scritto e mangiato dicembre 2008

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scritto & mangiato

Supplemento al numero odierno de il manifesto

in collaborazione con Slow Food

L’assagiro del mondo Viaggi fra piccole e festive tradizioni alimentari. Aspettando un 2009 di gusto migliore

DICEMBRE 2008


Refresh your Cells BEVANDA AI FRUTTI ROSSI ALIXIR IUVENIS Aiuta a rallentare I’invecchiamento cellulare contrastando i radicali liberi in eccesso grazie ad un mix di sostanze antiossidanti selezionate: Catechine, Vitamina C, Vitamina E. Scopri la gamma e i punti vendita: www.alixir.it Si raccomanda di associare sempre l'uso dei prodotti Alixir a un'alimentazione varia ed equilibrata e a uno stile di vita sano. Per esempio, si consiglia di consumare 4-5 porzioni di frutta e verdura al giorno, di diversa qualità .


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in collaborazione con Slow Food

5 Natale con chi puoi

Le illustrazioni sono tratte dalla pubblicazione Tutti i cocktails, 1960 Editions Gérard e C. Verviers Direttore responsabile Sandro Medici Direttore Mariuccia Ciotta Gabriele Polo Supplemento a cura di Francesco Paternò Grafica Tag design Paola Marasca Daria Sorrentino

di Kamal Mouzawak 7 Cocktail di Natale di John Irving 8-9 Gli esagerati dolci di Tracia di Nikki Rose 11 A scafo tondo di Antonio Attorre 14 La cena boreale di Ruperto De Nola 15 La locanda del punch di Mari Angeles Gallardo 17 La sinistra nel piatto di Loris Campetti 19 La torta all’acqua di Marinella Correggia 20 Cucinati di carta di Geraldina Colotti

Illustrazione di copertina Laura Federici Pubblicità concessionaria esclusiva Poster srl 00153 Roma via A. Bargoni 8 tel. 06 68896911 fax 06 58179764 Stampa Sigraf srl via Redipuglia, 77 Treviglio (Bg)

ggiungere un buco alla cinta. O essere pronti a cambiare taglia. Rivedere la coperta, che accidenti è sempre corta. Mala tempora, c’è recessione e i consumi – anzi, certi consumi – si fanno più piccoli, in taluni casi assottigliandosi fino a scomparire. Sul cibo, la partita è già seria, fra malnutriti di tutto il mondo e sprechi del nord del pianeta, una orribile forbice che sarebbe ora di chiudere almeno un po’ e avvicinare di un centimetro le due punte. Cibo e crisi, bisogna andarci piano. Anche per questo, con i nostri amici di Slow Food per il nostro appuntamento trimestrale abbiamo deciso di imbarcarci per brevi viaggi natalizi in cui una cultura alimentare - ricca solo di tradizioni e di rispetto sia base e pretesto. Girando un po’ il mondo. Dall’antica cucina libanese ai drink di Cuba, passando per i dolci di Tracia o il pesce adriatico. E ancora tra posadas messicane e un tacchino arrosto da perfetta serata estiva alla cilena, ci sono storie che vale la pena raccontare e dunque leggere. Magari insieme a un piccolo menù FRANCESCO PATERNÒ di libri, che su questo supplemento non mancano mai, più piccante che mai. Certamente bisogna scegliere e scegliere e scegliere. Nei suoi celebri “Saggi”, Montaigne a un certo punto faceva della pedagogia e insegnava la differenza tra l’imbuto e il setaccio, in nome della cultura tout court. “Non ci si stanca di urlare ai nostri orecchi come chi versasse in un imbuto”, scriveva, e sembra adesso, di essere bombardati e spesso costretti a ingurgitar di tutto, con effetti simili a quelli di cui lui metaforicamente (ma mica tanto) parla: “E’ prova di non aver maturato e di non aver digerito rigettare il cibo come lo si è inghiottito. Lo stomaco non ha compiuto la sua opera se non ha fatto cambiare aspetto e forma a quello che gli si era dato da cuocere”. Insomma, altro che “imbuto”, Montaigne gli contrappone il “setaccio”, attraverso il quale tutto deve invece passare. Dopo avere scelto, soppesato, osservato. Divagazione da supplemento, andate oltre e buon proseguimento. Ci rivedremo nel 2009, speriamo con gusto.

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L’imbuto e il setaccio

Chiuso in redazione il 15/12/2008

Per avere tutte le informazioni sui cd, gli artisti, i concerti, e molto altro consultate musica.ilmanifesto.it

LE ULTIME NOVITÀ YO YO MUNDI ALBUM ROSSO euro 10,00

Finalmente dopo 6 anni il nuovo disco di canzoni degli YYM, la sintesi della loro poetica dopo i successi di 54, Resistenza e Sciopero. 16 tracce che descrivono con intensità, ironia e emozione il disorientamento della sinistra e il desiderio di un¹Italia migliore. Canzoni d’amore, di lotta e di speranza con un testo di Massimo Carlotto e la partecipazione di Steve Wickham (violinista dei The Waterboys), Maurizio Camardi, Patrizia Laquidara, Marco Rovelli, Alessio Lega.

ASSALTI FRONTALI "UN’INTESA PERFETTA" euro 10,00

"ECCOCI DI NUOVO, IL DISCO NUMERO SETTE ESCE DAL MIO COVO". Con queste parole inizia "Un'intesa perfetta", il ritorno di Assalti Frontali con il nuovo cd. Le rime di Militant A, l'ironia di Pol G e Glasnost, le basi di Bonnot, la postproduzione di Casasonica, ci regalano una nuova splendida pagina della migliore rap poetry urbana e militante che l'Italia conosca. ALTRI TITOLI Mi sa che stanotte euro 10,00

BAOBAB INTERNATIONAL ORCHESTRA "TRIBAL CONCEPT"

PICCOLA ORCHESTRA LA VIOLA "AROVÀ" euro 10,00

TRIBAL CONCEPT è il primo lavoro dell’ensemble multietnico BAOBAB INTERNATIONAL ORCHESTRA. Il lavoro rappresenta un percorso musicale giocato continuamente su contrasti moderni, lirici, meditativi e psichedelici. Il tribalismo è collocato come un aspetto della cultura intellettualmente “migrante”. B.I.O. coniuga la musica contemporanea d'arte con la musica etnica di derivazione mediaterranea, sub sahariana e indiana.

“Arovà” riassume le sensazioni, le emozioni e le esperienze di oltre un decennio di questa attivissima orchestra. I brani contenuti sono di ispirazione popolare, con uno sguardo attento al futuro, all’innovazione musicale, alla sperimentazione. Al disco partecipano anche molti ospiti. Spiccano Daniele Sepe, Peppe Barra, Riccardo Tesi, Mohsen Kasirossafar, Lino Cannavacciuolo, Piero Ricci, Massimo Carrano, Maria Rosaria Omaggio e il Quartetto Flegreo.

EDOARDO DE ANGELIS “HISTORIAS” euro 10,00 Historias ci conduce per mano nel folto della cultura musicale latinoamericana, cui rende omaggio e da cui trae musicalmente forza espressiva e colori. La straordinaria vena narrativa di De Angelis ci regala una collezione di immagini che, con l’aiuto di tre inediti e di una interpretazione di un brano di Cesaria Evora, ripercorre il percorso di uno dei più sensibili cantautori italiani, da “Lella” a “La casa di Hilde” a “Sulla rotta di Cristoforo Colombo”.

AA.VV. "26 CANZONI PER PEPPINO IMPASTATO" 2 cd euro 15,00 30 anni fa Peppino Impastato moriva per mano della mafia. Oggi le sue idee sono più vive che mai. Il Manifesto cd e il Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato" presentano "Amore non ne avremo", 26 brani, tra poesie di Peppino trascritte da Gandolfo Schimmenti con la direzione artistica di Giuseppe Fontanella, tributi live, inediti. Partecipano tanti nomi, da Carmen Consoli a Marina Rei, Gang, Marlene Kuntz, 24 Grana, Elia, Yo Yo Mundi ed altri ancora.

euro 10,00

I cd sono in vendita presso le librerie La Feltrinelli, Ricordi Mediastores, il libraccio e Melbookstore. Per informazioni su altri punti vendita e per acquisti con carta di credito telefonare ai numeri: 06/68719330 - 622. Per ricevere i cd aggiungere al prezzo 2,00 euro di

spese postali (fino a tre cd) e versare l’importo sul c.c.p. n. 708016 intestato a il manifesto coop. ed. - via A. Bargoni, 8 - 00153 Roma, specificando la causale. Distributore per i negozi di dischi Goodfellas tel. 06/2148651 - 21700139


LA SICUREZZA DEL LATTE CHE BEVI È LEGATA A UN FILO. DI DIFFERENZA.

Il filo della Filiera Granarolo. Dove le mucche, solo mucche italiane, sono selezionate e controllate una a una. Dove gli alimenti che mangiano sono solo alimenti naturali. Dove il latte viene garantito e certificato ogni giorno con controlli più numerosi e approfonditi di quelli di legge. Da quando viene munto, a quando viene portato fresco a casa tua. La sicurezza del latte non è un’opinione. Quando ne scegli uno, pensaci un filo.

Da sempre Granarolo fa la differenza.


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n quasi tutti gli angoli del mondo si intonano canti di Natale… «Il est né le divin enfant» (è nato il bambinello), recita la prima strofa di una nota canzone francese e in Libano potremmo dire: è nato, proprio qui vicino, il bambinello! Il Libano e tutta la regione circostante sono considerati come Terra Santa per il cristianesimo, ma anche per altre religioni; una terra, dunque, di tradizioni e di usanze ancestrali. Natale, l’Anno Nuovo, l’Epifania e alcune feste che si celebrano a livello locale, come la Sainte Barbe (Santa Barbara) scandiscono i giorni e le notti di dicembre e di gennaio. I preparativi per il Natale hanno inizio il 4 dicembre, quando, in occasione della festa di Santa Barbara, si seminano chicchi di grano, lenticchie e ceci sopra un letto di cotone inumidito predisposto in piccoli piatti. Per la sera del 24 i semi, germogliati e cresciuti, avranno formato dei bei ciuffi di erba verde che serviranno a decorare i presepi. Questa tradizione dovrebbe risalire all’epoca pre-cristiana: questi semplici elementi decorativi sono infatti chiamati “giardini di Adone” (era, Adone, l’amante della bellissima Venere che fu ucciso da un cinghiale). I nostri “giardini di Adone”, che brillano di un verde tenero e sono destinati a morire nell’arco di pochi giorni, ricordano la breve esistenza dell’amante divino e il suo ritorno a ogni volgere della nuova stagione: un simbolo della ciclicità della vita, delle stagioni, del giorno e della notte… La celebrazione di Santa Barbara coincide inoltre con il carnevale locale, durante il quale i bambini si travestono e girano festeggiando di casa in casa. Molti sono i dolci tipici della festa, ma citerò soltanto i più conosciuti: i quattayef, fagottini di pasta morbida, a forma di mezzaluna e ripieni di crema o di noci, e gli awwamaat, palline di pasta lievitata molto molle fritte e imbevute ancora calde di sciroppo di zucchero. Alcune settimane più tardi si celebra il Natale, la festa della riunione familiare, che spesso si trascorre a casa dei nonni o, più esattamente, intorno ai fornelli della nonna. Se il tacchino, il tronchetto dolce e altri classici piatti internazionali sono diventati un must dei giorni nostri, è bene precisare che si tratta di cibi nuovi sulle nostre tavole e che la loro acquisizione risale a meno di un secolo fa. Secondo la tradizione la vigilia si trascorre intorno a una buona tavola, sulla quale spesso il posto d’onore è riservato a un delizioso pollo farcito all’orientale: riso, carne trita, mandorle, noci, pinoli, il tutto rialzato con pepe e cannella. Un altro piatto di carne che si prepara spes-

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Natale con chi puoi di Kamal Mouzawak*

Fermata in Libano, terra di tante religioni e tradizioni. Tra cucina antica e cibi nuovi per le nostre tavole, acquisiti meno di un secolo fa

so per le feste è il collo farcito. I dolci di un tempo erano fritti in olio. Tutta la famiglia si riuniva intorno al fornello e alla pentola d’olio bollente nella quale sfrigolavano gli awwamaat, gli zlebyieh (lunghe strisce di pasta lievitata molle, fritte e senza zucchero) e i maakrun (“dita” di pasta consistente, fritte e impregnate di sciroppo ancora calde). Gli stessi dolci si preparavano per l’Epifania ed era consuetudine, tra Natale e l’Epifania, friggerne tutte le sere. Ecco perché erano chiamate… “le notti della frittura”. Parlando di notti, quella della messa di Natale è davvero imperdibile: le campane suonano un gioioso carillon e la gente accorre nelle chiese illuminate, decorate e calde. Anche se i presepi sono stati allestiti molto

prima, la statuetta del Bambino nella mangiatoia si mette solo a mezzanotte. Se oggi la festa del Natale è fissata per il 25 dicembre, l’antico calendario liturgico la faceva coincidere con quella dell’Epifania, il 6 gennaio, e la comunità armena del Libano continua ancora a celebrare il Natale nell’antica data. Il primo gennaio poi, è la festa del buongiorno. Al mattino c’è la corsa a chi augura il buongiorno e il buon anno per primo e si procede al bestryineh, lo scambio dei regali: qualche soldino per i bambini e per i grandi cose buone, che soddisfano anche più del denaro. La notte della vigilia si trascorre invece a tavola, prima per mangiare e poi per giocare. Si tenta la sorte per capire come tirerà l’aria del nuovo anno. Rimanendo in tema di

KEBBEH Per 6 persone 600 g di carne (manzo o pecora) 300 g di burghol fine sale, pepe Per la salsa: 1 zampa di pecora o montone tagliata a pezzi grossi 400 g di tahin 400 g di ceci (lasciati in ammollo per una notte) 400 g di cipolline il succo di 4 arance amare olio cannella sale e pepe Per la preparazione del kebbeh: sciacquate il burghol nell’acqua corrente, strizzatelo molto bene, per eliminare più acqua possibile, mescolatelo con la carne, che avrete in precedenza

un’auspicata abbondanza, da queste parti è fondamentale assicurarsi quella di acqua, fonte di vita. Per questo le donne si recavano al mattino alla fontana del paese portando con sé le brocche vuote e un pugno di semi, o di frutta secca o di noci: offerte perché l’acqua sggasse abbondante. Se oggi questa tradizione si è un po’ persa, resiste invece quella del piatto “in bianco”: per iniziare bene è opportuno mangiare una preparazione bianca come augurio di un nuovo anno puro e immacolato. Si preparano quindi piatti allo yogurt e salse a base di tahin (pasta di sesamo). Tipico dell’inverno, la stagione delle arance, è l’arnabyieh kebbeh, e proprio le arance amare sono il segreto della sua deliziosa salsa. Questo

battuto finemente nel mortaio, e con la cipolla tritata. Condite con sale e pepe e lavorate con le mani, o con l’impastatrice elettrica, finché ne risulti una pasta compatta. Formate con le mani delle palline cave. Questo lavoro richiede una certa abilità, e per i neofiti può rappresentare un’autentica prodezza: le palline, infatti, un po’ più piccole di un uovo, devono essere vuote e leggermente appuntite alle due estremità. Per realizzarle prendete una piccola quantità di pasta di carne, rotolatela bene tra i palmi delle mani fino a ottenere una pallina compatta poi, tenendola nella mano sinistra scavatela con l’indice destro compattandone le pareti. Riunite i bordi modellando una punta. Se vi bagnate appena le mani con acqua fresca il kebbeh non si incolla. Mettete da parte le palline crude badando che non si incollino tra di loro o che si affloscino. Cambiate l’acqua ai ce-

piatto libanese è composto da una miscela di carne battuta nel mortaio e burghol (grano frantumato). Arnabyieh è l’aggettivo derivante da arnab, coniglio, ma in realtà di carne di coniglio in questa preparazione non c’è ombra! Forse il richiamo è solo al colore chiaro che assumono le carni utilizzate. La ricetta che propongo è di Georges Rayess, autore di L’art culinaire libanais (L’arte culinaria del Libano), riferimento goloso delle nostre madri e delle nostre nonne, nonché dono che ogni suocera faceva alla novella nuora tanto per suggerirle velatamente, con garbo, quanto ancora lunga fosse la strada da percorrere perché la sua cucina di giovane sposa potesse essere considerata… commestibile. *Slow Food

ci e fateli bollire. Intanto fate imbiondire le cipolline nell’olio. Cuocete i pezzi di zampa in abbondante acqua, schiumate il brodo e aggiungete i ceci e le cipolline appena rosolate. Aggiustate di sale, pepe e cannella e lasciate cuocere per 40 minuti. Mescolate con una frusta il tahin con il succo delle arance amare, badando che non si formino grumi. Secondo il vostro gusto, per rialzare il sapore, potrete aggiungere succo di limone, arancia, mandarino o qualsiasi altro agrume. Prima che la carne della zampa si stacchi dall’osso, scolate i pezzi dal brodo e teneteli in caldo. Versate la salsa di tahin nel brodo, che avrete lasciato sul fuoco, mescolando bene. Cuocete, per 10 minuti, le palline di kebbeh nel composto ottenuto, e soltanto prima di servire aggiungete i pezzi di carne. Servite questo piatto ben caldo, da solo o accompagnato da riso bianco.



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iamo a Trinidad, Cuba – gioiello coloniale, patrimonio dell’umanità Unesco –, ospiti della casa particular della señora Vasquez. È il giorno di Natale 2005. Saluto Julio, il nipote della señora: ha solo cinque anni ed è un po’ cicciottello. Pequeño comandante Julio, nombre de batalla “el gordito”, l’avevo soprannominato la sera prima, e nessuno ha avuto da ridire. «¡Feliz Navidad!». «¿Navidad de quien?» risponde il bambino, perplesso. È normale. Nella Cuba postrivoluzionaria, il 25 dicembre è stato dichiarato festa nazionale solo in seguito alla visita di papa Giovanni Paolo II nel 1998, e il concetto del Santo Natale ancora deve entrare nella coscienza collettiva. In quella infantile poi… Alla vigilia, la señora ci ha dato una bella dimostrazione di sapienza culinaria, servendoci una magnifica cena, e stamani la prima colazione non è meno ricca: disquito de queso blanco (panino tostato di formaggio fresco), uova strapazzate, gelatina di guayaba, manì (una sorta di pasta di noccioline), succo di ananas, miele, café de montaña (coltivato dal marito della señora sulla vicina Sierra del Escambray), cioccolato, banane, papaie e arance. Sul fronte gastronomico, la giornata inizia benissimo. Peccato che non si sia fermata lì.

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Canchánchara Andiamo alla scoperta di Trinidad: le sue attrattive e le sue specialità. Cuba è l’isola dei cocktail – dal daiquiri al Cuba libre, dal mojito all’Havana especial, dal cubanito alla piña colada – e Trinidad ne vanta uno tutto suo. Si tratta della canchánchara, una miscela di rum, acqua, miele e limone, servita in una caratteristica copa di terracotta. Il cocktail (dico cocktail ma, visti gli ingredienti, la bevanda andrebbe bene anche come corroborante-carburante nell’inverno europeo) dà il nome al locale di cui è la specialità: la Taberna de la canchánchara. È lì che siamo diretti per l’aperitivo. Per strada ci ferma un giovane: «Sigaros, sigaros, sigaros. Puros, puros, puros. Muy baratos…». «No, grazie». Alla taberna siamo sfortunati. Al giovane cameriere ordiniamo due cancháncharas, ma si rifiuta di servirci. Siamo a Cuba solo da due giorni, e dobbiamo ancora perfezionare la comprensione dello spagnolo. Però, le parole limón e malo si ripetono spesso nel discorso del ragazzo. Insomma, oggi, giorno di Natale 2005, una canchánchara alla famosa Taberna de la canchánchara non si può avere. O il limone è cattivo, oppure non c’è proprio. Oppure chi sa?

CANCHÁNCHARA Le cronache più accreditate parlano della canchánchara per la prima volta nel 1898. Per la precisione il 20 giugno, una giornata particolarmente calda. Erano sbarcate sulle spiagge di Siboney e di Daiquirí, nei pressi di Santiago de Cuba, le truppe del generale nordamericano Shafter a dar manforte ai cubani nella lotta contro il dominio coloniale spagnolo. Visto che gli yanqui indossavano divise invernali e morivano di caldo e di sete, i mambises (i rivoluzionari cubani che presero il nome dal guerrigliero dominicano John Mamby) pensarono di offrire loro la

canchánchara, bevanda che si portavano abitualmente appresso. Facile da prepararsi, la canchánchara è nota e diffusa in tutto il Sud e l’Est di Cuba, all’Avana un po’ meno. Come si prepara: 2/3 di rum bianco 1/3 di succo di limone 2 cucchiai di miele acqua ghiaccio tritato Mescolate bene il succo di limone con il miele e il rum bianco finché il miele non si sia sciolto. Aggiungete l’acqua e il ghiaccio e shakerate. Servite, possibilmente, in una coppa di terracotta.

zio (due svogliate cameriere di mezz’età, che sembrano avere altro cui pensare) che fanno paura. Opto per un filete de pescado (non meglio identificato) al criollo. «Al criollo»: la locuzione suggerisce stuzzicanti giochi di spezie e aromi, ma, in pratica, sta per una generica salsa al pomodoro. L’atmosfera al Trinidad Colonial è deprimente e la serata indimenticabile… per tutte le ragioni sbagliate. «¿Una ensalada de frutas tropicales, por favor?». «¡No hay frutas!». Ci risiamo. In cucina intravedo un uomo che indossa un cappello a cilindro da chef. Forse c’entra qualcosa con la nostra cena?

La revoluciòn raccontata da Novella 2000, insomma. ¡Hasta la victoria siempre! Il giorno dopo, a colazione, la señora Vasquez ripropone cose meravigliose: stuzzichini salati, delizie dolci, una cornucopia di frutti tropicali. La sera, sua figlia, la mamma del pequeño comandante, ci prepara pure una canchánchara. Ottima! Viva la señora Vasquez e la sua famiglia. D’ora in poi, si mangerà (e si berrà) solo nelle casas particulares: mai più restaurantes (o tabernas). Anche nei giorni di festa. ¡Feliz Navidad, Cuba! Non è facile abbracciarti, ma non è difficile amarti. *Slow Food

Cocktail di Natale di John Irving*

Per le strade di Trinidad, patrimonio dell’umanità Unesco, Cuba, alla ricerca di una drink nato oltre cent’anni fa

Pollo el jigue Pazienza, andiamo a mangiare un boccone. C’è da assaggiare il rinomato pollo el jigue, anch’esso una specialità che prende il nome dal locale che l’ha inventato. E quel locale, il restaurante El Jigue, si trova nella stessa via – la Calle Ruben Martinez – della Taberna de la canchánchara. Per strada ci ferma un giovane: «Sigaros, sigaros, sigaros. Puros, puros, puros. Muy baratos…». «No, grazie». Al restaurante siamo sfortunati. Al vecchio cameriere ordiniamo il pollo el jigue, ma si ri-

fiuta di servirci. Questa volta massima chiarezza, però. «¡No hay pollo!» ci dice con disarmante candore. Visto che il pollo el jigue consiste in pezzi di pollo in salsa di pomodoro serviti su un letto di spaghetti, formaggio e insalata, forse ci è andata pure bene questa volta. Certo che, per un inglese, stare senza pollo o tacchino a Natale è un supplizio, ma si sopravvive lo stesso. Pazienza: decidiamo di risparmiarci per una bella cena presso uno dei ristoranti più quotati (si fa per dire) di Trinidad, il Trinidad Colonial. Un locale che non avrà inventato piatti, ma che, secondo la guida Lonely Planet, propone «una cucina internazionale raffinata». Per strada ci ferma un giovane: «Sigaros, sigaros, sigaros. Puros, puros, puros. Muy baratos…». «No, grazie». Niente da dire, il Trinidad Colonial, ospitato all’interno di Casa Bidegaray, un palazzo patrizio dell’Ottocento con un bellissimo patio, mobili d’epoca e soffitti alti, si presenta bene. Sono il menù (triste e omologato: pescado o camarones, cerdo o pollo) e il servi-

Forse, ma che sia veramente uno chef, non ci scommetterei. Torniamo alla casa particular sotto una pioggia battente. Camminare è pericoloso: l’illuminazione pubblica è scarsissima e il marciapiede è pieno di buche. Sento una voce. Sembra che venga da sottoterra, forse da una delle buche. «Sigaros, sigaros, sigaros. Puros, puros, puros. Muy baratos…». Non vedo nessuno, ma rispondo lo stesso. «No, grazie». Casa Vasquez A casa, la señora Vasquez sta guardando la tv: l’ennesimo special sulla rivoluzione. Filmati d’archivio di barbudos sulla Sierra Maestra. «Che belli!» fa la mia amica. «Belli e bravi» fa la señora. «Secondo lei, il più bello qual era?». «È difficile dire. Certo che il Che…». «Bellissimo, ma, a vedere le foto, anche Camillo Cienfuegos era un bel tipo…». «Camillo, sì, bello anche lui, ma non dimenticare Fidel». «Fidel?». «Sì, Fidel. Si è sposato qua a Trinidad con una ragazza locale. L’ho visto da vicino. Bell’uomo…».


8scritto&mangiato

ndare in Tracia, la zona più settentrionale della Grecia, per le vacanze natalizie, significa affrontare un viaggio entusiasmante ma piuttosto arduo. Partendo dalla periferia sud di Iraklio, a Creta, prima di raggiungere la destinazione finale abbiamo dovuto prendere due aerei, un taxi e – per un lunghissimo tratto – un treno, impiegando in tutto lo stesso tempo che ci vuole per attraversare l’Atlantico in aereo. Mia suocera, Vasiliki, vive a Dikea, una delle numerose piccole comunità agricole greche situate su una striscia di terra delimitata a nordovest dalle montagne e a est dal fiume Evros, che traccia il confine naturale con, rispettivamente, Bulgaria e Turchia. Le popolazioni di queste tre nazioni hanno convissuto pacificamente su questa terra nel corso dei secoli, nonostante le lotte politiche, le migrazioni e le violente variazioni dei confini. È un mondo molto diverso da quello delle regioni meridionali della Grecia: non ci sono turisti, e i rari stranieri che ci passano lo fanno per caso. La pianura fertile ed estesa, nutrita dal fiume, ha fornito l’ambiente ideale allo sviluppo di un’agricoltura industriale, dominata da coltivazioni di barbabietola da zucchero (ci sono anche alcune industrie di trasformazione delle barbabietole in zucchero), grano, orzo, mais, girasoli e cotone. C’è anche qualche progetto di agricoltura biologica, ma la conversione da un sistema all’altro non si è rivelata economicamente soddisfacente per gli agricoltori, e prima che gli abitanti si sentano pronti a scegliere questa strada ci vorrà una bella campagna informativa. Uno dei paesi di questa zona, Soufli, era famoso per la produzione di seta, che circa un secolo fa fece investire i mercanti francesi nella costruzione di una linea ferroviaria che attraversa tutta l’area. Ma a un certo punto le piante che forniscono il nutrimento ai bachi da seta, i gelsi, furono rimpiazzate da coltivazioni di cereali. Oggi la popolazione rurale della Tracia è costituita soprattutto da ultrasessantenni, alcuni dei quali continuano a coltivare la terra, da soli o in cooperativa con altre famiglie per ammortizzare gli oneri finanziari e fisici. L’agricoltura è diventata un’attività così rischiosa dal punto di vista economico che un’ampia percentuale di giovani preferisce trasferirsi in città alla ricerca di occupazioni migliori (un numero significativo ha scelto la Germania). Molte fattorie sono state date in affitto ad agricoltori “moderni”, che dispongono di macchinari tecnologiamente avanzati. Gli effetti di questo cambiamento devono ancora essere valutati seriamente. L’inquinamento della principale fonte idrica, il fiume Evros, da parte delle nazioni industriali del nord è un altro fattore che ha contribuito allo spopolamento di queste regioni: molti sono ormai i villaggi quasi completamente abbandonati.

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Vasiliki è andata in pensione da poco, dopo aver gestito una cospicua attività agricola a impostazione familiare: il suo primo marito morì trent’anni fa, e i suoi figli se ne andarono negli anni Ottanta. Non si può dire che sia un’incarnazione esemplare del modello convenzionale di donna greca: di giorno guida i suoi mezzi – il pick-up e il trattore –, di sera cura l’orto e dopo cena tesse tappeti con il telaio oltre a occuparsi di altre mille attività tradizionali. Suo marito, Christos, si è adattato con una certa flessibilità al mondo che cambia. Per cinquant’anni è stato proprietario di un piccolo supermercato di fronte alla stazione, un’attività redditizia quando il paese era vivo e la ferrovia era l’unico mezzo di trasporto per persone e merci. Poi, quando l’avvento di automobili e mezzi refrigerati rese obsoleta la ferrovia, Christos trasformò il supermercato in un emporio agricolo e in un’officina per biciclette. A 79 anni è più in forma di molti uomini che hanno la metà dei suoi anni. La casa di Vasiliki e Christos è circondata da

di Nikki Rose*

Tappa greca, in una zona rurale del nord abitata da ultrasessantenni, dove l’agricoltura è diventata un’attività rischiosa dal punto di vista economico

orto, frutteto, pollai e attrezzi agricoli. I loro polli e tacchini hanno tanto di quello spazio all’aperto che pensai che avrei potuto ritrovameli a prendere caffè e pasticcini nella piazza del paese. Come da tradizione, la casa ha una grande stanza che fa da cucina e soggiorno, e che ospita il forno a legna. Nei freddi mesi invernali tutta la famiglia si raduna qui, perché è l’unico locale riscaldato. Le festività natalizie trascorrono tra lunghe visite a parenti e amici per un caffè e una quantità esagerata di dolci tradizionali (i dolci al cucchiaio a base di ciliegie nere erano paradisiaci, e ovviamente sono stati i primi a sparire). Con tutta quella gente che andava e veniva, la casa di Vasiliki sembrava una stazione ferroviaria. Ogni giorno c’era un gran daffare in cucina. Vasiliki preparava un impasto in un’enorme teglia e lo ricopriva di feta greca fatta in casa e di horta (erbette selvatiche). Il giorno dopo stendeva lo stesso impasto in dischi sottili, ricopriva ciascun disco con uno strato di burro, uova e feta, raccoglieva quindi il composto scivoloso formato da strati alternati e lo metteva a cuocere, lentamente, nel forno a legna. Il risultato era una torta salata rustica, deliziosa e croccante. Un giorno arrivò zia Yianoula e in un batter d’occhio si mise a preparare la pasta fillo. Tolse le scarpe, si rimboccò le maniche e stese un telo di plastica sul pavimento, dietro al tavolo della cucina, per proteggerlo dalla farina. La osservai attentamente per un’ora preparare l’impasto e stendere con sapienza ogni foglio con il mattarello lungo e sottile, alternando passate e rivoltate veloci, ma non riuscii a capire quale fosse la tecnica. Usammo la pasta fillo per la nostra horta-pita di Natale, ricca di erbe aromatiche e altri sapori dell’orto: porri, cipollotti, aneto e prezzemolo. La pasta fillo fatta in casa ha una corposità

dolc e un sapore incomparabili con quelli della pasta fillo pronta per l’uso che si trova in commercio: è difficile immaginare di poter tornare indietro! Tra una festività e l’altra ci sono sempre i lavori quotidiani da fare. A giudicare dagli scaffali della loro dispensa, pieni di vino e distillati fatti in casa, di frutta essicata, conserve, succhi, sottaceti, salumi, erbe aromatiche e teste d’aglio appese al soffitto, mi domandai se Vasiliki e Christos avessero mai il tempo di dormire. Un mattino Vasiliki era in cucina, circondata da peperoncini piccanti rossi dall’aspetto letale: ogni superficie era coperta dai peperoncini e sul forno fumante altri erano stati posti a essiccare per varie specialità culinarie. Ce n’erano alcuni tritati grossolanamente, altri ridotti in polvere finissima con pesto e mortaio. Poi bisognava scegliere e mettere da parte gli steli di tè selvatico di montagna, che i vecchi del paese chiamano pharmaco, o medicinale. File di salami erano appese ai teli stesi all’esterno, bisognava preparare il cavolo in salamoia, mescolare la giardiniera, raccogliere le uova delle galline, e anche “raccogliere” un pollo per la minestra di avgolemono. Ricevetti l’incarico di preparare la minestra, anche se mi fu risparmiata la “raccolta” del pol-


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lo: il privilegio andò a Christos. Mi dissero di rosolare il pollo con un po’ di sale, cuocendolo fino al punto giusto, e poi di aggiungere riso a grana fine. Nient’altro. L’avgolemono (avga significa uova, lemono è il limone) va aggiunto appena prima di servire. Si tratta di un composto di albumi montati a neve incorporati in tuorli e succo di limone e poi temperati con un po’ di brodo caldo: diventa una minestra cremosa degna degli dei. I polli ruspanti del cortile di Vasiliki e Christos sono biologici, così buoni che il brodo dorato e denso aveva solo bisogno di una presa di sale. Assaggiandolo il cugino Dimitris di Atene chiese: «Chi ha fatto questa fantastica minestra?». «Il pollo» gli risposi. Stesso discorso per il tacchino arrosto di Natale. La carne era soda e gustosa, niente a che vedere con quella dei volatili filamentosi e gonfi d’acqua con cui sono stata allevata. Pensai persino che fosse il caso di mangiarlo più di una volta all’anno, il tacchino. Il ripieno greco per i volatili è sontuoso, si basa sulle tradizioni dei ricchi banchetti antichi: interiora sminuzzate e carne di maiale e/o vitello saltata con porri, cipolle, riso, castagne, ribes, vino rosso e un pizzico di cannella. Sapori esotici, inebrianti. Vasiliki e Christos trovano curioso il termine “biologico”: non conoscono altri modi di coltivare i prodotti o allevare gli animali, e hanno sviluppato quelle

che potremmo considerare soluzioni innovative ai molti ostacoli dell’attività agricola. I pesticidi furono introdotti in Grecia dopo la Seconda Guerra Mondiale e, grazie al cielo, furono accolti con grande scetticismo da molti piccoli agricoltori. Perché qui è opinione comune che mentre i prodotti chimici esistono da appena cinquant’anni, gli agricoltori esistono da molto di più! La nostra conversazione sul biologico fu interrotta da un forte suono di clacson proveniente dall’esterno. Era la “lattaia” che veniva a consegnarci burro, latte e yogurt freschi per la cena di Capodanno. Piatti saporiti di salsicce e costine di maiale grigliate, insalata di cavolo e rucola selvatica con un pizzico di peperoncino, horta al vapore con olio di oliva e limone, orzo con il succo di pomodori di Vasilliki, cipollotti ed erbe aromatiche, ricoprivano la tavola imbandita per la cena. E per finire, la tradizionale focaccia di San Basilio (Vasilopeta), leggermente dolce e con un pizzico di cannella: una cosa a metà tra la focaccia dolce e il pane. La tradizione vuole che si inserisca una monetina nell’impasto e che chi mangia la fetta con la monetina abbia buona sorte (occhio ai denti). Non resistemmo alla tentazione di preparare un secondo dolce, uno dei più amati, il galatoboureko, una deliziosa crema di farina avvolta da strati di pasta fillo e ricoperta da sciroppo di miele e brandy. *Slow Food

Gli esagerati

ci di Tracia GALATOBOUREKO Per 12 persone 500 g di pasta fillo 250 g di burro fuso Per la crema: un quarto di litro di latte una tazza e mezza di zucchero mezza tazza di farina 1 tazza di burro 2 cucchiaini di scorza di limone grattugiata 1 cucchiaino di vaniglia mezza tazza di Metaxa (o altro liquore aromatico) 10 uova

Per lo sciroppo di miele: 2 tazze di miele tazze di zucchero bastoncini di cannella 4 chiodi di garofano 1 cucchiaino di scorza di limone o di arancia grattugiata mezza tazza di brandy Per preparare lo sciroppo di miele fate bollire in una casseruola di medie dimensioni tutti gli ingredienti, eccetto il brandy. Abbasate il fuoco e lasciate sobbollire per 30 minuti poi togliete dal fuoco, aggiungete il brandy e lasciate raffreddare completamente, poi filtrate. Per fare la crema, in una casseruola larga, su fuoco basso, fate riscaldare il latte

con metà dello zucchero fino a che questo sarà sciolto. Con un cucchiaio di legno aggiungete, lentamente, la farina, sempre rimestando fino a ottenere un composto denso e liscio. Aggiungete il burro e mescolate bene. Togliete dal fuoco, incorporate la vaniglia, la scorza di limone e il liquore e fate raffreddare. In un’ampia ciotola di acciaio sbattete i tuorli con il resto dello zucchero (potete usare una frusta o uno sbattitore elettrico) fino a ottenere un composto spugnoso. Con una spatola di gomma aggiungete, poco alla volta, la miscela (raffreddata) di farina, latte e zucchero badan-

do a incorporare bene il tutto. In un’altra ciotola montate a neve gli albumi e quando saranno ben sodi incorporateli al composto. Tagliate i fogli di pasta fillo secondo le dimensioni della teglia (la cui misura più appropriata sarebbe 9x12x2 centimetri), lasciando un abbondante orlo ai lati. Ponete nella teglia imburrata 12 fogli di pasta fillo, uno a uno, e con un pennello spennellate leggermente ciascun foglio con il burro fuso (oppure potete mettere il burro fuso in un contenitore dotato di spruzzino e spruzzare ogni foglio. Per mantenere il burro allo stato liquido potete porre lo spruzzino in un tegame

pieno di acqua calda). Stendete la crema sulla superficie e poi ricoprite il tutto con i rimanenti fogli di pasta fillo su cui avrete, come sopra, steso un velo di burro fuso. Con un coltello affilato tracciate sullo strato superiore di pasta fillo dei rombi o dei quadretti di 4 centimetri circa. Infornate e fate cuocere a 200° C per circa un’ora, finché la pasta sarà dorata. Togliete dal forno, versate lo sciroppo in modo uniforme sulla superficie e lasciate raffreddare. Servite a temperatura ambiente o freddo.


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ualcuno ha notato come nei pescatori si sviluppi un sentimento di appartenenza, un legame profondo con l’esperienza a bordo e in mare che viene poi ricercato in qualche modo anche a terra, nella scelta di relazioni e situazioni che di quell’esperienza conservino traccia. Per certi versi – e paradossalmente, poiché l’ambiente di riferimento è per definizione coatto in un caso, pressoché illimitato nell’altro – il pescatore e il detenuto hanno dei punti di contatto da questo particolare punto di vista: un tempo e una comunicazione interpersonale, un rapporto con il silenzio e con le parole degli altri che li accomuna. A dispetto del loro senso di isolamento, o forse proprio per questo, sviluppano sovente sentimenti comunitari molto forti. Nel suo libro Duri a Marsiglia, Giancarlo Fusco offrì un’immagine bella ed efficace, seppure indiretta, del carattere comunitario della marineria di San Benedetto del Tronto, da tre secoli una delle più importanti nella costa adriatica: «Il primo novembre 1933, giorno d’Ognissanti, era un martedì. Sui davanzali del Vieux Port, dalla parte di Place de Lenche, i pescatori di San Benedetto del Tronto, allora numerosissimi a Marsiglia, avevano allineato migliaia di lumini ad olio. Il vento li agitava pazzamente e ogni tanto ne spegneva uno». All’epoca, sulle paranze (le barche a scafo tondo, lunghe una quindicina di metri e larghe quattro o cinque, caratterizzate dall’altezza dell’albero

SPAGHETTI CON UOVA DI MERLUZZO Per 4 persone 400 g di spaghetti 300 g di calamaretti 150 g di uova di merluzzo una cipolla 2 cucchiai di olio extravergine di oliva sale Pulite accuratamente i calamaretti. Versate in un tegame l’olio quindi unitevi la cipolla tritata finemente e lasciatela appassire. Aggiungete le uova di merluzzo e i calamaretti, salate e proseguite la cottura per una decina di minuti. Nel frattempo lessate gli spaghetti, scolateli al dente e “ripassateli” per un paio di minuti nel tegame, con il sugo preparato.

di Antonio Attorre*

Una festa del mare a bordo di paranze, dove le tradizioni non vanno mai perse

uguale alla lunghezza), la gerarchia nella divisione del lavoro trovava riscontro anche nell’alimentazione. A bordo di un’imbarcazione, ad esempio, erano generalmente caricate circa 300 vicciate, biscotti di pane raffermo a forma di ciambella. Il moré, adolescente che rappresentava la figura più “bassa” nella ripartizione dei ruoli a bordo, nei primi tempi del suo tirocinio non aveva diritto a partecipare alla divisione di questi biscotti e doveva por-

tarsi il pane da casa. Solo con il tempo, e sulla base dell’apporto lavorativo effettivamente riscontrato, poteva accedere alla spartizione, simbolica ma anche molto materiale. Spartizione che prevedeva, sempre in ordine gerarchico, attribuzioni differenti al parò (il capo, in soldoni) e poi, in misura decrescente, al sottoparò, al giovanotto, al moré, appunto, allo sbarzucche (identificabile come un bracciante di mare) e allo zautte, collaboratore dello sbarzucche. Un momento e una divisione materiale del tutto comunitari erano pure quelli dell’ultima pesca prima della sosta natalizia, quando ci si divideva fraternamente – naturalmente anche con significato simbolico e augurale – le cazòle, vale a dire le uova di merluzzo, più o meno grandi a seconda delle dimensioni del pesce. È trasparente il richiamo alla natività di tale cibo, che assieme alle interiora di rana pescatrice (trippe di rospo) costituisce un autentico alimento di culto per i pescatori del tratto di costa adriatica al confine tra Marche e Abruzzo. La tradizione non si è persa

e, se una volta era soprattutto per golosità che uova di merluzzo e interiora di rana pescatrice venivano conservati gelosamente dai pescatori in una busta che pendeva dalla paranza in modo da essere continuamente rinfrescata dall’acqua di mare, oggi sono anche le normative igienico-sanitarie (che impongono l’eviscerazione dei pesci appena pescati) a favorire l’esclusività di questo culto marinaro un po’ underground. L’unico consiglio per l’acquisto, di conseguenza, è quello di farne richiesta al pescivendolo di fiducia, con qualche giorno d’anticipo. Le cazòle sono cucinate, di regola, nei più semplici dei modi: bollite, e poi condite con olio e limone, arrostite oppure in padella con un po’ di cipolla e, magari, di pomodoro. Una vera leccornia, che qualche ristoratore sambenedettese propone di tanto in tanto, è la pasta asciutta con il sugo di “quinto quarto” di mare: uova di merluzzo, fegato e trippa di rana pescatrice. La ricetta che vi proponiamo, con un “rinforzo” di calamaretti, può essere un’alternativa ai classici spaghetti “di magro” con il tonno (sempre che riusciate a procurarvi le uova di merluzzo), per la cena della vigilia di Natale. Slow Food

A scafo

tondo


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14scritto&mangiato

di Ruperto De Nola*

In Cile, dove la sera festiva è una sera d’estate. Tra piatti centrale di carne e aragosta servita fredda ome si festeggia il Natale in Cile? O meglio, che cosa si mangia per l’occasione? È risaputo che per la specie umana le feste sono sinonimo di cibo. E il fatto che il Natale sia la festa probabilmente più ricca di significati simbolici tra quelle dell’intero anno, che oltretutto riunisce la famiglia, fa sì che le preparazioni culinarie per questa occasione siano particolarmente accurate. A Natale in Cile, come in tutto l’emisfero meridionale, è piena estate; anche se nella maggior parte del paese il clima non è mai dei più torridi, in quei giorni fa comunque caldo. Per i festeggiamenti, dunque, si servono volentieri insalate, frutta fresca, gelati e bevande fredde. Il culmine della festa è la notte della vigilia, il 24 dicembre. Molte famiglie si recano insieme alla messa di mezzanotte - che qui si chiama la misa del gallo - poi tornano a casa per riunirsi tutti a tavola: nonni, zii, cugini e nipoti. In passato le decorazioni natalizie non avevano niente a che vedere con gli usi e gli stili del Natale boreale, quello degli Stati Uniti o dell’Europa, per intenderci. In Cile si usava addobbare la tavola con ghirlande di carta colorata, fiori e i primi frutti estivi: piccole pesche (duraznos de la Virgen), pere (peras del Niño), cirimoie (chirimoyas, delicati frutti tropicali simili a una pigna verde dalla buccia vellutata, con una polpa bianca e cremosa dal sapore che ricorda l’ananas, la banana e la fragola), le prime albicocche e i fichi fioroni. Non c’era la consuetudine di decorare la casa con un pino carico di luminarie, ma nel salone si allestiva un presepe, un Belén (Betlemme) come lo chiamano familiarmente i cileni, con il Bambino, la Vergine e San Giuseppe. Oggi però le influenze che arrivano dall’estero impongono un albero di Natale, ai piedi del quale spesso si dispone il presepe tradizionale. La preparazione degli addobbi fa già parte della festa e coinvolge tutta la famiglia. Anche nelle chiese si allestiscono i presepi, decorati con fiori, pastori e angioletti che, insieme a Giuseppe e Maria, aspettano la notte del 24 e l’arrivo del Bambinello. Nei giorni che precedono il Natale è tradizione visitare le chiese per ammirare i diversi presepi e assistere alla novena del Bambino (Novena del Niño), devozione di nove giorni in preparazione della festa. La cena di Natale si costruisce intorno a un piatto centrale, irrinunciabile: un grande tacchino arrosto, generalmente ripieno di mele (che non è un’imitazione di quanto accade nell’emisfero settentrionale: com’è noto, il tacchino è originario del Messico, paese dal quale si diffuse in tutta l’America Latina). Nelle case che ancora rispettano le antiche usanze, si comincia a preparare il pennuto, vittima designata, con un mese di anticipo: lo si ingozza di noci intere perché la sua carne, di solito piuttosto insipida, risulti particolarmente profumata. Altri piatti tradizionali sono l’aragosta delle isole Juan Fernández, che si serve fredda con maionese, i granchi (centollas) che arrivano dalla lontana Punta Arenas, all’estremo sud del paese, polli ben guarniti e cucinati arrosto, oppure un bell’asado, un barbecue che si prepara all’aria aperta, in giardino o sulla terrazza, e per il quale si cuociono sulla griglia pezzi scelti di manzo, porzioni di pollo e insaccati di maiale come luganighe (longanizas) e salsicce (chorizos) che si mangiano fra due fette di pane e sono gli antipasti preferiti da tutti. Le insalate che accompagnano le carni o il pesce possono essere di patate con maionese, di pomodori con cipolla, di avocado, di cuori di palma o di lattuga e altri ortaggi verdi conditi con speciali attenzioni. Come dessert, in alcune case si può ancora gustare la tradizionale crema

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asada, versione locale della crème brulé, ma è molto più probabile imbattersi in una torta meringata arricchita di frutta fresca oppure in una torta gelato con panna o ancora, più semplicemente, in una grande macedonia di frutta fresca condita magari con un po’ di liquore e servita con la panna montata. Gli aperitivi che danno inizio alle libagioni possono essere il pisco sour (cocktail a base di pisco, liquore andino simile al brandy, lime e zucchero) oppure un vino nel quale sia macerata per alcune ore della frutta (cirimoia nel vino bianco e fragole in quello rosso). Con i piatti di carne si beve un buon rosso cileno o, con sempre maggiore frequenza, birra, servita ben fredda, mentre al dolce si abbinano champagne o spumante. Dopo il dessert si usa ancora servire il pan de pascua (pane di Natale: Pascua in spagnolo si usa come Navidad e significa proprio Natale, festa), una sorta di focaccia profumata con anice, chiodi di garofano, cannella e altre spezie nel cui impasto compaiono uva passa, noci e frutta candita. Il pan si gusta sorseggiando cola de mono, una bevanda tradizionale e molto diffusa in mille differenti versioni, tante quante sono le padrone di casa che la preparano. Al termine della cena i bambini aprono i pacchetti in un’allegra confusione di carte multicolori strappate con impazienza per tirare fuori i doni. Data la stagione, porte e finestre sono aperte, ma tutto il parentado si trasferisce comunque fuori quando inizia il tripudio dei fuochi d’artificio che illumina la notte con una fantasia di colori. Poi la musica da ballo aleggia fino all’alba. Slow Food

La cena

boreale COLA DE MONO 1 litro di latte fresco una tazza di acquavite che raggiunga almeno i 35° alcolici 125 g di zucchero due tuorli d’uovo 3 cucchiaini di caffè in polvere un bastoncino di cannella 4 chiodi di garofano mezzo baccello di vaniglia noce moscata

Mettete sul fuoco il latte (meglio se piuttosto ricco di panna) e portate a ebollizione. Appena si alza il bollore toglietelo dal fuoco e aggiungete la cannella, i chiodi di garofano, la vaniglia, un po’ di noce moscata e lo zucchero. Rimettete di nuovo sul fuoco, molto basso, e cuocete per circa 4 minuti, mescolando con un cucchiaio di legno finché lo zucchero sarà del tutto sciolto. Togliete il latte dal fuoco, lasciate raffreddare appena un po’ e aggiungete due tuorli d’uovo sbattuti (attenzione: il latte non deve essere molto caldo perché i tuorli potrebbero solidificare). Me-

scolate bene per amalgamare il tutto. Colate attraverso una telina spremendo bene le spezie, quindi aggiungete il caffè in polvere precedentemente sciolto in un poco di acquavite. Frustate il tutto con energia per circa 10 minuti, finché il latte sia completamente freddo. Incorporate infine l’acquavite e versate il composto in una bottiglia da riporre in frigorifero perché si raffreddi bene. L’acquavite si può sostituire con la grappa e il caffè in polvere con poco caffè ben concentrato (bisogna aromatizzare la bevanda senza rischiare di annacquarla), ma, diciamolo, niente vale quanto l’esperienza…


La locanda del punch

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Dall’interno della casa rispondono: Aqui no es mesón sigan adelante yo no puedo abrir no sea algún tunante (Questa non è una locanda, continuate ad andare avanti / io non posso aprire, potreste essere delinquenti) I versi continuano con richieste sempre più disperate da parte di Giuseppe e risposte sempre più perentorie da parte del padrone di casa, finché questi capisce chi sono i due pellegrini, apre la porta e li fa entrare: Entren Santos Peregrinos reciban este rincón que aunque pobre es la morada os la doy de corazón (Entrate Santi Pellegrini, quest’angolo vi sia di dimora / per quanto umile sia l’accoglienza, ve la offro di cuore)

n Messico le celebrazioni natalizie iniziano il 16 dicembre con la prima di nove feste chiamate posadas. “Posada” in spagnolo significa locanda, o riparo, e questi festeggiamenti rievocano il pellegrinaggio di Maria e Giuseppe da Nazareth a Betlemme in cerca di luoghi in cui ripararsi durante le notti. Il 24 dicembre la nascita di Gesù è annunciata dai fuochi d’artificio e dalle campane che suonano a festa, e dopo la messa di mezzanotte le famiglie si riuniscono davanti a un banchetto di piatti natalizi tradizionali. Questa serie di festeggiamenti prenatalizi è un’esclusiva del Messico. Si ritiene che siano un retaggio dei primi missionari spagnoli stabilitisi nel convento di Sant’Agostino ad Acolman – una cittadina nei pressi delle piramidi di Teotihuacan – allo scopo di convertire gli indios al cattolicesimo. Nel 1587 Papa Sisto V concesse agli Agostiniani un permesso speciale per la celebrazione di una novena di messe prima di Natale. La novena simboleggiava i nove mesi di gravidanza di Maria, le messe, celebrate nell’atrio della chiesa, includevano canti natalizi e fuochi d’artificio. Nei secoli, la novena si trasformò in una serie di feste di quartiere e oggi, in ciascuna delle nove sere, le case del quartiere ospitano a turno una festa per adulti e bambini. Anche in tempi politicamente o economicamente difficili, le posadas hanno continuato a essere onorate senza interruzione, nelle case più pove-

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CAFÉ DE OLLA 6 tazze di acqua 1 bastoncino di cannella 120 g di zucchero di canna 120 g di caffé nero tostato a macinatura media In un recipiente di terracotta dai bordi alti fate bollire per cinque minuti l’acqua con la cannella e lo zucchero. Spegnete il fuoco e aggiungete il caffè. Mescolate bene, coprite e lasciate in infusione per cinque minuti. Filtrate in un altro recipiente e tenete in caldo. Al momento di servire, rimettete il caffè sulla fiamma facendo però attenzione a non farlo bollire.

re come nelle dimore dei ricchi. La posada inizia con una processione religiosa durante la quale ogni partecipante regge una candelina accesa. Una statua di argilla, generalmente portata dai bambini e raffigurante Maria seduta su un asino condotto da Giuseppe, guida la processione. Al termine della litania, il corteo, che rappresenta Giuseppe, va a bussare alla porta di una casa per chiedere ospitalità (pedir posada) con un canto tradizionale che inizia con questi versi: En el nombre del cielo, os pido posada pues no puede andar mi esposa amada (In nome del cielo chiedo ospitalità / non può più camminare la mia dolce metà)

di Mari Angeles Gallardo*

Las Posadas, il lungo Natale messicano tra “fase galleggiante” e frittelle piatte

A quel punto inizia la festa: per scaldare gli ospiti rimasti fuori viene servito un punch caldo preparato con canna da zucchero, guava, susine, mele e cannella. Gli adulti aggiungono alla bevanda il piquete, un rinforzo di rum o tequila. Bevuto il punch, sono tutti pronti per il gioco della piñata. Le piñatas sono quei bei vasi di argilla colorati, ritenuti tipicamente messicani ma in realtà di origine cinese. Devono essere arrivati in America nel diciassettesimo secolo, portati dalla flotta commerciale nota come il Nao de China. Gli artigiani messicani ne adottarono l’arte e, con l’impiego di carta velina colorata, aggiunsero stelle, frutta, animali e personaggi delle fiabe. I vasai impiegano ore e ore a decorare le piñatas, ben sapendo che avranno una vita brevissima. Riempita di frutti di stagione e dolci, infatti, la piñata è appesa a una corda legata con un capo a un albero mentre l’altro è tenuto da una persona che la fa ondeggiare; a turno, ogni ospite, bendato, cerca di romperla con la scopa. Quando finalmente si spacca, tutti corrono a raccogliere quanti più dolci e frutti possibile. Il simbolismo è quello della fede cieca che batte il male – la piñata è il demonio – per permettere al bene di emergere. Dopo la piñata viene la cena. Il pasto tradizionale della posada comprende: tamales, buñuelos, atole e café de olla. I tamales sono fatti con farina di mais ammorbidita con lardo e lavorata fino a quando la pasta raggiunge la “fase galleggiante”, cioè quando una pallina di impasto messa in un bicchiere d’acqua galleggia. La pasta è poi stesa in porzioni singole riempite con carne di maiale o di pollo e con svariati tipi di salsa, se sono tamales salati, oppure con frutta secca se sono tamales dolci. I tamales sono poi avvolti in una foglia di granoturco e cotti in una vaporiera, dove restano al caldo fino al momento di essere consumati. In questo periodo dell’anno in tutte le città sbucano ambulanti con enormi cesti pieni di buñuelos appena fatti. Frittelle piatte, i buñuelos sono ricoperti di zucchero in granella, ma qualcuno preferisce mangiarli con sciroppo di zucchero. Generalmente sono cucinati in casa, ma vista la quantità di cose da preparare per la posada, comprarli già fatti è un’ottima alternativa. L’atole, una densa bevanda calda fatta di amido di mais sciolto nel latte o nell’acqua e aromatizzata con cioccolato o pezzi di frutta, è la specialità preferita dai bambini, mentre di solito gli adulti bevono il café de olla, il cui nome deriva dal recipiente di terracotta nel quale è preparato. Secondo la tradizione, devono essere di terracotta, vetrificata, anche le tazzine in cui questo caffè va servito. Slow Food



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molto di sinistra una cena ecosolidale con i prodotti acquistati direttamente dai contadini del centr’America, così fottendo commercianti, grossisti, speculatori di ogni risma che impongono il prezzo del cacao alla borsa di Londra. Caffè, frutta e spezie nel rispetto del campesino honduregno. O è più di sinistra una cena biologica, dove nel vino non c’è traccia chimica, neanche vapori di bisolfito? Per qualcuno il top di sinistra nel piatto è un menù etnico, facciamo un esempio, kurdo, ma kurdo-turco, mica kurdo-iracheno che ha un gusto inquinato dalle frequentazioni yankee. E’ dura bere tè mangiando montone, ma con il vino in casa islamica che internazionalismo proletario sarebbe? Per non parlare delle cene con un menù vegetariano. Si fa presto a dire vegetariano, c’è vegetariano e

È

di Loris Campetti

Mangiare schierati, fu vero gusto? Viaggio tra cene anti-omologazione di sapori e di informazione, il binomio perfetto

difendersi dalle fughe oceaniche, ecco crescere una cultura di sinistra radicata nel territorio, rispettosa dell’ambiente in cui si vive e del lavoro di chi zappa la terra dietro casa, scuote amorevolmente le galline per depredarle delle uova, magari “gallate” (tanta fatica del gallo e della gallina per niente, o meglio per una frittata), strizza le mucche per riempire i secchielli di latte e mangia solo il cotechino del maiale che ha visto crescere. Quelli che “nelle valli si mangia polenta” nel latte al mattino, con la salsiccia a pranzo e concia all’ora di cena. Quelli che “questo vino l’ho fatto io”, magari a mille metri d’altezza che al palato procura le stessa sensazione dei cachi acerbi. Per non parlare della grappa fatta in casa. Della serie: non solo mogli e buoi ma anche il cibo dev’essere dei paesi tuoi, senza inquinamenti, nel nome della comunità resisten-

quanta giorni da orsacchiotto. Prendiamo la sacrosanta parola d’ordine “cena a chilometri zero”, intendendo con ciò la necessità di ridurre i costi economici e ambientali legati al trasporto di prodotti alimentari da un paese o da un emisfero all’altro. Meglio esportare le ricette che gli ingredienti. Ciò non vuol dire che i contadini milanesi debbano ostinarsi a coltivare fiori di zafferano in terrazzo per fare il risotto, o rinunciarvi. Così come non si può pretendere che un contadino delle valli alpine si faccia quotidianamente di formaggio che cammina e polenta taragna, o un minatore di talco della Val Germanasca di tumin elettric (microformetta di cacio ricoperta di olio e peperoncino). Insomma, un po’ di ragionevolezza aiuterebbe a ritrovare un sano equilibrio politico-alimentare. Nelle puntate precedenti, questo equilibrio l’abbiamo cercato individuando i luoghi e le modalità per non arrendersi al discount o alla boutque presunta biologica, accompagnando ai viaggi di lavoro come di piacere il reperimento di risorse alimentari sane e tipiche. Il buon senso di sinistra, ammesso che esista un buon senso politically correct, si chiama meticciato. Non c’è valle sperduta o porticciolo adriatico in cui non siano penetrate culture diverse, anche alimentari, con l’arrivo di migranti in cerca di lavoro e vita dignitosa. Gli ultimi minatori che lavorano in Italia, per la precisione nelle valli valdesi, sono tutti e rigorosamente polacchi. Ora, ammesso che la cucina polacca abbia qualcosa da insegnarci, perché non provare ad aprirsi al nuovo che avanza senza rinunciare ai propri presidi, senza strappare il filo che ci lega al territorio? E’ un ragionamento, questo, che vale non soltanto in cucina. Certo, se nella vostra valle o nei vostri porticcioli i migranti sono polacchi e non senegalesi siete sfigati, ma la ruota gira e i prossimi portatori di nuove ricette arriveranno sicuramente da territori più creativi, almeno a tavola. Il conflitto tra apertura culturale e radicamento territoriale l’abbiamo incontrato anche girando l’Italia, nelle cene organizzate dai lettori del manifesto nelle città e nei paesi del nord, del cen-

La sinistra nel piatto vegetariano: ci sono quelli riformisti che escludono dal piatto solo le carni e siccome il pesce non è carne si mangiano anche il branzino; ci sono i vegetariani un po’ più impegnati politicamente, in odore di sinistra radicale, per i quali a tavola non devono mettere le zampe o le squame animali di ogni sorta, di terra di aria e d’acqua. I poveracci si consolano con latte, formaggio, uova ma di salame neanche a parlarne. Infine, ecco i vegan, spesso riconoscibili anche dall’abbigliamento e dalla capigliatura, sembrano usciti da un centro sociale di quelli tosti e brucano solo vegetali. Con la globalizzazione mutano i costumi della sinistra, anche a tavola. Siccome un altro mondo è possibile, però, si finisce per perdere di vista l’orto di casa. Un conto è bere Habana club, un altro è farsi di ciliegie cilene a Natale solo perché le hanno raccolte i poveri indiani mapuche perseguitati fin dalla nascita. Allora, per

te all’immonda globabalizzazione è un’orgia di locale. I soliti riformisti, forse per evitare di bere vino d’alta montagna (hanno inventato anche “il bianco che guarda il Bianco”, un sedicente chardonnay spremuto da uve costrette a crescere sotto la vetta del monte più alto), o metilene a 60 gradi detto grappa, hanno inventato una terza via tra il globale e il locale e purtroppo l’hanno chiamata “glocale”. Il risultato è un casino, per restare in argomento una macedonia di culture alimentari. Allora, cos’è più di sinistra a tavola? Il quesito oltre che scemo è di difficilissima soluzione, e chi se lo pone corre il rischio, una volta trovata la risposta, di accorgersi, che la sinistra non c’è più. Non è che si debba poi aspettare molto. Meglio cercare un criterio generale per non farsi troppo male, anche a tavola. Magari andandosi a rileggere i classici: diceva Troisi che tra un giorno da leone e cento da pecore è meglio vivere cin-

tro e del sud. Abbiamo arrotolato tagliolini tradizionali fantastici, abbiamo liberato il nostro palato alle sollecitazioni provocate da gusti esotici, abbiamo brucato erba e divorato polpette di melanzane molto mediorientali, assaporato formaggi e salumi fuori mercato, incontrato sapori che la globalizzazione non è riuscita a omologare. Ma abbiamo mangiato a quattro palmenti anche piatti tradizionali ingentiliti da felici contaminazioni. E tutto in nome di un giornale quotidiano da salvare, oggi sotto il fuoco del pensiero unico che tutto ingloba o cancella. Contro l’omologazione dell’informazione, contro l’omologazione del gusto. Un binomio di lotta che ci ha fatto bene allo stomaco, al palato e soprattutto ci ha consentito di arrivare fin qui. Domani è un altro giorno, se sapremo combattere in edicola come i nostri lettori sanno combattere in cucina, riusciremo ad attraversare il 2009 e tenere vivo anche questo speciale piatto editoriale.


Sergio Luzzatto

Sangue d’Italia INTERVENTI

SULLA STORIA DEL

NOVECENTO

[EURO 20 - PAGINE 224] L’autore, importante firma del “Corriere della Sera”, in questa brillante raccolta di interventi affronta con piglio polemico e limpidezza di stile i principali snodi della storia italiana del ‘900. Uno strumento di sopravvivenza contro l’uso pubblico e politico della storia..

F. Barilli, S. Sinigaglia (a cura di)

La piuma e la montagna STORIE

DEGLI ANNI

SETTANTA

[EURO 18 - PAGINE 192] Un libro importante e unico nel suo genere. Il tentativo di ridare dignità e verità storica alle morti impunite di coloro che, negli anni Settanta, hanno pagato il loro impegno politico: Pinelli, Serantini, Lupo, Lorusso, Rossi, Fausto e Iaio e tanti altri.

Sergio Viti (a cura di)

Marinai dell’immaginario COME

RACCONTANO I BAMBINI

[EURO 18 - PAGINE 176]

Herbert Marcuse

La società tecnologica avanzata [EURO 28 - PAGINE 256

Enzo Mazzi

Cristianesimo ribelle [EURO 20 - PAGINE 192] Una disamina delle radici del cristianesimo, geneticamente ribelle a ogni forma di alienazione e al dominio del sacro, caratteristica mantenuta, pur con fatica e contraddizioni, fino ad oggi da movimenti, correnti di pensiero critico e comunità di base.

Edu-factory

Università globale IL NUOVO MERCATO DEL SAPERE [EURO 20 - PAGINE 208] Il libro è costruito attraverso i materiali della lista edu-factory, progetto di discussione che impegna collettivi, attivisti e ricercatori, nato all’interno delle esperienze della Rete per l’autoformazione di Roma dell’atelier occupato Esc e del Network delle facoltà ribelli Uniriot

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M. Baldassarri D. Melegari (a cura di)

La rivoluzione dietro di noi FILOSOFIA E POLITICA PRIMA E DOPO IL ’68 [EURO 20 - PAGINE 184]

IN LIBRERIA E PER ORDINI DIRETTI SUL SITO WWW. MANIFESTOLIBRI . IT


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cos’hai messo stavolta nella tua torta senza niente?” chiede Ludmila a Elide. La quale, pittrice monferrina abitante a Mosca da anni, fa ottime torte lievitate con mele e frutti di bosco a seconda della stagione. Per Ludmila sono ‘senza niente’ perché invece dei due ingredienti più tipici di un dolce, il latte e le uova, ci sono acqua del rubinetto (regno minerale) e un po’ di olio (regno vegetale). “Torta di Elide”: mescolare 200 grammi di farina integrale biologica con mezza bustina di lievito per dolci e un pizzico di bicarbonato, 60 grammi di zucchero di canna equo e scorza di limone grattugiato, aggiungere mezzo bicchiere di olio extravergine d’oliva e acqua quanto basta a fare una crema conisstente ma scivolosa; aggiungere poi uvetta e mele tagliate a pezzettini minuscoli (o altra frutta o frutta essiccata ammollata). Infornare come le altre torte.

E

La torta all’acqua può chiudere un menù di cibi nutrienti, colesterolo-free, semplici (non certo da chef), veloci (si legga La cucina etica facile di Emanuela Barbero, Sonda edizioni e sito www.vegan3000.info), economici ed ecologici a scegliere materie prime locali e bio (e del commercio equo per le coloniali). Ma soprattutto interamente vegetali. No carne, no pesce e anche no latte e no uova perché per i derivati animali il circuito è lo stesso: quello degli allevamenti con la ormai nota pesantezza ambientale, climatica, idrica, etica; un po’ inferiore il sacrificio di vite animali, ma come sottoprodotto di uova e latte ci sono pur sempre pulcini e i vitellini di sesso maschile: rottamati quasi alla nascita. Menù di liberazioni che sarebbero piaciuti a Plutarco il quale faceva appello ai cinque sensi per appoggiare una scelta alimentare etica: “Come poté la vista tollerare il sangue di creature sgozzate, scorticate, smembrate? Come riuscì l’olfatto a sopportarne il fetore? Come mai quella lordura non stornò il senso del gusto, che veniva a contatto con le piaghe di altre creature e che sorbiva umori e sieri essudati da ferite mortali? (…)” (Plutarco, Del mangiare carne, Adelphi). Gustosi menù di liberazioni per chi sogna ortofrutteti universali – e nelle acque, praterie di alghe - in tutti i climi al posto di stalle, distese enormi coltivate a mangimi e fame degli altri. Dai dolci saltiamo a ritroso agli antipasti e ai primi. Chiamano ingiustamente ‘caviale vegetale’ l’indipendente e incruenta crema di olive nere. Uno dei tanti pâtés che non hanno certo fegato d’oca spappolato. Creme da tartine e da sughi. Eccone altre, i nomi sono di fantasia. “Sole rossoverde”: tritare semi di girasole con foglie di salvia e pomodori secchi ammollati; aggiungere olio, sale e un po’ d’acqua per dare consi-

stenza cremosa. Altra ricetta. “Tamilievit” : mescolare in una scodella sbattendo bene del lieviti di di birra in scaglie (scaglie eh! non i panetti da fare il pane né le costosissime pasticche), olio, salsa di soia e un po’ d’acqua tiepida; ne verrà una crema marroncina ottima per la pasta. Il lievito di birra in scaglie è ben noto ai veg-di-tutto-il-mondo-unitevi come condimento universale vitaminico e versatile. Ricetta. Provarlo anche spolverato sulle insalate miste con il limone o da

perché si considera di magro il povero pesce, 120 milioni di tonnellate di individui di ogni taglia asfissiati ogni anno. C’è un’alternativa anche a quello: le alghe, ricco cibo per tutti i giorni in Cina, Vietnam, Giappone. Ricetta. “Crostini di mare”: 15 gr di alghe arame in ammollo per venti minuti, scolarle e metterle in una ciotola; salare, aggiungere aglio, prezzemolo, 4 cucchiai di olio, limone; mescolare bene e mettere sui costrini guarnendo con fette di limone.

ricette e filosofia in Belle e selvatiche di Patrizia Cecconi, Meltemi); si mescola il trito con la crema liquida lasciata da parte, si addiziona con pepe o erbe miste essiccate da frittata; un filo d’olio, solo un filo (così non faremo rifiuti oleosi) nella padella antiattaccante e rovesciare. Legumi a volontà nel menù per la pace messo insieme dal gruppo Spiritualità Torino e da Slow Food: tre piatti mediter-

frutta in guscio, detta anche protoleaginosa. Ci si fa di tutto, anche dei latti vegetali. Latte dagli alberi! “Cappuccino del mandorlo”: mediterranea pasta di latte di mandorle (si trova in panetti) sciolta in un po’ d’acqua calda, si aggiunge il caffé anche d’orzo. Una delizia assoluta. Ed ecco i crudi dolcetti (sul manualetto dueeuro Io lo so fare di Altreconomia) a base di materie prime da alberi disponibili l’uno o l’altro anche nei posti più sfortunati del mondo.

La torta

all’acqua di Marinella Correggia

Elide in cucina, i dolcetti del paradiso terrestre e altre ricette filosofiche dal pianeta veg-eco

solo sulla pasta al pomodoro, a mò di parmigiano. A proposito! Come i siciliani e i calabresi, anche le briciole di pane sono un’alternativa al grana e ce lo conferma il libro Ecologia a tavola curato da ‘Progetto Vivere vegan’ e da ‘Sportello ecoequo’ di Firenze. Ricetta. “Pasta e briciole”: in una padella mettere a imbiondire due spicchi di aglio con quattro cucchiai di olio e un pizzico di peperoncino. Togliere l’aglio, aggiungere le briciole grattugiate. Unirvi gli spaghetti Cuocere gli spaghetti, scolarli non troppo e farli saltare con le briciole aggiungendo poi olio. Servire spolverando con prezzemolo e con altre briciole. E veniamo ai secondi. “Di magro”! A proposito, chissà

Eccoci arrivati al bel capitolo dei legumi, proteine vegetali con cui si può fare di tutto, attingendo ed elaborando dalle tradizioni. C’è chi a Capodanno rifiuta risolutamente le lenticchie perché le mangia già tutto l’anno, versatili e semplici da fare come sono. “Vellutata di lenticchie”: stufarle con cipolle e altre verdure fini e olio e poi passarle a crema e cospargendole di olio e limone o mescolandole con il sole rossoverde. “Frittata ceciona”: farina di ceci mescolata con l’acqua e un filo d’olio a farne una crema liquida da lasciare lì per due orette; a parte poi si tritano cipolle, e ortica o malva prima bollite (ortica e malva e le altre selvatiche, una risorsa eterna,

ranei tipici delle tre religioni monoteiste nella polveriera mediorientale. La pace non potrebbe cominciare a tavola? “I tre magnifici”: falafel (polpettine di ceci e fave con aglio ed erbette); tabulé (insalata fredda di burghul con peperoni cetrioli pomodori tutto tritato e menta e olio); baba ghanoush (crema di melanzane prima cotte al forno). Con le melanzane, come con i ceci bolliti e passati, sta benissimo la superba crema di sesamo o tahin. Apriti sesamo! Ricetta. “Maionese esotica”: sbattere a mano crema di sesamo, aglio tritato, acqua, olio e sale (non impazzisce mai!). Il sesamo è nell’altra gloriosa, universale famiglia di vegetali proteici: la

“Dolcetti ecoperfetti”: formare palline dopo aver tritare insieme materie prime di tre gruppi, almeno una per gruppo. Primo gruppo, i semi oleo-proteaginosi, cioè in Italia noci, nocciole, mandorle, pistacchi, semi di girasole, pinoli, pistacchi, semi di zucca, semi di lino (e anacardi, noci dell’amazzonia, arachidi purché tostate,ecc. ma questi esotici, che siano del commercio equo); secondo gruppo, frutti essiccati al sole come uvetta, fichi, mele, albicocche, pere, prugne (e anche datteri, manghi, banane purché del commercio equo e che sia un’eccezione); terzo gruppo, solo per l’aroma, scorze di arancio o limone biologici tagliate sottili, oppure semi di finocchio, o cardamomo.


20scritto&mangiato

gennaio mescolate il latte, il lievito, lo zucchero, il burro fuso, la farina e infine la cannella e l’uvetta, e poi impastate. Lasciate riposare per un’ora l’impasto coperto e a temperatura ambiente. Fate tanti panini rotondi della grandezza di una piccola mano e lasciateli lievitare su una teglia imburrata, per circa mezz’ora. Cuocete quindi in forno a 225 gradi per 20 minuti e avrete il pane rotondo danese, una

A

di Geraldina Colotti

I libri che condiscono il tempo libero e non solo. Tra ricette tradizionali personaggi noir e storie assolutamente da conoscere

gazza vuole iniziare la dieta e sta mettendo in forse la loro consueta uscita al ristorante e il fine settimana alle Azzorre… Un noir iberico dal sapore melanconico accompagnato da un mojito caricato al punto giusto per parlare di Cuba, di Guinea Bissau e di rivoluzione. Per Bairoletto e Butch Cassidy, improbabili rapinatori di treni in Patagonia, l’odore di carne arrosto, il mate caldo e il vino rosso, ricreano un’atmosfera che ricorda il calore dell’infanzia e modifica l’anda-

Quadruppani, edito da Marsilio, il giorno declina nella “nebbia dorata del Pastis”, mentre una giostra di personaggi loschi e allucinati fa grigliare salsicce su “una fornace capace di fondere cannoni”, mangia gratin di cardi, olive e “pastaga”, e s’insegue per Parigi nei vicoli di Barbès, Belleville o Chateau-Rouge: fascisti, servizi segreti, ex indipendentisti algerini diventati banchieri, drogati…Corrono tutti dietro a un malloppo per impedire che finisca nelle mani di

Cucinati di carta delle 60 ricette contenute nell’Assaggenda 2009 (Sinnos), che quest’anno è dedicata al pane e ai cereali: Balep Korkun (tibetano), Pane Cunzatu (siciliano), zuppa di farro, pancakes all’avena, sgagliozze…E poi consigli erboristici, e tanto spazio per la rubrica e per le annotazioni. Le illustrazioni sono di Lucia Sforza, i testi di Fabio Baldassarri. L’assaggiro dei pani del mondo continua anche nel Calendario interculturale proposto dalla Sinnos. Ogni mese, una ricetta, un paese, un illustratore: da Giulia Moroni a Pedro Scassa, a Cristiana Cerretti… Per cucinare i filetti di sardina, occorre invece “tutta la semplicità del mondo”: olio, cipolla, aglio, alloro, pomodoro, mezzo peperone rosso, sale, nient’altro. Poi, va aggiunto il riso precedentemente lavato. Per portare l’intingolo al

giusto grado di cottura, seguire i consigli dell’ispettore Jaime Ramos, un Pepe Carvalho portoghese creato dal noto critico gastronomico Francisco José Viegas. Ramos è il protagonista di Un cielo troppo blu, edito da la Nuova frontiera. Questa volta deve risolvere “una storia di donne e di vendette” che inizia con il ricordo di un cadavere riposto nel bagagliaio di una macchina abbandonata vicino al fiume. Il ricordo scivola sul corpo steso sotto il lenzuolo bianco nella sala dell’obitorio. E’ un giorno indecifrabile, “consegnato all’oblio”, un giorno poco adatto per rinunciare ai piaceri della tavola. Entrando però nella cucina dell’appartamento di Rosa - la sua vicina al secondo piano, e la sua abituale compagna di letto nell’appartamento del primo piano – l’ispettore si accorge che la ra-

mento del loro piano… Nel romanzo Patagonia ciuf ciuf, dell’argentino Raul Argemi, (la Nuova frontiera), i due prendono in ostaggio i passeggeri di un vecchio treno malandato per impadronirsi di quattro sacchi di denaro e liberare un loro compagno. Ma quando scoprono che stanno per rubare i soldi delle misere paghe dei lavoratori indigeni catangos, i due un marinaio in pensione e un ex macchinista della metropolitana di Buenos Aires – decidono di dare alla storia un corso diverso. Argemi, ex prigioniero politico ai tempi della dittatura militare argentina – trascinerà così il lettore in un breve romanzo corale, caustico e picaresco, sulla realtà del suo paese, “dove tutto ha un futuro, ma quello che non c’è è il presente”. Nel romanzo Y, di Serge

un tossico, e devono distruggere una lettera prima che riveli intrallazzi politici e segreti di stato. Poi la scena si sposta a Roma, dove un obeso killer dei servizi segreti italiani, avrebbe voglia di sollevare la campana di ferro bianco del carretto all’antica “per estrarre la vaschetta di gelato tutta intera”, tuffarvi la testa, inabissarsi in “quello stampo freddo e appiccicoso”, annegare dentro zucchero e crema, vaniglia, cioccolato, pistacchio, nocciola, tiramisù, gianduia, zabaione, zuppa inglese…: “per ritrovare il gusto, forzando il muro della nausea e andare sempre oltre nella voluttà vomitativa…”. Un noir adrenalinico tra Matrix e Manchette. Il giallo di Andrea Vitali, Dopo lunga e penosa malattia (Garzanti), è invece un intreccio classico, dal passo

più lento, messo in moto da un forte odore di fritto. L’anziano medico protagonista della storia, chiamato a constatare la morte di un suo ex compagno di bagordi, avverte quell’odore che emana dal cadavere. Come si spiega se la moglie del morto sostiene di avergli servito per cena solo minestra e prosciutto? E come mai quell’annuncio mortuario - “dopo lunga e penosa malattia” – se la morte è stata indolore e improvvisa? E chi è l’autore delle telefonate anonime che assillano il dottore? Intanto spunta un oste “dalla voce fangosa di fumo, vino e volgarità” che serve al medico un risotto con pesce persico “dal sapore grasso, quasi rivoltante”, mentre le luci velate e giallastre della trattoria disegnano i contorni di un mistero ambientato tra il lago di Como e il mare di Bordighera. E per finire, un “giallo a quattro zampe” di provenienza Usa che s’intitola Randolph, un cane molto diplomatico, di J. F. Englert, edito da Garzanti. Il detective è un simpatico labrador, che indaga sulla scomparsa della sua

padrona. Tutto comincia in una “mite serata di marzo”. Il nostro è a casa, intento a fissare il vuoto e a lasciare che “un ricco filone di costine di maiale cinesi” sedimenti nel suo stomaco. Sente avvicinarsi un sonnellino post cena a cui non intende opporre resistenza, quando il suo proprietario riceve la fatidica telefonata: la fidanzata è accusata di aver ucciso un uomo politico…E così Randolph, cane filosofo dal ventre generoso e allergico ai cereali, deciderà di agire, e divertirà il lettore in una successione di capitoli di questo tenore: “Si scopre che la salsiccia di fegato è un cibo sublime. Un cane trova un nuovo ponte tra le specie”; oppure: “Un cane sperimenta l’apoteosi della droga da finestrino”; e infine “Un cane viene salvato da una tortina Ho Ho. Stelle sul soffitto”.


PER MANGIAR SANO GUARDA LA PIRAMIDE di GIULIA BIANCHI

CARNI ROSSE SALUMI DOLCI

UOVA PATATE FORMAGGIO

PESCE POLLAME

LEGUMI FRUTTA SECCA LATTE

CEREALI OLIO EXTRAVERGINE D’OLIVA

FRUTTA VERDURA

S

e vuoi mangiar sano guarda la piramide. Non è un parto di creativi della pubblicità, non reclamizza la pur prelibata gastronomia araba. Non è uno slogan. È il risultato – iconograficamente piramidale - di un lungo lavoro di analisi e documentazione curato da un comitato scientifico allestito dalla Regione Toscana e dalle sue agenzie della sanità e dello sviluppo e innovazione nel settore agricolo forestale. Una lista che certifica le buone pratiche di una corretta alimentazione, in grado di prevenire guasti fisici, obesità, malattie vascolari e traumi muscolari. Non rende invulnerabili da ictus e tumori. Ma aumenta le difese naturali del nostro organismo, consolidando al tempo stesso il ruolo della buona cucina toscana, grazie a un menù di 70 voci specifiche di cui 65 appunto di estrazione locale. “Non vuole essere una risposta alla ‘dieta padana’– spiega con un (troppo raro) sorriso il presidente toscano Claudio Martini – piuttosto un contributo ad una adeguata alimentazione che tutela tradizione e biodiversità della nostra regione”. Che imparare a mangiare bene convenga, è dimostrato dai dati statistico scientifici dell’Organizzazione mondiale della sanità: gli stili di vita non salutari sono la causa principale delle malattie più diffuse. Una alimentazione sbilanciata, il sovrappeso e l’obesità, insieme alla sedentarietà e all’ipercolesterolemia, sono tra i principali fattori di rischio per lo sviluppo di malattie coronariche, gli accidenti cerebrovascolari, il diabete di tipo 2 ed alcuni tumori molto diffusi.

Secondo l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, quasi un tumore su tre sul pianeta è attribuibile ad una non corretta alimentazione. Mentre solo a guardare la Toscana dei circa 40mila decessi l’anno per tutte le cause ce ne sono 12mila per tumori e 15mila per malattie cardiovascolari.“Se i toscani seguissero una dieta equilibrata – tirano le somme dal comitato scientifico della piramide alimentare - ogni anno si potrebbero evitare circa 4mila decessi per tumori, e probabilmente altrettanti per malattie cardiovascolari. Inoltre l’obesità, che qui riguarda circa il 10% della popolazione, e le malattie indotte da cattiva alimentazione, rappresentano un costo economico altissimo, stimato in oltre il 7% del totale dei costi della sanità. Sempre da queste parti più di un milione e 400mila persone, quasi il 40% della popolazione, si trovano a rischio di malattie cardiovascolari importanti, a causa del sovrappeso o dell’obesità”. Fatta la dimostrazione scientifica della sua necessità, ora vediamola meglio e più da vicino la Piramide alimentare toscana, che suddivisa su più livelli indica le corrette proporzioni degli alimenti in quella che diventa un archetipo di dieta individuale. Nel livello più basso, alla base della piramide, ci sono frutta e verdura. Sono il piatto forte, l’antidoto garantito alle malattie, da consumare tutti i giorni e anche più volte nella stessa giornata. Poi si passa ai cereali (pane e pasta) al secondo livello. Mentre al terzo arrivano i legumi, la frutta secca e il latte. Solo al quarto livello si iniziano a trovare le carni ma solo quelle bianche, specificamente pesce e pollame. Mentre al quinto stazionano i formaggi, le uova e le patate, e al vertice della piramide la carne rossa, i salumi e i dolci. Fuori catalogo il vino, che però la piramide toscana, basata sulla tradizione gastronomica locale, accetta. Ma non più di un bicchiere, bevuto durante i pasti e con moderazione. Al contrario c’è la raccomandazione di bere molta acqua, e di fare con costanza una leggera attività fisica. Chissà cosa penserà Gianni Mura, grande giornalista ed appassionato enogastronomo, le cui preferenze alimentari non sembrano in gran sintonia con la piramide toscana. La penna“repubblicana”del Tour potrà però consolarsi con la lista dei 70 prodotti tipici, a volte presidi slow food altre volte messaggeri della filiera corta, che ingentiliscono le fredda geometria della piramide. Spuntano di volta in volta il pomodoro pisanello e il lardo di Colonnata; la cipolla di Traschietto e il pane di Montegemoli; il farro della Garfagnana e il leggendario pollo del Valdarno; i pecorini della Montagna pistoiese e quelli della Maremma grossetana; il fagiolo rosso di Lucca e il“mucco”pisano; gli spinaci della val di Cornia e il prosciutto del Casentino; le mele del Mugello e le ciliegie di Lari. Senza mai dimenticare (pena l’ostracismo) il Montecucco amiatino e l’Ansonaco del Giglio, due dei cento esempi di vini da assaporare. Ultimo avvertenza: la piramide alimentare toscana ricorda l’importanza di cibi genuini, prodotti vicino al luogo di consumo, più freschi e più sani, senza costi aggiunti di trasporto e di inquinamento. A questo punto... buon appetito.


“SIAMO QUELLO CHE MANGIAMO”

ORTAGGI La cipolla diTreschietto e il pomodoro canestrino O La cipolla di Treschietto,

tipica della provincia di Massa Carrara, è piccola e tonda, di colore rosa e sapore dolce. Si produce tra novembre e dicembre in Lunigiana, dove la si può trovare sui mercati locali con il tipico confezionamento a“reste”(collane di cipolle intrecciate). Il sapore dolciastro che la caratterizza permette di consumarla cruda, in pinzimonio, oppure come ingrediente di torte salate cotte al forno.

INTERVISTA A FRANCESCO CIPRIANI, EPIDEMIOLOGO ALLA ASL DI PRATO E CONSULENTE SULLA NUTRIZIONE DELL’AGENZIA REGIONALE SANITÀ DELLA TOSCANA.

O Il pomodoro canestrino, coltivato nella piana fra

Lucca e Massa ma anche nel Pisano, ha la tipica forma a canestro con solcature più o meno pronunciate. La polpa è soda, piena e non acquosa, a bassa acidità ed elevato contenuto zuccherino. Questo tipo di pomodoro viene consumato in molte zone della Toscana perché è molto versatile: può essere usato in insalata, fresco su piatti di pasta, per conserve o sughi pronti e, data la scarsa presenza di acqua e la forza della polpa, si presta ad essere anche congelato.

FORMAGGI Il pecorino della Montagna pistoiese Il pecorino tipico della Montagna pistoiese è un formaggio prodotto utilizzando esclusivamente latte crudo, dalla pasta salata, di colore beige e consistenza morbida. Per la stagionatura le forme vengono disposte su tavole di legno e lasciate riposare per almeno 60 giorni. La tradizionalità di questo formaggio è legata alla tecnica di trasformazione, rimasta invariata nel tempo. Si consuma con il miele, con le pere e con il prosciutto. PECORINO DELLA GARFAGNANA E DELLE MONTAGNE LUCCHESI

LEGUMI Il fagiolo scritto e il fagiolo rosso di Lucca

FAGIOLO ZOLFINO

FAGIOLO DI SORANA

In Lucchesia si coltivano molte varietà di fagioli tipici, alcuni dei quali recuperati dagli“agricoltori custodi”per non disperdere antiche tradizioni e varietà regionali. Il fagiolo scritto è stato sempre usato nella tradizione culinaria toscana per la preparazione di minestre di verdura e zuppe contadine, ma è adatto anche nelle tipiche preparazioni all’uccelletto. Il fagiolo rosso di Lucca è utilizzato in piatti tradizionali come la pasta e fagioli, o abbinato con la bistecca, o con baccalà e gamberetti.

— Professor Cipriani, davvero‘siamo quello che mangiamo’, come da piccoli ci dicevano i nostri nonni? “Avevano ragione. Quello che mangiamo è la nostra benzina, diventa la nostra energia. Proteine, zuccheri, grassi, vitamine. E poi tanti altri elementi in piccole dosi, che tecnicamente si chiamano‘neutraceutici’, che sono anch’essi fondamentali e che non riusciamo a produrre da noi. Del resto a guardar bene la nostra macchina biologica è piuttosto elementare: introduce materia ed energia sotto forma di alimenti e poi la trasforma. Si parte dal sole e dalla clorofilla. Come sempre”. — Ci può raccontare come è nato e come si è sviluppato il progetto della Piramide alimentare toscana? “Siamo partiti da un’osservazione sugli acquisti alimentari. Ci siamo accorti che sempre più nelle scelte degli acquirenti non conta solo il prezzo. Conta, non poco, anche il valore‘salutistico’degli alimenti. Su questo argomento c’è peraltro molta confusione. Le ricerche scientifiche o parascientifiche si sono moltiplicate negli ultimi anni. E complice internet non c’è più il‘filtro’degli esperti, che una volta assicurava alcune necessarie controprove prima di dare il via libera a questa o quella novità nutrizionistica. Comunque sia abbiamo deciso di mettere assieme tutti quelli che lavorano e producono, distribuiscono e vendono alimenti. Insomma abbiamo riunito i protagonisti della filiera alimentare toscana per fare il punto su quanto sappiamo. Con loro anche medici, biologi e veterinari. Tutti insieme in un ciclo di cinque seminari che si sono rivelati piuttosto apprezzati, e che sono stati la base del progetto della Piramide alimentare toscana” — E dopo i seminari? “Dopo abbiamo fatto una sintesi scientifica sui principali prodotti alimentari toscani e la loro capacità di‘produrre salute’. Per far capire il procedimento facciamo il caso dei frutti di bosco: dati alla mano è stato detto che sono di moda, che vengono acquistati sempre più. E infatti hanno sostanze protettive per l’organismo. Più in generale è stato un esempio di politiche integrate, agricole e ambientali, economiche e sanitarie. Infine abbiamo semplificato, sempre su basi scientifiche, ed è venuta fuori la Piramide alimentare toscana.

PANE Il pane di Montegemoli La piccola frazione di Montegemoli, nella campagna pisana, dà il proprio nome ad un tipo di pane che solo qui viene prodotto. Si tratta di un pane di forma tondeggiante, dal profumo fragrante e dal peso di circa due chili per filone. Farina, acqua, poco sale e lievito vengono impastati e formati secondo una procedura tradizionale, lasciati lievitare per alcune ore su dei piani di legno

Il frutto di un lavoro di gruppo che ha visto insieme ricercatori dei tre atenei della regione e del Cnr, tutti esperti di alimentazione e salute”. — Perché proprio una piramide? E a chi si rivolge? “La figura della piramide, per la prima volta, è stata elaborata dall’insieme delle politiche regionali in tema di nutrizione. Detto questo si tratta di una iconografia semplice, che appunto vuole rivolgersi a tutti. Elementare ma scientifica, in grado di indicare chiaramente quello che si dovrebbe fare a tavola. Ci hanno detto che sarà distribuita nelle scuole e nei punti vendita della grande distribuzione. La speranza è che sia attaccata da tutti al frigorifero di casa. In tante famiglie è un ‘modello’di alimentazione già conosciuto, tramandato di generazione e generazione, che viene acquisito fin da bambini e che poi ti accompagna per tutta la vita. In tante altre famiglie invece questo non è accaduto. Per questo va insegnato — Ma non è troppo‘punitiva’nei confronti dell’enogastronomo che c’è in ognuno di noi? “È un po’più vegetariana rispetto alle comuni abitudini alimentari dei toscani. Da queste parti siamo più carnivori. Non dobbiamo però dimenticare che si tratta di uno schema orientativo. Soprattutto non deve diventare una fissazione, quella che viene definita ‘ortoressia’, e cioè l’incapacità di separare l’aspetto edonistico dei cibo da quello salutistico. In realtà la piramide dice che si deve mangiare di tutto. Piuttosto il segreto è quello di variare, cambiare. Curiosità e fantasia, per evitare squilibri e al tempo stesso mettersi a tavola sereni. Vino compreso? Sì, vino compreso. Ma con moderazione. Perché poi la prova dello specchio non perdona. E se allo specchio appaiono dei‘rivoletti’che non ci piacciono, tocca correre ai ripari. Con la piramide”.

PANE TOSCANO

PANE DI VINCA

ricoperti da teli di lino e infine cotti in forno a legna. Dopo la cottura il pane viene lasciato in ceste e venduto in giornata. Il pane di Montegemoli ha il caratteristico sapore del pane casalingo grazie alla cottura in forno a legna, per questo viene consumato soprattutto con zuppe di legumi e di verdure, impiegato per la preparazione di antipasti e bruschette e si accompagna con salumi tipici toscani. Si abbina molto bene anche con secondi piatti e vini rossi e bianchi della zona.


CARNI Mucco pisano e pollo del Valdarno

FRUTTA Prugne secche e mele del Mugello

O La mucca pisana, allevata

O In Toscana si trova la più grande azienda produttrice

sin dal Cinquecento, è il risultato di un incrocio tra la mucca podolica locale, la chianina e la bruno alpina. Ha il manto color castoro con una riga rossiccia sul dorso. I maschi hanno il collo corto e grosso. La carne, dal sapore marcato, è tenera e di colore rosso chiaro negli esemplari più giovani, compatta e più scura in quelli di 18-20 mesi. Il pregio maggiore della razza è il suo spiccato istinto materno che le ha fatto meritare l’appellativo di“balia per eccellenza”: oltre al proprio vitello riesce ad allattarne altri due senza problemi.

di prugne secche in Italia. È a Montalcino, e rappresenta una delle attività collaterali di una delle più famose case produttrici del Brunello. Raccolte direttamente dagli alberi dei 46 ettari a disposizione della produzione, le susine vengono lavorate direttamente in azienda. O Nel Mugello la regina

O I riferimenti ad un pollo con

penne bianche e piccole dimensioni ,allevato nel Valdarno superiore, si perdono nel tempo. Questo pollo era conosciuto per la sua rusticità e soprattutto per la sua carne soda e gustosa. Con il tempo, a causa delle sue caratteristiche che ne impediscono l’allevamento in batterie, il pollo valdarnese era quasi scomparso, fino a che non è stato riscoperto e valorizzato da alcuni allevatori locali. Gli animali, che hanno bisogno di almeno dieci metri quadrati di terreno a testa, vengono allevati in terreni recintati, oppure completamente liberi. Il pollo del Valdarno si cucina tipicamente alla griglia e in umido con i “rocchi”(polpettine di sedano), ma viene utilizzato anche per tutte le altre ricette a base di pollo.

PESCE Il pesce della laguna di Orbetello Le acque della laguna di Orbetello sono ricche di pesce pregiato come spigole, orate, muggini e anguille. Il pesce viene lavorato direttamente in loco e venduto sul mercato regionale, nazionale e all’estero.

CARCIOFO EMPOLESE

VINI Montecucco Doc e Ansonaco dell’Isola del Giglio O Il Montecucco (Doc dal 1998) viene

prodotto con le uve che si raccolgono sul versante grossetano del monte Amiata. In un ambiente trasformato nei secoli dagli uomini ma senza intaccare il paesaggio e la natura, si alternano con ricchezza di sfumature la macchia mediterranea, i pascoli, i castagneti, le dolci colline delle vallate dei fiumi Ombrone e Orcia. Ed è proprio quest’ultimo a segnare il confine orientale dell’area di produzione del vino Montecucco Doc, separandola dalla zona del Brunello di Montalcino. O Il vino bianco Ansonaco è da sempre

prodotto sull’Isola del Giglio, dove si trovano anche delle interessantissime vasche di pietra, i palmeti, ricavate nei monoliti granitici, usate fino da tempi antichissimi per la prima fermentazione delle uve. Sull’isola del Giglio la viticoltura ha mantenuto i caratteristici terrazzamenti dove la vite è difficile da coltivare, ma dà prodotti di ottima qualità. Il vino Ansonaco ha un colore giallo paglierino, profumo intenso, leggermente fruttato; sapore asciutto, morbido, vivace e armonico. Per le sue caratteristiche, si presta ad accompagnare piatti leggeri della cucina marinara, in particolare antipasti e pesce.

dei frutteti è la mela. Il microclima delle valli e delle montagne mugellane, con una forte escursione termica fra il giorno e la notte e le giuste condizioni di umidità, è l’ideale per la coltivazione di molte varietà di mele che, giungendo a maturazione in epoche diverse, permettono di coprire tutta la stagione di produzione. L’azienda che le raccoglie e le commercializza è unica nel suo genere. Si tratta di una cooperativa nata negli anni settanta, e formata da famiglie che condividono valori e proprietà. Tutto in comune, le spese a carico della comunità. Per il loro stile di vita e la loro impostazione educativa, le famiglie sono un riferimento privilegiato del tribunale dei minori per l’affido di ragazzi disabili o con gravi problemi familiari.

SALUMI Lardo di Colonnata e prosciutto del Casentino O Colonnata, piccolo centro delle Alpi Apuane, è un

paese famoso per la presenza delle belle e ricche cave di marmo, ma soprattutto per la produzione del lardo, uno dei salumi più apprezzati dai buongustai di tutto il mondo. Il lardo un tempo era il“companatico”dei cavatori, che lo affettavano sottile per metterlo dentro le pagnotte rustiche insieme ad alcuni pezzetti di pomodoro; il tutto veniva preparato la mattina presto e insieme al fiasco di vino serviva ad assicurare le calorie necessarie ad affrontare le ripide salite e la fatica degli scavi. O Il prosciutto del Casentino ha un sapore delicato e

fragrante. Il profumo e i particolari aromi sono ottenuti grazie alle tecniche di lavorazione e stagionatura. È utilizzato come antipasto o come secondo piatto e le sue caratteristiche vengono esaltate se accompagnato al pane toscano, preferibilmente cotto a legna.

CILIEGIA DI LARI SALAME TOSCANO

OLIO Extravergine di oliva toscano Immaginare il paesaggio toscano senza olivi non sarebbe possibile. Accanto ai filari di cipressi e alle distese dei vigneti, gli oliveti ricoprono colline, pianure e terrazzamenti sui versanti più ripidi. Allo stesso modo, sarebbe impossibile immaginare la cucina toscana e i suoi sapori tradizionali senza l’olio extravergine di oliva. Si produce in molte parti della regione, dalle colline attorno a Firenze al cuore della Maremma grossetana, dove l’olio di Alberese è protetto e tutelato dal marchio di qualità Docg.

FINOCCHIONA TOSCANA



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