autocritica La paghiamo cara
Come la grande crisi del settore automobilistico spazza via posti di lavoro, strategie e certezze. Diario di bordo su possibili nuovi approdi, raccontati dall’interno di un mondo sottosopra
marzo 2009
Supplemento al numero odierno de il manifesto
IN QUESTO NUMERO [6]
LA GUERRA ONLINE DI JOE THE AUTOWORKER Nicola Bruno
TEMPO PAROLAD
[7]
DETROIT, CRISI D’IDENTITà Carmelo Bongiovanni
[10]
TUTE BLU DI TUTTO ILMONDO Loris Campetti
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STRATEGIE DI UNA BATOSTA Francesco Calvo
[13]
L’INVERNO DEI DESIGNER Silvia Baruffaldi
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SE IL PROTEZIONISMO SIEDE AL VOLANTE Guglielmo Ragozzino
il manifesto direttore responsabile Sandro Medici direttore Mariuccia Ciotta Gabriele Polo supplemento a cura di Francesco Paternò progetto grafico e impaginazione ab&c grafica e multimedia immagine di copertina di Maurizio Ribichini stampa Sigraf srl Via Redipuglia, 77 Treviglio [BG] chiuso in redazione: 6 marzo 2009
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A
ndrea Formica, 48 anni, è senior vice president per vendite, marketing, pianificazione e comunicazione prodotto di Toyota Motor Europe. E’ da vent’anni nel mondo dell’auto, molti dei quali con esperienza internazionale, in parte nel quartier generale di diversi costruttori, in parte nei mercati inglese, americano e italiano (è stato tra l’altro presidente di Ford Italia). Il suo punto di vista sulla crisi che sta stravolgendo il settore è di quelli che non capita ascoltare tutti i giorni. Non è un pentito, sia chiaro, ma la sua voce è da insider critico di un certo mondo costretto a cambiare. Lui ha appena cancellato al recente Salone di Ginevra la sua conferenza stampa: «15 minuti sarebbero costati 200.000 euro, troppi, uno spreco». Che cosa sta accadendo all’automobile? Siamo in una crisi che finalmente ci obbliga a riconsiderare la struttura e il dimensionamento del settore auto. Perché c’è la necessità di
che i meccanismi operativi sono esattamente gli stessi. E ogni giorno si brucia un’enorme quantità di cash, che sottrae risorse a tutti i livelli creando tensione finanziaria. E’ una crisi ciclica o di sistema? E’ una crisi ciclica che ha esasperato una crisi di sistema. Questo è un modello di business non più sostenibile, a mio avviso. C’è troppa volatilità. Perché ve ne siete accorti solo adesso? Non ce ne siamo accorti prima perché veniamo da sei o sette anni di crescita continua, noi come gli altri costruttori. E quando le cose vanno bene, non c’è forte motivazione a cambiare. Marchionne, gruppo Fiat, sostiene che tra fusioni e fallimenti qualche costruttore
Toyota, numero uno mondiale, cosa sta facendo? La cosa positiva di questa crisi è che ti porta a fare un esercizio che in Toyota chiamiamo “deprioritisation”. Cioè rivedere tutte quelle attività che non sono assolutamente necessarie nelle attuali condizioni di business. Dobbiamo domandarci, non solo noi case automobilistiche, ma fornitori, concessionari, giornalisti, agenzie di pubblicità, insomma tutti gli stakeholders di questo mondo: è veramente necessaria la sovrastruttura esistente per entrare con il proprio prodotto nella testa del cliente? Io credo di no. In vent’anni di carriera, non so nemmeno quanti soldi ho speso ... ricordo che nel 1997 ero a capo del marketing della Ford inglese e avevo un budget annuale di 1 miliardo di dollari.
«Non si cambia quando si guadagna. Ma ora questo modello di business non è più sostenibile. Ridimensioniamoci tutti». Parla Andrea Formica, senior vice president di Toyota Europe contenere al massimo i costi, a fronte di un calo di domanda drammatico. Oggi siamo nella situazione in cui tutto ciò che è legato alla crescita del fatturato è incerto, mentre l’unica cosa certa sono i costi fissi. La realtà è che anche produttori come Toyota che negli anni scorsi hanno fatto grandi profitti, non hanno mai avuto margini a due cifre. Certo, sono numeri record rapportati ai volumi venduti, ma nel settore - in media - il livello non supera il 2 per cento. Che è poi il ritorno dalle vendite che si attende un concessionario. Voglio dire
presto non ci sarà più. Le parole di Marchionne sono condivisibili, come analisi del settore. Ma che tipo di forma queste nuove alleanze potranno prendere non è chiaro. Alla base c’è sicuramente l’esigenza di ridurre la struttura di costi fissi, abbassando il punto di pareggio, a patto che si continui a vendere prodotti che la gente è disposta a comprare. Non c’è riuscita DaimlerChrysler, è andata meglio a Renault-Nissan, benché oggi sia Dacia il marchio di maggior successo.
Come cambia la scala delle vostre priorità? L’unico criterio sensato è quello di dire: io investo in questo momento soltanto in quelle attività che hanno una alta probabilità di generare vendite e crescita di fatturato. Per vendere automobili, oggi si sostengono investimenti ingenti legati a tutta una serie di attività che non sono strettamente correlate alla vendita, ma la verità è che la cosa più importante rimane senza alcun dubbio l’esecuzione del prodotto. Una gamma di prodotti eccellente rappresenta di gran lunga l’espressione più
FRANCESCO PATERNÒ
DIDOWNSIZING ItopMANAGER
forte del marchio e il migliore investimento che una casa può fare. Così, in questo momento, le nostre risorse vanno soprattutto sul mantenimento dei piani di prodotto. Tutto ciò che ha un rapporto mediato e indiretto con la crescita del fatturato, non può che passare in secondo piano. Che effetti vede? Sono molto curioso di vedere cosa accadrà con questa “deprioritisation”. Magari ci potremmo accorgere, dico noi uomini di marketing, che per vendere automobili forse non è così necessario investire così tante risorse. Soprattutto con l’avvento di internet la conoscenza diretta del prodotto da parte del consumatore è molto aumentata. Di conseguenza cambierà la pianificazione sui media, con la crisi più che mai diventano importanti sia l’efficienza che l’efficacia. Cioè comunicare di più spendendo meno e raggiungere in modo mirato una determinata audience con le diverse tipologie di prodotto. Fino a oggi c’è stato un approccio a mitragliatrice, ora è indispensabile che sia molto più focalizzato. Che mondo fa per il mercato? Francamente, non prevediamo che il mercato recuperi prima della metà del 2010. Rispetto all’anno scorso, per parlare del solo mercato europeo Russia compresa, nel 2009 si perderanno circa 6 milioni di unità. Non c’è dubbio che questo provocherà uno sconvolgimento. Non credo scenderemo sotto i 15 milioni e spero sia una previsione pessimista, grazie anche agli incentivi approvati in diversi paesi tra cui l’Italia. Mi preoccupano gli effetti sulla rete di vendita. Nel 2002, quando la Commissione Europea cambiò le regole per la distribuzione di automobili, in Italia avviai un consolidamento delle concessionarie Ford,
puntando ad avere un numero limitato di operatori con un fatturato forte. Questo non mi risulta sia stato fatto da molti né in Italia né in Europa, e dunque credo che ci saranno perdite notevoli. Mica male gli aiuti di stato, vero? Sull’utilità degli aiuti di stato si potrebbe discutere a lungo, ma il ruolo che il nostro settore riveste per l’occupazione in molti paesi trascende questo tipo di discussione. E’ difficile dare un giudizio ... credo che sostenere la domanda con gli incentivi sia oggi imprescindibile, anche se servirebbero interventi di più ampio respiro. Con questi tagli di budget, la ricerca ci rimette o no? Molti dei finanziamenti in atto in America e in alcuni paesi in Europa sono legati alla ricerca e all’investimento in vetture eco-sostenibili. Questo vincolo aiuterà a proteggere la ricerca. Da una parte c’è la consapevolezza dei costruttori che il mercato va comunque in questa direzione, dall’altra c’è l’obbligo legato all’ottenimento dei finanziamenti. Non mi dica che davvero tutto cambierà... Il mondo dell’auto è già cambiato. Basta guardare a cosa è successo nel 2008 in alcuni mercati, con l’assottigliamento o la scomparsa di differenze fin qui marcate tra quelli del nord Europa e quelli del sud Europa. Fino all’anno scorso, al nord c’era un peso notevole delle vendite di Suv, oggi ci sono paesi come la Danimarca o l’Irlanda dove questo tipo di vetture sono virtualmente scomparse. Adesso la Danimarca e l’Italia hanno una segmentazione di mercato sostanzialmente identica. Quando lanciammo la nostra piccola Aygo, parlo solo di qualche anno fa, nemmeno pensavamo di commercializzare
questo modello in Scandinavia. Oggi la Svezia rappresenta uno dei primi mercati per Aygo. Il fenomeno di “downsizing” è già in atto ed è fortissimo. Ma il downsizing sarà sempre più multidimensionale, nel senso che non riguarderà soltanto la tendenza verso vetture più compatte, ma anche il numero di vetture possedute all’interno di un nucleo familiare. E’ uno degli effetti della crisi: si compreranno auto più flessibili nel loro uso, non più la macchina di papà, di mamma, del figlio o della figlia. I costi di esercizio rappresenteranno nella prossima decade il fattore dominante al momento dell’acquisto. Questo non significa che si faranno auto noiose, ma che dovranno avere innanzitutto bassi costi di esercizio ed essere multifunzionali. Cosa pensa del crollo dell’industria americana e delle scelte della nuova amministrazione? Lì, il tema è la riduzione della dipendenza dal petrolio. Il presidente Obama ha dato una indicazione chiara. E il processo è già iniziato. Nei prossimi dieci anni, l’unica scelta concreta è quella della tecnologia ibrida per consumare e inquinare meno a parità di altre condizioni, parlo di confort, sicurezza, guidabilità. Non ci sono dubbi. Su questo, Toyota è indiscutibilmente leader grazie ad una esperienza più che decennale, siamo alla terza generazione della Prius. Un altro aspetto che sta cambiando le cose, e che per ora si vede di più in Inghilterra, in Giappone e negli Stati Uniti è la disaffezione da parte delle giovani generazioni nei confronti dell’automobile. E’ compito nostro far ritrovare la desiderabilità dell’auto alle nuove generazioni. Ma il “downsizing” è un fenomeno che va interpretato in senso più ampio da tutti coloro che sono e vivono in modo passionale questo business. E’ un invito accorato: rifocalizziamo i nostri sforzi su ciò che veramente fa la differenza per il cliente. In una parola, ridimensioniamoci davvero.
BOB LUTZ E GLI ALTRI. CERCASI PENTITI Il regista americano Michael Moore sta cercando banchieri, broker, procacciatori di affari che lo aiutino a fare il suo prossimo film su Wall Street. Gente che sappia come è andata davvero, basta che siano pentiti un po’ - o del tutto - del disastro finanziario mondiale di cui sono già stati attori protagonisti. Forse non sarebbe un film da Oscar, perché la verità resta sempre malinconicamente rivoluzionaria, ma certo aiuterebbe a capire e magari a pensare il futuro in modo diverso. Anche nell’auto ci vorrebbero manager pentiti. Che raccontino come hanno potuto guadagnare e dilapidare miliardi di dollari e di euro, sbagliando modelli di business e di sviluppo. Uno come Bob Lutz, per esempio, ne avrebbe da raccontare. Lutz è l’icona dell’auto americana. E’ vicepresidente della General Motors, ha 77 anni di cui 45 passati fra le quattro ruote, va in pensione l’1 aprile (sembra un pescescherzo, e infatti resterà come consigliere del re fino a tutto il 2009), ha lavorato ai massimi livelli anche in Ford, Chrysler e Bmw. Parlando recentemente alla radio della crisi che attanaglia l’industria americana - solo il gruppo di cui è numero due ha perso oltre 80 miliardi di dollari negli ultimi tre anni - Lutz ha usato una disinvoltura che farebbe impazzire Moore con la sua steady : «Non mi è mai capitato di vivere una situazione di tagli così massicci, niente bonus, niente permanenze prolungate in hotel decenti, niente aerei aziendali. Devo fare la fila al banco della Northwest. Non l’avevo mai fatto». Per uno abituato ad andare in ufficio in elicottero deve essere dura, in effetti. E durissima se si considerano quante decisioni per miliardi di dollari e purtroppo anche per i destini di migliaia di persone un uomo così ha preso nella sua lunga vita professionale. Pentimenti non sembrano tuttavia all’orizzonte, né c’è da svenire se i top manager della Ford e della Toyota hanno ora deciso di tagliarsi il 30 per cento dello stipendio. O se Rick Wagoner, il capo di Lutz alla Gm, è tracollato in busta paga da 14,1 milioni di dollari del 2007 ai 5,4 del 2008, milioni quasi tutti perduti per la picchiata del titolo in borsa. Il presidente Barack Obama parla di tutti loro e di altri quando, di fronte ai parlamentari riuniti in vista dell’approvazione del bilancio 2010, mette sul banco degli imputati per il disastro dell’auto Usa «anni di cattive decisioni» e, puntando l’indice, «non dobbiamo proteggerli – e non lo faremo – dalle loro cattive azioni». A Washington ci sono richieste all’amministrazione di aiuti federali all’auto per quasi 65 miliardi di dollari fra dati e non ancora concessi, mentre i licenziamenti vanno avanti come forse mai è avvenuto nel settore. Basti pensare che in Nordamerica negli ultimi otto anni si sono persi più di 250.000 posti di lavoro nell’industria dell’auto, più o meno la metà dell’occupazione registrata all’inizio del millennio. Una cifra in cui non sono inclusi né i posti spariti tra i fornitori o nella rete di vendita, né gli annunciati prossimi 47.000 tagli (a livello mondiale) della General Motors e i 3.000 della Chrysler. Roba che non vale nemmeno una fila al check in. fp
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ONLINEDIJOE
USA, I MILLENNIALS NON AMANO L’AUTO
A
ttacchi incrociati a mezzo blog, botta-e-risposta di video su YouTube, campagne di boicottaggio, siti di “fact&fiction” (fatti&bufale) che provano a ristabilire un minimo di verità. Rispetto ad un anno fa, si respira ancora un clima da campagna elettorale sull’internet statunitense. Solo che ora, invece della lotta Obama-Clinton, è un altro scontro a tenere alta l’attenzione. La drammatica crisi automobilistica (e l’opportunità o meno di procedere con il salvataggio di stato) ha letteralmente spaccato in due il paese, tra protezionisti e nostalgici del libero mercato, un sindacato ricompattato intorno all’industria nazionale e le rivendicazioni individualiste dei taxpayer. Un vero e proprio conflitto sociale e politico che non poteva non riversarsi anche in rete. Con modalità che ricordano tanto quelle della scorsa battaglia elettorale. E così, non ci si stupirà più di tanto se tra le fila degli operai in lotta si stia facendo largo anche un “Joe The Auto Worker”, 34 anni trascorsi alla General Motors ed ora in pensione, che prova ad inseguire (da sinistra) l’onda della popolarità di “Joe The Plumber”, l’idraulico pro-McCain. Se quest’ultimo è ora diventato una celebrità interpellata su qualsiasi tema (di recente è stato anche spedito in Israele per raccontare la guerra a Gaza, esperto di caldaie lui), Joe l’operaio è mosso soprattutto da spirito di solidarietà: «Combatto per dissipare tutte le convinzioni sbagliate sul sindacato e le Big 3 dell’auto (Ford, General Motors e Chrysler, ndr)». spiega sul suo aggiornatissimo blog. Joe Babiasz, questo il suo vero nome, vive ovviamente a Detroit e, nonostante l’età, sa benissimo come muoversi online. Quando di recente un senatore dell’Alabama si è pubblicamente espresso contro nuovi aiuti statali, insieme ai suoi colleghi ha subito messo in rete un sito (www.BoycottAlabamaNow.com) in cui invitava a boicottare qualsiasi prodotto proveniente dallo stato del sud: «Non serbiamo nessun rancore contro gli abitanti di questo meraviglioso stato. (...) Ma vogliamo dimostrare al senatore cosa accade quando una parte dell’America non viene aiutata dal resto del paese». Un tema, questo della solidarietà nazionale, su cui molti vorrebbero posizioni più esplicite anche da parte del neo-eletto Presidente: «Obama dovrebbe pubblicamente condannare le posizioni dei senatori repubblicani che giocano con il futuro dell’America rifiutandosi di aiutare i lavoratori dell’auto per pure ragioni politiche», sottolinea un elettore democratico sul social network myba-
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Cosa pensano dell’industria automobilistica i Millennials? Ovvero la generazione dei nati tra gli anni ‘80 e il 2000? Più della metà la considerano “troppo vecchia”, novecentesca, mentre 9 su 10 pretendono migliori servizi online. E’ quanto rileva una recente ricerca condotta da Microsoft su un campione di 400 giovani a stelle e strisce. Che hanno già le idee molto chiare in quanto a ciò che si aspettano dai produttori: blog e altre finestre di dialogo per avere informazioni in tempo reale, alert via cellulare per ricevere le ultime novità e una migliore presenza sui siti di social-network come Facebook e MySpace. Ma soprattutto, i Millennials chiedono di poter personalizzare meglio la propria vettura, magari attraverso servizi online che consentono di progettarla con i colori e gli optional preferiti. Così come già fanno con le scarpe o le magliette acquistate in rete. Una sezione dello studio analizza anche l’atteggiamento nei confronti del lavoro in fabbrica. Se è vero che l’età media degli operai delle case automobilistiche è ormai piuttosto alta (55 anni), la maggior parte degli intervistati (87%) prenderebbe in considerazione l’idea di un simile lavoro. A condizione, però, che nelle fabbriche vengano messe a disposizione migliori tecnologie (Pc, smartphone, accesso ai social network e meeting virtuali). Il tutto anche per rilanciare un settore che secondo il 50% dei Millennials ha “una cattiva immagine pubblica” e “non offre possibilità di carriera stabili”. nb
rackobama.com, mettendo subito in chiaro il punto della questione: «I Repubblicani hanno condotto tutta la loro campagna dalla parte di Joe l’Idraulico, ma ora stanno lavorando solo per rovinare finanziariamente Joe l’operaio». Quanto è bastato perché, da destra, “Joe the Auto Worker” venisse subito trasformato nell’emblema della sinistra assistenzialista: «Con tutto il suo sciovinismo, sembra che Joe l’operaio non comprenda un acca di business o di finanza. Tutto ciò che sa dire è che a lui e ai suoi simili dobbiamo garantire lavori costosi e pensioni facilitate», ha tuonato dalle colonne del suo blog Lew Rockwell, economista promercato e una delle voci liberal più influenti. L’attacco di Rockwell non è stato affatto casuale, anzi: si inserisce nella scia di discussioni scatenate da un articolo pubblicato dal New York Times secondo cui ciascun operaio delle Big 3 di Detroit costa 70 dollari l’ora (se allo stipendio si aggiungono anche l’assicurazione, i contributi previdenziali e tutte le altre tasse), quando uno della Toyota questa cifra è di circa la metà (44 dollari). Anche Andrew Ross Sorkin (il giornalista che ha firmato l’editoriale) punta il dito contro gli operai e i loro sfoghi online: «Ai tanti problemi si aggiungono commenti come questo pubblicato su The Detroit Free Press (testata online che ha seguito da vicino lo scontro sul futuro delle Big 3, ndr) da Kandy O’Neill, 39 anni, assemblatrice alla General Motors, che a proposito dei tagli concordati con i sindacati scrive “Tutti vogliono andarci già pesanti con gli operai. E noi abbiamo ceduto troppo. Il nostro è un lavoro duro”. Quando leggi righe come questa - continua Ross Sorkin - vorresti simpatizzare con lei, ma poi realizzi che non si può risolvere niente senza la bancarotta». Giusta o sbagliata che sia l’analisi del New York Times, si è subito trasformata in un assist per i Repubblicani. L’hanno capito i lavoratori più politicizzati che dalle pagine di Indymedia hanno spiegato i motivi di questa macchina del fango in azione contro il mondo operaio: portare il sindacato a rinunciare ai diritti acquisiti in tanti anni di lotta in nome dell’emergenza nazionale. Nel frattempo, centinaia di lavoratori di Detroit (con Joe the Auto Worker in testa) si sono riversati online per spiegare che non conducevano nessun stile di vita al di sopra delle righe, anzi... «Per me è ricco chi supera i 200.000 dollari l’anno, non chi conduce una vita modesta con un reddito da 66.000 dollari l’anno», ha confessato un operaio della Chrysler in un forum online. Anche la United
tempi nemmeno la trasparenza online paga. Soprattutto se qualche giorno prima migliaia di utenti hanno letto sull’Huffington Post (uno dei blog politici più influenti) la notizia: «I Ceo delle Big 3 volano con il loro jet privato al Congresso per chiedere un nuovo prestito», con tanto di foto-gallery in cui si vede Rick Wagoner della GM, Alan Mulally della Ford e Robert Nardelli di Crysler sorridenti sui loro luccicanti aerei personal. «Date un’occhiata ai modelli: rivelano tutta la loro resistenza a rinunciare ad ogni piccolo benefit», incalza la giornalista, provocando così i commenti più risentiti: «L’America ha bisogno di un bagno di realtà». Se non fosse che nemmeno gli appelli al nazionalismo sembrano funzionare più di tanto. Ne sa qualcosa la Chrysler che dopo la
La crisi dell’industria americana corre sul web con toni che riecheggiano la campagna elettorale di Obama. La battaglia sulla blogosfera Auto Workers ha cercato di correre ai ripari diffondendo un video pubblicitario dal titolo “Non siamo banchieri”. E General Motors ha subito messo online un sito di “Fact&Fiction” (www.gmfactsandfiction.com) in cui spiega a chiare lettere perché «utilizzare i dollari di chi paga le tasse per supportare GM produrrà benefici che ricadono su tutti, non solo le persone che lavorano per noi». Massima trasparenza anche sul blog ufficiale della casa automobilistica, dove il vice-presidente Steve Harris spiega passo dopo passo come saranno investite le risorse ricevute fino ad ora. Ovviamente il blog è stato subito subissato da fiumi di commenti al vetriolo, del tipo: «Queste cifre includono anche la Cadillac Escalade da 85.000 dollari regalata al migliore giocatore del Superbowl?». E, sì, perché di questi
costosissima campagna pubblicitaria “Thank You America” (ideata per ringraziare i cittadini per «aver investito nell’industria dell’auto casalinga») ha visto il suo blog ufficiale subissarsi di commenti risentiti: tutti prontamente rimossi dagli addetti alla comunicazione della casa automobilistica, dimostrando così tutta l’ipocrisia della loro apertura alla conversazione online. Ovviamente la voce della “censura” si è subito diffusa a macchia d’olio su molti servizi online (Digg, Friendfeed, Twitter), con il risultato di aggiungere uno scandalo nello scandalo. Ma la crisi e il dibattito politico ai tempi del web è anche questo: molte notizie che fuggono incontrollate, a volte apportando maggiore trasparenza, oppure, molto più spesso, confondendo ulteriormente le acque. www.totem.to
Nicola Bruno
LAGUERRA THEAUTOWORKER
Carmelo BongiovanNI
DETROIT CRISI D’IDENTITà
Al di là delle perdite in percentuale, anche i numeri assoluti sono da brivido. Nel primo bimestre del 2008 General Motors aveva già superato la soglia del mezzo milione di unità immatricolate, 516.157 per l’esattezza. Quest’anno, la somma delle vendite di gennaio e di febbraio si ferma, invece, alla soglia delle 252.701 unità, il peggior risultato degli ultimi quarant’anni anni. Ford è passata da 332.390 vetture del gennaio-febbraio 2008 a 185.825, Chrysler da 229.546 a 122.440. Come se non bastasse la Casa dell’ovale blu - quello del modello T di un secolo fa, per intenderci - vede calare a febbraio il totale delle sue immatricolazioni sotto quota centomila. Sono infatti soltanto 95.694 i contratti messi a segno da Ford contro i 184.673 del febbraio 2008. Un dato mensile a cinque cifre che nel quartier generale di Dearborn non avrebbe previsto neppure il più pessimista dei manager. Il mercato americano dell’auto non fa comunque sorridere nemmeno le case straniere, giapponesi in testa. Toyota perde a febbraio il 39%, Honda il 38 e Nissan il 37%. Meglio, ma pur sempre nell’ambito del segno meno, fanno Mercedes (- 23%), Audi (- 24%), Volkswagen (-21%) e Porsche (-11%), con Bmw a far la performance peggiore (-37%). Anche la nostra Ferrari, che negli States ha sempre avuto il vento in poppa, cala del 31%, fermandosi a quota 93 vetture per febbraio e 143 nel bimestre. Fra tutti i marchi presenti sul mercato soltanto due possono vantare un bilancio positivo: Subaru guadagna l’ 1,4%, mentre Kia strappa con i denti un + 0,4%. Sommando l’incremento delle due asiatiche, in termini di volumi, si arriva a 267 unità totali nell’intero mese, ovvero quello che le
l’ultima Camaro. O, ancora, la sola auto americana nuova che comunichi entusiasmo “rivoluzionario” è la Chevrolet Volt, che arriverà, forse, tra due anni. L’ auto “americana al cento per cento”, nell’anima, nel design, nella meccanica, nel suo essere autenticamente made in Usa è profondamente cambiata nel corso degli ultimi due decenni. Ed è cambiata in peggio, come volesse sempre giocare al ribasso. Non a caso ha perso la sfida con le auto dei migliori brand europei, più belle e personali nello stile, più moderne ed evolute nei contenuti, più affidabili nella qualità. Da auto caratteristiche e seducenti, costruite con orgoglio e passione e vendute con entusiasmo e convinzione, sono diventate la copia “passiva” delle berline giapponesi, ovvero delle auto attualmente più vendute sul mercato: Toyota Camry e Corolla, Nissan Altima, Honda Accord e Civic. La prossima berlina importante Chevy di General Motors, la Cruze, è di fatto coreana, come pure la maggior parte delle Chevrolet vendute in America sono Daewoo alle quali viene soltanto cambiato il marchio. Gli unici mezzi su quattro ruote rimasti fedeli all’ideale americano sono i pick-up, ancora molto presenti sulle strade degli States, pur se, a loro volta, in ribasso. Come a dire che oggi la massima espressione del made in Usa è un mezzo un po’ anacronistico, come erano anacronistiche le moto inglesi degli anni Settanta. Al di là della crisi, c’è pertanto un’identità dell’auto americana che va ricostruita. Con contenuti moderni, coerenti alle esigenze irrinunciabili che la tutela dell’ambiente richiede, ma pur sempre con tratti precisi che siano l’espressione di successo della cultura di una nazione e della sua tradizione industriale. Altrimenti per il paese pure guidato da un Barack Obama fortemente determinato a farlo risorgere, l’auto made in Usa potrebbe diventare solo un ricordo, come per gli inglesi l’auto made in England.
I numeri del precipizio in cui versa il mercato dell’auto statunitense e che rischia di inghiottire per prime la General Motors e la Chrysler. Modelli e modello di business sbagliati e nessuno pensa più diverso
C
ento anni fa venne lanciata un’automobile che cambiò il mondo. Oggi, un secolo dopo la nascita della Ford T, l’auto americana è in profonda crisi, quella delle ormai ex Big Three di Detroit, General Motors, Ford e Chrysler. E’ in crisi il mercato, ai minimi da 27 anni. Le immatricolazioni sono in caduta libera: i dati più recenti, riferiti allo scorso mese di febbraio, fotografano un volume di vendite quasi dimezzato rispetto allo stesso periodo del 2008, in virtù di una contrazione complessiva del 41% abbondante. In quest’ambito sono proprio le marche domestiche a registrare il rosso più profondo con General Motors e Ford rispettivamente sotto del 53 e del 48 %, mentre Chrysler lascia sul campo soltanto - si fa per dire - il 44% del risultato conseguito lo scorso anno.
tre americane hanno perso più o meno ogni mezz’ora nei 28 giorni di febbraio (297.567 vetture totali). Già, le tre americane, le più in crisi nella crisi. Invece di puntare all’eccellenza, con modelli come la Ford T o la prima Mustang, con coraggiose Cord o audaci Duesembèrg, con stravaganti Cadillac o straordinarie Corvette, le Big Three sono state spinte negli ultimi vent’anni da aspirazioni tristemente modeste. Le due sole automobili americane realmente ambiziose in tempi recenti, la GM EV1 e la Tesla, sono state ritirate prematuramente dal mercato o create da un outsider che ha “pensato diverso”. E le sole auto americane “oggetto del desiderio” degli ultimi anni sono state le rivisitazioni di alcune icone degli anni Sessanta, come la Ford GT e
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www.500bydiesel.com
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Consumi: da 4,2 a 6,3 l/100 km (ciclo combinato). Emissioni CO22: da 110 a 149 g/km
IN ODD WE TRUST.
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Loris Campetti
E
TUTEBLUDITUTTO ILMONDO
ra passato un mese da quando le bombe della Nato – e del governo D’Alema – avevano raso al suolo la Zastava di Kragujevac. Tra le macerie ancora fumanti la mia amica Rajka, che come dipendente del maggior gruppo automobilistico dei Balcani svolgeva la funzione di traduttrice, domandò a una delegazione italiana che portava i primi aiuti alle vittime della guerra “umanitaria”: «Pensate che adesso la Fiat tornerà qui a investire, per ricostruire lo stabilimento e riavviare la produzione?». Ci guardammo imbarazzati zigzagando tra le pozze di solventi e veleni vari vomitati dal quel che era stato il reparto veniciatura, biascicammo un poco convinto «chissà, magari più in là». Nove anni più tardi la Fiat di Sergio Marchionne è tornata a Kragujevac, accolta in modo trionfale dai pochi dipendenti sopravvissuti alla crisi e dalla popolazione serba. Un’accoglienza analoga a quella ricevuta all’inaugurazione dello stabilimento di Melfi da un altro amministratore delegato del Lingotto (che si chiamava ancora «corso Marconi»), Cesare Romiti. «Romito salutateci Agnello», recitava il cartello alzato da un aspirante operaio della fabbrica integrata. Per chi ha un po’ di memoria è difficile, adesso che una linea della vecchia Punto ha ripreso a funzionare alla Zastava e in attesa che parta – crisi permettendo – la nuova Topolino, accusare gli operai serbi di togliere il lavoro a quelli di Pomigliano, o Termini Imerese, o Mirafiori. Eppure, lo sport preferito nelle stagioni di crisi è proprio quello di tentare di scatenare gruppi di operai contro gruppi di altri operai, usando il rischio di dumping sociale come come un machete per dividere chi sta in basso, quei lavoratori che si vogliono ridotti ad appendice delle macchine, stupide variabili del tasso di profitto e dell’andamento del Pil. Il protezionismo statale contribuisce a scatenare la guerra tra i poveri, come testimonia il caso francese (analizzato con sapienza da Guglielmo Ragozzino più avanti): il sostegno di Nicolas Sarkozy a Psa e Renault, a condizione di salvaguardare lavoro e stabilimenti francesi, è una pernacchia alla globalizzazione e a sentirsi presi per il naso sono gli operai degli stabilimenti delocalizzati dai due suddetti produttori. Anche se l’Italia non ha mai bombardato Tychy in Polonia e dunque non abbiamo nei confronti dei polacchi gli stessi sensi di colpa che bene o male ci sentiamo addosso guardando gli operai e la popolazione di Kragujevac, è difficile non comprendere le ragioni di chi li accusa di togliere lavoro ai «nostri» operai. E’ vero che degli incentivi italiani alla rottamazione stanno beneficiando soprattutto le tute blu polacche chiamate a effettuare un sabato lavorativo dopo l’altro, mentre quelle di Pomigliano vivono ormai (in)stabilmente in cassa integrazione. E allora? E’ la globalizzazione, bellezza. L’hanno capito tutti, tranne
i sindacati (con piccole e valenti eccezioni): tutto è globale, escluso il sindacato che tenta disperatamente di difendere i lavoratori fabbrica per fabbrica, paese per paese, nazione per nazione senza una strategia alternativa da contrapporre a quella del padrone globalizzato. L’operaio polacco costa meno e merita meno diritti di quello di Melfi, che solo grazie a una dura lotta di qualche anno fa vale più o meno come quello di Torino. Per non parlare dell’operaio di Kragujevac, il più competitivo sul mercato. La Serbia ha un vantaggio in più rispetto all’Italia e ad altri paesi: non ha dazi con la grande Russia, e dunque in un domani post-crisi, qualora la Fiat fosse uno dei sei produttori sopravvissuti al grande freddo, la
Gli effetti del protezionismo e degli aiuti di stato sul lavoro e sui suoi protagonisti. Uno sguardo dentro la Fiat, dalla Zastava a Tychy passando per la trattativa in corso con la Chrysler
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fabbrica di Kragujevac potrebbe tornare utile. E allora? Allora, senza scomodare la categoria otto-novecentesca dell’internazionalismo proletario, si dovrà pur costruire un vero sindacato internazionale, o almeno un efficace e non burocratico coordinamento delle diverse realtà geografiche all’interno di un gruppo, di una multinazionale, meglio ancora di un settore produttivo come quello dell’automobile. Qualche timidissimo segnale in controtendeza esiste, ma a prevalere è ancora una logica nazionale o quanto meno geopolitica. Come nel caso della fusione dei sindacati siderurgici degli Stati Uniti, del Canada e della Gran Bretagna, in palese funzione protezionistica ai danni della produzione asiatica e latinoamericana. Le multinazionali dell’auto che costruiscono nei tre paesi consociati (e non certo soltanto sindacalmente) devono acquistare in patria le lamiere per le loro vetture, a costo di pagarle di più che non acquistandole in Cina o in India o in Brasile. Quel che invece non è dato è che la stessa logica (ammesso e non concesso che sia una buona logica) possa essere fatta propria dalla frantumata Europa, dove ogni stato nazionale risponde alla crisi con proprie ricette, ed ecco che le conseguenze dell’unità tra le due sponde anglosassoni dell’Atlantico rischiano di ricadere anche sulla nostra economia e sui nostri lavoratori. In attesa (che rischia di non essere breve) di una globalizzazione sindacale e della conseguente definizione di un pacchetto di diritti inalienabili a ogni latitudine e longitudine come condizione per ricostruire una solidarietà di classe, c’è un’altra incognita che pesa sui lavoratori italiani delle quattro ruote. La crisi, come sempre, oltre ai disastri offre delle opportunità, tutto sta a coglierle. Sarà sufficiente l’automobile a metano, di cui la Fiat è uno dei massimi esperti a livello mondiale, per competere sul mercato post-crisi, quando la domanda (ridotta e comunque di sostituzione nei mercati forti, forse di crescita in quelli che in passato si chiamavano in via di sviluppo) sarà caratterizzata da «pretese» ecologiche, imposte dagli imput ambientali e dalla sempre più scarsa disponibilità di combustibili di origine fossile? La concorrenza ci dà dentro con la ricerca e la sperimentazione dell’idrogeno e, soprattutto, dell’elettricità per trovarsi preparata al mutare della domanda. L’Italia è in retroguardia. Infatti Marchionne vuole mettere le mani sulla moribonda Chrysler, molto più elettrizzante dei torinesi. E se l’affare andasse in porto, a non essere contenti non sarebbero solo gli operai, ma forse anche gli ingegneri italiani.
Francesco Calvo
STRATEGIE DIUNABATOSTA
F
inché il mercato ha avuto un andamento stabile non era possibile parlare di crisi poiché la dinamica era assimilabile a quella dei mercati dei beni durevoli, quindi la relativa stabilità, vista come mancanza di crescita, si poteva definire come il raggiungimento della maturità. Al contrario, con il 2008, assistiamo a una contrazione che coinvolge il settore in maniera strutturale. Dobbiamo quindi parlare ormai di crisi conclamata. Tutti corrono ai ripari e le conseguenze hanno due poli: da un lato offerte commerciali estremamente aggressive, dalll’altra licenziamenti, delocalizzazioni, tagli alla produzione e deroghe alla responsabilità sociale. A causa della crisi qualsiasi intervento sembra giustificato pur di ridurre al minimo l’impatto sul settore indu-
mento delle norme sulle emissioni, che certamente giova più ai produttori che all’ambiente, accelera soltanto un poco il rinnovo naturale del parco circolante. I nuovi mercati emergenti crescono, ma, con l’eccezione della Cina, forse un po’ meno di quanto pensassero gli ottimisti. Gran parte dell’immensa popolazione che abita quei paesi-continente vive abbondantemente al disotto del livello di reddito che fa scattare la motorizzazione di massa. È vero che spesso le città sono diventate megalopoli, ma la popolazione rurale rappresenta ancora la maggioranza e nelle campagne l’automobile resta un bene di consumo inaccessibile. Nel 2008, a fronte di una capacità produttiva mondiale stimabile in oltre 90 milioni di auto, la produzione dovrebbe aver superato di poco i 58 milioni di unità: un eccesso di capacità produttiva di oltre il 30%, in caso di svolta congiunturale al brutto, è in grado di mettere in ginocchio qualunque settore industriale, come è accaduto in passato per l’acciaio, la cantieristica, il tessile, la chimica e altri settori. Questo eccesso di capacità produttiva, d’altra parte, è generalizzato un po’ ovunque: oltre il 50% in Cina, oltre il 40% negli Stati Uniti, attorno al 35% in Europa. Nessuno sta davvero bene, e in questo contesto è inevitabile che i nodi di molte scelte strategiche compiute nel passato dai produttori vengano clamorosamente al pettine nei bilanci, sotto forma di perdite attuali e attese molto pesanti e, soprattutto, sotto forma di volumi di assorbimento di cassa assolutamente “stellari”.
te, distorce il naturale livello di elasticità dei consumi, discrimina l’afflusso di risorse pubbliche tra settori economici, tra imprese, tra famiglie, tra consumatori. Anche gli azionisti delle imprese automobilistiche pagano ovviamente qualcosa: molto i piccoli e piccolissimi, un po’ meno i grandi, ancora meno i gruppi di controllo. Restano fuori, a questo punto, solo i manager. In effetti, mi azzardo a dire che gli unici che non pagano sono i manager di vertice delle aziende: in un modo o nell’altro, loro si salvano sempre. I sistemi di “stock option” si trasformano in sistemi di “stock grant”. La Borsa viene messa da parte perché non riflette più il vero valore d’impresa, come hanno imparato a dire con fretta sospetta molti dei maggiori manager. Gli obiettivi collegati ai bonus sono tutti interni e sono stabiliti dagli stessi beneficiari. Insomma, ci sono mille modi per salvaguardare la “casta”. Ma fra incentivi e assoluzioni, non sarà anche l’imperdibile occasione per alcuni costruttori di far digerire provvedimenti di ridimensionamento, delocalizzazione e quant’altro? Cioè, non sarà che per alcuni più che una crisi è un colpo di fortuna? Può darsi, ma non è certo che tutto ciò accada davvero e accada magari a breve, sulla sola spinta di questa crisi. L’industria dell’auto presenta alcune delle caratteristiche distintive dei settori industriali “maturi”, che richiedono spesso interventi importanti di concentrazione e di ridimensionamento, ma il problema della “giusta” dimensione competitiva non è ancora risolto, né sul piano teorico, né, tanto meno, su quello concreto, che è la chiave che serve davvero per dar vita a “combinazioni d’impresa” in grado di sviluppare effettive sinergie d’integrazione e effettive economie di scala. D’altro canto l’industria dell’auto è troppo importante per le singole economie e quindi che la regolazione avvenga totalmente tramite il mercato è poco realistico Più probabile che sul cammino di un processo evolutivo duro e spietato si frappongano le necessità dei singoli governi, che vorranno a tutti i costi proteggere le industrie nazionali per evitare le conseguenze che oggi gli Stati Uniti fronteggiano con enormi difficoltà.
Gli errori dell’industria e le prospettive di una crisi «che risveglia nazionalismi economici», seconda solo a quella delle banche. Parla un analista che ha lavorato a lungo nel cuore del gruppo Fiat
PELATA (numero due RENAULT): AVANTI con l’auto ELETTRICA
Per capire che razza di aria tira nel mondo globalizzato dell’auto basta guardare ai numeri. Oppure provare a scambiare qualche domanda con chi è al volante. Uno di loro è Patrick Pelata, direttore generale della Renault, numero due dopo Carlos Ghosn del gruppo Renault-Nissan, l’alleanza nata giusto dieci anni fa e l’unica ad aver marciato bene, finora. «La produzione 2009 della Renault scenderà del 25% rispetto al 2007», spiega Pelata, dopo una riduzione della produzione del 50% nel quarto trimestre 2008 in Europa occidentale sempre rispetto allo stesso periodo del 2007. Il diktat è proteggere ora la liquidità, tanto più che il governo francese ha appena concesso alla Renault 3 miliardi di euro in prestiti agevolati. «In una situazione non chiara sappiamo bene cosa fare»: avanti con i piani di auto elettrica, con una crescita fuori dall’Europa, «ma non diamo previsioni di mercato». Sergio Marchionne (Fiat) sostiene che diversi costruttori scompariranno? «Dovreste chiedere a lui la risposta... non so se esagera, ma la direzione sembra essere proprio quella». fp
striale, anche se questo significa impoverire il tessuto economico di intere nazioni. Ne abbiamo parlato con Gino Scotti, che si è occupato di Studi economici, Analisi strategiche, Nuove iniziative e Controllo direzionale nel Gruppo Fiat per oltre quindici anni. Che tipo di crisi abbiamo davanti? La crisi dell’auto è forse inferiore soltanto a quella delle banche e della finanza in genere. Probabilmente sarà peggiore e durerà più di quella del 1993. Allora, il mercato europeo si ridusse del 17% (circa 2,2 milioni di vetture) e ritornò ai livelli del 1992 (circa 13,5 milioni di auto) solo cinque anni più tardi, nel 1997, mantenendosi poi stabilmente tra i 14 e 15 milioni di vetture. Il 2008 si è chiuso a circa 13,5 milioni di auto (-8%). Per il 2009, si parla di meno di 11 milioni (-20/21%), salvo maggiori effetti degli incentivi messi in opera in quasi tutti i mercati principali. Che la crisi sia seria non vi sono dubbi. Sorprende un po’, come sempre, che i costruttori ne siano stati colti di sorpresa, rifugiandosi, come e più di altre volte, sotto l’ala protettrice degli aiuti di Stato. In superficie e a breve, questa è certamente una crisi da carenza di domanda. Ma sottopelle e a medio-lungo, questa è soprattutto una crisi da eccesso di offerta. I mercati sviluppati sono saturi e la domanda è solo di sostituzione. L’inaspri-
Chi paga, dunque, questa crisi? Un po’ tutti, credo, anche se non proprio in misura proporzionale alla loro responsabilità. In prima fila metterei i lavoratori dell’industria dell’auto, pesantemente coinvolti nei processi su larga scala di ristrutturazione e di ridimensionamento: nuovi disoccupati, orario e salario ridotto, prepensionamenti e tutto l’armamentario che caratterizza questi momenti. Ci rimettono le finanze pubbliche, cioè tutti noi, per il costo degli ammortizzatori sociali, per i contributi di incentivazione della domanda, per il finanziamento a fondo perduto delle spese di ricerca e sviluppo e per tutte le misure di sostegno pubblico che si stanno massicciamente varando un po’ ovunque. Ci rimettono molti dei princìpi che sembravano acquisiti al modo d’essere dell’economia occidentale: il libero agire del mercato, il libero commercio internazionale, la libera determinazione dei modelli di consumo, eccetera. La crisi dell’industria dell’auto, risveglia molti nazionalismi economici, mette a rischio i processi di integrazione dell’economia internazionale, alimenta rincorse verso una competitività basata sul livello dei sussidi pubblici alle industrie, mantiene sul mercato imprese in temporanea difficoltà e imprese strutturalmente decot-
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Silvia Baruffaldi
L’INVERNO DEIDESIGNER
“G CRISI USA, EFFETTI COLLATERALI Battendo New York, Los Angeles è la città più con il traffico più congestionato d’America anche nel 2008. Il dato che emerge dallo studio annuale di un centro studi americano, Inrix, non sorprende. Nuovi sono invece altri numeri che danno un’ulteriore lettura dell’impatto della crisi dell’automobile americana e non solo. Secondo lo studio, il traffico è diminuito a causa dell’economia sottosopra – tra prezzi alti della benzina e perdite di posti di lavoro - in tutte e venti le città prese in considerazione: dal -24% di Los Angeles, al top di -57% di Riverside, seguita proprio dall’area metropolitana di Detroit con un -47%. E sempre da Detroit arriva un’altra notizia che fa pensare. Da giovedì 12 marzo per vari giorni al mese, un bus sponsorizzato da Ikea – il colosso mondiale del low cost – farà da navetta gratuita dai grandi magazzini del centro di Detroit al primo negozio svedese del Michigan nato nei dintorni, a Canton. Plauso delle autorità cittadine, Ikea non fa concorrenza alla Gm o alla Ford, però a noi suona proprio come un altro segno dei tempi. fp
uardate bene questa showcar nei dettagli, perché per almeno un paio d’anni non ne potremo più fare», raccomandava un amico designer al salone di Parigi nell’ottobre scorso. Autunno in tutti sensi, con l’automobile ormai lanciata verso un inverno gelido. Mentre in molti ora si auspicano che più in basso di così il termometro non possa scendere, ci si interroga su come la situazione finanziaria possa influire sul design e come saranno quindi le auto le auto della crisi e quelle del dopo-crisi. Difficile rispondere, visti i tempi richiesti dalla progettazione. Oggi assistiamo al lancio di vetture concepite e sviluppate come minimo due o tre anni fa, e allo stesso modo quelle in gestazione attualmente vedranno la luce quando il peggio sarà passato. O forse ancora no, secondo i più pessimisti. Il ruolo dei desi-
gner è di guardare sempre avanti, immaginando di vivere in scenari futuri ora più che mai difficili da delineare, «ma se non sei ottimista è meglio se cambi mestiere», sottolinea Lorenzo Ramaciotti, capo del design di tutto il gruppo Fiat. Intanto, però, i costruttori riducono i programmi, tagliano il budget per i progetti di ricerca pura, posticipano l’uscita dei nuovi modelli già in fase avanzata di sviluppo. Non c’è molto da stare allegri. In più, c’è il rischio che si ritorni alla situazione di dieci o quindici anni fa, quando a dettare le linee guida era il marketing. Perché per sopravvivere, nel frattempo, le aziende devono vendere. Ma di “quelli del marketing” i designer non ne vogliono proprio sapere. Ricordano bene quando erano loro a definire gli scenari, con influssi troppo spes-
so nefasti proprio perché poco lungimiranti e focalizzati sul successo immediato di un prodotto. Gli stilisti avevano infine unito le forze con gli ingegneri per avere supporto tecnico e realizzare finalmente qualcosa di più evoluto: senza questa sinergia, le nuove architetture come i monovolume e i crossover non sarebbero mai nate. Ora i designer non pensano proprio di tornare indietro. «Il progetto dettato dal marketing funziona in alcuni casi, e per un solo modello, ma non si può continuare sulla stessa strada per una seconda volta», ammonisce Russell Carr, responsabile del design Lotus, un’azienda che oltre a produrre le piccole e brillanti sportive britanniche fornisce anche consulenza progettuale a clienti esterni. Qualcuno però prova ad usare l’arma del marketing con intelligenza, tenendo presente che il mondo cambia molto rapidamente, ma non per tutti alla stessa velocità e nella stessa direzione. Citroën sceglie di percorrere una doppia via con l’operazione DS, facendo storcere il naso a più di un purista: un nome storico fatto rinascere per fini commerciali, certo, ma anche per la più nobile finalità di assicurare una prospettiva vincente al double chevron. La sigla fa riferimento al distinctive spirt della marca e verrà utilizzata per distinguere tre modelli inediti, DS3, DS4 e DS5, da affiancare alle tradizionali C3, C4 e C5 a partire dal 2010. Un futuro a due letture, con vetture più ricche, di forte connotazione estetica e di tendenza (e quindi mirate a chi può spendere di più) da una parte, mentre dall’altra saranno la praticità e la funzionalità ad esprimere i valori della marca. Doppio lavoro per i designer quindi, altro che diminuzione dei progetti: il tempo dirà quanto la strategia sia valida, ma intanto la casa francese dimostra un impegno non scontato di questi tempi. Nel frattempo l’era del tuning si avvia seppur lentamente al tramonto, moda ridimensionata dalla minor possibilità di spesa più che dalla rivincita del buon gusto e del senso della misura. A una certa fetta di clientela però l’auto troppo essenziale non piace. Impensabile quindi che si ritorni esclusivamente a un design analogo a quello che ha sancito il fascino mondiale dello stile italiano dell’auto negli anni 50 o 60: bellezza data dalla forma pura, perché soldi per applicarci su un sacco di orpelli non ce n’erano. Anche se qualcuno ultimamente ci riprova, e con buon successo, come Walter de’ Silva per i marchi Audi e Volkswagen in particolare: su una A5 o sulle nuove Golf e Polo, la ricchezza è data dalla grande capacità di esecuzione dei dettagli e dagli assemblaggi accurati, ma non dalla ridondanza di elementi. Per cambiare ed evolversi bisogna uscire da paradigmi obsoleti, smettere di pensare all’auto in termini esclusivamente automobilistici. Mentre tutto si riduce, sono gli orizzonti dei designer a doversi ampliare, chiedendosi innanzitutto se tra alcuni anni, quando i loro progetti dovrebbero finalmente debuttare sul mercato, la richiesta per quel tipo di prodotto esisterà ancora. I poveri designer americani che hanno continuato per anni a disegnare Suv energivori e mostruosi, non sono stati tanto privi di immaginazione quanto piuttosto di una guida lungimirante. Se i briefing loro assegnati fossero stati più sensati, avrebbero sicuramente evitato di generare tanti veicoli inadeguati e anacronistici. Anche con un budget ridotto all’osso c’è invece chi cerca di scrivere una nuova sceneggiatura per la mobilità individuale, completa in ogni capitolo e non solo con una patina di nuovo data dalla grafica di copertina. Le vere innovazioni non verranno dall’auto, prevedono in molti, ma il cambiamento radicale non si vede ancora. Una via da percorrere potrebbe essere la smaterializzazione dei componenti, con un ingresso massiccio del settore che in inglese si chiama consumer electronics, roba che piace persino a quelli del marketing. Niente più plance con bottoni, manopole, leve e interruttori, solo uno schermo a comando tattile per interagire con tutti i sistemi di bordo. Non è fantascienza, è vita quotidiana, anche il prelievo al bancomat ormai siamo abituati a farlo così. Si eliminano un mucchio di componenti e si riduce il peso, mentre per migliorare, arricchire e personalizzare il sistema basterà scaricare gli aggiornamenti dalla rete, proprio come le suonerie per il cellulare o le versioni più evolute dei programmi del computer di casa. In questo modo si crea una forma di dipendenza, certo, ma cosa c’è di meglio per le esigenze del mercato?
Il grande crack visto dall’interno dei centri stili. Tagliati gli investimenti, c’è pure il rischio che riprenda ruolo il marketing, tra i colpevoli dell’attuale crisi. Ma la vera innovazione per la mobilità non verrà dall’auto
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GUGLIELMO RAGOZZINO
SEILPROTEZIONISMO SIEDEALVOLANTE
L’
aiuto da parte dei vari governi all’industria automobilistica nazionale è una inevitabile conseguenza della forma attuale di industria e mercato nel settore e al tempo stesso un’ingiustizia patente, una rottura di patti scritti, per esempio nel Wto, nel Nafta, nell’Unione europea e una lesione alle regole comunemente accettate del commercio internazionale. Prima di passare a una rapida disamina delle decisioni protezionistiche più rilevanti di taluni governi, e alle contromosse di altri governi e di istituzioni internazionali, può essere utile una stringata analisi dell’industria mondiale dell’auto e del suo mercato. 1. Ancora venti anni fa la produzione automobilistica si svolgeva in modo prevalente in tre aree: Nord America, Giappone, Europa occidentale. Nelle stesse aree si raccoglieva la parte preponderante del mercato, anche se le altre aree del mondo erano sempre più aggredite dalla motorizzazione privata e di massa. In altre parole: la produzione era sempre piuttosto concentrata mentre il mercato si allargava molto più rapidamente. I produttori di auto erano una dozzina, metà dei quali erano molto più forti degli altri. I giapponesi, in particolare avevano messo a punto lean production e just in time, cui gli altri produttori e i relativi sindacati semplicemente non credevano, e avevano ottenuto costi di produzione assai migliori. Gli altri paesi e le altre case di produzione rispondevano alle evidenti conquiste dei giapponesi con un’automazione sempre più accentuata e con supersfruttamento dei lavoratori. A volte, come alla Fiat, le due misure erano presenti entrambe; ma non bastava. 2. I paesi rivali, sostenuti dai rispettivi governi, cominciarono a spostare all’estero la produzione in misura crescente. Ma non era solo questione di quantità; ormai non si trattava più di coprire mercati di esportazione chiusi per dazi o eccessi di protezione con fabbriche di montaggio, che offrissero
a paesi ad alta disoccupazione industriale posti di lavoro in cambio dell’apertura di mercato, ma di cercare all’estero un lavoro meno costoso e non sindacalizzato, per poi eventualmente diffonderlo nel mondo. I trasporti e i sistemi di informazione avevano fatto tali progressi negli ultimi anni che consentivano di svolgere all’estero gran parte della produzione per poi riesportar-
dell’auto, mostrano il quadro di un oligopolio nel quale compaiono 17 case automobilistiche, qui indicate in ordine alla grandezza, ciascuna delle quali ha una produzione di almeno un milione di esemplari: Toyota 9,5, Gm 9,3, Vw 6,3, Ford 6,2, Honda 3,9, Psa 3,5, Nissan 3,4, Fiat 2,7, Renault 2,7, Hyundai 2,6, Suzuki 2,6, Chrysler 2,6, Daimler 2,1, Bmw 1,5, Mitsubishi 1,4, Kya 1,4, Mazda 1,3.
Gli aiuti di stato all’industria delle quattro ruote – dall’America all’Europa sono insieme conseguenza e ingiustizia. Un’analisi dello stato dell’arte del settore e del suo mercato per capire meglio da dove viene questa dura crisi
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la sui mercati internazionali, madre patria compresa. Inoltre le case maggiori cominciarono a collaborare, progettando insieme i nuovi modelli e offrendo le proprie linee al montaggio di vetture della concorrenza. Il quadro dell’industria motoristica mondiale si modificava rapidamente. Le case e i paesi che restavano fermi, sulle scelte degli anni precedenti, rischiavano di scomparire, motoristicamente s’intende. 3. Questa linea di condotta dette una scossa all’industria e ai flussi di mercato dell’auto. Gli ultimi dati che si riferiscono al 2007, anno finale e non tanto facilmente ripetibile della grande stagione mondiale
Insieme, esse producono 63 milioni di autoveicoli, camion esclusi, su un totale che supera di poco i 72 milioni. Come si può notare vi sono sei case giapponesi, tre americane, tre tedesche, due francesi, due coreane, mentre la diciassettesima è italiana, la Fiat. Si può anche notare che ai tre lati della triade Europa, Nord America, Giappone del passato, si è aggiunta soltanto la Corea che in una certa forma può essere accostata al Giappone, quasi come il Canada è associato agli Usa. 4. Anche i paesi in cui la produzione avviene superando il milione di autoveicoli sono 17: Giappone 11,6, Usa 10,8, Cina 8,9,
EUROPA ALLARGATA, SONO 153 LE FABBRICHE La Opel, controllata della General Motors al 100% con sede principale in Germania, rischia di fallire. Se il governo tedesco non la salverà, con le auto potrebbero saltare circa 300.000 posti di lavoro in Europa. E’ il caso più grave, ma l’industria malata sta un po’ dappertutto, dalla Svezia all’Italia. In Europa occidentale e orientale, comprendendo anche la Russia e la Turchia, sono attualmente 153 le fabbriche di assemblaggio di automobili, alle quali sono naturalmente collegati altre decine e decine di siti di produzione varie. Solo la General Motors, che conta anche i marchi Opel e Vauhxall in Gran Bretagna, ne ha 10, più due joint venture in Russia e in Polonia. I costruttori francesi Renault e Psa (PeugeotCitroen) che si sono impegnati a non chiudere fabbriche in Francia in cambio di prestiti agevolati per oltre 6 miliardi di euro ne hanno rispettivamente 12 e 9 più due joint venture (con Toyota e con Fiat). La Fiat ne ha 9, tutte in Italia, più 3 joint venture tra cui la recente con Zastava. fp
Germania 6,2 Corea 4,1, Francia 3,0, Brasile 3,0 Spagna 2,9, Canada 2,6, India 2,3, Messico 2,1, Regno unito 1,8, Russia, 1,7, Italia 1,3, Tailandia 1,2, Turchia, 1,1, Iran 1,0. Mettendo i dati a confronto si nota che la produzione complessiva dei paesi dotati di industria auto motoristica è maggiore di quella delle case, arrivando a 65,6 milioni. Le immatricolazioni nei paesi produttori non arriva a tanto; infatti mettendo a confronto la produzione e l’insieme delle auto entrate in circolazione nel medesimo anno si nota complessivamente che essi sono esportatori netti di 7,7 milioni di auto. Una prima osservazione è che dei 17 paesi grandi produttori, uno solo è sicuramente in pareggio: in Cina si producono 8,9 milioni di autovetture e se ne immatricolano altrettante. Questo non vuol dire che siano le stesse, che cioè i quasi nove milioni di auto cinesi non consentano di importarne una certa quantità e riesportarne altrettante, con caratteristiche diverse e diversi prezzi e clientela. Di un altro paese, l’Iran, è registrato nelle statistiche Anfia soltanto il quantitativo di auto prodotte e non quello di auto immatricolate. E’ presumibile che nel 2007, anno ricco per i paesi petroliferi, le importazioni di autovetture siano state abbastanza considerevoli. 5. Degli altri 15 paesi, sono quattro gli importatori netti di autovetture: Usa, Regno unito, Russia, Italia. Le importazioni nette dei quattro, indicate in riferimento alle quantità, non alle caratteristiche e ai prezzi delle auto importate sono di 5,7 milioni per gli Usa, 1 milione per il Regno unito, 1,2 milioni per la Russia e 1,5 milioni per l’Italia. Il Giappone ha un’esportazione netta di 6,5 milioni, Germania 2,7, Corea 2.9, Francia 0,4, Brasile 0,5, Spagna 1 milione, Canada 0,9, India 0,3, Messico 1,0, Tailandia 0,6 e Turchia 0,5. E’ pertinente il suggerimento che si può leggere su Le Monde diplomatique/il manifesto (Laurent Carroué, “Barack Obama e il crollo dell’auto americana”, febbraio 2009) di guardare alla produzione asiatica come un tutt’uno, per rendersi conto meglio degli spostamenti in corso. La produzione asiatica supera i 30 milioni, contro una americana, nord e sud America di 19 scarsi e una europea, Russia compresa, di 17. Possiamo con questo intendere che la distribuzione trilaterale del potere automobilistico mondiale stia per essere scardinata? Che prevarranno altre linee di forza? Vedere le questioni in termini continentali è prematuro, ma è certo che molti cambiamenti siano in atto e che la struttura dell’industria non è più quella alla
Confronto tra produzione e immatricolazioni di autovetture nei paesi con industria auto paesi
produzione
immatricolazioni
differenza
11,6 10,8 8,9 6,2 4,1 3 3 2,9 2,6 2,3 2,1 1,8 1,7 1,3 1,2 1,1 1 65,6
5,4 16,5 8,9 3,5 1,2 2,6 2,5 1,9 1,7 2 1,1 2,8 2,9 2,8 0,6 0,6 (?)
6,2 -5,7 2,7 2,9 0,4 0,5 1 0,9 0,3 1 -1 -1,2 -1,5 0,6 0,5 (?)
GIAPPONE USA CINA GERMANIA COREA FRANCIA BRASILE SPAGNA CANADA INDIA MESSICO REGNO UNITO RUSSIA ITALIA TAILANDIA TURCHIA IRAN TOTALE
quale ci si è abituati negli ultimi anni. Non è più quella di Henry Ford, ma forse neppure quella di Carlos Ghosn e di Sergio Marchionne. 6. L’industria automobilistica mondiale cresce in modo sconvolgente e ha la possibilità di sfornare anche 90-100 milioni di autovetture. Il petrolio si sente chiamato in causa e sale in pochi mesi da da 90 a 140 dollari e più. Un prezzo così alto potrebbe scoraggiare la produzione di automobili, perché i lavoratori a salario fisso dei paesi industrializzati fanno due conti e capiscono che girare in auto costa troppo e quindi è inutile cambiare vettura. Il petrolio, stizzito, scende in basso
fino a 50 e poi a 40 dollari al barile. Qui avviene un altro fatto imprevisto. I paesi petroliferi, in Africa, in Asia, in America latina, si rendono conto di essere molto meno ricchi di quanto non fossero due trimestri prima. I loro cittadini che si sentivano in grado di comprare finalmente un’automobile, ora non possono più farlo e quindi il mercato internazionale dell’auto cade di nuovo. 7. E’ evidente che rimane molto invenduto. E’ una situazione ridicola o patetica, quando esiste da molti anni il just in time e lean production. Ma i volumi di produzione fanno impazzire i consiglieri delegati che sono andati l’anno prima ai saloni e hanno
spie dappertutto e quindi sanno le intenzioni della concorrenza. Le case auto decidono di spostare la produzione in luoghi dove costa meno, soprattutto la variabile del lavoro. Poi decidono anche di eliminare gli stabilimenti in eccesso, produrre di meno negli stabilimenti rimasti aperti e poi chiedere contributi alla borsa, alla banca, agli stati. Tutti costoro hanno preferenze. La più rilevante dal nostro punto di interesse è che gli stati chiedono vantaggi per le imprese nazionali e i governi per il loro elettorato. Bush e Obama confezionano un tipo di intervento a sostegno di Gm e Chrysler, tale da mettere in moto il protezionismo generale nel settore. In particolare Obama tende a aiutare, all’interno degli Usa l’industria automobilistica tradizionale, quella del Michigan e degli stati vicini, Illinois e Ohio, trascurando gli insediamenti del sud degli Usa, in Alabama e South Carolina, dove agiscono giapponesi e tedeschi, Toyota e Honda, Vw e Bmw. 8. Più che i produttori domestici-stranieri dimenticati, quelli della Toyota per esempio, protesta il Canada, dove Gm, Ford e Chrysler hanno localizzato in tempi migliori una parte delle fabbriche, nel quadro del Nafta, l’area di libero scambio costituita da Usa, Canada e Messico. E hanno scelto il Canada per sfuggire, almeno in parte, a quelle che considerano le prepotenze del sindacato di categoria. Il governo canadese è molto preoccupato perché il sostegno di Obama all’industria auto pari a 17,4 miliardi di dollari, sembra un vero e proprio invito a chiudere le fabbriche canadesi per tenere aperte meglio quelle degli Usa. Nel pagare tutti i miliardi di dollari che il governo chiede loro, i contribuenti americani fanno sapere attraverso i propri parlamentari che vogliono essere sicuri che contribuiscono a mantenere posti di lavoro americani in America e non per cinesi in Cina, o per canadesi in Canada, naturalmente. 9. Una considerazione del genere è la base stessa del protezionismo. Nel corso del tempo, nell’industria in generale e nel settore automobilistico in particolare, la protezione con dazi, permessi, severità doganali ha consentito a un paese che non l’aveva di costruirsi un’impresa nazionale. La Fiat, in Italia, è cresciuta così. Allo stesso modo si è sviluppata in un modo fragoroso l’auto nipponica, è nata l’auto spagnola o quella coreana. La difesa di quest’ultimo paese nei confronti della produzione internazionale, tanto per guardare a quest’ultimo caso rilevante, si è basata su espedienti doganali con un piccolo numero di auto importate, un dazio molto alto da pagare e una antipatica forma di frequente indagine fiscale per gli acquirenti di autovetture straniere. 10. Il protezionismo del buy american di Obama si riverbera in Europa. Lo raccoglie per primo Nicolas Sarkozy che decide di intervenire in aiuto alle case francesi, Renault e Psa, con un apporto di 6 miliardi di euro in cambio di una promessa formale di non licenziare nessuno. Renault e Psa, ci pensano su, e mentre Renault accetta e si impegna quasi subito, Psa al contrario è molto restia. 11. In Italia, al contrario, si rottama. Le auto nuove, non proprio tutte, riceverebbero una dote consistente, cui si aggiungerebbe lo sconto da parte del costruttore. Sergio Marchionne, il capo della Fiat, ringrazia il governo patrio per il sostegno all’industria dell’auto, ma ritiene comunque di fare la lotta con i francesi con una mano legata dietro la schiena. I vantaggi offerti dal presidente Sarkozy ai suoi concorrenti francesi gli sembrano infatti incolmabili. 12. Le proteste della Fiat sono niente nei confronti di quelle che si alzano dai paesi in cui le case francesi hanno impianti, perché si sentono sotto attacco e a rischio di tagli in un momento di difficoltà gravi. Sono soprattutto i paesi dell’est, entrati di recente nell’Unione europea ad alzare la voce, ma gli altri non li stanno a sentire. 13. Non li sta a sentire la Commissione europea che approva tanto la scelta di Parigi che quella di Roma. E’ come se fosse frastornata nella sua lettura della crisi. Sa che l’auto è importante con i suoi 12 e passa milioni di addetti nell’Unione e la percentuale elevatissima di pil che essa rappresenta, non lontana dal 5%, secondo alcuni studiosi. Ma al momento di dichiarare che la crisi è di sovracapacità o di sottoconsumo non sa che pesci prendere, proprio come un economista di provincia di fine ottocento.
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