltura e commercializzazione di prodotti ittici delle Filippine, rappresenta comunità sparse in più province, con oltre 80 000 pescatori coinvolti. Tra le specie di maggiore rilievo citiamo il cefalone (pesce latte, milkfish), selvatico o di allevamento, del quale si pescano circa 5000 tonnellate all’anno. L’associazione non si avvale di partner commerciali e risulta totalmente autosufficiente per le attività produttive e di distribuzione; rivendica l’importanza dell’acqua come sorgente di vita e si batte per la tutela delle risorse marine attraverso la promozione di metodi di pesca tradizionali e sostenibili. Non mancherà il continente africano, rappresentato da un Presidio e da diverse comunità, tra cui quella dei produttori di pesce essiccato di Kingabwa, un’area del Congo Kinshasa strettamente connessa alle acque del fiume Congo, dove da circa cinquant’anni è stato introdotto l’Heterotis niloticus (kongo ya sika in lingua locale), un pesce che può raggiungere il metro di lunghezza, vive in acque dolci, ed è catturato con nasse e reti a maglie larghe. I 476 produttori di questa comunità catturano il pesce e lo trasformano applicando tecniche tradizionali di essiccazione e salagione. Tagliato in piccoli pezzi, il pesce è avviluppato in foglie, spesso di manioca, e aromatizzato con sale e peperoncino: è il liboke, piatto tipico molto apprezzato. Il pesce è inoltre consumato sotto forma di makayabu, equivalente al baccalà. E collaborando con le donne venditrici di pesce, la comunità si assicura anche una costante commercializzazione del pescato. *Slow Food
LINEA DI ABBIGLIAMENTO SOLIDAL. UN’ECONOMIA PIÙ SOLIDALE VESTE IL MONDO.
Il mondo non è diviso solo da mari e catene montuose, ma anche da condizioni di vita, opportunità di lavoro, speranze per il futuro. Questi sono i veri confini dello sviluppo. Per fortuna c’è un modo per passare da una parte all’altra: è condividere i vantaggi. La linea d’abbigliamento Solidal Coop infatti, non solo sostiene i lavoratori del Sud del mondo, ma garantisce capi confortevoli, fabbricati con tessuti di qualità, ad un prezzo equo anche per te. Le linee, si sa, servono a dividere. La linea Solidal Coop, invece, vuole unire.
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a bambino andavo spesso sul molo di Pozzallo con mio nonno a vedere le scialuppe dei pescherecci mentre scaricavano le cassette di legno piene di polpi, triglie, merluzzi, scorfani e altre specie. Il ghiaccio era poco, le mosche tante, ma una cosa era certa: tutto il pesce era stato catturato a qualche chilometro dalle bellissime spiagge della costa sud-orientale siciliana. Oggi questa storia assomiglia a un racconto da libro Cuore. Il mondo ittico, a distanza di quarant’anni, è radicalmente cambiato, e aumentano le notizie che destano qualche preoccupazione. Un lancio dell’agenzia di stampa Ansa del 9 marzo dice che “le popolazioni di merluzzo dal 1850 ad oggi sono calate del 96%”. La notizia si riferisce a uno studio della rivista Frontiers in Ecology dell’Ecological Society of America. Se-
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portanti in Italia – proviene dall’estero o è di allevamento. La mappa è presto fatta. Le cernie arrivano dal Senegal, i granchi e le granseole dal nord della Francia, gli scampi dalla Scozia, il tonno fresco sottovuoto dall’Indonesia o dallo Yemen, le code di rospo dalla Danimarca, pagri, pagelli e dentici dall’Africa. Il pesce spada nazionale è poco, per questo la maggior parte giunge dalla Spagna. Gli astici e altri crostacei che tanto piacciono agli italiani provengono dagli allevamenti attivi in Canada e sulla costa atlantica degli Stati Uniti. I molluschi pescati in Italia scarseggiano e si consumano in loco: nei ristoranti si cucina in genere prodotto surgelato proveniente da Tunisia, Marocco, Senegal, Ghana e Indonesia. Il salmone fresco parte soprattutto dagli allevamenti norvegesi ma anche dalla Scozia e dal Cile ed è in aumento l’offerta di salmone selvaggio del Pacifico. Ci so-
Vita da pesch di Roberto La Pira* Le scorte di pesce nel mondo si stanno impoverendo. Una mappa informata dei mercati ittici
condo la ricerca, negli ultimi 55 anni la biomassa di merluzzo nel Mare di Scozia è passata da 1,26 milioni a 50 000 tonnellate. Una tesi simile è sostenuta da Charles Clover nel libro Allarme pesce (Ponte alle Grazie, 2005). L’autore, considerato uno dei maggiori esperti del settore, riporta dati e numeri per evidenziare la grave situazione che si riscontra sui mercati di tutto il mondo. Secondo Clover le scorte si stanno impoverendo in modo drastico, con conseguenze preoccupanti. Se però si entra nella pescheria di una grande città come Milano, la sensazione è un’altra. C’è un assortimento in grado di soddisfare qualsiasi appetito. Sul banco si trova di tutto, dal salmone alla trota, dalle vongole alle cozze, dai gamberi all’astice, dal pesce spada al tonno, dalla triglia alla cernia, oltre ai soliti branzini, orate e rombi di allevamento. L’apparente contraddizione fra la riduzione degli stock delineata dagli esperti e l’abbondanza di specie in pescheria è un fenomeno tipico della globalizzazione. Basta recarsi all’aeroporto di Malpensa per scoprire che ogni giorno arrivano in Italia quantità esagerate di pesce fresco. Secondo qualcuno, il 70-80% delle partite commercializzate al mercato ittico di Milano – considerato uno dei più im-
no anche cernie e gallinelle importate dall’Australia e dalla Nuova Zelanda. Da un quadro simile è facile intuire come la distanza tra la zona di pesca e il luogo di consumo non rappresenti più un problema. Un contributo determinante agli scambi commerciali viene anche dalle nuove tecniche di conservazione, che permettono di conservare il pesce per 10-12 giorni, se si rispettano le temperature. Il riscontro si può constatare leggendo le informazioni obbligatorie sull’origine riportate in etichetta, e osservando i prezzi in costante lievitazione. Il motivo dei rincari è da ricercare nella scarsa presenza di pesce “made in Italy” e nell’incremento delle importazioni da paesi sempre più lontani, che ormai garantiscono il 60% dei 20,9 chili all’anno consumati da ogni italiano. Il secondo elemento che ha rivoluzionato il mercato ittico è il grosso quantitativo di pesce di allevamento consumato nel nostro paese. Secondo le stime dell’Ismea (vedi Filiera pesca e acquacoltura del gennaio 2005) il 68% del pesce fresco italiano è catturato in mare, la rimanente quota è di allevamento. A questa si somma un’ingente porzione di pesce allevato di importazione che comprende orate, spigole, trote salmonate, salmoni, rombi, ombrine, saraghi ecc. In questa situazione le frodi hanno trovato
nuovo spazio. La furberia più diffusa consiste nel cambio di specie. Il trucco è abbastanza semplice: si importano specie di minor pregio che saranno poi vendute con un appellativo di maggior valore commerciale. Il caso tipico è la sostituzione della Solea vulgaris, un pesce pregiatissimo che vive nei nostri mari conosciuto con il nome di sogliola, con specie simili di valore inferiore come la limanda, la sogliola del Senegal o la lingua. Ci sono anche lo smeriglio e il palombo che diventano pesce spada, il merluzzo africano che si trasforma in norvegese e così via. Gli addetti ai lavori conoscono il problema, ma non intervengono perché non dispongono di strumenti analitici in grado di svelare l’inganno. Il problema si complica ulteriormente quando i pesci sono commercializzati in tranci o ì filetti, per la difficoltà oggettiva del riconoscimento. “La soluzione al problema sarà possibile – spiega Valentina Tepedino, medico veterinario specializzato nell’ispezione dei prodotti ittici – solo quando sarà ufficializzato il metodo di analisi rapido, semplice e poco costoso, messo a punto dall’Università di Milano. Il sistema è già in uso negli Stati Uniti ed è riconosciuto dalla Food and Drug Administration per identificare con precisione le specie. Solo in questo modo anche i veterinari italiani potranno smascherare i venditori che propongono specie ittiche differenti da quelle dichiarate in etichetta”. La questione non è accademica, presenta risvolti commerciali sin troppo evidenti. Se un filetto di sogliola costa anche 3035 euro al chilo, quello di platessa scende a 15-30 mentre quello di passera oscilla da 12 a 15. Un altro problema si pone per i filetti e i tranci di pesce sottoposti a trattamenti “illeciti” in grado, tra l’altro, di migliorare l’aspetto e di pro-
I padri U
na comunità che si impegna senza sosta per preservare la biodiversità delle proprie acque in pericolo; un’associazione che si occupa in prima persona di pattugliarle per difenderle dai bracconieri; un gruppo di pescatori che divide equamente i proventi della vendita del pescato al mercato locale per il benessere delle sue famiglie; un’unione di pescatori che sta proponendo una delle più fruttuose e innovative esperienze di gestione ambientale partecipativa e di recupero di specie a livello mondiale, affiancandola a progetti di turismo sostenibile: tutto questo è Yaku Tayta, l’organizzazione sociale di pescatori e trasformatori artigianali della comunità di Manco Cápac, attiva nella foresta amazzonica del Perù nordorientale, presente a Slow Fish per la prima volta nel 2007. L’unità di pesca comunitaria Yaku Tayta, espressione che in dialetto quechua, una delle
di Andrea Amato* Qui Perù, storia di una comunità che lavora per proteggere l’ecosistema e favorire gli abitanti di una laguna
heria
lungare la conservazione. Secondo un recente dossier pubblicato dalla rivista Eurofishmarket la tecnica consiste nell’immergere per 6-12 ore i filetti in una soluzione acquosa miscelata ad alcuni additivi. Alla fine del trattamento il pesce aumenta di peso perché assorbe il 10-15% di acqua e il suo aspetto risulta decisamente più accattivante. Anche in questo caso non esistono metodi di analisi ufficiali per individuare la frode e l’azione dei veterinari rischia di non essere efficace. La soluzione potrebbe essere quella proposta da una ricerca coordinata da diversi istituti universitari e zooprofilattici che propone metodiche analitiche specifiche e rapide, in grado di evidenziare questo tipo di frodi, che fortunatamente stanno già dando ottimi risultati.
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lingue degli indigeni andini, significa “padri della laguna”, è costituita da 15 membri che dal 1994 si impegnano in attività ad alto impatto ecologico, economico e sociale, favorendo l’ecosistema e gli abitanti della laguna di El Dorado, sita all’interno della Riserva Nazionale Pacaya Samiria. La pesca indiscriminata perpetrata negli anni da gruppi di bracconieri ha ridotto enormemente la generosa biodiversità della zona, causando la quasi completa estinzione di alcune specie endemiche e minando, quindi, la stabilità economica di comunità vissute da sempre in equilibrio con l’ambiente circostante. Per salvaguardare la ricchezza idrobiologica del territorio i pescatori si sono organizzati e hanno proposto una serie di iniziative scaturite nei planes de manejo: piani quinquennali per la gestione delle risorse naturali da realizzare in collaborazione con enti regionali e statali, il comando della riserva e alcuni partner tecnici e associazioni ecologiste. Il primo piano, entrato in vigore nel 2004, si propone di garantire la conservazione del paiche (Arapaima gigas, Cuvier), detto pirarucu nell’Amazzonia brasiliana, al fine di garantirne il consumo controllato e sostenibile e per migliorare la qualità della vita della comunità di Manco Cápac. Il piano stabilisce regimi di accesso all’area del parco, volumi, metodi e tempistiche di pesca: in seguito a una valutazione annuale dello stock presente si fissano i volumi di pesca (la quota ammonta al 10% della popolazione tota-
L’etichetta obbligatoria per il pesce fresco è entrata in vigore nel 2002. Le indicazioni devono essere presenti sia sulle vaschette usate nei supermercati, sia sui cartellini delle pescherie. Le diciture devono indicare: la denominazione della specie, il metodo di produzione (allevato o pescato) e la zona di cattura (Mar Mediterraneo, Mar Baltico, Oceano Indiano, Pacifico, Mar Nero, Atlantico centro-occidentale…). Chi vuole può precisare meglio l’origine specificando se si tratta di Mar Adriatico, Tirreno ecc. Grazie a queste indicazioni il consumatore può sapere se il branzino che sta acquistando è italiano oppure proviene dal Nord Atlantico o dalle coste nordafricane. Il pesce cresciuto in vasca o in bacini artificia-
le), quindi si procede alla cattura utilizzando solo reti selettive che escludono gli esemplari di lunghezza inferiore ai 160 centimetri, infine il pesce è commercializzato fresco o salato ed essiccato per la conservazione e la vendita. I risultati ottenuti fin dalla fondazione dell’Unità di pesca comunitaria sono molto soddisfacenti: si è passati dai 10 esemplari censiti nel 1994 ai 629 del 2003. Nel 2005 è stato varato, dai gruppi organizzati di gestione della riserva, tra i quali anche Yaku Tayta, il plan de manejo della taricaya (Podocnemis unifilis), testuggine acquatica che vive nelle acque della laguna. Gli interventi previsti riguardano la difesa dei nidi naturali dai bracconieri e, eventualmente, la ricreazione dei nidi e il trasporto delle uova in queste aree protette. Anche per la taricaya si sono stabilite percentuali di sfruttamento delle risorse: solo una minima parte delle uova e delle testuggini sarà prelevata per il sostentamento della comunità o per usi commerciali. Yaku Tayta rappresenta, dunque, un esempio virtuoso di gestione oculata delle risorse naturali che unisce la difesa della biodiversità locale ad altri elementi interessanti. In primo luogo aspetti sociali quali l’accesso ugualitario alle risorse e l’educazione alla legalità; in secondo luogo aspetti economici legati a un possibile accesso al mercato nazionale ed extranazionale dei derivati. *Slow Food
li deve riportare la parola “allevato”, affiancata dalla specie e dal paese dove si realizza l’ultima fase dell’allevamento. Le stesse regole valgono per il prodotto congelato e scongelato. La norma non riguarda le preparazioni alimentari cotte e le conserve sotto sale (cotolette di pesce, piatti surgelati, zuppe), mentre include il pesce sotto sale e affumicato. I pescatori che vendono piccole partite possono fare a meno delle etichette. Il pesce allevato, quando la produzione è praticata con rigore, può dare garanzie anche superiori rispetto a un pesce pescato. È più facile infatti risalire alla freschezza e conoscere alcuni parametri igienico-sanitari attraverso il ciclo di vita e la tracciabilità. *Slow Food
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Gioco di al Massiccio Centrale giù fino all’Atlantico, la dolce e impetuosa Loira attraversa la Francia, con il suo percorso di più di 1000 chilometri, e ne disegna un paesaggio a tratti fiabesco, punteggiato da castelli rinascimentali e colorato da vigne di chenin blanc. La sua è una presenza importante, nonostante il volto quasi inanimato: modifica profondamente il territorio, ne determina la luce, la vegetazione, ma anche il ciclo di distruzione e rinascita, quando le sue acque abbandonano il letto e si riversano con violenza fuori dagli argini. Strano il destino dei grandi fiumi, del placido Po come della Loira: ci si ricorda di quale vitalità abbiano e di quale delicata ricchezza nascondano solo nei momenti di crisi. Durante gli ultimi decenni, gli italiani come i francesi hanno voltato le spalle ai due corsi d’acqua che hanno disegnato la geografia e la storia dei loro paesi. La vita che essi racchiudono ha iniziato a diventare invisibile e a subire danni; il rapporto con la popolazione rivierasca, con i suoi antichi mestieri, è caduto nell’oblio. Slow Food sta proponendo alcuni progetti volti a determinare una nuova rotta per lo sguardo e i gesti di chi abita lungo i due fiumi, affinché si recuperi un rapporto più sano e consapevole con il territorio: in Italia, con il viaggio degli studenti dell’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche dal Monviso al delta del Po, seguendo le orme di Mario Soldati; oltralpe, con la partecipazione a Terra Madre e a Slow Fish della comunità dei pescatori del bacino della Loira e con l’impegno della Condotta di Tours-Val de Loire a favorire il consumo locale delle numerose specie di pesci presenti nelle sue acque. Negli ultimi quarant’anni la Loira ha vissuto cambiamenti che l’hanno portata a diventare un ecosistema a rischio alla fine degli anni Novanta: la portata idrica del bacino è drammaticamente diminuita del 40% e, con essa, hanno iniziato a scarseggiare tanto i pesci quanto i pescatori, ormai più che decimati. Le pucelles sono abbastanza rare oggigiorno; la loro abbondanza di un tempo e il loro posto d’onore nella gastronomia locale sono ormai un lontano ricordo. Pucelle (“pulzella”): così era chiamata nel XV secolo nel dialetto di Tours l’alose, cioè la cheppia, una grossa sardina di fiume dalla carne rinomata. Questo nome dialettale nasconde l’intenso legame che esisteva, e non si è ancora dissolto completamente, tra la gente della Loira e il fiume che costituiva il teatro della vita materiale e di quella simbolica, spazio di racconti, soggetto di quadri, elemento del pensiero collettivo. A rinnovare questo legame col passato, con gli antenati che popolavano il fiume, collabora Jean-Jacques Martin, con mani preziose e devote alla Loira: pescatore amatoriale fin dall’infanzia, cuoco che ha dedicato la sua vita professionale alla cucina del terroir e oggi disegnatore e cantastorie che si ispira alla vita della sua terra e delle sue acque. Jean-Jacques è autore di alcuni libri popolati da acquarelli che raffigurano pesci ormai dimenticati e da ricette che raccontano lo storico legame dell’uomo con il fiume. Seguendo l’insolita
cosmogonia tracciata in questi piccoli manuali di sapienza popolare, si scopre che la cheppia era chiamata pucelle perché per riprodursi, in primavera, risale il fiume seguendo la scia di Giovanna d’Arco, da Tours a Orléans. Il percorso delle cheppie, però, è oggi ostacolato dall’uomo. Infatti, a differenza di quanto accade lungo il Po, il flusso del fiume francese è modificato o interrotto da numerose dighe e briglie che precludono il passaggio dei pesci migratori. La cecità di alcune scelte economiche ha rischiato di rendere il fiume un ambiente sterile e inospitale per gli animali che lo abitano. La loro lenta e silenziosa fuga si è fortunatamente arrestata da quando le recenti politiche territoriali si sono de-
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Anguille a risc di Piero Sardo* Un calo costante nei quantitativi mondiali, sotto l’attacco di un parassita. E in Europa dell’uomo
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abato 23 dicembre, al tramonto, una barca di pescatori è salpata dal porto di Comacchio verso il largo, fuori delle Valli. Sulla barca il presidente del Parco del Delta del Po, Valter Zago, il sottosegretario del Ministero dell’Agricoltura Guido Tampieri, il presidente di Slow Food Emilia, Alberto Fabbri, il professor Stefano Cataudella, membro del comitato scientifico di Slow Fish, e altre personalità scientifiche e istituzionali. Il gruppo non andava a celebrare in mare la vigilia di Natale, ma a compiere un gesto fortemente simbolico: liberare in acque aperte 200 chili di anguille o, meglio, di capitoni, gli animali più matu-
ri, pronti per il ritorno nel mar dei Sargassi per riprodursi. Catturati nei lavorieri dell’azienda Valli, ora gestita dal Parco e diventata Presidio Slow Food, invece di finire arrostiti alle braci e marinati, si sono trovati in mare aperto. Questo perché, come forse sapete, la situazione degli stock di anguille è drammatica. Si assiste ormai da anni a un calo costante e sensibile nei quantitativi di avannotti che arrivano alle acque dolci dal mare e, conseguentemente, della loro pesca: e questo succede in ogni parte del mondo. La causa di questa situazione è da addebitare in buona parte alla presenza nei mari orientali di un parassita
che attacca le anguille e le uccide, un parassita che è ancora assente in Europa. Qui da noi opera, però, un morbo peggiore, l’uomo. L’uomo cui è ancora consentito pescare le ceche (gli avannotti dell’anguilla) come in Francia e in Spagna; l’uomo che esercita una pressione di pesca eccessiva, praticando anche il bracconaggio, cioè la pesca al di fuori dei periodi consentiti; l’uomo che utilizza strumenti di cattura che non concedono possibilità di scampo agli animali che risalgono i fiumi o le lagune. Così, stando ai dati elaborati dalla Commissione europea, siamo arrivati all’1% del “reclutamento” – questa ter-
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di Mariagiulia Mariani*
sponda
chio minologia ufficiale è commovente per quanto vuol essere neutra e poco allarmistica: reclutamento vuol dire le quantità catturate, uccise e commercializzate o mangiate – di animali rispetto alle quantità storiche. Ora la Commissione ha deciso di intervenire con vari provvedimenti, tra i quali il ripopolamento. Ma è chiaro che tra il dire e il fare ce ne corre, soprattutto in questo caso, laddove i capitoni hanno sul mercato un valore assai rilevante. Ebbene, 200 chili sono tornati liberi e si spera che altri – il doppio? il triplo? – rientrino nelle Valli nei prossimi anni. Sempre che i cecchini francospagnoli lascino transitare
qualche banco di avannotti. Tutto questo si ricollega al manifesto della campagna “Mangiamoli giusti”, un manifesto che lancia un allarme e che ci richiama a gesti simbolici: non abbiamo l’autorità per imporre un divieto legale al consumo di pesci sotto taglia, anche se sono certo che tra non molto tempo si arriverà a questa interdizione assoluta, di pesca e di consumo, per legge. Già ora possiamo compiere gesti simbolici importanti, dobbiamo farlo. Comportamenti simili devono essere frutto di scelte individuali e di sensibilità specifiche, non di divieti o intimidazioni. *Slow Food
Parallelo di fiume, dal Po alla Loira, alla ricerca di una nuova rotta per chi li abita fuori e dentro
cise a porvi rimedio, e nel 2000 la tendenza alla drastica diminuzione delle cheppie si è invertita. Seppur con difficoltà, l’anguilla sta vivendo una sorte simile. Sono sempre più numerose quelle che riescono a discendere la Loira, al giungere della primavera, seguendo la poetica chimera del Mar dei Sargassi. Lampreda marina, anguilla, cheppia e molti altri pesci migratori hanno ripreso il loro viaggio lungo la Francia e stanno tornando a popolare il fiume nonché i piatti di numerosi ristoranti. Le politiche di salvaguardia della Loira, promosse dalle istituzioni locali e dal mondo dell’associazionismo, stanno dando i loro frutti e un asse fondamentale è costituito dai progetti di valorizzazione del pesce selvaggio del bacino. Il Wwf e la condotta Slow Food di Tours sono attori di questa dinamica che, attraverso lo sviluppo di mercati locali e il coinvolgimento dei ristoratori, sta contribuendo a costruire un futuro per la pesca professionale nelle acque del fiume. A oggi infatti, l’abitante della Loira forse in maggior pericolo è il pescatore professionista. Il suo mestiere, a rischio d’estinzione, non gode più di alcuna considerazione sociale e spesso egli è erroneamente considerato un nemico del fiume. A dimostrazione del contrario, Philippe Boisneau, docente universitario di biologia che ha abbandonato la cattedra per tuffarsi nell’oggetto dei suoi studi e dedicarsi alla pesca, ha creato il marchio “Poissons sauvages du Bassin
de la Loire”. Con questa etichetta è commercializzato sul mercato locale il solo pescato di cui si possono garantire la freschezza, la tracciabilità e, soprattutto, la sostenibilità. Difatti le tecniche di pesca utilizzate ripropongono i gesti tradizionali che rispettano la vita del fiume, selezionando le specie da pescare secondo la stagione e la loro taglia, garantendone così il rinnovo. Philippe, che sarà tra i protagonisti di Slow Fish, è artefice di questa esperienza virtuosa, che sta restituendo alla sua professione e ai pesci di fiume parte del lustro smarrito. Una sfida forse ancora più difficile è stata raccolta da alcuni chef della regione: riabituare i palati al gusto non facile del pesce d’acqua dolce. Davanti a un grande acquario abitato da scuri pesci provenienti dalla Loira, con teste mostruose e movenze nient’affatto rassicuranti, Bernard Charret si sente a casa, nel patio del suo ristorante non lontano da Tours. Lì, con i suoi discepoli e collaboratori, lo chef inizia i commensali a qualcosa di inaspettato, a una cucina che scova nelle particolarità di questi mostri del fiume piccoli tesori da capire. “Non è certo colpa dei pesci se alla gente spesso non piace il pesce di fiume”, spiega lui. “Un bravo cuoco sa rendere squisito qualsiasi pesce”. La sfida lo vede vincitore: alle sue Chandelles Gourmandes perfino il pesce siluro diventa un piatto da re. *Slow Food
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opo anni di politica dello struzzo, politici e imprese sembrano aver capito che bisogna fare qualcosa, e presto, per fermare il riscaldamento del pianeta. Tutto bene, allora? No, perché le imprese continuano a ragionare in termini di profitto immediato e i politici non hanno idea di come funzioni l’ecosistema Terra; quali siano cioè i modi di produzione che ne preservino l’equilibrio. Così anche quando c’è la buona fede si dà il via libera a pratiche che verdi non sono. Parliamo dei biocarburanti, biodiesel e bioetanolo, pubblicizzati come una panacea per i mali del clima: nessuna emissione di gas serra, rinnovabili e fornitori di reddito per gli agricoltori. Le analisi critiche faticano ad emergere, sopraffatte dall’entusiasmo mediatico. Fatta la tara del no interessato di petrolieri e sostenitori del nucleare, critiche puntuali sono venute da associazioni contadine del primo e terzo mondo, da scienziati e da alcuni centri di ricerca ambientalista. Dettagliato il rapporto del World Watch Institute di Washington: gravi danni per la biodiversità, rilascio di gas serra perché si bruciano foreste, aumento dei prezzi degli alimenti, erosione dei suoli, esaurimento delle falde aquifere, concorrenza tra produzione di cibo e di combustibile. Se si prendono in considerazione tutti gli aspetti legati alla produzione dei biocombustibili nelle percentuali indicate dai governi, si scoprono dunque danni ambientali e sociali gravi, e persino un bilancio energetico che molti mettono in discussione. David Pimental, professore
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Terra d’ac oggi sono in gioco grandi quantità e per ottenerle si utilizzano prodotti che costano meno e rendono di più. Il biodiesel si ricava da semi oleosi: soia, colza, girasole, palma, noce di cocco, ricino ma anche da grassi animali. Per il bioetanolo si usano prodotti zuccherini, soprattutto canna da zucchero e barbabietole, e alcuni cereali: mais, orzo e frumento. Tutti da monocoltura, pratica agricola distruttiva. La coltivazione di una sola specie si è affermata con la Rivoluzione industriale. Ma dopo i primi straordinari successi la monocoltura ha richiesto input chimici sempre più forti e un grande dispendio di acqua e energia. Si sono manifestati inoltre altri aspetti negativi: l’inquinamento delle falde acquifere, l’erosione del terreno e la perdita di biodiversità. Gli Ogm oggi non limitano i danni perché la chimica non viene eliminata. An-
di Giuseppina Ciuffreda Perché i biocarburanti non sono la panacea per i mali del clima. L’impatto sull’agricoltura di scelte pericolose
Biofuel Italia Il nostro paese è il terzo produttore di biocarburanti in Europa
Italia è il terzo produttore di biocarburanti in Europa ma lo esporta tutto. Il biofuel italiano ha una storia. Negli anni Novanta, la Estereco dell’ingegner Mario Brighigna ha prodotto biocombustibile dalla colza, con scarto di glicerina utilizzata nel settore farmaceutico. Poi fu Raul Gardini, con un progetto bioetanolo dalle barbabietole. Negli ultimi anni non c’è mai stata una vera discussione pubblica, né in Italia né in ambito Ue, sull’opportunità di produrre carburante da prodotti agricoli. Oggi l’Italia ha una procedura di infrazione della Ue perché non si è adeguata alla direttiva che impone il 2 per cento di biofuel. Nel marzo del 2006, il governo italia-
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di Ecologia alla Cornell University, afferma infatti che l’energia spesa nella coltivazione di mais e soia da cui si ricavano i carburanti è superiore a quella prodotta. Insomma il biofuel apre altre emergenze senza nemmeno la certezza che ne valga la pena. Il problema principale nasce dal fatto che i biocarburanti utilizzano nella quasi totalità prodotti dell’agricoltura, proprio la circostanza che li rende così “verdi” a un occhio superficiale. Sarebbero “verdi” se venissero prodotti su piccola scala usando gli scarti dell’agricoltura e del legname (lo sta sperimentando anche la Royal Dutch Shell), se si impiantassero soltanto piccole piantagioni per uso locali, lo suggerisce il presidente dei Sem Terra brasiliani Joao Pedro Stedile, o se derivassero dalla trasformazione dei rifiuti agricoli, urbani e forestali e da colture erbacee a rapida crescita ricche di cellulosa, come indica il World Watch. Ma
no ha approvato la legge 81 che prevede l’uso obbligatorio di una percentuale di biocarburanti. Quest’anno, a gennaio, il ministro per le politiche agricole alimentari e forestali Paolo De Castro ha presentato il contratto quadro nazionale, con l’obiettivo di costruire una filiera nazionale delle energie di provenienza agricola. Entro il 2007 il biofuel dovrà raggiungere una percentuale dell’1 per cento. L’obbligo per le compagnie petrolifere scatterà dal 2008 ma i produttori avranno tempo fino al 31dicembre per adeguarsi. I soggetti interessati al contratto sono le Associazioni degli agricoltori, i produttori di semi oleosi, l’Assitol, Assobiodiesel, Assocostieri. Nel 2007 le coltivazioni
zi (vedi anche New Scientist). “La perdita di varietà delle specie vegetali e animali mette in pericolo le scorte alimentari - ricorda la Fao - perché l’agricoltura perde la capacità di adattarsi ai cambiamenti ambientali come il riscaldamento globale, malattie e nuovi insetti nocivi. E la protezione della biodiversità agricola della Terra è affidata ai contadini. Concentrarsi su un’unica coltura da reddito ha ridotto sensibilmente la biodiversità agricola del mondo”. Uno degli argomenti usati a favore del carburante vegetale è proprio il reddito che gli agricoltori ne ricaverebbero. Le nuove produzioni sono infatti sostenute da sussidi e incentivi fiscali per ripagare i contadini europei e statunitensi dai carichi sofferti per le politiche di taglio delle emissioni serra mentre i contadini del Terzo mondo dovrebbero finalmente decollare. Lo sviluppo economico locomotiva per la fine della
di semi oleosi per il biodiesel occuperanno 70mila ettari di terreno; 180mila nel 2008 e 240mila nel 2009. La Coldiretti è favorevole ai biocarburanti ma solo di provenienza nazionale. L’associazione ha sottolineato i dissesti che questa produzione può provocare nei paesi del Terzo mondo. Le prime filiere agroenergetiche del Lazio sono nella Valle dei Latini. Il Comune di Roma e la Regione Lazio hanno siglato un accordo con Ama, Enel, Atac, Trambus e associazioni degli agricoltori. Entro due anni il 20% del gasolio che alimenta i motori di 2500 autobus verrà sostituito da biocarburanti ottenuti dai semi di girasole, colza e soia coltivati su 10 mila ettari. gi. ci.
povertà, insomma. Un’aspettativa che è rimasta tale per milioni di contadini poveri. Lo stesso Jeffrey Sachs, noto economista statunitense neoliberista, nel suo ultimo libro fa autocritica: perché la povertà estrema finisca bisogna ribaltare la logica degli aiuti. L’agricoltura di sussistenza, l’istruzione e la sanità sono la base del decollo economico, e non viceversa. Un esempio è l’Argentina dove il 50 per cento della terre coltivabili destinato a soia transgenica è gestito da un pugno di imprenditori. Sono state intaccate le foreste delle Yungas e del Grande Chaco e l’abuso di fertilizzanti e erbicidi ha inquinato le falde acquifere, ridotto la biodiversità, eroso il terreno. Le coltivazioni convenzionali limitrofe sono contaminate dagli Ogm e i contadini lasciano la campagna, affollando le periferie delle città già piene di disperati senza prospettive. I paesi più industrializzati non hanno molte terre da destinare a biofuel per cui è evidente che le monocolture verranno impiantate nei paesi del Terzo Mondo che hanno lo spazio necessario, anche se per ottenerlo bruceranno le foreste pluviali. George W. Bush è volato in Brasile per fare accordi più economici e politici che ambientalisti con il presidente Lula. Una sorta di Opec verde in funzione anti Venezuela e anti Iran. Lula, dopo aver dato il via libera agli Ogm, si appresta ad aprire una nuova stagione di assalto alle terre. La produzione del Brasile, al secondo posto nel mondo dopo gli Stati Uniti, dovrebbe aumentare del 5% entro il 2010. Pioniere del bioetanolo, il Brasile dovrebbe poi esportare la sua tecnologia nei paesi latini più vicini a Washington. La Ue ha già deciso che il 2 % del carburante deve essere vegetale, per arrivare al 5,75% nel 2020. Il biofuel è nell’ampio ventaglio di misure prese dalla Svezia per rompere la dipendenza dal petrolio. Una parte verrà prodotta in loco ma la maggioranza arriverà dall’America latina e dall’Est Europa: Ungheria e Solvenia hanno già approvate monocolture di colza. Si cerca ora di togliere le tariffe protettive che ostacolano l’importazione di etanolo brasiliano. In Asia, l’India ha stanziato 250 milioni di dollari per favorire la produzione di biofuel in 15 paesi dell’Africa orientale con piantagioni estese fino a 150 mila ettari. Il Giappone prevede che entro il 2010 un’auto su tre viaggerà con biocombustibile. La Cina è diventata il terzo produttore al mondo di etanolo. Nell’Henan lo ricava dal frumento. Ora ha destinato a questo scopo 13 milioni di ettari nel Sichuan e nello Yunnan, la provincia cinese più ricca di biodiversità e di bellezze naturali. Ha anche affittato dal Laos 15 chilometri quadrati di terra per coltivare manioca per etanolo. Il prezzo dell’olio di palma è aumentato d’un colpo e nel Sud-Est asiatico sono ricominciati gli incendi delle foreste pluviali per ottenere aree per la palma. La Malesia ha deciso tre nuove piantagioni su 6 milioni di ettari di foresta. A Sumatra e nel Borneo sono stati convertiti a palma da olio 4 milioni di ettari di foresta pluviale. Il Wwf ha lanciato l’allarme per la sopravvivenza degli orangutan, senza più habitat. Nonostante ciò il governo indonesiano ha siglato un accordo con la China Development Bank per creare la più grande piantagione di palma da olio del mondo proprio nel Borneo. Le imprese nascono come funghi e reclamano licenze di taglio nel Terzo Mondo e la messa a coltura dei terreni a riposo nella Ue. Le case automobilistiche sono anch’esse
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cqua pronte. General Motors ha già commercializzato vetture che usano un carburante etanolo all’85% ed ha fatto accordi con la Chevron, la Pacific Ethanol, dove ha investito Bill Gates, e lo stato della California. La Saab ha creato un prototipo con tecnici General Motors (da cui è controllata) che lavorano in Brasile. La Fiat Brasile produce da anni auto che possono essere alimentate a bioetanolo. Il problema maggiore è senza dubbio la competizione tra carburanti e cibo. Lo stato della produzione di cibo mondiale non è roseo. In teoria è vera la convinzione del premio Nobel indiano dell’economia Amartya Sen che il cibo prodotto sarebbe oggi sufficiente per tutti se quel che arriva sulle tavole dei paesi ricchi e delle élites locali venisse redistribuito e i governi non usassero il ricatto alimentare contro minoranze irrequiete. Mentre la popolazione aumenta, la perdità di fertilità dei terreni e della biodiversità, il cambiamento di clima con i fenomi estremi di siccità e inondazione, l’assenza di regolarità delle piogge, l’abbandono delle campagne, la concentrazione della proprietà delle sementi, l’invasione degli Ogm, l’uso di terre agricole per l’edilizia, la penuria di acqua hanno reso precaria l’agricoltura. Con problemi non solo per i più poveri e affamati ma per l’intera popolazione mondiale. Lester Brown, fondatore del WorldWatch Institute di Washington e ora direttore di Earth Policy Institute, ha denunciato da diversi anni la diminuzione netta delle scorte di cereali. E oggi sostiene che “l’alternativa tra cibo e combustibile rischia di provocare il caos nel mercato mondiale degli alimenti” mentre “la competizione per i cereali tra gli 800 milioni di motorizzati che vogliono mantenere la loro mobilità e i due miliardi di povera gente che cercano semplicemente di sopravvivivere sta facendo emergere un problema epico”. Critico anche uno dei migliori giornalisti inglesi, George Monbiot, che sul Guardian ha affrontato più volte l’argomento. Nell’ultimo articolo spiega come l’impatto distruttivo del biofuel sulle foreste pluviali dell’Asia e dell’America latina e sulla popolazione mondiale che ha fame sia maggiore di quanto avesse sospettato. Joao Pedro Stedile ha attaccato l’accordo Bush-Lula, rinnovando il no della sua organizzazione all’uso di alimenti per produrre combustibili. La Coordination Paysanne Européene, di cui fa parte la Confederation Paysanne di José Bové, sottolinea che per raggiungere l’obiettivo del 5,75% indicato dalla Ue per il 2010 non basterebbero tutte le terre agricole europee. La Ue dovrà quindi acquistare dall’estero, spostando così nel Terzo mondo la concorrenza tra cibo e carburante. La produzione di biofuel diminuirà dunque la superficie di terre coltivabili, userà in abbondanza l’acqua che scarseggia e metterà cibo nei motori. Già si vedono i primi effetti di questa decisione immorale. In Messico il prezzo delle tortillas ha seguito l’aumento del prezzo del mais seguito alle scelte biofuel: da 7 pesos al chilo a più di 18, ed ha provocato una sollevazione popolare. L’assetto proprietario delle terre mai toccato dal governo ha impedito in Messico l’autosufficienza alimentare e oggi il paese importa il suo alimento base, il mais, dagli Usa. In Giappone è aumentato il prezzo della soia, importata dagli Stati uniti, che tendono poi ad aumentare la quantità Ogm. Gli esperti giapponesi suggeriscono di coltivare in patria soia biologica. E quando il regolatore sarà il mercato, non c’è dubbio che i consumatori proprietari delle 800 milioni di auto che circolano nel mondo prevarranno sui poveri affamati.
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avino Longhifante è sardo, non serve essere laureato in lingue straniere per capirlo. E’ un esemplare robusto, orgoglioso e, per sua natura, piuttosto aggressivo. Del resto, l’ambiente in cui vive è pieno di prepotenti, spesso sleali: non combattono ad armi pari e il nostro amico sarebbe già finito male se non fosse stato in grado di difendersi e attaccare almeno quegli avversari che non usano armi improprie. Diciamo che il nostro amico non porge l’altra guancia, o meglio l’altra chela. Già, perché Gavino è un astice, quel crostaceo conosciuto nel mondo più per il sapore regale che per il carattere barroso, come si dice nella sua terra, anzi nella sua acqua. Chi se ne intende sostiene che per prelibatezza è inferiore solo alla sorella aragosta che lui chiama, affettuosamente, s’aligusta. Più che sorella, noi umani dovremmo dire cugina, perché trattasi di altra specie non essendo, come erroneamente alcuni pensano, la femmina dell’astice. Sia l’aragosta che l’astice, infatti, sono presenti (sempre meno) nei nostri mari sia al femminile che al maschile, ma i maschi di astice si accoppiano solo con le femmine della stessa specie, come peraltro avviene per l’aragosta. Abbiamo conosciuto Gavino Longhifante alcuni anni fa davanti all’isola di Mal di Ventre, di fronte a Capo Mannu, il monte che domina la costa del Sinis e la separa dagli stagni popolati, almeno negli anni
mata para comer , dove il protagonista è un astice la cui fine “normale” in pentola viene replicata in scena con l’obiettivo di smascherare l’ipocrisia degli umani che, come le scimmiette che non sentono, non vedono, non parlano, non vogliono sapere cosa avvenga a monte del loro piatto succulento. L’intervento della polizia per far sospendere lo “spettacolo” ha scatenato un putife-
Loris Campetti Intervista a Gavino, crostaceo sardo: “Nessuna complicità”
tazione, cioè della vostra cultura, bisogna traumatizzarvi con un atto brutale, effettuato a mio danno, e non al vostro. Non so se questo crimine ripetuto in teatro possa aiutare la mia causa, spero di sì. Per sensibilizzare il mondo democratico non vi verrebbe mai in mente di far saltare ogni sera, sul palcoscenico, un bambino afghano sopra una mina. Riflettici.
compagno polpo tocca una sorte ancora più crudele, sbattuto quando è ancora vivo sullo scoglio per spezzare le sue fibre e rendere più morbida la sua carne. Attento a te, però: se dici che noi astici e aragoste possiamo ritenerci fortunati ti do un pizzico con tutte e due le chele. Io e alcuni compagni abbiamo un atteggiamento più radicale, pensiamo che queste siano
Dice l’astice non segnati dalla siccità, dai fenicotteri rosa. Ce l’aveva presentato Geppetto, corallaro di rango, le cui imprese riempiono ancora oggi le chiacchierate dei pescatori di Su Pallosu. Un altro amico di Gavino è Gianni, riconvertito, da pescatore che era, a tutore di astici e aragoste: eccolo che sale proditoriamente su barche altrui a controllare il pescato, salva i crostacei troppo piccoli per essere commercializzati e dunque mangiati, ne controlla il sesso, il peso, lo stato di salute, gli spara sul carapace una piccola freccetta che contiene la biografia dell’animale, cosicché quando verrà ripescato, i biologi marini potranno controllarne lo sviluppo. E fu così che Gianni e Geppetto mi presentarono Gavino. Ho pensato a lui dopo l’esplosione delle polemiche legate allo spettacolo teatrale di Rodrigo Garcia Accidens -
rio, dividendo anche la sinistra e gli amici degli animali e ha offerto materiali ai giornali golosi. Solo all’astice nessuno ha chiesto un’opinione. Siamo andati a trovare Gavino per raccogliere il suo punto di vista. La comunicazione con un astice non è semplice, perciò abbiamo chiesto a Gianni di accompagnarci al largo di Mal di Ventre e farci da interprete. Per difendere gli astici e denunciare i comportamenti umani, ogni sera un tuo simile finisce in pentola. Che giudizio dai di questa battaglia artistico-animalista? Non entro nel merito dell’arte. L’unica arte che conosco è quella presente in natura - guardati in giro, che meraviglia è la natura - e che voi umani state sistematicamente distruggendo. Vedi quella macchia scura nel blu? E’ petrolio, il frutto proibito in no-
me del quale uccidete i vostri, e i miei simili. Prima con le guerre e poi con l’inquinamento. E noi siamo costretti a convivere con gli avanzi delle vostre porcherie: se tu non fossi amico di Gianni e non fossi stato amico di Geppetto, ti butterei in quella macchia scura pizzicandoti il culo con le mie potenti chele. Così capiresti cosa vuol dire, oggi, vivere nel mare, in questa natura che voi umani continuate a seviziare. Dunque, lasciamo perdere l’arte. Parliamo di me, dei miei fratelli e delle mie sorelle e del vostro ipocrita antropocentrismo criminale. Ti rispondo con una domanda: se tu fossi un bambino afghano, preferiresti essere sgozzato da un talebano oppure saltare su una mina lasciata da un soldato americano? Mi domando di che materia è fatto il vostro cuore, se per farvi prendere coscienza della vostra alimen-
Dicono alcuni animalisti, che combattono per la vostra liberazione dalla pentola, che voi astici e aragoste siete uccisi in modo troppo crudele, disumano, gettati vivi in una pentola d’acqua bollente. Tu che ne pensi? Mettila come vuoi, penso che siete dei gran figli di puttana (Gavino, oltre che aggressivo è anche un po’ sboccacciato, ndr). Sarà pur vero che c’è modo e modo di morire, ed effettivamente anche tra noi astici i moderati sostengono che non si può fare la rivoluzione, perciò bisogna cercare di migliorare lo stato di cose esistenti. Di conseguenza, difendono il tipo di morte che ci tocca: dura pochissimi secondi, secondi terribili, ma presto finisce. Il fratello dentice, la sorella seppia, per fare due esempi, muoiono lentissimamente di asfissia fuori dall’acqua. All’amico e
tutte cazzate: l’obiettivo non può essere la conquista di una dolce morte ma la difesa della vita. Il fatto è che siamo quattro crostacei e tutti ci accusano di estremismo. Anche sotto il mare, chi vota contro il governo amico finisce male. Ma questi sono problemi nostri, voi pensate alle vostre di contraddizioni. Se con quest’intervista speravi di strapparmi una qualche complicità rispetto alle vostre mascalzonate umanoidi, hai sbagliato indirizzo. S’è fatto tardi, la macchia di petrolio per fortuna si è spostata e Gavino ha bisogno di una boccata d’acqua fresca. Ci saluta a chela chiusa, lasciandoci nudi con le nostre contraddizioni. Oggi non vi suggeriamo alcuna ricetta per cucinare l’astice, ce lo impone la nostra amicizia con Gavino. Un giorno di ipocrita digiuno è il minimo che possiamo fare.
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iannino era un bocconcino di mela che un giorno finì in bocca a un bambino. Accadde all’improvviso e…” Fiabe di mele, pere, carote compongono le schede del volume Il mangiatore, scritto a tre mani da Simonetta Fraccaro, Caterina Donello e Alessandro Martin e pubblicato da Erickson. Uno strumento didattico per insegnare una corretta alimentazione nelle scuole d’infanzia e nella primaria, rivolto agli insegnanti e agli operatori. Storie e racconti forniscono lo spunto per giocare con gli alimenti, conoscerli e imparare ad abbinarli in modo sano. Tavole e questionari conoscitivi arricchiscono un volume che fotografa l’Italia dei disturbi alimentari, evidenti fin dalla più tenera infanzia. I bambini italiani sono i più grassi d’Europa. L’eccesso di peso è maggiore nella fascia di età compresa
tra i 6 e i 9 anni, e interessa di più le bambine (34,6%), ma la differenza diminuisce notevolmente nelle fasce di età successive: 30,9% di maschi in soprappeso, rispetto al 19,8% delle femmine. La regione con la più alta percentuale di bambini e adolescenti in soprappeso è la Campania. Familiarità (genetica e ambientale), scorrette abitudini alimentari, assunzione di eccessive quantità di zuccheri e di grassi, stili di vita sedentari, sono i fattori principali che portano all’aumento di peso. Il volume cita i risultati di un’indagine promossa dalla Coldiretti-Cifem secondo la quale le più bandite dalle tavole italiane sono le minestre di verdura, le verdure cotte e i formaggi, i cibi meno graditi dai ragazzi. Per invertire la tendenza, Mangiastorie consiglia di coinvolgere i bambini nella preparazione di una
piccola ricetta, “parlando della forma, del colore e del profumo degli ingredienti utilizzati”, e utilizzando nomi scherzosi per le ricette dei cibi che attirano poco i più piccoli. Ma soprattutto – avverte il volume – il cibo non deve mai essere usato come premio o come punizione. “Che il cibo sia la tua medicina e che la tua medicina sia il cibo”, scriveva Ippocrate. Un precetto che ispira anche la guida Figli vegetariani, del pediatra Luciano Proietti (Sonda). Sulla base di un lavoro di ricerca condotto su oltre 2.000 bambini che hanno seguito un’alimentazione non convenzionale dal 1975 a oggi, Proietti spiega rischi e benefici del vegetarismo partendo dai parametri delle tabelle dei Larn (Livelli di assunzione raccomandati dei nutrienti). Un prezioso volumetto che si confronta con gli argomenti
dei non vegetariani e fornisce informazioni tecniche e indicazioni pratiche a chiunque – per motivazioni etiche, culturali o ecologiche – abbia deciso di non cibarsi di alimenti animali. “Pagina dopo pagina – scrive Tiziana Valpiana nella prefazione – il lettore si accorge che una scelta, magari fatta istintivamente, forse ideologicamente, è invece una scelta saggia, che avvierà anche il bambino su una strada di migliore costruzione di sé, di maggiore consapevolezza, di più profonda relazione con la natura e gli altri animali”. La prefazione di Carlo Petrini, presidente di Slow Food, introduce invece al volume Tuttifrutti, di Giuseppe Barbera (Monda-dori). Un libro che spazia tra scienza e letteratura, e racconta il lavoro di uomini e donne seguendo il profumo dei frutti che mettiamo in tavola, pur
di Geraldina Colotti Lo sono più di tutti i bambini italiani in Europa. Una ricerca e molti altri libri ancora
sce a contenere, un silenzioso grido di aiuto di una ragazza alla ricerca d’identità, raccolto infine dalla psicologa clinica e giornalista Luana De Vita. Ha problemi di identità anche il protagonista di Oppio sulle nuvole di Rafael Chaparro Madiero (Lain). Le sue domeniche hanno sempre lo stesso odore di “tristezza con riso, carne, patata e banana fritta”. Non si tratta però di un uomo, ma di Pink Tomate, il gatto di Amarilla: “a volte – confessa Pink – non so se sono un pomodoro o un
– diario La casa del califfo, dello scrittore anglo-afgano Tahir Shah. E’ il racconto comico- epico del trasloco in Marocco dell’autore, deciso a trasferirsi in una grande casa abbandonata in un quartiere popolare di Casablanca. Una volta sul posto – una Casablanca simile “a un grande stufato umano” -, la ricca famiglia dovrà far fronte a ogni genere di raggiro, tra un bicchiere di aspro vino marocchino e un piatto di bistiya, preparato con strati di pasta sfoglia dolce, carne
Grassoni
non sapendo più distinguere il nome degli alberi da cui provengono: il misterioso limone, il perfetto ciliegio, l’antichissimo castagno, il nodoso noce… alberi da frutto mediterranei, che hanno ispirato poeti e pittori. Pagine per coniugare il cibo per lo stomaco e quello per la mente, e tenere lontati i disturbi alimentari di cui parla il librodiario Trenta chili, di Stefania Sabbadini e Luana De Vita (Nutrimenti). “Quando tornavo da scuola – scrive la protagonista - trovavo il pranzetto pronto, la casa profumata di buono, di pulito, di onesto, di quel profumo che si fondeva con gli aromi della cucina e mi dava la sicurezza di una vita perbene, a dispetto del senso di ribrezzo che provavo per me stessa e per i miei sogni”. Una storia vera di anoressia cominciata nell’infanzia, che nessun intervento esterno rie-
gatto. Comunque, a volte mi sembra di essere un gatto a cui piacciono i pomodori o magari un pomodoro con la faccia da gatto”. Ama anche l’odore della vodka coi fiori, il micio narrante, quell’odore che arriva in casa quando Amarilla apre la porta, dopo una notte di bagordi, convinta – come il suo gatto – che il futuro sia “pura e fisica merda”. Amarilla vuole soccombere al rumore del mondo o impazzire con il rumore del mondo fra cieli ristretti corpi birra e anfetamine di questa storia acre e allucinata. Un piccolo cult, unico romanzo di un autore colombiano, morto nel ’95 a 33 anni a Bogotà, sua città natale. Una casa, ventiquattro esorcisti e un grasso caprone che – per via di un rito propiziatorio - finirà arrosto nonostante la reticenza del protagonista, animano il romanzo
di piccione o pollo, mandorle, uova e spezie. Il cibo è anche il filo conduttore del romanzo Eredi della sconfitta, della scrittrice indiana Kiran Desai (Adelphi). Un austero giudice, un cuoco, una ragazza, e una vecchia cagna che dorme russando sotto una sedia, vivono in una casa di pietra ai bordi della foresta. Per dare il benvenuto alla ragazza – la nipote del vecchio magistrato, rimasta orfana – il cuoco ha modellato il puré a forma di automobile, memore di un tempo in cui – mettendo in pratica quell’antica arte culinaria – disegnava “festosi castelli adorni di bandierine di carta, pesci ingioiellati, porcospini con sedani come aculei, galline con un uovo vero dietro come effetto comico”. Ma adesso, la vita del cuoco si consuma in quella dimora austera nella nostalgia del figlio, che lavora nelle cucine dei ristoranti da qualche parte negli Stati uniti. L’automobile di patate, che ha per ruote quattro fette di pomodoro, campeggia sulla tavola insieme “ai fagiolini acquitrinosi e a un cavolfiore alla crema di formaggio che sembrava un cervello velato di bianco”. Tutti i piatti “fumano con veemenza”, mentre sul viso della ragazza si condensano “nubi aromatiche di cibo”. L’emozione di quello slancio artistico, subito represso dalla riprovazione del giudice, resta sospesa come una lama di sole sulla vetta lontana “intagliata nel ghiaccio”. Una natura animata, penetrante e minacciosa, agita i pensieri della ragazza, voce narrante di un romanzo a tinte forti sul dolore e la fugacità dell’esistenza, che può sfaldarsi come legno non trattato per effetto delle tarme, nel giro di una stagione. Un romanzo di migrazioni e solitudini descritte in controluce.
MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI DELLA TOSCANA SOPRINTENDENZA PER I BENI ARCHITETTONICI, PER IL PAESAGGIO E PER IL PATRIMONIO STORICO, ARTISTICO ED ETNOANTROPOLOGICO DELLA PROVINCIA DI AREZZO REGIONE TOSCANA PROVINCIA DI AREZZO COMUNE DI AREZZO COMUNE DI MONTERCHI COMUNE DI SANSEPOLCRO COMUNITÀ MONTANA VALTIBERINA TOSCANA CAMERA DI COMMERCIO, INDUSTRIA ARTIGIANATO E AGRICOLTURA DI AREZZO BANCA ETRURIA TOSCANA PROMOZIONE AGENZIA PER IL TURISMO DI AREZZO LA MOSTRA PARTECIPA AL PROGETTO MAGNIFICO MAIN SPONSOR
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