scritto e mangiato settembre 2007

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scritto & mangiato

Supplemento al numero odierno de il manifesto

in collaborazione con Slow Food

Vaffonduta E' il giorno dei formaggi, fusi, duri e puri. Mercati dal sapore locale e casari di qualitĂ da tutto il mondo. Appuntamento con Cheese

SETTEMBRE 2007



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in collaborazione con Slow Food

Ringraziamo per la gentile concessione delle immagini, che fanno parte del reportage Alpe 86, Stefano Nucci. www.nucci.de Direttore responsabile Sandro Medici Direttore Mariuccia Ciotta Gabriele Polo Supplemento a cura di Francesco Paternò Grafica Daria Sorrentino Illustrazione di copertina Laura Federici Pubblicità concessionaria esclusiva Poster srl 00153 Roma via A. Bargoni 8 tel. 06 68896911 fax 06 58179764 Stampa Sigraf srl Via Vailate, 14 Calvenzano (Bg) Chiuso in redazione il 14/9/2007

5 Sorrideteci di Valter Bordo 8 ???? di Roberto Giangiacomo 11 Colesterolo? di Roberto Rubino 14 Pescatori di capre di Piero Sardo 15 Saudade de Su Pallosu di Loris Campetti 17 Che bei tipi di Roberto La Pira 19 L’ora di Gudilla di Linda Kay 21 Cibo sinistro di Geraldina Colotti 22 Alzheimer in cucina di Geraldina Colotti

anto per essere light, c’è che dice che è meglio non dire in giro quanto è pappa e ciccia con certa frutta, che è un alleato naturale dei medici per il suo steroide caro a certe malattie cardiovascolari, che è fatto da così tanto latte che certe allergie le fa proprio venire. Parliamo di formaggio, piatto principale di questo supplemento dedicato - e curato insieme ai nostri amici di Slow Food - a quel che avviene dentro e intorno a un alimento tanto piacevole. Dal 21 al 24 settembre, per altro, a Bra, pezzo di cuore langarolo, si svolge Cheese, manifestazione internazionale biennale voluta proprio da Slow Food affinché mercato, casari e golosi di tutto il mondo si incontrino per discutere, capire e sapere. Un appuntamento gustoso e saporito di grande conoscenza e, naturalmente, un modo per farlo sapere. Il formaggio non è solo buchi, grassi - ma su questo punto ci torniamo FRANCESCO PATERNÒ latte e latte. E’ anche numeri: ce ne sono almeno 2000 tipi in tutto il mondo, circa 400 nella sola Italia, un mercato da 60.000 tonnellate all’anno con un consumo pro-capite stimato in 1,6 chili. Dai famosi brevetti del secolo scorso dell’americano Kraft, “formaggini” a spicchi e poi le “sottilette”, ai nostri duri e puri tipo grana passando per dop o sconosciuti, l’epopea dei formaggi è roba da conoscere fino in fondo. Fra le cose da sapere, in questo supplemento il lettore troverà notizia interessanti sulle relazioni pericolose formaggio-colesterolo, o almeno così ci è stato tramandato. Mangiatori di tutto il mondo, unitevi: perché, viene spiegato, non è poi una relazione così pericolosa come la leggenda (più che la medicina) racconta. Fine della messa all’indice dei derivati del latte? Leggere per credere, ovvio che in cima c’è sempre un problema di misura, ma insomma il formaggio può essere considerato (se i nostri amici di Bra ci allentano i vincoli del copyright) slow fat. Grande attenzione viene dedicata a chi produce questi alimenti. La qualità, il rispetto delle tradizioni locali, la ricerca della migliore produzione nell’agricoltura e nell’allevamento sono servite. Di contorno, storie che parlano di loro e di gente anche ai fornelli, raccolte dalla Svezia a Capo Verde passando dalla Liguria e dalla Sardegna. E se alla fine vi ritrovate fusi come una fonduta, rilassatevi con i libri che mischiano umori e sapori. Li abbiamo grattuggiati per voi.

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Fatelo sapere


Ecco l’Italia che conviene. QUARTU S.ELENA, ALBA, ARMA DI TAGGIA, BENEVENTO, BOLOGNA, CAMPOBASSO, CARBONIA, CASAPULLA, CIVITAVECCHIA, GALLICANO, IGLESIAS, L’AQUILA, LADISPOLI, LANCIANO, MODENA, MONTEROTONDO, MONTE S. ANGELO, RIMINI, ROMA Casetta Mattei, ROMA via Casal del Marmo, SAN GIULIANO TERME, SAN SEVERO, SAVIGLIANO, TERNI, TRENTOLA DUCENTA VASTO, VITERBO.

27 ipermercati: la vera convenienza si diffonde.

L’ I P E R M E R C AT O

CHE

DIFENDE

LA

TUA

SPESA


di Valter Bordo* egli anni, edizione dopo edizione – quella in arrivo sarà la sesta –, Cheese ha saputo imporsi nel vasto panorama internazionale degli eventi dedicati alle produzioni casearie. Autentico punto di riferimento per produttori, allevatori, affinatori, giornalisti e appassionati, nel 2005 si è visto riconoscere l’appellativo di mostra internazionale, titolo assolutamente meritato per quanto nel tempo proposto e

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Fatelo con Cheese 2007, la manifestazione di Slow Food a Bra sulle migliori produzioni casearie del mondo. Con quel mondo presente nelle Langhe dal 21 al 24 settembre

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sala, offrirà i migliori formaggi a pasta erborinata (circa 70 varietà) prodotti con ogni tipo di latte, provenienti da tutto il mondo e di antichissima tradizione come lo stichelton del Regno Unito o di nuova concezione come il bleu d’Aoste. Qui il mariage con il liquido di Bacco non potrà prescindere da una scelta obbligata per nobiltà d’abbinamento: vini dolci, passiti e liquorosi italiani e internazionali dai Sauternes ai Porto, dagli aromatici Sherry, Madeira Malmsey e Bual, agli Eiswein tedeschi o

un appuntamento che vuole coinvolgere il territorio, l’atmosfera festosa di Cheese abbraccia anche il comprensorio langarolo e roerino. Così, ai tavoli di alcuni tra i migliori ristoranti e osterie piemontesi oppure ospiti di maisons storiche e ville d’epoca altrimenti inaccessibili si potranno apprezzare sia la cucina locale sia i piatti e le ricette di altre regioni italiane o di Paesi stranieri, proposti da firme quali Jean-Paul Jeunet di Arbois (Jura) o dagli chef del Fancy di Sofia, solo per citarne alcuni

Portogallo, Svizzera. Tutto questo senza tralasciare la tradizione del latte fermentato della cultura mediterranea e mediorientale, con un appuntamento dedicato all’assaggio di yogurt, kefir e labnè. Ma Cheese non sarebbe davvero slow se non ponesse anche la dovuta attenzione al coinvolgimento dei bambini: ecco quindi il Circo dell’educazione del gusto di cui si può leggere nelle pagine successive. Vi troverete mini laboratori, pensati espres-samente per i giovanissimi dai 4 ai 12 anni,

Sorrideteci per l’attenzione che gli è stata dedicata in tutto il mondo. Cheese 2007 proseguirà in questo alveo, amplierà e consoliderà ancora di più il suo aspetto internazionale proponendosi di diventare l’edizione con le maggiori testimonianze straniere mai organizzata e aprendosi in maniera tangibile a produzioni poco note come quelle dell’Europa dell’Est e altre rare specialità mondiali. Cheese è senza dubbio pervaso di filosofia slow: il suo svilupparsi all’aperto lungo le vie e le piazze di Bra, il connotarsi come l’indispensabile tassello di una gita, l’essere mercato, fiera, manifestazione, evento che si svela angolo dopo angolo e che va scoperto e vissuto seguendo un colore, un profumo, una voce. Si tratta, insomma, di un appuntamento dedicato a tutti coloro che prediligono una giornata all’aperto, in luoghi autentici dove vivere, annusare, perdersi e ritrovarsi discutendo degli afrori di quel caprino cremoso o di quel particolare pecorino che arriva da così lontano. Diversi sono i percorsi, ma uno solo l’obiettivo: garantire a tutti i visitatori una sequenza ininterrotta di piacere e divertimento, di conoscenza e gusto. L’unico requisito richiesto per goderne appieno è la voglia di girare, di perdersi tra la folla per vivere ogni luogo e momento della manifestazione che mai come quest’anno si rivela variegata nelle proposte. Ad aiutare i visitatori nel loro girovagare tra saperi e sapori penserà ancora una volta la chiocciolina che, attraverso tre colori identificativi – blu per i percorsi educativi, arancione per le realtà da tutelare e giallo per il mercato che riteniamo doveroso promuovere –, guiderà i visitatori lungo labirinti caseari, attraverso una rara esperienza sensoriale fatta di diversi aspetti, dai più ludici e giocosi ai più seri e profondi. A Bra, dal 21 al 24 settembre, le aree di esplorazione sa-

ranno molteplici, a cominciare dalla Gran sala che si presenta ai visitatori di Cheese con una faccia nuova, un restyling dei contenuti – il luogo sarà invece quello usuale, sotto le arcate del porticato dell’ala di corso Garibaldi – che la faranno amare ancora di più. Al suo interno troverete sezioni distinte dedicate ai caci del mondo: i formaggi a denominazione di origine protetta (dop) prodotti unicamente in zone di montagna e provenienti da Italia, Francia, Svizzera e Grecia; i formaggi dei Presìdi Slow Food italiani e internazionali, con i nuovi inserimenti da Capo Verde e Svezia; una sezione dedicata a formaggi di assoluto livello, ma di difficile reperibilità sia perché prodotti in piccole quantità, sia perché di lontana origine. In buona sostanza, si avrà la possibilità di assaggiare circa 200 formaggi cui abbinare oltre 1500 etichette selezionate e proposte nell’Enoteca situata all’interno della struttura. Infine la Casa dei blu, continuazione ideale della Gran

austriaci e Icewine canadesi. Il tutto condito dalle suadenti note della musica blues suonata dal duo composto da Massimo Zemolin e Luciano Caserta, con guest star il musicista Pete Berryman dalla Cornovaglia. A Cheese parteciperanno produttori di diverse comunità del cibo, artigiani pronti a illustrare le tradizioni agroalimentari dei loro Paesi (quest’anno ci si focalizzerà sull’Europa dell’Est, con la Romania e la Bulgaria in prima fila), lavorazioni tradizionali fatte di passione e qualità, rarità casearie che hanno rischiato l’oblio. Cultura, divertimento, relax ma anche ristorazione come specchio di differenti realtà territoriali. Ecco, dunque, in piazza XX Settembre, la possibilità di gustare antiche ricette a base di formaggio proposte come classico mangiare di strada in abbinamento all’eterogenea offerta di birre artigianali, italiane ed estere, spillate da alcuni tra i migliori mastri birrai. Per scoprire le ricette tradizionali, conoscere i segreti delle produzioni tipiche e gustare ottimi spuntini ci si può recare nel cortile delle scuole maschili. Inoltre, com’è normale per

(consultate il programma e prenotate, anche on-line, al sito slowfood.it). Come non citare i Laboratori del Gusto, appuntamento consueto in ogni evento targato Slow Food? A Cheese saranno 33, dove i partecipanti potranno apprendere, confrontare, assaggiare, toccare con mano i prodotti, affinando la loro sensorialità. Il tutto con il fine di esaltare il piacere gustativo attraverso una migliore conoscenza di ciò che ci sta dinanzi (cibo o bevanda che sia), descritto da esperti con l’aiuto degli stessi produttori, allevatori, affinatori, selezionatori chiamati a intervenire. Durante i quattro giorni della manifestazione braidese il percorso di degustazione comprenderà pecorini, caprini, vaccini di montagna, paste filate e caci provenienti da tutto il mondo, come i caprini australiani presentati da Will Studd, i formaggi di Polonia, Romania, Bulgaria, Bosnia, fino a quelli del Nord Europa (Islanda, Svezia, Norvegia). E, ancora, formaggi da Capo Verde, Stati Uniti, Grecia, Belgio, Francia,

che potranno non solo assistere, ma produrre essi stessi, scoprendosi piccoli e abili artigiani sotto la guida di esperti. Ci saranno anche giochi per rieducare i sensi, per scoprire i profumi e i sapori del cibo, e per imparare che il nostro corpo è la principale fonte di informazioni su quel che mangiamo. E, ancora, il Caffè letterario musicale nel cortile di Slow Food Editore, dove gli ospiti saranno accolti in una situazione conviviale e potranno ascoltare concerti unplugged, assistere alla lettura dei quotidiani del mattino o alla presentazione di libri e riviste del settore enogastronomico, gustando un caffè o un gelato dei Presìdi. E la piazza dove si svolgeranno i concerti di Giuliano Palma e i Bluebeaters, Ambrogio Sparagna, Lou Dalfin e Banda Osiris. Infine la presentazione dell’Asta del Vino, che si svolgerà presso l’Agenzia di Pollenzo, un evento di respiro internazionale aperto a tutti, dove le battute d’asta avverranno in collegamento contemporaneo con altre piazze mondiali. *Slow Food




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olti anni addietro si erano diffuse alcune notizie giornalistiche che avevano creato grande preoccupazione tra i consumatori: i formaggi si producono con i manici di ombrello, i formaggi fusi si ottengono da formaggi ammuffiti, i grattugiati dalle croste di formaggi vecchi, eccetera. A parte i manici di ombrello, dove evidentemente si confondeva l’uso della caseina (derivata dal latte) per la produzione di materiali molto duri come appunto i manici d’ombrello o le palle da biliardo, talvolta ciò era vero. Ho visto con i miei occhi scatoloni e scatoloni di pezzi di formaggio invenduti rivestiti di muffa da destinare alla fusione e croste da grattugiare. Ma parliamo di molti anni fa, quando erano latitanti sia la legislazione del settore sia il controllo delle aziende. Oggi la situazione è ben diversa ed evidentemente anche nell’immaginario collettivo, dati i volumi crescenti di consumo di questi prodotti, queste leggende si sono molto diluite ed essi non sono più considerati con tanto sospetto. Vediamo un po’ più da vici-

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no l’odierno maggi fusi e cando di fare nominazioni, chettatura.

mercato di forgrattugiati, cerchiarezza su deingredienti, eti-

Formaggi fusi La definizione internazionalmente riconosciuta di questi prodotti recita: «I formaggi fusi o formaggi spalmabili sono ottenuti per macinatura, miscelazione, fusione ed emulsificazione, con l’aiuto di calore e agenti emulsionanti, di una o più varietà di formaggi e con una scelta degli ingredienti o additivi riportati nei para1 grafi seguenti ». Gli ingredienti opzionali che possono essere addizionati sono la panna, il burro, e altri prodotti di origine lattiera (in genere caseina e/o proteine del siero), sale, aceto, spezie e altri prodotti vegetali aggiunti per conferire una varietà di gusti e sapori – ma non in un’aliquota superiore a 1/6 del peso secco del prodotto finale – dolcificanti, microrganismi ed enzimi. Tra gli additivi sono sempre presenti, come citato nella definizione, gli agenti emulsionanti ed eventualmente correttori di acidità, coloranti, conservanti, glutammato di sodio e addensanti.

I formaggi fusi sono comparsi negli ultimi anni dell’Ottocento, ma il primo brevetto dello svizzero Gerber data 1911. Fu però James L. Kraft che nel 1916 depositò un brevetto negli Usa con un metodo di produzione che determinò la fortuna dei “formaggini” nelle ben note forme di spicchi, rondelle o quadratini avvolti in leggeri fogli di alluminio. Nel 1950 fu ancora Kraft che consacrò definitivamente il successo dei formaggi fusi introducendo sul mercato la “sottiletta” – inizialmente erano una appoggiata sull’altra, difficili da staccare e spesso ridotte a un aggregato unico, successivamente separate da un foglio di polietilene e poi, ancora, avvolte singolarmente. I più recenti dati statistici dicono che in Italia il mercato ha quasi raggiunto la soglia delle 60 000 tonnellate, circa il 10% del mercato europeo, con un consumo annuo pro capite di 1,6 chili. Il flusso delle importazioni ha raggiunto le 40 000 tonnellate nel 2004, con un aumento del 5% circa, mentre quello dell’export ha superato le 10 000 tonnellate 2 con un incremento del 25% . Come detto, i formaggi fusi si ottengono per fusione e mi-

di Roberto Giangiacomo*

Leggende e certezze nella produzione dei formaggi, dai fusi ai grattuggiati, dall’invenzione della “sottiletta” ai duri e puri. In Italia un mercato da 60.000 tonnellate all’anno

Oltre

Grandi Mieli Italiani per Grandi Formaggi Italiani Mielizia offre

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Miele di Castagno di Toscana Ha consistenza liquida, colore ambra scuro con tonalità rossicce, odore molto intenso, caratteristico, pungente. L’aroma è tannico, di legno e lascia la bocca asciutta. Il sapore è attenuato da una forte componente amara, molto persistente. Ideale abbinato ai formaggi stagionati.

un’ampia gamma di mieli da agricoltura biologica, i primi con la carta d’identità provenienti dalle regioni più vocate d’Italia. Questi mieli vengono raccolti in zone incontaminate ed i nostri apicoltori non utilizzano principi chimici di sintesi nella gestione e cura delle api, per produrre un miele sicuro e di alta qualità. Nella nostra gamma sono disponibili sette differenti varietà di mieli monoflora e millefiori confezionati senza subire alcun trattamento termico di conservazione. Ognuno dei nostri mieli presenta caratteristiche particolari tipiche dei fiori di provenienza e delle zone di origine: dall’odore al colore, dal gusto all’aroma. Su ogni confezione ritroviamo il nome e cognome degli apicoltori che lo hanno raccolto,il periodo di raccolta,i consigli d’uso e gli abbinamenti gastronomici che ne esaltano il gusto ed il profumo.

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tari, la frode è sempre in agguato. Il processo si presta bene al riutilizzo di prodotti caseari non altrimenti commerciabili, al reimpiego di prodotti derivanti da errori di caseificazione, alla fusione di prodotti scaduti o invenduti che dopo toelettatura (cioè ripulitura delle parti alterate) si presentano come nuovi, eccetera. Ancora oggi ci sono imprese che raccolgono questi prodotti e li rivendono a chi prepara fusi, ma in verità si tratta di modeste quantità, perlopiù non destinate al mercato nazionale. Come visto, la formulazione di un formaggio fuso con precise e ben definite caratteristiche richiede una certa costanza di materie prime e di processo tecnologico che non sono compatibili con la raccolta di

lizzano tali prodotti. Quindi, attenzione alle diciture sulle confezioni. Il parmigiano reggiano e il grana padano grattugiati, se ottenuti da formaggi aventi questa denominazione, devono riportare il marchio consortile sulla busta o altro tipo di contenitore. Se mancano, vuol dire che provengono da formaggi non marchiati dal consorzio per varie ragioni. Analogo discorso per il pecorino romano. In tutti gli altri casi, si tratta perlopiù di miscele di vari formaggi duri, o resi duri per la grattugiatura, sia nazionali sia di importazione, la cui denominazione deve essere indicata in etichetta. Può sorgere il sospetto che il grattugiato provenga dall’impiego di molta crosta oltre che dalla pasta. Tale sospetto, in passato certamente verosimile, ha indotto il legislatore a definire requisiti specifici per le confezioni che appongono il marchio di parmigiano reggiano e grana padano: umidità compresa tra 25 e 35%, aspetto non polverulento e omogeneo, particelle di diametro inferiore a 0,5 millimetri non superiori al 25%,

e i manici di ombrello scelazione di uno o più varietà di formaggi. È ben noto che sul mercato si trovano prodotti con caratteristiche molto diverse tra loro: quelli prevalentemente da spalmare, quelli che fondono ma filano poco, quelli che fondono ma soprattutto filano, quelli magri o light, eccetera. Nel solo catalogo degli espositori di Cibus 2006, alla voce formaggi fusi si trovano 39 aziende, quasi tutte nazionali, segno di una forte differenziazione di mercato. Che tipi di formaggio si usano per ottenere tali caratteristiche? In massima parte si usano formaggi semiduri come cheddar, gouda e fontal, appositamente prodotti per la fusione in blocchi da 15-20 chili. A questi, in genere, si aggiungono altri formaggi che conferiscono differenti proprietà. In estrema sintesi, si può dire che l’aggiunta di formaggi fortemente proteolizzati, cioè con lunga maturazione, conferisce buona fusione ma poco filo e richiede meno sali di fusione, mentre l’aggiunta di formaggi con minore durata di maturazione, quindi con proteolisi ridotta, richiede maggiori quan-

tità di sali di fusione ma filerà meglio. L’aggiunta di buone quantità di burro o di crema, o l’impiego di formaggi a maggiore contenuto di grasso combinati con strutture di caseina o sieroproteine che trattengano più acqua favorirà la spalmabilità; l’impiego di formaggi light aiuta a ridurre il contenuto totale di grassi. Come si vede, le possibilità di formulazione sono molteplici e, di conseguenza, possono diversificarsi i target di mercato. Va sottolineato che stiamo parlando sempre di “formaggi fusi” cioè di prodotti che, seppure con una forma fisica diversa e miscelati tra loro con la presenza di altri costituenti di origine lattiera, possono pur sempre fregiarsi della denominazione di formaggio. Ben diversi sono i preparati alimentari a base di formaggio dove i costituenti possono essere o non essere di natura lattiera, permettendo quindi l’aggiunta di grassi vegetali e l’aggiunta di dosi massicce di caseina (che è limitata al 5% nei formaggi fusi). Attenzione quindi a leggere la dicitura sulla confezione oltre al nome commerciale

del prodotto: se si desidera un prodotto esclusivamente di origine lattiera deve comparire la dizione di “formaggio fuso”. Due parole anche sull’impiego dei polifosfati. Queste sostanze hanno lo scopo di sequestrare il calcio legato alle proteine, destrutturandole e conferendo loro maggior potere emulsionante, cioè si aumenta la capacità delle proteine di trattenere i quantitativi di acqua necessari a ottenere la struttura e morbidezza del prodotto finito. Data questa caratteristica, i polifosfati non sono impiegati nei fusi destinati alla prima infanzia in quanto, sequestrando il calcio, potrebbero anche ridurre la calcificazione delle ossa in formazione. Il potere emulsionante delle proteine, comunque, può essere ottenuto anche con altri sali di fusione, come i citrati, e spesso le confezioni di sottilette o formaggini riportano in evidenza l’assenza di polifosfati (così come avviene per i prosciutti cotti). Ma è tutto oro (fuso) quel che luccica? Certamente no. Specie con i preparati alimen-

qualsivoglia prodotto scaduto o andato a male. Quindi generalmente non si tratta di prodotti di grande qualità, ma sempre sicuri sotto l’aspetto sanitario per l’inevitabile sanificazione apportata dal processo di fusione a caldo (a meno di post-contaminazione durante il confezionamento). Ma attenzione alla denominazione e agli ingredienti. Formaggi grattugiati Questi prodotti presentano in linea di massima un po’ meno rischi dei formaggi fusi. Si tratta di prodotti con contenuto prevalente di servizio, che partono sicuramente da formaggio. Il processo tecnologico è relativamente semplice in quanto si ottengono per grattugiatura di formaggi duri e semiduri dopo idonea toelettatura per la pulizia della crosta e rimozione di eventuali parti difettose. Il grattugiato è poi confezionato in atmosfera protetta in confezioni di vario materiale e di vario peso. Scorrendo il catalogo di Cibus 2006, alla voce formaggi grattugiati si trovano tre pagine di aziende che commercia-

quantità di crosta non superiore al 18%, composizione aminoacidica specifica dei due formaggi. Questi sono elementi identificabili oggettivamente mediante misure fisiche e chimiche, anche se il metodo per determinare la quantità di crosta presente non è ancora ufficiale. Per le miscele di formaggi non esiste, invece, alcuna disposizione legislativa di identificazione dell’origine del formaggio e della quantità di crosta. Ci si affida alla serietà del produttore e alla fiducia riposta nei suoi prodotti. Il formaggio grattugiato, per le sue indubbie caratteristiche di prodotto ricco di servizio, ha un mercato in costante crescita e rappresenta oggi il 13,7% delle vendite di formaggi duri tipici italiani, con una netta prevalenza di formaggi duri generici (48%) rispetto al grana padano (35,5%) e al parmigiano reg3 giano (18,4%) . *Slow Food 1. Cfr. Fao/Who Food Standards, Codex alimentarius, Stan A-8(c). 2. Dati Assolatte 2005. 3. Dati Assolatte 2005.



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di Michele Fossi* el 1958 il celebre nutrizionista David Kritchevsky diede alle stampe un libro interamente de1 dicato al colesterolo , il primo di una lunga serie di studi epidemiologici che permisero di evidenziare una chiara correlazione tra alti livelli di colesterolo nel sangue (colesterolemia) e malattie cardiovascolari. Questo libro, sconosciuto ai più, ha in realtà esercitato una profonda influenza sui costumi alimentari occidentali per decenni, segnando la nascita della cosiddetta “moda del colesterolo”. Mangiar sano per anni significò fare “slalom” tra gli alimenti, evitando categoricamente quelli ricchi dello steroide incriminato. Si trattò di una vera e propria rivoluzione culturale e, come sempre

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Notizia: ok al formaggio moderato. Mangiar sano evitando di imbattersi nel pericoloso steroide, in chiara correlazione con malattie cardiovascolari

lesterolo, si credette a torto che margarina e derivati fossero una sana alternativa al burro. Ma la cura si rivelò peggiore del male: la margarina e, in generale, la famiglia degli oli idrogenati industrialmente – sulla nostra tavola da pochi decenni – sono di gran lunga più dannosi di alcuni antichi alimenti di origine animale come il burro e il formaggio, perché contengono grandi quantità di insidiosi grassi trans, molecole non naturali e nocive anche a basse concentrazioni. Si trattò di un terribile equivoco, di cui paghiamo le conseguenze ancora oggi. Negli ultimi anni, per fortuna, si è avuta una repentina presa di coscienza, anche da parte delle autorità: negli Usa i grassi trans devono essere dichiarati sull’etichetta, mentre in Danimarca e nei ristoranti di New York

sono stati addirittura banditi. Il formaggio ha un tenore molto basso in acidi grassi trans e tra l’altro si è dimostrato che i trans “naturali” non sono dannosi quanto quelli prodotti durante la lavorazione industriale, non rientra dunque in questa categoria di alimenti. Il formaggio contiene, certamente, acidi grassi saturi. Ma anche a tal riguardo, le ultime scoperte scientifiche sfatano un altro mito. “Da anni non si fa che ripetere che i grassi saturi di origine animale sono dannosi alla salute. Oggi sappiamo che lo sono, ma non in assoluto, bensì solo oltre un certo livello. Anzi, da qualche anno sappiamo che il nostro organismo non li sintetizza in quantità sufficiente e che una certa quantità, lungi dall’essere nociva, è addirittura

Colesterolo? accade negli anni di terreur che succedono alle rivoluzioni, furono numerose le vittime innocenti. Tra queste il formaggio: incuranti del fatto che si tratta di un alimento che appartiene alla nostra tradizione culinaria fin dalla notte dei tempi, i dietologi presero ad accusarlo di essere eccessivamente ricco di grassi di origine animale e colesterolo e lo misero al bando. Oggi, con decenni di ritardo, la scienza fa mea culpa e riabilita questo antico alimento, ridimensionando drasticamente i rischi per la salute associati a un suo consumo moderato. A quali nuove scoperte scientifiche dobbiamo questa inversione di rotta? Innanzitutto, l’equazione secondo la quale una dieta ricca di colesterolo sarebbe all’origine di malattie cardiovascolari si è rivelata errata, perché basata sulla falsa assunzione che il colesterolo alimentare, ovvero assunto attraverso il cibo, influenzi direttamente i livelli di colesterolemia. Le ultime scoperte dimostrano al contrario che il colesterolo alimentare contribuisce solo per un misero 510% al livello totale di colesterolemia e che il restante 90-95% dello steroide in questione è biosintetizzato direttamente dal nostro organismo. Schivare dunque gli alimenti ricchi di colesterolo serve a poco o a nulla. Il colesterolo, del resto, è una molecola essenziale per il corretto svolgimento di vari processi biologici, il che spiega la nostra capacità di biosintetizzarlo senza doverlo ricavare dall’alimentazione. “Invece di mettere all’indice gli alimenti ricchi di colesterolo, sarebbe stato più opportuno consigliare di consumare con moderazione quelli ricchi di acidi grassi saturi”, commenta Stefano Banni del Dipartimento di biologia sperimentale dell’Università di Cagliari. “La nocività di queste molecole consiste proprio nella loro dimostrata capacità di rallentare l’uptake del colesterolo presente nel sangue da parte dei tessuti, col risultato che una dieta ricca di grassi saturi si traduce – questa sì – in un aumento della colesterolemia nel sangue e, quindi – questa sì per davvero – in un aumento del rischio di malattie cardiovascolari. In particolare, da alcuni anni sappiamo che i veri nemici per la salute sono i grassi trans, di cui sono molto ricchi prodotti ottenuti industrialmente come la margarina e tutta la famiglia degli oli parzialmente idrogenati”. Per quanto ironico che possa sembrare, la crociata contro il colesterolo coincise, agli inizi degli anni Sessanta, proprio con un boom di questi prodotti (il cosiddetto “boom delle margarine”). Essendo di origine vegetale e quindi esenti da co-

essenziale per un corretto metabolismo. Una dieta che li escluda completamente, in maniera radicale, come è andato di moda in passato, è quindi da considerarsi controproducente, soprattutto se sono sostituiti da acidi grassi omega 6 come l’acido linoleico”. Morale della favola: chi nei trascorsi anni si è privato del formaggio per tenere a bada il livello di colesterolemia nel sangue si è inflitto un’inutile privazione. Questo antico alimento, inoltre, non si limita a essere gradevole al palato, ma presenta anche notevoli pregi sotto il profilo nutrizionale. Mangiarlo, come confermano le ultime scoperte, fa bene alla salute. Oltre a essere ricco di calcio e proteine, il formaggio è fonte insostituibile di una molecola particolarmente benefica, l’acido 2 linoleico coniugato (Cla) . Si tratta di una molecola estremamente versatile, capace di proteggerci dall’insorgenza di tumori e dallo sviluppo di aterosclerosi, di stimolare alcune funzioni immunitarie e perfino di migliorare il profilo glicemico dei malati di diabete di tipo 2. Individuato nel latte negli anni Trenta, è solo negli anni Novanta che il Cla ha destato l’attenzione dei nutrizionisti molecolari per le sue straordinarie qualità protettive. Ma, attenzione, non tutti i formaggi sono uguali! Gli ultimi risultati dell’équipe di Banni mostrano chiaramente che il tipo di allevamento influenza profondamente il prodotto sotto il profilo nutrizionale. Il contenuto in Cla, in modo particolare, dipende strettamente dalla dieta del ruminante. Al momento Banni sta portando a termine uno studio, finanziato dal Ministero, su persone leggermente ipercolesterolemiche, con l’obiettivo di determinare la dose oltre la quale il consumo di formaggio può risultare dannoso. Quanto formaggio possiamo mangiare senza sentirci in colpa? “È presto per dirlo”, risponde il Professore. “Al momento il mio consiglio è quello di seguire la tradizione e di consumarlo in quantità moderate. Il formaggio si apprezza maggiormente se mangiato a piccole dosi, magari a fine pasto, a mo’ di dessert”. *Slow Food

1. D. Kritchevsky, Cholesterol, New York 1958. Id., “Food Lipids and Atherosclerosis”, in R.E. McDonald, D.B. Min (edd.), Food Lipids and Health, New York 1996, pp. 19-34. 2. Ip. Clement et al., “Conjugated Linoleic Acid-Enriched Butter Fat Alters Mammary Gland Morphogenesis and Reduces Cancer Risk in Rats”, The Journal of Nutrition 129 (1999) pp. 2135-2142.




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a geografia enogastronomica – branca minore, ma non meno suggestiva e utile, di quella scienza, in quanto si affida più al passaparola che alla documentazione scritta – assegna all’arcipelago di Capo Verde una specificità: garantire ancora abbondanza di tonno rosso del Mediterraneo pescato alla lenza. Quando ci siamo diretti all’arcipelago per visitare l’isola di Santo Antão e la relativa produzione di formaggio caprino, la lusinga di trovare facilmente tonno rosso freschissimo, a buon prezzo e sostenibile, aleggiava come un’aureola sui nostri pensieri. Di fatto la lusinga si rivelò una chimera: l’unico tonno che potemmo mangiare in quella settimana lo abbiamo trovato al ristorante dell’aeroporto. E, incredibilmente, non era neanche male. Mentre in tutti i ristoranti frequentati successivamente abbiamo sempre ascoltato uno sconsolato: «Non ne abbiamo. Se volete c’è del serra». Il serra è uno squaloide della famiglia dei pesce sega, buono… ma è un po’ come mangiare scorzone invece del tartufo bianco d’Alba. Un toscano trapiantato a São Vicente, che si occupa di export di pesce, ci ha poi pazientemente spiegato che la pesca in queste isole è ancora praticamente all’età della pietra: artigianale è dir poco. I soli pescherecci attrezzati per i grossi pelagici sono stranieri (spagnoli, coreani, giapponesi): arrivano in quelle acque, tra le più pescose d’Africa, fanno man bassa e risalpano senza neanche affacciarsi ai porti locali. Certo, ogni tanto qualche equipaggio del luogo aggancia un tonno: ma le comunità di pescatori non hanno corrente elettrica e, dunque, non hanno refrigerazione. L’unico mercato possibile è il consumo locale. Dunque, trovare il tonno in qualche ristorante dell’arcipelago è un caso. Così i nuovi giganteschi villaggi turistici di Sal e Boa Vista per i rifornimenti di pesce si rivolgono a compagnie estere e la pesca, che potrebbe essere una risorsa, diventa una maledizione. Ce ne rendiamo ben conto quando, all’ultimo giorno di permanenza in zona, visitiamo il villaggio di Salamansa, dall’altra parte dell’isola di São Vicente rispetto al capoluogo, Mindelo, e partecipiamo a un incontro con i pescatori locali e le autorità istituzionali addette al settore. Il racconto delle condizioni di lavoro è scoraggiante: partono su piccole scialuppe per campagne di pesca di tre-quattro giorni, alla volta dell’isoletta di Santa Luzia. Per quel periodo dormono all’addiaccio, pescano a mano, non dispongono di nessun tipo di attrezzatura, né per comunicare né per lavorare né per stoccare il pescato. Al rientro, le donne destinano il pesce alle famiglie e a qualche commerciante, ma con un ritorno economico assolutamente insufficiente. Si capisce perfettamente come i meccanismi del turismo di massa – oggi la principale risorsa dell’arcipelago – influiscano poco o nulla sui livelli di vita delle comunità locali. Dunque tonno addio, senza rimpianti: d’altra parte noi siamo venuti fin qui per il formaggio.

L

Le capre di Santo Antão L’aeroporto internazionale, una piattaforma di sabbia e rocce in mezzo al mare, è a Sal, che ospita gran parte dei nuovi insediamenti turistici. Di qui un piccolo bimotore ci trasferisce a Mindelo, nell’isola di Saõ Vicente; infine un traghetto ci lascia in un’ora e mezza a Porto Novo, capoluogo di Santo Antão. Questa è l’ultima a nord del gruppo delle isole di Barlavento: di fronte l’oceano, solo acqua fino alle Americhe. Santo Antão è la seconda per estensione di tutto l’arcipelago, l’unica, o quasi, a consentire un minimo di agricoltura. La zona a nord est dell’isola, infatti, separata dalla parte meridionale da un’aspra catena montuosa, offre valli fertili e ventilate, dove la pioggia cade abbondante e gli insediamenti umani sono ancora consistenti. Una piccola

porzione di eden tropicale, con banane, canna da zucchero, mais, orti e frutteti. La parte sud e sud ovest, invece, è praticamente disabitata: quasi tutta la popolazione si concentra nella piccola città di Porto Novo, in cui si svolge la maggior parte delle attività economiche e sociali. Alle spalle della città, distese di rocce laviche, con consistenti segni di erosione, alternate a coste sabbiose o acciottolati calcinati. Il segno umano più visibile è rappresentato dal tracciato delle strade che percorriamo: le più agevoli sono costruite con blocchetti di roccia vulcanica – un lavoro titanico, iniziato ai tempi della colonizzazione portoghese – e reggono egregiamente il passare del tempo, il dilavamento, l’uso. Le altre, come quella che ci porta al Planalto, sono di terra battuta. Ai bordi delle strade qualche piccola costruzione, le case dei contadini della zona, qualche bambino che saluta e capre. Capre che sbucano dal nulla e che rapidamente nel nulla sono inghiottite. «Sono ancora 7000», ci racconta Beppe Quaranta, capo del progetto, finanziato dalla Regione Piemonte e assegnato al dipartimento di patologie animali di Torino, che vuole offrire una possibilità di sviluppo all’allevamento caprino della zona. Il progetto si avvale di numerosi partner locali e italiani, sia istituzioni sia esperti del settore; in questa occasione viaggiamo con Piercarlo Adami ed Elio Ragazzoni, responsabili dell’Onaf, Organizzazione nazionale assaggiatori di formaggi. In effetti, il paesaggio circostante sembra più uno scenario digitale per qualche film post-atomico, che un pascolo. L’allevamento delle capre qui richiede una dote specifica, la capacità di economizzare tutto: calibrare bene la mungitura – perché un po’ di latte deve restare per i capretti – le scarsissime integrazioni alimentari, l’acqua. Di pioggia in stagione ne cade, ma il suolo, totalmente poroso, non la trattiene per trasformar-

Pescatori la in falde e sorgive. Così l’acqua che serve agli animali la fanno arrivare in cisterna da Porto Novo, a prezzi proibitivi. Non c’è bisogno di stazzi o recinti per le capre: la sera tornano da sole al luogo abituale dove le aspetta il pastore, perché solo lì troveranno acqua da bere e un po’ di cibo in più. Antonio Pires, uno dei 45 pastori del planalto, ha escogitato un sistema di mungitura unico al mondo, credo: lega uno a uno gli animali, una settantina di capi, quando tornano al pomeriggio, lungo un pendio, ognuno a un suo posto prestabilito. Li munge e poi libera i capretti, ognuno dei quali va dalla sua mamma ad attingere quel che resta del latte. Infine li libera separando i capretti che tornano in recinto dalle capre che si fermano a bere e poi se ne vanno per cammini imperscrutabili a cercare alimenti fino al giorno dopo. Antonio fa tutto questo correndo su e giù per quelle rocce per ore, ogni giorno. Il progetto del Presidio Il progetto ha costruito un moderno caseificio, nel cuore del planalto: lì una decina di allevatori

di Piero Sardo*

Viaggio a Capo Verde, arcipelago atlantico dove mangiare tonno al ristorante è un caso mentre è più facile imbattersi in pastori locali, fra caseifici e allevamenti di capretti

portano il latte, invece di caseificare in casa. Una volta a regime, il caseificio dovrebbe facilitare la vita dei pastori, favorire la commercializzazione del caprino, soprattutto quando durante la brutta stagione non arrivano più gli acquirenti. Non solo. Il progetto ha analizzato gli animali e ha verificato il loro stato di salute, certificando, ad esempio, che sono indenni da brucellosi; ha iniziato a produrre ricotta con il siero residuo; sta organizzando una stagionatura, per garantire un prodotto più maturo, migliore dal punto di vista organolettico. Insomma, cerca di razionalizzare questo lavoro perché i giovani possano continuare a vivere sulle loro terre. E cerca di salvaguardare la produzione di ogni allevatore: magari riducendo il numero totale di animali nella zona per rendere più sostenibile l’allevamento, ma tutelando un saper fare diffuso, pratiche di caseificazione che hanno del miracoloso, tanto sono essenziali e poco bisognose di risorse. Pensate che per produrre un chilo di formaggio in Occidente occorrono dai 200 ai 300 litri d’acqua. A Bolona fanno tutto con un paio di litri d’acqua e di siero. Qualcuno potrebbe obiettare: ma è pro-


i di capre prio necessario che sopravviva una pastorizia tanto avara e dura? La risposta la danno i pastori: non vogliono trasformarsi tutti in camerieri o addetti alle pulizie per i turisti. Le isole di Capo Verde quello danno e di quello essi si accontentano: con grandissima dignità e fierezza. Mindelo Dormiamo prima della partenza – aspettando che si dissolva la brumaseca, nebbia secca, diafana e sabbiosa che ogni tanto avvolge São Vicente – in una locanda a pochi metri dal mare gestita da un altro italiano. Ancora una storia di fuga? Esilio? Speranza? Che sarebbe interessante sentire. Dall’altro lato della via una grande scuola media: ed è strabiliante vedere tanti ragazzi e ragazze affluire la mattina alle lezioni. Tutti ordinatamente in divisa, le fanciulle con gonnelline maliziose, i giovanotti in camicie immacolate. Erano decenni che non vedevamo tanta gioventù tutta assieme. Capo Verde è un piccolo miracolo africano: bassissimi indici di analfabetismo, una discreta assistenza sanitaria, un reddito pro capite che

può garantire la sopravvivenza. Questo succede grazie alle rimesse delle centinaia di migliaia di emigranti, che sono ancora una fonte di risorse imponente. Grazie al turismo, che sta dando molto, ma che certamente molto, moltissimo toglierà. E grazie agli aiuti internazionali, abbastanza generosi con questa terra. E se ne comprende la ragione conoscendo la gente di qua: sono in gamba, danno l’idea di credere fortemente nello sviluppo del loro paese. Non sono esattamente simpatici con gli stranieri. Sarà per i ricordi di lavoro presso qualche famiglia occidentale ricca e arrogante, sarà per il turismo sessuale, una delle criticità sociali più acute, sarà per un’innata inclinazione alla saudade, fatto è che non sono come ci si aspetterebbe da popolazioni tropicali. Ma sono mediamente istruiti e disposti ad apprendere. Quando le nuove generazioni di espatriati torneranno, non appena le

condizioni economiche lo consentiranno, credo che queste isole vivranno una potente fase di crescita. Intanto sono ancora pervase di malinconia, di senso di isolamento, di sofferenza in alcuni casi, ma non di rassegnazione. Il caprino di quelle terre aride può diventare un simbolo di questo attaccamento, di questa speranza. *Slow Food

Saudade de Su Pallosu

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pescatori di Capo Verde di cui parla il servizio in questa pagina soffrono di due malattie. La prima si chiama povertà. E’ determinata dalla assoluta mancanza di mezzi adatti a una pesca “pulita” ma redditizia, capace insomma di garantire una vita accettabile. Per pescare servono barche, attrezzature sia pur minime, capacità di conservazione del pescato nella barca nel caso di uscite che durino più di un giorno, vasche per la stabulazione dei frutti di mare e per la conservazione. I pesci, rovesciando il noto detto, sono come i parenti e dopo un giorno puzzano e senza queste strutture sei nelle mani degli speculatori. I parenti possono naturalmente non puzzare, possibilità negata a dentici e aragoste. Queste sono le condizioni minime per esistere su un mercato sia pure povero. Poi è necessaria la capacità “contrattuale”, dunque la possibilità di gestire in proprio almeno una parte della commercializzazione del prodotto per non essere strangolati da grossisti e ristoratori. Insomma, i pescatori, a Capo Verde come in qualunque altro posto nel mondo, devono poter fare il prezzo del pesce e non subirlo. Nessun singolo pescatore povero è in grado di risolvere da solo questo problema. Ha bisogno di associarsi con altri pescatori poveri, costruire cooperative, trovare interlocutori sui mercati, reperire finanziamenti. Sarebbe interessante spedire a Capo Verde un gruppo di pescatori della cooperativa di Su Pallosu, balzata agli onori della cronaca grazie all’ultimo film di Sabina Guzzanti, “Le ragioni dell’aragosta”. Potrebbero raccontare la loro storia e le loro battaglie, da cui si impara che l’unione fa la forza, e il conflitto e il confronto con le istituzioni locali e la politica possono produrre buoni risultati per tenere insieme le ragioni dell’ambiente da tutelare e quelle di una comunità di pescatori. E qui veniamo alla seconda malattia di cui soffrono i pescatori di Capo Verde: si chiama capitalismo selvaggio, liberismo se si preferisce, che in nome di presunte libertà d’impresa ammazza le libertà e i diritti dei più poveri e, al tempo stesso, distrugge l’ambiente e lo rapina. Anche in questo caso c’entra la politica, cioè il suo ruolo totalmente subalterno alle ragioni del più forte che con quattro soldi compra tutto quel che c’è sul mercato e anche quello che non dovrebbe esserci, come il mare e le sue risorse. Aprire canali commerciali liberi (il più possibile) dall’intermediazione per questi pescatori, una volta messi in condizione di lavorare e difendersi dai pescecane (quelli a due zampe), sarebbe anche un nostro interesse, oltre che un nostro dovere. Se il dovere è politico e sociale, l’interesse è materialissimo perché riguarda la qualità della nostra alimentazione, cioè della nostra vita. Slow Food conosce la strada, l’ha già percorsa insieme a tante comunità di produttori disseminate in tutto il mondo. Un mondo che è diventato più piccolo per effetto dei processi di globalizzazione. La globalizzazione degli altri, però. Quando ci occuperemo seriamente della nostra globalizzazione? Loris Campetti



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uando si parla di formaggio mi viene spesso in mente un eccellente cheese party organizzato molti anni fa nell’istituto di microbiologia dell’Università di Milano, dove facevo la tesi. L’incontro era organizzato dal professore Giorgio Ottogalli, uno dei più attenti studiosi della materia e autore di libri come l’Atlante dei formaggi (guida a oltre 600 formaggi di tutto il mondo edita da Hoepli). Un altro ricordo è il bellissimo manifesto di una convention tenuta a Parigi del 2002 (Congrilait) con le foto di 450 formaggi francesi. Il programma della manifestazione prevedeva convegni, mostre e degustazioni di latticini presso i giardini di Luxembourg. Nel vissuto più recente, mi viene in mente uno spazio dedicato ai formaggi all’interno di “Critical book and wine” presso il centro sociale Leoncavallo di Milano. Tra un bicchiere di vino e l’altro, ho assaggiato un ottimo formaggio di capra dalla forma strana, prodotto da un signore alto quasi due metri e molto somigliante all’attore Rubeus Hagrid, che recitava la parte del guardiacaccia di Hogwarts nel film Harry Potter. L’elemento fin troppo evidente emerso in questa esposizione di formaggi era, però, la scarsità di mezzi a disposizione dei piccoli produttori. Si tratta di una categoria poco visibile per diversi motivi, come l’assenza di un packaging adeguato per i loro prodotti, e la mancanza di forme anche embrionali di marketing. Purtroppo, situazioni in cui la pubblicità è affidata a biglietti da visita e a manifesti un po’ sgualciti, rappresenta la realtà quotidiana per centinaia di produttori di formaggi tipici, abituati a fare promozione in modo artigianale. Un altro elemento che penalizza il caseificio è l’assenza di etichette sul prodotto. I formaggi venduti al taglio, quando sono pesati e avvolti in un foglio di carta, perdono la loro identità. In questa operazione svaniscono come neve al sole il nome del caseificio, la zona di provenienza e l’elenco degli ingredienti. Spariscono anche il nome del produttore e l’eventuale descrizione delle caratteristiche. Alla fine l’acquirente non dispone di strumenti per risalire all’origine. Tutto ciò risulta in contrasto con le conclusioni di un documento del 2006 firmato dalla Sanco (Direzione generale salute e protezione del consumatore), dove si afferma che l’origine del formaggio sia un elemento importante per i consumatori, come avviene per olio e carne. Nel settore alimentare, in cui la comunicazione e l’immagine del prodotto giocano un ruolo decisivo nei comportamenti di acquisto, i formaggi tipici che non possono fruire di mezzi adeguati di promozione

sono molto penalizzati. Richiedono un discorso a parte i formaggi dop, che possono contare su qualche finanziamento pubblico e utilizzano come vetrina la possibilità di accedere gratuitamente ad alcune fiere e manifestazioni sponsorizzate da enti pubblici. Completamente diversa è la situazione per prodotti dop come il grana padano e il parmigiano reggiano che, invece, investono somme consistenti in pubblicità. Decisamente più modesto è l’investimento per campagne promozionali collettive da parte di quattro-cinque consorzi. «Quando mancano le risorse è difficile per un caseificio farsi conoscere», spiega Aldo

di Roberto La Pira*

Promozione e marketing per farsi conoscere, i problemi dei piccoli caseifici. L’importanza dell’etichetta che si perde nei prodotti al taglio, passando per i dop più famosi

Che bei tipi Brugnoli, consulente di marketing dell’Mktg. «Il più delle volte si organizzano giornate nei supermercati per presentare i prodotti oppure si partecipa a fiere gastronomiche o incontri collettivi. Queste iniziative, però, non bastano. Ai caseifici mancano risorse finanziarie da usare per la promozione sui media e una strategia per dialogare con la distribuzione moderna. Un altro ostacolo è il pagamento della “tassa annuale” richiesta dai supermercati per entrare tra i prodotti dell’assortimento ed essere presenti sugli scaffali». Un’interessante esperienza è quella dei supermercati Decò in Campania. A Napoli un punto vendita ha inaugurato all’interno dei locali un caseificio di 40 metri quadri, dove si prepara la mozzarella di bufala. Ogni mattina arriva la cagliata e tre persone lavorano su ordinazione confezionando bocconcini, trecce o pezzi più grandi. Tutti possono assaggiare prima dell’acquisto. Altra iniziativa interessante è quella dei produtto-

ri di parmigiano reggiano di vacca rossa, che propongono il formaggio a un gruppo di ristoranti di un certo livello, nei cui locali c’è sempre un piatto cucinato con tale formaggio, e questa particolarità è evidenziata sui menù. A livello istituzionale, il Ministero delle politiche agricole nelle ultime legislature ha sempre avuto un occhio di riguardo verso i prodotti dop. Ma nel 2006 una campagna televisiva con testimonial come Pippo Baudo e Antonella Clerici e finanziata dalle istituzioni non ha avuto significativi ritorni di immagine. L’errore è forse stato quello di applicare le strategie di marketing abitualmente utilizzate per pubblicizzare cellulari e detersivi a prodotti alimentari di qualità. Per i prodotti dop nella comunicazione è forse meglio lavorare sulla storia, sulla qualità del prodotto, assicurando il rispetto della tradizione. Al contrario, le istituzioni fanno poco o nulla per i formaggi tipici che non rientrano

nelle dop. Si tratta di 4000 1 prodotti – tra i quali diverse centinaia di formaggi – che il ministero definisce «prodotti agroalimentari tradizionali», considerandoli un biglietto da visita importante per l’agricoltura italiana di qualità. Forse il Ministero delle politiche agricole all’interno del progetto di rivalutazione del territorio, mirato a creare una maggiore integrazione tra cittadini e prodotti locali, dovrebbe fare conoscere meglio queste realtà. «Il bitto prodotto in Valtellina» spiega Davide Pozzi del consorzio «è un prodotto da alpeggio fornito da 110 aziende agricole che producono 25.000 forme ogni anno ed è venduto prevalentemente in loco. Non potendo ampliare gli alpeggi, siamo di fronte a un formaggio dop che non può e non deve incrementare i volumi per rispettare le sue caratteristiche. In queste condizioni la promozione del bitto risulta difficile, ma si riesce a fare perché la abbiniamo al casera della Valtellina, che produce 180

000 forme all’anno e dispone di quasi 150 000 euro per la promozione del marchio». Una realtà completamente diversa è quella del parmigiano reggiano. «Il consorzio può contare su 466 produttori e investe 12 milioni di euro all’anno per la promozione» spiega Gino Morini. «Il formaggio ha un marchio inconfondibile presente su tutta la superficie della forma, ed è venduto nei supermercati confezionato con un’etichetta completa, dove si comincia a riportare anche il periodo di stagionatura che varia da 12 a 24 mesi». Regole simili esistono anche per altri marchi come l’asiago che può raggiungere i 6 mesi o i 12 mesi di invecchiamento, ma il consumatore spesso non è informato in assenza di packaging e di etichette adeguate. *Slow Food 1. L’elenco riguarda i prodotti agroalimentari tradizionali delle regioni italiane riportato nel decreto 22 luglio 2004 del Mipaf, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 18 agosto 2004.



ome bambini in un luna park, le 120 pecore sono in attesa del loro turno davanti alla giostra mungitrice nella vecchia stalla di Raftshojdens Gardsmejeri, la fattoria nella contea dello Jämtland, in Svezia centrale, diretta da Gert e Gunilla Andersson. La corsa dura tre minuti, giusto il tempo di farsi mungere e mangiare un po’ di cereali. Non appena una capra soddisfatta termina ed esce, un’altra entra nella giostra a 18 posti in continuo movimento, infilando automaticamente la testa tra le sbarre di metallo per arrivare ai cereali e restando ferma al suo posto. Un po’ più sotto, al centro della giostra, Gunilla aziona e stacca di continuo l’apparecchio finché tutte le capre sono munte. È l’unica giostra di questo tipo dei paesi nordici e permette di mungere tutte e 120 le capre in un’ora, con un processo che si ripete due volte al giorno tutti i giorni, salvo il periodo in cui gli animali non allattano, a dicembre e gennaio. Le capre tornano poi nel loro settore a due livelli della stalla, dove trascorrono la notte nei freddi mesi invernali. I due livelli offrono loro ampio spazio per muoversi e arrampicarsi, un’attività che le capre gradiscono molto. Nei mesi più caldi, invece, dopo ogni mungitura tornano sui pascoli nella foresta. Dal “luna park” il latte è convogliato dentro una tubatura fino a un’altra parte della stalla, dove la sera e la mattina sono mescolati i latti per fare il tradizionale formaggio di capra affinato in cantina. Qui, in un ambiente igienico, inizia la trasformazione da latte a formaggio non pastorizzato. Il formaggio è pressato in uno stampo di legno a forma di mattone, piazzato su un tavolone di legno nella vecchia cantina di pietra, dove le condizioni naturali contribuiscono a creare una crosta di muffa che può essere nera, grigia o grigio-rossastra. Il cacio di solito è affinato per sei-sette mesi ed è molle e leggermente cremoso, di consistenza compatta, con qualche occhio piccolo e irregolare. La pasta è di colore bianco-bianco avorio. Durante una visita invernale, era troppo presto per assaggiare il formaggio, ma chi andrà a Cheese a Bra avrà l’occasione di provarlo e giudicarlo di persona. A Raftshojdens Gardsmejeri offrono tre diversi formaggi affinati in cantina: uno estivo maturato meno, solo due-tre mesi, uno più maturo di tre-quattro mesi e quello affinato più a lungo, di gran carattere, che ha sei mesi-un anno. Gert definisce poeticamente l’intero processo, dalla produzione del foraggio per alimentare le capre fino alla caseificazione, «trasformare i raggi del sole in formaggio». C’è stato un periodo in cui le capre erano un elemento comune del paesaggio dello Jämtland, e quello che era chiamato semplicemente caprino era prodotto nei villaggi e nelle fattorie dei pascoli estivi. Nelle sole contee dello Jämtland e del Vasternorrland dimoravano 35 000 capre nel 1865, mentre nel 2003 ne restavano 12 000 in tutta la Svezia e 1200 nello Jämtland. Gert e Gunilla fanno parte dei 10-12 produttori del tradizionale caprino affinato in cantina della regione che, insieme alla provincia di Harjedalen, è la zona classica di questi formaggi. Non erano partiti con l’intenzione di allevare capre e produrre formaggio, e ora rappresentano una nuova generazione di produttori che hanno scelto di tornare alla terra dei loro antenati. Da ragazzo Gert trascorreva l’estate nel villaggio di Raftsjohojdens, nella contea di Jämtland, dove i suoi nonni lavoravano come agricoltori. Per esprimere la sua vena artistica e creativa, studiò e lavorò come attore a Parigi e Stoccolma. I suoi nonni scomparvero alla fine degli anni Settanta e nel 1980 egli tornò aRaftsjohojdens per un breve soggiorno per ascoltare i racconti locali, cui si sarebbe potuto ispirare. Era particolarmente interessato al lavoro con i cavalli, che comporta le stesse qualità della recitazione: rilassatezza, sensazione di identificazione, concentrazione su ciò che è importante e presenza totale qui e ora. Rimase nella casa delle vacanze per tutto l’inverno, «un’idea assolutamente rivoluzionaria». Dopo avere lavorato per qualche anno come boscaiolo, aveva ascoltato i racconti di lavoro della regione e imparato a usare poche parole ma significative.

L’ora di Gudilla

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di Linda Kay*

Svezia centrale, come mungere in sessanta minuti centoventi pecore. Storia di una storica fattoria e dei suoi proprietari con la loro produzione

Gunilla si è unita a Gert nel 1984. La laurea in agricoltura biologica e gli studi di agricoltura biodinamica con gli allievi di Rudolf Steiner hanno inciso sugli orientamenti della fattoria. Gunilla e Gert insieme si misero in contatto con gli anziani della zona per imparare ciò che serviva sulle capre, la pastorizia e la produzione di formaggio. Nel 1988 decisero di restare per allevare capre e produrre caprini. Tuttavia, la fattoria era di proprietà di numerosi membri della famiglia, nessuno dei quali interessato a sfruttarne per intero le potenzialità. Gert e Gunilla, però, hanno perseverato e nel 2001 hanno potuto acquistare l’intera proprietà. Sono molto attenti alle tradizioni locali. Esternamente, gli edifici della fattoria sono molto simili a come sono sempre stati dal lontano 1750; all’interno sono stati apportati solo cambiamenti funzionali: la giostra, lo spazio su due livelli per le capre, la zona dove si fa il formaggio che rispetta le norme igieniche dell’Ue, la rivendita, l’ufficio e la stanza del computer. Le cantine per l’affinamento sono rivestite con pietre della zona: granito, calcare e greystone. Nei mesi caldi le capre pascolano in una foresta adibita a pascolo non lontano dalla fattoria. La terra più vicina è usata per coltivare il foraggio biologico che gli animali mangiano nei mesi freddi, quando non possono pascolare. Gert ama avere capre da latte più vecchie, tra gli 8 e i 12 anni, perché «sanno dove pascolare e insegnano alle giovani dove trovare i pascoli e l’acqua migliori». Le capre sono di razza svensk lantras, conosciuta anche come razza rustica svedese. È autoctona della Svezia e, pur essendo simile alle razze norvegesi, è piuttosto diversa da altre europee. La Svensk Lantras è un animale relativamente piccolo, con un peso medio di 60 chili. È

una razza in pericolo, sicché la produzione di formaggio offre un modo per facilitarne la sopravvivenza. Questi animali mostrano la curiosità tipica delle capre e, quando si incontra un gregge, si ha modo di vedere la miriade di colori della svensk: bianco, chiazzato, grigio, nero e tutte le combinazioni possibili. Possono avere o non avere le corna. Il ristretto gruppo di pastori e casari dello Jämtland lavora coeso, mettendo in comune i maschi per migliorare la selezione e prendendo scrupolosamente nota della loro provenienza per ridurre al minimo gli accoppiamenti tra consanguinei. Perciò le loro capre sono immuni dalle malattie che spesso colpiscono questi animali. Anche se i produttori commerciali di formaggio e i regolamenti statali più consoni a una produzione industriale minacciano questa razza e il caprino affinato in cantina ricavato dal suo latte, fattorie come quella di Raftsjohojdens e organizzazioni come Eldrimner si impegnano a educare i consumatori, non solo per serbare le tradizioni ma anche per mantenerle vitali. Gert e Gunilla ospitano i visitatori nei mesi estivi, dando loro modo di seguire il lavoro di una fattoria storica e offrendo cene a base della carne e delle patate prodotte nella fattoria. Eldrimner è il centro nazionale svedese per la piccola produzione alimentare artigianale. Situato nello Jamtland, sostiene le piccole imprese con servizi di consulenza, seminari, viaggi di studio e lavoro di sviluppo. Produttori come Gert e Gunilla, insieme con Eldrimner, lavorano per inserire nel progetto dei Presìdi Slow Food il caprino affinato in cantina. Ah, Gert fa ancora l’attore, recitando nella zona, e scrive poesie. *Slow Food


I lupi cattivi non sono piĂš quelli di una volta.

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an Bartolomeo al Mare, in provincia di Imperia. Giovani e meno giovani si avvicendano ai fornelli della cucina da campo. Dai pentoloni sale l’aroma delle verdure del Ponente ligure. E’ in corso l’iniziativa Batti il tuo tempo con Marco nel cuore, organizzata dal centro sociale imperiese La talpa e l’orologio. Due giorni di impegno e di festa per l’”altro Ponente ligure”: quello dell’associazionismo, della sinistra sociale e del precariato, deciso a contrastare la lunga mano dei poteri forti in questa zona di frontiera saldamente in mano alla destra. E a difendere il centro sociale minacciato di sgombero – “uno dei pochi spazi pubblici e gratuiti a disposizione

modo mio), “le donne, la cucina, la quotidianità, le feste”. Racconti e ricette di un gruppo di anziani che hanno seguito un corso di scrittura creativa all’Università popolare dell’età Libera, tenuto all’Auser (il centro sociale per anziani della Cgil) da Franca Natta. Pranzi e cene dei giorni di festa costruiti con poco, ma creativi e appetitosi… I prodotti base sono quelli di cui è ricca la campagna ponentina: bietole e carciofi per i ravioli e per le torte verdi, pesce povero come acciughe e sardine, farcito e fritto, fiori di zucca ripieni di pane e patate… Nei ricordi dei nonni scrittori, il profumo del cibo riporta mestieri scomparsi come quello degli assaggiatori d’olio, e attraversa un lungo tratto di storia locale: le

gono a essere protagonisti di un vero libro stampato”. E così, in 4 anni, il corso ha prodotto già quattro libretti che a tratti vanno anche oltre l’ambito testimoniale: il primo anno, un giallo, poi una raccolta di memorie sulla Resistenza, per il sessantesimo anniversario della Liberazione, in seguito racconti sul tema del lavoro, per i cento anni della Cgil, e infine questo su cibo e memoria. “Ho cominciato il corso racconta ancora Franca - leggendo Non fate sbrodeghezzi di Natalia Ginsburg o la cucina di Fratta, l’antro acherontico descritto da Ippolito Nievo nelle “Confessioni di un italiano”, o ancora il brano del Marcovaldo di Italo Calvino sulla “pietanziera”. Quel contenitore di metallo a più strati

della città di Imperia” – , sono venuti in tanti. Così, per un momento, tra il profumo di rostelle e quello del condiglione (insalatona rinforzata a seconda delle tasche e della stagione), intorno al tavolo sembra sedere un pezzo di quel “laboratorio della sinistra alternativa”, rappresentato in piccola scala dagli ospiti venuti da fuori o dai soggetti politici locali. Poi, davanti ai fiaschi di vino, tra un piatto di pasta e un prodotto equosolidale, nelle tavolate s’incrociano le storie, i racconti e le generazioni. “Con le carni di delfino essiccate si faceva il musciamme, viene dall’arabo musciamma che vuol dire seccato – sta dicendo un anziano - si usavano i due filetti del dorso, e si vendevano appesi alle corde sotto i portici della marina di Oneglia. Ogni famiglia ne aveva un pezzo per insaporire il condiglione”. “Mangiavate i delfini?” esclama inorridita una giovanissima turista friulana., “Sia delfini che tartarughe – conferma l’anziano –, adesso è proibito pescarli, e comunque i delfini se ne sono andati, ma prima la tartaruga veniva cucinata anche nei ristoranti. Uno stufato nutriva una famiglia intera. Sessantasettant’anni fa, c’era la fame. E’ tutto scritto qui” – aggiunge sfogliando un un piccolo libro in vendita sui banchetti della festa. Il libro, pubblicato dal Centro editoriale imperiese, s’intitola A’ me manea (a

prime fabbriche occupate nel ’21, gli “orti di guerra” durante il fascismo, l’inventiva delle donne nel ricavare un po’ di cibo per i partigiani. Memorie “rosse” in una provincia frontaliera e perbenista, prima feudo dell’ex Dc - nel segno paternalistico degli Agnesi -, e ora di Forza Italia. Memorie mantenute in vita anche grazie all’impegno di persone come Franca Natta, nipote dello scomparso dirigente del Pci Alessandro Natta, e curatrice dei suoi scritti. Nell’imperiese la conoscono tutti. Ha lavorato a lungo nella scuola e nel sindacato, e ora è presidente di Proteo Liguria, l’associazione della Cgil che si occupa di formazione dei docenti. E siccome non riesce a star ferma anche adesso che è in pensione, oltre a far parte del Comitato dei garanti della Talpa e l’orologio, si dedica al centro anziani. Le chiediamo come sia riuscita a trasformare in scrittori un gruppo misto over 65 che non ha mai avuto dimestichezza con la penna. E lei risponde che quel corso di scrittura creativa non è stato poi così diverso dai tanti che ha promosso nelle scuole e negli asili dell’imperiese dove, attraverso il cibo, ha parlato di multicultura. “Variano le tecniche e il materiale a cui attingere, per gli anziani lo scrigno della memoria, per i più piccoli la fantasia immediata, che reagisce a ogni tipo di spaesamento – spiega - ma a tre anni come a novanta, tutti ci ten-

che conteneva il pranzo degli operai dei cantieri, a Oneglia si chiama il bulacchino. Gli uomini si sono ricordati gli odori del cibo nel bulacchino: quello dell’aglio in camicia e delle acciughe ben sciolte nella salsa della pizza, spessa e scura; quello della buridda di stoccafisso o dei condiglioni estivi con la cipolla cruda. E hanno raccontato le atmosfere di allora: le fabbriche degli anni ’60 e ’70, i cantieri, il lavoro al porto…” Gli anni del boom economico, quando nell’imperiese il tessuto industriale si trasforma per l’arrivo degli immigrati dal sud: una nuova classe operaia che non possiede orti da coltivare, e perciò non è gestibile negli schemi padronali che hanno funzionato fino ad allora, ossia pace sociale in fabbrica, in cambio di qualche concessione di orario per andare a occuparsi dei propri ulivi. E sul bulacchino la tavolata si anima. Dov’è finita l’Imperia reattiva di prima? Perché i giovani che vanno a studiare a Genova o a Torino non sono più combattivi? Eppure, dice qualcuno, secondo una ricerca della Cgil: “nella provincia di Imperia, i lavoratori atipici superano di gran lunga quelli di Genova, la Spezia, Savona, e non in proporzione ma in numeri reali”. Per via della legge Biagi, la precarietà del lavoro è ormai diventata regola, e alimenta un sommerso di migranti e di giovani senza un progetto.

S

“Almeno prima, anche se c’era miseria, il bulacchino ce l’avevano tutti e i lavoratori mangiavano assieme, e poi c’era la mensa, oggi invece alcuni hanno i diritti, altri niente”, dice ancora Franca Natta. E Paolo Languasco, avvocato del lavoro, tra i fondatori della Talpa e ora attivo nel centro sociale Zapata a Genova, aggiunge: “Nella grande cantieristica, e in misura sempre crescente nelle imprese edili a dimensione minore dove le ga-

di Geraldina Colotti

Cultura alimentare, pentole e lotta di classe a Imperia, Liguria. Tra gente che mangia delfini e altri a difendere un centro sociale dallo sgombero. ranzie sono inesistenti, allo sgretolamento concreto dei diritti oggi si affianca quello legislativo, l’autonomia del diritto del lavoro – precisa - tende così a scomparire. Al salariato classico che ha diritto alla mensa si affiancano le molteplici figure atipiche della catena di appalti e subappalti dai tanti anelli: il giovane assunto a tempo determinato, quello che lavora in subappalto e che la settimana prima era a Taranto e poi magari va a Livorno, il rumeno assunto con la direttiva Bolkestein, il migrante senza permesso di soggiorno che quasi si deve nascondere…Se vai alla Fincantieri all’ora di pranzo, anche da come viene consumato il pasto vedi bene le differenze che esistono in termini di salario, garanzie e qualità della vita”.

Cibo sinistro

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22scritto&mangiato

Alzhe

di Geraldina Colotti

tavola coi protagonisti dei romanzi fra cibo-rituale e cibo che cura, cibo d’amore o cibo di strada. Nel romanzo La pergamena della seduzione, della scrittrice nicaraguense Gioconda Belli (Rizzoli, trad. di Margherita D’Amico), per la cena della Notte Santa, è previsto champagne, caviale, prosciutto crudo, formaggio della Mancha. E poi coscia di agnello al forno, mousse di trota e torrone di mandorle... Sola in un’austera casa spagnola che racchiude secoli di storia, la giovane Lucia sta apparecchiando la tavola quando sente scattare il meccanismo che sbarra tutte le entrate. Spaventata, corre alla porta della cucina e tenta di aprirla, ma non ci riesce. Perché Manuel e la zia l’hanno chiusa a chiave in quell’enorme casa? La scena prepara il finale di un romanzo sul potere femminile, costruito fra la Spagna di oggi e quella del Cinquecento. Come nel suo primo libro di successo, La donna abitata, Gioconda Belli mette a specchio due figure femminili lontane nel tempo, ma accomunate da un’analoga tensione alla libertà, intreccia il destino di Giovanna la Pazza - figlia di Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona -, a quello di Lucia, studentessa sudamericana di diciassette anni. Rimasta orfana da piccola di entrambi i genitori, Lucia è stata affidata ai nonni, che l’hanno mandata a studiare in convento a Madrid. Schiva e intelligente – ama l’arte, la scrittura e la storia – la ragazza trascorre le sue domeniche di libera uscita nei musei di Madrid, non prima però di aver fatto tappa alla solita pasticceria. Ma, un pomeriggio, Lucia incontra Manuel, un professore di storia rinascimentale, discendente dei marchesi Denia, i carcerieri di Giovanna la Pazza nel Cinquecento. Manuel è ossessionato dalla figura della regina, a cui Lucia stranamente somiglia. Vuole comprendere la follia di Giovanna, la sua passione senza ritorno per Filippo il Bello, i meccanismi che inducono una donna a perdersi nei labirinti della passione e del potere. Propone perciò a Lucia un ambiguo gioco di ruolo che li riporterà indietro nel tempo. Così, nell’atmosfera cupa e torbida della casa di Manuel, dopo il pranzo e del buon vino, ogni domenica Lucia vestirà i panni della regina, lasciandosi sempre più prendere da quel gioco di potere e seduzione. Ma chi è davvero Manuel e quali segreti nasconde quella casa buia? Mentre il ritmo accelera, il romanzo si colora di mistero.

A

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Il nuovo romanzo di Renate Dorrestein, Mentre mio figlio fa l’amore (Guanda), si apre invece su una scena di vita ordinaria. Heleen, la protagonista, parla al telefono, sorseggiando un bicchiere di vino, mentre dall’altro capo del filo, la sorella, nella sua “piccola cucina di lamiera ondulata”, ha appena sfornato dei panini. La sorella di Heleen alleva cavalli nel Michigan, insieme alla sua compagna Nell. Quel giorno ha comprato le mele e sta per preparare il sidro. Heleen, invece, abita ad Amsterdam, coltiva piante, e ha un marito con cui è felicemente sposata. Ma la sua normalità sta per essere interrotta dalla malattia della madre che, in preda dell’alzheimer, sta rapidamente perdendo la memoria. Allora nella mente di Heleen si affollano i ricordi: “Esce la patata. Entra il peperone. Prima verde, poi rosso. La cucina esotica, disse mia madre, piena di entusiasmo, mentre tagliava a metà un peperone e buttava i pezzi nell’acqua bollente con aria spavalda, è sempre così festosa, così… esotica”. Adesso, per lei, si tratterà di decidere se prendersi cura della madre ospitandola in casa o portarla in un istituto. Un conflitto su cui Renate Dorrestein costruisce un romanzo ironico e introspettivo che descrive la crisi di una donna alle soglie dei cinquanta e inda-

Peperoni, aria spavalda, gente raccontata davanti a un fornello. L’alimentazione fa da sfondo o da protagonista. Lezioni e storie di dadini non tagliati proprio a misura

ga i chiaroscuri delle relazioni familiari, messe a nudo dalla dipendenza e dalla malattia.

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E’ il cibo dei ricordi, quello della protagonista Salma, che ricorda la sua vita di prima nel romanzo Un tè alla salvia per Salma, di Fadia Faqir (Guanda, trad. di Valeria Bastia): “Al mio ritorno, il braciere ardeva già e mia madre stava impastando il pane con le dita ruvide e gonfie. ‘Buongiorno, madre.’ E le davo un bacio sulla

fronte. Lei mi sorrideva e mi porgeva la prima porzione, grondante burro e miele. Mentre mangiavo, la guardavo lanciare in aria la pasta finché non otteneva uno strato sottile, grande tanto da ricoprirle le braccia distese, che poi buttava sulla piastra di ferro incandescente sistemata sul fuoco fuori casa: iniziava subito a sfregolare, si gonfiava come una rotonda luna brunita e spargeva il suo aroma nell’aria fresca del mattino.” Salma è in fuga da un villaggio di beduini


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eimer in cucina della Giordania e da una condanna a morte emessa dalla famiglia. La sua “colpa” è quella di aver amato un uomo prima del matrimonio e di essere rimasta incinta. L’unica soluzione, è quella di farsi arrestare e di essere tenuta in carcere sotto protezione. Vi resterà per otto anni, finché una suora libanese non l’aiuterà a fuggire in Inghilterra. Sola nella metropoli, confrontata a costumi e abitudini che non capisce, Salma ricapitola il suo dramma davanti a una tazza fumante di tè alla salvia, accompagnato da pane burro e miele. Seguendo l’aroma e il passo incerto della donna ferita, il lettore scoprirà il segreto di Salma, in un viaggio a ritroso guidato da una lettera e da una scatola di seta rossa.

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Cibo scarso, cibo che cura o cibo rituale, è quello che scandisce i ricordi di Baby Halder nell’autobiografia dal titolo Una vita meno ordinaria, (Bompiani, trad. di Vincenzo Vega). E il cibo accompagna la rabbia di “esser nata donna in una società povera”, costantemente oggetto di umiliazione: è il profumo di pitha, le focaccine dolci che non si può comprare; è la fatica di preparare il mudi, il riso soffiato con gli ingredienti di accompagno, al posto di dormire; è la scoperta del sadh, il piatto rituale di riso e latte che si dà alla la sposa incinta, mentre lei ha ancora l’età per giocare. Quella di Baby è una storia vera, la storia di un riscatto femminile attraverso la scrittura, una rivincita inaspettata, dopo una vita di privazioni e soprusi. Baby, originaria del Kashmir, da piccola viene abbandonata dalla madre e cresce in balia dell’umoralità del padre, ex militare ed ex-autista, e delle sue nuove compagne. A 12 anni verrà obbligata a sposare un uomo gretto, e solo molto più tardi riuscirà a sfuggirgli per recarsi a Delhi insieme ai figli. Nella capitale, la donna troverà infine un impiego come domestica in casa dell’esimio antropologo Pradoh Kumar. E sarà il professore a spingerla a “lavorare con le parole”, scoprendo quel talento che nell’infanzia Baby non aveva potuto coltivare.

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Cibo da brivido nel thriller Il giardiniere notturno, di George Pelecanos (Piemme, trad. di Francesca Di Pietro e Stefano Tettamenti) La famiglia Ramone sta cenando intorno a un tavolo con sedie dallo schienale a pioli nella zona aperta tra cucina e soggiorno. Mangiano tardi, a causa degli orari strampalati di Ramone, che è poliziotto, ma ci tengono a cenare tutti insieme. Sia Regina che Ramone vengono da famiglie che considerano importante quell’abitudine. Anzi. Lui, da buon italiano, pensa che condividere il cibo, più che un’abitudine sia un esercizio spirituale. Quella sera, però, il sugo sa un po’ di bruciato, la mamma deve aver “passato aglio e cipolla alla fiamma ossidrica”. Insieme ad altri due colleghi di Washington, Gus Ramone deve risolvere un caso di omicidio, un ragazzino ucciso e violentato con modalità simili a quelle di altri delitti seriali di vent’anni prima: come allora, l’assassino, sprannominato il giardiniere notturno, colpisce di notte, sceglie sempre minorenni e con nomi palindromi. Ma stavolta Ramo-

ne pensa di aver trovato una traccia: una ciocca di capelli che spunta dal passato. Da qui partono i fili di un thriller che, dall’America reaganiana, arrivano al presente: in una Washington che s’interroga sull’omicidio di tre adolescenti neri, mangiando bistecche di prima scelta al ristorante e bevendo scotch single malt, mentre nei bagni di sotto, gli uomini vestiti di scuro e “le cravatte rosse del potere”, i repubblicani come i democratici, accantonano le loro divergenze per farsi insieme un tiro di coca. E tutti aspettano l’arrivo di una nuova droga, che però sembra destinata soprattutto ai neri.

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Cibo per menti contorte, nel romanzo di Michael Collins, Morte di uno scrittore (Neri Pozza, trad. di Seba Pezzani). In un angusto locale della stazione di polizia, saturo dell’odore di cibo cinese da rosticceria, l’ispettore Ryder consuma in silenzio il suo riso fritto. Siamo al cuore del romanzo, ambientato nell’ateneo di Bannockburn. Il lettore ha già visto in azione tutti i personaggi di un intreccio psicologico che solo a trama avanzata presenta un omicidio da risolvere, essenziale alla vicenda. La prima scena mostra Robert Pendleton, un grande scrittore fallito che ora insegna al dipartimento d’inglese, mentre “ascolta il suono della vita” al di fuori della sua finestra. Da fuori, gli arriva l’odore di carne alla griglia, e i rumori che preannunciano la festa prevista per quella sera. Pendleton gradirebbe farsi un goccetto – abitudine per lui sempre più frequente – ma sta per affrontare il giudizio della commissione di facoltà sulla sua deludente attività accademica e si deve trattenere. L’ultima che gli rimproverano, è di aver fatto fallire la conferenza di Horowitz, uno scrittore di successo, suo rivale dai tempi dell’università e che tra poco verrà ancora a brillare in quell’ateneo. La scena successiva presenta il personaggio femminile di Adi, un’eterna dottoranda, affascinante e fragile, musa ispiratrice di molti scrittori, attrice principale del dramma che sta per esplodere: il suicidio di Pendleton - che viene salvato in extremis ma è ridotto a vegetale -, e la scoperta di un suo romanzo geniale scateneranno ambizioni e appetiti, e colpi bassi alternati a pentimenti. Con un registro piano e introspettivo, Collins costruisce così un romanzo ambizioso dai toni filosofici, che punta il dito su un mondo intellettuale finto e avido, cannibale e avvitato nelle proprie finzioni.

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Abbuffate e intrallazzi politici fanno invece da sfondo al romanzo satirico di Giuseppe Goffredo Con i fiori dei mandorli in faccia, edito da Palomar. Mentre il compagno Vito Abbracciavento – ingenuo castigatore dei costumi - vive all’insegna della poesia, “forchettoni” vecchi e nuovi si spartiscono la torta dietro le scrivanie. Il sud è solo un terreno da devastare in base al sistema del “tuttoapposto”. Abbracciavento decide allora di emigrare al Nord dove, però, non troverà una situazione migliore. Anzi. Verso la fine del romanzo, eccolo cameriere a Milano, angariato dall’ingegnere del tavolo 21, mentre scivola con la trota da servire e rischia di farsi licen-

ziare. E poi eccolo tornare al paese, perché nel frattempo la sinistra ha vinto le elezioni comunali. Ma quella non sarà la sua sinistra, perché le stanze del potere poco si curano della poesia, e al compagno Abbracciavento non resterà che masticare amaro.

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Cibo-amore, o cibo ossessione, cibo che cura o cibo che uccide, nel “romanzo culinario” di Roberta Schira, Piazza Gourmand, edito da Ponte alle grazie. Il grande cuoco ridotto a clochard prepara cene da re per altri mendicanti. L’avvenente contessina tormenta la domestica indiana per sfuggire alla noia. E intanto il marito, un ricco gioielliere, invita una collega in carriera a cene speciali: vini pregiati e piatti scelti, a patto che si metta un collare di gemme, e mangi tutto a quattro zampe mentre lui sta a guardare… In una metropoli babilonica, s’intrecciano le storie scombinate e goderecce di tassisti e nobildonne, donne in carriera e osti della malora, tutti intenti a cornificarsi e a cucinare fino alla tavolata finale. Fra un capitolo e l’altro, ricette d’autore secondo il tema: Escargot de Bourgogne o Fricassée de poulet, Scodellini di pasta brisé o Piccioni al miele. E consigli in presa diretta per fare il Risotto giallo con scaloppa di fegato grasso come si deve: l’importante è tagliare carne o verdure dello stesso spessore e dimensione, perché – avverte l’autrice - “uniformità di forma e dimensioni permette uniformità di cottura” .

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E infine, Calore, di Bill Buford (Fandango) resoconto di viaggio di una passione bruciante. Per una bella signora? Macché, per un quarto di bue ben tagliato o per un fegato d’oca ben innaffiato. Due anni a far da sguattero per la passione della buona tavola. Due anni nelle cucine dei grandi ristoranti, nel retrobottega di una macelleria o in una vecchia trattoria toscana. Due anni di gavetta per scoprire i segreti dei grandi cuochi, l’arte di un buon taglio di carne o quella della pasta fresca fatta a mano. Da New York a Londra a Panzano in Chianti. Tanto ci ha messo Buford, editorialista del New Yorker e affermato scrittore, deciso ad eccellere anche ai fornelli, per concludere la sua avventura. Tutto comincia in un freddo sabato sera del 2002. L’autore, cuoco entusiasta ma sprovveduto, osa invitare a cena il famoso chef Mario Batali, un pezzo grosso della cucina italiana, anche in senso letterale: un istrionico “rotondo e corpulento”, sigaretta spenta e coda di cavallo, che vive secondo il motto “l’eccesso più sfrenato basta appena”. Per il neofita della cucina, è una folgorazione. Vuole diventare suo allievo. Ottiene di frequentare un corso al ristorante di Mario, il Babbo, il top dei top a Manhattan. E qui cominciano le dolenti note. Affidato alle cure dell’implacabile Elisa, l’aspirante chef pelerà più patate di un reggimento in punizione e mangerà più carote di un coniglio nel tentativo di occultare i dadini tagliati non proprio a misura. Se l’arte di cucinare è nel dettaglio, Buford, ironico e brillante, quel dettaglio sa farlo gustare al lettore in punta di penna.



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