scritto & mangiato
Supplemento al numero odierno de il manifesto
in collaborazione con Slow Food
Il vino, il gusto e la sua relazione con la terra e con il clima. Facendo tappe in enoteca
Mezzo pieno DICEMBRE 2007
REGIONE LAZIO Assessorato all’Agricoltura
Nel Lazio lo spuntino cresce in libertà. Libertà di freschezza. Arrivano nelle scuole e negli uffici di Roma direttamente dai produttori del Lazio i primi distributori automatici di frutta, ortaggi, formaggi Dop e cracker. Prodotti freschissimi dell’agricoltura biologica della nostra regione confezionati e distribuiti ogni giorno per offrire una risposta concreta alla domanda di qualità e salute dei consumatori. Nel Lazio l’agricoltura cambia volto. Entrando nel futuro.
Lazio. L’agricoltura sta dando i suoi frutti.
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in collaborazione con Slow Food
4 Buoni da pensare
Ringraziamo per la gentile concessione delle immagini Alberto Novelli, che realizza reportage di viaggio per le maggiori testate specializzate. Direttore responsabile Sandro Medici Direttore Mariuccia Ciotta Gabriele Polo Supplemento a cura di Francesco Paternò Grafica Daria Sorrentino Illustrazione di copertina Laura Federici Pubblicità concessionaria esclusiva Poster srl 00153 Roma via A. Bargoni 8 tel. 06 68896911 fax 06 58179764 Stampa Sigraf srl Via Vailate, 14 Calvenzano (Bg) Chiuso in redazione il 12/12/2007
di Giacomo Mojoli 6 Questione di bollicine di Pierluigi Piumatti 8-9 Tre angeli matti di Giancarlo Gariglio 10-11 La scoperta della pinta di Luca Giaccone 15 Fino alla feccia di Michel Smith 16-17 Lo scotch e l’alambicco di Tom Bruce-Gardyne 19 Scrivere sul rosso di John Irving e Giovanni Ruffa 21 Il dono del cuoco di Geraldina Colotti 23 Ogm sarà lei di Simone Verde
il piacere di una bevuta di qualità, è l’equivalente a un viaggio enologico senza meta, è semplicemente una cosa di gusto. Non parliamo di questo supplemento - dedicato insieme ai nostri amici di Slow Food ai piaceri del vino - ma di “Ratatouille”, l’ultimo film della Disney/Pixar. O chissà, magari parliamo di entrambi, nel dubbio seguiteci. Il cinema e la gastronomia vivono un antico amore, ma in questo caso l’incontro è super fatale. Ratatouille, celebre e semplice piatto di verdure, francese d’origine nizzarda, grazie a Disney si può tradurre più liberamente in slow food. O anche in un omaggio alla cultura della qualità alimentare attraverso la cucina e il palato. O ancora nell’inedito incontro tra le smodate ambizioni di un topo di campagna, Rémy, nel voler diventare a Parigi chef di alto livello per la cucina di un grande ristorante alla moda - oddio, un topo in cucina? Insomma, è un film da bere fino all’ultima goccia, dove perfino i giornalisti possono capire e migliorare, grazie alla trasformazione di Anton Ego (abitazione a forma di bara, tanto per dire), da feroce critico gastronomico a cliente fisso di Rémy FRANCESCO PATERNÒ lontano dai riflettori. “Prospettive” è il suo piatto richiesto con ferocia Chez Gusteau, sarà ben accontentato. E in prospettiva anche noi proveremo ad accontentare voi lettori, con le pagine a seguire che sanno di vino, ma anche di birra (scarsa tradizione quella italiana, ma che fantasia) e di vecchio whisky scozzese. E anche di nulla, quando finirete sulla carta inodore che parla di Ogm e della battaglia a Bruxelles di 44 amministrazioni comunali europee per fermare l’avanzata di organismi geneticamente modificati. Il vino resta tuttavia il cuore del lavoro scritto con gli amici di Slow Food. Il vino raccontato oltre e fuori la bottiglia, tanto per capire e sapere la sua genealogia, la sua provenienza, il suo rapporto con la terra, con il clima, con l’economia e le risorse genetiche locali. Non solo un gesto agricolo ma, come dire, un atto filosofico. L’indagine è condotta soprattutto tra vini italiani, si gioca in casa e c’è molto da imparare. Certo, sarebbe bello andare di persona presso certi maestri, come ha fatto il regista di “Ratatouille” Brad Bird, che prima di fare il film ha studiato gastronomia in un noto ristorante della Napa Valley in California e poi si è fatto un giro in alcuni locali très chic di Parigi. Noi no, restiamo qui. A brindare con voi al prossimo 2008.
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Il topino ebbro
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Buoni
da pensare ell’arco del secolo a venire – lo affermano numerosi studiosi e scienziati – diversi dei nostri vini più rinomati potrebbero scomparire: a causa delle modificazioni delle condizioni climatiche e del progressivo aumento dell’effetto serra. Senza bisogno di scomodare la scienza ufficiale, comunque, basta scorrere l’andamento dell’ultima vendemmia, parlare con i coltivatori e con gli agronomi di quasi tutte le regioni italiane per apprendere che il clima, con il suo oscillante mutamento, ha interagito con i problemi che in molte realtà si sono presentati: dalla resa alla qualità della materia prima, dallo stress idrico ai sempre maggiori danni da parassiti. Lo si voglia o no, dunque, quello del clima sarà un tema dal quale neanche il mondo del vino – dalla ricerca alla viticoltura – potrà più prescindere. Senza volerci addentrare in un discorso tecnico o ecologico di lungo periodo, certo è che non possiamo più, già oggi, limitarci a parlare di vino considerandone esclusivamente l’aspetto edonistico e il carattere organolettico, prendendone in esame, cioè, soltanto la dimensione sensoriale ed estetica. Come succede per altre produzioni, oggi occorre riscoprire qualcosa di più complesso, di più originale, di più rintracciabile, qualcosa che il “semplice” concetto di piacevolezza derivante da un liquido versato in un bicchiere non ci può dare. Qualcosa che si trova non dentro ma attorno alla bottiglia e che, oltre ad appagare (di più o di meno) il gusto, è in grado di accompagnarci verso la genealogia del vino, la sua provenienza, il suo rapporto con la terra, il clima, l’economia, le risorse genetiche locali. È quello che sta accadendo per il cibo, con la riflessione che si è aperta intorno alla necessità che la sua produzione diventi sostenibile, al fatto che dobbiamo cominciare a parlare, oltre che dei diritti dell’uomo, di quelli degli animali, delle piante, dei fiumi, delle montagne, della terra. Il tutto per riaffermare come la grande scommessa futura sarà saper realizzare vini che siano sì “buoni da bere”, ma anche e
di Giacomo Mojoli*
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Qualcosa che si trova non dentro ma attorno alla bottiglia, in grado di accompagnarci verso la genealogia del vino, la sua provenienza, il suo rapporto con la terra, il clima, l’economia, le risorse genetiche locali
soprattutto “buoni da pensare”, compatibili con la natura e il paesaggio, sostenibili e in sintonia con l’evoluzione e la crescita di una nuova figura di consumatore. Un consumatore che sempre più tende a trasformarsi in consum-attore, che non si accontenta più di un vino omologato nella me-
todologia di realizzazione e, di conseguenza, nel gusto, che vuole conoscere in piena trasparenza l’origine del prodotto e condividere idealmente le scelte culturali e agricole di vignerons ed enologi. In una visione del vino e, soprattutto, del terroir, da vivere come una sorta di geografia emozionale
che nel vino prende corpo, dando a esso una personalità profonda, un’anima. In tal modo, ciò che riempie quel bicchiere diventa un progetto in simbiosi con il territorio che, in una con il consumatore-produttore, diventa capace di generare un modello di viticoltura sostenibile, rispet-
toso dell’ambiente e dei suoi ritmi. Sarà, questo così concepito, un vino capace di porre ai suoi artefici come ai suoi acquirenti, ai degustatori e agli operatori, la sfida del cambiamento, per arricchire, ognuno, la propria dimensione culturale e operativa, una sfida che comporterà la condivisione di valori come la naturalità e la difesa della biodiversità. Un vino che affondi le radici nel territorio, che sappia essere “altro” essendo genuinamente diverso, per certi aspetti “imperfetto”, dopo anni di rincorse a una perfezione troppo spesso passate attraverso scorciatoie fin troppo tecnologiche. Un vino fruibile nella quotidianità, con un prezzo dettato dal buon senso oltre che dall’equità, con una dimensione rivolta alla sensibilità del consumatore e un’altra al riconoscimento di una giusta remunerazione di chi lavora, tutelando la terra e il paesaggio. La filosofia, diceva Platone, consiste nel «sapersi servire di quello che si fa». Non è, quindi, estranea a essa la dimensione dell’agire, del confrontarsi con la quotidianità, i suoi bisogni e le sue difficoltà. Fare il vino, coltivare la vigna, diventa allora «sapersi servire» culturalmente di «quello che si fa». Non solo un gesto agricolo, dunque, ma un vero e proprio atto filosofico. * Slow Food
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l vino italiano, dopo un periodo di crisi che ha avuto il suo fulcro nella fatidica data dell’11 settembre 2001, sta lentamente uscendo dalle secche e ritorna a fare la voce del padrone sui mercati internazionali. Nonostante il dollaro in ribasso, la bilancia commerciale del vino sta incrementando, a suon di primati, i suoi fatturati e le feste di fine anno costituiranno un ulteriore passo in avanti per il bilancio positivo del settore. In questo periodo gli appassionati, ma anche i neofiti, prendono d’assalto le enoteche, i wine-bar e i supermercati per l’acquisto oculato di un regalo, oppure per comprare bottiglie di qualità da stappare durante i
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monte e il Prosecco in Veneto. Alcuni suggerimenti per acquisti mirati di ottime bottiglie metodo classico: Franciacorta Satèn (chardonnay 100%, a 25-30 euro in enoteca) dell’azienda Enrico Gatti (Erbusco, tel. 030 7267999), bollicine di carattere ma, allo stesso tempo, fini ed eleganti; ottima la complessità del frutto, con finale decisamente fresco e lungo. Rimanendo in Lombardia ci spostiamo in Oltrepò, dove si trova la cantina Monsupello della famiglia Boatti (Torricella Verzate, tel. 0383 896043), che si distingue per la produzione del Pinot Nero Classico Nature (20-22 euro), uno spumante sorretto da una fresca vena acida e dal frutto integro.
gli frizzanti con due classici dell’enologia italiana prodotti con uve autoctone, il veneto Prosecco e il profumatissimo piemontese Asti Spumante. Il primo è prodotto nell’area trevigiana che va da Conegliano a Valdobbiadene in provincia di Treviso. L’uva con cui è elaborato, il prosecco, può dar vita a spumanti leggermente abboccati e molto gradevoli in bocca. La nostra preferenza va al Prosecco di Valdobbiadene Dry Vigneto Giardino (10-12 euro) dell’azienda Adami (Vidor, tel. 0423 982110). L’Asti, invece, è uno spumante dolce unico nel suo genere, prodotto con l’uva bianca più diffusa del Piemonte, il moscato. Qui diamo un consiglio particolare, in quanto
panoramica dalla Valle d’Aosta, dove si sente molto l’influenza francese (con le uve chardonnay e pinot grigio) e svizzera (petite arvine). Un vino di non facile reperibilità sul mercato nazionale ma di grande fascino è il Pinot Gris (10-12 euro) dell’azienda Lo Triolet (Introd, tel. 0165 95437). La sua particolarità è di essere prodotto con uve coltivate ad altitudini quasi impossibili (500700 metri sul livello del mare), che lo rendono sapido e assai elegante. Scendendo lo Stivale si passa in Piemonte, terra di grandi rossi ma anche di belle sorprese per quanto riguarda i bianchi. In questi ultimi anni si sta affermando il Timorasso, un bianco prodotto in provincia
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ROSSI Arriviamo così ai rossi, settore in cui la nostra penisola può vantare alcune delle tipologie più conosciute a livello internazionale. Barolo, Barbaresco, Chianti Classico, Brunello di Montalcino, Amarone e Taurasi sono le scelte obbligate, ma rovistando negli scaffali delle enoteche si possono fare altre belle scoperte, acquistando vini meno celebri ma molto validi dal punto di vista della qualità. Ecco alcuni suggerimenti. Si parte con un ottimo rosso dell’Etna prodotto dalla nuova Tenuta delle Terre Nere di Marc De Grazia (Randazzo, tel. 0959 24002), un toscanaccio trapiantato sotto le falde del vulcano: il suo Etna Rosso Feudo
di Pierluigi Piumatti*
I vini più gettonati per le feste di fine anno restano quelli tipo Champagne e spumanti. Un sentiero di bevute con nome e cognome per eventuali acquisti oculati
Questione di bollicine cenoni di fine anno. Anche questa volta, i vini più gettonati sono quelli con le bollicine, in particolare lo Champagne, ma anche in Italia si trovano ottimi spumanti. In questi consigli abbiamo deciso di prendere in esame solo vini interessanti prodotti della nostra penisola, iniziando proprio dagli spumanti.
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SPUMANTI E VINI DOLCI
Le aree più interessanti per la produzione degli spumanti metodo classico (un tempo si diceva champenois, prima che i francesi ottenessero di poter usare questa definizione per i soli Champagne) sono quelle legate alle denominazioni di origine più famose e conosciute: Franciacorta (docg) e Oltrepò (doc) in Lombardia, Trento (doc) in Trentino, Alta Langa e Piemonte Spumante (entrambi doc) in Piemonte. Molto importanti per numero di bottiglie prodotte e per caratteristiche derivanti dall’utilizzo di vitigni autoctoni sono l’Asti (dolce docg da uva moscato) in Pie-
Dalla Lombardia al Trentino il passo è breve, ma le bollicine di quella provincia sono molto diverse da quelle della Franciacorta. Qui il consiglio ricade sull’azienda Abate Nero (Trento, tel. 0461 246566), che conquista i palati con il Trento Brut Cuvée dell’Abate Riserva (25/30 euro), dove chardonnay, pinot nero e una consistente fetta di pinot bianco conferiscono a questo metodo classico carattere e sapidità. In Piemonte sono due i consigli: il primo vince nel rapporto tra la qualità e il prezzo, caratteristica che non va sottovalutata, mentre il secondo interpreta al meglio la tradizione spumantistica della regione. Borgo Maragliano a Loazzolo (tel. 0144 87132) propone il Giuseppe Galliano Brut Etichetta Oro (80% pinot nero e chardonnay per il resto, 14-16 euro); Bava a Cocconato (tel. 0141 907083) realizza l’Alta Langa Toto Corde Giulio Cocchi (pinot nero 70%, chardonnay 30%, 26-28 euro). Chiudiamo la serie di consi-
l’Asti Camillo Gancia è prodotto con il metodo classico, quindi con lunga rifermentazione in bottiglia e non in autoclave. L’azienda produttrice è la Gancia di Canelli (tel. 0141 8301) e il prezzo (22-24 euro) è ovviamente molto più alto di quello della media della denominazione: provatelo, rimarrete a bocca aperta. Chiudiamo con la Malvasia delle Lipari Passito (25-28 euro) di Hauner (Lipari, tel. 090 9843141) e con il Vin Santo del Chianti Rufina (oltre 40 euro) della cantina Frascole (Dicomano, tel. 055 8386340)
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BIANCHI
Cambiando tipologia passiamo ai bianchi. Anche in questo caso ci si rende conto di come l’enologia italiana abbia fatto passi da gigante. I vini migliori rimangono quelli delle regioni tradizionalmente famose per le produzioni di questo tipo – Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Marche e Campania –, ma anche in altre zone si possono trovare vini di grande carattere. Iniziamo la nostra
di Alessandria, che migliora con qualche anno di bottiglia. Tenete in agenda l’indirizzo dell’azienda agricola Claudio Mariotto (Tortona, tel. 0131 868500), perché il suo Pitasso (16-18 euro) è straordinario. Ancora qualche indirizzo di vini bianchi eccezionali, che purtroppo hanno produzioni esigue: Pigato (16-18 euro) della Cascina delle Terre Rosse (Finale Ligure, tel. 0196 98782), Cinque Terre (20-22 euro) di Walter De Batté (Riomaggiore, tel. 0187 920127), Pinot Bianco Praesulis (10-12 euro) dell’azienda Gumphof (Fié allo Scillar, tel. 0471 601190), Bianco Sacrisassi (tocai e ribolla gialla, 20-22 euro) della friulana Le Due Terre (Prepotto, 0432 713189), Grechetto Latour a Civitella (16-18 euro) di Sergio Mottura (Civitella d’Agliano, tel. 0761 9145339), Verdicchio dei Castelli di Jesi Le Vaglie (9/11 euro) di Santa Barbara (Barbara, tel. 071 9674249), Cupo (uve fiano, 16-18 euro) dell’azienda Pietracupa (Montefredane, tel. 0825 607418), Carjcanti (16-18 euro) della siciliana Gulfi (Chiaramonte Gulfi, tel. 0932 921654) e, infine, il sardo Dettori Bianco (Vermentino in purezza, 16-18 euro) delle Tenute Dettori (Sennori, tel. 079 514711).
di Mezzo Quadro delle Rose (33-35 euro) è squisito. In Calabria si distingue per la ricerca sui vitigni autoctoni la cantina Librandi (Cirò Marina, tel. 0962 31518): da provare il Magno Megonio (15-17 euro), ottenuto da uve magliocco in purezza. L’aglianico è il vitigno classico del centro-sud e la Basilicata è l’area più importante per la produzione di rossi ottenuti con questa uva: Elena Fucci a Barile (tel. 0972 7707369) lo interpreta al meglio con la versione di Aglianico del Vulture Titolo (30-32 euro). Da non perdere anche la pregevole interpretazione che l’Accademia dei Racemi (Manduria, tel. 099 9711660) fornisce con il Primitivo di Manduria (14-17 euro). Tornando a nord, sono da ricordare il Grignolino del Monferrato Casalese Cré Marcaleone (810 euro) di Quarello (Cossombrato, tel. 0141 905204), il Sangiovese di Romagna Michelangiolo (16/18 euro) di Calonga (Forlì, tel. 054 3753044) e, per finire, un vino poco noto ma pregevole, il biologico Colli Euganei Rosso Calaone (15-18 euro) di Ca’ Orologio (Baone, tel. 042 950099). Buon brindisi a tutti i lettori del manifesto. *Slow Food
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re vignerons, tre individui che più diversi tra loro non si può: per distanza geografica, storia personale, tipologia di vini prodotti. E per la fama raggiunta. Eppure sono più simili di quanto si potrebbe pensare prima di incontrarli. Qualcosa li accomuna, una sorta di sana pazzia, un demone che li brucia dentro e li rende così diversi da quello che ormai è diventato il cliché del viticoltore. Il mondo del vino è come una pressa che tende ad appiattire e a far dire a tutti i produttori le stesse cose. Il marketing è diventato la legge suprema che, se la snobbi, ti schiaccia, allontanandoti dalle piazze più ricche e ambite. Così, in un mercato fattosi globale, i vignerons si sono trasformati in globe-trotters. Strappati alle amate vigne sono diventati dei venditori che attraversano gli oceani per affrontare tournée massacranti che li portano a visitare decine di ristoranti ed enoteche in un giorno. I loro importatori, come gli agenti delle star dello show business, li accompagnano per le strade di New York, San Francisco, Tokyo o Shangai con i loro campioni sottobraccio, da fare assaggiare al cliente di turno. Tirati per la giacca, spesso e volentieri sono così spaesati da non rendersi conto della città in cui si trovano, parcheggiati negli impersonali locali italiani all’estero, luoghi incapaci di riprodurre un Paese complesso e variegato come il nostro. Pare impossibile trovare qualcuno capace di sfuggire a queste regole massificanti, di uscire dal seminato, di volare come un “angelo matto”, per riprendere una celebre definizione di Luigi Veronelli. Il maestro, scomparso tre anni fa, in un viaggio a Ischia aveva osservato con grande attenzione i produttori dell’isola, li aveva visti scavare il terreno, costruire i muretti e zappare, il tutto in un equilibrio maledettamente precario, visto che lavoravano su terrazze panoramiche a picco sul mare. Da qui nacque quella felicissima espressione, una delle sue magnifiche pennellate. Traslando il concetto in un mondo che per forza di cose è in continua trasformazione, abbiamo individuato tre figure che covano nel cuore una dolce forma di pazzia. E proviamo a raccontarvele.
bruzzo, dove ha saputo raccogliere la pesantissima eredità di uno dei personaggi più fulgidi dell’intera enologia italiana, il papà Edoardo, mancato lo scorso anno. I suoi vini hanno raccolto un numero di premi inenarrabile e sono tra i più ricercati e difficili da reperire sul mercato. Perché? Qui scatta una certa dose di lucida follia: la domanda è altissima, ma il numero di bottiglie prodotte è infinitamente inferiore. «Il Montepulciano rosso lo abbiamo imbottigliato solo nel 2002; poi abbiamo saltato 2003, 2004 e 2005. Solo il 2006 ci è parso all’altezza», dice Francesco. Il nostro prodotto non subisce alcun trattamento, è uva che si trasforma in vino, senza aggiunta di sostanze chimiche se non una dose bassissima di anidride solforosa all’inizio. Capita quindi che in un processo che ha del miracoloso qualcosa va-
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FRANCESCO VALENTINI Il barone rampante «Faccio il contadino per due motivi», ci racconta Francesco Valentini, «prima di tutto per coltivare la mia grande passione per la natura, in particolare per la vigna e l’olivo. Quando sono nei campi ho l’opportunità di stare a contatto diretto con il regno vegetale e con quello animale, di osservare l’avvicendarsi delle stagioni e di studiarne le trasformazioni in atto. Poi, immerso in questa natura pulsante, ho la possibilità di stare il più lontano possibile dalla cosiddetta civiltà moderna e questo è il secondo motivo del mio essere vigneron». Questo è Francesco Valentini, un uomo di 46 anni, alto, aristocratico nei modi, ma contadino fino al midollo. La sua terra è l’A-
WALTER DE BATTÉ Il visconte dimezzato Walter De Batté è entrato nella mitologia di tutti noi scribacchini del vino. Il perché è semplice, lavora nelle Cinque Terre, una delle zone d’Italia più ricche di fascino e che più inchiostro ha fatto scorrere. Il Nostro, pur essendo appena cinquantenne, è considerato il caposcuola del rinascimento enologico di questo estremo lembo di Liguria, un habitat unico nel suo genere, con le celebri terrazze costruite grazie all’opera incessante di generazioni di contadini, che noi oggi chiamiamo eroi. Dopo una gioventù passata a lavorare come operaio nei cantieri spezzini, Walter decise di inseguire il sogno dei suoi avi e di fare vino, nonostante conoscesse le difficoltà di una sfida tanto improba, che comportava grandi sa-
Tre angel di Giancarlo Gariglio*
Tre uomini per mille storie. Una Ferrari d’Abruzzo, un vino di alta qualità e bassa produzione, l’enologia dolce di un estremo lembo della Liguria, l’isola della Toscana dove s’incrociano matematica, poesia e natura
da storto e che il vino non risponda alle nostre aspettative. A quel punto mi parrebbe di essere più pazzo nell’imbottigliarlo piuttosto che nel venderlo sfuso». Questione di punti di vista, direbbe qualcuno. Di certo i Valentini possiedono 65 ettari vitati e invece di produrre 400 mila bottiglie l’anno, come sarebbe normale, ne commercializzano al massimo 50 mila, e solo quando l’annata è straordinaria. Un aneddoto che dipinge a meraviglia lo spirito del padre Edoardo e che si ritrova pienamente negli occhi profondi del figlio Francesco è quello risalente ai primi anni Settanta, quando la loro azienda esportava ancora il vino negli Stati Uniti. Qualcuno, un delatore, aveva informato le autorità americane sulle presunte simpatie anarchiche della famiglia abruzzese. Le forze dell’ordine obbligarono l’importatore a scrivere una lettera a Edoardo, chiedendogli cortesemente di smentire quelle voci. Lui che fece? Semplice, smise di vendere le sue bottiglie negli States. «Fu una scelta giustissima», rincara la dose Francesco, «mica era un anarchico bombarolo, seguiva la natura e le sue regole, lontane mille miglia dalle astuzie della ragione, mosse spesso dagli interessi venali. Ideali troppo distanti da quelli degli americani, che non erano e non sono in grado di capirli e di condividerli. E poi sono i principali artefici dell’effetto serra, non avendo aderito al trattato di Kyoto, e per uno come me non potrebbe esserci colpa più grave».
crifici fisici e finanziari. Cominciò così a costruire il suo feudo che, dopo anni di impegno, raggiunse l’incredibile estensione – risibile per altri terroir – di un ettaro di terreno diviso in 22 diverse parcelle. Il suo Sciacchetrà, poi, ha fin dal principio convinto la critica nazionale e internazionale, segnalandosi come uno dei vini dolci più singolari e ricchi di sfumature del nostro Paese. «Tutto cominciava a girare incredibilmente bene», dice Walter, «avevo i miei terreni, continuavo a sperimentare vinificazioni particolari, mettevo a dimora anche vitigni a bacca rossa, quando mi è piovuta addosso la piaga dei cinghiali. Con la loro opera di guastatori hanno dimezzato la superficie che coltivavo, tanto che mi sono dovuto rivolgere alle banche per sostenere gli investimenti per le recinzioni». La parola piaga in questo caso non è tirata in ballo a caso, perché questi animali, moltiplicatisi come cavallette grazie alle leggi di tutela in vigore nei parchi nazionali, compiono vere e proprie vendemmie, anticipando quella del vignaiolo, privato così dei suoi frutti. Il passaggio dei cinghiali è tanto rovinoso che per diverse annate ha impedito a De Batté di produrre il suo vino. E così quello che sembrava l’inizio di una favola, ovvero la dimostrazione che anche nelle Cinque Terre si può vivere unicamente di agricoltura, è andato a farsi benedire, con buona pace della pancia piena dei cinghiali. Ma Walter non si è abbattuto e ha deciso di sposta-
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re di poco il suo raggio d’azione, da Riomaggiore è passato a Campiglia, dove si possono coltivare appezzamenti più ampi e più semplici da recintare. Qui, con due soci, ha intrapreso una nuova avventura, battezzata in modo evocativo Prima Terra. Quest’anno ha presentato la nuova produzione, di cui è finalmente soddisfatto dopo un primo anno di rodaggio: non è fatta solo di Cinque Terre, i vini arrivano fino in Val di Vara e Val di Magra. «Ma non mi sono dimenticato dei miei 22 appezzamenti a Riomaggiore», conclude Walter, «il mio cuore è ancora lì, il mio sogno è sempre quello, questa nuova esperienza mi serve proprio per ricaricare le pile, per tornare tra un po’ di anni più forte di prima, con un bagaglio di esperienze e di finanze più importante che mi permetta di vincere la sfida che mi sono dato».
FRANCESCO CARFAGNA Il cavaliere inesistente Porta i sandali, quelli francescani per intenderci, anche in pieno inverno. Se fate il suo nome a un qualsiasi critico enologico vi risponderà con sguardo interrogativo. Perché Francesco Carfagna è per il momento un produttore invisibile, sconosciuto ai più. Da pochissimi anni imbottiglia, la sua produzione, poi, non supera le 4000 bottiglie e lavora sul Giglio, un’isola stupenda, ma lontana dal jet set enologico. La sua storia. In gioventù si laurea in matematica, perché la mamma vuole un figlio ingegnere. In realtà lui ha la poesia nel sangue e per anni partecipa a rassegne liriche nelle piazze e nei teatri del Bel Paese. Durante gli spettacoli fa la Cenerentola, tentando di piazzarsi per primo nel pro-
li matti gramma perché, a una certa ora, deve correre a casa a badare al piccolo figlio Mattia. Fino al 1986 insegna matematica a Firenze, poi ascolta il richiamo verso una vita più naturale e si è trasferisce al Giglio. Per qualche tempo è muratore, professione che ricorda con affetto; poi conosce Gabriella, sua moglie, con la quale apre un piccolo ristorante a Giglio Castello. Lo chiama l’Arcobalena: pesce sempre fresco, comprato direttamente dalle barche dei pescatori, frutta e verdura solo di stagione. Uno slowfooder ante litteram. Poi la pazzia... All’inizio del 2000 acquista quattro ettari di terreno per fare il vino: «Giovan Battista Titta, detto Trappoletta, quando ci trovammo dal notaio per il rogito mi disse “ho deciso di cederlo a te perché ti conosco e ti auguro di farci un vino più buono del mio e che buon pro ti faccia”». Così Francesco ricorda quel momento che gli ha sconvolto, nel bene e nel male, la vita. Da quell’istante, il poco tempo libero che gli
concedeva il ristorante è stato assorbito interamente dai vigneti, che andavano completamente rinnovati, e dalla costruzione manuale dei muretti a secco. Il suo vino è come lui, vero fino in fondo. Si percepisce come le astuzie che rendono “perfettini”, ma impersonali, la gran parte dei prodotti di oggi non sono state neppure prese in considerazione. Quando gli abbiamo fatto notare che il 2006 mancava un pochino di acidità ci ha guardato dritto negli occhi e ci ha chiesto: «Ma che ci posso fare, il sole qui picchia duro, non scherza! Consigliatemi qualcosa, che ci posso mettere? Acido solforico? Acido citrico? O dell’acido lisergico! Vi prego di non scrivere questo, che poi mi prendono per un fricchettone che ha deciso di passare gli ultimi anni della sua vita al Giglio». Quando gli abbiamo confessato il motivo dell’intervista si è schernito, poi ci ha riflettuto su un giorno e ci ha richiamato: «Penso di aver capito il perché della definizione di Veronelli, forse si addice anche a uno come me: noi crediamo in un ideale e per questo siamo degli angeli, ma poi lo pratichiamo e solo i pazzi lo fanno, in un mondo che ti concede un numero infinito di scorciatoie. Tanti si riempiono la bocca con parole come la salvaguardia del terroir, poi sputano in terra come fosse un gargarismo e passano a sparare qualche altra fanfaluca. In realtà noi siamo veramente i ricostruttori del
paesaggio e io sono orgoglioso di questo. Qualche volta mi guardo indietro e mi chiedo il perché di una scelta tanto azzardata: non avevo le spalle coperte dal punto di vista economico e il restauro della tenuta ha assorbito una tale cifra che quando la confesso ai miei amici mi prendono per matto. Quello che ho fatto se lo poteva permettere un miliardario con l’hobby per la vigna, non certo io! Ma poi, quando sono lì a zappare nel campo con i miei figli Mattia e Irene, con Gabriella e il nostro aiutante Taulante, alzo la testa per un attimo, mi guado intorno e mi dico: “Francesco, però che ufficio che ti sei trovato, con Montecristo là in fondo che riempie l’orizzonte...”». Il nostro incontro con Francesco non poteva che finire con la citazione degli ultimi versi di una sua poesia: «Occorre darsi un ideale irraggiungibile da coltivare così per divertimento, per sé e per gli altri». *Slow Food
10scritto&mangiato
di Luca Giaccone*
Beba - Produzione e mescita Viale Italia 11,Villar Perosa (To) www.birrabeba.it I fratelli Alessandro ed Enrico Borio, pionieri del movimento artigianale italiano, producono birre a bassa fermentazione che si possono assaggiare nel locale di mescita annesso al birrificio, il Train Robber Syndacate. Le birre regolarmente lavorate sono sei: due chiare, due ambrate e due scure. Da non perdere la Nr.1, leggera e ben luppolata, la Motor Oil, dagli intensi sentori di torrefazione, e la Talco, freschissima stagionale prodotta con segale.
Italia non ha una grande tradizione birraria. Soltanto nel nord, che ha subìto qualche influenza “austro-ungarica”, sono nati in passato un certo numero di birrifici, peraltro ormai quasi tutti chiusi. Con i suoi 29,6 litri annui pro capite occupa l’ultimo posto nella classifica europea del consumo, surclassata dai 160 litri della Repubblica Ceca, dai 115 della Germania e dai 93 del Belgio, ma superata anche, e di parecchio, dai 40 della Grecia, dai 61,7 del Portogallo e dagli 80,6 della Spagna, paesi mediterranei come il nostro (sono dati 2004, fonte Assobirra). Al di là dei numeri, però, il vero problema è di carattere culturale. Nell’immaginario italiano la birra è una bevanda bionda, leggermente amarognola e abbondantemente gasata, da servire preferibilmente ghiacciata. Fino a una decina di
L’
Birra del Borgo - Solo produzione Via del Colle Rosso,Borgorose (RI) www.birradelborgo.it La passione e la competenza di Leonardo di Vincenzo hanno già saputo portare questo birrificio, aperto soltanto nel maggio del 2005, tra i grandi d’Italia. Si producono birre ad alta fermentazione, rifermentate in bottiglia, tutte caratterizzate da grande eleganza. Assolutamente da assaggiare la luppolata Re Ale e la Ke.To. Re Porter, dove Ke.To. indica il tabacco Kentucky Toscano, aggiunto in bollitura. Ultima nata la Re Ale Extra, dominata dai luppoli americani, che ha vinto il primo premio di categoria a “Birra dell’anno 2007”.
Grado Plato - Produzione e mescita viale Fasano 36/B,Chieri (To) www.gradoplato.it Grande appassionato e instancabile ricercatore, Sergio Ormea mette grande competenza nelle sue birre, prodotte sia ad alta sia a bassa fermentazione. Ottime le birre alla spina, ma è sulle sperimentazione che emerge la bravura del birraio: la Sticher è una scura, ad alta fermentazione, ispirata alla Stiche di Düsseldorf, prodotta con malto e luppolo di Chieri coltivati in collaborazione con il locale Istituto Agrario. L’ultima nata, la Chocarrubica, prodotta con avena e fave di cacao, ha vinto il primo premio di categoria a “Birra dell’anno 2007”.
Birra all’italiana, la fantasia è la nostra carta vincente. Non avendo mai conosciuto una grande cultura della birra, la produzione è cresciuta in un modo più libero e innovativo. Viaggio in un mercato inizialmente poco ricettivo
Bi-Du - Produzione e mescita Via Confine 26,Rodero (Co) www.bi-du.it Antico nome di una tipologia di birra sumera, per gli estimatori Bi-Du è il nome di uno dei brew-pubs italiani più interessanti. Vicinissimo al confine con la Svizzera, offre una gamma davvero completa di eccellenti birre, principalmente ad alta fermentazione. Magnifiche la Rodersch, beverina e secca kölsch, la ArtigianAle, molto luppolata, e la Confine, scura e complessa porter, meravigliosa quando spillata a pompa.
32 Via dei birrai - Solo produzione Via Cal Lusent 41,Onigo di Pederobba (Tv) www.32viadeibirrai.com Il talentuoso mastro birraio, Fabiano Toffoli, è un italo-belga. Fondato nel 2006, il birrificio è specializzato in birre ad alta fermentazione, rifermentate in bottiglia, dalla grafica molto innovativa. Tra le birre prodotte la Curmi è una blanche molto fresca, prodotta con aggiunta di farro, la Oppale, una ale profumatissima e ben luppolata e la Nectar una scura, forte, aromatizzata con il miele di castagno del Monte del Grappa.
Barchessa di Villa Pola Produzione e mescita Via Battaglione S.Pomini 3,Barcon di Vedelago (Tv) www.villapola.com Il birrificio, situato in una solenne barchessa settecentesca, è guidato da Paolo de Martin, già noto agli appassionati come uno dei birrai dei Soci dea Bira di Cavaso del Tomba.A Villa Pola produce una gamma di birre molto corrette e decisamente ispirate alla tradizione germanica, quindi prevalentemente a bassa fermentazione: citiamo la Pola Hell, chiara e leggera, la Biancaluna, classica weizen in stile bavarese, e la Soci’s Schwarz, scura che già nelle feste dei Soci aveva molto impressionato.
La sc anni fa, nemmeno si immaginava qualcosa di diverso. I pochi birrifici industriali ancora attivi si sono quindi adeguati a questo cliché (o, in qualche modo, ne sono stati la causa) producendo soltanto lager (cioè birre a bassa fermentazione) decisamente anonime. Parziali eccezioni sono la Pedavena, in provincia di Belluno (salvata di recente dalla chiusura grazie una vera e propria mobilitazione popolare), la Menabrea di Biella e soprattutto la Forst di Lagundo, vicino a Merano, un’azienda abituata a mettere la qualità al primo posto (tutte le sue birre in fusto, ad esempio, non sono pastorizzate); ma rimangono casi isolati nello sconfortante panorama industriale nostrano. Tutto questo fino a dieci anni fa, quando è esploso il fenomeno dei birrifici artigianali. Prima, c’erano state alcune esperienze, ma si trattava di casi isolati: citiamo St. Josef di Corrado Esposito, aperto a Sorrento nel 1983, Birra Dolomiti (ora Montevecchio) di Adis Scopel, attivo dal 1993 in Sardegna, Orabräu (chiuso nel 1994) dei fratelli Oradini ad Arco, sul lago di Garda, Aramini (chiuso nel 1996) a Vaglio Serra, in provincia di Asti. Dopo il 1996, invece, la crescita dei birrifici diventa sempre più significativa, anche grazie al cambiamento normativo dovuto al Testo unico del 26 ottobre 1995, che ha eliminato l’obbligo della presenza di un funzionario della Guardia di finanza a ogni produzione e la pratica di piombatura dell’impianto dopo ogni cotta (anche se l’iter burocratico che i birrai devono affrontare è ancora oggi complesso e contraddittorio, di sapore vagamente medievale). Nel giro di pochi mesi, comunque, tra il 1995 e il 1996 nascono diversi birrifici, quasi tutti ancora attivi: Baladin a Piozzo (Cn), Beba a Villar Perosa (To), Befed ad Aviano (Pn), Birrificio italiano a Lurago Marinone (Co), Busalla a Savignone (Ge), Centrale della birra a Cremona, Circolo 50 a Campi Bisenzio (Fi), Lambrate a Milano, Greiter a Merano (Bz), Mastro birraio a San Giovanni al Natisone (Ud), Norton a Rimini, St. Johannes Brau a San Giovanni di Casarsa (Pn), Titanic a Lamezia Terme (Cz), Turbacci a Roma. I nuovi mastri birrai si conoscono spesso per caso, ad esempio attraverso i fornitori di materie prime e attrezzature, e nasce così, già nel 1997, l’Unionbirrai, associazione di categoria che ha fatto molto in questi anni per promuovere la cultura della birra artigianale.
Troll - Produzione e mescita Strada Valle Grande 15, Vernante (Cn) www.birratroll.it Troll offre una gamma molto originale, che in poco tempo ha saputo conquistare un gran numero di appassionati. Il birraio, Daniele Meinero, produce birra ad alta fermentazione, con un interessante uso di spezie e materie prime non convenzionali. Molto nota la Shangrila, ambrata con spezie himalayane, ma altrettanto interessante la Panada, blanche con erba limonaria, o l’estiva e leggera stagionale Daü (seconda di categoria a “Birra dell’Anno 2006”), ispirata alle saison vallone.
coperta della pinta Nel corso di due lustri molto è cambiato e si è abbondantemente superata la soglia delle 150 aziende (puntualmente repertoriate da Lelio Bottero nel suo La birra artigianale, guida ai microbirrifici italiani, Gribaudo, 2005), luoghi dove spesso, secondo il modello anglosassone del brew-pub, non solo si produce ma si può bere e non di rado anche mangiare. Se a un così notevole incremento numerico non è seguita, almeno non per tutti, un’analoga crescita qualitativa; se molti sono i birrifici aperti per la ricerca del business piuttosto che per passione; se in non pochi casi le birre sono mal presentate (con menù in cui le varietà sono semplicemente “bionda”, “rossa”, “nera”, senza alcuna altra indicazione, neppure i gradi alcolici), servite troppo fredde o non in condizioni accettabili, si tratta, in ogni caso, di birre non pastorizzate, vive, prodotte in loco, anche quando la scarsa professionalità si riflette sulla piacevolezza complessiva. La maggior parte dei birrai, comunque, lavora con sapienza e passione e oggi in Italia sono molti i prodotti davvero interessanti. Alcuni sono regolarmente esportati – negli Stati Uniti, in Russia, in Giappone. Nell’ultima edizione del Great British Beer Festival (la più importante manifestazione del Regno Unito) sono state presentate ben otto birre artigianali italiane che, nonostante il prezzo proibitivo di sette sterline a bottiglia, sono andate a ruba: i giornalisti e gli esperti hanno capito che il fenomeno italiano merita attenzione e sono colpiti dalla bravura e dalla fantasia dei nostri artigiani. È proprio la fantasia la nostra carta vincente. Il fatto che l’Italia non abbia mai conosciuto una grande cultura della birra, ha prodotto due effetti, del tutto opposti. Da un lato i primi birrai si sono ritrovati a muoversi in assenza di informazioni e con un mercato poco ricettivo. D’altro canto, però, questa “verginità” ha indotto diversi aspetti positivi. Intanto la curiosità suscitata da ogni nuovo birrificio artigianale, poi l’assenza di certe costrizioni, proprie dei paesi di grande tradizione: se in Baviera un birraio non può fare a meno di produrre gli stili tradizionali – hell, pils, bock, weizen…–, l’italiano è molto più libero di inventare e può proporre tipologie più originali. In effetti, in una prima fase quasi tutti si sono ispirati, più o meno direttamente, agli stili classici: chi alla scuola tedesca, chi a quella belga (blanche, saison, abbaye…), chi a quella anglosassone (bitter, porter, stout…). Ben presto, però, i nostri brasseurs hanno saputo andare oltre, con una inventiva sempre accompagnata dalla necessaria padronanza tecnica. Oggi abbiamo birre prodotte con grano kamut, mirra e zenzero, oppure con spezie himalayane; altre con il chinotto di Savona, aromatizzate con i mirtilli, oppure con aggiunta di miele di corbezzolo; birre spumanti al ribes nero; o ancora birre scure e affumicate, birre acidule maturate in botti di legno, fermentate con lieviti da whisky; e si potrebbe continuare a lungo. Vanno citate, in particolare, le molte prodotte con l’aggiunta di castagne, che stanno dando origine a una vera e propria tipologia nazionale, particolarmente apprezzata anche all’estero. Uno dei risultati più importanti, dun-
que, al di là della qualità dei prodotti, evidentemente fondamentale, è stata la capacità di andare oltre i luoghi comuni. Oggi, in Italia, si trovano più facilmente birre servite alla temperatura giusta, nel modo e nel bicchiere adeguati; nei ristoranti si comincia a presentare la carta delle birre accanto a quella dei vini, sempre di più spesso si parla di abbinamenti birra/cibo. Insomma, la cultura è molto cresciuta, anche grazie alle serate di degustazione, alle cene con abbinamenti birra/cibo, ai corsi di cultura birraria, alle manifestazioni legate alle produzioni artigianali, alle diverse associazioni di appassionati, instancabili organizzatrici di eventi, assaggi, viaggi. Anche Slow Food ha capito la portata del fenomeno, promuovendo la diffusione della cultura birraria: lo ha fatto con i Master of Food, il cui corso sulla birra è fra i più frequentati, e attraverso le sue manifestazioni – Salone del Gusto, Cheese, Slow Fish –, dove non mancano mai i Laboratori del Gusto al sapore di birra. *Slow Food
Lambrate - Produzione e mescita via Adelchi 5, Milano www.birrificiolambrate.com Vivace locale nel quartiere milanese di Lambrate, merita la visita sia per l’atmosfera unica, specie durante l’aperitivo, sia per la qualità delle birre e della spillatura. Il birraio Fabio Brocca cura la produzione assieme ai fratelli Davide e Giampaolo Sangiorgi, che si occupano anche del locale. Le birre, tutte ad alta fermentazione, sono battezzate con nomi molto “milanesi”: non perdete l’ottima Montestella, secca e luppolata, la scura affumicata Ghisa e la Ligera, ben luppolata e molto beverina.
Lurisia - Solo produzione c/o Birrificio Baladin Nuovo progetto di Teo Musso, sviluppato attorno all’eccellente qualità dell’acqua di Lurisia, con la quale si producono (a Piozzo presso il Birrificio Baladin) tre birre. Le prime due sono realizzate con malto d’orzo italiano e grano saraceno del Monregalese e speziate con un ingrediente segreto. La Sei è leggera, ma molto profumata, può ricordare una blanche, mentre la Dieci è decisamente più alcolica, complessa, impegnativa. Recentemente ha completato la gamma la Otto, una birra di puro malto, senza spezie, molto equilibrata.
Le Baladin - Produzione e mescita P.zza V Luglio 15,Piozzo (Cn) www.birreria.com Sicuramente il produttore più conosciuto e apprezzato, non solo in Italia: vende con successo negli Stati Uniti, in Russia, in Giappone. Il numero delle birre prodotte supera la ventina, ma non si può non assaggiare la Wayan, un’intrigante saison con cinque diversi cereali e nove spezie, la Nora, esotica, dedicata alla cultura birraria dell’antico Egitto, prodotta con grano kamut, zenzero e mirra, e la Xyauyù, scura forte, realizzata con un procedimento ossidativo simile a quello utilizzato per i vini Madera.
Montegioco - Solo produzione Fraz. Fabbrica 30, Montegioco (Al) www.birrificiomontegioco.com Uno dei birrifici più recenti, aperto soltanto all’inizio del 2006, vanta già una notevole considerazione. Il birraio, Riccardo Franzosi, produce una gamma molto originale, con alcune birre decisamente estreme. Come da tradizione alcune sono stagionali, tre sono disponibili tutto l’anno: molto interessanti la Demonhunter, ambrata forte e alcolica e le stagionali Quarta Runa, aromatizzata alle pesche, e la Draco, barley wine aromatizzato ai mirtilli.
Birrificio Italiano - Produzione e mescita Via Castello 51,Lurago Marinone (Co) www.birrificio.it Giustamente considerato uno dei guru della birra artigianale italiana,Agostino Arioli produce un’articolata gamma di birre molto interessanti, ad alta e a bassa fermentazione. Tra le tante due sono sempre disponibili alla spina: la Tipopils, luppolata e beverina, e la Bibock, interessante interpretazione delle bocks. Solo in bottiglia, invece, la Cassisona, birra spumante aromatizzata con ribes nero, e la Scires, prodotta con aggiunta di duroni di Vignola e fermentata con tre ceppi di lievito . Il Birrificio Italiano è stato eletto “Birreria dell’anno 2007”.
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di Michel Smith*
Q
uanto sto per dire è una grande banalità che i più giovani tra di voi non saranno in grado di capire: era l’epoca beata di quando si ascoltava, grazie a una radiolina a transistor, nascosti sotto le lenzuola, Ray Charles cantare I got a woman. Come tutti gli adolescenti dell’inizio degli anni Sessanta, si pensava più alla musica e ai surprise party che all’alcol. E tuttavia l’alcol, a volte, ci veniva in aiuto. Sull’aria di 24 mila baci, succedeva sia a me che ai miei amici di abusare un po’ del whisky-orange per trovare il coraggio di invitare a ballare una ragazza più “grande” di noi… e ci dava una mano anche nell’incassare i rifiuti! Ma che cosa non ho visto (e sentito) nella mia gioventù sul vino e sull’alcol… Lasciamo andare l’ipocrisia dei primi ammonimenti dei nostri genitori, sui supposti danni di quell’alcol che a loro stessi piaceva bere e farmi assaggiare. A questo proposito, io non so se ci si possa ricordare dei rutti che si fanno da bebè, quando si succhia il biberon, ma una cosa è certa: mi ricorderò per tutta la vita dei miei primi rutti dovuti all’alcol, o piuttosto al frizzare dell’alcol. Ad esempio, in occasione dei compleanni, quello di mio padre, di mia sorella o di mia madre. Il momento più memorabile in materia di rito iniziatico, fin dalla più tenera età, è legato al diritto che mi era stato concesso di brindare in compagnia dei grandi. Molto presto, in famiglia, ero diventato l’indispensabile cerimoniere, prima di diventare lo stappatore ufficiale delle bottiglie di Champagne. Come per tutti i bambini (così almeno ho potuto constatare, in seguito, con i miei…) a incoraggiarmi c’erano gli occhi gioiosi degli invitati, l’effervescenza che traboccava dalla flûte, il suono della spuma che si gonfia e del cristallo che tintinna col cristallo e, a seguire, il sospiro di soddisfazione di ciascun bevitore dopo avere deglutito il primo sorso. Un sospiro che, per noi bambini, si traduceva invariabilmente in un rutto roboante, solenne, birbante, di buon grado sornione, un rumore birichino venuto su dal più profondo delle viscere, e che faceva scoppiare a ridere tutti i presenti. Dopo questo rutto, infine, esistevo anch’io. Ero l’oggetto di tutti gli sguardi, di tutte le attenzioni. Una cosa è sicura: mia madre adorava lo Champagne, e anche mia nonna, d’altra parte. Ero alto come un soldo di cacio, quando la vidi morire, la mia cara nonna Adèle, a 96 anni, regalmente distesa nel suo letto, dopo che ebbe chiesto, in un soprassalto di lucidità: «Datemi un bicchiere di Pommery!». Dopo di che, vi stupite che il gusto delle bollicine sia rimasto impresso in me per tutta la vita, al punto da scegliere solo la compagnia di donne amanti dello Champagne… Più avanti, aspettavo con impazienza l’occasione che ci avrebbe fatti tutti sobbalzare al rumore di un tappo espulso da una bottiglia di Champagne rosé, del quale mia madre era stata una delle prime fan, molto prima che diventasse di moda come lo è oggi. Anche se non bevo più di questo “Champagne di vignaiolo” – preferisco un Drappier o un Deutz! – non ho mai dimenticato il suo nome: “H. Geoffroy”, scritto a occupare l’intera larghezza dell’etichetta. È pur vero che di Geoffroy ce n’è una pletora, nello Champagne… E poi, mi piacerebbe ancora come un tempo? Non è detto. Mio padre, era come tutti gli altri uomini: beveva quasi d’un fiato uno o due bicchieri (più spesso due…) di un Bordeaux rosso o bianco “ordinario”, acquistato da Nicolas. La domenica avevamo diritto a un vino più civile, assai popolare negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Aveva un nome uscito dritto dritto dal più profondo della vecchia Francia, che oggi può suonare ridicolo: si trattava di uno Château Mil-
Una storia di educazione enologica, dalla Francia con passione. Bevute bébé in compagnia dei grandi, e grandi bevute con seguito. Un incontro fatale nei corridoi di Paris Match, e tanto bianco
le Secousses (mille scosse, ndt), un Côtes de Bourg (Bordeaux) il cui nome era di per sé sufficiente ad ammantare di mistero quel vino per me, allora appena adolescente. Appresi più tardi che doveva quel nome al sentiero accidentato che accompagnava le dame del bel mondo a quel luogo di deboscia, castello che, peraltro, esiste ancora. La domenica, nel periodo in cui vivevamo in pieno l’età iniziatica dell’adolescenza, mio fratello e io ci prestavamo – senza farci troppo pregare – al gioco della degustazione. Mio padre ne era così contento. Il vino vero, quello che bevo e del quale non mi vergogno di abusare di tanto in tanto, l’ho conosciuto più tardi, quando navigavo tra Londra e Parigi e mi impratichivo nel mestiere di giornalista, era il Beaujolais nouveau. Insieme a un amico italiano, Franco, questo vino era diventato la nostra arma per entrare nei giri giusti della swinging London e tentare di accreditarci
pressappoco questo discorso: «Il mio vino è poco conosciuto, e io trovo che questo sia ingiusto, perché tutti mi dicono che è buono. Mi aiuti!». Il mio sangue ribollì, e alla fine della giornata l’intera redazione mi aveva dato una mano a finire tutte le 12 bottiglie che il vigneron ci aveva lasciato. Visto un tale successo, non ebbi alcuna difficoltà a buttare giù una decina di righe su questo vino che mi spalancava le porte di un nuovo mondo. Raccontare il seguito sarebbe troppo lungo. È sempre andata che, invece di scegliere la politica o lo show business, io abbia scelto il vino. Ma, soprattutto, sono rimasto fedele al vignaiolo che, in seguito, ha poi applicato il suo talento al sauvignon, allo chenin, al côt. Prima di scrivere queste righe, ho stappato, come faccio quasi tutti gli anni, il suo Touraine Première Vendange 2004, un vino vinificato senza zolfo. La dotazione è di sei bottiglie all’anno, e ancora… nemmeno tutti gli anni, visto che: «Tu lo sai, Michel, è un vino un po’ da equilibrismo, e non è che riesca per forza tutti gli anni». Si dirà che io cedo alla moda dei vini senza zolfo dei wine bar parigini. Può darsi. Ma so anche di non avere mai assaggiato un vino di questo stile che metta altrettanta allegria. Henry lo dedica, sul dorso della bottiglia «ai primi vini realizzati in modo spontaneo dall’uomo». E ag-
Fino alla feccia come latin lovers. I rutti che il Beaujolais provocava nella nostra cerchia non erano tutti molto “nobili”… È curioso, tuttavia, che questo tipo di vino – alla soglia dei sessant’anni, e dopo avere assaggiato quelli che sono ritenuti i più grandi vini del mondo (dove più grandi è sempre sinonimo di prezzi elevati… l’avete notato?) – sia rimasto il più fedele al mio palato. Ho capito che questo rosso leggero, ghiotto, goloso, fruttato, fresco, birichino e gaio era uno dei pochi capaci di migliorare il mio umore. Un giorno – ero a Parigi, appena dopo la “rivoluzione” del ’68 – nei corridoi della rivista Paris-Match, il solo ad accettare di incontrare un vignaiolo di campagna, venuto timidamente dalle sue vigne sulle rive della Loira a bussare alle porte di una grande rivista, nella folle speranza di fare conoscere il suo vino, un Gamay (a succo bianco) di Touraine primeur. Tranne che per qualche piccola differenza, era un Beaujolais nouveau: stesso vitigno, stessa vinificazione, stesso entusiasmo. Il suo autore, l’ormai celebre Henry Marionnet, mi fece
giunge, più avanti, che questo vino «permette di scoprire l’espressione reale, totalmente pura di un vino». Sì, circa quarant’anni dopo il primo incontro con il vignaiolo divenuto amico – che corrispose anche alla mia prima esperienza autentica di un vino bevuto senza che mi venisse mal di testa – è in fin dei conti rassicurante che il mio piacere sia sempre così vergine. Amo i vini puri, i vini autentici, quelli che si bevono fino alla feccia. La prova? Ho vuotato l’ultima bottiglia della mia dotazione proprio scrivendo queste righe. E avevo davvero l’impressione di bere la feccia del vino. È così, in qualche modo, che bevevo una volta, negli anni Sessanta, e sono felice di constatare che non sono cambiato. Sono felice di constatare anche che il vino non è mai stato così buono come oggi, tanto che posso berlo fino all’ultima goccia pur mantenendo la mente limpida. Ma mi fermo qui, perché si sa bene che: «Sono quelli che ne parlano di più, che ne bevono di meno». *Slow Food
Lo scotch e l’al ersatevi un bicchiere di acqua di mare e alghe, che sappia di fuoco di torba e racchiuda un immenso calore, fatelo girare e dal recipiente scaturiranno gli odori della terra e del mare, la vera essenza di Islay, isola al largo della costa occidentale della Scozia. I whisky di quest’isola (che si pronuncia I-là) sono una bevanda invero strana. Con il loro stile duro, senza compromessi, di sicuro non sono per tutti né universalmente seducenti, ma un viaggio sull’isola può contribuire a farvi cambiare opinione. È facile innamorarsi di Islay. A me accadde anni orsono, a Pasqua, quando avevo una dozzina d’anni, un periodo idilliaco di picnic, gite in barca e caccia alle uova di Pasqua sotto un cielo di un azzurro perfetto. Forse ogni tanto pioveva, ma non come durante una recente visita autunnale, quando era difficile riconoscere l’isola fradicia d’acqua. Se si guarda una mappa, Islay, la più meridionale delle isole Ebridi, sembra protendersi nel mare dall’isola di Jura. È a due ore di traghetto dalla terraferma a est, mentre a ovest c’è solo acqua per duemila miglia, finché s’incontra la costa canadese di Terranova. Esattamente a sud dell’isola si trovano le coste dell’Irlanda del Nord, a una distanza di sole 25 miglia, e questa vicinanza appare evidente non appena si sbarca dal traghetto. Il verde intenso, quasi fluorescente dei pascoli, le mura ricoperte di muschio, gli edifici delle fattorie, le indicazioni per località che si chiamano Ballygrant o Kilmeny: che cosa si può immaginare di più irlandese? Ed è qui che troviamo la prima traccia del lungo matrimonio tra Islay e l’acqua della vita: secondo la leggenda, alcuni monaci irlandesi portarono il whisky a Islay nel secolo XIV. Anche oggi è difficile immaginare di dover trascorrere un inverno scozzese senza una bottiglia decente di Scotch. È vero però che gli irlandesi inventarono l’alambicco. Lo stesso tipo, molto più grande ma con il caratteristico lungo collo che s’innalza su una base larga a forma di bulbo, è utilizzato ancora oggi sull’isola. Gli alambicchi sono prodotti sempre con il rame più bello e lucente, che contribuisce a catalizzare l’etanolo del liquore, permettendone la maturazione. In passato si sarebbero fatti beffe dell’idea di invecchiarlo: ciò che era prodotto oggi veniva bevuto domani; non si sarebbero fatti troppi problemi neppure con gli ingredienti, usando avena e perfino erbe se mancava l’orzo. Con lo sviluppo demografico di Islay durante il secolo XVIII, nacque un’industria domestica della distillazione per soddisfare la domanda crescente, e poiché la nobiltà preferiva bere brandy, il whisky rimase la bevanda dei poveri. Come le foglie di coca nelle miniere di stagno della Bolivia, il whisky serviva a sopportare la dura realtà dell’esistenza,
V
di Tom BruceGardyne*
Islay, costa occidentale della Scozia, tra fiumi di pioggia e di whisky. Irlanda vicina, Terranova lontana, una storia di legno e di ambra in un luogo più affollato da cervi rossi che abitanti
Le distillerie di Islay Vicino a Port Askaig Caol Ila Port Askaig, Islay, Argyll tel. ++44 1496840207 Fondata nel 1846, la distilleria produce single malts essenzialmente per assemblaggi, oltre a un 15 anni dagli aromi di pepe. Dalla distilleria si gode una vista magnifica di Jura. Aperta tutto l’anno, da lunedì a venerdì, su appuntamento. Bunnahabhain (pronuncia: Bu-na-ha-ven) Bunnahabhain, Islay, Argyll tel. ++44 1496840646. Il più morbido dei single malts di Islay, prodotto nella distilleria più settentrionale dell’isola. Aperta tutto l’anno, da lunedì a venerdì, su appuntamento. Intorno al Loch Indaal Bruichladdich Bruichladdich, Islay, Argyll tel. ++44 1444412337 La distilleria più occidentale della Scozia. Visite esclusivamente su appuntamento.
Bowmore Bowmore, Islay, Argyll tel. ++44 1496810441 La più antica distilleria dell’isola, fondata nel 1779. Bowmore è famosa per le cantine del whisky, gli umidi locali al di sotto del livello del mare; insieme a Laphroaig, è una delle poche a produrre direttamente il malto. Aperta tutto l’anno, da lunedì a venerdì. Il sud dell’isola Laphroaig (pronuncia: La-froyg) Presso Port Ellen, Islay, Argyll tel. ++44 1496302418 Forse la più nota distilleria di Islay, il cui nome in gaelico significa «la bella valletta vicino alla grande baia». Aperta da giugno a settembre. Lagavulin Presso Port Ellen, Islay, Argyll tel. ++44 1496302400 Sede spirituale del whisky White Horse, la distilleria si trova proprio sul mare, accanto alle rovine del Dunyveg Castle. Visite esclusivamente su appuntamento. Ardbeg Presso Port Ellen, Islay, Argyll tel. ++44 1496302244 Fondata nel 1815, questa distilleria è stata riportata in vita dai nuovi proprietari, Glenmorangie. Il suo 17 anni è eccezionale. Aperta tutto l’anno.
era una panacea per ogni cosa, dai reumatismi al mal di denti. Ma la qualità superiore di questi whisky delle Highlands rispetto a quelli a base di cereali prodotti nelle Lowlands era nota da tempo e stimolava un fiorente contrabbando. I dazieri del governo impiegarono molto tempo a controllare l’isola e a imporre tasse e bolli ai contrabbandieri, i cui alambicchi portatili gorgogliavano in capanne e caverne isolate. Ma l’industria fu messa gradualmente sotto controllo e la prima distilleria commerciale, la Bowmore, fu creata nel 1779. La maggior parte della mezza dozzina di distillerie dell’epoca ancora esistenti nacque nei cin-
quant’anni seguenti. Oggi il poco orzo coltivato a Islay serve per alimentare il bestiame e le distillerie si riforniscono sulla costa orientale, da Aberdeen giù fino al Lincolnshire. La costa occidentale della Scozia è troppo umida per produrre raccolti regolari e sull’isola, oltre alla pioggia, i venti che possono soffiare a 200 chilometri all’ora rovinano anche le varietà a stelo basso. Ma Islay dispone di abbondante acqua dolce grazie ai tanti laghetti e ruscelli e di un ingrediente fondamentale, il combustibile: la torba che ha ricoperto l’isola dopo l’ultima era glaciale. È il prodotto della decomposizione della ve-
13 VIAGGI DA NON PERDERE DI NUOVO. Sono tredici viaggi perduti, fra i tanti che le guerre, i conflitti etnici, i genocidi, le dittature, gli integralismi, il turismo senza scrupoli, i delitti del progresso, i disastri naturali, hanno cancellato per sempre dal mondo. Li hanno raccontati e messi in musica: Eugenio Allegri, Avion Travel, Marco Baliani, Sonia Bergamasco, Francesco Bruno, Roberto Ciotti, Laura Curino, Rocco De Rosa, Maria Pia De Vito, Ginevra Di Marco, Fabrizio Gifuni, Javier Girotto, Canio Loguercio, Mariella Lo Sardo, Neri Marcorè, Adolfo Margiotta, Orchestra di Porta Palazzo, Maria Paiato, Marco Paolini, David Riondino, Radio Dervish, Fausto Russo Alesi, Daniele Sepe, Serena Sinigaglia, Baba Sissoko, Ralph Towner, Massimo Zamboni.
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lambicco
getazione – erica, ginestra e muschio – che con il tempo si è compattata e che in futuro diventerà carbone. Tra tutti i fattori, è proprio l’aroma straordinario del fumo di torba a rendere unici e forse più difficili da amare i whisky di malto di Islay. Il gusto e l’aroma della torba impregnano i chicchi d’orzo messi a seccare in forno per due o tre giorni prima di iniziare la fermentazione e la distillazione. In precedenza, l’orzo è immerso in acqua per un periodo che può arrivare a 36 ore, quindi asciugato, disteso su una superficie e riscaldato per una settimana, ottenendo in questo modo il malto tallito; i semi cominciano a germinare, contribuendo a trasformare le molecole complesse di amido, cellulosa e proteina in una forma più solubile. Dai forni si estrae il cosiddetto malto verde, che viene macinato e poi versato in un basso recipiente cilindrico chiamato mashtun. Il processo comporta l’aggiunta al malto tritato di quantità via via più calde di acqua per ottenere la massima estrazione possibile di zuccheri solubili. Dopo dieci ore il liquido dolce viene filtrato, mescolato con lieviti organici e fatto fermentare, mentre le scorie di malto sono vendute agli agricoltori locali come mangime per il bestiame. La fermentazione è vigorosa e la schiuma minaccia di fuoriuscire, come la birra versata in un boccale. In questa fase l’intera distilleria è pervasa dall’odore stordente delle fabbriche di birra, finché si impone l’odore nitido del liquore distillato. Il whisky è il prodotto di una duplice distillazione ed è in questa fase che si crea lo stile della casa, grazie alla forma dell’alambicco e ai desideri
del master distiller, prima dell’invecchiamento. Il liquore, forte e chiaro, è diluito con un po’ d’acqua e travasato in botti di rovere quando raggiunge una gradazione alcolica di 63,5°. A detta di alcuni distillatori, le vecchie botti di Sherry sono il recipiente ideale per affinare il whisky; altri si affidano a botticelle da bourbon usate provenienti dal Kentucky o dal Tennessee. Il periodo trascorso nel legno ammorbidisce il liquore, che assorbe gradualmente microelementi presenti nell’aria e perde gli eteri volatili. Poiché i whisky sono affinati per dieci-venti anni, interviene ogni sorta di fattori, per esempio la quantità di brezza marina che penetra nel magazzino, che contribuiscono a distinguere un liquore da quello vicino. Occorre tempo per assorbire i fenoli del fumo di torba presenti in un energico, deciso Laphroaig o in un Lagavulin, come per i tannini di un buon Bordeaux. È affascinante cercare di ritrovare gli aromi di un Lagavulin neonato, appena uscito dall’alambicco, nel suo fratello maggiore messo in bottiglia dopo 16 anni di affinamento in rovere. È il legno e a conferire al whisky il suo colore ambra. La popolazione di Islay si è ridotta a 3500 abitanti, mentre nella vicina Jura le 180 anime sono 30 volte inferiori di numero rispetto ai cervi rossi. I disboscamenti delle Highlands nello scorso secolo costrinsero molti a emigrare, e prima che la popolazione riprendesse a crescere buona parte della nuova generazione fu massacrata nelle trincee della prima guerra mondiale. Oggi, come accade in ogni piccola comunità isolana, è difficile arrestare la fuga dei giovani verso il continente. Tut-
tavia, l’industria del whisky ha scongiurato la dipendenza di Islay dal turismo stagionale, come si è verificato nelle isole di Mull e Skye a nord. Ciò detto, questa industria può rivelarsi alquanto precaria, in quanto ogni fusto di single malt di Islay viene riempito per un mercato sconosciuto dieci anni almeno prima della vendita. Dopo la riapertura dell’Ardbeg Distillery nel 1997, la più lieta novità arriva da Bruichladdich. Situata sull’altra riva di Loch Indaal rispetto a Bowmore, e da anni tristemente inattiva, la distilleria è tornata in vita l’anno scorso con una nuova gestione. Un Bowmore di 12 anni si situa a metà tra lo stile più morbido di Bunnahabhain e Bruichladdich e gli aromi di torba più marcati dei liquori prodotti nella zona meridionale dell’isola. Esprime un gusto di schiuma di mare e di tiglio, mentre Laphroaig e Lagavulin sono più energici e ricchi di aromi terrosi. Le zaffate di torba dell’Ardbeg possono respingervi, ma in bocca è morbido ed equilibrato, mentre Caol Ila rivela un caratteristico aroma di pepe. L’eccezionale lunghezza di tutti questi whisky è dovuta in parte all’umidità, che contribuisce a impedire l’evaporazione dell’alcol in botte: il cosiddetto intervento angelico. Sono tanto complessi quanto diversi, e ognuno è espressione dell’isola. Quando splende il sole, Islay è un luogo magico, e quando non splende… be’, esiste un posto migliore di questo, accanto a uno di quei sinuosi alambicchi di rame che emanano calore e whisky? * Slow Food
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di John Irving* Giovanni Ruffa*
Un vignaiolo e un giornalista davanti a un piatto di tajarin, breve storia tra un curriculum di assaggiatore e un paese chiamato di uomini integri
S
gomento in cui sei più ferrato. Adesso sono di moda i vitigni autoctoni, ma fino a poco tempo fa, grazie a voi pennivendoli, imperversavano cabernet e chardonnay» «Il gusto evolve. Lo sai anche tu che sei un contadino di buone letture.» «Se è per questo, ho appena finito di leggere Storia controversa dell’inarrestabile fortuna del vino Aglianico nel mondo di Gaetano Cappelli, il Philip Roth italiano. È una lettura che consiglio a chiunque voglia capire i disastri che avete combinato voi wine-writers.» «Su, dicevo sul serio. Si è capito che è ora di ritornare al territorio, a metodi di produzione e a sapori più naturali. E pazienza se i vini non sono perfetti.» «Questa poi – Anselmo quasi perde la calma. Che cosa mi tocca sentire! Avete passato anni a spaccare il capello in quattro con i tannini, gli antociani e compagnia bella. La morbidezza e i sentori di vaniglia… E noi tutti a comprare le barriques. Tutti a fare vini scuri e concentrati. Tutti americani ci avete fatti diventare.» «Non esagerare… È stata una fase. Ora i vini di quel genere non vanno più. Adesso si cercano l’equilibrio e l’eleganza.» «Infatti. Avevamo appena finito di mettere a punto la tecnica giusta per creare i vini da masticare che piacevano a voi, e adesso ci cambiate le carte in tavola. Non solo. Adesso c’è la moda dei vini naturali. La biodinamica, i cavalli nelle vigne, il concime organico. Io non ho mai usato diserbanti né trattamenti sistemici. Ho sempre cercato di rispettare la terra. Ma il cavallo no. Il cavallo non lo compro!» «E fai male. Ti potrebbe servire anche per la tua vetusta R4. A parte gli scherzi. Oggi la cultura del vino…» «Lo so. Bere meno per bere meglio. Il vino come elemento edonistico e non più alimento. È una solfa che ci intonate da anni. Ma intanto chi deve far fronte al mercato, alle sue cri-
Scrivere sul rosso in discussione a Bruxelles la nuona normativa sull’Ocm vino, da approvare entro le fine del 2007. La scorsa settimana c’è stato un incontro tra il presidente dell’associazione Città del Vino e il direttore generale del ministero delle Politiche Agricole Mario Catania, in cui ci sono stati comunicati dei passi avanti su alcuni temi come espianti, vigneti eroici e montani e tutela dei prodotti di qualità., e preoccupazione invece per il capitolo passiti, per l’etichettatura dei vini e per il sistema delle denominazioni di origine. Tra le novità che potrebbero essere introdotte, si riduce di 30 mila ettari (170 mila anziché 200 mila) la superficie di vigneti da estirpare in tutta Europa, in un arco di tempo di tre anni. Su base nazionale gli espianti si fermerebbero all’8% della superficie (inizialmente era previsto il 10%). Al contrario è stato previsto un incremento significativo della “riserva” per le viticolture eroiche: nei singoli Stati la quota di vigneti protetti sale dal 2% al 3% (per circa 22 mila ettari). A questi si aggiungono, capitolo a parte, i vigneti di montagna (in Italia 49 mila ettari). Il nostro Paese potrebbe quindi beneficiare di una copertura totale di oltre 70 mila ettari, un cifra più adeguata alle caratteristiche della vitivinicoltura italiana. Nel testo è stata inserita anche una norma che protegge i termini tradizionali (es. Marsala, Brunello di Montalcino, etc) riferiti a nomi di luoghi del vino.
Vino, Europa
cena: Osteria di Langa. Un vignaiolo, Anselmo, e un giornalista, Fulvio, stanno cenando. Appaiono conviviali e rilassati. Hanno ordinato piatti tipici e una bottiglia di Barbera, parlato di calcio e di donne (si conoscono da un po’, sono relativamente giovani e hanno avuto le loro avventure, in amore). Ma Anselmo, il vignaiolo, dopo un po’ non si tiene. «Adesso che siamo qui davanti a un bicchiere – dice. Che non dobbiamo degustare né valutare, ma solo toglierci la sete davanti a questi tajarin, posso parlare fuori dai denti. Certo che voi giornalisti ci avete ben rotto le scatole in questi ultimi quindici anni. Va bene, anche grazie a voi abbiamo superato la crisi del metanolo e il vino italiano ha ripreso quota nel mondo. Certo, anche i prezzi delle bottiglie si sono incrementati e adesso non lavoriamo più per la madonna. Ma certi tuoi colleghi! E certi giornali! E certe guide!» Fulvio è un wine-writer. Lui gli ultimi quindici anni li ha vissuti sulla barricata (pardon, sulla barricaia), fra degustazioni, articoli, polemiche. «Non cominciare – fa tra il serio e il faceto – con la solita geremiade di voi produttori. In fondo è soprattutto grazie a noi se oggi avete cantine che sembrano laboratori e viaggiate in Mercedes». «A parte il fatto che nella mia cantina c’è appena il necessario e che io guido una vecchia…» «…Renault 4. Come Thomas Sankara» «Non fare lo spiritoso. Ti ricordo che Burkina Faso, il nome del paese africano che il Comandante Sankara ha liberato e poi battezzato (era l’Alto Volta, colonia francese), significa “Paese degli uomini integri”. Lui pensava che la rivoluzione si fa per rendere la gente più felice. I suoi interventi alle Nazioni Unite sono da antologia. Ma lasciamo perdere. Torniamo al vino, ar-
È
si, alle sue mode, siamo noi che il vino lo facciamo e lo dobbiamo vendere. Non voi che lo fate girare nei ballon, lo annusate, lo assaggiate, lo sputate e poi scrivete. Non voglio citarti Mondovino, il film di Nossiter, che certo hai visto, ma lì c’è tutto.» Fulvio ha un buon curriculum di assaggiatore, ma non per questo ha dimenticato il
gusto di bere. Stasera ne ha voglia. Chiama il patron. «Mario! La Barbera è finita. Porta un Barolo. Uno di quelli all’antica». Qui Anselmo ha un sussulto. «Bravo! Adesso vuoi i vini all’antica. Non ti ricordi di quando voi critici predicavate il gusto internazionale? Vorrei presentarti un mio amico, un produttore di qui. Per colpa
vostra si è quasi rovinato. Ha litigato col padre, ha mollato l’azienda di famiglia, ha messo in piedi una cantina supermoderna. Poi sono venute la crisi del mercato tedesco e di quello americano… dopo le due torri, ti ricordi? e lui si è trovato con la cantina piena e le banche che battevano cassa» «Allora ti racconto di uno mio, di amico. Era uno di quelli che faceva questo mestiere. Piuttosto importante, anche. Arrivato alla soglia dei sessanta ha mollato tutto. Ha preso una casetta in campagna. Ci ha piantato una vignotta. Si fa il suo vino e se lo beve con gli amici. Dopo tanti anni passati a “spaccare il capello in quattro”, come dici tu, ha capito che il vero senso del vino è l’effetto che produce. Convivialità. Allegria. Ebbrezza». «Eccolo lì. Adesso per salvarsi in corner mi fa il poeta…» Ma intanto il “Barolo all’antica” scorre nei bicchieri. Si torna a parlare d’altro. Musica. Politica. Donne, di nuovo. Alla fine Fulvio esce dall’osteria cantando Jacques Brel, sua antica passione. I marinai del porto di Amsterdam che lasciano sbronzi le taverne e, naso alle stelle, «pissent comme je pleure sur les femmes infidèles». Anselmo abbozza. Dissolvenza. * Slow Food
di Geraldina Colotti
o chef Massimo Pulicati, 46 anni, “romano di Torpignattara-bassa e oste della buon’ora”, come dice al manifesto col suo sorriso complice e schietto – sarebbe piaciuto a Pepe Carvalho, il detective buongustaio ideato da Manuel Vazquez Montalban. Di certo, Massimo è piaciuto al compianto Veronelli, che – ci racconta indicando la foto appesa al muro - nel 2003 ha organizzato Critical Wine nel ristorante che l’oste gestiva prima a Roma, Vivienne. E piace al pittore Pablo Echaurren, che gli ha regalato il logo per L’oste della bon’ora, un ristorante a conduzione famigliare, aperto da mercoledì a domenica a Grottaferrata
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(www.lostedellabonora.it): 28 tavoli e una scommessa, “far da mangiare bene e a prezzi contenuti”. In concreto, un menù di sei portate a 35 euro, vino escluso: “Ma anche i vini, quasi tutti biologici – dice l’oste – hanno un ricarico contenuto. Veronelli consigliava di dichiarare il prezzo all’origine. Noi dichiariamo quello all’acquisto, aumentato al massimo del 50%”. Qualche piatto? Vellutata di trippa e pecorino, Petto d’anatra con fichi e cipolle, Vellutata di baccalà con ditali ripassati in padella e l’aggiunta di 2 vongole bianche del Pacifico gratinate. “L’unico surgelato di questo piatto sono le vongole – dice lo chef – per il resto i nostri prodotti sono acquistati dai contadini della zona”. Su prenotazione, l’Oste della bon’ora prepara anche menù per celiaci o per altre allergie o intolleranze alimentari. E sono disponibili anche piatti vegetariani “Il seitan – afferma Massimo – lo facciamo in casa, con la farina di frumento integrale biologica – e prepariamo una cotoletta naturale lavorata al sesamo e con altri sapori”. A cucinare il seitan o i germogli, Massimo ha imparato da giovanissimo, essendo stato a lungo vegetariano: “Pratico yoga dai tempi della scuola – racconta ora – allora mangiavo insieme al gruppo di meditazione, ho imparato a cucinare da un
Massimo dei Castelli, tra vinelli micidiali e quelli di Veronelli. E ancora piatti per tutte le allergie possibili, mischiati a ventotto tavoli e a una dose di buon gusto
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Il dono del cuoco cucinare insieme ci divertiamo e ci piacciono le relazioni umane con un pizzico di anarchia. Certo, sotto un certo prezzo non possiamo andare, però spenniamo solo i polli e non chi viene a mangiare”. E’ stato così fin dall’inizio. I primi tempi, l’oste apre un ristorante a Zagarolo. “Di vino, però, ci capivo poco – ricorda adesso - compravamo un vinello micidiale lì
adepto Hari Krishna, che un giorno mi ha detto: tu hai il dono del cuoco, devi andare avanti. Da allora ho cucinato io, e sono diventato molto meno vegetariano”. La scommessa di Massimo, però, prende forma una sera che gli pagano una cena super lusso al ristorante Antonello Colonna: “Allora – ricorda – ero un giovane contadino povero, però mi piaceva mangiar bene. Perché – mi son detto – la buona cucina dev’essere solo per pochi?”. E scatta la scintilla. “Come dice il proverbio – riprende l’oste – al contadino non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere… Non per niente, uno dei primi piatti che ho proposto è stato il Nido
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di parmigiano in pelle di pera. Un’idea di Marisa, in verità, perché la vera fata del gusto è lei, mia moglie, aiutata da mia suocera in cucina. La nostra barchetta – aggiunge Massimo gongolando nella sua uniforme rossonera – si regge perché si fa tutto in famiglia, perché a
vicino, il vino di Luigi. Ma è stato poi da un altro Luigi che ho imparato a conoscere i vini: ho frequentato i corsi di Veronelli, ho cercato di imparare da lui il più possibile”. Sarebbe piaciuto a Montalban, l’oste della bon’ora: la gastronomia è un sapere gratuito - scriveva infatti il padre di Carvalho nel suo famoso saggio Contro i gourmet (Frassinelli) -, la si può difendere solo con spirito ludico, perché “il gourmet, appena cade nella tentazione del settarismo e del dogma diventa un pedante arbitro del nulla”. Con questo spirito, infatti, Massimo ha messo su l’Organizzazione segreta osti, un’associazione di ludici e gourmet, fondata “in ricordo di Veronelli e di segno opposto al famoso club dei 100 istituito in Francia. Noi per ora siamo 50 – dice ancora l’oste – e ci riuniamo una domenica al mese, ma speriamo di essere molti di più”. Intanto, si è già presa qualche decisione: “Come facevano gli osti di una volta – spiega Massimo – chi viene a mangiare qui si potrà portare da casa il suo vino preferito, pagando solo 2 euro di servizio. Io e Marisa a volte lo facciamo quando andiamo a mangiare fuori. E poi, presto sarà attivo il sito dell’associazione, per raccogliere pareri e riflessioni”. Per istituire, forse, un premio alla cucina iconoclasta. “A proposito – aggiunge l’oste indicando il manifesto – volevo mandarvi una lettera…” E una ricetta per darci nuova energia? “Certo scherza Massimo servendo un piatto di cacio e pepe – fare una buona cucina, ma alla portata di tutti”.
parziale antidoto contro ricette securitarie, leggere Scarceranda 2008, l’agenda illustrata da Ludovica Valori e Valerio Bindi, autoprodotta da Radio Onda Rossa ( 12 euro agenda+libro, tel. 06491750, oppure www.ondarossa.info). Per ogni mese del prossimo anno, l’agenda propone infatti “ricette evasive”, di sapore opposto a quello dei pacchetti-sicurezza. Il 2 gennaio? Frittata di spaghetti “salta muretti”. Il mese dopo? Rotolo di patate “spacca le grate”. Ecco quello che serve: per 4 persone, 1kg di patate lesse e poi schiacciate, 100 grammi di fontina o groviera tagliato a cubetti, 150 grammi di prosciutto a quadratini (per i vegetariani, invece, spinaci, bietole o altre verdure); 350 grammi di farina, 100 grammi di burro, due uova, salvia e sale. Per la preparazione, vedi alla voce “senza catene”. Per sottofondo, si consiglia la Canzone del Maggio di Fabrizio de André o qualche poesia di Villon come ballata (sul primo dei poeti maledetti, che il carcere lo frequentò davvero, è appena uscito il romanzo di Jean Teulé Io, Francois Villon, edito da Neri Pozza). Per il vino? Attingere al Quaderno n. 3 di Scarceranda: Ricette un pò “L’ergastolo è una morte bevuta a sorsi – si legge - perché non ci mettiamo d’accordo e smettiamo di bere troppo evasive tutti insieme?” E per finire, farfalle al salmone “dopodiché evasione”. Ricette diverse anche quelle proposte da Emanuela Barbero nel volume La cucina etica facile, edito da Sonda. Ricette di cucina vegana (zero componenti animali), proposte però in forma di scelta e non di rinuncia: scelta di non uccidere gli animali e di non aggredire il proprio organismo con grassi e colesterolo. Ricette appetibili, concepite dall’autrice in molti anni di esperienza sul campo e rivolte ai single, ai principianti e a chi ha poco tempo. Ricette appetibili, combinate con chiarezza e fantasia, che sfatano luoghi comuni e allarmismi sui rischi per la salute di chi non mangia carne. Ricette etniche si combinano con cibi tradizionali, per cene e pranzi succulenti o, se si preferisce, frugali. Mai tristi, però. Un ricettario per tutti e per tutte le occasioni, che consiglia anche come arrivare progressivamente al veganesimo in 10 settimane: certi che se partite rotondi come un budino, arriverete snelli come un chicco di riso basmati al paradiso in terra dei golosi. Secondo una teoria Happy Vegan, infatti, quando si cede alla tentazione di qualche golosità, si generano “endorfine della felicità” che riportano il bilancio metabolico complessivamente alla pari. Solo con cibo vegan, però, altrimenti… ciccia. (ge.co)
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li organismi geneticamente modificati avanzano. Non vincono, ma la battaglia in corso per contrastarli è dura e ha bisogno di più voci e di più soldati. La Regione Lazio è tra questi, perché dopo la legge che nel 2006 ha bandito l’impiego in agricoltura di organismi geneticamente modificati, la giunta Marrazzo vuole ora estendere il divieto anche alla filiera mangimi. L’iniziativa verrà presentata a fine mese a Bruxelles, ed è soltanto una delle tante promosse dalle Regioni Ogm-free, gruppo di 44 amministrazioni locali europee che, seguendo l’esempio di Toscana e Alta Austria, conducono ormai da anni un’accanita battaglia contro la manipolazione genetica delle specie vegetali. La complessa vicenda legale che riguarda gli Ogm in Europa è cominciata nel 1998 quando, sostenuta da un ampio settore dell’opinione pubblica, la Francia di José Bové e di Jacques Chirac ottenne una moratoria per tutti gli organismi modificati. La misura incontrò subito l’opposizione degli Stati Uniti (primi produttori mondiali Ogm che minacciarono un ricorso all’Organizzazione mondiale del commercio) ed è stata aggirata con una legge comunitaria del 2001, con cui si ammetteva di nuovo la commercializzazione, previo il via libera di una commissione di esperti. Una commissione, accusano però gli ambientalisti, dove non pesano soltanto criteri scientifici ma anche politici, visto che i suoi componenti sono spartiti tra gli stati membri. Per far barriera a una normativa europea considerata troppo permissiva, è nata una battaglia legale che vede protagoniste 44 regioni che hanno bandito l’uso di Ogm sul proprio territorio. Le ragioni di tale precauzione sono ampiamente note. Prima tra tutte, la volontà di tutelare i cittadini da eventuali danni provocati dalle nuove specie commercializzate dall’industria alimentare. Poi, la determinazione di impedire il diffondersi di specie resistenti che alterano la catena alimentare e destabilizzino gli ecosistemi. Infine il tentativo politico di contrastare potenti multinazionali che fanno affari con i brevetti di piante che infestano in maniera irreversibile le coltivazioni. Per il momento, e dopo alterne vicende, la battaglia è tutt’altro che vinta. È del 2005, infatti, una sentenza della Corte europea di giustizia che minaccia di vanificare tutto, stabilendo che l’Alta Austria non aveva il diritto di bandire, per puro principio di precauzione, specie vegetali già ammesse nel resto dell’Unione e la cui la pericolosità non era stata provata. Una seconda minaccia si è materializzata il 12 giugno scorso quando il consiglio europeo dell’agricoltura ha approvato a maggioranza un nuovo regolamento comunitario sugli alimenti biologici che innalza dallo 0,1 allo 0,9 la soglia di tolleranza per eventuali presenze di Ogm. Un provvedimento che equipara i prodotti biologici a quelli ordinari, chiudendo di fatto un occhio sulle contaminazioni dei terreni. In questo clima di veti incrociati, arriva ora la nuova legge della regione Lazio. Un’iniziativa destinata a elevare la soglia dello scontro, introducendo un principio di precauzione in più. Im-
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Ogm
d’Europa
pedendo, cioè, che attraverso i mangimi animali, sostanze da ingegneria biologica finiscano nella catena alimentare e investano indirettamente l’uomo. «Il Lazio – ha dichiarato Piero Marrazzo – si presenterà a Bruxelles proponendo che la filiera dei mangimi sia libera dagli Ogm, con regole analoghe a quelle approvate dal nostro consiglio regionale». Normative che vietano il finanziamento per quelle aziende agricole che non volessero allinearsi. «La nostra regione – ha proseguito – vuole istituire un marchio per tutelare la qualità delle produzioni agricole». A garanzia, una serie di controlli, la campionatura dei produttori e la verifica delle colture di mais ma soprattutto di soia, principale prodotto sul banco degli accusati. Visto che – come denuncia il comitato Ogm-free – «sul territorio dell’Unione Europea ne vengono importate ogni anno 38 milioni di tonnellate, di cui l’80% contaminato finisce per corrompere la maggior parte della carne, del latte, del formaggio e delle uova commercializzate nel continente». A commentare con ottimismo l’ultimo capi-
di Simone Verde
La battaglia quotidiana contro l’avanzata degli organismi geneticamente modificati. Il ruolo delle 44 amministrazioni locali europee Ogm-free, il nuovo capitolo aperto a Bruxelles dalla Regione Lazio sulla filiera mangimi
tolo della lunga battaglia intrapresa dalle 44 regioni europee, è il presidente della Fondazione diritti genetici Mario Capanna, che – citando i dati forniti da una delle più importanti società di certificazione americane – ha ricordato che il 50 per cento del raccolto brasiliano di soia è attualmente prodotto in agricoltura tradizionale e potrebbe garantire la metà del fabbisogno europeo. «La ripulitura delle filiere in senso Ogm-free è un obiettivo possibile – ha commentato Capanna – non avrebbe costi proibitivi e sarebbe perfettamente in linea con quanto chiesto dai cittadini europei. In particolare i cittadini italiani, nell’ambito della consultazione nazionale sugli Ogm, in corso fino a domenica 9 dicembre, hanno espresso più di tre milioni di voti per un modello agro-alimentare di qualità e libero da Ogm». La consultazione cui fa riferimento Capanna è stata organizzata negli scorsi mesi da trentadue associazioni per permettere agli italiani di esprimersi sull’argomento. L’esito del voto non ha riservato sorprese, è stato negativo al 99 per cento all’impiego di organismi geneticamente modificati e in linea con le richieste avanzate dagli ambientalisti. Richieste ribadite in sede europea dalla regione Lazio e dalle altre istituzioni locali comunitarie, concordi nel rivendicare il diritto a impedire la prolificazione di Ogm nelle proprie campagne, a promuovere la bio-diversità delle regioni europee e a tutelare l’agricoltura biologica. A sostegno delle regioni implicate nella battaglia si è schierato anche il governo italiano che, su proposta del ministro per le politiche agricole Paolo de Castro, ha chiesto la modifica della legge del 2001 e il rafforzamento dell’Agenzia europea per la sicurezza alimentare, trovando il sostegno della Francia. Una proposta di modifica delle procedure avanzata il 30 ottobre scorso che limiterebbe la commercializzazione degli Ogm e conferirebbe all’Agenzia ogni decisione, rafforzando il controllo scientifico e impedendo che la salute dei cittadini diventi oggetto di scambio in commissioni esposte a logiche commerciali e interessi nazionali.
Ecco l’Italia che conviene. TERAMO S. Nicolò a Tordino,SANTO STEFANO MAGRA, ALBA, ARMA DI TAGGIA, BENEVENTO, BOLOGNA, CAMPOBASSO, CARBONIA, CASAPULLA, CIVITAVECCHIA, GALLICANO, IGLESIAS, L’AQUILA, LADISPOLI, LANCIANO, MODENA, MONTEROTONDO, MONTE S. ANGELO, QUARTU S.ELENA, RIMINI, ROMA Casetta Mattei, ROMA via Casal Del Marmo, SAN GIULIANO TERME, SAN SEVERO, SAVIGLIANO, TERNI, TRENTOLA DUCENTA, VASTO, VITERBO.
29 ipermercati: la vera convenienza si diffonde.
L’ I P E R M E R C AT O
CHE
DIFENDE
LA
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SPESA