scritto e mangiato marzo 2008

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scritto & mangiato

Supplemento al numero odierno de il manifesto

in collaborazione con Slow Food

Tutti i frutti possibili di una buona politica per l’agricoltura. Come e dove impegnare su questi temi il prossimo governo

We must

MARZO 2008



scritto & mangiato

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in collaborazione con Slow Food

Il manifesto via A. Bargoni 8 00153 Roma tel. 06 687191 Direttore responsabile Sandro Medici Direttore Mariuccia Ciotta Gabriele Polo Supplemento a cura di Francesco Paternò Grafica Tag design Paola Marasca Daria Sorrentino Illustrazione di copertina Laura Federici Pubblicità concessionaria esclusiva Poster srl via A. Bargoni 78 00153 Roma tel. 06 68896911 fax 06 58179764 Stampa Sigraf srl Via Redipuglia, 77 Treviglio (Bg) Chiuso in redazione il 18/3/2008

5 Il mondo nuovo di Petrini di Francesco Paternò Il pescatore di pecore di Loris Campetti 6 Yes, we eat di Roberto Burdese 8 L’invenzione del gusto di Giovanni Ruffa 10 Se Dalmazia fa rima con lentezza di Michele Fossi Apicoltori sopra il vulcano di Diego Pagani e Rosy Sinicropi 14 Nepal, la carta del sole di Luca Angelini Panini di Beirut di Gigi Frassanito 16 La forma del sale di Francesca Marianna Consonni Meditando sulle pere di Serena Majo 18 Cibi nella corrente di Adriano Favole 19 Storia di luoghi ebbri di Dario Bragaglia 20 Il cuoco della mala cucina di Geraldina Colotti 22 Dentro il deserto di Geraldina Colotti

agricoltura, con i suoi grandi temi legati allo sviluppo sostenibile, presa sul serio da questa campagna elettorale? L’idea, che rilanciamo in questo supplemento insieme ai nostri amici di Slow Food, nasce da molte domande e da una sola risposta, per ora: la politica istituzionale ignora la società rurale, la necessità (da qui il We must della nostra copertina) di agire in favore di un soggetto che può diventare il cuore della salvaguardia dell’economia e dell’ambiente. Carlo Petrini, fondatore di Slow Food e agile pensatore, prova a impegnare il prossimo governo che scaturirà da questa tornata elettorale su temi che sono scommesse per provare a dare una mano al pianeta, cioè a noi stessi. Anzi, Carlin (come viene chiamato) dice qualcosa di più, essendo un visionario e riuscendo a scorgere meglio di altri cosa c’è dietro l’angolo: dobbiamo creare le condizioni per tornare a lavorare la terra, perché questa è la strada maestra se vogliamo salvare il pianeta. Niente di più e niente di meno, obiettivo chiaro per il quale servono – ci dice ancora Carlin – “tanti ecologisti rurali, più che ecologisti urbani”. Nel suo disegno, va ricreata quella società rurale che è stata cancellata , aperta alle nuove tecnologie e resa attraente per i giovani che volessero starci o tornarci, lavorando su progetti di economia locale e, soprattutto, vivendo meglio. La sensibilità sul tema dei nostri politici è oggi FRANCESCO PATERNÒ vicina allo zero, però aggiungiamo che Slow Food è fatto da oltre 40.000 militanti nella sola Italia e più di 80.000 nel mondo, la maggior parte dei quali sono elettori. Che il messaggio arrivi fin dentro nell’urna, anche perché, come scrive su queste stesse pagine Roberto Burdese, presidente di Slow Food, “viene da pensare che non siamo nemmeno alla frutta: abbiamo saltato l’ultima portata ed è ora di pagare il conto”. Se non vi bastasse, e per dare ancora più appeal a questa sfida, sul supplemento abbiamo infornato, come nella migliore tradizione, libri di divorare, gustare, digerire. Per stare sulla citazione, “Non esagero mai con la dieta. Non voglio rischiare di fare magre figure”, scrive la poeta comica Alessandra Berardi nel suo ultimo libro di “euforismi & aforismi” Cogli l’ottimo, edito da Alberto Perdisa. E infine, oppure non è che l’inizio, abbiamo mescolato sapori e saperi di terre vicine e lontane, combinando l’aglio della Dalmazia con gli apicoltori del vulcano d’Etiopia, dai panini di Beirut alla carta di dafne del Nepal, meditando su mostra e culture. Forse non si vede al primo colpo d’occhio, ma questo girovagare fra tappe del mondo potrebbe anche essere l’insieme di un prossimo governo. Con tanti ministeri a rappresentarci, e a raccontarci tutta un’altra storia.

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Viva gli ecologisti rurali

slowfood.it ilmanifesto.it


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Il mo arlo Petrini, presidente internazionale di Slow Food e suo fondatore, ormai è una stella. E non tanto o non solo perché viene invitato in tutto il pianeta, dalla camera dei Lord a Londra agli altopiani d’Etiopia, o perché la rivista Time lo ha eletto un giorno “uomo dell’anno”. Ma stella nel senso di stella polare, su temi come sviluppo sostenibile, ambiente, agricoltura, cibo, socialità rurale. Per questi motivi è più che intrigante chiedere a uno così di mettere un piede dentro la nostra campagna elettorale e di indicare quali impegni il prossimo governo di questo paese può o deve prendere su argomenti cari e cruciali per noi tutti, oltre che per Slow Food.

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A come agricoltura, come impegneresti il prossimo governo? Vorrei davvero che, come primo impegno, il nuovo governo mettesse più sensibilità sul mondo agricolo, inteso come un soggetto attivo per la salvaguardia dell’economia e dell’ambiente. Parlare di agricoltura non significa parlare solo di un comparto economico, la situazione è molto più complessa e per affrontarla ci vuole una visione sistemica. Bisogna capire che la salvaguardia del terreno agricolo è un beneficio non solo per la comunità rurale, ma per tutti. E la strategia fondante di una nuova società è quella di rivitalizzare l’agricoltura. Biso-

Il pescatore dentità e comunità sono concetti ambigui, possono rappresentare una cosa o il suo opposto, a seconda di come vengono interpretati. La difesa arroccata e miope dell’identità produce guasti incalcolabili destinati a sfociare in guerre, e non in senso metaforico. Così come sono evidenti i limiti di un chiuso comunitarismo incapace di confrontarsi con l’esterno e meticciarsi. Al contrario, l’omologazione di culture, abitudini, gusti, economie, sta cancellando ogni diversità storica, culturale, biologica. Allora il quesito obbligatorio e di non facile soluzione è come ci si possa raffrontare positivamente con la globalizzazione senza farsi annientare da un pensiero unico che pretende di dettare legge nella produzione e nel mercato dei beni materiali e immateriali, imponendo decaloghi presunti universali delle relazioni sociali, ma persino i comportamenti a tavola, in vacanza, al mercato, al ristorante, al lavoro nei campi, nelle fabbriche, negli uffici. Se è vero che tanto è stato detto dal movimento no global su questa materia, è altrettanto vero che spesso anche le intuizioni migliori rischiano di restare formule astratte, slogan, che faticano a costruire egemonia nel mondo segnato dalla concretezza del neoliberismo e, in questa fase storica, sotto i colpi della crisi economica che tende a spazzar via differenze e complessità. Un messaggio quanto mai concreto arriva invece da Carlo Petrini che, partendo dalla più

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dura e contraddittoria delle identità, quella contadina della sua Langa - una «terra dei vinti» scoperta dal grande business, che Nuto Revelli farebbe fatica a riconoscere – è approdato in ogni angolo del mondo alla ricerca di identità, culture e colture che la globalizzazione tenta di cancellare, vuoi con l’omologazione, vuoi con una seconda colonizzazione basata sullo sfruttamento neoimperiale. Alla base di Terra Madre ci sono concetti semplici e comprensibili a ogni latitudine, traducibili in tutte le lingue e dialetti. E contiene un messaggio chiaro alla parte ricca del mondo, cioè a noi, armati di sacro furore nella difesa improbabile non della nostra cultura, bensì del nostro modello di sviluppo, dunque dei nostri miopi privilegi incompatibili con l’ambiente e forieri di nuove e più feroci diseguaglianze. Dietro un’affermazione talmente facile da sembrare banale di Petrini, c’è un condensato di cultura che potremmo definire antagonista: “E’ meglio esportare le ricette che gli ingredienti”. In poche parole, non è che i langaroli debbano essere condannati a mangiare per tutta la vita peperoni in bagna cauda e patate bollite con sanguinaccio, o i contadini del Chiapas riso e fagioli. E chi l’ha detto che il futuro debba risiedere nella monocoltura agricola, come pensava Fidel Castro quando smantellò la produzione di caffè di montagna per produrre solo canna da zucchero (e fedeltà) per i sovietici, in cambio d’energia, macchinari? Ciò non significa che

l’interscambio debba essere abolito, al contrario. Dev’essere però rispettoso dei diritti innanzitutto dei produttori, nel nostro caso dei contadini, dell’ambiente, dei consumatori. Il fatto è che un’agricoltura – e una pesca – di rapina hanno impoverito le nostre risorse primarie e, non da oggi, abbiamo trasferito la rapina in nuovi territori. Diciamo nelle nuove colonie. Qualche esempio, limitandoci ai nostri consumi nell’ambito della pesca. Sapete qual è la condizione posta alla Croazia per continuare il suo percorso verso l’Unione europea? L’apertura dei suoi mari alla pesca internazionale. Dopo un lungo braccio di ferro, il governo di Zagabria ha accettato l’imposizione di Bruxelles. Bene, in epoca liberista non si può pretendere di alzare muri in terra, in cielo e in mare, il libero mercato detta le sue leggi e tu puoi solo decidere se accettarle oppure uscire dal gioco. Prendiamo il caso dell’Italia. Nell’ultimo mezzo secolo i nostri fondali adriatici sono stati raschiati da reti d’ogni genere, e la produzione ittica non fa che ridursi. Già negli anni Cinquanta e Sessanta i pescatori di Ancona e San Benedetto del Tronto, per mettere insieme il pranzo con la cena, sconfinavano nelle acque allora jugoslave, il cui patrimonio ittico era difeso da leggi radicali che ne garantivano la salvaguardia. Ogni tanto venivano pizzicati dalle motovedette di Tito e i pescatori finivano per qualche mese in gattabuia. Ce n’era uno famoso


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ondo nuovo

di Petrini

gna tornare a mettere il piede sull’acceleratore dell’economia locale e dell’agricoltura. Non si può continuare a sviluppare produzioni intensive perlopiù destinate all’esportazione, coltivando questo mito del made in Italy salvo poi mandare sui territori prodotti che arrivano da fuori. Queste sono scelte politiche, non ideologiche. E’politica dei fatti. E va compreso che nel nostro paese non esistono solo il commercio o la produzione industriale, ma che chi produce cibo locale è fortemente integrato all’economia locale e alla salvaguardia del patrimonio ambientale. Questa è la grande scommessa. O i prodotti agricoli diventano fondamentali per tutti, o il paese sarà sempre più condizionato da derrate alimentari che attraversano i continenti, prodotte a basso costo e con forme di sfruttamento di contadini di altri parti del mondo. Perché la campagna elettorale è sorda a questi temi? Non ho ancora analizzato i programmi delle

liste, ma penso che nel grande dibattito per rappresentare al meglio il lavoro- addirittura si parla di superare il conflitto di classe! - il mondo rurale non è stato neanche preso in considerazione. Certo, non c’è dubbio che la classe contadina in questo paese abbia subito un ridimensionamento di proporzioni epiche, siamo passati dal 50 per cento della forza lavoro del paese del 1950 all’attuale 4,5- 5 per cento. Certo, allora in quest’area c’erano forme di controllo elettorale, come la Coldiretti o la Dc, oggi gli agricoltori non hanno più questa rappresentanza sociale. Ma io insisto che dovrebbero averla dal punto di vista progettuale, perché una delle domande fondamentali che sempre più si dovrà porre il pianeta è la seguente: dobbiamo creare le condizioni per tornare a lavorare la terra? Sì, se vogliamo salvarla. Perché la terra non verrà salvata dagli ecologisti urbani, ma abbiamo bisogno – per farlo - di tanti ecologisti rurali. Nel calendario della politica tutto questo purtroppo è marginale.

di Francesco Paternò

Colloquio con Carlin, il fondatore di Slow Food. “Perché la strategia fondante di una società è rivitalizzare l’agricoltura”

di pecore per il suo ardire, veniva chiamato «il pescatore di pecore» perché non si accontentava di rapinare spigole e scampi titoisti: arrivava a sbarcare sulle coste croate e montenegrine per sparare sui greggi al pascolo lungo la riva. Quelle erano azioni anarchiche, quasi romantiche, che producevano danni limitati. Oggi, con le straordinarie attrezzature di pesca a disposizione e le società miste con i boss locali, la rapina assume un carattere e un’intensità non raffrontabili con il passato. Domanda: è proprio così sensato aver imposto quella clausola alla Croazia? E fino a quando ci saranno pesci in quei mari? O non aveva ragione Tito, quando divideva il suo mare in una scacchiera, aprendo ogni qualche anno un solo riquadro alla pesca e consentendo così il ripopolamento delle specie? Del resto, la rapina italiana nei Balcani è (ri)esplosa dopo l’implosione della Jugoslavia: con la pesca, con la caccia, con la distruzione del territorio. Il nuovo molo di Ancona è stato costruito smontando e trasportando attraverso l’Adriatico un’intera collina montenegrina. Se vai a Cabras a comprare la bottarga scopri che la quasi totalità delle uova di muggine arriva dalla Mauritania, dalla Corea del Sud, o al minimo da Orbetello. Gli stagni di Cabras, passati dalla baronia alla proprietà pubblica dopo grandi lotte dei pescatori, soffrono di ipersfruttamento e oggi i muggini non fanno in tempo a raggiungere le dimensioni necessarie a ricavarne

di Loris Campetti*

Storie di ex Jugoslavia e storie dello zucchero di Fidel. Perché esportare le ricette invece che gli ingredienti è una buona politica. Che però non basta

sacche di uova sufficienti alla produzione di bottarga. Se invece vai a Carloforte a comprare del tonno scopri che non ce n’è, se lo sono portato via tutto i giapponesi che nelle loro acque non ne hanno più. Lo acquistano nell’isola di San Pietro prima ancora che venga pescato. Ci aiuta, per una volta, la crisi economica che ha fatto cadere la domanda di sushi. Ma ciò mette paradossalmente a rischio le ultime tonnare con grande gioia per i tonni, e scorno di chi si era adattato a svendere lavoro e pescato ai titolari di jen, invece di autorganizzarsi nella lavorazione e trasformazione del tonno, come facevano prima della globalizzazione le comunità locali, liberandosi così dai ricatti dei padroni della filiera ittica. Se vai alla Coop di Terracina trovi dentici che arrivano dall’Oceano Indiano, venduti a quattro soldi (12,90 euro al chilo). Oppure rombi allevati in Spagna. Oppure ricciole sottopeso da mezzo chilo (parliamo di una specie che arriva a pesare decine di chili), o aragoste di 15 centimetri di lunghezza, le une e le altre strappate anzitempo al loro habitat tra Ponza e Formia. Esportare le ricette e non gli ingredienti è una buona politica. Ma non basta. Bisogna rimettere mano alle legislazioni internazionali, tutelare diversità e ambiente, salvaguardare i diritti di contadini, pescatori, consumatori. Sempre che noi si voglia lasciare un futuro ai nostri figli. Terra Madre, inventata dal langarolo Carlin, va nella direzione giusta.

Cosa metterà Slow Food al centro di Terra Madre 2008? La centralità sarà proprio questa: la rete delle comunità del cibo, una sorta di fiume carsico che attraversa il mondo, con giovani impegnati su queste tematiche in ogni angolo del pianeta, un nuovo grande soggetto che non accetta questo modello di sviluppo. Dopo le centinaia di comunità rurali, dopo le 150 università e i mille cuochi coinvolti, la terza edizione di Terra Madre avrà altri soggetti, come la musica dei territori. Cosa c’entra la musica con l’alimentazione e il cibo? C’entra perché non è un comparto esclusivamente economico, l’agricoltura ha dei valori molto più ampi e la musica è parte integrante della società rurale. Se poi a Terra Madre rispondono, come sta accadendo, più di un centinaio di paesi, l’evento diventa il più grande concerto pop del mondo! Ma non vogliamo questo, ci interessa questa visione aperta per creare le condizioni, le motivazioni e le opportunità affinché i giovani ritornino o rimangano nel lavoro dei campi. In un modo che non sia quello di fare la vita grama di un tempo, ma per lavorarci aprendo alle innovazioni e alle nuove tecnologia e dando nuova socialità al villaggio. La grande scommessa di una nuova socialità rurale moderna del XXI secolo è quella che tutti noi abbiamo davanti, è una delle chiavi di lettura per salvare il pianeta. Non si può dare per scontato che lo sviluppo sia soltanto un processo di urbanizzazione. Se fosse così, dovremmo prepararci a un disastro non solo ecologico, ma a un disastro umano. Dobbiamo costruire una nuova socialità rurale che abbia la forza e la suggestione di convincere milioni di giovani del sud e del nord del mondo che lavorare in campagna può essere meglio che lavorare in un call center o in una fabbrica o nel commercio. Bisogna affermare che uno dei soggetti che può salvare il mondo è il contadino, che in questo momento storico rappresenta oltre la metà dei viventi del pianeta. La scarsa sensibilità del nostro mondo verso questi temi sta nella sua assenza di legami con la terra. L’Italia è il paese europe dei prezzi più fuori controllo, oltre che dei salari più bassi. Un altro must per qualsiasi governo non dovrebbe essere quello di preoccuparsi di controllare la filiera tra produttore e consumatore, badando di più a quel che accade al sistema distributivo? In Europa è in corso un processo che vede l’esodo di milioni di famiglie di contadini verso le città. Masse di persone coinvolte in un processo di inurbamento, che in città non trovano lavoro mentre le campagne vengono abbandonate. Fino a poco tempo fa si pensava di risolvere la questione alimentare attraverso una produzione massiva e basso costo, ma i prezzi sono andati alle stelle. L’unica risposta possibile a questi aumenti di prezzo è la produzione locale. In questo quadro, un governo deve essere più che sensibile agli aumenti delle derrate alimentari, anche perché i prezzi aumentano solo a beneficio dell’intermediazione, non certo dei produttori agricoli. La grande distribuzione è diventata l’ago della bilancia, fa il bello e il cattivo tempo, salvo buttare via 4.000 tonnellate di cibo non utilizzato. E’ questo l’aspetto più sconcertante dei nostri tempi.


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Yes,we eat ecentemente ho fatto una scommessa con un amico: «Vedrai, il 2008 sarà l’anno in cui in tutto il mondo si prenderà finalmente atto della crisi del “sistema cibo”». Per formulare questa previsione puntavo su un’analogia con quanto era accaduto nel corso del 2007: se ricordate, fin dai primi mesi dell’anno giornali e televisioni (non solo in Italia) avevano portato in prima pagina il tema dell’emergenza ambientale planetaria e settimana dopo settimana l’attenzione era cresciuta, culminando con il premio Nobel ad Al Gore e all’Ipcc (il Comitato intergovernativo sul mutamento climatico dell’Onu) e con la conferenza mondiale sui cambiamenti climatici di Bali. La copertina dell’Economist dell’8 dicembre scorso (“The end of cheap food”, La fine del cibo economico) e diversi altri articoli usciti sull’onda dell’inchiesta dell’autorevole settimanale britannico mi hanno persuaso del fatto che il cibo avrebbe potuto occupare nel 2008 lo spazio che l’anno precedente era stato dedicato all’ambiente. Ora comincio a temere di avere perso la scommessa: non perché l’emergenza sia rientrata, ma perché altri argomenti sembrano destinati a dominare la scena. Tuttavia, è certo che per Slow Food il dibattito assume contorni sempre più impegnativi; la prossima scadenza elettorale ci spinge a chiedere ai candidati una riflessione sul domani delle nostre mense. Alcuni dati globali, frutto delle stime delle Nazioni Unite, non sono eludibili. Da qui al 2050 gli abitanti della Terra saranno più di 8 miliardi; i consumi pro capite (non solo di cibo, naturalmente) stanno aumentando, soprattutto nei paesi emergenti dove si concentra la maggior parte della popolazione del pianeta; le terre fertili si stanno riducendo e quelle coltivate perdono fertilità; i cambiamenti climatici causano, tra l’altro, la riduzione (e in alcuni casi la perdita) dei raccolti; le risorse idriche stanno diminuendo mentre aumenta il fabbisogno per usi agricoli; la concorrenza degli agro-carburan-

R

di Roberto Burdese*

Una richiesta di riflessione ai nostri candidati per le politiche. Sul domani delle nostre mense, tra aumento della popolazione mondiale, cambiamenti climatici, terreni meno fertili e risorse idriche in diminuzione

ti causa l’impennata dei prezzi delle principali materie prime alimentari; la perdita di biodiversità riduce le opzioni alimentari a disposizione. Un elenco di sciagure le cui conseguenze arrivano in fretta al negozio all’angolo, al mercato rionale, al supermercato: la più immediata è l’aumento dei prezzi del cibo, che intanto peggiora – se possibile – la sua qualità. Non a caso l’uomo del momento è Hugh Grant, gran capo della Monsanto dal maggio 2003, che ha risanato i conti dell’azienda (nel 2002 aveva perso 1,7 miliardi di dollari) e rivalutato il prezzo delle azioni del mille per cento. Si stropiccia le mani soddisfatto per avere introdotto ingredienti geneticamente modificati in qualche punto della catena produttiva di migliaia di alimenti distribuiti in tutto il pianeta (compresa casa nostra). Se è vero quello che ha recentemente scritto Gilles Lipovetsky, filosofo francese, nel suo libro Una felicità paradossale. Sulla società dell’iperconsumo («Non illudiamoci: né le proteste degli ambientalisti né i nuovi stili di consumo più sobrio saranno sufficienti a far deragliare il Tgv del consumismo, a contrastare la valanga di nuovi prodotti dal ciclo di vita sempre più breve. Siamo solo all’inizio di una civiltà dell’iperconsumo»), viene da pensare che non siamo più nemmeno alla frutta: abbiamo saltato l’ultima portata ed è ora di pagare il conto. Con buona pace di tutti quelli che continuano a occuparsi di gastronomia convinti che “quel cibo” alto e raffinato e quello che mangiamo tutti i giorni siano due cose diverse. Bene, a me non va di pagare il conto: ho ancora fame di cose buone. «Yes, we can eat different! », vi invito a gridare parafrasando Obama, e ad andare a scovare i contadini veri, i bravi artigiani del gusto, le osterie genuine, per stringere con loro un’alleanza e costruire un futuro di cibo buono, pulito e giusto. Anche a tavola «un mondo diverso è possibile». Parola di Slow Food. *presidente di Slow Food

WWW.ILMANIFESTO.IT

1968. Quanto tempo è passato e quanto no. CON IL MANIFESTO, DAL 1° MARZO, TANTE INIZIATIVE PER FESTEGGIARE IL QUARANTENNALE DELL’ANNO CHE NON È MAI FINITO. SUL QUOTIDIANO, OGNI SABATO, UN FOTORACCONTO. ONLINE, OGNI SETTIMANA, LA RIEDIZIONE DEI 12 FASCICOLI USCITI PER IL VENTENNALE, E OGNI GIORNO ESPERIENZE E FOTO INVIATE DAI LETTORI. IN LIBRERIA, L’ENCICLOPEDIA DEL ‘68 EDITA DA MANIFESTOLIBRI. E A MAGGIO UNA FESTA CON IMMAGINI E COLONNA SONORA ORIGINALI. SE VOLETE RIFARE IL ‘68, SCENDETE IN STRADA E ANDATE IN EDICOLA. È IL MODO MIGLIORE PER PREPARARSI AL SUO RITORNO. LA VERA SINISTRA ESISTE SOLO SULLA CARTA.



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L’invenzione

del gusto lexandre-Balthazar-Laurent Grimod de la La Reynière è considerato, grazie all’Almanach des Gourmands che pubblicò in otto edizioni dal 1803 al 1812, l’inventore della moderna critica gastronomica. Non meno significativo, nella storia della cucina e della convivialità, il Manuel des Amphitryons, trattato sull’accoglienza e sulle arti della tavola. Grimod era nato nel 1758 in una famiglia molto ricca. I La Reynière erano, da tre generazioni, fermiers généraux, esattori delle imposte dirette presso i possidenti per conto del re. Una attività che consentiva enormi utili ma che, in tempi di ancien régime, non contribuiva al prestigio presso la classe nobile al potere, non per questo mettendo in buona luce chi la esercitava agli occhi della borghesia presto trionfante. Infatti, nei giorni del

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Terrore non pochi fermiers avrebbero conosciuto la ghigliottina. Laurent, il padre dell’autore dell’Almanach, morì per cause naturali prima del grande regolamento di conti, ma i nuovi equilibri socio-economici, insieme a speculazioni intempestive, ne avevano già provocato la rovina. Quanto ad Alexandre, fu eccentrico fin dalla nascita. Causa una malformazione congenita era di fatto privo delle mani. L’invalidità, insieme allo scarso affetto della madre, gli forgiò un carattere provocatore e ribelle. Ne fece un anticonformista per partito preso. Un uomo sempre “dalla parte del torto”. Prima spietatamente polemico rispetto al re, ai nobili, ai cortigiani, alla famiglia (gli invitati a quella che sarebbe diventata la “famosa cena” dell’83 furono accolti con la domanda: «Venite da Monsieur de la Reynière sanguisuga del popolo, o da suo figlio, il difensore

di Giovanni Ruffa*

L’eccentrico AlexandreBalthazar-Laurent Grimod de La Reynière, tra eccessi e nostalgia, un innovatore. E fondatore del primo mensile di gastronomia tra mille intuizioni

della vedova e dell’orfano?»). Dopo la Rivoluzione, critico dei suoi eccessi, nostalgico dei vecchi tempi (scrive a proposito del fagiano: «Pur essendo stato una delle prime vittime del sistema democratico adottato in Francia a partire dal 1789, se ne trovano ancora, a volte, sfuggiti agli inseguimenti rivoluzionari»). Ma fu un innovatore. Con l’Almanach inventò, come si è detto, la critica gastronomica, visitando (nel corso di “passeggiate nutritive” attraverso i mercati parigini) e poi raccontando botteghe, artigiani, caffè (fu invece avaro frequentatore di ristoranti, che pure al suo tempo conobbero grande sviluppo). Ideò, con il Jury, il panel di degustazione, per assaggiare e giudicare piatti e prodotti e poi comunicare le valutazioni dei degustatori agli artefici (cuochi, rosticcieri, pasticcieri…), i quali potevano acquistare i verbali delle sedute ed esporli nelle botteghe come titoli di merito. Contribuì grandemente alla diffusione del servizio alla russa: la presentazione, nel corso del pasto, dei piatti in successione. Impose l’uso del montacarichi con tubo acustico per passare gli ordini e ricevere le pietanze facendo a meno dei domestici (che aborriva). Fondò il primo mensile di gastronomia (il Journal des Gourmands et des Belles), in cui fece ampio uso di quelli che oggi si chiamano “redazionali”. Addirittura, anticipando i tempi di un secolo e mezzo, preconizzò per la Francia un Institut National de la Cuisine. Le sue intuizioni non si limitarono al settore del cibo e della tavola. A teatro per esempio. Lo frequentò assiduamente, esercitando il mestiere di critico e, spesso, il ruolo di spasimante delle attrici. A Nancy (città che conobbe all’epoca dell’esilio in Lorena), scandalizzato dalle intemperanze del pubblico, propose di esporre cartelli per invitare all’applauso o al riso nei momenti appropriati (soluzione adottata oggi negli studi televisivi per gli spettacoli fintamente live). Nel periodo più critico dal punto di vista economico, dopo la Rivoluzione e il Terrore, fu precursore di quella che oggi usa chiamare “finanza creativa”. Per evitare il sequestro dei propri beni (immobili, abiti, libri) li vendette (sulla carta) a un amico, per poi affittarli e continuare a farne uso. Ned Rival, che è stato biografo anche di Brillat-Savarin, racconta vita e opere di Grimod ne Il buongustaio eccentrico (da poco pubblicato da Slow Food Editore nei suoi asSaggi). Ha lavorato su una documentazione imponente, seguendo passo passo le molteplici metamorfosi dell’oggetto del suo studio. Il giovane provocatore che finisce per esasperare la famiglia, terminando la carriera di situazionista ante litteram nell’abbazia di Domèvre (dove peraltro si appassiona all’arte culinaria e al piacere della convivialità). Il critico teatrale acuto e intransigente (e, appunto, facile preda del fascino delle attrici). Il mercante lionese dalle alterne fortune. Il borghese gastronomo, maestro di gusto e pubblicista di successo. Il pacificato retraité di Villiers-sur-Orge. Il vecchio che trascorre gli ultimi mesi fissando muto l’orizzonte. Fino alla morte, capitolo finale della dinastia dei La Reynière e della storia di un uomo singolare che ha inventato il gusto. *Slow Food Ned Rival Il buongustaio eccentrico Vita e opere di A.B.L. Grimod de La Reynière Slow Food Editore, In libreria 13,50 euro



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Se Dalmazia

al 1° agosto dello scorso anno un nuovo prodotto è stato incluso nella breve lista di Presìdi Slow Food della Repubblica Croata: si tratta dell’aglio di Ljubitovica, un paesino di poche anime (meno di mille) dell’entroterra dalmata, situato nelle vicinanze di Trogir, a circa un’ora di strada da Spalato. Per raggiungerlo si deve abbandonare il frastuono della costa affollata dai turisti e inerpicarsi per colline spoglie, segnate qua e là da qualche pianta di ginestra, capre al pascolo e rocce affioranti. Faccio il viaggio in auto in compagnia di Tomislav Drezga, giornalista locale, ingaggiato come guida e interprete. Quando giungiamo a Ljubitovica, il paese ci appare in tutto il suo fascino spartano, quello di una campagna d’altri tempi, di epoca addirittura preindustriale, dove la terra esige ancora il sudore della fronte per essere lavorata, senza l’aiuto di macchinari sofisticati. «La vita del contadino dalmata, da sempre, è dura», mi spiega Drezga, «perché la nostra terra è molto rocciosa, di difficile lavorazione, poco adatta alle coltivazioni su larga scala. Ma si tratta di una terra speciale, straordinariamente ricca di minerali – soprattutto di ferro, come testimonia il suo bel colore rossastro – sulla quale cresce una vegetazione costituita per il 90% da piante medicinali. La resa dei nostri campi è generalmente bassa, ma ai prodotti dalmati è universalmente riconosciuta una qualità molto alta. Un paradigma, questo, che è perfettamente esemplificato dal vino Babic, ottenuto da uve della varietà babi, coltivate sulle aspre colline di Primostren. Lo caratterizza un aroma inconfondibile, molto apprezzato dagli intenditori. Ogni produttore ne realizza di solito poche centinaia di bottiglie l’anno, a prezzo di un lavoro enorme. Non è un caso se un poeta locale lo ha definito nei suoi versi “lacrime di pietra…”». Mentre Drezga mi parla, mi abbandono con lirico piacere alla contemplazione del lavoro nei campi, che da queste parti continua a svolgersi nel rispetto di una religiosa lentezza. Siamo a metà agosto. La raccolta dell’aglio è già avvenuta e le attività agricole languono nell’arsura. Un’arzilla vecchietta vestita di nero, con un fazzoletto annodato sul capo per ripararsi dal sole, trasporta sulle spalle una fascina di rami di olivo. Un altro anziano signore, armato di piccone, colpisce instancabilmente un grosso macigno per ottenere le pietre con cui gli abitanti costruiscono i muri che circondano i coltivi: per difenderli, certo, dalla bura, la bora, il secco e freddo vento del Nord, ma anche per marcare la parcellizzazione del territorio, da tempo immemorabile suddiviso tra le famiglie del paese in numerosi, piccoli appezzamenti, ognuno di circa due ettari e mezzo. L’aglio si pianta a ottobre, interrando manualmente gli spicchi, uno a uno, a una distanza di 12 centimetri l’uno dall’altro, come vuole la tradizione, e la raccolta avviene a giugno. Da ogni appezzamento si ottengono mediamente 5000 capi, che le donne confezionano nelle tipiche reste (“trecce”). Prodotto autoctono, coltivato nella regione da secoli, costituisce la principale fonte di reddito del paese. Fino alla Grande Guerra, accanto alla coltivazione dell’aglio c’era quella del tabacco. Ma la nazionalizzazione delle grandi imprese voluta da Tito e la creazione di molti, più vantaggiosi, posti di lavoro nelle fabbriche di stato della vicina Trogir segnarono, nell’immediato dopoguerra, l’inizio dell’abbandono dei lavori agricoli, decretandone a poco a poco la fine.

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A pranzo A Ljubitovica sono ospite per alcune ore dei Vasic, una delle 170 famiglie, su circa 500, che producono il pregiato aglio. Ci mettiamo subito tutti a tavola. In mio onore tre capi sono pronta-

mente staccati da una delle numerose reste appese in cucina. Uno dei figli di Vasic comincia ad affettare del prosciutto affumicato, un’altra specialità locale, consumata ancora oggi dopo un anno di stagionatura nella cenere; sua moglie nel frattempo riemerge dalla cantina con una forma di formaggio di capra. Finiti i convenevoli, è arrivato il momento dell’assaggio. A meno che non si abbia una particolare avversione nei confronti di questo bulbo, l’aglio di Ljubitovica – spiegano orgogliosi – si può quasi degustare nature, crudo. Mi servono pane fatto in casa e olio extravergine locale. Tolto lo strato pellicolare più esterno, l’aglio di Ljubitovica comincia col rivelarmi le sue ricchezze cromatiche nascoste: macchie viola, rosse, bluastre appaiono sugli spicchi. «Questa varietà di aglio si chiama sharaz», dicono, «che in croato significa “variopinto”». Lo osservo più da vicino. Gli spicchi sono piccoli, e ogni capo ne contiene di solito 14, eccezionalmente uno in più o in meno. «Assaggi, assaggi» si rincorrono le voci attorno a me, «lo intinga nell’olio. Ecco, prenda del pane». Procedo alla degustazione e constato innanzitutto la bontà dell’olio, che in Croazia può raggiungere picchi di qualità inaspettati, con un’acidità spesso inferiore allo 0,5%. Poi l’aroma dell’aglio prende a diffondersi nella mia bocca. A differenza di quello prodotto con tecniche agricole intensive e destinato alla grande distribuzione, lo sharaz non si limita a veicolare una più o meno spiacevole sensazione di piccante, che si esaurisce in se stessa. Questa volta, oltre al sapore pungente, dell’aglio percepisco un aroma insolitamente ben strutturato, che con il piccante dialoga senza esserne schiacciato. «Che cosa ne pensa del nostro Viagra locale?» mi chiede Drezga, dandomi una pacca sulla spalla. I miei occhi stralunati suscitano l’ilarità generale, e il pranzo può allegramente avere inizio. A pasto ultimato, esprimo il desiderio di osservare da vicino una delle reste appese in cucina, e chiedo se il numero di capi d’aglio da cui sono composte è fisso, ignaro di toccare un tasto dolente. «Un tempo, la resta conteneva 50 capi, e costituiva l’unità di misura di un’economia basata in massima parte sul baratto: una resta era scambiata ad esempio con un litro d’olio. Oggi l’aglio è diventato più caro, e si preferisce intrecciarlo in reste di 25 capi». Parlando con Drezga, scopro che la causa dei rincari è da ricercare nel problema che affligge circa il 40% della popolazione mondiale: la scarsità d’acqua. Un problema non nuovo nell’entroterra dalmata, ma che si è acuito negli ultimissimi anni. «A Ljubitovica non piove più abbastanza e da cinque anni a questa parte siamo costretti ad acquistare a caro prezzo l’acqua necessaria a irrigare i campi fino alla raccolta», si lamenta Drezga. «Paghiamo oltre 2 dollari al metro cubo; una cifra esorbitante se si pensa che la si vende a 0,5 dollari in un paese semidesertico come Israele». Drezga se la prende con il governo croato, che lascia i coltivatori d’aglio soli alle loro difficoltà e che, a suo dire, non intuisce che un lavoro dei campi umile, antico, come quello svolto a Ljubitovica rappresenta un’eredità culturale da difendere. «È triste vedere come voi di Slow Food sappiate capire una difficoltà che i nostri governanti non percepiscono. Difendere le realtà agricole di nicchia come Ljubitovica, inoltre, equivale a valorizzare la regione sotto il profilo del turismo, catalizzando il processo di trasformazione, già in corso, dell’entroterra dalmata in meta per gli amanti dell’agriturismo. La Croazia del resto – lo ha potuto constatare oggi con gli occhi ma soprattutto con il palato – al visitatore ha da offrire ben di più che spiagge bianche e limpide acque blu». *Slow Food

di Michele Fossi*

L’aglio di Ljubitovica a casa dei Vasic, una delle 170 famiglie su circa 500 che producono il pregiato ortaggio nella zona dalmata vicino Trogir. Un assaggio in una coltivazione di nicchia

rima con

Apicolto onapi è una cooperativa di 250 apicoltori con sede a Monterenzio, che si è sempre distinta per l’impegno verso il biologico e il commercio equo e solidale. Quando a dicembre ho ricevuto la telefonata del presidente Lucio Cavazioni che mi chiedeva di intraprendere un viaggio per incontrare i produttori di due Presìdi Slow Food in Etiopia, ho accettato senza esitazioni, con la consapevolezza di poter portare il contributo di un produttore più che di un tecnico apistico. Maxence Fermine, nel suo romanzo L’apicoltore, racconta di una luce che tradisce un pizzico di follia, dell’oro negli occhi di quegli uomini che hanno scelto di dedicarsi alla raccolta del miele, condividendo la vita con il più nobile degli insetti. Io non ero mai stato in Africa, ma sapevo che avrei trovato quella luce… Il 12 gennaio si parte per Addis Abeba. Mi accompagna Paolo Bolzacchini, responsabile dei Presìdi etiopi.

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Addis Abeba Arriviamo nei giorni in cui l’Etiopia, appoggiata dagli Usa, sferra il suo attacco alla Somalia. Potrebbero sembrare giorni qualsiasi. Arriviamo nella notte, e della città vediamo soltanto le grandi strade con tante persone ai bordi. L’indomani, girare per Addis Abeba è un’esperienza sensoriale. La luce è forte e intensa, vista la vicinanza all’equatore e l’altitudine, che supera i 2000 metri. Ci sono alcune strade

asfaltate, attraversate da auto, piccoli bus collettivi, pecore, taxi, camion, pedoni, vacche… E ci sono piccole strade interne, sterrate, che conducono alla maggior parte delle abitazioni, baracche fatiscenti dove le auto sollevano grandi polveroni che dissolvono l’orizzonte. Il traffico è selvaggio. Al rumore delle auto che si sorpassano e dei clacson si mischiano belati di pecore e note di pop etiope, nonché parole pronunciate in una lingua incomprensibile. L’amarico mi ricorda una cantilena, molto musicale, che dopo qualche giorno diventa quasi familiare. Oltre che dei rumori, il traffico è responsabile di odori forti e pungenti, a volte quasi nauseanti. Dovunque persiste forte il tanfo della benzina delle auto, che rende l’aria malsana e appiccicaticcia. Dei pasti conservo ricordi molto vividi: in Etiopia non si usano le posate e il cibo è preso con le mani servendosi del pane locale, l’injera, ossia il nostro piatto quotidiano, una sorta di grossa piadina molto porosa e collosa fatta con un cereale chiamato teff. Su questo sono serviti legumi, carne e verdure, spesso insaporiti da salse piccanti. Ma il pane di teff non è il solo che ho sperimentato. Con padre Alemu, a Wukro, nel Tigray, ne ho mangiato col miele uno bianco e soffice, cotto al vapore, dal sapore simile a un dolce; ad Alitena, invece, il pane aveva un sapore più simile a quello a cui siamo abituati.


n

11

lentezza

ori sopra il vulcano Il miele di Wenchi Partiamo per Wenchi il 14 gennaio. Dopo due ore di auto con le arnie a bordo arriviamo a Weliso, la città che fungerà da base per i giorni di lavoro sul vulcano. Da qui una strada sterrata si inerpica per 36 chilometri fino al villaggio di Wenchi dove, nella sede dell’associazione di ecoturismo Weta, incontriamo i primi apicoltori del Presidio. Weta, costituitasi grazie a un progetto finanziato da Cooperazione tedesca (Gtz), raccoglie gli abitanti dei villaggi interni al cratere di Wenchi e conta 194 soci. L’associazione è suddivisa in 11 sottogruppi che si occupano della gestione delle risorse del vulcano: gli apicoltori ammontano a 26 membri. Scaricato il materiale acquistato per il Presidio (21 arnie razionali a tre elementi, uno smielatore tangenziale a tre favi, due pacchi di fogli di cera prestampati), Paolo illustra lo scopo della missione a una platea attenta, mentre io mi scopro a fissare le persone dai tratti somatici decisi e affilati, l’ambiente, il pavimento di sterco pressato coperto di paglia, i muri di fango e i tetti di frasche di falso banano. Il paesaggio del vulcano è di grande bellezza. Il cratere ospita un lago dalle acque blu intenso e lo sovrasta un anello di pendii scoscesi e verdissimi. La vegetazione fitta e rigogliosa, nonostante l’altitudine sia di quasi 3500 metri, è composta da falsi banani, eucalipti, eriche arboree, abeti, rose selvatiche e da un gran numero di specie che non sono

riuscito a identificare. Il presidente del Weta ci mostra con orgoglio il miele prodotto dalle api del vulcano, un secchio di plastica contenente porzioni di favi colmi di un miele rosso, molto aromatico, con un retrogusto amarognolo, bottinato in gran parte sugli abbondanti pascoli di erica, ma con presenza di altri nettari che concorrono a rendere unico questo prodotto. Sul retro della sede, vedo da vicino l’arnia tradizionale, un fusto cilindrico del diametro di circa 30 centimetri, costruito in canne di bambù e foglie di falso banano, con un disco di legno forato a un’estremità e, a occludere l’altra, della paglia facilmente rimovibile al momento dell’estrazione. Il giorno seguente visitiamo gli alveari posti nell’apiario adiacente il locale dell’associazione. Fin dall’inizio appare chiaro che non è possibile realizzare il travaso dei bugni (arnie tradizionali circolari) nelle arnie razionali. Tale operazione, infatti, va effettuata sempre sotto raccolto o comunque con un buon flusso nettarifero. Questa è invece una stagione di “carestia”, tanto da indurre le regine a ridurre la covata fino al blocco totale. Poi, di fronte a una decina di soci, inizio il lavoro di formazione, illustrando il funzionamento dell’arnia razionale: spiego la differenza tra nido e melario e l’importanza di mantenere i due settori separati per ottenere una buona produzione di miele di qualità. Vista la grande partecipazione, cerco di capire

dai soci quale sia il loro livello di conoscenza tecnica, quali i problemi e le possibili soluzioni. Nel dibattito emergono Mangiste Boggala e Wakuma Ango, che animano la discussione con domande pertinenti e tutt’altro che banali. Il censimento degli alveari Al mio arrivo all’ufficio, il giorno seguente, trovo ad aspettarmi un numero ancora maggiore di soci, tutti armati di block-notes e penna. Ripercorro per i nuovi arrivati i passi salienti del lavoro del giorno prima e cominciamo a stilare la lista dei soci per censire gli alveari. Accompagnato da Wakuma Ango e da altri due apicoltori, inizio la visita degli apiari. Le arnie (tradizionali e razionali) sono poste su piccoli spiazzi di terra a strapiombo sui dirupi: il loro difficile accesso è motivato dal timore di furti. In genere, ogni apiario è formato da non più di quattro o cinque alveari e, per raggiungerli, è necessaria almeno un’ora di marcia su stretti sentieri di montagna. Le famiglie sono in buone condizioni e al termine della mattinata abbiamo visionato 22 alveari tradizionali e razionali appartenenti a nove soci. All’una, Wakuma ci offre il pranzo nel suo ristorante. Una buonissima injera con lenticchie cucinate in due modi diversi, seguita dalla cerimonia del caffè. Per il pomeriggio mi propone di andare a estrarre il miele dai suoi alveari tradizionali; quindi ci avviamo, armati di scala a pioli, paletta di legno,

coltello e bacinella. Arrivati sul posto indossiamo tute, maschere e guanti in quanto ci stiamo apprestando a effettuare in pieno giorno un’operazione solitamente eseguita col buio. La scala è posta su un sentiero quattro metri sotto l’apiario e io inizio l’operazione di prelievo senza utilizzo del fumo, allontanando con le foglie le api rimaste sui favi. Riusciamo a estrarre il miele da un bugno di sei o sette chili quando siamo costretti a rinunciare per via di una famiglia particolarmente aggressiva che ci impedisce di continuare. Giunti al ristorante, il miele è sistemato su un piatto intorno al quale si radunano passanti, bambini e la famiglia dell’apicoltore. Ma nessuno si muove, c’è un rito da soddisfare. Chi ha lavorato per portare a casa il miele deve assaggiarlo per primo: ne mangiamo noi due e, quindi, possiamo offrirlo a tutti gli altri. La formazione Le nozioni apistiche dei soci sono piuttosto limitate: l’uso dell’arnia tradizionale unita all’aggressività delle api non hanno permesso loro di approfondire la conoscenza della vita dell’alveare. Quando parlo dei maschi, i fuchi, non mi capiscono, ma dicono che nell’alveare c’è un’operaia più grossa delle altre che non punge e ha il compito di portare da bere alla regina. Secondo gli apicoltori di Wenchi le colonie non sono mai orfane, le regine si nascondono per non farsi vedere. Queste e altre osservazioni mi

di Diego Pagani e Rosy Sinicropi*

Vicini all’equatore sugli altopiani d’Etiopia, missione al miele dentro un cratere

inducono a optare per una lezione con disegni esplicativi e commento, tradotto dall’interprete in amarico, sul ciclo vitale delle api, la fecondazione della regina e la risoluzione dei problemi più comuni. In un secondo momento si discute del ruolo dell’associazione e di che cosa comporta avviare un Presidio Slow Food: condividere informazioni e conoscenze, non ragionare come singoli individui ma come parte di un disegno più ampio. Il gruppo degli apicoltori possiede un regolamento sottoscritto da tutti i soci, molto essenziale ma assolutamente funzionale, al quale chiediamo sia aggiunto l’obbligo della filtrazione del miele in modo da ottenere un prodotto uniforme e pulito. Esauriti i nostri compiti e giunto il giorno della partenza, saliamo in auto promettendo di ritornare per il prossimo raccolto. Scendendo dal vulcano ripenso a Wakuma, al fatto che ci siamo lasciati come due amici che hanno condiviso esperienze e che sanno che si incontreranno di nuovo. *Slow Food




14scritto&mangiato

Nepal,

la carta del sole fogli colorati che asciugano al sole sembrano un’enorme coperta patchwork stesa fra le risaie. Poi ci sono gli altri fogli, quelli bianchi, sui telai rettangolari appoggiati a bastoni piantati nel terreno, come tante tele in attesa di pittore. Per un momento, quasi pensiamo di avere sbagliato indirizzo: non era una comunità del cibo, quella che cercavamo qui nel villaggio di Sita Paila, tre quarti d’ora d’auto da Katmandu? Ma ci mettiamo poco a capire che, anche se quel che esce dalle loro mani non si mangia, i produttori nepalesi di carta di Dafne non ci sono finiti per sbaglio, nella rete di Terra Madre. Perché anche a loro, come a tanti contadini e pescatori del mondo, servono poche cose, ma preziose: acqua pulita, sole e pazienza. Serve del tempo, per fare una carta così. Intanto perché la materia prima la fornisce una pianta, anzi un arbusto, che cresce giusto sotto le vette dell’Himalaya, tra i 1800 e i 3500 metri. Da queste parti lo chiamano lokta, e il nome scientifico è Daphne papiracea o Daphne cannabina. Per la carta si utilizza la corteccia. Per ottenerla, gli arbusti sono tagliati a una ventina di centimetri dal terreno. Così le radici rimangono vive e il cespuglio ricresce da solo. Basta aspettare tre o quattro anni. Il vantaggio ovvio è che così non si dibosca, erode, o distrugge l’habitat. Lo svantaggio è che, per non restare senza cortecce, bisogna pianificare con cura la raccolta, zona per zona. Ma a questo ci pensano appositi Forest Users Groups (Fug), ai quali il governo ha affidato le foreste, nel rispetto di precisi piani di tutela e sostenibilità. In pratica, sono le co-

I

munità che ci vivono a gestire l’uso delle foreste, eleggendo un apposito comitato, non di rado presieduto da donne, il quale stabilisce quando, dove e come tagliare gli alberi, per poi ridistribuirne gli utili alla comunità. E, a quanto pare, il sistema funziona. I Fug (che si occupano di tutte le foreste nepalesi, non solo del lokta) sarebbero oggi 13.978, per un totale di 1,17 milioni di ettari. Oltre un milione e 600 mila famiglie, per un totale di 9 milioni di abitanti (circa un terzo di tutti i nepalesi) sono in qualche modo legate alla distribuzione degli utili. La “fabbrica”, in realtà, è in gran parte a cielo aperto. In un angolo ci sono i pentoloni in cui le cortecce sono due volte bollite per alcune ore in una soluzione di acqua e cenere e due volte risciacquate, in acqua che deve essere il più pulita possibile. Sotto una tettoia si sminuzza la polpa cellulosica, messa in un recipiente di pietra e spinta sotto una specie di rullo di legno a punte (ma in molti villaggi ci si arrangia con un grosso sasso e un bastone). Un operaio, uno dei pochi maschi della fabbrica (mezza dozzina su un totale di 82 dipendenti), ci mostra come quella poltiglia diventi carta. Se ne mette un po’ – a seconda dello spessore desiderato del foglio, che può pesare da un minimo di 5 a un massimo di 80 grammi – in una vasca piena d’acqua, vi si immerge un telaio rettangolare con una rete tipo zanzariera, che cattura la poltiglia. Qualche movimento ben assestato dell’operaio la fa distribuire in modo uniforme sul telaio, che a quel punto è appoggiato a uno dei bastoni ad asciugare. A meno che non la si voglia prima decorare con petali di fiori o rametti,

di Luca Angelini*

Contadini e pescatori del mondo che servono acqua pulita, sole e pazienza. E ancora una fabbrica a maggioranza femminile che da una poltiglia produce. Per creare una montagna di carta di dafne

appoggiati sul telaio. «In una giornata di sole e vento come questa», spiega soddisfatto Shree Ram Thapg, che ci fa fare il giro della fabbrica assieme a Uttra Malakar, una delle dipendenti dell’associazione di commercio equo-solidale Mahaguthi, «possiamo produrre fino a 700 fogli. Quando sono asciutti, si staccano senza sforzo dal telaio». Sul prato, dietro i telai, ad asciugare al sole ci sono invece i fogli colorati e, poco più in là, la piccola baracca dove donne in guanti di gomma immergono i fogli bianchi in bacinelle con le tinture blu, gialle, rosse e verdi, li strizzano e li stendono sulle lastre di metallo da mettere al sole. «Usiamo solo colori atossici» assicura Uttra. «E, se qualche foglio colorato si rovina, lo ricicliamo per produrre quelli neri». Mahaguthi A metterli uno sull’altro, tutti i fogli di carta di dafne prodotti ogni anno in Nepal, forse ne verrebbe fuori un’altra montagna, in questo paese che di montagne è pieno. Perché qui la lokta kagaz, la carta di dafne, che dicono sia prodotta da 2000 anni, è un po’ come i papiri per l’antico Egitto o le pergamene per l’Europa prima di Gutenberg. I buddisti l’hanno sempre usata per i testi sacri e i sovrani nepalesi per gli editti. Ancora oggi, per i documenti ufficiali o gli atti giudiziari, si utilizza solo quella. E in caso di emergenza la si può anche utilizzare al posto delle garze, per medicare le ferite, visto che oltretutto respinge gli insetti. L’idea di farne paralumi, cartoline, quaderni o portaritratti da esportare, è però più recente.


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Panini di

Beirut

a mattina che sono andato da Nelly e Mouna a farmi raccontare la loro storia la sveglia non ha suonato, ma non ho avuto tempo di capire perché. Per fortuna hanno bussato alla porta per buttarmi giù dal letto e mezz’ora dopo ho fatto il mio ingresso nell’antro dedicato alla produzione del pane, ancora parecchio intorpidito e inconsapevole. Poco lontano da Beirut, due signore hanno ripreso casa e ricominciato una vita che la guerra ha provato a bombardare senza successo; dati i loro ritmi e la loro energia, non può stupire che in risposta alle mie domande mi abbiano invitato a una colazione all’alba, all’inizio della loro giornata lavorativa. In fondo a una specie di grotta-laboratorio è seduta Mouna, veste arancione e fazzoletto blu in testa. Anche Nelly, che ci ha accolti con grande allegria, è solita vestire a colori; solo adesso che lo scrivo mi viene in mente che forse uno dei mille modi di non darsi per vinti è proprio questo. Come illuminata in una specie di palcoscenico, Mouna impasta il pane che viene subito dopo cotto sul saje, la piastra araba a forma di cupola, e accumulato strato dopo strato. È il lavoro di una piccola comunità, fatto con i suoi quattro figli che corrono e giocano nello stesso tempo in cui servono la colazione agli ospiti, mentre Nelly racconta, voce di se stessa e della sua amica.

L

di Gigi Frassanito*

«All’inizio degli anni Ottanta» spiega Sunil Chitrakar, direttore esecutivo di Mahaguthi «l’Unicef e il Governo nepalese hanno dato vita a un programma per migliorare le condizioni dei contadini, insegnando loro come produrre carta di dafne per cartoline o altri prodotti. Cosa che ha trasformato una produzione tradizionale ma marginale in un’attività commerciale vera e propria». E c’è da credergli quando dice che ha avuto un impatto importante sul miglioramento delle condizioni di vita di tanti contadini e, soprattutto, di tante donne, da quelle che raccolgono il lokta nelle foreste di montagna a quelle che lavorano la carta. Per la sola Mahaguthi, cui fanno capo circa 300 produttori di carta, tanto da farne la seconda più importante realtà nepalese del settore, il giro d’affari annuo è di 280 000 dollari. E l’80% della produzione è esportata, in gran parte in Europa (per l’Italia i principali clienti sono Ctm e Ram, associazioni di commercio equo-solidale), ma anche negli Stati Uniti e in Giappone. Tanto che sempre più spesso sono designer stranieri a dare a Mahaguthi indicazioni sui tipi di oggetti da produrre. Dopo la crisi legata alla guerriglia interna, l’export di carta di dafne ha ripreso a pieno ritmo. Qualche ombra, però, non manca. «Purtroppo» spiega Sunil «non tutti quelli che si proclamano produttori equo-solidali lo sono davvero. Per alcuni è solo uno strumento di marketing, mentre per noi è una vera missione. I nostri produttori guadagnano, a seconda dell’esperienza, dalle 2500 alle 4000 rupie al mese (dai 30 ai 45 euro: pochini, ma non così pochi

in un paese in cui l’incasso medio annuo pro capite è, secondo i dati della Banca Mondiale, di 290 dollari). Di recente abbiamo anche condotto una verifica con esperti europei per migliorare i nostri standard di fair trade». A porre le radici di Mahaguthi fu un discepolo di Gandhi, Tulshi Mehar Shrestha. Tornato in Nepal nel 1924, dopo la revoca dell’esilio a vita in India per attività anti-nazionale, lanciò campagne che gli valsero il soprannome di “Gandhi del Nepal”. Come quella detta “Mushti Dan”, che invitava i nepalesi a mettere da parte un pugno di grano a ogni pasto per donarlo alla sua Charkha Pracharak Gandhi Smarak Mahaguthi, la prima ong del paese, impegnata a fare del telaio e degli abiti di cotone uno strumento di emancipazione economica e sociale, senza dover dipendere dagli aiuti stranieri. Fu grazie a Tulshi Mehar Shrestha che a Katmandu, nel 1979, un anno dopo la sua morte, fu aperto l’ashram (una sorta di ostello) che a lungo aveva sognato e che ancora oggi porta il suo nome. Il 40% dei guadagni di Mahaguthi finisce lì, dove si insegna alle donne vedove, divorziate, ripudiate o comunque indigenti, a tessere, cucire o fare altri mestieri (ma anche a leggere, scrivere e contare) che renderanno indipendenti loro e i loro figli. Così, adesso sapete che, quando comprate un quaderno targato Mahaguthi, ogni pagina bianca ha già una bella storia scritta dentro. E noi abbiamo scoperto che, anche se non si mangiano, i cespugli di lokta possono dare lo stesso buoni frutti. * Slow Food

Mouna che è come uno sciamano. Mouna che sa riconoscere i prodotti della terra e dire se sono stati coltivati rispettando la natura. Mouna che è specializzata nella produzione di cibi tradizionali

È un fatto che Mouna non parli inglese, né io abbia cognizione di arabo: tutta la nostra comunicazione passa per la voce di Nelly e tutto arriva, incluso probabilmente ciò che Mouna ha solo pensato e Nelly per consuetudine sa. È questa almeno l’impressione ricavata ad ascoltarle: eppure queste due donne si conoscono da pochi anni. Nelly è stata per la maggior parte della vita un’artista; oggi si occupa ancora di design di interni, ma solo nei piccoli tempi che l’intenso lavoro per la cooperativa lascia liberi. Nel 2001 conobbe Mouna, che lavorava per un suo amico nel Sud del paese: interessandosi di macrobiotica e alimentazione naturale, fu colpita dalla personalità di questa donna sciita che all’epoca non aveva nulla a che fare con l’agricoltura e la cucina, le sue grandi passioni, ma che in quei campi aveva vissuto e lavorato per il resto della vita. «Mouna è come uno sciamano. Sa naturalmente riconoscere i prodotti della terra, sa dire se sono stati coltivati rispettando la natura e di tutti conosce le proprietà». La conoscenza di Mouna e la capacità comunicativa di Nelly diedero vita in breve tempo alla cooperativa Earth&co, specializzata nella produzione di cibi tradizionali e in particolare nei mouneh, le conserve vegetali. Un’intera comunità agricola di Majdel Zoun, nel Sud del paese, fu coinvolta nella cooperativa, convinta a riprendere produ-

zioni ormai abbandonate, trascinata dall’entusiasmo di queste due donne. Nelly e Mouna, i mercati, la guerra Una piccola tavola è stata apparecchiata nel laboratorio, e imbandita da pane appena fatto, labne (un derivato dello yogurt), diversi e numerosi ortaggi di stagione. Arriva un gruppetto di altri ospiti, venuti esplicitamente a fare colazione, ma in grado, anche, di partecipare a un racconto che conoscono già. Nelly e Mouna fino all’estate dello scorso anno hanno conosciuto la fortuna che il loro lavoro meritava, e con la cooperativa che raccoglieva ordini da tutto il Medio Oriente il piccolo mondo del villaggio cresceva con loro. Tutto questo fino allo scoppio della guerra del luglio 2006: erano a Beirut e cucinavano per un programma televisivo, quando hanno letto nelle righe dello stesso schermo che le riprendeva che gli israeliani stavano bombardando casa loro, insieme a tutto il Sud. Furono costrette a una disperata fuga al contrario, al rientro nella loro casa cercando strade secondarie là dove i ponti erano saltati, e le navi avevano i cannoni rivolti verso di loro. La raccolta dei pochi, minimi oggetti della sopravvivenza era una scena già vissuta durante le guerra civile e che avevano creduto di poter dimenticare. Questa storia si intreccia oggi con quella dei nuovi Mercati della Terra libanesi e con quella del Souk el-Tayeb, il primo mercato contadino di questo paese mediorientale, dal momento che le persone di cui parliamo siedono, in questi mercati, dietro al banco del cibo di strada più fresco che si possa immaginare. Mouna è accovacciata da un lato, anche in questo caso impegnata a lavorare l’impasto del pane cotto appena prima di essere utilizzato. Nelly fa i panini: diciamo così, in mancanza di un’espressione più adeguata a spiegare quello che succede davvero. Proviamo: dopo avere chiesto all’avventore che cosa vuole mangiare, lo fa sedere di fronte a sé, affetta le sue verdure freschissime davanti a lui, racconta la storia di ogni ingrediente autoprodotto, presenta infine un grande rotolo di pane arabo farcito e incartato a metà. Ben visibile alle loro spalle, il totem che fieramente hanno riportato da Cheese di Bra, dove erano presenti con il formaggio vegetale da loro prodotto che è Presidio Slow Food, il kechek el fouqara. A lato, una grande cesta nella quale ciascuno paga e prende il resto in autonomia, perché Nelly e Mouna durante il lavoro non toccano mai denaro. Oggi, le due protagoniste di questa storia possono tornare ogni tanto a sud per seguire le vicende della cooperativa, ma non ci vivono più, e una parte dei campi resta loro inaccessibile a causa delle mine. Anche lontano dal luogo dove avevano scelto di vivere da famiglia allargata, la loro vitalità prevale su quanto di negativo le ha colpite. Quella mattina presto in cui sono andato a trovarle a un certo punto ho ritenuto di essermi guadagnato la colazione, e quello che ho mangiato è l’altra lingua in cui questa storia si potrebbe raccontare. Non bastassero le parole, gli sguardi e i gesti, ci sarebbero i panini. *Slow Food


16scritto&mangiato

La forma

del sale

siste spesso una curiosa analogia tra le opere d’arte e gli oggetti, che non è certo casuale, che non è pigrizia e che noi, senza pigrizia, dobbiamo imparare ad apprezzare. Un tempo gli artisti misuravano la loro abilità visiva riproducendo la realtà, facendone una copia sublime, astratta, ideale. L’artista di oggi ha preso a cuore una nuova questione che coinvolge la realtà in una forma più complessa: l’indagine che prima era dedicata alla forma e al colore è oggi estesa alla funzione, al valore, al desiderio, alla storia, al vissuto di ogni cosa. L’artista contemporaneo preleva dalla realtà un elemento, lo sceglie e, nel farlo, ne esplode i significati. L’artista si appropria della realtà ma la restituisce risignificata, aumentata, mai impoverita. L’artista contemporaneo è, in un certo senso, un alchimista, uno che opera con gli elementi, che s’immette nella materia ma che punta a sintetizzare conoscenza e sapere, sotto forma d’opera. La pietra filosofale, forse. Forse proprio il sale della vita, il suo gioco sottile, come ci suggerisce Marcel Duchamp – padre ufficiale di tutto quanto detto – o meglio “Merchand du Sel”, per usare uno dei suoi pseudonimi très chic. L’artista è comunque un auctor, colui che aumenta, colui che fa crescere.

E

La montagna di Paladino L’autore di cui trattiamo è Mimmo Paladino, artista storico della transavanguardia, movimento artistico italiano noto in tutto il mondo per la voracità estetica. In particolare, una sua importante opera, La montagna di sale, si presenta come uno di quei meravigliosi mucchi bianchi che disegnano la costa occidentale della Sicilia, nel tratto scenografico che unisce Trapani a Nubia, a Paceco, a Marausa, a Mozia, fino a Marsala, la Lylybeo «splendidissima» di Cicerone, o Marsa-Allah, “porto di Dio”, secondo la successiva dominazione araba. La Via del Sale, o Strada Provinciale 21, è oggi doppiata dal primo tratto di pista ciclabile realizzata dalla Provincia con contributo della Regione Sicilia: una scelta lucida, efficace, intelligentissima. Questa zona, ricca di insediamenti fenici ancora godibili, è uno spettacolo per gli occhi: da un lato una campagna ferace, dall’altro le distese cristalline, le specchiate, le croste bianche quasi lunari, i mulini – destinati all’aspirazione delle acque, al ricovero e alla macinatura –, alcuni dei quali ancora di tipo olandese con pale di legno e stoffa e, infine, i cumuli di sale talvolta ricoperti, a protezione da agenti e polveri, da coppi incrociati che li fanno assomigliare a case fatate, fascinosi luoghi di magìa e sapienza. Paladino si appropria di questa forma, di questa massa solida alla vista ma friabile per sua natura, candida, pura, da raffinare, imponente ma non aggressiva, e la rende opera d’arte. In essa inserisce corpi scuri di cavalli in un contrasto assoluto e poeticissimo, che sem-

La nuova Gibellina L’opera, dicevamo, ha origine cinque anni prima, nel 1990, come scenografia de La

Cemento bianco, come il sale, voluto proprio così, lucente e candido, quasi a sottolineare come si addica a questa terra abbacinata e forte il colore della sposa ancora testardamente pura. Il testo di Schiller – che racconta anch’esso di una sposa – narra di un contorto incesto e di un’impetuosa furia fratricida, predestinata, ineluttabile. Un continuo ribaltarsi dei sensi e degli accadimenti, proprio come rovesciati sono taluni cavalli nella montagna di Paladino. Queste bestie rappresentano lo spirito impetuoso, l’istinto, l’Es e il gettarsi avanti, sempre, contro gli eventi. Il coro, in scena, a un certo punto esclama: «Più di una pace ignota amo il tumulto e la commossa vita, amo un eterno ascendere, un eterno ondeggiare sopra la bruna onda della fortuna. Infragilisce ogni forte nella pace aborrita e l’infecondo ozio al coraggio è morte, cara al fiacco è la legge, essa riduce a una piana superficie il mondo. Ma la guerra è la luce che la virtù rischiara e sino al vile l’ardimento impara». Ecco ancora la montagna, l’ergersi, e gli istinti, sollevati, agitati, spesi nell’ascesa e nella guer-

sposa di Messina di Friedrich Schiller, diretto da Elio de Capitani e messo in scena a Gibellina; la città siciliana, completamente distrutta dalla tragedia del Belice del 1968, ospita oggi, all’aria aperta, interventi forti e sublimi di grandi artisti e architetti. Un luogo che deve la sua nuova identità a opere contemporanee di gran coraggio e intensità, come la nostra montagna di sale e l’incredibile Cretto di Burri, ovvero una massa piana crepata di cemento, grande – nel progetto – 12 ettari e ancora incompiuto, che ingloba e sigilla i drammatici resti della vecchia città.

ra che è sempre eroica e sempre inutile. E, l’orizzonte, la chiusura, la cornice, la linea, la massa, la misura, la prova e l’esperienza dell’esistenza stessa. E l’elevazione, il distacco dalla quotidianità, la ricerca del sublime, del canone o di una condizione migliore, dinamica, suprema. Ecco ciò che il nostro autore ha prelevato dalla realtà e che restituisce, aumentato in bellezza e significato. Ed ecco cosa la sposa, il nostro bel Sud, gradisce e premia con sensuoso favore: l’omaggio della forza, della passione, del rispetto e dell’intelligenza. * Slow Food

brano essere capitolati e sepolti; il candore che li isola dal suolo e che ne mostra ora le zampe, ora i fianchi, ora le teste, appare come il tempo il quale, sempre, ricopre gli accadimenti lasciandone scoperti pochi emozionanti frammenti. A ben vedere la montagna di sale assomiglia a un’invisibile clessidra, trascorsa fino all’ultimo grano. L’istallazione, nata in Sicilia, ebbe poi, nel 1995, una riedizione molto fortunata in Piazza del Plebiscito a Napoli, all’interno del colonnato della chiesa di Francesco di Paola, di fronte al Palazzo Reale, dove questo cumulo di sale e battaglia sfidava con la sua massa cristallina, bianca, piramidale, le storie e i volumi della ben nota piazza. Il sale, ci ricorda Bonito Oliva, con la sua natura doppia di farmaco e sapore, è materia di grande potenza drammatica e di grande effetto nella città più schietta e sapida d’Italia, così già perversamente incline a cauterizzare le proprie lesioni.

di Francesca Marianna Consonni*

Storie di strada, la Provinciale 21, Sicilia, zona di ricchi insediamenti fenici e spettacolo per gli occhi. Percorsi obbligati per l’arte di Mimmo Paladino, artista storico della transavanguardia


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monte un’idea semplice: una mostra d’arte contemporanea che esplori il mondo del cibo e del mangiare. A valle Geneviève Gauckler: artista grafica dalle mille risorse e dall’immaginazione inarrestabile. Il frutto di questo incontro lo abbiamo visto a Eindhoven nei Paesi Bassi al centro interdisciplinare di arte contemporanea Mu dal 25 gennaio al 5 marzo. Il mondo del cibo, dunque, in un’accezione vasta e libera: si tratta di animali che

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Una mostra d’arte che esplori il mondo del cibo e del mangiare. Volano le salsicce, animali con sei zampe prendono il tè alle 5, mentre lontano si stagliano tranci di pizza troppi perfetti per essere allettanti

Per saperne di più sul lavoro di Geneviève Gauckler: www.g2works.com Sul centro Mu: www.mu.nl

si mangiano gli uni gli altri, di erbivori contro carnivori, di mangiare troppo e male, di esseri immaginari dalle bocche enormi, della produzione intensiva di hamburger, di patate con lo smalto sulle unghie dei piedi e di meditazioni sulle pere – con sottofondo musicale, beninteso. La mostra si sviluppava in uno spazio di 600 metri quadrati, in tre sezioni che si copletavano vicendevolmente. Lungo tutto il percorso, 60 pannelli dai colori sgargianti e dall’intento goliardicamente didattico; ricordando vagamente i diagrammi scientifici dei libri scolastici, gli ometti di Geneviève sono alle prese con problemi apparentemente assai seri legati al cibo: il processo digestivo, il tipo di alimentazione e la salute, la qualità di ciò che si mangia, lo studio del comportamento sociale di fronte al cibo, i dettami pubblicitari e l’istinto animale, il tutto trattato in modo totalmente assurdo e scanzonato. Volano le salsicce, gli hamburger hanno braccine corte e occhietti tondi, animali con sei paia di zampe prendono il tè alle cinque e la rappresentazione dell’attività cerebrale di fronte al cibo è una comica ripetizione di «More! Yumm! More!»: ancora! gnam! ancora! Il totem e l’altare Diversa nello stile e nella tecnica è la grande riproduzione di un’opera già esposta nel 2006 alla Someday Gallery di Melbourne (Australia). Si tratta di un fotomontaggio impressionante: un mucchio di cibi prelibati accanto a o, piuttosto, mescolati e confusi con braccia e gambe, videoproiettori, animali, monaci zen e famiglie a passeggio. «Una sorta di totem dell’abbondanza dove la parola chiave è», a dire dell’autrice, «la nausea nell’opulenza». Sulla destra, un elicottero porta ancora del cibo (more, more, more!), in basso un turista fotografa una patata su una sedia da ufficio, nel mezzo una bocca è spalancata di fronte a torte alla crema, tranci di pizza e prelibatezze fin troppo perfette per essere davvero allettanti. Dopo questa prima sezione di pannelli stampati, nella seconda ecco diversi videoclip animati sulla falsariga di spot pubblicitari. I personaggi centrali sono salsicce, ortaggi, frutta oppure oggetti come giacconi e calzature accompagnati da testi inseriti con maestria grafica ineccepibile. È qui che abbiamo incontrato, tra gli altri, un annoiato e depresso ragazzone che consegna le pizze a domicilio, una patata vichinga amica di un fanatico di patate e un vegetariano verde per nulla pacifista che intima di

mangiare verdure armato di un’ascia e di un broccoletto. Infine la terza sezione della mostra: uno spazio poco illuminato e misterioso con un sottofondo sonoro quasi religioso e l’istallazione di un altare maestoso e imponente. Lo stile ricorda lontani luoghi di culto esotici dove si trovano, in un’accozzaglia caotica, statue rituali, ritratti di antichi maestri e offerte sotto forma di incenso, fiori, arance, riso e altri prodotti alimentari. Il messaggio è qui chiaramente contraddittorio: «È un altare al dio del consumo dove, nonostante l’abbondanza, l’imperativo rimane quello di averne sempre di più. Nello stesso tempo, però, dovrebbe richiamare alla mente il rispetto per il cibo di quei popoli che offrono al tempio quanto hanno di più prezioso e necessario: il riso, il frutto del proprio lavoro». Un messaggio che ne nascondeva e ne svelava un altro, come in quasi tutta l’opera di Geneviève: «In quello che faccio mi piace che ci siano sempre diversi livelli di comprensione. Di primo acchito ci si può fermare al feeling personale, “mi piace, non mi piace” o “mi fa ridere” o “graficamente gradevole” eccetera. Dopo di che, se si vuole interpretarne un senso più profondo, ognuno è libero di farlo, ma non è obbligatorio». Una mostra che non era un grido d’accusa, né l’ennesima opera allarmista, ecologista, salutista: solo uno sguardo lucido e disincantato sul mondo così com’è. Uno dei diagrammi pseudo-scolastici mostrava ad esempio una semplificazione della catena della produzione del cibo: tutto comincia con un lavoro di design, continua con la produzione, la distribuzione, la vendita e infine il consumo che avviene in modo del tutto passivo. Nulla è naturale: il consumatore non ha scelta, mangia il suo hamburger come conseguenza inevitabile del marketing. Altri pannelli indicano come miglior modo per procurarsi il cibo un computer. O ancora innumerevoli ometti, ciascuno con un cartello colorato con su scritto il suo piatto preferito: l’uniformità del gusto che ne risulta è volutamente disarmante. «Credo che più il messaggio è importante più deve essere trattato con umorismo» dice Geneviève, e il messaggio passava forte e chiaro. Impossibile rimanere insensibili: l’egemonia del cibo unico era rappresentata in modo tanto ironico quanto plateale, ognuno uscendo dal Mu si è portato dietro la consapevolezza che una scelta attenta è un primo passo fondamentale per affermarsi in quanto liberi individui e non più semplici consumatori. *Slow Food

Meditando sulle pere

di Serena Majo*


18scritto&mangiato

n mare di isole»: così Epeli Hau’ofa, scrittore di origine tongana, cresciuto in Nuova Guinea, professore di Antropologia a Figi – incarnazione di quella straordinaria propensione alla mobilità tipica degli oceaniani – definisce quello che noi occidentali ci ostiniamo a chiamare il quinto continente. Se il continente è «una grande estensione di terraferma», l’Oceania insulare ne è agli antipodi. Eppure, Polinesia, Melanesia e Micronesia non sono affatto isole sperdute in un oceano che Magellano definì Pacifico e che copre circa un terzo della superficie terrestre: si tratta piuttosto, appunto, di un “mare di isole”, perché le società che le hanno originariamente occupate presentano anche oggi molti aspetti in comune. È soprattutto nel rapporto con la terra e con i suoi prodotti che si possono ritrovare alcuni aspetti di quella che è stata definita la Pacific way, il modo di essere degli oceaniani. Nel 1996, erano i primi di settembre, misi per la prima volta piede su un’isola del Pacifico, a Futuna, in Polinesia Occidentale, a qualche centinaio di chilometri dalle più note Figi, Tonga e Samoa. Furono i bambini del villaggio di Ono, in cui risiedevo per preparare una ricerca sulle forme attuali di leadership politica, a farmi conoscere l’ambiente dell’isola. I bambini hanno più tempo degli adulti da dedicare alle infantili curiosità degli antropologi. «Ecco, quello è un mei, l’albero del pane». «Un pandano: con le foglie ci si fanno le stuoie e i tetti delle capanne». «Un campo di ignami». «Un campo di taro irrigato» mi ripetevano mentre, seduti nel retro di un pick-up, percorrevamo la piccola e tortuosa strada che in un paio di ore fa il giro dell’isola. Una parte importante delle piante che forniscono cibo e risorse materiali agli abitanti del Pacifico furono introdotte da quei popoli che gli archeologi hanno definito Lapita peoples (dal nome della ceramica decorata che producevano) e che i linguisti chiamano Austronesiani. Partiti dal SudEst asiatico, probabilmente da Taiwan, circa 5000 anni fa, gli Austronesiani esplorarono tutto il Pacifico colonizzando ogni scoglio che offrisse il minimo di risorse, acqua e terra, necessarie per sopravvivere. Nei loro viaggi oceanici, a bordo di grandi piroghe a bilanciere, portavano con sé tutto il necessario: tuberi di igname e taro, germogli di cocco e albero del pane, maiali e polli, serpenti non velenosi (un cibo a lunghissima scadenza) e soprattutto forme di sapere profonde e complesse: l’orientamento e

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la navigazione da un lato, la conoscenza degli ecosistemi insulari dall’altro. Il rapporto con la terra, connesso a forme peculiari di organizzazione parentale e politica, è centrale per molti oceaniani. L’oceano è un “fratello” temibile, ricco di risorse; tuttavia, anche in Oceania, è la terra a essere madre. Tradizionalmente, molte isole polinesiane erano divise a “fette di torta”. A Futuna, per esempio, ogni gruppo di parentela abita una striscia di territorio (kÇiga) che si origina sulla piattaforma corallina, dove le donne raccolgono crostacei e piccoli pesci di barriera; risale sulla terraferma dove, a ridosso della spiaggia, sorgono le abitazioni tradizionali e sempre più spesso case in muratura; sale ancora verso l’entroterra dove sono situati i “forni” a terra tradizionali (umu). Un muro costruito con blocchi di corallo che si snoda lungo tutta la costa, separa questi spazi antropizzati, che gli uomini condividevano un tempo con i maiali (ora chiusi in gabbie di metallo), da quelli più interni dove, secondo le disponibilità di acqua e l’asprezza del pendio, sorgono coltivazioni di taro secco o

ni giunsero fino alle coste americane, prelevando alcune varietà di cotone e patata dolce che si trovano guarda caso solo alle Hawaii e in Nuova Zelanda, le ultime terre colonizzate dagli Austronesiani poco più di 1000 anni fa. Essi, a quanto pare, non si fermarono sul continente americano, erano avversi ai continenti come mostra la sorprendente assenza delle loro lingue in Australia. L’ipotesi dell’approdo in America non è tuttavia condivisa da tutti gli studiosi. Quello che è certo, invece, è che proprio dall’America, con la mediazione dei colonizzatori europei, giunsero a partire dalla fine del 1700 gran parte degli alimenti che oggi forniscono un contributo fondamentale alla dieta oceania-

taro irrigato e igname, che il muro di corallo preservava dai maiali. Ancora più in alto, ecco le piantagioni di cocco e, verso la cima e nelle valli più interne, le vao matu’a, “foreste sacre”, preziose scorte di legname per ardere e costruire abitazioni e imbarcazioni. Le foreste in Polinesia erano protette da tapu imposti dai capi: gli europei tradussero tapu (o tabu) con “sacro”, connettendo la parola soltanto alla dimensione religiosa e dimenticando i risvolti “ecologici” del concetto. Fu il mancato rispetto dei tapu a portare al collasso l’isola di Pasqua, il caso più noto di disastro ambientale pre-europeo. Nei riti tradizionali di molte società dell’Oceania, gli alimenti sono ostentati negli spazi pubblici dei villaggi: si tratta spesso di veri e propri “mucchi di cibo”, in cui spiccano i prodotti della terra – taro, igname, frutti dell’albero del pane o i maiali. Lo spazio rituale per i prodotti del mare è limitato, a volte inesistente. Gli archeologi sostengono che, nei loro viaggi di esplorazione del Pacifico, gli oceania-

di Adriano Favole*

portò spostamenti di massa: alle Figi gli indiani, “importati” dagli inglesi per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero, sono oggi più numerosi delle popolazioni aborigene. In Nuova Caledonia la popolazione melanesiana, i Kanak, arriva a stento al 45% del totale. Alle Hawaii, americani, europei, cinesi divennero già a metà dell’Ottocento le comunità più numerose. Con la colonizzazione e l’arrivo di nuove comunità etniche e nazionali, altre piante, cibi, gusti, saperi si andavano aggiungendo al panorama locale. In molte isole il riso importato dall’Asia divenne ben presto cibo “tradizionale”, relegando in secondo piano i tuberi locali ricchi di fibra. Taro e igname sono oggi alle Hawaii cibo per ricchi: i

amici polinesiani mi invitavano spesso a intingere il pane delle baguette (anche il pane è entrato nella dieta delle aree francofone nel periodo post-bellico) nel “succo” avvolto in foglie di banano e formato dal latte di cocco e dal grasso liquido delle carni in scatola. Il pane spalmato con margarine vegetali di olio di colza, “pucciato” nell’immancabile Nescafé solubile, ha accompagnato gran parte dei miei incontri con le comunità del Pacifico, dalla società polinesiana di Futuna alle società Kanak dell’interno della Nuova Caledonia, agli abitanti dell’atollo corallino di Ouvéa. La carne in scatola, integrata oggi da carni surgelate di dubbia provenienza e qualità, hanno consentito a molte

Cibi nella

corrente Un mare di isole in rapporto con la terra e i suoi prodotti, per ritrovare alcuni aspetti della cosiddetta Pacific way, il modo di essere degli oceaniani

na. Manioca, patate dolci, mango, papaia, ananas così come varietà più grandi di maiali sono oggi parte integrante del paesaggio, della cucina locale, del rituale. A quanto pare furono i missionari francesi e italiani a piantare gli agrumi (arance, limoni, pompelmi, lime) che crescono a fatica e sono apprezzati più per le foglie aromatiche che per i frutti. Né la vite né l’olivo si rivelarono adatti ai climi oceaniani. La colonizzazione com-

Polinesiani delle Hawaii ricorrono piuttosto al fast food, pratico e poco costoso. L’alimentazione del Pacifico contemporaneo è in effetti il frutto di tre “correnti” che nel tempo hanno investito le isole: la corrente degli Austronesiani che, per primi, esplorarono e abitarono l’Oceania; la corrente dei colonizzatori e degli evangelizzatori europei e occidentali e infine quella della globalizzazione post-bellica. La seconda guerra mondiale ebbe un impatto fortissimo sulle popolazioni del Pacifico. Alcune aree rimasero isolate per anni, altre furono invase da milioni di soldati. Con gli eserciti viaggiavano i cibi, alcuni dei quali entrarono ben presto nel paniere degli alimenti “tipici” e nell’immaginario degli oceaniani. Carne e pesce in scatola, gallette, alimenti a lunga conservazione in dotazione ai combattenti, sono oggi una presenza costante della dieta locale. Nell’umu, il forno polinesiano, cuociono oggi accanto a taro, igname e banane, carne in scatola neozelandese e sgombri dell’Atlantico: i miei

società insulari di vincere un’antica carenza, quella di grassi di origine animale. Mi ha sempre colpito la cura con cui molti Polinesiani consumano le parti grasse degli alimenti, quali l’occhio del pesce, il fegato del granchio del cocco, il grasso del maiale: atteggiamento opposto e speculare alla cura con cui molti italiani eliminano le venature bianche dal prosciutto crudo. Per secoli, in ambienti quasi del tutto privi di mammiferi terrestri, la carne fu un desiderio insaziato. Oggi però, più che colmare la carenza, l’alimentazione globalizzata ha creato il fenomeno opposto: un consumo eccessivo di grassi e alimenti privi di fibre, con conseguenze molto gravi sulla salute. Senza contare gli accumuli di rifiuti, molto difficili da smaltire nei piccoli e fragili ecosistemi insulari. Ai tradizionali “mucchi di cibo”, celebrazioni della fecondità della terra, si affiancano oggi “mucchi di spazzatura”, celebrazioni di un mondo in preda a una sorta di ansia spasmodica da consumo. * Slow Food


Dublino c’è chi sostiene che James Joyce si stia ancora rivoltando nella tomba nel vedere come è stato trasformato il Davy Byrne’s, il pub dove Leopold Bloom, protagonista dell’Ulisse, si ferma a mangiare un panino al gorgonzola e bere un bicchiere di Borgogna. Oggi il locale di Duke Street ha perso parte del suo fascino e, se si escludono la cortesia del patron, l’ottimo salmone e i prezzi accettabili in rapporto alla qualità del cibo, non ha particolari attrattive. D’altra parte, un radicale restauro dello storico locale risale già al 1941, proprio l’anno della morte di Joyce. I fans dello scrittore comunque non mancano mai, soprattutto il 16 giugno, quando Dublino festeggia il Bloomsday, cioè il giorno in cui Joyce ha fissato sulla pagina le moderne peregrinazioni del protagonista del suo capolavoro. Gruppi di dublinesi e di turisti si accalcano al Davy Byrne’s per gustare il panino e il bicchiere di vino che hanno reso celebre il locale. Che può vantare altre famose frequentazioni letterarie, come Brendan Behan, Pádraic Ó’Conaire, Flann O’Brien. Proprio Brendan Behan, ubriacone impenitente, oltre che famoso drammaturgo e membro dell’Ira, morto nel 1964 a soli 41 anni, può farci da guida ideale nei pub del centro di Dublino. Lui li frequentava più o meno tutti e dovunque ha lasciato qualche traccia delle sue burrascose presenze. Celebre la sua battuta: «Sono un bevitore con il problema della scrittura», che fa il paio con l’altrettanto folgorante sentenza di Oscar Wilde, altro dublinese: «Il lavoro è la maledizione delle classi bevitrici».

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McDaid’s Il centro di Dublino è rimasto piacevolmente raccolto e l’area pedonale intorno a Grafton Street – cuore dello shopping irlandese – si gira in pochi minuti. A piedi, fortunatamente, perché tutt’intorno il traffico – negli anni ruggenti dell’economia irlandese – è diventato insostenibile. Il prezzo che la cosiddetta Celtic Tiger sta pagando al progresso per il repentino passaggio dall’economia agricola a quella post-industriale. Da Duke Street in pochi attimi si arriva in Harry Street, dove c’è il McDaid’s, il pub eletto come suo palcoscenico da Behan negli anni Cinquanta, luogo preferito dall’avanguardia letteraria e da molti attori. Tra gli altri Patrick Kavanagh, Liam O’Flaherty, Austin Clarke, Tony Cronin, John Jordan. Qui non molto è cambiato da allora: i legni scuriti dal fumo, gli specchi, le ceramiche colorate e una frequentazione di giovani intellettuali. L’edificio, che risale al

Storie di luoghi ebbri 1873, ha una storia abbastanza curiosa. Fu in origine la morgue di Dublino (la commistione tra pub e obitorio non era infrequente in Irlanda fino al 1962, quando fu cancellata per legge), ma già ai primi del Novecento – cambiata destinazione d’uso – il pub era diventato uno dei luoghi di ritrovo degli irlandesi repubblicani e, di conseguenza, di spie inglesi. Negli anni Trenta diventò popolare fra gli operai della zona, fino a quando lo scrittore John Ryan, curatore del periodico letterario Envoy, lo elesse a ritrovo dei suoi amici scrittori e giornalisti. Le due anime del locale – la proletaria e la letteraria – hanno continuato a convivere senza grossi problemi, come ha raccontato Paddy O’Brien, che ne fu il barman dal 1937 al 1972. Poi arrivarono gli anni di Brendan Behan che scriveva (e beveva) in un angolo, battendo sulla sua sgangherata macchina da scrivere. C’è una foto che ritrae l’autore del Ragazzo di Borstal seduto, accanto due pinte di birra, una piena e una vuota, e la sigaretta penzolante a un angolo della bocca. Epiche le sbronze, le discussioni e le liti fra Behan, Kavanagh e Flann O’Brien che all’epoca scriveva per l’Irish Time: episodi che fanno parte della storia e della cultura dell’Irish pub. Pastiche style Istituzione che negli ultimi anni sta correndo non pochi pericoli, se è vero che, solo negli anni Novanta, 20 dei 22 bar di Temple Bar, il più noto quartiere del divertimento e della cultura di Dublino, sono stati sottoposti a lavori di “restau-

di Dario Bragaglia*

Di pub in pub nei giorni e nelle notti di Dublino, tra legni scuriti dal fumo e ceramiche colorate. Un pellegrinaggio all’ombra di giovani e vecchi intellettuali ro”. Un modo per far fronte alla crescente domanda di una generazione più abbiente e disposta a spendere e alla massa di turisti, attratti paradossalmente dalla curiosità di scoprire un’Irlanda ancora “tradizionale”. Se molti proprietari sono sfuggiti alla tentazione dei cosiddetti “superpub”, capaci di accogliere migliaia di persone (tipo l’Oliver St John Gogarthy o The Temple Bar, nel quartiere omonimo), alcuni non hanno resistito alle lusinghe del pastiche style, che esibisce oggetti, targhe e complementi dell’arredo che rimandano ai “bei tempi andati”. Insomma, un’invenzione della tradizione in piena regola, con pub rifatti a nuovo assemblando materiale più o meno antico recuperato qua e là. Anche gli spazi sono ora più ampi rispetto ai locali di 20 o 30 anni fa: più di un terzo dei pub irlandesi ha aumentato le superfici nella seconda metà degli anni Novanta. D’altra parte negli ultimi 15 anni il concetto è stato espor-

GLI INDIRIZZI The Brazen Head, 20 Lower Bridge Street Davy Byrne’s, 21 Duke Street The Duke, 9 Duke Street Kavanagh’s, 1-2 Prospect Square, Glasvenin The Long Hall, 51 Great Georges, Street South Madigan’s, 25 North Earl Street McDaid’s, 3 Harry Street Mulligan’s, 8 Poolberg Street The Palace, 21 Fleet Street

tato in ogni parte del mondo. Oggi ci sono società come la Irish Pub Company che forniscono consulenze chiavi in mano per la progettazione e l’installazione di “autentici” pub irlandesi. È già successo oltre 400 volte in una quarantina di paesi del mondo, con variazioni sul tema che spaziano dallo stile country cottage, al gaelic, dal traditional al Victorian Dublin. Mulligan’s Una delle caratteristiche dei pub irlandesi è da sempre la conduzione familiare. Ancora all’inizio di questo millennio, degli 11 000 locali circa l’88% apparteneva a singoli proprietari. In Irlanda del Nord la percentuale sale al 95%. È stato però calcolato che meno di 200 appartengono alla stessa famiglia da più di 100 anni. A Dublino e nella sua contea solo uno può vantare questa caratteristica, il periferico John Kavanagh’s di Prospect Square, Glasnevin. Il fatto è che negli ultimi 30 anni il prezzo degli stabili a Dublino è salito vertiginosamente e le nuove generazioni di publicans hanno spesso deciso di vendere, interrompendo l’attività di famiglia. Spostiamoci all’8 di Poolberg Street per scoprire un’altra delle istituzioni dublinesi, il Mulligan’s. Siamo quasi sulle rive del Liffey, in un angolo della città funestato dall’Hawkins House, un edificio per uffici costruito dove c’era l’Old Theatre Royal. Fortunatamente resiste il Mulligan’s, con la classica facciata che esibisce l’anno di fondazione, il 1782, anche se l’edificio attuale risale alla metà dell’Ottocento. Per anni il locale ha avuto la reputazione di servire la migliore pint of Guinness della città e fra i suoi molti frequentatori può annoverare un giovanissimo John Fitzgerald Kennedy. È da Mulligan’s che Joyce ambienta uno dei racconti di Gente di Dublino, “Counterparts” (“Un’Ave Maria”) e il pub è stato usato come location per alcune scene del film di Jim Sheridan Il mio piede sinistro. Qui si concede ancora poco alle mode più re-

centi: niente cibo e niente cellulari. Una frequentazione di pensionati a metà pomeriggio, rigorosamente in giacca di tweed, impermeabile e coppola, prima dell’invasione da parte degli impiegati usciti dal lavoro. D’altra parte, lo stile sobrio appartiene al locale fin dalle origini, quando James Mulligan bandì sgabelli e sedie perché, sosteneva, il vero uomo deve bere in piedi. L’ultimo dei Mulligan morì nel 1932, lasciando il locale a Mick Smith che a sua volta nel 1962 lo passò al nipote che ancora lo conduce. Men only A proposito di “veri uomini” c’è da dire che il pub irlandese è stato una roccaforte maschile fino agli anni Sessanta e oltre. Ancora nel decennio successivo non era infrequente vedere donne e bambini aspettare mariti e padri fuori dalla porta. Le donne non erano ben viste all’interno, soprattutto al banco: se accompagnate, si potevano sistemare nella lounge, la parte più elegante, tranquilla e meglio arredata (e anche quella con i prezzi più alti). Soltanto nell’ottobre 2000, con l’approvazione dell’Equal Status Act, è diventato definitivamente illegale rifiutarsi di servire qualcuno «in base al genere, allo stato civile, all’orientamento sessuale, al credo religioso, all’età, alla razza…». L’apertura alle donne ha portato alcuni cambiamenti: i pub sono diventati meno spartani, più confortevoli e, si dice, con toilette più pulite, anche se frequentandoli vi potrà capitare di fare qualche notevole incontro con orinatoi del passato. E, dal marzo 2004, una legge salutista ma impopolare ha bandito il fumo, costringendo i frequentatori a soste sotto le stelle nell’umido clima isolano. Attraversato il Liffey sul ponte di O’Connell Street, sarà la statua di un Joyce dall’espressione meditativa all’angolo di North Earl Street a indicarci la strada del Madigan’s, un pub frequentato dallo scrittore. Il tempo corre, e i pub di Dublino da visitare prima che si modernizzino del tutto sono ancora molti. Fra questi il classico The Palace, lo storico Brazen Head, il vittoriano The Long Hall, il georgiano (dopo il restauro) Duke. Tutti luoghi irrinunciabili per conoscere la storia di Dublino e dei suoi scrittori. *Slow Food

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nvoltini di bruco, arrostino di topo, leccalecca al bacherozzo, spezzatino di scimmia con le arachidi… Per sfidare divieti e tabù, il compianto Luigi Veronelli, quindici anni fa si era divertito a raccogliere alcune ricette, repellenti o prelibate a seconda degli immaginari e delle culture: Tredici ricette per vari disgusti, pubblicate dalla casa editrice Elèuthera in un volumetto dal titolo Vietato vietare. Di più: nella sua introduzione satirica, nel solco di Jonathan Swift (Una modesta proposta: ingrassare i figli dei poveri e farne nutrimento per i ricchi irlandesi), Veronelli propone il top della… cucina antropofaga: sartine ripiene, con aggiunta di pinoli, prezzemolo, acciughe e uva sultanina. Un invito a papparsi la vicina? Piuttosto una sfida semiseria al tabù dei tabù, quello di mangiare carne umana, additando al contempo la “mala cucina” dei potenti - “Cuoco, cuoco della mala cucina, che fa il re con la schiava saracina?”, recita infatti la filastrocca infantile. Sullo stesso registro, la postfazione di Andrea Perin – già autore, per Elèuthera, di La fame aguzza l’ingegno – che attualizza il volume. Non esistono gusti innati – ricorda Perin -, l’unico sembra essere quello dolce, da cui i neonati sono istintivamente attratti, per il resto, tutto è frutto di usanze e disponibilità economiche: usanze che a volte si perdono nel tempo con il mutare delle condizioni. E cita l’esempio dei giapponesi, che negli ultimi anni hanno visto crollare del 20% il consumo di pesce – su cui da sempre si basava la loro dieta – a favore della carne. Tanto che “ormai si è arrivati praticamente al pareggio”: 12,6 chilogrammi di carne pro-capite, contro 12,7 di pesce nel 2005. Ai tempi della globalizzazione, gusti e disgusti si mondializzano, rendendo ap-

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petibili anche i peggiori incubi alimentari, ordinabili tramite internet come all’indirizzo www.edible.com . Nuovi gusti, ma anche nuovi disgusti scompaginano abitudini consolidate. Disgusti di natura etica, che regolano lo stile di vita secondo il livello di impatto ambientale, che rifiutano di mangiare “cibo spazzatura”, carne o proteine animali. Secondo dati Eurispes del 2006 – citati nel volume – in Italia i vegetariani sono circa 6 milioni, e diventeranno 30 milioni nel 2050. Sono per il 70% donne, di età compresa fra i 25 e i 54 anni (62%) e con un livello di istruzione medio alto (85%). E poi, disgusto per il grasso, legato ai nuovi modelli sociali considerati vincenti. Insalate scondite contro gli intingoli della cucina tradizionale, simbolo di ciccia e feste popolari. “Non esagero mai con la dieta. Non voglio rischiare di fare magre figure”, scrive la poeta co-

mica Alessandra Berardi nel suo ultimo libro di “euforismi & aforismi” Cogli l’ottimo, edito da Alberto Perdisa. E ancora: “L’obeso è come Doctor Jekyll:ha una doppia vita”; “Lo chef del ristorante vegetariano è un cuoco di paglia”. Oppure: “Sulla nave si mangiava benissimo.C’era un cuoco d’alto brodo”;”Mi mangiava con gli occhi. Aveva delle pupille gustative”. E poi: ”Mangiatrice di uomini:dai legami ai tegami” Al genio di Veronelli rende merito anche il volume della giornalista Licia Granello Mai fragole a dicembre (Prefazione di Natalia Aspesi, Mondadori), che articola “il piacere della tavola secondo le stagioni”. Veronelli è definito “l’uomo che ha scardinato il concetto dualistico di cibo, inteso come elemento di sussistenza o squisito piacere edonistico”. Un uomo elegante e colto, irrimediabilmente attratto dai contadini e dagli umili, “i vinti mai vinti” che possiedono segreti legami con la natura, “madre e mai matrigna”. In questa chiave, uno dei ritratti iniziali di Granello è perciò dedicato ai contadini come Maria, “adolescente silana con addosso più fame che speranze”, diventata una produttrice di robiola di fama internazionale grazie a una iniziativa di Slow Food. Ma quando le chiedono di andare a inse-

di Geraldina Colotti

Gusti e disgusti, scompaginando abitudini consolidate e giocando con le ricette e con le parole. Un itinerario libresco da divorare. “Elementare Watson”

sue fortune, ma anche le sue disgrazie, con cui Milton delizierà il palato del lettore goloso. Entrando nel negozio dei Trencom al mattino, anche il lettore potrà fantasticare su quel che accadeva davvero nel mondo notturno dei formaggi. “Forse che i tomini corteggiavano le piccole forme di picodon? O i gaperon le slanciate forme di bûchette? Qualunque fossero le stravaganze che avvenivano durante le ore di chiusura e che nessuno avrebbe mai potuto accertare, di certo i formaggi impregnavano il negozio di un odore mattutino assai caratteristico, e ambiguo: quel gradevole-sgradevole odore che rimane intrappolato sotto il piumone di una coppia di giovani amanti”. Insomma, una lettura odorosa, per mantenersi … in forma. “Oh, Fabullo – si potrebbe dire giocando col Carme 13 di Catullo – pregherai gli dei che ti facciano diventare tutto… omaso”. Omaso, dal latino omasum, non è però “il profumo che Venere e tutti gli Amorini” donarono alla ragazza del poeta e che questi avrebbe offerto al suo ospite qualora non si fosse presentato a mani vuote. Significa letteralmente “grasso di bue”. Si chiama omaso uno dei tre prestomaci di cui si compone l’apparato digerente del bovino. Gli altri due so-

Il cuoco del

gnare la sua tecnica di caseificazione negli Stati uniti, Maria rifiuta: se si allontana dalla cascina di Roccaverano, chi curerà la sue capre? Tome, tomini, parmigiano e altre forme di cremose o stagionate prelibatezze popolano il romanzo di Giles Milton, Delitti e formaggi, edito da Ponte alle grazie. Un’avventura di stampo britannico che narra le gesta odorose di Edward Trencom, o meglio del suo naso. Un naso veramente straordinario, lungo e aquilino, dotato di una notevole protuberanza, perfettamente circolare sopra il ponte: “un naso veramente greco-romano, che corrispondeva all’ideale saffico di bellezza con una sfumatura di rigoroso senso del dovere virgiliano”. Serve a cogliere e valutare le più sottili fragranze odorose prodotte nell’azienda di famiglia dalla metà del Seicento ai giorni nostri. Al naso, la famiglia Trencom deve le

no rumine e reticolo, poi c’è lo stomaco vero e proprio, l’abomaso, da non confondere, come molti fanno, con l’intestino. L’omaso si può, però, cucinare in tanti modi appetitosi, consigliati da Roberta Schira e Franco Cazzamali ne Il libro delle frattaglie (Ponte alle Grazie). Ricette da ogni regione d’Italia per raccontare “vita morte e miracoli e filosofia delle frattaglie”: Sapori di un tempo che – assicurano la “dietista golosa” Schira e il macellaio filosofo Cazzamali – oltre a essere poco costosi, sono anche sani e consigliabili in una dieta bilanciata. Per esempio, ecco la Tofeja, una zuppa piemontese di fagioli, cotiche e frattaglie di maiale. Si tratta di un’antica ricetta medievale a cottura lunga e lenta, prende il nome dal recipiente di coccio a quattro manici, che veniva messo in forno dopo la cottura del pane e in cui la zuppa veniva lasciata a cuocere fin-


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ché il forno non si raffreddava. Narra la leggenda che allora, nella zona di Ivrea, il giorno dell’Assunta i ricchi signori della città distribuissero legumi e fagioli secchi alla popolazione e consentissero l’uso gratuito dei forni. Ma un giorno i poveri, stufi di tasse, miseria e fagioli, gettarono tutto per strada, inaugurando così una tradizione di Ivrea che continua ancora oggi. E poi c’è la zuppa di trippa “sbira”, forse chiamata così da sbirro, riferito alle guardie carcerarie di Palazzo Ducale. Ci vogliono funghi secchi, lardo e brodo di carne, e al termine di una cottura di 70 minuti, la zuppa deve risultare piuttosto asciutta. Poi, si devono riempire di pane raffermo le fondine (intese come piatti), ricoprire con la trippa e spolverizzare con il formaggio. Anche Sean, autore del corrosivo romanzo dello scozzese Mark McNay, Al fresco, (Piemme), scaglierebbe volentieri polli in faccia ai ricchi, come i contadini di Ivrea con i fagioli. Ma qui, siamo nell’algida Scozia, e i pennuti che frequenta Sean sono legati alla catena di montaggio della fabbrica di polli in cui lavora. Sean li guarda passare e ogni tanto ne colpisce qualcuno con un diretto. E sogna di essere sul ring, pronto a realizzare il più grande dei suoi sogni

la testa anni addietro e con cui ha avuto una figlia: due buone ragioni per conservare quel lavoro alienante e rinunciare ad altre ambizioni. Per vendicarsi della sua vita piatta e di quella cittadina gommosa quanto il sunnominato cheddar, Sean si concede ogni tanto qualche piccola trasgressione: affida al sedere del pollo un messaggino particolare… Quale? I lettori lo scopriranno alzando il sipario sul pranzo di una tranquilla famigliola, e seguendo le esilaranti peripezie di Sean sul ring dei pennuti. E per finire, Storie di politica sospetta, una raccolta di racconti gialli di Manuel Vázquez Montalbán, (Feltrinelli). Tre racconti di vecchi, di angoli remoti e tristi e di “cause agonizzanti”, residuo di una Spagna ancora pericolosamente in bilico sul suo passato franchista. Al centro, naturalmente, sempre il detective Pepe Carvalho e il suo assistente Biscuter, e numerose ricette succulente, che suscitano appetito e nostalgia nei lettori ancora inconsolabili per la perdita dello scrittore spagnolo. Nel primo racconto, Pepe deve vedersela con una banda di nazistelli ed ex-legionari decisi a compiere un colpo di stato da operetta. Il secondo si svolge in un ospizio per anziani, dove un ospite è stato ucciso in circo-

lla mala cucina

mancati. A ogni pollo che passa sul nastro, lui lo segue, fa una finta e gli sferra un sinistro-destro. Il petto grasso, quando riceve la botta, sembra proprio una guancia umana. Qualche volta il pugno fa schizzare via un pezzetto di grasso che assomiglia a un dente. Stupendo, una specie di allenamento pagato cinque sterline all’ora. Il round si conclude e lui risulta campione indiscusso. Riprenderà ad allenarsi al momento della pausa, aspettando il pranzo che come al solito tarda ad arrivare: si comincia sempre con un cartoccio di patatine sale e aceto, “forti e croccanti e proprio la dose giusta per mettere in moto la digestione in vista dei tramezzini al formaggio. Una bella fetta di soffice pane bianco, fresco di frigo e gommosino, che rilascia lentamente il gusto del cheddar comprato da Maggie alla Coop”. Maggie è la donna per cui ha perso

stanze misteriose. Il terzo si sviluppa intorno a una bellezza mozzafiato che cerca di scoprire di che sia morto il nonno. E intanto, nella piccola cucina del detective, si fanno discorsi sulla causa intima dell’universo e commenti su un risotto ai carciofi che si sta preparando. Un soffritto, molti carciofi, zafferano, un grosso peperone dolce, e nient’altro. Pepe Carvalho, in casa, tende al risparmio: “Non so perché risparmia così tanto, capo”, dice l’assistente Biscuter, uno di questi giorni rimane secco e tutto quel che ha saranno i vermi a mangiarselo”. Ma Carvalho insegue i suoi pensieri. Lo ha appena chiamato un vecchio amico, un cristiano testimonialista che egli rivede alla testa di manifestazioni antifranchiste, convinto di essere protetto dalla fede, “mentre veniva manganellato dalla polizia più di tutti gli altri manifestanti messi insieme”.

E poi, si parte. Lungo la strada, un piatto di lenticchie con salame piccante inchioda Carvalho “alla solidità del reale”. All’arrivo, una cena frugale. L’amico prete è di quelli che “mangiano per vivere e non vivono per mangiare”. Carvalho avrebbe voluto ritrovare il sapore delle specialità della Mancia: l’agnello e il formaggio; ma l’agnello non c’era e il formaggio era un “manchego tanto industriale da sembrare ricavato dalle scorte eccedenti del raccolto di patate di quell’anno, a quanto pare eccellente”. Si rifarà con la cucina delle suore, a base di crepes di piedini di maiale con l’alioli. Come dessert? Un altro auforisma-euforisma culinario di Alessandra Berardi: “Nei polizieschi si parla sempre di roba da mangiare. Alimentare, Watson”. Ricette di riso-sorriso per cogliere il meglio (oppure il miglio).


22scritto&mangiato

Dentro

il deserto

i concerti, come biglietto d’ingresso chiedono farina, riso, zucchero, pelati o altri generi di prima necessità, con l’intento di coniugare musica, divertimento e impegno sociale. Si chiamano i Creativi della notte (www.creatividellanottemusicforpeace.org) e nascono a Genova nel 1988 da un’idea di Stefano Rebora, direttore artistico di locali notturni di provata esperienza. Visto il successo dell’iniziativa, nel ’94 diventano un’organizzazione umanitaria, Creativi della notte music for peace, e nel 2002 si trasformano in una Onlus con il medesimo nome. «Lo spettacolo è il mezzo», dicono, «il fine è quello della solidarietà fra i popoli mediante una politica dello scambio». Fino a oggi, appoggiandosi ad alcune associazioni come Emergency o Movimondo, o a strutture della chiesa cattolica di base, hanno raccolto cibo, medicine e vestiario per diverse missioni di pace: Afghani-

A

stan, Iraq, Palestina, Sudan, Saharawi. Dal 2007, con una manifestazione itinerante nel territorio ligure, i Creativi della notte hanno messo insieme 80 tonnellate di alimenti e generi di prima necessità, fra cui una tonnellata di alimenti per celiaci, destinati ai campi di rifugiati Saharawi nel deserto algerino. Media luna roja Saharawi e Croissant rouge algerien – la Croce rossa Saharawi e algerina - hanno fatto da supporto e garanzia in loco. Anche un video, Dalla gente per la gente, Solidar bus 2007 destinazione Saharawi, regia di Stefano Rebora e riprese di Giuseppe Rizzo, fruibile in italiano, francese e spagnolo, documenta tutte le fasi del viaggio umanitario: spediti dapprima via mare in Algeria, i container di alimenti, cisterne per l’acqua potabile e medicinali, proseguono poi sui camion scalcinati, i soli mezzi con cui vengono portati i rifornimenti ai rifugiati. Giorni di marcia sotto il sole cocente, alleviati da brevi pau-

se in cui si cucina la pasta coi fornelletti da campeggio, si centellina l’acqua potabile, si beve il the preparato dalle guide, all’ombra dei camion. E poi la distribuzione degli aiuti nei campi profughi - villaggi di tende, mattoni o lamiere - in cui vivono oltre 160.000 rifugiati: profughi che, nel 1976, vennero costretti a fuggire dal Sahara occidentale, invaso allora dal Marocco e dalla Mauritania, dopo il ritiro della Spagna dal territorio africano. A dirigere le operazioni di smistamento sono soprattutto le donne, che occupano un posto importante nella struttura societaria della Repubblica araba democratica Saharawi, il governo in esilio dei saharawi. A ogni famiglia, va un pacco da 20 chili, ma poi le famiglie scambiano fra loro, secondo le necessità, un genere alimentare o l’altro. «La solidarietà internazionale è molto importante, il nostro popolo non ha abbastanza da mangiare» – dice al manifesto Ammi Mohamed Sa-

lem, funzionario di Media Luna Roja Saharawi, invitato in Italia dai Creativi della notte. E spiega: «Nel 2005, il Pam, il Programma alimentare mondiale, l’organizzazione per gli aiuti alimentari delle Nazioni unite, ha ridotto il numero dei beneficiari nei campi profughi a 80.000. In questo modo, con la stessa quantità, abbiamo dovuto sfamare il doppio di persone. E oltretutto il Pam distribuisce soltanto alimenti base: farina, olio, zucchero. Un litro d’olio al mese o tre chili di farina a persona sono pochi. I bambini soffrono di malnutrizione, l’anemia è molto diffusa, il 66% delle donne in età fertile ne soffre. Lo dice uno studio dell’Inran, l’Istituto italiano di ricerca per gli alimenti e la nutrizione». I bambini – spiega ancora Ammi – «hanno molti problemi di crescita anche a causa della mancanza di prodotti freschi. Nel corso degli anni, abbiamo costruito dei sistemi di canalizzazione, ma non bastano. L’acqua arriva con le cisterne, una cisterna deve bastare per 6.000 rifugiati. Quando finisce e i camion non arrivano, restiamo senza». Dal 2006 – dice ancora Ammi - «negli aiuti umanitari sono stati introdotti anche alcuni prodotti freschi, ma la situazione dell’agricoltura resta catastrofica». Il vero nodo, però, è politico. Al riguardo, la posizione di Ammi, è chiara: «non siamo semplici rifugiati – dice con forza -, ma un popolo che è stato cacciato dal proprio territorio e che ha diritto all’autodeterminazione. La nostra richiesta resta la stessa da anni: un referendum che dia alla popolazione facoltà di decidere se vuole semplicemente l’autonomia sotto la bandiera marocchina, come vorrebbe il Marocco, o se sceglie l’autodeterminazione. E’ questo l’impegno preso dalla Missione delle Nazioni unite. D’altronde, dopo l’indipendenza del Kosovo, si vede l’uso di due pesi e due misure: perché il popolo saharawi, così come quello palestinese, devono continuare a soffrire?». Un punto, quello del referendum, su cui si sono arenate le trattative, iniziate con il cessate il fuoco del 1991. Allora, il Fronte Polisario, l’organizzazione di resistenza armata dei saharawi, era riuscita a riprendersi

di Geraldina Colotti

La tragica situazione alimentare del popolo saharawi. Una cisterna d’acqua ogni 6.000 rifugiati, anemia tra le donne e malnutrizione acuta tra i bambini. Quel che si fa e quel che si potrebbe fare

quasi il 50% del Sahara occidentale. Il governo marocchino ha però costruito «un muro di sabbia e cemento e disseminato mine tutt’intorno», racconta Ammi, e torna a denunciare la situazione drammatica dei saharawi che vivono nei territori occupati: «torture, sparizioni, manifestazioni pacifiche represse nel sangue». Ci sarà un futuro prossimo per l’autoderminazione con la ripresa dei negoziati internazionali? «Il tentativo di negoziato, in corso negli Stati uniti, è giunto al suo quarto round – risponde Ammi – ma finché il Marocco resta fermo sulle sue posizioni, al popolo saharawi non resterà che continuare a resistere». Resistere al di qua e al di là del muro di sabbia. Secondo Rabat, la zona di Tifariti, smilitarizzata dall’Onu, sarebbe solo una «zona tampone» del Sahara occidentale. Per il Fronte Polisario, che lotta per l’indipendenza, si tratta invece di una zona liberata. Lì, il 27 febbraio scorso, è stato eletto un nuovo Consiglio nazionale della Repubblica araba democratica saharawi, proclamatasi governo in esilio nel ‘76. Nello stesso giorno, a Tifariti, Mohamed Abdelaziz, capo del Fronte Polisario, ha posto la prima pietra di un complesso sportivo, finanziato in parte dall’Africa del sud, che comprende uno stadio di calcio e delle aree di gioco per i bambini. A Tifariti, dovrebbe risiedere il municipio saharawi.



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