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Supplemento al numero odierno de il manifesto
UNMONDO
SENZA CODE Lo stato dell’e-government, il governo elettronico fra sogni, realtà e nuove forme di democrazia. Perché l’Italia è 27esima, l’ultima dei primi
Se controlli regolarmente che la pressione dei tuoi pneumatici sia quella corretta puoi ridurre i consumi di carburante e risparmiare oltre 60 euro all’anno. E seguendo i 24 consigli di Eni puoi diminuire fino al 30% il costo dell’energia nella tua famiglia risparmiando fino a 1600 euro all’anno. Dal 2007 Eni è presente nei più importanti indici di sostenibilità.
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direttore responsabile Sandro Medici Via A. Bargoni, 8 00153 Roma tel. 06687191 www.ilmanifesto.it
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fondamentale per la crescita, per esplorare nuovi spazi di partecipazione politica, per garantire accesso universale alla società della conoscenza, per contaminare il mondo pubblico con le pratiche orizzontali nate con l’ultima internet, il cosiddetto web 2.0. Ma anche per ricordare quei progetti che hanno illuso il cittadino con una rivoluzione che non si è mai materializzata. Tipo la carta d’identità elettronica: era «pronta» nel 2001, secondo l’allora ministro dell’interno Enzo Bianco, poi nel 2005 (parola di Lucio Stanca, ministro per l’innovazione e in corsa per tornare con il Berlusconi tris) e stava per partire anche nel 2007 (parere di Luigi Nicolais, ultimo titolare della funzione pubblica). Secondo un recente rapporto del World Economic Forum (Wef), per quanto concerne l’e-government l’Italia è 27esima al mon-
do, ultima tra gli stati avanzati e superata anche dall’Estonia. Per molti non sarà una sorpresa, per chi parla di innovazione sarà uno schiaffo, ma un motivo ci sarà. Ci sarebbe piaciuto ricordarlo a una sinistra al governo. Ora ci tocca sperare che qualcuno, a destra, ascolti.
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WEB PUBBLICO
E-DEMOCRACY
WEB 2.0
PASSPARTOUT
SAN FRANCISCO
supplemento a cura di Francesco Paternò
progetto grafico e impaginazione ab&c grafica e multimedia Via A. Bargoni, 8 00153 Roma tel.0668308613 www.ab-c.it pubblicità poster srl Via A. Bargoni, 78 00153 Roma tel.0668896911 www.poster-pr.it stampa Sigraf srl Via Vailate 14, Calvenzano [BG]
chiuso in redazione: 18 aprile 2008
Se la rete non è ancora per tutti di Gabriele De Palma
NUMERO
agari lo indichiamo come impegno per il prossimo governo. E magari ci puntiamo ancora di più, sebbene Silvio Berlusconi abbia appena confessato in campagna elettorale di non avere mai utilizzato internet. Infatti l’ha vinta con le televisioni. Dedichiamo questo supplemento, in collaborazione con i nostri sapienti amici di Totem, a quel che gli addetti ai lavori chiamano e-government, in italiano si traduce con «governo elettronico». Tecnicamente, indica uffici pubblici capaci di usare le nuove tecnologie (Ict) per creare efficienza e offrire servizi ai cittadini. Sui media diventa spesso un mondo senza code agli sportelli, certificati erogati via internet e nuove forme di democrazia elettronica. Quasi ovunque ha dato origine a grandi speranze, molti sprechi, annunci spettacolari e risultati inferiori alle aspettative, come ha recentemente ricordato il settimanale inglese The Economist. Un bilancio di cui diamo conto nelle pagine seguenti. Tuttavia, nonostante i problemi, l’e-government resta un ambito cruciale per lo sviluppo di un Paese moderno. Perché un’amministrazione pubblica in grado di usare la leva tecnologica è
direttori Mariuccia Ciotta Gabriele Polo
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l’e-pubblico
il manifesto
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ONOFF
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Siti pubblici, lavori in corso di Federica Antonacci
Lo stato non è mica tanto virtuale di Raffaele Mastrolonardo
Viaggio nella nuova internet pubblica di Domenico Pennone
La carta d’identità può attendere di Walter Molino
Quando il pc sbaglia di Patrizia Cortellessa
EDITORIA
Libri per nulla virtuali di Geraldina Colotti
information technology • il manifesto • [3]
Se la rete non è ancora per tutti
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Gabriele De Palma
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iamo in una nuova fase nella lotta per abbattere il digital divide. Ora sono le Regioni e le autonomie locali, con la regia del governo, ad alimentare la speranza di dotare il Paese di un’infrastruttura di tlc all’altezza delle aspettative di una democrazie moderna. Il governatore Renato Soru ha annunciato di portare la banda larga in tutta la Sardegna entro l’anno; l’Emilia Romagna lo farà nel 2009; le Marche hanno la migliore connettività dei distretti industriali; il Piemonte sta cercando di risolvere i problemi del suo territorio montuoso, attraverso accordi per la connettività senza fili; la Liguria spenderà 29 milioni di euro per ridurre la distanza tecnologica dell’entroterra rispetto alla fascia costiera. L’infrastruttura è la condizione indispensabile per l’erogazione di qualsiasi tipo di servizio evoluto, pubblico e commerciale.
Icar, l’importanza della cooperazione Le infrastrutture a banda larga come canale preferenziale di comunicazione tra le pubbliche amministrazioni iniziano a essere realtà, ma da sole non risolvono completamente il problema. Servono standard condivisi per l’erogazione dei servizi e interoperabilità tra gli archivi dove sono depositati i dati. Dopo qualche anno di disordinata diffusione di sistemi differenti all’interno dei diversi uffici, dallo Stato alle Regioni fino agli enti locali, oggi ci si trova ad affrontare una nuova sfida: far dialogare le isole informatiche che si sono create. Icar (Interoperabilità e cooperazione applicativa tra le Regioni) nasce appunto per mettere i sistemi in grado di condividere informazioni e di lavorare in sincrono. Il progetto (www.progettoicar.it) coinvolge 16 Regioni (escluse la Sicilia, Calabria, Molise) e una Provincia autonoma (Trento) e dura complessivamente 36 mesi (scade nell’aprile 2009). Il risultato dovrebbe portare, oltre che allo scopo dichiarato di aggirare l’incomunicabilità delle varie strutture informatiche locali, anche a una notevole semplificazione dei processi burocratici. Il modello è quello della gestione della sanità: il cittadino che si sposta per l’Italia viene trasferito da un’unità Asl all’altra senza dover portare avanti pratiche di alcun tipo, tutte gestite in automatico. La stessa cosa deve avvenire per il bollo dell’auto, per l’anagrafe, per i servizi per l’impiego. Come? Icar si muove così: prima realizza l’interconnessione delle reti regionali, poi crea standard di processi, codifiche e conversioni di documenti e infine, prima di dichiarare concluso il proprio lavoro, testa le infrastrutture create. (Serena Patierno)
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Rete a macchia Una rete che sia in grado di soddisfare le esigenze di tutta l’utenza, che in questo caso coincide con la totalità della cittadinanza. Insomma un’infrastruttura per tutti, quella rete che oggi ancora non c’è. Sì perché la prima fase della digitalizzazione, quella segnata dalle azioni degli operatori telefonici e dalle iniziative locali indipendenti, ci ha lasciati in condizioni non buone. Lo dimostrano i recenti rapporti dell’Ocse e del World Economic Forum che ci vedono scivolare progressivamente nelle classifiche mondiali sullo sviluppo di infrastrutture, servizi e interventi governativi per favorire l’innovazione. Ancora più drammaticamente precise sono le statistiche dell’Osservatorio banda larga (Obl) di Between, azienda specializzata in consulenze sulle telecomunicazioni, che distinguono tra due tipi di digital divide. Quello di prima
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Fibra, Wi-fi, Wi-max. Si moltiplicano le possibilità per portare la connessione internet ai cittadini, aspettativa da democrazia moderna. I quattro modelli di sviluppo già emersi generazione (connessioni che viaggiano a una velocità compresa tra i 640Kpbs e i 4Mbps) che affligge 3 milioni e mezzo di italiani; e quello di seconda generazione (connessioni che arrivano fino a 20Mbps) che colpisce più di 22 milioni di abitanti. Senza contare che c’è un altro dato spesso omesso, quasi secretato: l’Adsl veloce non può soddisfare tutte le richieste di connessione. Nella migliore delle ipotesi solo il 60 per cento dei doppini telefonici in rame che portano internet veloce in casa possono essere attivati dalle centrali. Generando un divario digitale a macchia di leopardo che contagia anche le zone teoricamente coperte dalla banda larga. Ma come siamo arrivati a queste condizioni? E’ accaduto perché abbiamo lasciato la risoluzione del digital divide solo all’intervento dei privati, operatori telefonici compresi. Questi non hanno convenienza a investire in aree del territorio dove non è assicurato un ritorno economico. E anche laddove conviene, servono i ca-
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dell’antitrust europea. Il quarto modello di intervento delle Regioni per migliorare l’infrastruttura è quello che prevede che si accordino direttamente con operatori in modo che siano questi ultimi a investire nella rete mentre la Pa si occupa dello sviluppo di servizi che ne incentivino l’uso.
pitali, merce rara di questi tempi. Il piano industriale presentato da Telecom Italia il mese scorso dimostra quanto poco, al momento, l’ex monopolista possa investire sul potenziamento del network. Per questo è necessario l’intervento delle Pa centrale e locale, anche se per ora le non tutte le Regioni hanno adottato la medesima soluzione per combattere il digital divide.
Quattro modelli L’Osservatorio banda larga ha individuato quattro diversi modelli di azione già emersi. Che si differenziano tra loro anche perché le Regioni cercano le soluzioni più utili ai propri problemi specifici. Territorio, sensibilità delle autonomie locali e presenza interessata di operatori telefonici sono le variabili da tenere in considerazione. Il primo modello, che finora si è dimostrato più virtuoso, è quello che prevede la creazione di un’infrastruttura pubblica da mettere poi a disposizione degli operatori. Questo approccio è stato più volte invocato anche per la gestione delle rete di Telecom Italia, con la separazione netta e marcata tra chi possiede il network, chi fornisce l’accesso agli utenti e chi eroga i servizi. Ne sono testimonianze felici i casi di Emilia Romagna (vedi intervista a finaco) e Marche. Riuscendo a mettere d’accordo le autonomie locali e le società multiservizio (le utilities) si riesce con poco – la rete che abbatterà il digital divide in Emilia è costata 40 milioni di euro – a creare un’infrastruttura che possa essere rivenduta a operatori telefonici e internet, oltre a soddisfare le esigenze degli uffici pubblici. Con grande vantaggio per lo sviluppo economico del territorio. Le Marche, che hanno
adottato questo modello, sono più avanti degli altri nella lotta al digital divide di seconda generazione rispetto alla Lombardia, pur contando lo stesso numero di distretti industriali. Ma in Lombardia, ispirandosi ai più radicali principi liberisti, hanno preferito fare a meno di un vero e proprio piano regionale. Il secondo modello è quello che soddisfa le esigenze delle Regioni con un’alta percentuale di comunità montane e aree rurali (il Piemonte ad esempio), e prevede la creazione di una rete d’accesso senza fili realizzata insieme agli operatori e poi data a questi in gestione. Il terzo approccio riguarda le sole aree a “fallimento di mercato” nelle quali è consentito anche il sussidio diretto alle imprese per colmare le lacune di connettività (il cosiddetto “modello scozzese”) senza incorrere nelle sanzioni
Cooperazione regionale Ad accomunare i quattro esempi vi sono due parole magiche che aprono le porte dello sviluppo e dovrebbero esercitare il proprio fascino sia all’interno della Regione, tra gli enti locali, che tra le varie Regioni: “interoperabilità” e “armonizzazione”. È stata proprio la mancanza di armonia interna ed esterna una delle cause del ritardo accumulato negli anni. Almeno fino a qualche anno fa, si sentiva la mancanza di una regia centrale alle iniziative locali. I progetti per creare una rete che colleghi gli uffici delle pubbliche amministrazioni erano infatti abbandonati alle iniziative indipendenti e non armonizzate delle autonomie locali. Poi, con l’approvazione del progetto Sistema Pubblico di Connettività, di cui fa parte anche il Sistema Pubblico di Cooperazione tra le Regioni, e l’istituzione di una società di scopo (Infratel) per realizzare una infrastruttura di rete di comunicazione, le cose sono cambiate. La recente approvazione dell’Icar (vedi box) ha ulteriormente accelerato il processo di integrazione delle reti esistenti e di quelle in costruzione, e pone i
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Uno studio spiega cosa sta accadendo, con le variabili da tenere d’occhio di territorio, sensibilità delle autonomie locali e presenza interessata di operatori telefonici primi capisaldi per assicurare anche una omogeneità dei servizi e degli archivi dati (service level agreement). «Gentiloni ha avuto il merito di prendere in seria considerazione il problema della cooperazione interregionale – conferma Marco Mena, membro del Comitato interministeriale sulla banda larga – e sotto il governo Prodi è stata provvidenziale in tal senso l’introduzione della competenza del ministro degli Affari regionali Linda Lanzillotta per coordinare progetti che altrimenti procedevano nel modo tipicamente italiano: ognuno per conto suo». L’accordo che le Regioni hanno trovato tra loro per cooperare e armonizzare gli sforzi per realizzare la rete e i servizi digitali, si è rivelato utile. Razionalizza non solo gli sforzi economici ma anche le esperienze pregresse, e va chiaramente nel senso di trovare uno standard nazionale nel modo di operare e connettersi della Pa. Se non esiste forse una sola strada per risolvere il problema è ormai chiaro almeno qual è la tattica vincente per non perdersi: cooperare.
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Lepida contro il divario digitale Sfatare un mito, la via Emilia, cercando di competere a più di duemila anni di distanza col suo artefice, il console Marco Emilio Lepido. Questo il sogno, in parte già avverato, della Regione Emilia Romagna, che in onore del celebre predecessore ha nominato il suo progetto Lepida. Ci vollero tre anni per tracciare la strada da Rimini a Piacenza, ce ne vorranno solo due in più per eliminare il digital divide nella Regione, che oggi ha già collegato con una propria rete tutte le Pa. Una vera e propria Next-generation-network (Ngn) costituita al 90 per cento in fibra ottica, e dalle prestazioni sorprendenti (dai 100Mbps a 1Gbps). Gaudenzio Garavini, direttore ai sistemi informativi e telematici della Regione e ha seguito da vicino il progetto in tute le fasi, racconta al manifesto come è stato possibile e quali difficoltà ha comportato. «L’obiettivo era di portare la banda larga lontano proprio dalla via Emilia, dove ce n’è in abbondanza. All’alba del progetto, nel 2004, era necessario rendere capillare la rete. Oggi abbiamo collegato non solo tulle le Pa, ma gli enti locali, le Asl, le Università, e stiamo lavorando per collegare anche alcune strutture periferiche dello Stato, le caserme di polizia i tribunali e i giudici di pace». Per fare tutto ciò è stato necessario un intenso lavoro di cooperazione tra gli enti locali e le società multiservizio da questi spesso controllate. Un lavoro di coordinamento di cui va particolarmente fiero l’assessore alle attività produttive Duccio Campagnoli: «L’accordo con i 341 comuni, le province, le comunità montane e le società multiservizi ha permesso un passo avanti del mercato. Ci ha permesso ad esempio di utilizzare gli scavi esistenti, interrando la nostra fibra risparmiando sui costi». E per raggiungere le comunità montane, isolate da un territorio che complica la posa dei cavi, sono state utilizzate connessioni satellitari e la versione più potente di WiFi (HyperLAN). «Non appena sarà pronto il WiMax non sarà difficile implementarlo sulla rete esistente», conferma Garavini. Lo scorso novembre è stato stanziato un finanziamento di 20 milioni (16 dei quali di provenienza governativa) per completare l’opera e aprire anche all’uso commerciale il network. «Nel 2009 avremo collegato anche le comunità montane e le aree rurali e tutte le sedi delle Pa sul territorio, e potremo anche dare accesso a operatori telefonici e imprese». In Emilia insomma hanno realizzato quello che molti ora chiedono avvenga con la rete Telecom, la separazione tra chi possiede l’infrastruttura, chi fornisce l’accesso agli utenti e chi offre servizi. «Ora tutti hanno scoperto l’importanza di asset e servizi – dichiara Campagnoli - ma quattro anni fa non era così diffusa come idea. Noi nel nostro piccolo abbiamo cercato di realizzare il nostro modello di separazione. Il break-even di Lepida è a 6 anni: i soldi che abbiamo speso per realizzarla (40 milioni) li avremmo spesi in sei anni per affittare un servizio che alla fine non ci avrebbe lasciato in mano niente, ora invece abbiamo la rete». (GdP)
gabriele@totem.to
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Siti pubblici, « lavori in corso
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Federica Antonacci
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na legge di grande civiltà». Così l’allora ministro per l’Innovazione e le Tecnologie Lucio Stanca, nel 2004, annunciava l’approvazione della legge sull’accessibilità, che voleva garantire un regolare accesso ai mezzi informativi, internet compreso, da parte di utenti disabili. Ma da allora è davvero cambiato l’approccio delle amministrazioni pubbliche al problema? La risposta è parzialmente negativa. A quattro anni di distanza, sono ancora troppi i siti pubblici che non hanno fatto i lavori necessari per aprirsi veramente a tutti. Non mancano casi virtuosi, ma la media resta bassa. E il web che dovrebbe essere pubblico resta, troppo spesso, poco democratico.
Buone pratiche Non sono numerosi gli esempi che si possono portare, ma alcuni sono significativi. Ad esempio il ministero delle Comunicazioni, che ha recentemente ristrutturato il proprio sito rendendolo aderente alle legge e dotandolo di strumenti propri del cosiddetto web 2.0. Utilizzo di parole chiave e interazione con gli utenti rappresentano una novità nel panorama istituzionale naziona-
Molto da fare Ma cosa è successo in questi quattro anni? Al di là della con-
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Accessibilità dei siti web delle Pubbliche Amministrazioni centrali
fusione, anche normativa, sulla verifica delle valutazioni per i siti pubblici, e della reale forza del vincolo rappresentato dalla legge, molte realtà si sono mostrate immediatamente sensibili e ricettive al problema, e hanno provveduto in tempi relativamente brevi ad adeguarsi alla normativa. In alcuni casi, soggetti non vincolati dalla norma si sono adeguati ad essa, prendendola come riferimento di “buon servizio” offerto ai propri utenti. Esempio eclatante è quello di Trenitalia, fino a poco tempo fa era dotata di uno dei portali meno accessibili e che ultimamente ha alzato i propri standard su questo aspetto. I numeri complessivi, tuttavia, non sono esaltanti. I dati più significativi sono quelli relativi alle amministrazioni centrali, forniti dal Cnipa. Osservando le homepage di circa 500 enti centrali è chiaro che c’è ancora molto lavoro da fare in direzione dell’adozione delle legge. L’accessibilità dei moduli, per esempio, si ferma al 15 per cento, mentre la descrizione dei link (necessaria per gli ipovedenti) non è presente in più del 40 per cento dei casi esaminati. Meno numerosi e precisi i dati relativi al mondo delle amministrazioni locali, la cui rilevazione risale al rapporto Città Digitali RUR-Censis del 2006. Ma anche qui, le cifre sono poco lusinghiere e ritardi consistenti per tutti. Nel 2006 erano solo 13 su 20 le homepage regionali che potevano dirsi conformi alla legge, e solo il 30% i siti di Province e Comuni capoluogo. Ancora meno accessibili i siti dei Comuni non capoluogo, per i quali la conformità scende al di sotto del 20%. Se si guarda alla situazione del 2004, però, anche per gli enti locali si registrano significativi progressi.
le Valutazioni Legge n. 4 del 2004 (meglio conosciuta come legge Stanca) regolamenta l’accessibilità , intesa come «capacità dei sistemi informatici, […] di erogare servizi e fornire informazioni fruibili, senza discriminazioni, anche da parte di coloro che a causa di disabilità necessitano di tecnologie assistive o configurazioni particolari». Sancisce, cioè, la rimozione delle barriere informatiche o comunque una progettazione attenta alle necessità di coloro che diversamente non potrebbero fruire dei servizi e delle informazioni messe sul web da enti pubblici. Più concretamente: le pubbliche amministrazioni, e i privati che a esse forniscono servizi, devono realizzare siti che rispettano i requisiti di accessibilità, pena la possibile nullità dei contratti. Quando i siti non fossero ritenuti – da una verifica – adeguatamente accessibili sulla base dei requisiti tecnici e soggettivi definiti dalla legge, è previsto un piano di adeguamento che consente alle amministrazioni interessate di rientrare nella norma. Il rispetto dei requisiti viene generalmente attestato, tramite un’autocertificazione, da un dirigente dell’amministrazione e quindi dal Cnipa, il centro nazionale per l’informatica nella pubblica amministrazione, mentre le aziende private possono avvalersi dei valutatori, che garantiscono un’analisi imparziale dei siti. Quasi in maniera beffarda, però, nessun ruolo di analisi e parere di congruità è assegnato alle categorie di disabili, che intervengono solo in fase di valutazione soggettiva, non obbligatoria per i siti di enti pubblici.
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CONFRONTO PAC 2006/2007
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Validità del codice Ridimensionamento dei caratteri Contrasto dei colori Alternativa alle immagini Descrizione dei link Meccanismi di skip Form accessibili Uso dei fogli di stile Navigazione da tastiera Fluidità del layout
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Fonte: CNIPA 2007
le. Da segnalare anche l’iniziativa della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che ha adeguato la struttura del proprio sito a quello di alcuni siti collegati, fornendo un’immagine coordinata effettivamente coerente. Passando agli enti locali, una menzione va senz’altro al sito della Regione Sardegna e a quello della Provincia di Milano che, oltre ad aver reso uniformi grafica e struttura con i siti associati, hanno rispettato fedelmente i requisiti tecnici. Restando a Milano, anche il sito del Comune si è sottoposto ad un severo restyling che lo ha reso essenziale ed efficace, nel rispetto dei requisiti previsti. Una menzione particolare va a TaggaTo, servizio del portale di TorinoFacile, che consente agli utenti di contrassegnare con una parola chiave una pagina o un servizio, per renderle più facilmente reperibili anche da altri lettori. Attraverso l’attribuzione di simili etichette (in gergo: tag), le pagine del sito del Comune di Torino si arricchiscono di connotazioni che vanno a creare una mappa della conoscenza – condivisa e intellegibile da tutti – per la diffusione di articoli interessanti o servizi particolarmente efficaci. Da citare infine il sito dei Carabinieri, che forse è stato tra i primissimi ad adeguarsi alla legge. Già nel 2005, il sito ha rivisto la propria veste grafica e gli strumenti di navigazione. Cosa non ha funzionato? Nonostante le premesse fossero buone, la situazione dell’accessibilità in Italia non è rosea. Questo probabilmente accade perché, a fronte di una normativa chiara e restrittiva, le azioni migliorative e di verifica da parte degli organismi preposti non sono state severe come sarebbe stato auspicabile. Se si vuole seguire il modello inglese – che ha visto la chiusura di oltre la metà dei siti istituzionali per giungere alla situazione ottimale di avere tutti i servizi e le informazioni pubbliche fruibili attraverso 26 portali – è necessaria una maggiore rigidità nel verificare il rispetto delle procedure, oltre che continuare a lavorare sulla sensibilità degli operatori e puntare su logiche di riuso per ottimizzare i risultati ottenuti.
La legge Stanca del 2004 sull’accessibilità e la sua applicazione da parte dell’amministrazione pubblica. In bilancio pochi casi virtuosi, la media italiana resta molto bassa
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VALIDITÀ CODICE
DIMENSIONE CARATTERI
CONTRASTO COLORI
ALTERNATIVA IMMAGINI
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FORM ACCESSIBILI
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NAVIGAZIONE TASTIERA
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Lo stato non è mica tanto virtuale
Raffaele Mastrolonardo
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eri le reti civiche, oggi il blog di Beppe Grillo. Lo stato dell’e-democracy italiana, della democrazia elettronica, che tante speranze ha suscitato agli albori della rete di massa può anche essere sintetizzata così. Da una parte, un passato pionieristico in cui erano le amministrazioni pubbliche a portare avanti la fiaccola della partecipazione attraverso le nuove tecnologie. Dall’altra, un presente in cui il cerino è passato in mano alla società civile digitale, in un delicato equilibrio tra apertura di nuovi spazi democratici e antipolitica. E gli enti pubblici? Rincorrono, stretti tra retorica della partecipazione, illusioni sul ruolo salvifico della tecnologia, scarsità di risorse. E poco interesse dei cittadini. Il paradosso è tutto qui: mentre il catartico insulto di un comico apre inedite forme di azione politica e il web entra nella fase 2.0, quella degli utenti attivi, il settore pubblico arranca in una partita che dovrebbe vederlo protagonista.
in zona retrocessione La difficoltà, va detto, è comune anche ad altri Paesi. La situazione è stata recentemente fotografata da uno speciale del settimanale inglese The Economist: «L’amara verità è che la maggior parte dei cittadini trovano l’amministrazione e la politica noiosi e pensano di avere cose migliori da fare». Non basta che qualche
Expo 2015: proposte dal basso Parallelamente agli esempi di e-democracy che si sviluppano nell’ambito delle amministrazioni pubbliche, esiste una più ampia galassia di siti partecipativi che nascono dal basso. Tra questi c’è partecipaMi.it, sito creato dalla Rete Civica di Milano, un’iniziativa dell’Università degli Studi di Milano che vive di una chiara filosofia: i cittadini non sono utenti di servizi, ma detentori di un inalienabile diritto di sovranità e la rete offre uno spazio per esercitare tale diritto. In quest’ottica si affronta per esempio il tema caldo del momento: «Milano Expo 2015 Cittadini condannati alla protesta o coinvolti nelle proposte?». Un forum per discutere delle opportunità e dei problemi, delle aspirazioni e delle proposte relative all’Esposizione Universale. Quanto verde intorno, quali mezzi di trasporto, che tipo materiali usare per le costruzioni. Naturalmente, si parla anche di microcriminalità, rumorosità delle piazze o piste ciclabili. Insomma, si dialoga su tutto quanto dovrebbe arrivare sotto forma di proposta – e non di protesta – ad amministratori e politici prima che siano questi a impostare una discussione ritagliata sulle proprie esigenze. Questioni singole e dettagliate senza scordare però la domanda fondamentale che ogni cittadino dovrebbe porsi: come fare a essere coinvolto nei processi decisionali? (Serena Patierno)
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Tra ruolo salvifico della tecnologia e scarsità di risorse, gli enti pubblici rincorrono la fiaccola della partecipazione attraverso internet. Mentre avanza la società civile digitale
funzionario apra un blog se poi questo è poco aggiornato o non interessa a nessuno. E nemmeno serve pubblicare gli indirizzi email degli assessori, se poi avere una risposta è altrettanto difficile che nel mondo reale. Dalle nostre parti, una conferma delle difficoltà della democrazia elettronica è arrivata dal recente rapporto di monitoraggio sui progetti di sviluppo della cittadinanza digitale realizzato dal Cnipa, il Centro nazionale per l’informatica nella pubblica amministrazione. Secondo il documento, le 56 iniziative di e-democracy finanziate con un bando del 2004 hanno accumulato un ritardo medio di 15,2 mesi rispetto tabella di marcia prevista. Non meno tenero l’ultimo Global Information Technology Report redatto dal World Economic Forum che ci colloca al 53esimo posto per l’e-participation, dietro a Paesi come Cambogia, Azerbaigian, Botswana e Mozambico.
Una questione politica Certo, alcune iniziative si distinguono. Come quella del Comune di Sarzana, in provincia di La Spezia, che ha messo a punto CON-Net, piazza virtuale attraverso la quale i cittadini dialogano con le associazioni e l’amministrazione, chiedendo informazioni, inviando proposte e reclami relativi a più argomenti, con la garanzia che riceveranno una risposta. O come il Comune di Favara, provincia di Agrigento, che ha avviato Agor@Favara, un processo partecipativo per la costruzione del piano strategico della città attraverso il Forum per lo sviluppo. Nel complesso, però, lo dicono i numeri, si registra una certa fatica. Quali le ragioni di questa stanchezza? Innanzitutto, a sentire gli addetti ai lavori, c’è un problema politico. Come spiega Elena Tabet, responsabile e-democracy del Cnipa, «il rallentamento non è sempre colpa dei singoli progetti ma spesso imputabile a fattori esterni. Come il cambio di segno politico di un’amministrazione che costringe le iniziative a ridisegnare la loro attività in contesti mutati». Secondo alcuni, addirittura, la questione chiama in causa un mutamento sociale più profondo avvenuto in questi 10 anni che ha progressivamente depoliticizzato l’e-democracy. «A metà degli anni ‘90, le reti civiche nascevano nel clima di speranze figlio anche della spinta di “mani pulite”», spiega Anna Carola Freschi, docente di sociologia all’Università di Bergamo. «Poi l’enfasi è passata dai processi decisionali a quelli amministrativi. Si è chiesto ai cittadini di partecipare per contribuire più al miglioramento della prestazione della macchina pubblica e meno alle decisioni». L’illusione tecnologica Ma non c’è solo la politica. I ritardi dell’e-democacy italica dipendono anche da quella che gli studiosi dell’e-government chiamano “entusiasmo pericoloso”. L’illusione che un colpo di bacchetta magica tecnologica risolva tutti i problemi facendo dimenticare che i nodi da sciogliere sono spesso altri. «Gestire la partecipazione online è oneroso in termini di risorse umane», spiega Claudio Forghieri, responsabile della rete civica di Modena. «E tra scegliere se erogare un servizio e far partecipare alla decisione su come erogarlo, è logico che l’amministrazione scelga la prima opzione». C’è poi il “fattore U”, come uomo. Anche con le migliori tecnologie
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Decidi, frontiera glocal Da Porto Allegre a Genova passando per gli Stati Uniti. Le vie della democrazia partecipativa seguono percorsi originali. Anche grazie alle nuove tecnologie. Esempio concreto di questo fluttuare di idee e pratiche è Decidi (www.decidi.it), progetto di e-democracy guidato dalla Provincia di Genova e realizzato grazie al supporto tecnologico di Microsoft. L’iniziativa prende spunto dalle esperienze partecipative della città brasiliana, mette in pratica le teorie della democrazia deliberativa teorizzata dallo studioso James S. Fishkin (Università di Stanford) e sposa il tutto con le nuove tecnologie, creando un virtuoso scambio tra mondo reale e virtuale. Ma come funziona Decidi? L’intuizione principale è quella di dare ai cittadini le informazioni necessarie per esprimere opinioni informate su un determinato argomento. A questo scopo, una volta deciso il tema sui cui chiamare la cittadinanza ad esprimere un’opinione, partiti politici, associazioni e protagonisti della società civile sono chiamati a inserire documenti (testi ma anche video) in un’apposita area. E’ questa la base conoscitiva sulla quale i cittadini si formeranno un’opinione in vista della fase di consultazione, quella in cui sono chiamati a pronunciarsi su una serie di quesiti. «Cerchiamo di superare la disaffezione verso la politica e di avvicinarci ai cittadini attraverso uno strumento che permette davvero di deliberare», spiega Michele Scarrone, responsabile del Progetto per la Provincia di Genova. Nella prima votazione si è discusso (e deciso), tra le altre cose, su trasporti, pari opportunità, formazione professionale. Nella seconda fase, partita il mese scorso, la scelta è caduta su questioni come la sicurezza sul lavoro, la gestione dei rifiuti, l’acqua e l’integrazione scolastica. Il sistema funziona anche grazie a un evoluto meccanismo di firma digitale messo a punto da Microsoft. Il software consente di riprodurre su internet il rigore delle votazioni che avvengono nel mondo reale: evitando per esempio che qualcuno voti due volte e consentendo di esprimere il proprio parere solo. «Il sistema, che abbiamo messo a punto a partire da uno studio del Mit di Boston, permette davvero di replicare le condizioni di verificare a posteriori la validità di un voto ma lasciando intatto il carattere anonimo della preferenza espressa», spiega Alberto Masini, responsabile nuovi progetti per la Pa di Microsoft Italia. Il programma è stato poi messo a disposizione di tutte le amministrazioni con licenza open source. (R.M.)
a disposizione senza di un adeguato coinvolgimento del personale difficilmente si va lontano. Come a dire, la partecipazione nasce, prima di tutto, all’interno. «Le iniziative di e-participation affrontano spesso temi trasversali e non puoi centralizzare tutto in un ufficio: bisogna coinvolgere i funzionari di riferimento sulle singole questioni in cui si chiamano i cittadini a partecipare. E questo, organizzativamente, non è semplice».
Il miraggio partecipativo Ma gli ostacoli alla diffusione della democrazia elettronica possono avere anche una natura più immateriale. Alcuni, per esempio, hanno un’origine ideologica. Dietro il fallimento di molti progetti di cittadinanza digitale c’è l’illusione – a cui ha contribuito la retorica del cosiddetto web 2.0 – che, online, la partecipazione venga da sé. Invece, lo scoprono amaramente parecchie iniziative, il cittadino non nasce “partecipato”. «Bisogna innanzitutto pensare all’alfabetizzazione tecnologica», spiega Forghieri. Senza dimenticare che coinvolgere costa fatica è tempo. «E’ necessario offrire ai cittadini interesse a partecipare e, soprattutto, costruire una relazione di fiducia con essi. Il che richiede tempo, interazione, personalizzazione dei servizi». Non è un caso che alcune delle sperimentazioni più riuscite di e-democracy siano quelle che sfruttano relazioni già avviate con i cittadini, con le tecnologie che intervengono a supporto di processi deliberativi “reali”. «Dai monitoraggi Cnipa emerge che la partenrship con associazioni di categoria e volontariato è importante per il successo di un’iniziativa di e-democracy», spiega Tabet. Qualche esempio? Document@ Rudiano, progetto del Comune di Rudiano, provincia di Brescia, che ha messo a punto un percorso partecipato per la creazione di luoghi della memoria in cui i nuovi media sono uno stimolo e un ausilio alla raccolta delle informazioni. Oppure eDem1.0 del Comune di Roma, in cui internet è intervenuta per supportare un progetto di bilancio sociale
partecipato già avviato dal Municipio XI della Capitale.
La forza della rete Ma la necessità di mettersi in rete vale anche online. In fondo, negli anni ‘90, ai tempi delle gloriose reti civiche, internet era popolata da poche migliaia appassionati. Oggi la abitano milioni di persone che hanno per le mani straordinari strumenti per interconnettersi e creare collettivamente. E possono farlo - come teorizza lo studioso di Harvard Yochai Benkler (La ricchezza delle reti, Università Bocconi Editore) - in uno spazio intermedio tra stato e mercato, in uno spirito di condivisione e collaborazione. Non a caso, uno dei migliori esempi di e-democracy italiana, OpenPolis (www.openpolis.it), non è legato a enti o aziende di sorta. E’ realizzato invece da una comunità di utenti che, in autonomia, alimenta uno straordinario archivio di informazioni, costantemente aggiornato, su ministri, parlamentari, politici locali: scelte di voto, presenza in aula, dichiarazioni pubbliche poco sfugge all’intelligenza cooperante messa al servizio del monitoraggio di coloro a cui è affidata la gestione della cosa pubblica. Ma l’aspetto interessante è che gran parte dei dati raccolti e organizzati da OpenPolis sono presi proprio dai siti di Camera e Senato e altri siti di enti pubblici. I quali diventano così parte di un ciclo virtuoso senza bisogno di servizi di ultima generazione. A volte basta, infatti, mettere a disposizione l’informazione in modo chiaro. Saranno poi le masse cooperanti di cui parla Benkler, a rielaborala, inserirla in un altro contesto e caricarla così di un politico e civico. E’ un flusso che si materializza anche grazie a internet, certo. Ma non c’è bisogno di aggiungere l’aggettivo “elettronica”. Questa, a pensarci bene, è democrazia, tout court. raffaele@totem.to
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WEB2.0
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Una ricognizione sui servizi cosiddetti 2.0, dunque della seconda generazione della rete, nell’ambito della comunicazione on line della pubblica amministrazione
Viaggio nella nuova internet pubblica
Domenico Pennone
«I
o mi accontenterei di trovare le informazioni che cerco in un sito della Pubblica Amministrazione. Gli esperimenti sono proprio l’ultima cosa di cui dovrebbero preoccuparsi...». Questo commento scovato in uno dei tanti blog indipendenti riassume l’atteggiamento diffidente dell’utenza evoluta di fronte ad alcuni “timidi tentativi” di introdurre il cosiddetto web 2.0 nella comunicazione online della pubblica amministrazione. Diffidenza dovuta anche al tortuoso itinerario di alfabetizzazione informatica seguito dagli enti pubblici in questi anni. Un percorso che anche quando ha provato a rispondere alle sempre più complesse ed esigenti richieste di interattività da parte del cittadino–utente è risultato perlopiù nell’acquisto di tecnologie costose e poco utili Una direzione che però oggi è possibile invertire anche senza grandi investimenti, puntando sempre di più sulla partecipazione dei cittadini grazie ai nuovi strumenti online.
istruzioni per l’uso Bisogna precisare, intanto, che il web 2.0 generalmente indica una forma di web evoluta rispetto ai tradizionali elementi del mondo internet. Il naturale superamento, insomma, dei siti con pagine statiche (a cui ci ha da sempre abituato la pubblica amministrazione) i cui contenuti avevano un aggiornamento per quanto possibile periodico. La seconda generazione della rete si caratterizza, infatti, essenzialmente per tre elementi: interattività, socialità e miglioramento dell’esperienza degli utenti nella fruizione dei servizi. Più che una tecnologia, si tratta
di una svolta nelle modalità con cui i contenuti girano su internet: ormai infatti utenti sempre più esigenti vogliono organizzare e distribuire in autonomia le informazioni, diventando protagonisti della “conversazione” online. Per questo i “timidi tentativi” realizzati da alcune intraprendenti amministrazioni sono per ora ancora inadeguati nonché inevitabilmente trascurati dagli stessi utenti, se non, addirittura, apertamente contestati. Il Comune di Torino, per esempio, ha avviato una serie di servizi che definisce 2.0. Il progetto “cambiaTO” (www. comune.torino.it/cambiato/ ) vuole essere la versione di seconda generazione del portale torinese. Il sito funziona come una sorta di iGoogle (la pagina personalizzabile del motore di ricerca più famoso del mondo). “CambiaTO” propone agli utenti di adottare come pagina web iniziale il portale del comune, in una versione personalizzabile e arricchita con canali di notizie e i cosiddetti “widget”, piccole finestre con informazioni legate alle iniziative cittadine che l’utente può spostare a piacimento sulla pagina web. Il sito, basato su una tecnologia molto di moda in questo momento (chiamata AJAX), fa a pugni sia con le norme italiane in termini di accessibilità che con la compatibilità di alcuni browser. Tuttavia appare comunque come un esempio pregevole di utilizzo
Sardegna Digital Library L’interazione fra forma e sostanza ha assunto connotazioni nuove sul web: la digitalizzazione dei contenuti, infatti, non incide solo sulle modalità in cui essi si presentano. Capita che il lavoro di catalogazione e connessione di certi materiali possa determinare una presa di coscienza del loro valore come insieme. Capita che un luogo immateriale diventi sede di una condivisione culturale. Sardegna Digital Library (www.sardegnadigitallibrary.it) è il nome del più recente progetto della regione Sardegna in tema di cultura digitale. Una libreria che raccoglie documenti, suoni, filmati, fotografie e li offre a tutti. Pensiamo a un patrimonio di documenti raggruppati tematicamente, esplorabili come si fa in una passeggiata nel centro storico di una città. Immagini storiche di personaggi o ambienti, file audio e video che ripropongono musiche, dialoghi, opere cinematografiche. Documenti provenienti da archivi a rischio di oblio. Voci in molti formati della tradizione e della contemporaneità dell’isola. Di biblioteche e archivi digitali si parla, del resto, da qualche anno. Cosa rende tanto speciale la libreria digitale sarda? Il fatto di mettere a sistema documenti che descrivono frammenti di cultura locale, e di dare a tale sistema l’autorevolezza della fonte istituzionale. Inoltre, la struttura intima dei suoi documenti si basa sui metadati. Parliamo di stringhe, associate a ciascun file, che contengono informazioni aggiuntive e li rendono reperibili con chiavi di ricerca vicine alle esigenze dell’utente inesperto. In questa maniera, una quantità di informazioni così consistente costituisce una ricchezza, non una fonte di confusione. Tutti i contenuti, fra l’altro, sono scaricabili e riutilizzabili a scopo non commerciale. Basta citare la fonte. Una struttura tecnica di questo tipo è utile perché il patrimonio della Digital Library riesca a entrare nei dialoghi fatti di rimandi e ricontestualizzazioni tipici dell’attuale cultura del web. Non solo, il progetto si apre anche ai contenuti offerti dagli utenti, in una dimensione collaborativa. Nella speranza di riuscire a raggiungere pubblici nuovi, come i giovani, le comunità di migranti lontani dalla Sardegna, o gli stranieri che la abitano da poco. Roberta Benvenuti
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di tecnologie innovative ed un buon tentativo d’affiliazione dell’utenza.
personalizziamo In Emilia-Romagna, dove la pubblica amministrazione tradizionalmente punta molto di più sulla partecipazione dei cittadini, si registrano poche iniziative di rilievo in direzione 2.0. Gli esperimenti più interessanti si concentrano su soluzioni basate su sistemi più tradizionali di Customer relationship management (Crm) interattivi, ovvero su strumenti di fidelizzazione degli utenti. Finora però la partecipazione si limita ai tradizionali forum e mailing list (tipici della rete civica Iperbole: www.comune.bologna.it). Degno di nota invece l’innovativo Unox1 della rete civica di Modena (www. comune.modena.it): si tratta di uno spazio web in cui è possibile registrarsi per ricevere le informazioni desiderate e personalizzate ma anche ottenere risposte online in base a parametri scelti dall’utente. Anche il comune di Venezia ha annunciato recentemente la sua sfida al web 2.0: “Amministrare 2.0” è un progetto che punta su un nuovo approccio mentale da parte del dipendente pubblico. L’idea è che bisogna partire dall’impiegato per rinnovare la pubblica amministrazione dal suo interno, trasferendo sul lavoro le competenze informatiche e tecniche di cui si avvale nel privato. Grazie a questo knowhow distribuito dovrebbe essere possibile creare una rete sociale partecipata e dinamica. Video pubblici Qualcosa si muove in questo versante anche al sud. Le regioni Abruzzo, Molise e la provincia di Napoli stanno lavorando alla realizzazione di strumenti di produzione e acquisizione di video
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trasmessi poi via web. Insieme al Formez (il Centro formazione e studi del dipartimento della Funzione pubblica) e all’Ordine dei giornalisti, queste amministrazioni contribuiscono al progetto “La PA che si vede” (www.retepa. it). Una sorta di YouTube pubblica per raccogliere in un unico contenitore i prodotti multimediali liberamente realizzati dagli aderenti. Non “della” pubblica amministrazione ma “per” la Pubblica Amministrazione è invece il progetto “SaperiPA” promosso dal ForumPA (http://saperi.forumpa.it), la più importante mostra-convegno dedicata all’universo publbico. SaperiPA è essenzialmente un portale in cui viene archiviato, classificato e reso fruibile il vasto patrimonio di saperi e conoscenze, aperto al contributo degli utenti. Una sorta di grande “enciclopedia” non formalizzata, un “wiki” sui processi d’innovazione e modernizzazione dell’amministrazione. Nonostante qualche eccellenza (non potremmo citarle tutte), tuttavia, restano poche le esperienze degne di nota. Sicuramente, però, l’attenzione sta crescendo e con questa la diffusione del web 2.0 tra gli utenti italiani. Una straordinaria opportunità si sta insomma aprendo per l’universo pubblico: l’occasione di sfruttare quella intelligenza collettiva sempre più attiva e protagonista nella rete per recuperare credibilità ed efficienza. Per fare ciò, tuttavia, occorre pensare ad interventi che non siano di mera facciata ma che sappiano realmente coinvolgere gli utilizzatori. Va bene aprire blog o spazi di condivisione e servizi personalizzati sui siti istituzionali, ma non basta. Devono esserci anche gli utenti ad alimentarli.
c o n d i v i s i o n e Viva la comunità Il successo delle applicazioni web 2.0 sta nella loro semplicità d’uso, nella loro efficacia ma anche nella rapidità e capacità dei sistemi di migliorarsi. Tutto questo è realizzabile solo grazie ad una vera massa critica di utilizzatori. Il vantaggio e il valore delle applicazioni web 2.0 sta proprio nella sua capacità di coinvolgere la comunità nella generazione dei contenuti. Dunque, l’unica soluzione per la pubblica amministrazione è quella di provare a creare finalmente una comunità di utenti, fatta di gente che partecipa e contribuisce e non solo di visitatori occasionali delle proprie pagine web. Una comunità capace di alimentare il sistema grazie agli applicativi, ma anche e soprattutto alle relazioni sociali generabili online. Partecipazione di cittadini, dunque, ma anche di associazioni cui sia data la possibilità di valutare, giudicare, migliorare i servizi pubblici creando un valore aggiunto per la collettività e rendendo disponibile a tutti il patrimonio di conoscenza e saperi delle isti-
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Dal comune di Torino, dove c’è un sito che funziona come una sorte di i-Google, alla regioni Emilia Romagna, Abruzzo e Molise, dalla provincia di Napoli a Venezia città tuzioni arricchendolo con quello degli utenti. Quello che una volta (ai tempi delle reti civiche?), avremmo chiamato “produzione e condivisione dei saperi”. Perché questo avvenga è necessario però prima di tutto che, anche online, gli enti pubblici siano capace di reinventarsi per costruire una nuova immagine, una nuova reputazione.
Aprire un’attività via chat Il rapporto tra il cittadino e la pubblica amministrazione, specie nelle grandi città, è da sempre difficoltoso e snervante. Code allo sportello, pratiche per le quali le competenze di svariati uffici si intersecano tra di loro, alto rischio di errori materiali nella compilazione dei moduli. In una parola, burocrazia. I tentativi di snellimento intrapresi dalle varie amministrazioni hanno avuto esiti più o meno positivi a seconda dei casi. Ora, il web 2.0 avanza, tuttavia, e i benefici dell’era digitale ormai cominciano fare capolino nella nostra vita di utenti dei servizi erogati dall’amministrazione. Le sperimentazioni per a rendere più navigabile l’interfaccia di comunicazione dei servizi amministrativi sono approdate presso il Comune di Roma, che con l’aiuto di Ibm ha messo a punto lo Sportello Unico delle Attività Ricettive (SUAR), rivolto a quei cittadini che intendono avviare - o sono titolari di un’attività commerciale. Inizialmente rivolto esclusivamente a coloro che operano nel campo della ricettività in ogni sua forma, il servizio sarà gradualmente esteso alle altre aree d’impresa. L’obiettivo è offrire agli utenti, nell’ambito della gestione dei vari procedimenti amministrativi, un interlocutore unico con il quale dialogare via chat, instant messenger o tramite e-mail con richiamata telefonica, e in grado non solo di gestire la ricezione in formato digitale della modulistica a disposizione dei cittadini, ma anche di acquisire autonomamente da altre amministrazioni i documenti necessari al disbrigo della pratica, agendo come gestore unico dei vari passaggi necessari a fornire un servizio completo all’imprenditore. L’impatto previsto riguarda una diminuzione delle attese allo sportello, facile accesso alla modulistica disponibile online, consulenza alla gestione delle problematiche dell’imprenditore, superamento della spersonalizzazione dei rapporti spesso associata alla burocrazia. Insomma, dialogo bidirezionale. L’obiettivo è ambizioso, e lo sforzo posto in essere dai servizi comunali imponente. Infatti si è reso necessario analizzare approfonditamente il lavoro svolto dagli uffici amministrativi e reingegnerizzare il processo, ovvero ripensare e razionalizzare, ove necessario, le procedure interne. Servire, sveltire, semplificare: questi gli obiettivi dell’azione intrapresa dal Comune, che con l’aiuto di Ibm ha potuto creare un nuovo portale di accesso ai servizi offerti, progettato per aree tematiche all’interno delle quali le informazioni sono organizzate in modo semplice e intuitivo. Quindi, grazie a software collaborativi e all’utilizzo di strumenti quali VoIP e chat, ormai entrati nell’uso comune e quotidiano, l’utente è finalmente in grado di colloquiare con l’amministrazione pubblica. La riprogettazione dell’intero procedimento amministrativo ha naturalmente coinvolto il personale e condotto a una valorizzazione delle risorse interne e consentirà inoltre, in prospettiva, una riduzione dei costi interni connessi alla gestione delle pratiche. Alessandra Carboni alessandra.carboni@totem.to
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La carta « d’identità può attendere
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Otto anni dopo l’annuncio dell’arrivo del documento elettronico, per «risparmiare tempo, code e denaro», il documento non c’è. Storia di un prodotto mancato e dei suoi bandi di gara
in arrivo in Italia la Carta d’identità elettronica (Cie). Presto, nelle tasche di ogni cittadino, il vecchio documento cartaceo sarà sostituito da un moderno e pratico tesserino plastificato, uno strumento tecnologicamente avanzato con cui accedere ai servizi di e-government della Pubblica Amministrazione, risparmiando tempo, code e denaro. Anno di grazia 2000.» Avete letto bene, questa notizia è vecchia di otto anni e la cosa più divertente (per così dire) è che la si può considerare perfettamente attuale. Come dire che per l’innovazione il tempo si è fermato. L’otto novembre scorso, in Gazzetta Ufficiale, l’ultimo annuncio, con la pubblicazione del decreto ministeriale che ha fissato le regole tecniche per il rilascio della Cie. Se nel 2000 Franco Bassanini, ministro della Funzione pubblica, e il suo collega degli Interni Enzo Bianco consegnavano a un ragazzo napoletano di 17 anni la prima carta, la nascita del progetto va fatta risalire a due anni prima, ad opera dello stesso Bassanini, il che porta il totale a dieci anni tondi tondi. Cosa è successo in tutto questo tempo è difficile raccontarlo in poche righe. Di certo c’è che la Cie prometteva di essere lo strumento principe della vagheggiata cittadinanza digitale, lo strumento-chiave per rendere paritario e virtuosamente impersonale l’accesso ai servizi della Pubblica Ammnistrazione, e invece... Invece 3.650 giorni dopo siamo ancora qui ad aspettare la famosa carta. E’ pressoché impossibile calcolare con precisione il fiume di denaro pubblico fin qui impie-
Dieci anni di calvario
d i g i t a l e ,
passpartout
C i t t a d i n a n z a
1999: il Decreto del Presidente del CdM 437 del 22 ottobre determina le caratteristiche e le modalità di rilascio della Carta di identità elettronica (Cie); 2000: il Decreto Ministeriale 1101/115/1 del 19 luglio detta le regole tecniche e di procedura per la produzione e trasmissione della Cie; 2005: il Decreto 82 del 7 marzo prevede che la Cie rappresenti uno degli strumenti per l’accesso ai servizi in rete erogati dalle Pubbliche Amministrazioni e per i quali è necessaria l’autenticazione informatica; 2005: la legge 43 del 31 marzo stabilisce che tutti i documenti di identificazione siano prodotti dall’Istituto in formato elettronico, a far data dal 1 gennaio 2006; 2007: il Decreto Ministeriale del 16 febbraio determina i limiti di spesa della Cie a 20€ per il contribuente (inclusa IVA); 2007: il Decreto Ministeriale dell’8 novembre 2007 fissa le regole tecniche per la produzione della Cie; 2008: la Legge n. 31 del 28/02/08 proroga l’avvio della produzione nazionale al 31 dicembre 2008 (art. 35 co. 1).
gato per analisi, studi, sperimentazioni, convegni e società pubbliche create ad hoc, anche perché bisognerebbe aggiungere i soldi spesi direttamente degli enti locali. Già, perché mentre lo Stato annunciava, legiferava e discuteva, Regioni e comuni si muovevano, naturalmente ognuno con la propria personalissima strategia, producendo in alcuni casi tesserini elettronici con i dati anagrafici dei cittadini ma privi di alcuna utilità che non fosse quella dell’identificazione. Plastica invece che cartoncino, tutto qua. La sequela di annunci ha toccato vertici paradossali con l’ultimo governo, quando il ministro per le Riforme e le innovazioni nella PA, Luigi Nicolais, ha trionfalmente comunicato agli italiani che la Cie sarebbe costata “solo 20 euro”, contro i 30,5 decisi dal governo Berlusconi. Roba da spostare milioni di voti: dieci euro in meno per uno strumento inesistente, quattro volte più del costo della Carta d’identità tradizionale (5,40 euro). Ma sul prezzo finale della Cie la partita non è ancora chiusa, dopo che, lo scorso ottobre, il TAR del Lazio ha accolto il ricorso presentato dal Comune di Milano contro il decreto di Nicolais. Nel frattempo, nel dicembre scorso, il Poligrafico dello Stato ha indetto tre bandi in via di assegnazione, del valore di 99 milioni di euro. Oggetto: il noleggio di 20 mila apparecchiature (computer, stampanti termografiche, lettori di smart card e dispositivi per l’acquisizione dei dati biometrici) da distribuire agli 8.100 comuni italiani. In origine tutti i dispositivi avrebbero dovuto essere forniti dalla società Innovazione e Progetti, (controllata al 70% dal Poligrafico e partecipata al 15% da Finmeccanica e Poste), ma i ritardi e le modifiche del prezzo della carta decise dal governo hanno portato, lo scorso maggio, alla liquidazione la società. Ma come sarà fatta la famigerata Cie? Si tratta di un tesserino in policarbonato, dotato di microchip, banda ottica e ologramma identificativo, un impressionante miscuglio tecnologico in 14 centimetri quadrati che avrà validità decennale (invece degli attuali cinque) ma, come ha sottolineato Nicolais, «non conterrà dati sensibili». A cosa serve allora la nuova carta? Bella domanda, considerato che proprio su tale querelle si consumò uno degli scontri più virulenti nel governo del quinquennio berlusconiano tra i ministri Scajola (Interni) e Stanca (Innovazione). Il primo pensava essenzialmente a uno strumento di identificazione, il secondo volava alto e immaginava una vera e propria “carta servizi”. Vinse Scajola e Stanca incoraggiò il governatore della Lombardia Formigoni a varare la Carta Regionale dei Servizi, distribuita a gran parte dei cittadini lombardi. La promessa di Nicolais era che avremmo speso i nostri 20 euro a testa entro la primavera di quest’anno, ma si sa il tempo vola e al Poligrafico, interrogati, spiegano che non se ne parla almeno fino al 2009. Del resto già con il “Milleproroghe” del governo Prodi si era provveduto a temporeggiare, rinviando di un anno l’entrata in vigore della disposizione che vincola gli Enti locali ad erogare servizi via web esclusivamente attraverso la Cie. Poco male, soprattutto in considerazione del fatto che gli unici servizi online funzionanti
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e usati dagli utenti continuano ad essere quelli di pagamento (bonifici, tasse, multe etc), gestiti da intermediari bancari che usano da sempre user id e password e non hanno bisogno di nessuna tesserina ipertecnologica. La Cie prossima ventura, invece, consentirà di accedere ai servizi online (sempre che ve ne sia disponibile qualcuno di veramente utile, cioè di carattere transattivo) solo con il necessario ausilio di un lettore di smart card, notoriamente presente nelle case di tutti gli italiani.
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Quando il computer sbaglia
Patrizia Cortellessa
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leggere alcuni resoconti delle relazioni presentate dagli esperti che hanno partecipato all’Rsa Conference 2008 di San Francisco (svoltosi dal 7 all’11 aprile) c’è di che preoccuparsi. E seriamente. Perché questi nostri computer sempre più sofisticati e presenti nelle nostre vite quando sbagliano possono produrre effetti devastanti. Dipende dal tipo di errore, è ovvio, ma l’allarme sulla materia è stato lanciato ormai da tempo dagli addetti ai lavori. I computer – avvisano - possono arrivare anche ad uccidere in caso di malfunzionamento. E qui non c’entra niente la nostra immaginazione. Perché il rischio è reale, soprattutto quando la vulnerabilità di sistemi informatici riguarda una centrale elettrica. Nel suo seminario condotto a San Francisco Joe Weiss, esperto
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americano di sicurezza informatica, dopo studi costati anni, ha “analizzato le registrazioni di oltre 90 incidenti avvenuti nelle industrie di tutto il mondo”. La sua conclusione? La causa principale degli incidenti è proprio il fallimento del sistema informatico che controlla l’impianto. Ripercorrendo gli anni a ritroso, Weiss è tornato all’incidente di Bellingham (Washington) del 10 giugno 1999. Quel giorno una conduttura che trasportava gasolio si ruppe, facendo fuoriuscire un’enorme quantità di carburante. L’incendio che ne conseguì causò la morte di tre persone e il ferimento di molte altre. Mezz’ora prima della tragedia c’era stato un blocco dei computer - ricorda l’esperto americano – che non aveva reso possibile ai tecnici di intervenire con procedura di emergenza per diminuire la pressione nella conduttura. Un “incidente” che oggi si potrebbe evitare se venisse approvato e applicato in tempi rapidi un nuovo standard, il Nist 800-53, un sistema di gestione che, se le aziende decidessero di seguirne i criteri, darebbe loro la possibilità di identificare i problemi legati a errori di funzionamento dei sistemi informativi, permettendo loro di correggerli prima che possano causare danni. Agli impianti e, soprattutto, alle persone. Sempre a proposito di vulnerabilità dei sistemi informatici. Ira Winkler, presidente della società di sicurezza Isag, sempre a San Francisco ha spiegato come sia possibile prendere il controllo di un sistema informatico che gestisce una centrale elettrica. Non è difficile, ha affermato. E
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E’ grande l’allarme sulla materia, a causa anche della vulnerabilità dei sistemi informatici. Certo dipende dal tipo di errore ma ci possono essere pc che uccidono per dimostrarlo si è trasformato in hacker, agendo però in questo caso con l’autorizzazione della stessa azienda elettrica. Basta creare un web server – ha spiegato Winkler - e introdurre degli spyware nel computer (cioè quel tipo di software che raccoglie tutte le informazioni riguardo l’attività online di un utente) senza il consenso dell’utente in questione, chiaramente. Winkler si è quindi inserito nella rete intranet della centrale per riuscire a carpire gli indirizzi internet dei dipendenti, ai quali poi ha inviato una mail nella quale si avvertivano che sarebbero stati tagliati loro gli stipendi. Alla fine della mail c’era un link del sito sul quale erano invitati a cliccare per un’eventuale spiegazione. Ma sul sito c’era invece il virus, che veniva automaticamente scaricato solo aprendo la pagina web. Il collegamento in rete fa il
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contagio, l’infezione si diffonde … E’ facile a quel punto prendere il controllo dei sistemi operativi fino ad arrivare a spegnere l’intera centrale. I fautori del nucleare riflettessero anche su questo. Ma i sistemi informativi delle centrali sono blindati, o dovrebbero esserlo, viene obiettato da più parti a Winkler. L’altra (brutta) sorpresa viene dalla sua risposta. La maggior parte dei server usati presso le centrali sono pilotati da Windows Nt, e l’accesso a internet avviene senza particolare protezione. “Il punto più debole della catena è proprio la rete Intranet aziendale” spiega l’esperto – “che è estremamente vulnerabile, ma le centrali elettriche non aggiornano mai i propri server interni con programmi per la sicurezza perché dovrebbero spegnere la centrale”. L’allarme è stato lanciato per l’ennesima volta. Verrà raccolto prima che sia troppo tardi?
L’INFORMATIC A PUBBLIC A IN PIEMONTE Dal 1977 è attivo in Piemonte un Consorzio interuniversitario che lavora per rendere più efficiente ed efficace la Pubblica Amministrazione regionale. È il CSI-Piemonte, oggi punto di riferimento nazionale ed europeo nel settore dell’ICT. Il CSI contribuisce alla realizzazione di servizi innovativi, elaborando soluzioni avanzate in tutte le aree di intervento pubblico: dall’ambiente al territorio e alla protezione civile; dalle attività produttive alla formazione professionale e al lavoro; dalla sanità ai tributi; dai beni culturali ai sistemi amministrativi. Impresa socialmente responsabile, il CSI-Piemonte è attento alle ricadute delle proprie attività sul territorio. Negli ultimi anni il Consorzio ha progressivamente decentrato la propria azione a livello regionale, per creare opportunità di lavoro qualificato e per valorizzare potenzialità ed esperienze locali. Nel 2006 è stata inaugurata una nuova sede ad Alessandria (Logistica e trasporti), che si è aggiunta agli uffici di Cuneo (Agricoltura) e Novara (Lavoro, istruzione e formazione professionale).
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Da sempre il CSI è convinto che la crescita del territorio passi anche attraverso la promozione di iniziative culturali. Oltre al costante impegno per lo sviluppo della Società dell’Informazione piemontese, il Consorzio ha così assunto un ruolo attivo nell’organizzazione e nel sostegno di eventi in grado di favorire il dibattito sui grandi temi dell’economia, della scienza e della tecnologia. Come i convegni interdisciplinari organizzati ogni anno dal suo Comitato Tecnico Scientifico. Il risultato è una realtà che lavora per l’intero “sistema” piemontese, migliorando il rapporto della Pubblica Amministrazione con cittadini e imprese attraverso l’adozione di tecnologie e strumenti all’avanguardia: dall’open source al Web 2.0, dalla multicanalità alla business intelligence e all’eProcurement.
(www.wi-pie.org). Inoltre, grazie alla competenza e all’esperienza del Laboratorio di Accessibilità e Usabilità (LAU) del CSI-Piemonte navigare su Internet e utilizzare i servizi on line pubblici diventa ogni giorno più facile.
WEB 2.0 COOPERAZIONE
Favorire il dialogo fra le Pubbliche Amministrazioni per offrire ai cittadini servizi più rapidi ed efficienti. È l’obiettivo del progetto ICAR (Interoperabilità e Cooperazione Applicativa), che permetterà a sedici Regioni e una Provincia Autonoma di mettere in comune dati e servizi, semplificando il loro rapporto quotidiano con le persone e contribuendo a ridurre code e perdite di tempo. eDEMOCRACY
Con il Programma regionale WI-PIE entro la fine dell’anno tutti i piemontesi avranno a disposizione connessioni a banda larga sull’intero territorio
“Sesamo” apre a tutti le porte della Pubblica Amministrazione. Il progetto, lanciato dalle Regioni Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, permette di ottenere informazioni sui processi decisionali degli Enti, sulle leggi e sugli atti. In Piemonte questo è
IL CENTRO SERVIZI TELEMATICI “SERGIO BORGOGNO”
WI-PIE: L A BANDA L ARGA ARRIVA AI RIFUGI ALPINI
INTERNET PER TUT TI
possibile grazie a CRPnet, le pagine Internet del Consiglio regionale che consentono ai cittadini di dialogare con gli amministratori, fornendo opinioni e suggerimenti (www.consiglioregionale.piemonte.it).
Il CSI-Piemonte lavora ogni giorno per utilizzare al meglio le potenzialità del Web 2.0, condividendo dati e informazioni. La Wikiredazione del portale sulla storia dell’industria del Nord Ovest, ad esempio, consente agli utenti del sito di diventare autori dei contenuti (www.storiaindustria.it). I NUMERI
• 63 Enti consorziati • circa 176 milioni di euro di ricavi (previsioni di chiusura 2007) • più di 1.200 dipendenti • 7 sedi operative in Piemonte • 15a azienda ICT in Italia
L’ASILO NIDO AZIENDALE INAUGURATO NEL 2005
Libri per nulla virtuali
r a c c o n t a t e
Geraldina Colotti
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editoria
S t o r i e
estiti, scarpe, cellulari, dvd, televisori e computer ultrasofisticati. Tutti oggetti di marca e all’ultima moda, che stanno per essere mandati al rogo dal loro proprietario in mezzo a una piazza nel cuore di Londra, di fronte a una folla di persone. In piedi, davanti “a quel circo”, Neil Boorman, autore e protagonista del volume Goodbye Logo (Guanda), si chiede come abbia fatto ad arrivare fino a quel punto. Neil Boorman, giornalista e promoter musicale, ha trentuno anni, un blog, e vive a Londra. La connessione costante con posta elettronica, Sms e telefono mediante il Blackberry lo ha reso schiavo del lavoro ventiquattr’ore su ventiquattro. Vuoi mettere, però, la soddisfazione di far colpo estraendo dalla tasca il Blackberry… lo fa sentire sicuro e gli dà “un’aria dinamica, adulta. Come per dire: occhio che faccio sul serio”. Al lavoro, Neil vuol essere considerato un creativo, un libero pensatore. Perciò usa un Mac della Apple, “come fanno a quanto pare tutti quelli con una personalità artistica e cool”. Il fatto è che Boorman, per sua stessa ammissione, è un contenitore di etichette, accuratamente selezionate per inviare messaggi precisi a chi è in grado di coglierli. Tutto ha avuto origine nell’In-
bambini multimediali Dalla casa editrice Erickson, una collana di proposte psicoeducative multimediali per aiutare i bambini a partire dai 5 anni ad esprimere e a condividere le proprie emozioni. Finora comprende cinque titoli di Margot Sunderland, cinque fiabe introdotte da un personaggio guida in altrettante confezioni contenenti ognuna un cd-rom che propone diverse attività multimediali e interattive, un cd audio per l’ascolto della favola, 6 carte per giocare e un segnalibro. Fra le ultime uscite, Aiutare i bambini che hanno paura prende spunto dalla storia di Minuscolino per rappresentare ansie e dubbi di quei bambini che spesso preferiscono rifugiarsi nel silenzio, convinti che nessun adulto sarebbe in grado di comprenderli. Con l’aiuto dei supporti interattivi, i piccoli potranno assistere a due scenette, accedere a un’area autogestita intitolata “il mio diario” e usufruire di 43 attività psicoeducative ispirate al tema della fiaba. La favola. Un esserino di nome Bip aiuterà invece i bambini che fanno i bulli ad abbattere il sistema di difesa che hanno eretto per proteggersi dalle emozioni, a far loro esprimere il bisogno d’amore nascosto dietro la maschera dell’aggressività. L’esserino di nome Bip mostra infatti ai bambini come una grave perdita, una domanda senza risposta o un abbandono possano portare a indurire il proprio cuore per cercare di evitare altro dolore, e come poi quel muro eretto per proteggersi dal dolore impedisca l’accesso anche ad altri sentimenti positivi. Uno scricciolo di nome Nonimporta è invece la storia scelta per Aiutare i bambini a esprimere le emozioni. Nonimporta cerca di ingoiare, insieme a un pezzo di ciambellina alle fragole, tutta la rabbia che le ha fatto venire Picchiaforte, e così rimedia un mal di pancia. Attraverso la fiaba e le scenette, invece, l’obiettivo è quello di imparare a dire “mi importa”, svelare e condividere con gli altri i sentimenti che fanno male, troppo pesanti da sopportare da soli. (ge.co)
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ghilterra della Thatcher, a metà degli anni ’80. Anni in cui le strutture sociali inglesi “stavano radicalmente cambiando” e anche la famiglia di Neil, che si collocava “ai margini della lower middle class” cominciava a potersi permettere una casa più grande, la seconda macchina o “l’annuale pacchetto vacanze in Spagna”. Niente di tutto questo, però, consentiva a Neil di avere la vita più facile a scuola, dove i ragazzi più poveri di lui sapevano far meglio a botte, noleggiavano cassette vietate ai minori e stavano con le ragazze “più ingioiellate e truccate”. Ma soprattutto, a differenza di lui, i suoi coetanei delle classi popolari avevano “tutte le firme giuste sui vestiti, sulle bici e persino sul cestino della merenda”. Com’era possibile? A casa di Neil, dove pur non mancava nulla, i genitori non mostravano invece interesse alcuno per le marche e così lui veniva escluso dal gruppo. Per evitare di essere emarginato, a quattordici anni, Neil “era ormai consacrato all’osservanza assoluta delle legge dei marchi” tanto da diventare, da adulto, un apprezzato consulente per numerose grandi marche. Ma a un certo punto, ecco la crisi, alla cui maturazione i lettori assisteranno scorrendo le pagine del suo libro-diario e del suo blog, www. bonfireofthebrands.com Mucca pazza, microchips, mutazioni genetiche, ossessione per le marche indotta attraverso tecniche ultrasofisticate… Il pensatore francese Jacques Ellul (1912-1994) aveva già previsto (quasi) tutto fin dal 1954. Ellul è più noto negli Stati uniti che nel suo paese, perché Aldous Huxley (l’autore de Il mondo nuovo), affascinato dalle sue idee provocatorie e anticipatrici, negli anni ’60 fece tradurre e pubblicare il suo saggio La tecnica rischio del secolo, che poi diventerà un classico studiato nelle università. Tra il 1954 e il 1988, Ellul ha scritto 48 libri, oggi quasi tutti
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introvabili, principalmente per dimostrare che non ci può essere uno sviluppo tecnico infinito in un mondo finito. Un vulcanico precursore, a cui rende omaggio Jean-Luc Porquet, giornalista del Canard enchainé, nel volume Jacques Ellul, l’uomo che aveva previsto (quasi) tutto, edito da Jaca Book. Per mostrare la “straordinaria chiaroveggenza” di Ellul, Porquet ha scelto “venti idee forti sullo strapotere della tecnica che illustrano episodi di attualità”: dagli Ogm alle armi batteriologiche, dall’impiego delle nanotecnologie per scopi militari, all’impoverimento del sapere e delle culture, livellate dal linguaggio tecnico-informatico. Ellul non ha potuto assistere all’enorme sviluppo di internet e all’irruzione degli organismi geneticamente modificati nell’alimentazione, ma – scrive Porquet - “ne presentiva le conseguenze e le aberrazioni”. I suoi scritti hanno lasciato un segno nel pensiero e nella pratica di quanti, come il contadino altermondialista José Bové, o il pensatore della decrescita Serge Latouche (presenti nel volume), si battono contro gli usi distorti delle nuove tecnologie e contro la privatizzazione del vivente. Nel libro Le Bluff technologique (scritto nel 1987), fra gli enormi problemi “sollevati dalla nuova fase di espansione del sistema tecnico”, Ellul ne individuava due che interessano l’oggi: la questione ecologica, che il pensatore invitava a “considerare nel suo insieme”, e la situazione del “Terzo Mondo”, a cui l’Occidente – diceva - promette un modello di sviluppo tecnologico illusorio e nocivo, che aumenterà invece la forbice fra ricchi e poveri. E aggiungeva poi: “Andiamo verso una vera guerra dichiarata dal Terzo Mondo contro i paesi sviluppati”, una guerra asimmetrica, in cui il “Terzo Mondo” detiene due armi, “la totale abnegazione dei kamikaze, e la cattiva coscienza dell’opinione pubblica occidentale” nei suoi confronti. Parole profetiche di un pensatore ardito, brillante ma anche ambiguo. Per lui, Porquet non lesina i superlativi: senza però nasconderne certi giudizi ridicoli sulla musica dei Rolling Stones, l’atteggiamento acritico verso lo stato di Israele, la fede religiosa e un certo moralismo, nonostante i continui riferimenti al marxismo (che aveva studiato a fondo), il desiderio di far parte dell’Internazionale situazionista, e i tre libri dedicati al problema della rivoluzione: sono convinto – ha scritto fino all’ultimo Ellul - che “il socialismo sia il solo orientamento possibile, perché è il solo in cui viene detto e dichiarato che l’obiettivo è la fine del proletariato, la fine dell’alienazione, la liberazione dell’uomo”.
Liberi pensatori tra Blackberry e Mac della Apple, mucca pazza, microchips e mutazioni genetiche. E c’è chi parla, anzi che scrive di bluff tecnologici...
information technology • il manifesto • [15]